Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 12 settembre 2016 ¶ N. 37
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Società e Territorio L’arte a misura di bambino Incontro con Loredana Bianchi direttrice del Museo in erba che da poco si è trasferito a Lugano
Guidini e la tutela dei beni culturali L’eclettica figura dell’architetto Augusto Guidini nelle parole di Angela Windholz curatrice della monografia pubblicata dall’Accademia di Mendrisio pagina 6
Emigrazione La storia delle colonie ticinesi in California raccontata da Maurice Edmond Perret è stata tradotta e pubblicata dalle edizioni Dadò pagina 9
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Anche in una società in cui le persone continuano a inviarsi emoticon rimane difficile a volte trovare la parola giusta per definire un’emozione. (Keystone)
Nominare le emozioni Parole e sentimenti Abbiamo un vocabolario ancora limitato per descrivere i nostri stati d’animo.
Una ricercatrice inglese ha scritto una piccola enciclopedia che ci viene in soccorso Stefania Prandi Succede a tutti di provare un’emozione senza riuscire a trovare la parola giusta per definirla. Si resta in uno stato di incertezza, cercando inutilmente di nominarla, spesso accontentandosi di una definizione approssimativa. Abbiamo un vocabolario ridotto per descrivere i nostri stati d’animo; certi termini, addirittura, nella nostra lingua non esistono. In nostro soccorso arriva Tiffany Watt Smith, ricercatrice al Centro di storia delle emozioni della Queen Mary University of London. La studiosa, inserita dalla Bbc nella classifica delle menti più brillanti del 2014 (The New Generation Thinkers), ha raccolto gran parte del suo lavoro – precisando di non avere la pretesa di essere esaustiva – in un volumetto dalla copertina dorata, pubblicato dalla casa editrice inglese Profile Books. Leggendo Il libro delle emozioni umane (The Book of Human Emotions), in corso di traduzione in diversi Paesi come Italia, Cina, Germania, Corea, Giappone, si scoprono diversi termini affascinanti. Ad esempio, c’è una parola finlandese, Kaukokaipuu, per indicare la nostalgia di un posto dove in realtà non si è mai stati. Awumbuk, invece, è un termine
che arriva dalla Papuasia e descrive la tristezza che si prova dopo una cena o una festa quando gli ospiti se ne sono andati. L’appel du vide, cioè il richiamo del vuoto, è un’espressione francese per chi avverte il desiderio di buttarsi giù da uno strapiombo oppure dall’alto di un palazzo. Non si tratta di un istinto suicida, ma di una sorta di vertigine; secondo il filosofo esistenzialista JeanPaul Sartre è «la sensazione snervante di non potersi fidare del proprio istinto». Cybercondria è la preoccupazione infondata (spauracchio di molti medici) di chi cerca su internet i sintomi di una malattia, entrando in uno stato di angoscia. È un’emozione recente, così come ringxiety, la sensazione di ansia che si prova quando si sente suonare un cellulare e, credendo che sia il proprio, lo si cerca in modo forsennato nella borsa o nelle tasche. In tailandese il termine greng jai indica la riluttanza nell’accettare un’offerta di aiuto per paura di causare problemi. Fago è un vocabolo usato dagli abitanti di Ifaluck, isola della Micronesia, per descrivere la consapevolezza della sofferenza umana, mista alla speranza che gli sforzi di prendersi cura degli altri possano servire per alleviare la pena. E ancora, torschlusspanik, in tedesco definisce il
panico che ci prende quando ci rendiamo conto che il tempo sta passando velocemente e la vita, con le sue molteplici possibilità, scivola via. Wanderlust è il desiderio incontrollabile di avventura, di provare qualcosa di diverso, di scoprire posti nuovi. «Quando si parla di emozioni bisogna premettere che non c’è una definizione univoca di che cosa siano» spiega Watt Smith ad «Azione». «Per alcuni specialisti le emozioni sono principalmente risposte adattive dell’organismo e stati della mente. Per altri sono costrutti culturali. Io credo che siano una combinazione dei nostri riflessi fisici e della matrice dei significati che usiamo per dare un senso ai nostri impulsi». La parola «emozione», per come la intendiamo oggi, è piuttosto recente. Risale al 1830, quando l’anatomista Thomas Willis iniziò a usarla in modo simile al nostro. Prima si parlava di passioni, malesseri dell’animo, sentimenti morali, si credeva che i demoni impiantassero nel cuore la noia, che la rabbia fosse portata dai venti avversi. Soltanto negli anni Sessanta e Sessanta si è formata l’idea che le emozioni sono condizionate dalla cultura in cui viviamo. «Pensiamo alla felicità. Tutti noi crediamo che sia un’emozione positiva, ma non è
così. Uno studio recente pubblicato dal “Journal of Happiness Studies” dimostra che gli abitanti di Ifaluk (isola della Micronesia) sono diffidenti verso la felicità, che viene associata all’idea di avere fallito nel fare il proprio dovere». Oggi è opinione condivisa che riconoscere le emozioni sia importante per l’evoluzione personale, per stare insieme agli altri, per aumentare la resilienza, cioè la capacità di affrontare e superare eventi traumatici e periodi di difficoltà. «Per il nostro cervello è più semplice distinguere le esperienze legate a cose che già conosciamo rispetto a quello che non ci è familiare. Quando impariamo a collegare una parola a un gruppo di sensazioni stabiliamo una connessione che ci sarà utile per quando ci troveremo di nuovo a provare quell’emozione». Una delle parole più affascinanti del libro, secondo l’autrice, è amae. «Un termine difficile da tradurre in maniera sintetica; definisce il piacere di sentirsi al sicuro con una persona che per un breve periodo di tempo si prende in carico la responsabilità della nostra vita. In Giappone è una parola molto usata, implica dare per scontato l’amore, stabilendo connessioni profonde e durature: è l’emblema della
fiducia profonda. Il fatto che noi occidentali non abbiamo una parola simile forse non è un caso. Una delle possibili spiegazioni è che dal Settecento almeno la nostra società ha premiato l’individualità e l’autonomia. Al contrario, la cultura giapponese è collettivista e ha valorizzato le forme di interdipendenza e mutuo supporto». Le parole che abbiamo e che ci mancano possono dirci molto riguardo ai nostri sentimenti e a chi siamo davvero. A questo proposito è interessante riflettere sull’importanza che noi occidentali attribuiamo a certi termini, come felicità. Un’enfasi paradossale perché «continuando a focalizzarci sull’idea di quanto dobbiamo essere felici, di fatto otteniamo l’effetto contrario». La felicità è un’ossessione collettiva, con libri che ci incoraggiano a cercare di ottenerne sempre di più, studi che indicano che ha effetti positivi sulla salute e sulla longevità, sulle nostre relazioni con gli altri. Questa pressione ci porta a pensare che se non siamo felici abbiamo sbagliato qualcosa. Può quindi essere utile smettere di accanirsi e ricordare, come un monito, le parole del filosofo britannico John Stuart Mill: «chiedetevi se siete felici e cesserete di esserlo».