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Cultural corner L’ANGOLO DELLA CULTURA
Il pane
(ARGONAUTA - Atto 4, Capitolo 3)
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Dacci oggi il nostro pane quotidiano: così i Cristiani invitano, con la preghiera, il Padre, identificando nell’alimento ottenuto dalla cottura di un impasto di farina ed acqua il sinonimo di cibo, di cui l’umanità ha necessità per vivere. Il pane, simbolo di ricchezza, da sempre ha impreziosito (ed impreziosisce tuttora) ogni tavola, da quella più umile a quella dei principi. “Cum panis” è generatore di compagni, cioè coloro che si spartiscono il nutrimento. “Siamo quello che mangiamo” e noi mangiamo alimenti di cui il pane è il pinnacolo, rappresenta il nostro nutrimento primo, raccontandoci di noi, permettendoci di far diventare l’aforisma di Feuerbach palindromo: “mangiamo per quello che siamo!” Il poema di Gilgamesh, testo sumerico del secondo millennio a.C., racconta il processo di civilizzazione dell’uomo selvatico di nome Enkidu che non si limita più a consumare cibi e bevande disponibili in natura, come le erbe selvatiche, l’acqua o il latte, ma comincia a mangiare pane e prodotti elaborati di cui egli viene a conoscenza grazie a una donna che gliene fa dono. I mortali, racconta Omero nell’Odissea, sono, per antonomasia, “i mangiatori di pane”, a differenza dei bruti e degli animali, la cui alimentazione non ha nulla di civile, nulla di intelligente. La preparazione del cibo diventa emblema dell’evoluzione umana e del suo rapporto con la società. “...Quando dunque arrivammo alla terra vicina” (è Ulisse che racconta), “qui sull’estrema punta una grotta vedemmo, sul mare, eccelsa, ombreggiata da lauri; e qui molte greggi, pecore e capre, avevano stalla; intorno un recinto alto correva, fatta di blocchi di pietra e lunghi tronchi di pino e querce ad alta chioma. Qui un uomo (Polifemo) aveva tana, un mostro, che greggi pasceva, solo in disparte, e con altri non si mischiava, ma solo viveva, aveva animo ingiusto. Era un mostro gigante; e non somigliava a un uomo mangiatore di pane (...). Allora ai fidi compagni ordinavo di rimanere alla nave, di far guardia alla nave; ed io (Ulisse), scelti fra loro i dodici più coraggiosi, andai (...).” Così Omero precede il gesuita e paleontologo Teillhard de Chardin, circa la legge di complessità e coscienza, richiamando nell’uso del pane la noosfera, della quale gli esseri umani fanno parte e, proprio in virtù della conoscenza, si separano dalla bestia per entrare nello stadio maturo della civiltà. È il caso di figure ciclopiche come Polifemo, che, isolato nella sua cavernicola autarchia, non vive in comunità, non pianta alberi, non coltiva la terra, non co-produce il cibo con i suoi simili. Egli beve solo latte crudo e mangia allo stato naturale, tant’è che divora i compagni di Ulisse ancora vivi. La materia diventa più complessa passando dallo stato inanimato, alla vita delle piante, alla vita degli animali, alla vita dell’uomo. Dalla geosfera, alla biosfera e infine alla noosfera, una coscienza collettiva degli esseri umani, la coscienza generata dall’interazione fra le menti. “Più un essere è complesso, in base alla nostra Scala di Complessità, più esso è centrato su sé stesso e per questo diventa più consapevole. Più elevato è il grado di complessità in un essere vivente, maggiore è la sua coscienza; e viceversa”. (Teillhard de Chardin) Il pane è presente nella enciclopedia popolare per riassumere esperienza e saggezza. Aristotele distingue “il pane duro da quello morbido” nella vita e nella morale. Nell’Eneide Virgilio tende la mano a colui che “porta il pane per i suoi figli”. Dante Alighieri proclama beati coloro che siedono alla tavola dove si mangia il pane degli angeli. Cervantes cercava consolazione: “Quando c’è pane anche il dolore è più lieve”. Il pane, nonostante la sua semplicità, è alimento fondamentale ed è presente nella pittura e nella storia dell’arte, di tutte le epoche. Eccolo presente nel Nuovo Testamento nei dipinti “Cristo in casa di Marta e Maria nelle Nozze di Cana”, ne “l’Ultima cena”, nel “Cenacolo” di Leonardo, nel “Miracolo della moltiplicazione dei pani e pesci” e nella “transubstanziazione”, cioè la conversione della sostanza del pane e del vino nelle sostanze del corpo e del sangue di Cristo.
“Dogma datur christianis, quod in carnem transit panis, et vinum in sanguinem” Un dogma è dato ai cristiani: il pane si trasforma in carne e il vino in sangue. (Tommaso d’Aquino) Il pane è protagonista nella tela “Cena in Emmaus” del Caravaggio. Il pane è im-

magine della vita quotidiana con il “Mangiafagioli” di Carracci che, alle soglie del 1600, ci svela il menù di un contadino dove il pane è fondamentale. Ed ancora le nature morte del Seicento (in Spagna, così come in Olanda ed in Italia), seguendo Caravaggio hanno dato dignità al cibo, ai prodotti della terra ed al pane, di cui esso è una costante, per la sua forma, per il suo valore simbolico di cibo per eccellenza, nonché elemento di equilibrio cromatico per il suo caldo colore. Il pane, elemento da sempre presente nell’arte, diventa icona della realtà, ne è simbolo, rappresenta la vita stessa, rappresenta la capacità dell’uomo di pensare, di servirsi della natura, di soddisfare con intelligenza i propri bisogni (“Déjeuner sur l’herbe” di Manet o il pane ferrarese della pittura metafisica). Nella Roma caput mundi, al tempo di Augusto, il pane è al centro della vita quotidiana e si contano oltre trecento panetterie, tutte rigorosamente di scuola greca, essendo stati proprio i fornai macedoni ad esportarne l’arte e la tecnica. Il pane non è un alimento ovvio, ma è, anzi, il risultato di un lungo processo produttivo e di una raffinata civiltà alimentare. Il processo non è così semplice poiché non si tratta solo di un impasto di acqua e farina, ma di una lavorazione che richiede esperienza e controllo di mani capaci. Dalla semina alla raccolta del grano, dalla trebbiatura dei chicchi alla loro macinazione per essere convertiti in farina, dall’impasto della farina con l’acqua ed il lievito alla cottura in forno. Stupefacente, e assolutamente determinante, il fenomeno della lievitazione, che l’uomo scopre in natura, ma che poi riesce a replicare. Gli Egizi, eccellenti agricoltori, furono i primi veri panettieri, adottando con sistematicità la tecnica della lievitazione, aggiungendo all’amalgama di farina ed acqua anche un pezzetto di pasta avanzata il giorno prima. Una pratica che molto più tardi verrà chiamata lievitazione naturale. Una buona lievitazione è il risultato di tanti fattori, ma il principale è la capacità dell’impasto di formare la maglia glutinica, ossia quella struttura che trattiene l’amido ed i gas della lievitazione e conferisce al pane il giusto gonfiore. A contatto con l’acqua ed in presenza dell’energia meccanica dell’impasto, le proteine derivate dalla farina (glutenina e gliadina) danno origine al glutine o meglio, alla maglia glutinica, un reticolo molto resistente che dona struttura all’impasto e lo rende estensibile, così che non si rompa durante la lievitazione. Questa è la forza della farina: tanto più è fitta la maglia, tanto maggiore sarà la tenacità dell’impasto. Se il contenuto proteico della farina è adeguato, mentre si forma la maglia glutinica, allo stesso tempo gli enzimi del grano (alfa e beta amilasi) iniziano ad attaccare gli amidi rompendoli e trasformandoli da zuccheri complessi in zuccheri semplici. Se aggiunti all’impasto, i lieviti iniziano la loro azione: i microrganismi di vario tipo si nutrono di zuccheri semplici ed iniziano a crescere e riprodursi. La pasta madre è il lievito per eccellenza, il lievito eterno di uso comune nella panificazione tradizionale: un semplice impasto di farina ed acqua, che lasciato per qualche tempo all’aria, come per magia, fermenta naturalmente. Questo composto brulica di microrganismi, presenti sia nella farina che nell’ambiente circostante: una vera e propria coltura in cui, oltre a molti ceppi diversi di funghi, sono presenti batteri che partecipano alla fermentazione producendo acido lattico e acetico e permettendo alle lavorazioni di panificazione di arricchirsi, durante la cottura, di composti aromatici, conferendo al pane una gamma variegata di sapori. Ai tempi di Roma antica, gli abitanti dell’Urbe ancora si nutrivano di una semplice pappa di farina, mentre in Grecia era comune una specie di sfoglia cotta sul fuoco; solo attraverso gli Egizi, mastri panificatori, le popolazioni mediterranee appresero l’arte di panificare, addirittura perfezionando la tecnica anche con la costruzione di forni. “Si bianco che l’eterea neve vince in candor”, l’elogio di Archestrato di Gela (IV secolo a. C.) continua: “Concediti pur tu i pani della Tessaglia denominati krimnitas, che peraltro tutto il mondo conosce come chondrinos. Ottimo, pure, è il pane di farina che viene prodotto per il mercato di Atene, per ogni mortale; così come valido è il pane che viene sfornato dai forni dell’Eritrea, dove cresce abbondante l’uva in ogni delicato, ricco, momento delle stagioni: ti delizierà nei banchetti”. La cottura del pane, a Roma, fu introdotta nel 168 a.C. ad opera di alcuni schiavi catturati in Macedonia, dopo la sconfitta del re Perseo. Contemporaneamente si perfezionarono le attività di macinazione, con l’arte molitoria, e parallelamente sorsero le prime botteghe per la vendita. Durante l’Impero Romano il pane, diventato l’alimento base per gran parte della popolazione, veniva a tutti assicurato: panis streptipcius, un antenato dell’odierna pizza (un impasto leggero di farina, acqua, latte, olio, strutto e pepe, cotto rapidamente a sfoglie sottili), artologalum (una sorta di sfoglia che serviva da antipasto), panis adipatus (condito con pezzi di lardo e pancetta), panis testicius (antenato della piada romagnola), preparato e consumato dai legionari nei loro accampamenti. Alle offerte sacrificali era riservato un pane di nome ador, alle mense imperiali il palatius e a quelle dei ricchi il bianco e finissimo siligineus. Mentre sulla tavola dei poveri compariva il nero panis plebeius, gladiatori ed atleti si cibavano del nutriente canfusaneus, la bisaccia dei soldati conteneva il castrensis e sulle navi si trovava il nautilus.
Con le invasioni barbariche nel Medioevo la panificazione ebbe un rallentamento, lasciando solo ai monasteri l’arte della panetteria. Una netta ripresa dell’uso del pane si riscopre nel Rinascimento, periodo in cui ogni categoria sociale ha a disposizione il suo: il pane del papa e quello del re, il pane del cavaliere e quello dello scudiero. Nell’Italia del ’600, la miseria dilaga, e alla vigilia della gran penuria di cibo che precede la “peste manzoniana” del 1630, un ignoto cittadino di Parma scrive: “Se in tutte le città si tenesse una monitione non ci sarebbe più carestia, perché indubbiamente Iddio provvede di vitto per tutti, e

Città Vulcano (Carlo Ravaioli)
a quelli popoli che ne manca è per difetto loro et del malgoverno et del proprio interesse, il quale molte volte è caggione che la povertà patisce gran disaggi, et principalmente nella vettovaglia del pane et del formento (vitto principale d’Onnipotente Iddio per sustentamento dell’uomo) col quale quotidianamente si mantiene la povertà senz’altro comparaggio”. Con tale pensiero l’anonimo autore suddivide l’universo alimentare in due categorie: la prima occupata esclusivamente dal pane (vitto principale dell’Onnipotente Iddio per il sostentamento dell’uomo), la seconda allargata fino a comprendere tutto il resto dei più diversi cibi, denominati companatico (comparaggio). Nel ’600 sul pane gravavano tasse impopolari, dalla gabella per la farina al dazio per la cottura nei forni di proprietà padronale. Il pane ha avuto ed ha un grande ruolo anche nella storia, perché da sempre la storia del pane s’intreccia inestricabilmente con quella della parte più povera e dolente delle popolazioni. La mancanza di pane (oppure la sola paura di non averne) è un incubo che serpeggia costantemente nella storia dell’umanità. Il forno delle Gruccie, narrava Alessandro Manzoni nei suoi Promessi Sposi, era la bottega di Milano, in Corsia dei Servi (oggi corso Vittorio Emanuele) che fu assaltata dalla folla in rivolta, il giorno di S. Martino del 1628, contro il rincaro del prezzo del pane. Subito dopo la revoca del calmiere imposto da Ferrer (il gran cancelliere dello Stato di Milano che esercitò la carica tra il 1619 e il 1635), la folla abbatté la porta ed entrò nel forno, saccheggiando tutto ciò che riuscì, portando via e sciupando una gran quantità di farina. I tumultuanti si abbandonarono all’insensata distruzione della bottega, asportando vari suppellettili e attrezzi per poi bruciarli in un gran falò in piazza del Duomo. All’assalto assistette anche Renzo, arrivato da poco in città, il quale si limitò ad osservare le cose dall’esterno senza prendere parte ai disordini. Nel XIX secolo il forno venne rimesso a nuovo da Ambrogio Valentini per poi essere chiuso definitivamente nel 1919 (in seguito la casa venne demolita). Fare pane ci ha reso umani. La Letteratura sancisce anche ai nostri giorni l’universalità del Grano e del Pane: “(...) coltiveremo a grano terra e pianeti, il pane a ogni bocca, a ogni uomo, ogni giorno arriverà perché lo seminammo, perché lo abbiamo fatto non per un uomo ma per tutti (...)” (Pablo Neruda). Dopo 10.000 anni Grano e Pane sono ancora nei nostri campi e sulle nostre tavole, ma oltre ai tempi anche gli spazi si sono dilatati enormemente: le poche centinaia di metri che separavano il campo dal forno sono diventati migliaia di chilometri. Il grano è oggi coltivato in tutto il mondo e il pane non ha perso l’anima, ma rischia sicuramente di perdere la sua freschezza.