AngelicA 6 - Festival Internazionale di Musica - 1996

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ANGELICA 1996 è presentato da CIMES Centro Interfacoltà Musica e Spettacolo dell'Università degli Studi di Bologna Pierrot Lunaire

con la collaborazione di Bimhuis Amsterdam il sostegno di REGIONE EMILIA ROMAGNA Assessorato alla Cultura COMUNE DI BOLOGNA Settore Cultura CONSORZIO CITTÀ-UNIVERSITÀ di Bologna STICHTING FONDS VOOR DE PODIUMKUNSTEN, OLANDA MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI OLANDESE AMBASCIATA D'OLANDA THE DUTCH JAZZ FOUNDATION l’aiuto di S.M.P. - Sistemi Metodologie Progetti con la partecipazione di SOUL plus JAZZ Radio Città del Capo Radio Citta 103


AngelicA

07-11 maggio

Caos lirico

Bologna

6 a edizione


concerti martedì 7 maggio Teatro Comunale ore 21.00

Guus Janssen Solo Passevite di Guus Janssen Concerto per sassofono e orchestra di Misha Mengelberg solista Ed Bogaard Onderweg di Misha Mengelberg Keer di Guus Janssen Orchestra del Teatro Comunale di Bologna direttore Ernst van Tiel

AngelicA Festival Inte mercoledì 8 maggio Teatro San Leonardo ore 21.00

Misha Mengelberg Solo

giovedì 9 maggio Teatro San Leonardo ore 21.00

Carlo Actis Dato Solo

Palinckx

Henneman String Quartet Guus Janssen Septet

venerdì 10 maggio Teatro Testoni ore 21.00

Operation LiSa Michel Waisvisz, Frank Baldé This, That and the Other

sabato11 maggio Teatro Testoni ore 21.00

Tristan Honsinger Solo Janssen, Glerum, Janssen Pollo di mare Ad Baars, Guglielmo Pagnozzi, Tobias Delius, Eric Boeren, Ernst Glerum, Tristan Honsinger, Guus Janssen, Misha Mengelberg, Wim Janssen


incontri ascolti conduce

Flaminia Allvin, Giampiero Cane, Franco Fabbri, Kevin Whitehead

rnazionale di Musica giovedì 9 maggio C.I.M.E.S. ore12.00

Guus Janssen

Michel Waisvisz, Frank Baldé

venerdì 10 maggio C.I.M.E.S. ore12.00

Tristan Honsinger

sabato 11 maggio C.I.M.E.S. ore12.00

Misha Mengelberg

Teatro Comunale Teatro San Leonardo Teatro Testoni C.I.M.E.S. Ufficio Festival E-Mail

Largo Respighi 1 via San Vitale 63 via Matteotti 16 via Guerrazzi 20 via Guerrazzi 20 40125 Bologna tel e fax 051 261417 angelica@iperbole.bologna.it

programm

mercolodì 8 maggio C.I.M.E.S. ore12.00


Amsterdam Barger-Oosterveld

Ucraina Kiev

Leiden

Badhoevedorp

Olanda

Weesp

Haarlem

Eindhoven

Tilburg

Baarle Nassau Axel Culemborg

Bologna

Heiloo

Deventer

Italia Canada Vancouver

Egitto

Wayne, Pennsylvania

Torino

Alessandria

Burlington, Vermont

Stati Uniti New York City, N.Y. Oxnard, California

Sud Africa

Durban

Edimburgo

Scozia

Warren, Minnesota

La Jolla, California

Inghilterra Oxford


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Bologna Amsterdam Meeting Mario Zanzani In treno Massimo Simonini

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Angelica 96 - Introduzione Kevin Whitehead

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Luoghi della musica in Olanda

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Misha Mengelberg

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Ed Bogaard

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Pollo di Mare

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Ernst van Tiel

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Guus Janssen

47

Guus Janssen Septet

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Janssen, Glerum, Janssen

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Palinckx

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Carlo Actis Dato

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Tristan Honsinger

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This, That and the Other

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Henneman String Quartet

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Michel Waisvisz

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Le musiche d’oggi sono malate. A chi spetta curarle? Mario Baroni

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Centro marcio, periferia a brandelli

in

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Gerico è circondata, ma non si trovano trombettisti

Giampiero Cane 107

Il trionfo della musica ovvero Il tronfio della musica Giordano Montecchi


Angelica cambia formato. Nell’edizione di quest’anno viene posto al centro dell’attenzione un ambiente, quello olandese, molto importante nell’evoluzione della musica d’oggi; si ascolteranno però solo alcune cose, si darà testimonianza di alcune (non tutte) direzioni espressive. Cose e direzioni che possono fare venire alla mente una definizione (o un sottotitolo) del tipo: dalla pratica jazz alle sue metamorfosi.

Bologna Amsterdam Meeting Nel momento in cui si accostano due città, le civili Amsterdam e Bologna, viene da fare dei confronti. Nel campo strettamente musicale la diversità nei risultati è molto grande; ed è troppo comodo attribuirla alla disparità anch’essa grande delle risorse messe in gioco. Accostiamole sul piano delle idee e pratiche di cultura che guidano le istituzioni. La questione è delicata perché non si sa cosa cultura sia molto spesso; è comunque qualcosa che si pone nel legame e nella differenza fra conservare e fare mondi: fra l’avere cura (anche nel senso buono, delle continue riletture e interpretazioni) del patrimonio storico e l’offrire nuove chance. Mentre l’intervento delle nostre istituzioni è tutto schiacciato sul primo aspetto, quello delle istituzioni olandesi sembra più sensibile e aperto verso il secondo con risultati rilevanti su tutto il campo della produzione musicale. La musica olandese non si allaccia a una preesistente tradizione locale, si pone immediatamente in una dimensione globale in quanto assimila e rielabora musiche provenienti da ogni parte, e tuttavia possiede un carattere locale, qualcosa che, pur nell’imprecisione di questi termini, sentiamo come uno stile, un modo se non proprio come un’identità. Penso che questa edizione di Angelica possa, se non chiarire, ben disporre gli elementi di una riflessione su temi quali lo stato di salute dell’improvvisazione radicale (o della composizione istantanea se si vuole), necessità e evoluzione della scrittura, teatralità e spettacolo; e sulle loro possibili relazioni in un modo attuale di fare musica. Su queste questioni i musicisti olandesi hanno abitudini e idee molto 6


chiare (più chiare delle nostre). L’espressione ‘fare mondi’, riferita ai fatti della cultura, è molto interessante (anche se un po’ pomposa) e duplice, in quanto suppone un rapporto ‘generativo’ delle pratiche artistiche, come manifestazione del possibile, nei confronti delle forme di vita. E insieme tiene conto di aspetti estranei (in genere considerati negativi perché connessi al ‘fare immagine’ e tipici dell’operare dei mass media), sinestetici e rituali, a cui spesso gli individui (che compongono il pubblico) si affidano per trovare un proprio posto, reale o fantastico, nel mondo (dei fatti quotidiani). Si intuisce lo sforzo che si dovrà compiere nel tenere uniti questi due aspetti e nell’accettarne l’ambiguità. Molta strada c’è da fare verso una consapevole abitudine per la ‘musica d’arte’ e anche la stessa musica dovrà mutare per conquistare maggiore spazio e considerazione. Il caso olandese può servire da lezione e da riferimento. Come qualsiasi altro posto, del resto, dove si può trovare insieme a una vivace scena musicale - un’apprezzabile attenzione delle istituzioni ai fatti della cultura come legami di convivenza, di quotidianità e di trasmissione del sapere. In futuro la formula di questa edizione potrebbe essere riproposta, si potrebbe pensare ad altri paesi e ambienti, interessanti per differenti motivi: Canada Giappone. Forse l’Italia. Ad autunno, una ‘delegazione’ di musicisti della nostra città si trasferirà a Amsterdam, al Bimhuis. Sarà organizzata una giornata dedicata a nuovi ‘embrionali’ percorsi della musica italiana che coinvolgerà anche musicisti olandesi. La comunità bolognese dei musicisti è molto numerosa, creativa e agguerrita, ma sempre in bilico fra dilettantismo canzonatorio e irriverente e una progettualità meditata e professionale. Sono state troppo scarse le occasioni a loro concesse per svolgere una quotidiana attività musicale a contatto con una committenza non occasionale. Huub van Riel, direttore artistico del BIMhuis di Amsterdam, 7


ha reso possibile questa edizione con il suo continuo interessamento e assicurando il coinvolgimento di altre istituzioni olandesi. Kevin Whitehead (autore del libro in corso di pubblicazione New Dutch Swing: Jazz and Improvised Music in Holland) ha ricostruito per noi lo scenario musicale olandese e curato le biografie degli artisti ospiti. Mario Baroni, Giampiero Cane e Giordano Montecchi introducono una riflessione sullo stato della musica d’arte in generale, nel nostro paese e nella nostra città. Il Teatro Comunale di Bologna si è dimostrato, come sempre, disponibile a venirci incontro, nonostante la nostra natura ‘estranea’ agli abituali appuntamenti musicali organizzati dal Teatro. Mario Zanzani

Angelica is changing format. This year's edition features the Dutch environment central to the evolution of contemporary music; we will listen to only a few compositions, and give examples of some (not all) expressive trends. Compositions and trends that have helped us come up with a definition (or perhaps a subtitle): the jazz experience and its metamorphoses.

Bologna Amsterdam Meeting The drawing closer of two cities, civilized Amsterdam and Bologna, prompts comparisons. In the field of music alone, the disparity in the results are enormous; and it would be too easy to attribute the disparity to the equally as great difference in the resources invested. Let's look at these two cities from the standpoint of the cultural ideas and practices that guide their institutions. This is a rather delicate matter as we don't often know what culture means; it is, however, something that always presents itself in the liason and in the divergence between preserving worlds and fashioning new ones: between being very 8


attentive (in the good sense, too, to the continuous rereadings and interpretations) to our historical heritage and offering new opportunities. While our institutions continue intervening solely with respect to the first aspect, Holland's seem more receptive and open towards the latter and the results in the field of music and what's being produced have been extremely significant. Dutch music is not directly tied to a pre-existing local tradition, but is part of a global dimension. Music reaching Holland from all corners of the globe is assimilated and reworked, yet still maintains a local quality; something that, although subject to the inaccuracy of the term, we can still feel as a style, a mode even if we cannot call it an identity. I believe that this edition of Angelica will, if not lead to clear solutions, at least provide us with the elements basic to a reflection on themes such as radical improvisation's state of health (or if preferred, of instant composition), the necessity and evolution of notated music, of theatricality, of performance; and on the relationship they could have to our way of making music in the course of time. Dutch musicians have clearly defined habits and ideas on these matters (much clearer than our own). The expression 'fashioning worlds' (as applied to cultural matters) is a very interesting one (albeit somewhat pompous) and has a double meaning. On the one hand, a 'generative' relationship is inferred between artistic practices as manifestations of what is possible with respect to life styles and forms. On the other, it includes aspects (aspects usually held to be negative because linked to mass media's fatal attraction to the creation of images) that are 'synesthetic' and ritual. People (as in the audience) use these aspects to define their own real or imaginary place in the world. We can sense the effort necessary to embarking on this journey and accepting its ambiguity. There is still a long way to go before the public will become fully socially aware and accustomed to 'art music', and if this music hopes to 9


command a larger audience and more respect, it will have to change some. We could use the Dutch experience as a lesson and as a point of reference. In the future, this edition could be reproposed featuring other countries and environments that are extremely interesting, albeit for different reasons: Canada, Japan. Perhaps Italy. In autumn, a 'delegation' of a few of our city's musicians will go to Amsterdam, to BIMhuis for an entire day dedicated to the new directions still at the 'embryonal' stage in which music in Italy is going. Dutch musicians will also be participating. The bolognese community of musicians is very large, creative, and quite tough, still wavering between a mocking and irreverent dilettantism and a professional and thought through manner of designing and composing music; yet occasions in which their work has been commissioned have been too few and far between. Huub van Riel, artistic director of BIMhuis in Amsterdam, made this edition possible through his enthusiasm and help, and by sparking the interest of other Dutch institutions. Kevin Whitehead (author of the forthcoming book New Dutch Swing: Jazz and Improvised Music in Holland) offers us his interpretation of the Dutch music scene today and write-ups of the guest artists. Mario Baroni, Giampiero Cane, and Giordano Montecchi offer us food for thought on the state of 'art music' in general in our country and in our city. Bologna's Teatro Comunale has proven itself, as always, willing to meet us halfway, despite our 'alien way of being' at the customary appointments with music offered by the Teatro. Mario Zanzani traduzione Adriana Gandolfi

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COSMO, 7 maggio '96

Perchè alcune musiche vengono storicizzate e altre no? Chi è a conoscenza di tutto ciò che ci ruota attorno?

In treno

La molteplicità dei progetti e delle musiche che stanno invadendo l'universo sonoro complicano le cose e insieme le facilitano. La musica sta diventando un suono unico, qualsiasi tipo di musica è 'degna' di essere considerata al di là della sua provenienza, origine e storia. Sempre più, ma non abbastanza, gli 'esperti' del settore usano frasi tipo: "io sono per la commistione dei generi"; non abbastanza non perchè sia fondamentale ma perchè dovrebbe implicare una maggiore apertura. Speriamo che questa frase non si trasformi come effetto alle altre, migliaia, che tendono ad appiattire tutto. Come mai chi è appassionato di liscio o di jazz o di ......... (compila Tu con ciò che ti piace) non riesce ad apprezzare certa/altra musica? E' un problema di libertà e/o di liberarsi.

Libertà significa anche poter apprezzare un compact disc di musica Hawahiana come uno di Ligeti (chissà che non fosse appassionato di musica Hawahiana). Questo C.D. di Tahiti (manui, tiare) è bello e l'altro no, quella composizione di Ligeti è straordinaria, l'altra ricalca troppo .... e così via. Nel 'mare di complicazione per esperti', una canzone può diventare rivelatrice, rivoluzionaria, in termini musicali: perchè costruita in modo così strano o talmente semplice e fresca o perchè ci riconduce al passato o risveglia la nostra memoria. Chi liberamente insegue la necessità di scoprire andando avanti e indietro nel tempo, a modo proprio senza commercializzarsi, senza speculare sulla musica e sugli altri, è forse chi 'rischia' di più. Con curiosità e desiderio di indipendenza, da correnti troppe 11


fredde e formali, e con l'aiuto di chi mi sta attorno (il COSMO!), cerco di ascoltare di tutto, liscio compreso: a volte si rimane veramente sorpresi da quel solo (unico e irripetibile) di sassofono tenore sbilenco, ubriaco e liricissimo che attraversa quel tempo pari di fisarmonica e cucchiai da cucina. Potrei invitarvi ad ascoltare qualcosa di musica 'commerciale' Tamil? L'estetica, allora, può diventare un concetto più ampio in relazione alla 'conoscenza globale' e i critici entrano in crisi. Mi viene in mente il concerto di La Monte Young + The Forever Bad Blues Band, all'interno di Aterforum. Aterforum di Ferrara, rassegna di musica, aperta al nuovo, con attualmente qualche problema che riguarda il suo futuro, così si dice... . Pare che per il 'nuovo' vada di moda affidarsi ad 'alte personalità', che potremmo rispettare come 'alte personalità' ma, penso, non certo adatte a svolgere un compito del genere. Non mi risulta che abbiano portato innovazione nella musica. O che abbiano così rappresentato il 'mondo dei vivi'. In momenti come questi, di crisi, continuano a saltare i 'bisogni'. La visibilità, intorno, è scarsa.

Tre ore e mezzo di concerto, strepitoso per le mie orecchie (poi l'ho chiesto al resto del corpo e mi ha risposto: "Gracias"). In molti hanno lasciato il luogo, forse perchè si aspettavano ciò che avrebbero voluto sentire. Io ero ipnotizzato. Un ottimo concerto e una buona lezione di Musica. La musica come 'continuazione omologata': la realtà è un'altra, e chi riesce ad essere libero la può esprimere. Seguire ciò che accade nel mondo significa anche non perdere i contatti con quel COSMO di Poeti che ci offrono letture e visioni differenti. Ci ricordano che possiamo essere molto 'colti' ma il 'segreto' ... è un segreto! Successivamente, forse, si potrà intravedere cosa è stato essenziale per 'cambiare il mondo' e cosa ci è sembrato essenziale. O invece scopriamo che non ha cambiato il mondo ma ha cambiato noi (micro parte indispensabile del COSMO): ha trasformato la nostra sensibilità. Anche per il prossimo ascolto. La conoscenza, più che innata, viene trasmessa, si acquisisce e si 'acquista' (essendo un problema anche economico: la cultura costa molto cara) nel tempo, chi cerca di avvicinar12


si a questa conoscenza globale, può trovare una propria formula di analisi che, relazionata a quella di altri, porterà nuovi risultati, pensieri e riflessioni: l'estetica si muove, cangia e si amplia. La Poesia non costa niente, è in offerta speciale, è un'offerta speciale. E' sufficente conoscere o scoprire il segreto per trovarla, nel tempo. Rimane e si accentua il problema del riconoscere. Si potrebbe dire che all'interno di qualsiasi musica, per le nostre orecchie, c'è qualcosa di riuscito o non, in particolare c'è o non c'è poesia, c'è o non c'è 'musica'. La musica che scorre sotto tutte le cose, difficile acchiapparla quando non la cerchi, ci vogliono i sensi pronti e la vista veloce, la vista veloce. (Alterugo) Con questi elementi vorrei riflettere sullo stato della musica, insieme a chi la fa, a chi la organizza e a chi la fruisce. Per costruire un, immaginare là. AngELICA '96, parola segreta Caos Lirico, presenta un'edizione 'revival' e 'revolver'. Un ingrandimento sulla musica olandese, in particolare la realtà di Amsterdam. Una 'tradizione' musicale legata a uno strano e personalissimo jazz, a metodi di improvvisazione/composizione istantanea, a sistemi di interazione con l'elettronica sorprendenti, e al comporre in bicicletta. Tutti (?), o quasi, stiamo cercando di 'guarire'. In un mondo che ci fa nascere praticamente 'ammalati', come possiamo, cerchiamo una strada che ci liberi.

Ed è subito sera. Massimo Simonini 13


COSMOS, 7 May '96 Why do some types of music become historical and others not? Who knows about everything turning around?

Imageable Impression The multiplicity of projects and types of music that are invading the universe of sound complicate things and at the same time make them easier. Music becomes a single sound where any type of music is worth being considered out of the context of its provenance, origin and history. More and more often the 'experts' of the field use sentences like: "The crossover between genres is important to me". Still not often enough though - not because of it's fundamental importance but because it would mean greater openness. Let's hope these kind of sentences won't be misused, as thousands of others are to making everything bland. How come a lover of ballroom or jazz or ....... (fill in whatever you like) can't appreciate certain/other types of music? It 's a problem of freedom and/or freeing yourself. Freedom can mean to be able to appreciate a compact disc of hawaiian music as much as one by Ligeti (who says, anyway, he wasn't a lover of hawaiian music?), and then to decide: this CD from Tahiti (manui, tiare) is beautiful and this one is not; this composition by Ligeti is extraordinary this one is a repetition ... and so on. In the 'sea of complications for experts' a song can become revealing, revolutionary, in musical terms, because it is constructed in such a strange way, because it is so simple and fresh, or because it reawakens memories. People who freely follow their need for discovery, who go backwards and forewards freely in time, who go their own way without being commercialised, without speculating in music or in 14


others, are perhaps the ones who 'risk' the most. I try to listen to everything, including ballroom, with curiosity and with the desire to be independent, far from currents which are too cold and formal, with the help of those around me (the COSMOS!). Sometimes that staggering, drunken and lyrical tenor sax solo (unique and unrepeatable) is really surprising, going through the regular rythm of the accordeon and kitchen spoons. May I invite you to listen to some 'commercial' Tamil film music? The aesthetic in relation to 'global knowledge' becomes a wider concept and the critics start to panic. The La Monte Young & The Forever Bad Blues Band concert at the Aterforum comes to my mind; Ferrara Aterforum is a season of music, open to the new, but rumoured to be currently experiencing problems concerning it's future. It is fashionable to entrust 'the new' to 'celebrities'. That we can respect as 'celebrities', certainly not, in my opinion, right for this task. They does not appear to have brought innovation to music, nor to have represented the 'land of the living'. In moments of crisis like this, needs continue to be wanting. Visibility, all around, is poor.

a three and a half hour concert, overwhelming for my ears (then I asked the rest of my body and it replied: "Gracias"). Many people left, perhaps because they would have wanted to hear what they expected to. I was hypnotised. An excellent concert and a great lesson in Music. Music is considered as the continuation of 'the approved': inside the secret world reality is different and this can be expressed by anyone who manages to be free. Following what happens in the world, means not losing touch with that COSMOS of poets who offer us different readings and visions, and who remind us that we can be highly 'cultured' but the 'secret'.... it's a secret! Perhaps you will presently be able to catch a glimpse of what has been crucial in changing the world, to differ between what really has opened new ways and what only seemed to. Or instead we'll find that the world hasn't changed but that we (indispensable micro-part of the COSMOS) have: it has transformed our sensitivity. Also for the next time we listen. 15


Knowledge is transmitted rather than being innate, with time you acquire it and it is 'acquired' (it being an economic problem as well: culture is very expensive). Anyone who tries to approach this global knowledge can find his own way of analysing the signs, which related to other people's ways of doing so will bring new results, thoughts and reflections. The aesthetic moves, changes and broadens. Poetry doesn't cost anything; it's on special offer, it is a special offer. To find it all you have to do is to know or discover the secret, by and by. The problem of recognition remains and becomes accentuated. You could say that for one's ears, any music does or doesn't work; there is or isn't poetry, there is or isn't 'music'. The music that flows under everything, difficult to catch when you don't look for it , you need quick senses and fast sight, fast sight. (Alterugo) With these elements I would like to reflect on the state of music, togheter with the people who make it, organise it and enjoy it. To build a ... to imagine there! AngELICA '96, secret word Lyrical Chaos, presents a 'revival' and 'revolver' edition, a magnification of Dutch music, particularly the Amsterdam scene where the musical 'tradition' is linked to a strange type of extremely personal jazz, a method of improvisation/instant composition, a surprising system of interaction with electronics, and composing on bicycles. All (?), or nearly all of us are trying to 'heal'. We are born into a world that makes us practically 'sick', so we search as best we can for a path that sets us free. Evening falls suddenly. Massimo Simonini 16


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Introduzione


Esiste una teoria base sullo sviluppo della musica improvvisata in Olanda, sostenuta, piuttosto unanimemente, sia dagli osservatori locali che da quelli esterni alla scena della nuova musica olandese. Tralasciando i dettagli il nocciolo è questo: l’Olanda vanta una solida tradizione pedagogica, ma poche tradizioni musicali proprie - a parte gli organetti ad aria che girano per le città durante i giorni di mercato, non si sente molto di quella che chiamiamo musica tradizionale. Per questo motivo gli olandesi sono piuttosto rapidi ad assorbire le influenze e gli stili che arrivano da fuori. Il jazz, che permetteva ad abili musicisti la più totale autonomia creativa, si rivelò un terreno alquanto favorevole per la nascita di una autoctona musica improvvisata (in Olanda le band di jazz esistono dagli anni venti, più o meno dal momento in cui si è scoperto che esisteva una cosa chiamata jazz). Tornando alla teoria, poiché gli stili di cui si erano appropriati non facevano parte della loro cultura, gli olandesi non si sentirono in obbligo di preservarne la purezza formale. Jazz, minimalismo, rock and roll: tutto poteva essere modificato, contaminato, trasformato a piacere. Inoltre, da sempre a favore di politiche egualitarie, gli olandesi rifiutano una gerarchia di stili: Monk non è da meno di Stravinsky, tanto per citare due compositori che vanno per la maggiore in Olanda.

AngelicA 96

La musica improvvisata olandese, che a questo punto potrebbe anche non coincidere col jazz, cominciò ad affermarsi negli anni sessanta. In quel periodo - mentre la guerra del Vietnam corrompeva la produzione culturale americana in Europa molti improvvisatori si diedero alla ricerca di una impronta locale che si discostasse dai modelli americani (modelli che tuttavia si dimostrarono alquanto difficili da evitare; tutte queste band in fondo erano composte da sassofoni e una sezione ritmica di piano, basso e batteria). Questo succedeva in Germania e in Inghilterra, ma in Olanda c’era un elemento in più. In parte per via delle esi18


gue dimensioni del paese e in parte per via del gusto e dell’influenza di due vecchi amici del Conservatorio de L’Aia, il fan di Monk, Misha Mengelberg e l’esperto di Stravinsky, Louis Andriessen (i loro eroi hanno in comune la passione per le note sbagliate). Fu così che compositori, improvvisatori e musicisti di formazione classica cominciarono a lavorare insieme su progetti di ogni tipo, e si scoprirono reciprocamente insoddisfatti dei miseri compensi che percepivano con la nuova musica. I compositori intrapresero una campagna per ricevere compensi più ragionevoli per le opere commissionate, e gli improvvisatori fondarono una sorta di sindacato, il BIM Mengelberg ne è stato il primo presidente - e una sala per concerti, il BIMhuis. Gli improvvisatori ottennero dal governo una sovvenzione per i concerti e i viaggi. I musicisti delle orchestre sinfoniche lottarono per conquistare dei periodi di pausa dal lavoro in modo da poter collaborare con compositori e improvvisatori. Il più delle volte, queste collaborazioni si rivelarono dei tour de force in cui venivano mescolate musica antica e nuova, formazioni jazz e da camera -Andriessen li chiamò concerti inclusive (tutto compreso). Questi concerti contribuirono all’abbattimento delle barriere e la tradizione inclusive prosegue tuttora in varie forme. Per sottolineare la solidarietà tra coloro che fanno musica, Misha dichiarò che improvvisare è “comporre all’istante”. I suoi gruppi cominciarono a lavorare sotto il nome comune di ICP: Instant Composers Pool. Uno dei risultati fu una notevole espansione del vocabolario degli improvvisatori. Si poteva usare di tutto. Naturalmente c’era chi continuava a sostenere che questa nuova musica non fosse jazz, ma gli improvvisatori più acuti non si curavano delle definizioni, andavano oltre: quando la musica funziona giustifica se stessa. Il quartetto d’archi di Ig Henneman è un buon esempio di questa distorsione di generi: una formazione da camera di improvvisazione, chiaramente influenzata dalle maggiori correnti della musica composta del XX secolo. Ma Henneman rende l’impasto ancora più denso prendendo ispirazione dalla poesia (il più delle volte 19


non olandese), e introducendo nel suo gruppo l’imprevedibile nella persona di Tristan Honsiger.

E’ una scelta calzante da parte di AngelicA presentare Misha Mengelberg e Guus Janssen ciascuno sotto tre luci diverse: nella veste di compositori di pezzi scritti in maniera straordinariamente ingegnosa, di sperimentatori della tastiera e di leader di gruppi di improvvisazione: Guus e il suo settetto fuori dagli schemi, Misha che chiude il festival con una irripetibile Orchestra Pollo di Mare, formata per quest’unica occasione. Steve Lacy che conosce Mengelberg dagli anni sessanta dice: “Misha, per quanto riguarda la parte concettuale, è sicuramente la colonna portante della scena. Lui ha concepito l’idea”. La commistione di jazz e musica classica, di musica improvvisata e teatro d’improvvisazione, di complesse tecniche compositive con astruse concettualizzazioni - Misha non si è inventato tutte queste cose, ma ha pensato alle loro implicazioni prima e molto più profondamente di chiunque altro nell’ambiente. Per via della sua curiosità e anche per il fatto che suo padre era un critico musicale (e compositore), Misha aveva visto Ellington e ascoltato i dischi di Monk e di Herbie Nichols, non appena ce ne fu l’occasione. Ha capito ciò che Monk stava facendo come hanno saputo fare in pochi e ha raccolto divertito la sua sfida di creare una musica altamente sofisticata ma decisamente clunky nel risultato. (Per sconcertare i propri allievi Misha chiede loro di trascrivere gli accordi di “Little Rootie Tootie” di Monk). Quando Misha era ancora studente il suo mentore gli disse che ogni brano musicale, se buono, può essere analizzato. Ma i suoi primi contatti con John Cage e Fluxus - la corrente ‘assurdista’ nell’arte degli anni sessanta - lo convinsero che un buon brano musicale sfugge all’analisi. Infatti, se un’idea si può spiegare, perché suonarla invece di parlarne? Finora, la migliore espressione di questa filosofia è data dalle sue più recenti esecuzioni al piano (come si può ascol20


tare nel CD “Mix” per l’etichetta ICP), nelle quali si è prefisso di sovvertire qualsiasi nozione di forma cambiando rotta ogni qualvolta si sorprende a dare una qualche configurazione al suo improvvisare. L’idea è quella di suonare un intero brano senza formarne mai un disegno mentale definito. Il prozio di Misha, il direttore d’orchestra Willem Mengelberg, dominò la musica classica olandese per cinque decenni, fino a quando si schierò dalla parte sbagliata durante la Seconda Guerra Mondiale e distrusse la propria carriera. E’ uno dei motivi per cui Misha si delizia nel fare a pezzi la figura del Grande Compositore. Ha registrato una volta un duetto col pappagallo di sua moglie e dice di aver imparato dal suo gatto una preziosa lezione su come si suona il pianoforte. Potrebbe anche scrivere un concerto per un virtuoso del sassofono in modo da farlo sembrare un musicista alle prime armi.

Nel periodo in cui i concerti inclusive mettevano insieme stili diversi, la musica elettronica faceva par te del mix. Mengelberg e Andriessen hanno partecipato alla fondazione dello STEIM, Studio per la Musica Elettro-Strumentale, che si propone di portare la musica elettronica dai computer center universitari al palcoscenico, per produrre suoni in tempo reale. Il grande risultato dello STEIM è stata la produzione di un aggeggio rettangolare - inventato da Michel Waisvisz con l’assistenza dei tecnici dello studio - insolitamente piccolo dotato di sei strisce di contatto ma nessuna manopola per la regolazione: la Crackle Box (scatola crepitante). Le strisce di contatto non erano isolate, cosicché quando qualcuno le toccava per suonare entrava nel circuito diventando quella che Michel chiama “la parte pensante della macchina”. Le Crackle Box originali erano piccole, facili da suonare, dagli effetti estremamente flessibili perché altamente instabili. L’estensione della superficie di contatto o il sudore sulla punta delle dita, il numero di strisce toccate contemporaneamente; l’insieme di queste cose influiva in maniera spet21


tacolare sul suo informe ma curiosamente umano stridolìo. Lo STEIM negli anni settanta ha venduto, a prezzo stracciato, centinaia di Crackle Box. Era il sintetizzatore dei poveri. Dopo due decenni Waisvisz si diverte ancora a confondere l’animato e l’inanimato. Questa passione lo ha portato (attraverso molti imprevisti e strade secondarie) a The Hands and LiSa (Live Sampling). Egli cattura i suoni dall’aria per poi manipolarli attraverso il linguaggio del corpo con l’aiuto di vari combinatori manuali. The Hands non sarebbe potuto esistere senza software e hardware di campionamento e di rilevazione del movimento realizzati allo STEIM da Nico Bes, da sempre ingegnere capo, e dalla sua équipe. (Misha ne è stato il direttore artistico fino al 1980, quando venne sostituito da Waisvisz che accettò la carica per un periodo di due anni. Ma la detiene ancora.

Mengelberg si accorse del talento compositivo e pianistico di Guus Janssen molto presto, quando Guus, studente al conservatorio, approdò allo STEIM per seguire Mengelberg in un workshop di musica elettronica, teatro musicale e su come uscire dai pasticci. (Quando il pubblico contestò il saggio finale, Misha lo convinse che lo spettacolo che aveva giudicato orribile era in realtà alquanto profondo). Janssen è stato anche un bambino prodigio, prima ancora che la sua voce cambiasse sapeva di voler diventare un compositore. (Più o meno all’età di tredici anni, insieme ai suoi fratelli, compreso il batterista Wim, improvvisava di nascosto quando i genitori li lasciavano soli in casa). Come Mengelberg, egli conosce tutte le regole e adora infrangerle o metterle in contraddizione, ma confida ancora in una musica analizzabile. Per Guus, malgrado la sua giocosità di fondo, il comporre ha a che fare con problemi tecnici, non metafisici. Come Misha guarda agli stili musicali con distacco ironico. Guus Janssen vede il trio jazz piano, basso, batteria come una formazione classica dotata di una propria tradizione da 22


fustigare e sovvertire. Col suo trio rende omaggio a Monk, Erroll Garner - e a Lennie Tristano, pianista cui si sente particolarmente vicino. Il suo omaggio a Art Tatum richiama la sua precisione ritmica e la sua capacità di ottenere scontri di idee musicali attraverso episodi di grande apertura - tanto vuoti quanto sono pieni quelli di Tatum - i quali tuttavia dipendono da un timing altrettanto preciso. In trio e come compositore, Janssen è un fanatico del controllo, che esercita però in modo più blando sul suo settetto, sia perché i solisti maneggiano il materiale a modo loro, sia per la presenza di composizioni del chitarrista Jacques Palinckx.

A differenza degli altri band-leader olandesi presenti a questo festival, Palinckx non vive ad Amsterdam ma proviene da Tilburg, una città nel sud dell’Olanda. E’ una figura anomala come chitarrista appassionato di atteggiamenti da rocchettaro. (E’ curioso che certa gente, che impazzisce quando sente rumori striduli uscire da un sassofono, arricci il naso al suono di una chitarra col distorsore. Sarà un fatto generazionale). “Ho inventato il termine con-fusione per la nostra musica,” ha dichiarato Palinckx in una intervista. “Per noi, il momento culminante dei concerti arriva quando il pubblico perde il quadro di riferimento.” Questa prospettiva caleidoscopica è molto olandese: tutto è ammesso, tutti i brani sono inclusive. Il multi-linguismo è parte della cultura. (E’ uno dei pochi olandesi che non parla bene l’inglese). Se qualcuno si ostinasse a vedere/sentire i codici visivi della band di Palinckx, i bruschi salti tra i generi “basso” e “alto” e gli accordi heavy-metal in relazione al postmodernismo del newyorkese John Zorn, cerchi di tenere presente i debiti (raramente riconosciuti) di Zorn verso le fonti olandesi. Egli è stato acclamato come ideatore di game-piece di improvvisazione negli anni ottanta, ma Misha e Willem Breuker avevano sperimentato pratiche simili fin dal 1966. A quel tempo il sax contralto del quartetto di Misha era Piet Noordijk, che alternava brillanti frasi hardbop a scatti improv23


visi ispirati a Eric Dolphy. Han Bennink dice che, una volta fattagli notare la cosa, Zorn ha ammesso di essersi ispirato a Noordijk.

Durante un non-seminario nel 1958 Mengelberg vide John Cage fare dei trucchi con le sigarette. A metà degli anni sessanta lavorò con la sezione olandese di Fluxus. Misha cita queste due esperienze come fonti d’ispirazione per quello che sarebbe diventato un teatro musicale unico nel suo genere, che enfatizza la disarticolazione degli ingredienti, l’illogico e l’assurdo. Questa corrente era al culmine dell’espressione a metà degli anni settanta quando il violoncellista americano Tristan Honsinger approdò ad Amsterdam. Con la sua posa alla Stan Laurel, una destrezza verbale scoraggiante e una visione delle cose fuori dagli schemi, Tristan è capace di tirar fuori di tutto con un materiale scenico praticamente nullo. Specialmente quando è all’opera col suo amico sudafricano Sean Bergin. La troupe di Honsinger, This That and the Other (in linea con le produzioni di Misha) dilata l’improvvisazione al di là della musica per entrare nel mondo della parola e del gesto. TT&tO è una chiara dimostrazione del fatto che non è necessario essere olandesi per suonare musica olandese. I componenti della band provengono da ogni parte tranne che dall’Olanda. La scena di Amsterdam crea i propri musicisti tanto quanto essi ricreano la scena.

Gli olandesi hanno influenzato altri musicisti stranieri oltre a Zorn. Nel 1979, a Soncino, Misha registrò un ottimo lavoro con l’ICP Orchestra, in quell’occasione composta per lo più da musicisti italiani; tra questi vi era Giancarlo Schiaffini che ha anche lavorato col bassista olandese Maarten Altena e che si è poi ritrovato con Misha nell’October Orchestra (sul genere ICP) nel 1994. Misha, nel 1984 a Bari, ha composto 24


(ed eseguito) per il trombettista Pino Minafra un brano orchestrale: “Tropic of the Mounted Sea Chicken” - per l’etichetta Splasc(h). Il lirismo di Schiaffini e la follia di Minafra sono retaggi olandesi. Carlo Actis Dato ha avuto meno contatti diretti, ma anche lui riconosce influenze olandesi. Non ce n’era bisogno, perché dalla sua musica si capisce che egli conosce almeno la produzione di Willem Breuker. Nel suo splendido quartetto degli anni ottanta con due sassofoni ha mescolato melodie sensuali e satira obliqua, il tutto rinfuso con i più disparati ritmi di danza. Il quadro di riferimento della sua band è abbastanza ampio da comprendere jazz e musica tradizionale italiana. Il suo concerto in solo metterà alla prova, evidentemente, anche la sua tempra concettuale. E’ più che benvenuto in questo programma altrimenti esclusivamente olandese. Chi pensasse che si sia compromessa la simmetria introducendo un elemento estraneo, non si scaldi troppo. Tutto ciò è molto olandese. Kevin Whitehead © Kevin Whitehead 1996 traduzione Francesca Patella

There is an ur-theory about the development of modern improvised music in Holland, which one hears remarkably often from Dutch and non-Dutch observers of Holland's new music scene. Details differ but here's the bones: The Dutch have a strong pedagogical tradition, but few strong musical traditions of their own - one doesn't hear much about Dutch folk music, aside from the steaming barrel-organs wheeled through towns on market day. As a result Hollanders have been quick to absorb influences and styles from outside the country. Since jazz allowed these skilled musicians the greatest creative autonomy, it was a hospitable musical environ-

AngelicA 96

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ment for spawning an indigenous improvised music. (There were jazz bands in Holland from the '20s, almost as soon as anyone knew there was such a thing as jazz.) Because these appropriated styles weren't their own, the theory continues, the Dutch feel no obligation to preserve them in a pure form. Jazz, minimalism, rock and roll: anything could be modified, polluted, transformed at will. And because the Dutch are politically egalitarian, they reject a hierarchy of styles: Monk is just as valuable as Stravinsky, to name two composers who loom large in Holland.

Dutch improvised music which may or may not correspond with jazz at this point, began to take off in the 1960s. At that time - when the Vietnam War tainted American cultural artifacts - many European improvisers sought a homegrown accent that led away from American models. (Those models proved hard to escape, though; all these bands seemed to have saxophones, and a rhythm section of piano, bass and drums.) This happened in Germany and England as well, but in Holland there was another factor. Partly because the country is small and partly because of the tastes and influence of two old friends from the Hague conservatory, Monk-fan Misha Mengelberg and Stravinskyexpert Louis Andriessen (their heroes dovetail: both loved wrong notes), composers and improvisers and classical musicians began working together on various big and little projects. In doing so they discovered their mutual dissatisfaction with the meager money to be made making new music. The composers waged a campaign to get realistic fees for commissioned works, and the improvisers founded a union, the BIM - Mengelberg was its first president - with a concert hall to go with it, the BIMhuis. The improvisers persuaded the government to subsidize travel and concert fees. Symphony musicians fought for time off from orchestras jobs to collaborate with composers and improvisers. 26


These collaborations sometimes took place on long marathons mixing old and new music, jazz and chamber ensembles. (Andriessen called his pioneering version "inclusive concerts.") Those concerts helped break down walls, and the inclusive tradition continues in many forms. To underscore music-makers' solidarity Misha declared improvising is "instant composing." His bands began working under the blanket name ICP: Instant Composers Pool. One result of all this was a greatly expanded vocabulary for improvisers. Everything was usable. Inevitably nay-sayers insisted this new music was "not jazz," but the smarter improvisers were beyond caring: as long as the music works it justifies itself. Ig Henneman's string quartet is a good example of this genre-bending: an improvising chamber ensemble, audibly informed by major trends in the 20th century notated music. But Henneman makes the soup thicker still, drawing inspiration from (usually nonDutch) poetry, and introducing a wildcard element into her group, in the form of Tristan Honsinger.

It's fitting AngelicA features Misha Mengelberg and Guus Janssen in three guises each: as composer of outlandishly clever notated pieces; as solo keyboard explorer; as ringleader of improvisers, Guus with his loose septet, Misha concluding the festival with a handpicked never-to-be-repeated Sea-Chicken Orchestra. Steve Lacy, who's known Mengelberg since the '60s: "Misha is the head and shoulders of the scene, as far as mind-power goes. He had the conception." The blurring of jazz and classical musics, of improvised music with improvised theater, of complex composing with conceptual absurdity - Misha didn't invent all these things, but he'd thought about their implications earlier and more deeply than most anyone else around. Because he was curious and because his father was a music critic (and composer), Misha had seen Ellington, and heard records by Monk and Herbie 27


Nichols, almost at the earliest opportunities. He understood Monk's game as few have, and gleefully took up his challenge to make highly sophisticated but decidedly clunkysounding music. (To stump his students Misha asks them to transcribe Monk's "Little Rootie Tootie" chord.) When Misha was a student, his mentor told him any good piece of music is analyzable. But early contact with John Cage and Fluxus - the '60s art world's absurdist wing - convinced him a good piece of music defies analysis. If you can explain an idea, why play it instead of talking it? The ultimate expression of this philosophy, so far, is his recent solo piano playing (as heard on the CD "Mix" on the ICP label), where he's set out to subvert any notion of form: to veer off whenever he catches himself giving recognizable shape to his improvising. The idea is to play an entire set without ever forming a clear mental picture of it. Misha's great-uncle, conductor Willem Mengelberg, tyrannized Dutch classical music for five decades, until he backed the wrong side in World War II and self-destructed. He's one reason Misha delights in undercutting the idea of the Great Music Maker. He once recorded a duet with his wife's parrot, says he learned a valuable lesson about piano playing from his cat. He might even write a concerto for a saxophone virtuoso that makes the soloist sound like he's just learning his instrument.

Back when inclusive concerts threw together numerous styles, electronic music was part of the mix. Mengelberg and Andriessen had helped set up STEIM, the Studio for ElectroInstrumental Music, dedicated to bringing electronic music out of the university computer centers and onto the stage, producing sounds in real time. STEIM's great success dreamed up by Michel Waisvisz, with technical assistance from in-house engineers - was a remarkably small rectangular thingie with six contact strips but no knobs to twiddle, the Crackle Box: the strips were uninsulated, so when you 28


touched them to play it, you entered the circuit and became what Michel calls "the thinking part of the machine." The original Crackle Boxes were small, easy to play, supremely flexible because it was highly unstable. The amount of surface contact or sweat on your fingertip, the number of strips you touched at once, these things dramatically affected its raw but curiously human shriek. STEIM sold hundreds of Crackle Boxes out the door, dirt-cheap, in the '70s. It was the people's synthesizer. Two decades later Waisvisz still likes to blur the animate and inanimate. That's what led him (via many sideroads and setbacks) to The Hands and LiSa (which stands for Live Sampling). He grabs sounds from the air and then manipulates them using body-talk, and hand controllers with thumb grip and fingertip pads. The Hands couldn't exist without the sampling and motion-detection software and hardware produced at STEIM by perennial head engineer Nico Bes and his staff. (Misha was artistic director till about 1980, when he was replaced by Waisvisz, who agreed to serve two years. He's still there.)

Mengelberg had spotted Guus Janssen's compositional and pianistic talents early, when Guus was a conservatory student and came to STEIM for a Mengelberg workshop in electronics, music theater, and talking your way out of tight spots. (When an audience protested the end result, Misha convinced them the show they'd just hated was really quite profound.) Janssen had been a child prodigy too, knew he wanted to be a composer before his voice changed. (When he was about 13, he and his brothers, including drummer Wim, would improvise in secret when their parents left the house.) Like Mengelberg he knows all the rules and loves to break them or make them contradict themselves, but he still places his faith in analyzable music. For Guus, composition is about technical problems, not metaphysics, his playfulness notwithstanding. Like Misha 29


he looks at musical styles from a certain ironic distance. Guus Janssen sees the jazz combo of piano, bass and drums as a classic with its own traditions to tweak and subvert. In his trio he pays tribute to Monk, Erroll Garner - and Lennie Tristano, a pianist he feels special kinship with. His homage to Art Tatum evokes the Tatum trio's rhythmic precision and crush of ideas via wide-open episodes - as empty as Tatum's are full - which nonetheless depend on equally precise timing. In trio or as formal composer, Janssen is a control freak. He exercises less control in his septet, because soloists remake the material their own way, and because the septet often features compositions by his guitarist Jacques Palinckx.

Unlike the other Dutch headliners, Palinckx is no Amsterdammer, but hails from the southern city of Tilburg. He's also an outsider in his guitarist's love of raunchy rock gestures. (Curious that some folks who thrive on raspy saxes wince when they hear guitar feedback. Mostly it's a generational thing.) "I have invented the term ‘con-fusion’ for our music," Palinckx once told an interviewer. "The greatest moment during a concert comes when the audience loses its frame of reference." This kaleidoscopic perspective is very Dutch: all styles fair game, all sets inclusive. Multi-lingualism is part of the culture. (It's the rare Netherlander who doesn't speak good English.) If you insist on seeing/hearing the Palinckx band's visual cues, fast cuts between "high" and "low" genres, and the heavy-metal guitar chords in relation to New Yorker John Zorn's postmodernism, please bear in mind Zorn's conspicuous (if seldom acknowledged) debts to Dutch sources. He has been acclaimed for conceiving game-pieces for improvisers in the '80s, but Misha and Willem Breuker had devised musicians' games by 1966. Back then Misha's alto saxophonist was Piet Noordijk, who'd alternate sizzling hardbop licks with sputtering outbursts inspired by Eric Dolphy; Han 30


Bennink says Zorn has confessed Noordijk's inspiration, obvious enough once it's pointed out.

Mengelberg had seen John Cage do cigarette tricks during a non-lecture in 1958. In the mid-'60s Misha worked with Fluxus Holland. He's mentioned both experiences as helping to inspire what turned out to be a unique brand of music theater, heavy on disjunction, non-sequiturs and absurdism. That movement was really rolling in the mid-'70s, when the American cellist Tristan Honsinger showed up in Amsterdam. With his Stan Laurel poise, verbal dexterity, and off-the-wall viewpoint, Tristan can do a lot with little in the way of props or preparation, especially when working with his South African buddy Sean Bergin. Honsinger's troupe This, That and the Other (like Misha's productions) expands improvisation beyond music, into the world of words and gestures. TT&tO also demonstrates that you don't have to be Dutch to play Dutch music - his crew comes from everywhere except Holland. The strong A'dam scene remakes the musicians as they remake it.

The Dutch have influenced more foreigners than Zorn. Misha made a very nice ICP Orchestra record in Soncino in 1979, with a mostly Italian band including Giancarlo Schiaffini, who has also played with Dutch bassist Maarten Altena, and was reunited with Misha in 1994's ICP-like October Orchestra. In 1984, in Bari, Misha wrote (and played on) an orchestra piece for trumpeter Pino Minafra: "Tropic of the Mounted Sea Chicken" (on LP from the Splasc(h) label). Schiaffini claims lyricism and Minafra insanity as their respective Dutch legacies. Carlo Actis Dato has had less direct contact, but he too confirms his Dutch influences. Not that he needs to say a word. 31


From his music alone you can tell he knows Willem Breuker's music, for example. Carlo's superb two-saxophone '80s quartet mixed sensuous melody with oblique satire, all jumbled up with various dance-academy rhythms. The band operated within a frame of reference broad enough to encompass jazz and the folk musics of his own people. His solo concert, obviously, will test his conceptual mettle also. He's a most welcome ringer on the otherwise allDutch program. If you think someone messed up the symmetry by introducing an ingredient that doesn't belong, relax. That's as Dutch as it gets.

Kevin Whitehead

luoghi della musica in Ola

nda

Š Kevin Whitehead 1996

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BIMHUIS - Centro per il artistica, sono organizzati ral grants for improvised Jazz e la musica improv- progetti e festival, come i music. In 1974 this led a.o. visata di Amsterdam concerti Carte Blanche, le to the foundation of the

Ventidue anni e più di tremila concerti all'attivo dopo la serata d'apertura nell'ottobre 1974: non si può negare che il Bimhuis, con la sua continuità di programmazione, abbia svolto un ruolo importante nello sviluppo della musica improvvisata olandese. In Olanda le strutture organizzative per il jazz e la musica improvvisata sono state create in gran parte per iniziativa dei musicisti della Dutch Jazz Foundation e del sindacato di improvvisatori, il BIM. Queste organizzazioni ottennero dal governo olandese un fondo per promuovere la musica improvvisata. Uno dei risultati fu la fondazione del Bimhuis nel 1974, che fin dall'inizio funzionò come centro propulsore del jazz olandese. Il Bimhuis, con una programmazione di circa centocinquanta concerti l'anno, vuole offrire una rassegna dei più recenti sviluppi e dei fatti più interessanti nel campo del jazz e della musica improvvisata su scala internazionale; anche se regolarmente si possono ascoltare i rappresentanti principali delle vecchie scuole. Tutti i grandi improvvisatori europei e americani si può dire abbiano suonato al Bimhuis, comprese figure leggendarie come Charles Mingus, Max Roach, Dexter Gordon, Sun Ra e Ar t Blakey. Molti concerti vengono trasmessi da radio e televisione, e si possono trovare più di un centinaio di registrazioni, tra LP e CD, effettuate al Bimhuis. Per stimolare la direzione

Summer Session e gli October Meeting del 1987 e 1991, che hanno interessato più di cinquanta musicisti, invitati individualmente da molti paesi per collaborare a dozzine di progetti. Per promuovere qualità e miglioramenti ulteriori sono cruciali lo scambio di informazioni e la collaborazione tra i diversi locali in Olanda e all'estero. Per questo motivo uno degli obiettivi della politica del Bimhuis è sempre stato quello di creare e sostenere un circuito internazionale, attraverso la partecipazione all'European Jazz Network, in cui le regole artistiche non vengano dettate dalle richieste di mercato. Migliorare su scala internazionale nei risultati già raggiunti è una delle sfide più stimolanti che il Bimhuis continua a proporsi dopo ormai due decenni di attività pionieristica.

BIMHUIS - Amsterdam's Center for Jazz and Improvised Music.

Twenty-two years and more than three thousand concerts after the opening night in October 1974, it cannot be denied that the continuity in Bimhuis programming has played a significant role in the development of Dutch improvised music. The organisational structures for jazz and improvised music in Holland were largely created at the initiative of musicians, organized in the Dutch Jazz Foundation, and a union of improvising musicians, B I M. These organisations persuaded the Dutch government to provide them with structu-

Bimhuis, that functioned from the very start as the nerve centre of the Dutch jazz world. In about 150 concerts a year the Bimhuis program aims at providing a survey of the latest developments and most interesting acts in international jazz and improvised music. But also prominent representatives of older trends are regularly heard. Alongside almost all well-known European and American improvisers, also legendary jazz stars such as Charles Mingus, Max Roach, Dexter Gordon, Sun Ra, Art Blakey all played the Bimhuis. Many concerts have been broadcasted by radio and television, and music recorded at the Bimhuis can be found on well over a hundred LP's and CD's. To feed artistic developments projects and festivals are organized, such as Carte Blanche concerts, Summer Sessions and the October Meetings of 1987 and 1991, that involved over 50 individually invited musicians from many countries who collaborated on dozens of projects. In order to promote quality and further development, exchange of information and cooperation with other venues in Holland and abroad is crucial. This is why the creation and maintenance of an international circuit in which artistic norms are not subservient to commercial demands has always been a target in Bimhuis policy, a.o. by partecipating in Europe Jazz Network. Advancing on an international level on what

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has already been achieved is one of the most exciting challenges facing the Bimhuis after being a pioneer for over two decades. Bimhuis, Oude Schans 7377, 1011 KW Amsterdam, Tel. 31.20.6233373, fax 31.20.6207759

FONDAZIONE PER IL JAZZ OLANDESE (SJIN)

Essenzialmente gli obiettivi della Fondazione per il Jazz in Olanda sono rimasti gli stessi dal 1965, anno della sua costituzione, e sono la promozione e lo sviluppo della Musica Jazz e Improvvisata olandese in Olanda e all'estero. L'attività principale del SJIN è quella di aiutare la musica jazz e improvvisata olandese di alta qualità attraverso sovvenzioni alla gestione dei luoghi per la musica. A partire dagli anni settanta ciò ha portato alla realizzazione di circa mille concer ti l'anno. Lo SJ I N conferisce ogni anno due premi, a un musicista giovane e promettente e a un musicista affermato distintosi per lungo tempo nel campo jazzistico e improvvisativo. Inoltre, lo SJIN sostiene attività educative nel campo della musica jazz e improvvisata organizzando e producendo concer ti nelle scuole. A partire dal 1997 lo SJIN allargherà le proprie attività tramite un nuovo servizio, Jazz Service Bureau, dando maggiore rilievo alla consulenza e alla distribuzione di informazioni. Il Jazz Service Bureau sarà una fonte centrale di informazioni per musicisti, locali, stampa e pubblico.

THE DUTCH JAZZ FOUN- elettronica dedicato alle DATION (SJIN) per formance dal vivo. Il

Essentially the goals of the Dutch Jazz Foundation have been virtually unchanged since it's foundation in 1965, namely the promotion and development of Dutch Jazz and improvised music in the Netherlands and abroad. The SJIN's main activity is supporting Dutch jazz and improvised music of high artistic content by subsidising venues on a structural basis. From the seventies onwards this has resulted in the realisation of approximately a thousand concerts annually. Twice a year the SJ I N awards a prize, one for a young and promising musician and one for an established musician with a distinguished career in jazz and improvised music. Furthermore the SJIN supports educational activities in the domain of jazz and improvised music by organising and producing concerts at schools. Starting in 1997 the SJIN will be broadening it'activities with the establishment of the Jazz Service Bureau thereby giving a more prominent role to it's function as advisor and information distributor. The Jazz Service Bureau will be a central source of information to musicians, venues, press and public. SJ I N Stichting Jazz en Geïmproviseerde Muziek in Nederland, Oude Schans 73-77, 1011 KW Amsterdam. Tel. 31.20.4202555, fax 31.20.6207759

STEIM - Studio per la musica elettro strumentale E’ uno studio per la musica

lavoro di Steim mira soprattutto allo sviluppo di nuovi strumenti musicali e del software per le performance, sebbene siano ben accolte collaborazioni con artisti che lavorano con altri media. STEIM offre soggiorni di studio, assistenza per il software personalizzato e per il design degli strumenti, agevolazioni in studio e altre forme di supporto ai compositori di musica elettro-acustica.

STEIM - Studio for Electro Instrumental Music

Is an electronic music studio dedicated to live performance. STEIMs work is primarly geared towards the development of new musical instruments and software for performance, though collaborations with artists in other media are welcomed. STEIM offers research residencies, assistance with custom software and instrument design, studio facilities and other forms of support to composers of electro-acoustic music. STEIM, Achtergracht 19, 1017 WL Amsterdam, The Netherlands. Tel. 31.20.6228690, fax 31.20.6264262

DONEMUS

La casa editrice Donemus pubblica e documenta lavori di compositori olandesi e stranieri collegati alla musica olandese. Fino ad oggi sono state pubblicate circa 8.000 composizioni e ogni anno vengono depositate più di duecento nuove opere. Donemus fornosce partiture per orchestra, possiede un archivio di registrazioni audio e video, produ-

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ce CD di musica olandese contemporanea per la propria etichetta Composers' Voice, pubblica un bollettino e Key Notes, una rivista di musica in lingua inglese. Inoltre, Donemus è impegnata in molte attività promozionali rivolte a richiamare l'attenzione sulla musica olandese.

L'edificio ospita non solo la sala da concerto e il Gran Café, ristrutturati in stile, ma anche gli uffici dell'organizzazione. L'IJsbreker collabora strettamente con gli enti radiotelevisivi nazionali e lavora regolarmente con i centri di nuova musica di tutto il mondo.

documentazione con più di 30.000 partiture, libri, cassette, CD, informazioni sui compositori, etc. Le attività annuali comprendono il Concorso Internazionale per Interpreti e la Settimana Internazionale di Musica. Ogni anno vengono organizzati molti altri festival e workshop su temi specifici.

DONEMUS

DE IJSBREKER

GAUDEAMUS FOUNDATION Contemporary Music Center

At the publishing house of Donemus works by Dutch composers and foreign composers who are associated with Dutch music are published and documented. By now almost 8,000 works have been published. More than 200 compositions are added each year. Donemus rents out orchestral materials, has a collection of sound and video registrations, brings out Cds of contemporary Dutch music on its own label Composers’ Voice and publishes a newsletter and Key Notes, an English language music journal. Furthermore D onemus engages in a variety of promotional activities, aimed at focussing attention on the music of the Netherlands. Donemus, Paulus Potterstraat 16, 1071 CZ Amsterdam. Tel. 31.20.6764436, fax 31.20.6733588

De IJbreker (The Icebreaker) is an international centre for the newest music. In its concert hall, some two hundred concerts are given each year, devoted exclusively to twentieth century chamber music, including composed, improvised, tonal and atonal, serial and aleatory music, as well as electro-acoustical and minimal music. As well as a concert hall and a Grand Cafe, restored in the original style, the premises also house the offices of the IJsbreker concert organisation. The IJbreker collaborates closely with national broadcasting companies and ensemblesand is involved with new music organisations all over the world. De IJsbreker, Weesperzijde 23, 1091 EC Amsterdam. Tel. 31.20.6681805, fax 31.20.6946607

Promotes all kinds of contemporary music - especially young composers and musicians - through festivals, workshops, competitions, international exchanges, concert series and services. Gaudeamus has an extensive documentation center with 30.000 scores, books, tapes, Cds, composers’ files etc. Annual activities include the International Gaudeamus Interpreters Competition and the International Gaudeamus Music Week. Many other festivals and workshops on specific themes are being organised every year. Gaudeamus, Swammerdamstraat 38, 1091 RV Amsterdam. Tel/fax 31.20.6947349

GAUDEAMUS FOUNDATION Centro per la Musica L'I Jsbreker è un centro Contemporanea DE IJSBREKER

internazionale per la nuova musica. Ogni anno nella sua sala si svolgono circa duecento concerti tutti dedicati alla musica da camera del ventesimo secolo, sia la musica scritta, improvvisata, tonale e atonale, seriale e aleatoria che la musica elettroacustica e minimale.

La Fondazione Gaudeamus promuove ogni tipo di musica contemporanea - in special modo di giovani compositori e musicisti attraverso festival, workshop, concorsi, scambi internazionali, concerti e servizi. Gaudeamus possiede un g rande centro di

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ead

traduzioni Francesca Patella revisione Rita Mengoli

biografie di Kevin Whiteh


Foto Hugo Gosse

pianoforte

Misha Mengelberg

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Misha Mengelberg è nato a Kiev nel 1935 da padre olandese e madre tedesca, ma ha sempre vissuto ad Amsterdam, dove detiene la cattedra di contrappunto allo Sweelinck Conservatorium. Ha composto il primo lavoro per piano all’età di quattro anni e da allora ha scritto molta buona musica. Nel 1964 Mengelberg si è diplomato al Conservatorio Reale de L’Aia. Nello stesso anno ha inciso il suo primo disco, “Last Date” di Eric Dolphy, in cui appare anche Han Bennink, il batterista col quale Misha lavora da lunga data. Nel 1967 Mengelberg, Bennink e Willem Breuker fondarono l’Instant Composer Pool, una svolta decisiva per lo sviluppo della musica olandese. Negli anni settanta Mengelberg è stato il direttore artistico del centro per la musica elettronica STEIM, ha iniziato a dirigere l’Instant Composer Pool Orchestra e ha collaborato a diverse produzioni di teatro musicale. Negli anni ottanta ha esplorato il repertorio di Herbie Nichols, Thelonious Monk e Duke Ellington, tutti progetti per ICP, e ha guidato i quintetti che si possono ascoltare sui dischi Soul Note “Regeneration” e “Change of Season”. Le sue attività recenti comprendono l’acclamato CD “Who’s Bridge” (Avant, Giappone) in trio con i newyorkesi Brad Jones al basso e Joey Baron alla batteria, e il CD in solo “Mix” (ICP). Alcune settimane fa (aprile 996) ha avuto luogo la prima della sua Cantata, “To a Deaf Man’s Hears” (“Alle orecchie di un sordo”), composta insieme allo scrittore olandese J. Bernlef. Mengelberg ha composto il “Concerto per Sassofono e Orchestra” nel 1982 per Ed Bogaard, che ne sarà l’esecutore anche ad Angelica. Misha, che non ama spiegare i propri lavori, dice: “Certo, che ho cercato di fargli suonare una parte piuttosto goffa, ma per riuscirci bisogna avere grande esperienza e abilità. Non è un pezzo di bravura per sassofono, ma ci sono dei punti di grande virtuosismo per l’orchestra. Ed Bogaard ha fatto parte dell’ICP Orchestra per due o tre anni e penso di aver scritto questo Concerto come una sorta di regalo d’addio. In seguito gli promisi di modificare

Misha Mengelberg

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una delle parti, cosa che non ho mai fatto. Ma va bene lo stesso; in fondo mi piace così com’è”. A proposito del brano per orchestra “Onderweg” del 1973 (suggerito per il programma dallo stesso compositore) Misha fa notare che non ha alcun legame col suo disco in solo “Pech Onderweg” del 1979. “Puoi dire in giro che ho dimenticato completamente questo pezzo. E’ plausibile che l’abbia scritto io, ma non ricordo assolutamente perché o che cosa vi succeda. Magari scopriamo che non è niente male. Perché no?” Misha Mengelberg was born to Dutch and German parents in Kiev in 1935, but is a lifelong resident of Amsterdam, where he teaches counterpoint at the Sweelinck Conservatory. He wrote his first piece for piano at age four and has been composing pretty much ever since. Mengelberg graduated from the Royal Conservatory in the Hague in 1964. The same year he made his first issued recording, Eric Dolphy’s “Last Date.” That album also features drummer Han Bennink, with whom Misha has had a longstanding duo. In 1967 Mengelberg, Bennink and Willem Breuker founded the Instant Composers Pool, a turning point in the development of Dutch music. In the 1970s Mengelberg was artistic director of the electronic music workshop STEIM, began leading the Instant Composers Pool Orchestra, and was involved in numerous music theater productions. In the ’80s he embarked on repertory projects exploring the music of Herbie Nichols, Thelonious Monk and Duke Ellington, with ICP, and in quintets heard on the Soul Note albums “Regeneration” and “Change of Season”. Recent activities include the acclaimed trio CD “Who's Bridge” (Avant, from Japan) with New York bassist Brad Jones and drummer Joey Baron, and the solo piano recital “Mix” (ICP). Two weeks ago he premiered a new cantata, “To a Deaf Man’s Ears,” written with the Dutch writer J. Bernlef. Mengelberg’s “Concerto for Saxophone and Orchestra” was composed in 1982 for Ed Bogaard, who performs it toni39


ght. Misha who dislikes explicating his pieces says, “Of course I try to make him play clumsy things, but you need a lot of experience and skill to do that. It's not a bravura virtuoso piece for saxophone, but there are some nice virtuoso moments for the orchestra. Ed Bogaard was in ICP Orchestra for two or three years, and I think I wrote this as a kind of goodbye present for him. Afterwards I promised him I would change one of the parts, but I never did. But that’s okay; I like it as it is, finally.” Of 1973’s orchestra piece “Onderweg” (which Mengelberg had suggested for the program) Misha notes it bears no connection to music on his 1979 solo LP “Pech Onderweg.” “You can tell the people I have forgotten the piece completely. It's plausible that I wrote it, but I can't remember why, or what was going on there. Maybe it’ll turn out to be a nice piece. Why not?”

Il sassofonista classico Ed Bogaard ha studiato in conservatori olandesi e parigini. Nel 1979 ha fondato il primo quartetto olandese di sassofoni, The Netherlands Saxophone Quartet. Fin dalla sua formazione, il quartetto insistentemente sollecitò i compositori olandesi a scrivere nuova musica. Bogaard è stato anche il fondatore della World Saxophone Orchestra, di cui è tuttora leader. A proposito del repertorio classico per sassofono Bogaard ha osservato: “Abbiamo imparato a conoscere lo strumento attraverso il jazz per poi ritornare alle radici olandesi.” Il concerto di Mengelberg è a lui dedicato.

Ed Bogaard

Classical saxophonist Ed Bogaard was trained at conservatories in Holland and Paris. In 1969 he founded the Netherlands Saxophone Quartet, the country’s first. From the beginning NSQ aggressively solicited new music from Dutch composers. He also started and leads the World Saxophone Orchestra. About the classical saxophone repertoire, Bogaard once 40


observed, “We got to know the instrument through jazz, then we got back to the roots in Holland.” Mengelberg’s concerto is dedicated to him.

Foto Hugo Gosse

Ad Baars clarinetto, sax tenore Guglielmo Pagnozzi sax alto, soprano Tobias Delius sax tenore Eric Boeren tromba Ernst Glerum contrabbasso Tristan Honsinger violoncello Guus Janssen pianoforte Misha Mengelberg pianoforte Wim Janssen batteria

Pollo di Mare

L’Orchestra Pollo di Mare non ha storia; prima di stasera non è mai esistita. Misha Mengelberg ne ha selezionato i componenti da una lista di candidati mentre si recava a L’Aia per un concerto, una notte di febbraio al volante della sua macchina. The Pollo di Mare Orchestra has no history; it never existed before tonight. Misha Mengelberg selected the personnel from a list of prospects while driving his car to a gig in the Hague in February.

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Il direttore d’orchestra Ernst van Tiel ha studiato percussioni e pianoforte al Conservatorio di Utrecht. In questo periodo e in seguito, ha preso parte a numerosi concerti jazz e di musica classica per la Radio olandese. Negli anni ottanta ha studiato direzione orchestrale con Lucas Vis e altri, e ha cominciato a dirigere concerti per la radio. Nel 1990 van Tiel è diventato direttore artistico e direttore stabile della Amsterdam Promenade Orchestra. E’ stato invitato come direttore ospite da diverse orchestre olandesi: la Rotterdam Philarmonic, la Residentie Orkest, la Metropole Orchestra.

Ernst van Tiel

Conductor Ernst van Tiel studied percussion and piano at the Utrecht Conservatory. During that time and afterwards, he took part in numerous classical and jazz performances for Dutch radio. In the ‘80s he studied conducting with Lucas Vis and others, and began conducting concerts for radio. In 1990 van Tiel became artistic director and conductor of the Amsterdam Promenade Orchestra. He has guest conducted numerous Dutch orchestras from the Rotterdam Philarmonic and the Residentie Orkest to the light-music Metropole Orchestra.

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Foto Marco Borggreve

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Guus Janssen

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Guus Janssen è nato nel 1951 nell’Olanda del nord. A tredici anni ha iniziato un’intensa educazione musicale e a improvvisare (di nascosto) insieme ai suoi fratelli maggiori. Janssen ha studiato composizione e pianoforte al Conservatorio di Amsterdam (l’attuale Sweelinck Conservartorium). Negli anni settanta ha cominciato a comporre assiduamente per le più svariate formazioni strumentali. In composizioni per trio di chitarre, per quartetto d’archi e per clarinetto basso, ha esplorato le possibilità degli armonici al di sopra dell’estensione convenzionale di questi strumenti. La sua opera “Noach” del 1993 - una radicale rivisitazione del biblico diluvio, su libretto di Friso Haverkamp - è davvero un buon lavoro. Come musicista/improvvisatore Janssen ha lavorato col sassofonista Theo Loevendie e il trombonista Bert Koppelaar, prima di dirigere gruppi propri, che vedevano spesso alla batteria suo fratello Wim. Negli anni ottanta ha fatto parte dell’Ensemble di Maarten Altena. Ha all’attivo una vasta produzione discografica alla guida di diversi gruppi jazz, in piano solo, e al clavicembalo nel CD in solo del 1991 “Harpsichord” (Geestgronden) che contiene molti dei brani in programma ad Angelica. Lo troviamo al clavicembalo anche nell’incisione (per NM Classics) del suo doppio concerto per piccolo e clavicembalo del 1993 “Zoek”. Nel 1981 Janssen ha vinto il Premio Boy Edgar, il riconoscimento jazz olandese di maggior prestigio e nel 1984 la sua composizione da camera “Temet” ha ricevuto dalla Città di Amsterdam il Premio Matthias Vermeulen. “Keer” (“Volta”) è stato eseguito per la prima volta nel 1990 dall’Orchestra del Concertgebouw di Amsterdam diretta da Riccardo Chailly. Gli intervalli usati in questo brano sono basati sulle serie di armonici di alcune note del clarinetto gli armonici pari di Do, Sol, Re in successione. Il primo movimento, dice Guus, sembra sempre sul punto di risolversi armonicamente, ma non lo fa mai; egli paragona il movimento ondeggiante degli archi alle onde del mare che avanzano e retrocedono sulla spiaggia simultaneamente come in un film accelerato. Questo movimento ondulatorio viene

Guus Janssen

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interrotto in questa sezione da legni e ottoni che chiamano gli archi a imitazione. Nella seconda parte - con le sue percussioni insistenti e poliritmiche - il risuonare contemporaneo di piatti e tamburi fa scattare un cambio di direzione o annuncia un silenzio momentaneo. Janssen paragona questa funzione a un telecomando, che seleziona fra molti canali televisivi. Le serie di armonici vengono esplicitate, in ordine discendente, soltanto nel tranquillo finale. “Passevite” - “Passaverdura” - in quattro “momenti” è ispirato e deriva il materiale melodico da una sequenza di sei accordi che Lennie Tristano usava spesso come ’firma’ in una frase o in un brano. “Prendo questi accordi e li metto nel passaverdure,” dice Janssen. Aggiunge che “Passevite” potrebbe far pensare allo stile bizzarro di alcuni arrangiatori jazz degli anni cinquanta (a loro volta influenzati dalla musica classica) come Bill Russo e Johnny Carisi e che le parti soliste sono scritte per intero. L’uso delle spazzole vuole suggerire il fruscio di un vecchio nastro logorato dall’ascolto e l’ultimo movimento è simile al riavvolgimento dello stesso nastro. “Passevite” è stato composto su commissione della Radio di Colonia WDR, ed eseguito per la prima volta dallo Schoenberg Ensemble. Sia “Keer” che “Passevite” sono stati scritti con il contributo dell’Holland’s Funds for the Creation of Music. Guus Janssen was born in North Holland in 1951. By age 13 he began to receive an intensive music education, and began improvising (in secret) with his older brothers. Janssen attended the Amsterdam (now Sweelinck) Conservatory, where he studied composition and piano. In the ’70s he began composing in earnest for all manner of ensembles. In pieces for guitar trio, string quartet and solo bass clarinet, he has explored overtones played above those instruments’ official range. His 1993 “Noach” - a radical retelling of the Bible flood story, libretto by Friso Haverkamp - is a hell of a good opera. As jazz musician/improviser, Janssen worked in the 1970s with saxophonist Theo Loevendie and trombonist Bert 45


Koppelaar, before leading his own groups, often with brother Wim Janssen on drums. In the 1980s Guus was also a member of bassist Maarten Altena’s Ensemble. He has recorded numerous jazz-group and solo piano records, and the 1991 solo CD “Harpsichord,” which includes many pieces on tonight’s program. He also played that instrument on a NM Classics recording of his 1993 double concerto for piccolo and harpsichord, “Zoek.” In 1981 Janssen received the Boy Edgar Prize, Holland’s most prestigious jazz award and in 1984, the city of Amsterdam’s Matthias Vermeulen Prize for the chamber work “Temet.” “Keer” (“Turn”) was first performed in 1990 by Amsterdam’s Concertgebouw Orchestra, conducted by Riccardo Chailly. The intervals used in the piece are based on the overtone series of particular notes played on a clarinet - the even-numbered overtones of the notes C, G, D, etc., in turn. The first movement, says Guus, seems always about to resolve harmonically, but never does; he likens the undulating motion of the strings to ocean waves simultaneously advancing and receding on a beach, in a fastmotion film. In this section the strings are also called upon to imitate brass and reeds, which brings that undulation to a halt. In the second part - with its insistent and polyrhythmic percussion - whenever drums and cymbals sound a unison hit, it triggers a change of direction, or even a momentary silence. Janssen compares its function to a remote control, switching among several TV channels. In the quiet coda, the overtone series are plainly revealed, in descending order. “Passevite” - a word for a food mill used in making soup in four “moments” is inspired by, and its melodic material derived from, a six-chord sequence Lennie Tristano sometimes used to “sign” a piano piece or phrase. “I take those six chords and put it through the mill,” says Janssen. He adds that “Passevite” evokes the style of maverick ’50s jazz arrangers (themselves influenced by classical music) such as Bill Russo and Johnny Carisi, and that all the solo parts are fully notated. The brushes-on-skins percussion part is 46


meant to suggest the hiss of a much-played old audio tape; the final movement is like the tape being rewound. It was first performed by Holland’s Schoenberg Ensemble, and commissioned by WDR, Radio Koln. Both “Keer” and “Passevite” were written with the financial assistance of Holland's Funds for the Creation of Music.

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Eric Boe noforte

Guus Janssen Septet

Il cornettista Eric Boeren non suona la tromba. Nel 1995 ha dato il via a un progetto aperto (che muta composizione, ma generalmente è un quartetto) dedicato alla musica di Ornette Coleman che sta avendo un notevole successo in Olanda. Dal 1984 fa parte del gruppo Available Jelly. Vive in una chiesa sconsacrata a Zaandam.

Eric Boeren

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Cornetist Eric Boeren does not play the trumpet. In 1995 he started an ongoing project (changing personnel, but usually a quartet) playing the compositions of Ornette Coleman; it has been heard throughout Holland. Since 1984 he's been a member of the cooperative band Available Jelly. He lives in a church in Zaandam.

Il trombonista Joost Buis si è formato in una banda cittadina, il che spiega perfettamente il suo suono imponente. Approdò ad Amsterdam nel 1988 per una tournée col Willem Breuker Kollektief. Buis è attualmente alla guida dei suoi Famous Astronotes, una band il cui repertorio (suonato generalmente ad orecchio) è composto in gran parte dalla musica visionaria dell’americano Sun Ra. Joost suona anche nei gruppi di Guus Janssen, Gene Carl, Cor Fuhler e altri.

Joost Buis

Trombonist Joost Buis came up in a post-office brass band, which helps explain his big sound. He came to Amsterdam in 1988 to work (one tour) with the Willem Breuker Kollektief. Buis leads the Famous Astronotes, a repertory orchestra playing (mostly early) music by the visionary American bandleader Sun Ra. He also plays with groups led by Guus Janssen, Gene Carl, Cor Fulher and others.

Jorrit Dijkstra ha ricevuto il Podium Prijs, premio che i locali jazz olandesi assegnano a musicisti promettenti. Ha all’attivo due CD: uno senza titolo con Misha Kool e Steve Argüelles (Disckus) e “Whistle” (BVHaast). Lavora con molti gruppi tra cui The Famous Astronotes.

Jorrit Dijkstra

Jorrit Dijkstra won the 1995 Podium Prize, awarded by Dutch jazz venues, traditionally to promising players like him. He has two records as (co)leader, an untitled one by 48


Dijkstra/Misha Kool/Steve Arguelles (Disckus) and “Whistle” (BVHaast). He works with many many groups including the Famous Astronotes.

vedi pagina 51

Jacques Palinckx Ernst Glerum ha fatto par te dell’ormai scomparso Amsterdam String Trio insieme al violoncellista Ernst Reijseger e al violista Maurice Horsthuis; ha guidato per un periodo purtroppo breve una propria big band dal nome New Klookabilities e fa parte di Available Jelly. E’ da vecchia data il bassista dell’ICP, per il suo swing, il suo bel timbro e una intonazione impeccabile.

Ernst Glerum

Ernst Glerum was founder of the Amsterdam String Trio, with violist Maurice Horsthuis and cellist Ernst Reijseger, too-briefly led his own big band New Klookabilities and he is a member of Available Jelly. He is the longtime bassist in ICP, not least for his heavy swing feel, beautiful tone and reliable intonation.

Il batterista Wim Janssen proviene da Heiloo e ha suonato nella Janssen Brothers, nella Punt Uit, il leggendario gruppo del trombonista Bert Koppelaar, e nel trio Janssen/Termos/Janssen. Per un certo periodo ha appeso al chiodo le bacchette per dedicarsi alla pittura, ma poi si è lasciato convincere a tornare sul palco dal fratello Guus. Ora riesce a conciliare le due carriere maneggiando a dovere spazzole e pennelli. Suona anche con Eric Boeren, Paul Termos e The Gravitones.

Wim Janssen

Drummer Wim Janssen comes from the town of Heiloo and played with the Janssen Brothers band, the legendary Punt Uit band of trombonist Bert Koppelaar, and the trio 49


Janssen/Termos/Janssen. For a time he gave up drums to concentrate on his career as a painter, but was persuaded to return to the traps by his brother Guus. Now he balances two careers where he wields brushes to good effect. He also plays with Eric Boeren, Paul Termos, and the Gravitones.

Foto Francesca Patella

Janssen/Glerum/Janssen

Guus Janssen pianoforte Ernst Glerum contrabbasso Wim Janssen batteria

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Foto Ingrid Uyen

Palinckx

iere Palinckx chitarra Cor Fuhler tast Joost Buis trombone Jacques a teri bat eses so elettrico Jim Men Bert Palinckx contrabbasso, bas

Jacques Palinckx è nato nel 1959 a Tilburg, città del sud dell’Olanda. Nel 1983 ha formato la prima di numerose band con il fratello Ber t Palinckx al contrabbasso. I due hanno lavorato insieme a vari progetti tra cui una frammentaria retrospettiva della musica psichedelica degli anni sessanta e “Jingles,” una serie di brani in cui brevi frammenti musicali e citazioni stilistiche vengono assemblate come tasselli di un puzzle. Jacques Palinckx ha familiarità sia con le sonorità della chitarra rock che con le tecniche degli odierni improvvisatori. Recentemente è stato affascinato dalle composizioni di Brian Wilson, leader dei Beach Boys e sta lavorando a un’opera sulla sua vita. La produzione discografica di Jacques Palinckx comprende “Grrrrroenten” (Traction Avant, 1987), e i più recenti “Covers” del 1992 e “The Naked Girls of Tilburg”, 1994, entrambi per l’etichetta VONK. Appare anche sul disco “Code” del Maarten Altena Ensemble (hat ART, 1990).

Jacques Palinckx

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Jacques Palinckx was born in 1959 in Tilburg, in the Netherlands’ far south. In 1983 he formed the first of several bands with his brother Bert Palinckx on bass. Together they have worked on numerous projects including a fractured retrospective of rock music from the psychedelic ’60s, and the “Jingles” series in which brief musical fragments and style quotations are assembled by the players like a jigsaw puzzle. Jacques Palinckx is at home with rock guitar skronk as w el l a s mo de r n i mpr ov i s e r s ’ g am in g t e c h niq u es . Recently he has become fascinated by the compositions of the Beach Boys’ Brian Wilson, and is developing a music-theater piece based on Wilson’s life. Jacques Palinckx’s recordings include 1987’s “Grrrrroeten” (“Grrrrreetings,” on the Traction Avant label), 1992’s “Covers,” and “The Naked Girls of Tilburg” from 1994, the latter two on the VONK label. He can also be heard on the Maarten Altena Ensemble’s 1990 recording “Code” (hat ART).

vedi pagina 48

Joost Buis Bert Palinckx, oltre alle numerose collaborazioni con Jacques, guida la Big Band Nieuwe Muziek, per la quale scrive e suona contrabbasso e basso elettrico. Questa orchestra di quattordici elementi è composta perlopiù da musicisti del sud dell’Olanda. L’ultima tournée di BBNM risale all’ottobre 1995.

Bert Palinckx

Bert Palinckx, besides his many recordings with Jacques, since 1994 also leads Big Band Nieuwe Muziek, for which he composes and plays bass and bass guitar. That 14-piece orchestra includes many leading players from the southern Netherlands. BBNM last toured in October 1995. 52


Cor Fuhler, pianista, tastierista e compositore ha studiato al Conservatorio Sweelinck ed è maestro nel suonare l’interno del pianoforte, usando ogni tipo di attrezzo, dagli utensili da cucina ai distorsori per chitarra. Fa parte di parecchi gruppi, The Famous Astronotes, il quartetto Diftong, il trio con Wilbert de Joode e Han Bennink e altri. Durante lo scorso inverno ha guidato un gruppo che univa musicisti jazz e un’orchestra gamelan per la colonna sonora del suo giallo di ombre cinesi “The Wayang Detective”.

Cor Fuhler

Pianist/keyboardist/composer Cor Fuhler studied at the Sweelinck Conservatory, and is a master of playing inside the piano, using all manner of devices from kitchen tools to guitar pick-ups. He plays in numerous groups, including the Famous Astronotes, the co-op quartet Diftong and a trio with Wilbert de Joode and Han Bennink. Last winter he led a mixed jazz group/gamelan orchestra for his shadow-puppet murder-mystery “The Wayang Detective.”

Originario di Philadelphia, il batterista Jim Meneses vive ad Amsterdam. Nel 1993 è entrato a far parte dei gruppi Palinckx e Blast. Ha inciso con Tom Cora e Zeena Parkins, e ha suonato in duo con Han Bennink e David Moss.

Jim Meneses

Originally from Philadelphia USA, drummer Jim Meneses lives in Amsterdam. In 1993 he joined the groups Palinckx and Blast. He’s recorded with American improvisers Tom Cora and Zeena Parkins, and played drum duets with Han Bennink and David Moss.

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Foto Michael Scheiner

sax tenore e baritono, clarinetto basso Carlo Actis Dato, torinese, faceva parte alla fine degli anni settanta dell’Art Studio insieme, tra gli altri, al bassista Enrico Fazio e al batterista Fiorenzo Sordini. In seguito questi tre musicisti hanno suonato in quartetto con Piero Ponzi (che affiancava Carlo suonando vari tipi di ance, spesso di grosse dimensioni, che davano alla band un affascinante tono profondo) e con la cantante newyorkese Ellen Christi. Il gruppo ha registrato in Italia e negli Stati Uniti per la Splasc(h), l’etichetta che meglio ha documentato l’attività di Actis Dato. Negli anni ottanta il suo spirito e la sua audacia hanno suggerito confronti critici tra il suo approccio e quello dei musicisti olandesi. Carlo Actis Dato ha inciso e fatto

Carlo Actis Dato

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tournée col sestetto del trombettista Pino Minafra - il loro CD più recente è uscito per l’etichetta canadese Victo - e in duo con la violoncellista Laura Culver. Fa anche parte dell’Italian Instabile Orchestra. I concerti in solo mettono in luce la sua padronanza delle split-tones e delle altre tessiture del sax, con una grande varietà di attacchi ripescati dal vecchio jazz e una vivace immaginazione musicale. Ha inciso il CD in solo “Urartu” per l’etichetta inglese Leo. Carlo Actis Dato comes from Torino. In the late ‘70s he was part of the band Art Studio, with among others bassist Enrico Fazio and drummer Fiorenzo Sordini. Later those three played in Carlo’s quartet with Piero Ponzo joining the leader playing various reeds - often big ones, giving the band a charming low-to-the-ground sound - and in a quartet with New York singer Ellen Christi. That band recorded in Italy and in the US for the Splasc(h) label, on which Actis Dato’s activities have been well-documented. In the ‘80s his wit and daring prompted critical comparisons between his approach and that of Dutch musicians. Carlo Actis Dato has also toured and recorded with trumpeter Pino Minafra’s sextet - their most recent CD is on Canada's Victo label and in duo with cellist Laura Culver. He is a member of the Italian Instabile Orchestra. His solo saxophone recitals highlight his command of split-tones and other saxophone textures, a variety of plosive attacks straight out of early jazz, and a fertile musical imagination. His solo CD “Urartu” is on the England’s Leo label..

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Foto Gianni Piesco

violoncello

Tristan Honsinger

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Tristan Honsinger è del New England, la patria del trascendentalismo americano, e ha cominciato a suonare il violoncello a nove anni. (Come Waisvisz è nato nel 1949.) Honsinger ha studiato al Peabody Conservatory di Baltimora prima di trasferirsi a Montreal, dove il suo convulso modo di suonare il violoncello ha ispirato la nascente scena improvvisativa di quella città. Verso la metà degli anni sessanta è approdato ad Amsterdam dove ha iniziato a lavorare con ICP (cosa che occasionalmente fa tuttora), nella formazione d’archi di Maarten Altena K’Ploeng! (e in duo con Altena). Lavora da lunga data con Sean Bergin e con la danzatrice Katie Duck, ed è uno dei più dotati improvvisatori teatrali della scena olandese. Nel 1978 venne per la prima volta in Italia, rimase affascinato da quel che vide e tornò con Katie Duck stabilendosi nei dintorni di Firenze. Durante i sette anni in cui è vissuto in Italia ha suonato con Giancarlo Schiaffini, Gianluigi Trovesi e Antonello Salis. (“Mi sono piaciuti i musicisti sardi, perché sembrano possedere nel modo in cui suonano una loro identità. Non si lasciano intimorire troppo dall’America.”). Dall’Italia è tornato ad Amsterdam dove ha suonato con tutti. E’ un buon cantante, attore e drammaturgo, compone melodie di grande lirismo ma denigra l’atto del comporre. Honsinger dice: “Il teatro musicale è nato per rendere consapevoli gli esecutori di tutto ciò che fanno dal momento in cui salgono sul palco a quando scendono. Scrivo le mie pièce con la speranza di accrescere questa consapevolezza.”

Tristan Honsinger

Tristan Honsinger is from New England, the home of American transcendentalism, and began playing cello at age nine. (Like Waisvisz he was born in 1949.) Honsinger studied at the Peabody Conservatory in Baltimore before moving to Montreal, where his frantic cello playing helped inspire that city’s fledgling improvising scene. In the mid1970s he came to Amsterdam, where he began working with ICP (which he still does, occasionally) and Maarten 57


Altena’s string group K’Ploeng! (and in duo with Altena). He has long and continuing working relationships with Sean Bergin and dancer Katie Duck, and is one of the most naturally theatrical improvisers on the Dutch scene. In 1978 Honsinger first visited Italy, liked what he saw, and came back with Duck to live outside Florence. During his four or five years in Italy he played with Giancarlo Schiaffini, Gianluigi Trovesi, and Antonello Salis. (“I kind of liked the Sardinian musicians, because they seemed to have their own identity in the way they played. They weren’t so much intimidated by the United States.”) From there he returned to Amsterdam, where he’s played with everyone. He’s a good singer, comedian and playwright, a composer of lyrical melodies who disparages the act of composing. Honsinger says: “ Music theater is created to make performers aware of what they are doing from the moment they step on stage until they step off it. I write pieces hopefully to inspire that awareness.”

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Foto Gianni Piesco

This, That and the Other Tristan Honsinger violoncello Katie Duck danza Rick Parets attore Peggy Larson voce Sean Bergin sassofoni Tobias Delius sax tenore Augusto Forti clarinetto Joe Williamson contrabbasso Alan ‘Gunga’ Purves percussioni 59


La danzatrice Katie Duck è stata co-fondatrice del Great Salt Lake Mime Troupe insieme ai musicisti Gregg Moore, Michael Moore e Michael Vatcher con i quali si trasferì in Olanda. Insegna danza ad Amsterdam e a Darlington in Inghilterra.

Kate Duck

Dancer Katie Duck was a co-founder of the Great Salt Lake Mime Troupe, with which Amsterdam musicians Gregg Moore, Michael Moore and Michael Vatcher came to Holland. She teaches dance in Amsterdam and in Darlington, England.

Rick Parets, comico e scrittore, è di New York. Ha iniziato la carriera di attore con i Groundlings di Los Angeles e da allora ha raccolto in teatro numerosi riconoscimenti (tra cui il Festival dei Pazzi a Roma di cui è stato co-fondatore) negli Stati Uniti e in Europa.

Rick Parets

Comic and writer Rick Parets comes from New York, apprenticed with the Groundlings in Los Angeles, and has racked up many theatrical credits in the US and Europe, including Festival Dei Pazzi in Rome which he co-founded.

La cantante Peggy Larson, originaria del Midwest americano, risiede in Olanda da molti anni. Ha lavorato spesso con gruppi jazz corali e in produzioni di teatro musicale. Il suo disco più recente è “Rood Haar,” “Capelli Rossi” (PLB).

Peggy Larson

Singer Peggy Larson comes from the American midwest, and is a longtime resident of Holland. She has worked often with jazz choirs and in music theater productions. Her most recent album is “Rood Haar” (Red Hair), on PLB.

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I Conservatori del sassofonista sudafricano Sean Bergin sono state le spiagge di Durban e i jazz club di Città del Capo. Ha passato alcuni anni tra Inghilterra e Stati Uniti prima di stabilirsi ad Amsterdam, ma come Honsinger ha vissuto in Italia durante i primi anni ottanta. Sean è leader del sestetto MOBette e del più ampio MOB - My Own Band - il cui CD del 1987 “Kid’s Mysteries” (Nimbus) è ormai un classico in Olanda.

Sean Bergin

The South African saxophonist Sean Bergin’s conservatories were the beaches of Durban and the jazz clubs of Cape Town. He spent time in London and the US before settling in Amsterdam, but like Honsinger spent much of the early ’80s in Italy. Sean leads the sextet MOBette and the large MOB - My Own Band - whose 1987 CD “Kids Mysteries” (Nimbus) is a Netherlands classic.

Il sassofonista tenore Tobias Delius, nato in Inghilterra da madre tedesca e padre argentino, arrivò ad Amsterdam nel 1984. Si fece notare da Misha Mengelberg allo Sweelinck Conservatorium. Con Sean Bergin e il sassofonista italiano Daniele D’Agaro forma il Trio San Francisco il cui nuovo CD “Prisoners of Pleasure” è appena uscito per BVHaast. Toby è anche membro di Available Jelly e si può ascoltare l’importanza del suo contributo nel CD “Monuments” (Ramboy).

Tobias Delius

Tenor saxophonist Tobias Delius was born in England to German and Argentine parents and came to in Holland in 1984. At the Sweelinck Conservatory he caught the ear of Misha Mengelberg, a fan. With Bergin and the Italian saxophonist Daniele D’Agaro he is a member of Trio San Francisco, whose new CD “Prisoners of Pleasure” is on BVHaast. Toby is also a member of Available Jelly, and heard to good effect on their CD “Monuments” (Ramboy).

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Augusto Forti, clarinettista e cantante, si è trasferito da Firenze ad Amsterdam verso la fine degli anni ottanta. Ha studiato composizione con Misha Mengelberg, è il leader dei Gravitones ed ha lavorato in produzioni teatrali sia in Italia che in Olanda.

Augusto Forti

Clarinetist and singer Augusto Forti came to Holland from Firenze, Italy. He studied composition with Misha Mengelberg, is a member of the quintet Gravitones and has been active in theater productions in Italy and Holland.

Joe Williamson era un bassista straordinario fin da ragazzo quando viveva a Vancouver, Canada. Arrivò ad Amsterdam nel 1990 per una tournée e vi rimase. La scorsa estate ha suonato al festival Jazz di Vancouver in quartetto con Evan Parker, Steve Beresford e Han Bennink. E’ uno dei punti di forza della scena improvvisativa di Amsterdam, dove spesso i suoi percorsi si incrociano con quelli di Tristan Honsinger.

Joe Williamson

Joe Williamson was a standout bassist while still a teenager in Vancouver, western Canada. He came to Amsterdam on a tour in the early ’90s and stayed. (Last summer he played Vancouver’s jazz festival with Evan Parker, Steve Beresford and Han Bennink.) He is a mainstay of Amsterdam’s free-improvisation scene, where he frequently crosses paths with Tristan Honsinger.

Il percussionista Alan ’Gunga’ Purves è scozzese ma vive in Olanda, non stabilmente, dalla fine degli anni settanta. Ha lavorato col Great Salt Lake Mime Troupe, col violoncellista Ernst Reijseger, e con The Famous Astronotes di Joost Buis, per citare solo alcune delle sue numerosissime collaborazioni. Nella conversazione è molto divertente.

Alan ’Gunga’ Purves

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Percussionist Alan “Gunga” Purves is Scottish, and has lived in Holland off and on since the late ’70s. He has worked with the Great Salt Lake Mime Troupe, cellist Ernst Reijseger, and Joost Buis's Famous Astronotes among many many others. He is extremely funny in conversation.

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Mary Oliver violino, viola

Ig Henneman viola

Tristan Honsinger violoncello

Wilbert de Joode contrabbasso

Henneman String Quartet

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Foto Camilla van Zuylen

Ig Henneman è nata nel 1945 ad Haarlem vicino ad Amsterdam. Ha studiato violino e viola ai conservatori di Amsterdam e di Tilburg. In seguito ha suonato in orchestre sinfoniche e in spettacoli di teatro; ha poi co-fondato la rock band (di sole donne, ci tiene a sottolineare) F.C. Gerania, per la quale ha cominciato a comporre musica. All’inizio degli anni ottanta faceva parte di alcuni gruppi guidati da Nedly Elstak, uno scopritore di talenti di Amsterdam. Ha fatto una breve apparizione nell’ICP e ha suonato nel ‘tentetto’ del sassofonista/clarinettista Ab Baars. Nel 1985 la Henneman ha cominciato a dirigere gruppi propri presentando proprie composizioni e musica improvvisata. Il suo primo CD “in Grassetto” (Wig, 1990) raggiunge un equilibrio squisito di archi e fiati, tra lirismo melodico e armonie avvolgenti, tra sensibilità jazz e classica. I lavori più recenti “Dickinson” e “Repeat that, repeat” (tutti su Wig) sono per ‘tentetto’ (che comprende i componenti del suo quartetto d’archi) e approfondiscono il rapporto fra musica da camera e poesia in molte lingue, in contrasto con il repertorio più aperto del suo quartetto.

Ig Henneman

Ig Henneman was born in Haarlem near Amsterdam in 1945. She studied violin and viola at the Amsterdam and Tilburg Conservatories. Afterwards she played symphony and live theater gigs, then co-founded the rock band (all women, she points out) F.C. Gerania, for which she began composing. In the early ’80s she was in bands organized by Amsterdam talent-spotter Nedly Elstak. She briefly played in ICP, and was in saxophonist/clarinetist Ab Baars’ tentet. Henneman began leading her own groups showcasing improvisers and her own compositions in 1985. Her first album as leader, 1990’s “in Grassetto” attained a lovely balance of two strings and two reeds, lyrical melody and bracing harmony, jazz and classical sensibilities. Her most recent “Dickinson” and last year's “Repeat that, repeat” (all 65


on Wig) feature her tentet (which includes the members of her String Quartet) and focus on chamber settings for poetry in several languages, in contrast to her more open quartet.

Mary Oliver, violinista e violista, viene dalla California. E’ stata introdotta nella scena di Amsterdam dal trombonista George Lewis nell’October Meeting del 1991. Si è trasferita ad Amsterdam alla fine del 1994 dove lavora regolarmente con Schismatics, Gene Carl Band e diversi altri gruppi occasionali di improvvisazione e nuova musica.

Mary Oliver

Violinist/violist Mary Oliver comes from California. She was introduced to the Amsterdam scene by trombonist George Lewis, who brought her to the 1991 October Meeting. She relocated there at the end of ’94, and works regularly with Schismatics, the Gene Carl Band and numerous ad hoc improvising and new music groups

Wilbert de Joode è un esperto delle tecniche del pizzicato sul contrabbasso. Con Ernst Glerum è uno dei bassisti più impegnati d’Olanda, fa parte del trio di Ab Baars e lavora regolarmente con Eric Boeren, Joost Buis e nel trio Fuhler/de Joode/Bennink. Nel gennaio ’96 si è trovato in una situazione unica, suonando al fianco di Steve Lacy e di Charles Gayle per due serate consecutive.

Wilbert de Joode

Wilbert de Joode is a research scientist of bass pizzicato techniques. Along with Ernst Glerum he’s one of the busiest bassists in Holland, working with Eric Boeren, Joost Buis, Fuhler/de Joode/Bennink and the Ab Baars trio. In 66

vedi pagina 57

Tristan Honsinger


January ’96 he performed a unlikely-to-be-repeated feat, playing on consecutive nights with saxophonists Steve Lacy and Charles Gayle.

Foto Carla van Thÿn

Michel Waisvisz Michel Waisvisz mani, computer interattivo Frank Baldé operatore

Operation LiSa

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Michel Waisvisz cominciò fin da ragazzo, negli anni ‘60, a combinare musica elettronica e performance. Egli è apparso in incisioni di Willem Breuker, ICP, Steve Lacy, Maarten Altena, Gunter Hampel e molti altri. Il suo primo strumento è stata una radio ad onde corte di suo padre, che emetteva strani suoni interessanti. Più tardi passò al Putney, uno dei primi sintetizzatori senza tastiera e scoprì che a ficcarci dentro le dita, diventando col proprio corpo una delle parti instabili del circuito, poteva ottenere suoni altrettanto strani. All’inizio degli anni settanta entrò allo Studio per la Musica Elettronico-Strumentale (STEIM) per realizzare un piccolo e semplice dispositivo che fosse in grado di sfruttare quello stesso principio, la “Crackle Box” (scatola crepitante). Essa diede origine ad altri oggetti simili come la “Crackle Bicycle” e il “Crackle Synthesizer.” Durante gli anni settanta Michel e Maarten Altena misero in scena una serie di “Serate sul Jazz” satiriche che prendevano in giro le pretese e l’abitudine di musicisti e critici per la classificazione e la separazione dei generi. Alla direzione dell’etichetta Claxon, Michel e Maarten hanno prodotto dischi propri e alcuni dei primi LP di Guus Janssen. Waisvisz per diversi anni ha organizzato spettacolari eventi teatrali con la cantante Moniek Toebosch. All’inizio degli anni ottanta Waisvisz è diventato il direttore artistico dello STEIM dove ha cominciato a lavorare con la tecnologia digitale. Il progetto The Hands è il tentativo più sofisticato di affrontare il suo paradosso preferito: la musica e il drammatico contrasto tra prontezza mentale e azione fisica, dove l’elettronica si incarica di pensare rapidamente e lui stesso del lavoro visibile. I tecnici dello STEIM, lavorando con Waisvisz e altri compositori, hanno realizzato sia l’hardware The Hands che i software LiSa (Live Sampling), Sensor Lab (sensore del movimento) e Lick Machine (sequencer) che verranno utilizzati nella serata. Ciascuno dei due “The Hands” contiene diversi tasti-sensore per ogni dito. I sensori sono dotati di varie funzioni che cambiano da un pezzo all’altro, di fatto evitando all’esecutore di cadere nella ripetizione di cliché;

Michel Waisvisz

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uno stesso movimento può provocare suoni totalmente diversi in momenti differenti. Michel Waisvisz started combining electronic music and performance art while a teenager in the ’60s. He has appeared on records with Willem Breuker, ICP, Steve Lacy, Maarten Altena, Gunter Hampel and more. His first instrument was one of his father’s short-wave radios, which made nice weird sounds. Later he took up the Putney, an early keyboard-less synthesizer and discovered that by sticking his fingers inside and making his body an unstable part of the circuit, he could make some weird sounds too. He came to the Studio for Electro-Instrumental Music (STEIM) in the early ’70s to develop a small and simple device to exploit the same principle, the “Crackle Box.” It spawned related objects like the Crackle Bicycle and the Crackle Synthesizer. During the ’70s he and Altena staged a series of satiric “Evenings about jazz” which mocked musicians’ and critics’ pretensions and penchant for classification and stylistic rifts. They co-ran the Claxon label, which produced their own and some early Guus Janssen LPs. For several years Waisvisz also staged sometimes spectacular theatricals with singer Moniek Toebosch. ’In the early ’80s Waisvisz became director of STEIM; he and it got very involved with digital technology. The Hands project is his most sophisticated attempt to grapple with a favorite paradox: music with a dramatic contrast between mental dexterity and physical action, where electronics do the quick thinking and he does the obvious labor. STEIM engineers, working with Waisvisz and other composers, developed The Hands hardware and LiSa (Live Sampling), Sensor Lab (motionsensor) and Lick Machine (sequencing) software used tonight. Each of "The Hands" is a keypad controller, with several pads for each thumb and finger. The function of a pad can be changed from piece to piece, in effect saving the performer from his own cliches; a favorite gesture may make completely different sounds at different times.

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riflessioni


Mario Baroni

Le musiche d’oggi sono malate. A chi spetta curarle? Non è un’affermazione nuova né sconvolgente dire che la musica d’avanguardia è entrata da una ventina d’anni, e non solo in Italia, in una fase involutiva. Tutti gl’interessati lo sanno, gli stessi musicisti ci pensano e ne discutono, si pubblicano pamphlets, le riviste specializzate ospitano articoli di commento e promuovono inchieste nel tentativo di capire un po’ meglio le cause del fenomeno, e magari anche di suggerire dei modi per correre ai ripari. Ma potrei aggiungere a questo punto che se la musica d’avanguardia è disorientata, anche il jazz non lo è meno: i musicisti più grandi, che negli anni Sessanta e Settanta avevano vissuto una stagione di creatività esplosiva, non hanno inventato da allora quasi più nulla e anzi hanno cominciato a ripetersi o a ripensare al passato, quando non a regredire. E per rincarare la dose aggiungerò ancora che se il jazz e l’avanguardia piangono, neppure la musica leggera è poi tanto disposta a ridere. Certo scoppia di salute dal punto di vista economico, ma questo risultato la rende forse più obesa che desiderabile: direi che dopo l’epopea rock che si è conclusa alla fine degli anni Settanta, novità di rilievo non se ne sono quasi più viste: certo le sofisticazioni tecniche sono strabilianti, ma servono più che altro a verniciare contenuti noti e proposte senza smalto. A volte mi viene il dubbio che tutto ciò non sia vero, che anche i miei pensieri si stiano avviando verso irrazionali nostalgie, o diano segni di regressione senile. Ma più ci 71


penso più mi convinco che invece le cose stanno proprio così come ho detto, e ciò significa forse che in questo volgere di millennio stiamo attraversando un cruciale periodo storico di trapasso e che se la musica è in fase di implosione ciò dipende non tanto dal fatto che i musicisti chissà perché si siano improvvismente trovati a corto di fantasia, ma perché non sanno più interpretare il mondo che sta c ambiando e non sanno più che posizioni prendere di fronte al cambiamento. In altri termini, non hanno più ideologie forti in cui credere. In effetti i nostri politologi ci raccontano continuamente della fine delle ideologie e debbo confessare che dal punto di vista politico io credo che questo sia un fenomeno che ha anche aspetti positivi, se non altro perché la gente si deve abituare ancher a pensar e e a discutere, anche a prendere in considersazione le tesi degli avversari e non semplicemente a credere o a rifiutare per principio. Ma le fedi, le credenze, le utopie, le ideologie, i sistemi di valore, gli ideali, i sogni sono invece sostanza indispensabile dell’arte: forse sta accadendo agli artisti degli ultimi anni che queste fonti si stanno prosciugando. Forse loro stessi non se ne accorgono, ma avvertono con inquietudine che qualche cosa gli sta venendo meno, come se fossero pesci in un’acqua che impercettibilmente ma regolarmente stesse calando. Da quando non credono più e non hanno più entusiasmi forti, da quando il mondo che li circonda non ha più la virtù di sollecitare, magari proprio grazie alla sue distorsioni, reazioni vitali che diano tensione e ragion d’essere alla loro invenzi one artistica, che diano senso alle loro prediche (perché a loro modo e col loro linguaggio gli artisti sono anche dei predicatori), da allora i musicisti sembrano aver cominciato a ripiegarsi su se stessi e così invece di scrivere musica di fede, hanno cominciato a dubitare delle proprie fedi e della propria musica. Ad esempio hanno cominciato a rinunciare ai loro radicalismi, che magari erano un po ’ ostici da digerire, che forse avevano come conseguenza principale quella di far disperare il 72


proprio pubblico e di ridurne la quantità, ma che almeno per i loro seguaci avevano forza trainante e capacità di stimolo. Hanno cominciato a tener conto delle esigenze d’ascolto — giustamente certo, perché nessuno ha voglia di venire punito per la sua frequenza ai concerti — ma l’hanno fatto spesso in forma un po’ meccanica e strumentale, come dire volutamente o con motivazione esterna e non per vocazione profonda: siccome il pubblico non gradisce più le nostre sgradevolezze cerchiamo i confezionargli un prodotto più attraente. Da qui sono sicuramente nate le varie mode di recupero: dai neo-romantici che hanno riscoperto le virtù della commozione e reinventato gesti mascagnani, ai neo-tonali che hanno riscoperto invece la comprensibilità e praticano commistioni con linguaggi del passato che se condo loro il pubblico capisce e desidera. Ma gli appelli a ciò che si trova diffuso in società e si presume ben noto non si limitano a questo: a parte altre etichette come la neosemplicità, a parte gli allettamenti delle musiche cosiddette ripetitive, non si contano le strizzate d’occhio ai materiali jazz o popular, le facili e suggestive evocazioni di modelli musicali medioevaleggianti, e i flirt d i ogni tipo con le culture extraeuropee. A mio parere nessuno di questi tentativi può funzionare, o se funziona ha il fiato corto, e dura quanto durano in genere le mode. Ma per quale ragione? Perché parte da un punto di vista sbagliato, cioè non dalle cose da dire (ammesso che si sappia quali siano) bensì dai modi di dirle, cioè dal linguaggio. Il quale in questo modo viene tradito, cioè viene trattat o come un fine e non come un mezzo. E i tradimenti si pagano. Dibattiti e tentativi di questo tipo hanno caratterizzato soprattutto le generazioni musicali che potremmo chiamare ‘di mezzo’, cioè quelle che negli anni Ottanta si sono ribellate ai padri creatori delle avanguardie del dopoguerra. La maggior parte di questi padri nobili tuttavia non ha affatto ceduto le armi: è ancora ben attiva e anzi è di solito in grado di dominare quel poco di merca73


to che ancora esiste per questa musica. In genere essi, i padri, non si pongono affatto i problemi drammatici che si sono posti i loro figli ribelli: di solito continuano a comporre come hanno sempre fatto, magari evitando gli estremismi ideologici che oggi non hanno più tanta presa e tanta ragion d’essere, magari tendendo anch’essi a qualche forma di maggiore trasparenza e persino di gradevolezza, se non altro per la sottile saggezza che hanno accumulato con gli anni. Ma fra i rappresentanti delle generazioni di mezzo non ci sono solo i ribelli; ci sono anche i puri e duri per i quali la fede è incrollabile e i principi non si toccano, per i quali è necessario non solo continuare a scrivere come un tempo, ma anche continuare a credere come un tempo. E infine esistono i compositori più giovani, i figli dei figli, i discepoli dei discepoli, che hanno imparato l’arte di comporre da scuole ormai raffinatissime, che di solito conoscono il mestiere con consumata perizia, ma che difficilmente trovano qualche occasione di eseguire in pubblico le loro musiche; se non altro perché sono in troppi. Centinaia in Italia, e altrettanti in Germania, in Inghilterra in Francia, per non parlare dei giapponesi o dei coreani, in un mondo che si fa sempre più piccolo, sempre più ‘villaggio’, ma che per queste cose riduce sempre più i propri spazi. A questo punto i problemi dei giovani compositori rischiano di configurarsi come problemi esistenziali di sopravvivenza personale o di casta: la sofferenza e il disagio si fanno acuti, ma purtroppo non riguardano l’umanità alla quale essi dovrebbero essere votati a parlare, ma riguardano solo il loro destino personale. E non c’è cosa più noiosa di quelle opere d’arte la cui intenzione è quella di mettere a nudo, di solito lamentosamente, la condizione dell’artista. Fortunatamente i giovani compositori hanno in genere il buon gusto di evitare in musica questi sfoghi: il che non significa però che la loro situazione sia felice. Giovani o vecchi che siano, tuttavia , i compositori e in genere i musicisti di oggi non sembrano rendersi conto fino in fondo e con sufficiente lucidità della profonda, 74


ancorché subdola rivoluzione che sta cambiando i termini del loro ruolo nel contesto della nostra società. Sembrano comportarsi come certi artisti che fra Sette e Ottocento credevano ancora di essere nell’Ancien Régime, o perlomeno componevano come se lo fossero, o non sapevano comporre diversamente, in un mondo che già stava conoscendo la rivoluzione industriale e i regimi parlamentari. Ma per capir e i termini della strisciante rivoluzione a cui alludo credo indispensabile rifarsi ai fondamenti dell’ ‘ancien régime’ dei nostri tempi, un regime dal quale negli ultimi anni pare che stiamo gradualmente uscendo. La genesi di ciò che oggi va sotto il nome di musica contemporanea o musica d’avanguardia è molto antica: risale probabilmente agli inizi del secolo scorso e ha le sue radici in quel grande fenomeno di rinnovamento delle coscienze che venne chiamato Romanticismo. Lungo tutto il corso dell’Ottocento era molto viva in tutta Europa l’idea che gli artisti avessero una missione importante, quella di rivelare all’umanità gli aspetti più oscuri della sua natura, e i valori più profondi del rapporto che lega ogni uomo agli altri uomini: ed era giusto che così fosse proprio in quell’epoca in cui le grandi fortune imprenditoriali e commerciali stavano trasformando il mondo e i sistemi di potere e dunque stavano anche riovoluzionando il sistema dei valori sociali e dei rapporti fra persone. Gli artisti assunsero allora un ruolo ‘rivelatorio’ del tutto inedito, che per la coscienza diffusa aveva una sorta di altezza sacrale. In effetti c’era bisogno di qualcuno che facesse da testimone, che assume sse la funzione che nelle società antiche avevano assunto i profeti, i rivelatori del verbo, gli equilibratori morali della società. Così vissero la propria arte i musicisti di quegli anni, da Beethoven a Berlioz, da Liszt a Wagner, da Mahler a Debussy, così la vissero anche i grandi letterati: da Goethe a Dostojevskij, da Baudelaire a Proust, per non parlare dei pittori, che da sempre erano stati cele bratori di poteri costituiti e che nell’Ottocento reinventarono radicalmente il proprio rapporto con la società e con i loro destinatari, e che a fine 75


secolo pagarono talvolta la propria nuova missione a prezzi esistenziali altissimi. E’ appunto in questo contesto di dialettica morale che mette le sue premesse nell’Ottocento e che esplode nei primi anni del Novecento la crisi dei rapporti fra l’artista e la società. Quando infatti il capitalismo maturo degl’inizi del nostro secolo esibisce in forme via via sempre più evidenti i suoi apparati di condiz ionamento dei comportamenti collettivi, quando i nuovi meccanismi del potere inizialmente nati da ideologie democratiche si rivelano in realtà capaci di forme pesanti di dominio e quando infine le parole d’ordine del potere diventano disumane (come accade nei casi delle dittature degli anni Venti e Trenta), allora appare definitivamente chiaro chi è che comanda in società, chi ha in mano le leve del pe nsiero della coscienza e della cultura e persino della vita intima di ciascun individuo. E il ruolo che gli artisti se erano dati diventa a questo punto sempre più marginale se non inutile. A partire da quel periodo la loro funzione sacrale e profetica comincia a entrare in crisi e la loro fiducia nella propria missione di modello per la collettività viene gradualmente meno. I contenuti del messagg io mutano dunque sostanzialmente: da un lato l’arte violentemente si desacralizza (le dissacrazioni, che poi diventeranno pane quotidiano dei movimenti giovanili negli anni Sessanta, in realtà sono state inventate più di cinquant’anni prima: l’arte che nega se stessa è il gioco più amato e diffuso negli anni Dieci e Venti), d’altro lato gli artisti non rinunciano affatto al loro ruolo critico di fustigatori della società, di sprezzatori della coscienza comune, di odiatori di modelli di massa sempre più soffocanti, di rivelatori delle ondate invadenti di banalità che degradano la vita quotidiana. Anzi su questo punto rincarano la dose e si collocano in una posizione sempre più antagonistica e irrisoria nei confronti della mediocrità imperante. Il mito negativo dell’uomo-massa, così ossessivamente vissuto dall’Espressionismo, riassume e sintetizza efficacemente il nuovo ruolo assunto 76


dagli artisti nel nostro secolo. Le avanguardie degli anni Cinquanta-Settanta ne sono l’ultima propaggine. Alla base delle ideologie forti, degli entusiasmi profondamente motivati, anche se negativi, e anche se sempre più isolati, della musica d’avanguardia del secondo dopoguerra, stava dunque l’idea di una sorta di guerra senza quartiere, di contrapposizione netta e dura fra il musicista e la soc ietà di massa. Adorno era lo stratega di questa guerra e la scuola di Vienna aveva prodotto il modello insuperato dell’eroica intransigenza morale a cui doveva attenersi chi voleva essere degno di combattere. Le generazioni successive, come abbiamo visto, cominciano a venir meno a questi purissimi ideali, cominciano a dubitare delle ideologie ricevute, nonché del linguaggio che di queste ideologie era il coerente risultato. Per questo è oggi chiaro che il problema reale non è quello di inventare dei correttivi applicandoli al linguaggio, ma è quello di capire quale peso abbiano in una cultura che sta subdolamente cambiando le carte in tavola, i presupposti ideali della battaglia contro la società di massa, così come i musicisti del dopoguerra li hanno ereditati, elaborati e applicati. La questione del rapporto col pubblico non si esaurisce con semplificazioni artificiose o con allettamenti furbeschi, ma va ripensata dalle origini, a partire dai presupposti culturali del ruolo del musicista e dalla sua capacità di dialogo con la società. E qui ovviamente non si può intendere per ‘dialogo’ né il presupposto illuministico di far capire alla società che i suoi valori sono tutti sbagliati e che la direzione verso la quale sta andando va radicalmente invertita, né, tantomeno, il presupposto romantico secondo il quale il musicista dovrebbe presentarsi alla società come depositario di messaggi profetici. Si tratta appunto di entrare in dialogo e forse, prima che con la società, con se stessi: anzitutto di capire ciò che realmente si condivide con gli altri e ciò che dagli altri non si può accet tare. Alcuni grandi registi cinematografici di oggi sanno farlo benissimo e non si vede perché anche i musicisti non potrebbero farlo. Il problema è, tut77


tavia, che la tradizione pesa e che correggere stili ereditati, e correggerli in modo non esteriore, ma partendo dalle motivazioni profonde degli stili e delle scritture, è impresa che richiede uno sforzo di creatività gigantesco, forse superiore alle doti medie dei giovani musicisti che oggi sono sul campo. E per di più richiede anche doti umane e morali all’altezza del compito. Per chiarire meglio i termini della questione e per cercar di esemplificare in che direzione dovrebbero andare a mio parere queste modifiche del rapporto arte-società, potrei cominciare a puntare l’attenzione su una serie di ‘divaricazioni’ che di solito sono troppo acriticamente accettate dai musicisti di oggi. C’è divaricazione eccessiva, ad esempio, nella tradizione musicale odierna, fra le funzioni d’intrattenimento (la gioia che la musica può dare, il piacere di ascoltare, in genere le motivazioni emozionali dell’ascolto) e le funzioni di riflessione e di pensiero (il rifiuto per le futilità e le banalità invadenti, l’intolleranza per l’ipocrisia e l’astuzia, la ricerca di autenticità, in genere la sollecitazione a pensare in profondo): le une sono rimaste territorio di conquista della musica leggera, le altre della musica seria. Ma che senso ha una divaricazione di questo tipo? Forse quella di dividere le persone in due categorie? forse quella di dividere le ore del giorno in leggere e pesanti? forse quella di affermare che l’intelligenza non può essere divertente o non può appassionare? Altra divaricazione sproporzionata: quella fra le funzioni estetiche e le funzioni rituali. A questa abbiamo cominciato ad abituarci in musica da circa tre secoli, cioè da quando sono gradualmente spuntate in Europa le sale da concerto a pagamento. Fino a quando l’opera era l’unico spettacolo pubblico la gente la frequentava per ragioni molteplici: per incontrare gli amici, per flirtare, per mangiare, per giocare a carte, e anche (ma non solo) per ascoltare i cantanti e per apprezzare la musica e lo spettacolo. Ma al concerto ci si doveva andare con severità e concentrazione: guai a chi parlava e guai a chi si muoveva. Questo modello di attenzione a oltranza (ribadito nel78


l’epoca della ‘sacralità’ ottocentesca) è a poco a poco diventato legge per qualsiasi forma di spettacolo musicale tranne che per lo spettacolo leggero. Certo non sto sostenendo che la musica si deve ascoltare in mezzo alla gazzarra, ma siamo proprio sicuri che l’unico scopo della musica sia quello di essere ascoltata? Non si rischia in questo modo di trasformare le sale in musei? Ben vengano i musei con la loro funzione memoriale e con il loro compito di selezione dei grandi valori estetici. Ma la musica non può vivere solo di grandi valori estetici, ha anche a che fare con il quotidiano, deve sapersi sporcare le mani con la realtà di tutti i giorni. Le musiche sacre sono funzionali al rito, le musiche di festa al ritrovarsi, le musiche politiche al celebrare unioni ideologiche; se poi possano avere anche valori estetici tanto meglio, ma non spetta alla contemporaneità stabilire i valori estetici: questi sono affare dei posteri e dei musei futuri. Diventa francamente ridicolo l’atteggiamento dei compositori di oggi che scrivono in chiave d’eternità, pensando sempre al futuro e pensando troppo poco all’impatto che potrebbero avere sull’oggi (e qui non penso a musiche, ad esempio, politiche, ma proprio all’impatto della musica stessa e del suo linguaggio, a ciò che il linguaggio in quanto tale può significare, indipendentemente da motivazioni esterne). Ritengo più sano l’atteggiamento della musica leggera che, senza tener conto del futuro museo pensa molto al suo destinatario diretto. Magari ci pensa per ragioni brutalmente economiche, ma perlomeno intrattiene un dialogo reale. Ora, io cre do che tutto ciò si potrà ottenere solo ed esclusivamente se lo spettacolo musicale riuscirà a trovare nuove funzioni di intrattenimento di coinvolgimento sociale. Il ricorso all’idea dell’ ‘estetico’ in assoluto è un vicolo cieco per qualsiasi forma di spettacolo, perché i valori estetici non possono mai venire decretati dalla contemporaneità: è solo il tempo che li decreta, occorrono decenni di sedimentazione perché i consensi comincino a emergere. E’ per questo che il luogo dell’estetico si 79


chiama in termini correnti museo (e lungi da me l’idea di usare queta parola con connotazioni negative). Riscoprire funzioni di coinvolgimento o di ritualità nuova è certo un problema che non è solo nelle mani dei musicisti, ma riguarda la società nel suo complesso, tuttavia credo che un buon musicista debba avere anche qualche forma di creatività istituzionale e debba essere capace di sperimentare a t utto campo e non solo nel suo orticello. Soprattutto in un’epoca di cambiamenti. Per continuare su questo aspetto istituzionale, credo che un altro caposaldo della tradizione dovrebbe essere messo in discussione. La musica colta è stata da sempre un lusso: i signori del Rinascimento e dell’epoca barocca si potevano permettere una cappella (più o meno ricca, e dotata di musicisti più o meno esperti a sec onda delle loro risorse) e gli stessi generi musicali che si sono succeduti nel tempo sono nati e si sono sviluppati nei limiti delle possibilità economiche reali. Ma il costo della musica ha continuato sempre a essere eccessivo rispetto alle sue possibilità di sviluppo. Non a caso i migliori strumentisti italiani della fine del Settecento hanno dovuto emigrare per cercarsi lavoro dove circolava più denaro, non a caso Wagner ha potuto realizzare i suoi progetti ciclopici solo quando ha trovato un monarca disposto a mandare in rovina le finanze del proprio stato. Non a caso le fortune della musica italiana nel corso del nostro secolo si sono appoggiate all’esistenza di finanziamenti pubblici cospicui. Ma le idee che la musica debba essere considerata una sorta di servizio come gli ospedali o che, come accadeva nelle epoche del mecenatismo, debba fondarsi sulla generosa munificenza di qualche privato, mi sembrano francamente aberranti. La ragione vera è che ci troviamo oggi a gestire l’eredità scomoda di un passato in cui il privilegio culturale di casta corrispondeva all’ideologia dominante. Ma dovremo pure abituarci a non accettare acriticamente tutto ciò che il passato ci lascia in eredità. L’esistenza di enti e teatri con centinaia di dipendenti che per forza di cose hanno un costo miliardario sproporzio80


nato al numero di persone che ne costituiscono il pubblico, non può oggi essere considerata altro che come un dovere, chiamiamolo pure un dovere altissimo, di conservazione d’un patrimonio di cultura che non va disperso, ma non può essere considerata come struttura portante di una musica d’oggi che abbia vitalità, che circoli in mezzo alla gente, che svolga il suo ruolo attivo e dialettico di stimo lo culturale. Mi rifiuto di credere necessario che un giovane compositore di teatro debba per forza di cose servirsi di masse immense di strumentisti e di coristi, di scenografie lussuose, di macchine sceniche costruite da architetti alla moda, e via dicendo. Un buon musicista le utilizza se ci sono e se per qualche ragione gliele mettono a disposizione, ma deve sapere anche inventare il modo di fa rne a meno. E’ all’altezza dei suoi compiti se insieme alla sua creatività musicale riesce a mettere in atto una creatività istituzionale che gli assicuri la realizzazione dei suoi progetti. L’inventiva istituzionale è aperta oggi, in epoca di esuberanza tecnologica, a una quantità incredibile di soluzioni. Nessuno può dire in questo momento quali potranno essere in un futuro anche non troppo lontan o, i destini dello spettacolo musicale. Forse è anche questo eccesso di possibilità tecnologiche a disorientare le coscienze e gli entusiasmi creativi dei musicisti e a renderli in genere prudenti e attaccati alle istituzioni ereditate. Ma il problema del rapporto con la tecnologia non solo non può essere eluso, ma già mette in crisi una quantità di certezze che fino a qualche anno fa sembravano incr ollabili. Basti pensare alla ricerca del virtuosismo esecutivo che è stata sempre una costante in evoluzione nella musica colta europea dalla fine del Settecento a oggi. Solo la strabiliante chiusura mentale dei conservatori italiani ha saputo bloccare d’autorità al suo interno l’evolversi delle tecniche strumentali e ha decretato che non era il caso di spingersi tanto più in là di Liszt o di Paganini. In realtà l’abilità tecnica richiesta agli stumentisti da Boulez o da Nono è enormemente più complessa. Ma da quando un 81


calcolatore può eseguire i capricci di Paganini a una velocità che è fuori da qualsiasi limite fisiologico o da quando può riprodurre esattamente il tocco pianistico di Pollini o correggere e migliorare la voce della Callas, la necessità di sacrificare la propria vita al raggiungimento di quei limiti fisiologici estremi comincia a diventare meno evidente. In altri termini, il rapporto con la tradiz ione da un lato e con la tecnologia dall’altro, vanno ripensati a mio parere in maniera più disinibita. Ciò è perfettamente possibile, dal momento che la musica leggera l’ha fatto e si è creata in questo modo una prodigiosa forza di divulgazione e una capacità di penetrazione capillare che premiano appunto la sua inventiva istituzionale. Ma per la musica colta ci sarebbe un solo modo sbagliato di procedere: quello di imitare dall’esterno i cammini percorsi dalla musica leggera. Tutto il resto è possibile purché i nuovi strumenti vengano vissuti in maniera spregiudicata e funzionale a reali e profonde necessità. Ma al di là di di tutto questo, al di là della possibilità (del resto tutta da dimostrare) di mettere in atto una fantasia istituzionale capace di inventare nuovi rapporti con la società, res ta ancora da risolvere per i musicisti d’oggi il problema dei problemi: parlare a chi e per dire che cosa? Da quanto ho affermato mi sembra che alla base del ripensamento morale che sto auspicando non possa non esserci che un punto di fondo: quello di trovare un nuovo modo di giudicare la società di massa così come oggi si è venuta configurando. Partire da qui mi sembra indispensabile, perché è questo il meccanismo sociale che ha generato le log iche più nascoste della musica del Novecento e è questo perciò il problema che va in qualche modo ripensato. Osserverei anzitutto che negli ultimi decenni l’analisi sociologica delle relazioni fra l’individuo e la collettività è divenuta estremamente ricca e complessa. Rimanere fedeli al radicalismo di Adorno o della scuola di Francoforte così come esso venne formulato nella prima metà del secolo mi sembra francamente anacronistico: l’i82


dea manichea che la società di massa sia una sorta di regno del male, una minaccia incombente da rifiutare in blocco può essere oggi difficilmente sostenuta. Esistono forze contrastanti all’interno dei meccanismi di governo e dominio della società di massa ed è a questo livello che la battaglia va combattuta. Tanto più che i mezzi di comunicazione di massa non sono oggi più eliminabili. La partita è per il loro possesso, non per la loro distruzione. Ma nulla è più inadatto alle comunicazioni di massa, della musica d’avanguardia che è nata proprio per negarli. Ricordo ancora l’effetto deprimente che certi film di Godard facevano nelle sale cinematografiche di vent’anni fa: elefanti nella cristalliera, o comunque fuori dal loro habitat naturale. La stessa impressione farebbero le musche d’avanguardia se fossero per caso trasmesse per televisione. Ma per fortuna questo strazio ci viene di solito risparmiato. Fare i conti con i mezzi di comunicazione di massa significa al tempo stesso entrare nel cerchio magico del del rapporto con le persone reali, perché molta parte della coscienza comune di oggi, sicuramente anche molta parte della coscienza dei musicisti, è determinata appunto dall’esistenza di questa sorta di megafono collettivo. Se, come dicevo all’inizio, il mondo è fondamentalmente un costrutto culturale, si direbbe che è con questo costrutto artificiale che oggi dobbiamo avere a che fare, perché questo è il mondo che esiste ormai nella coscienza collettiva: negarlo significa uscirne. Ma in questo caso non si tratterebbe del viaggio d’Ulisse che ne usciva per ampliarne i confini, si tr atterebbe semplicemente di scomparire dall’orizzonte visibile. Probabilmente ciò mette in crisi abitudini inveterate, come quella, ad esempio, di credere che l’artista debba per forza e per sempre essere un provocatore. Chi l’ha detto? E’ certo difficile capire quali contenuti mettere al posto di quelli provocatorii, recuperare anche spinte centripete al posto del radicalismo centrifugo al quale gl i artisti di punta si sono da sempre abituati. Ma a questo punto non spetta più a me 83


suggerire soluzioni. Io mi son dato qui il ruolo dell’analista: ho esaminato reperti, ho cercato di raccogliere sintomi, di farli reagire l’uno con l’altro, di formulare ipotesi su una diagnosi possibile, ma la cura non sono in grado di proporla. La cura spetta ai compositori. Chiamiamoli dunq u e a l c a p ez z a l e d e l m a l a t o . M a c h i è i l m a l a t o ? Evidentemente il caso è singolare e complesso perché i comp ositori sono i malati da curare e tuttavia sono anche gli unici possibili medici di se stessi.

Mario Baroni

Today's Music is Ill. Who is to treat it? There is nothing new or strange about the statement that avant-garde music, and not only in Italy, has been regressing for the last thirty years. Everyone involved knows it, musicians think about this problem and talk about it openly, pamphlets get published, music magazines print editorials and promote inquiries to find out why the phenomenon exists and how to avoid its getting worse. But I could add at this point that if avant-garde music is disoriented, jazz is also: the greatest musicians from the sixties and seventies who experienced a season of explosive creativity, haven't given us practically anything new, and, when not regressing, have begun to repeat themselves or to think about the past again. An d, may I add, if jazz and the avant-garde aren't laughing, neither is popular music. It's doing great financially, but this fattens it up rather than making it desirable. I'd venture to say that since the end of the rock and roll era, around the late seventies, nothing much new of importance has been produced. The technological advances are certainly pretty impressive, but their purpose is mainly to p aint over the known content and proposals lacking polish. Sometimes I wonder if all this is a lie, and that even my thinking is turning towards irrational nostalgia, or showing signs of senile regression. But the more I think 84


about it, the more I believe that things stand just as I said they do. Perhaps at the turn of this new millenium we are traversing a crucial historical period of transition and that if music is in an implosive phase it isn't because musicians have suddenly lost their creative spark, but because they no longer know how to interpret our changing world nor what position to take in the face of change. In other words, they no longer have strong ideologies in which to believe. It is true that our political experts are always talking about the end of ideologies and I must confess that from a political point of view I believe that this has its positive sides if only because people have to get used to thinking for themselves and to discussing their views, to accept their opponents' point of view and to stop simply believing or rejecting based on principle. But belief and belief systems, utopias, ideologies, value systems, ideals, dreams are all indispensable to art. Perhaps what has happened to artists in recent years is that these sources have begun to dry up. Perhaps they don't even realize it yet feel an uneasiness as if they were lacking something, as if they were fish in a pool of imperceptibly diminishing water. Ever since they've stopped being believers and have lost much of their enthusiasm, ever since the world around them has ceased to incite them, perhaps thanks to its biases, vital reactions that endow their artistic inventions with a certain tension and purpose, that give their sermons a meaning (because in their own way and through their own language artists have also become preachers), ever since this time, musicians seem to have begun to go back on themselves and in so doing instead of writing music based on faith, they have begun to doubt their faith and their music. They have, for example, begun to renounce their radical ideas and manifestations that were perhaps a bit difficult to swallow, that perhaps resulted mainly in making their public feel desperate, and to reduce quanti ty, but that did however strongly attract and stimulate their following. They began 85


to consider the demands of their public and justly so, no one wants to be punished for going to listen to a lot of concerts but they often achieved this in a mechanical and instrumental way, as if it were wanted and motivated from the outside and not from something profoundly within: being that our audiences do not appreciate our coarseness, let's package a nicer looking product for them. And certainly the various forms of recovery were generated from this: from neoromanticism and its re-discovery of the virtues of moving emotions and re-invention of Mascagni-like gestures, to neo-tonality and its re-discovery of comprehensibility and mixing of past languages believed to be understood and wanted by the public. But the appeal to what is commonplace and believed to be well-known is not confi ned to this: besides labels such as neo-simplicity, besides the allure of so-called repetitive music, there are the countless winks to jazz and popular music, the easy and suggestive renditions of medievallike musical patterns, and our flirtations with everything that lies outside of European culture. I believe that none of these attempts will work, and if one should, it will be short-lived, lasting on ly as long as any fad does. But why is this? Because the point of departure is wrong, that is, not from what need be said (if of course we can ever know what need be said) but from how we say things, from the language used. And language is thus betrayed; that is, treated as an end and not as a means. And betrayals cost dearly. Debates and attempts of this type characterize the 'inthe-middle' music gener ations who, in the eighties, rebelled against the creative fathers of the post-World War avant-garde. Many of these noble fathers, however, did not lay down their weapons. They are still quite active and usually dominate that small portion of the market still open to their type of music. They usually do not even consider the dramatic problems that their rebellious children choose to face: they usuall y continue composing as 86


they have always done, perhaps staying away from the ideological extremes that don't have much pull today and are much less vital, perhaps they also tend toward more clarity and even pleasantness, if for no other reason than for the subtle wisdom acquired over the years. But there are others among the representatives of the 'middle generations' other than the rebels; we also have the purists and the tough for whom faith holds strong and life is based on principles, those who must continue composing and believing as they always have. And finally we have the younger composers, the sons of the sons, the disciples of the disciples, who have learned the art of composition at extremely sophisticated schools, who usually know their craft inside out, but who have difficulty getting a booking to perform their works before an audience; if for no other reason than there are too many of them. Hundreds in Italy and in Germany, England, France, not to mention the Japanese and Koreans, in a world growing ever-smaller, becoming more 'village'-like, but that isn't opening up new possibilities for these endeavors. At this point the problems of the young composers risk becoming existential ones tied to individual or caste survival: suffering and unrest are becoming more acute, but unfortunately they're not interested in humanity with whom they should have taken a vow to communicate, but only in their own personal destiny. And there is nothing more boring than those works of art created to u n v e i l t h e a r t i s t ' s s t a t e , o f t e n r a t h e r m o u r n f u l l y. Fortunately, most young composers have enough good taste to avoid inserting these personal outpourings into their music. This doesn't mean that their state of affairs is a good one. Young and old alike, today's composers and musicians in general don't seem to fully comprehend nor to be fully aware of the spurious revolution that is changing the terms of their roles in our society. They seem to be acting like certain artists between the 18th and 19th 87


centuries who still thought themselves to be part of the Ancien RĂŠgime or at least composed as if they were, and were not able to write music differently, in a world that was already becoming familiar with the industrial revolution and parliamentary forms of government. But in order to understand the terms of the obsequious revolution to which I am alluding, it is necessary to go back to the foundatio ns of the 'ancien rĂŠgime' of our times, a regime away from which we have been gradually moving over the past few years. The genesis of what is today called contemporary or avant-garde music goes back a long way: perhaps to the beginning of the last century, rooted in that great phenomenon called Romanticism that witnessed a renewal of consciousness. Over the course of the 19th century, the idea that artists had a very important mission to accomplish was very popular. It was believed that they had to reveal to humanity the darkest aspects of its nature, and the most profound values of the relationship that unites one human being to another. And it was right that it be so during this historical period in which the large fortunes to be had from private enterprise and business were changing the world a nd its power systems and therefore revolutionizing our social value systems and interpersonal relationships. So artists had assumed a role unheard of before this time, that of 'revealers', and this role took on a sort of sacredness due to the widespread consciousness of the time. In fact, it was necessary to have some kind of witness, one who would take on the role that in ancient societies was playe d by prophets, revealers of the Word, society's moral offsetters. It was in this manner that the musicians of this epoch lived their art, from Beethoven to Berlioz, from Liszt to Wagner, from Mahler to Debussey; as did the world's great writers from Goethe to Dostoyevsky, from Baudelaire to Proust; and its painters who have always been the celebrators of the established powers and who during the 19th cen tury radically re-invented their relationship with society and 88


with their public, and, towards the end of the century, had to often pay an existentially exorbitant price for their new mission. It is within this context of moral dialectics that the relational crisis between artist and society with its roots in the 19th century, exploded at the beginning of the 20th. When, in fact, the mature capitalism of our century had begun to exhibit in increasingly evident wa ys its apparatus conditioning collective behavior, when the new power mechanisms that had emerged initially from democratic ideologies revealed themselves capable of massive forms of domination, and when the password of the powers that were had become inhuman (as was the case of the dictatorships during the twenties and thirties), then it became definitely apparent who had control of the society, who was controlling thought, consciousness, culture, and even the intimate private life of each person. And, at this point, the role that the artists had given themselves became increasingly marginal, if not useless. From this time forward, their prophetic and sacred roles started to give and trust in their mission to set themselves up as examples for society began to lose power. The contents of the message changed substantially. On one hand, art had violently desecrated itself (the desecrations, that were to become commonplace for the youth movements of the sixties, were created more than fifty years earlier. Art that repudiated itself was the most loved and widespread game of the first twenty to thirty years of this century). On the other hand, artists did not give up their critical role as society' s agents provocateur, as disdainers of common consciousness, as despisers of those increasingly suffocating models for the masses, as revealers of the invasive waves of triviality that debase our daily lives. In fact, they got more intense and became even more antagonistic and derisive towards the prevailing mediocrity. The negative myth of the masses, experienced in such an obsessive manner during the period of Expressionism, effectively summarized and 89


condensed the new role taken on by the artists of our century. The exponents of the avant-garde of the fifties, sixties, and seventies were its last offshoots. At the base of the strong ideologies, and of the deeply motivated enthusiasm, even when negative, and increasingly isolated, of post-World War II avant-garde music, was the notion of a kind of war without quarter, made up of marked and hard clashes between musicians and the general public. Adorno was the strategist of this war and the Viennese school had produced the unsurpassed model of the heroic moral intransigence to which whosoever desired being worthy of combat had to keep. The following generations, as we have already seen, started growing away from these pure idelas. They began to have doubts with respect to the ideologies they were ta ught and of their coherent product, their language. This is why it is clear today that the real problem does not lie in making corrections and applying them to the language, but in understanding the weight we bear in a culture that is continually and deceitfully changing the rules of the game; ideal grounds for the war against mass society, just as the post-war musicians inherited, developed, and applied them. The matter of the relationship with the public doesn't wear thin thanks to clever oversimplifications and cunning allurements. It must be re-worked from the beginning, from the very first cultural assumptions pertaining to the musician's role and ability to converse with society. And the dialogue in this case cannot be understood in terms of the illuminist assumption that society must realize that its values are off and that the direction in which it is going must be inverted, nor the romantic assumption that musicians must be prophetic messengers for the masses. We are speaking of entering upon a conversation perhaps with ourselves before starting one with society. First of all, we must understand what we really do share with others and what is unacceptable. Some of today's great film dire ctors know how to do this very well and I don't 90


understand why musicians can't do it, too. The trouble is that tradition weighs heavily upon us and that correcting inherited styles, and correcting them not surperficially, but starting with the deepest motivations of these styles and compositions, is an undertaking that requires enormous creative effort, perhaps beyond the average talents of young musicians in the field today. And beyond this, it req uires human and moral gifts up to the challenge. In order to explain the matter better and to point out what direction I believe the art-society relationship should take, I will focus on a series of 'gaps' that are too often accepted unquestionably by today's musicians. There is too wide a gap, for example, in today's musical tradition between its role as entertainer (the joy that music can give, the pleasure in listening to it, and the emotions evoked by it) and its role as thought provoker (the refusal of invasive futility and triviality, the intolerance of hypocrisy and cunning, the search for authenticity, and the general inducement to deep pensive reflection): the first is in the hands of popular music and the latter of 'serious' music. But what sense does a gap of this sort make? Is it only to d ivide people into two factions? Or to divide the hours of the day into lighter and heavier ones? Or is it to confirm that intelligence can be neither entertaining nor something people can get hooked on? Another great gap is the one between music's aesthetic and ritual roles. We started getting acquainted with this gap in music three centuries ago; i.e., when concert halls started opening up in Europe and it became necessary to purchase tickets for the performances. For as long as opera remained the only type of performance open to the public, people went to see operas for many reasons; to meet friends, flirt, eat, play cards, and also (but not exclusively) to listen to the singers and to take in the music and the show. But concert-going meant putting in a serious and concentrated effort; one was neit her to talk nor move. This type of totally undivided attention 91


required (reconfirmed in the 19th century when concertgoing was surrounded by an air of 'sacredness') has practically become the law for what is expected of the audience in all music performances except ones featuring popular music. Obviously this doesn't mean that music must be listened to in the midst of a lot of noise, but are we positive that listening to music is its only purpose? Aren't we ri sking concert halls becoming museums? I'm not saying anything against museums; they play an important role as memorials and as discerners and guardians of what is of great aesthetic value. But music thrives on more than only its great aesthetic value; it also has to do with daily life, it must, so-tospeak, get its hands dirty in the reality of things. Sacred music plays a ritual role, music composed for holidays gives people a common meeting ground, political music celebrates the sharing of ideologies; if these types of music also have aesthetic value, why not?; but it is not up to contemporaneity to decide what these values are; it is up to our past and future museums to decide. It is really quite ridiculous how many of today's composers write their music in the key of 'eternity', with an eye to the future and not enough attention paid to the impact they could very well have on today (and I'm not referring in this case to political music, for example, but to the impact of music itself and to its language, to what language itself means, external motivations aside). I believe that popular music has taken a much healthier attitude by not concerning itself with its future place in a museum and conce ntrating on its audience. It could be that the motivations are brutally venal, but at least it is carrying on a real conversation with its audience. I do believe that all this could be obtained only if music performances manage to take on the role of entertainment with social involvement. To speak solely of the 'aesthetics' of music leads any form of musical performance into a blind alley, because i t is impossible for contemporaneity to dictate aesthetics. Only time can do this, years 92


of sedimentation are necessary to the emergence of consensus. It is for this reason that the place for aesthetics today is defined in modern terms as museum (and far be it from me to put any kind of negative connotation on this word). The re-discovery of the roles of social involvement and a new type of ritual is certainly a problem that needs be solved not only by the musicians themselves, but also by society at large. However, I do believe that good musicians must also possess some form of institutional creativity and must be able to conduct large-scale experiments and not be confined to their own backyards. This is especially true in times of change such as ours. Continuing with the institutional aspect of music, I'd like to question another accepted tradition. Serious music has always been a luxury. Nobles of the Renaissance and of the baroque era could afford to have their own private chapels (some richer than others, and each with its own set of musicians, some better some worse, depending on the noble's available resources), and the musical genres that followed in time were generated and developed according to what was affordable. But music has always cost more than the amount financially necessary to its development. It is no coincidence that Italian musicians had to emigrate to richer countries during the 18th century in order to find work. Wagner himself was only able to produce his great opuses when he found a monarch willing to have his country go bankrupt in order to fund them. It is no coincidence that the successes of Italian music in the course of this century have relied heavily on substantial government funding. But the notions that music is to be considered a kind of service as hospitals are or, as used to happen during certain historical periods, must rely on the generosity of private patronage, are totally absurd. The real reason is that we find ourselves having to manage the rather inconvenient heredity of a past wherein cultural priviledge of caste and the prevailing id eology were one and 93


the same. Yet we must get used to the idea that it is time we stopped accepting everything past as our heritage and started critically discerning what we wish to inherit. The cost to maintain public opera houses and theatres employing hundreds of people is not proportionate to the number of opera and theatre goers. The preservation of a cultural heritage that must not be lost is a duty, an extremely important duty, but this does not mean that these theatres are the bearing structure of today's music that has vitality, that circulates among people, that carries out an active and dialectic role as a cultural stimulus. I cannot believe that the young composers of today must perforce be equipped with large orchestras and choruses, lavish scenery, mechanical stage props designed by famous architects, and so on and so forth. A good musician uses them if they happen to be available, but must also have the skills to do without them. Good musicians are worth their salt when they add institutional creativity to their musical genius and thus guarantee that their ideas will be given the chance to take form. In a time of technological exuberance such as ours, the number of solutions to institutional inventi veness is wide open. No one today can predict what the destiny of music performances will be neither in the distant nor in the near future. Perhaps it is even the excess of technological possibilities available to us that disorients the consiousnesses and creative enthusiasm of musicians, makes them more careful, and keeps them attached to the institutions that they've inherited. But not only can we not escape from the problem of our relationship with technology, it has already shed doubt on quite a number of fixed points we thought unshakable. Suffice it to mention one of the constants in the evolution of serious music in Europe from the end of the 18th century to today, the pursuit of virtuosity. It was the outrageous close-mindedness of Italy's conservatives that officially blocked the evolution of musical technique and decreed that it wasn't necessary to go beyond Liszt or Paganini. 94


Actually, the technique required of musicians by the works of Boulez and Nono is extremely more sophisticated. But ever since computers have 'learned' to execute Paganini's capricci at a humanly impossible speed, or ever since they've been able to faithfully reproduce Pollini's sound or correct and improve on Callas' voice, it has become no longer clear why one must sacrifice one's life to attaining these almost humanly impossible limits. In my opinion, the relationship with tradition on the one hand and technology on the other must be reflected upon in a less inhibited manner. It can be done and the success achieved by popular music in this respect is proof. Popular music has managed to create a prodigious popularizing force of its own and a capacity for capillary diffusion that have rewarded its institutional creativity. The only real error that serious music could make in its future development would be the mistake of trying to follow in the footsteps of the popular music movement. Every other door is open to its development provided that no prejudice taints our view of modern day instruments and that we learn to use them to satisfy real and very deep needs. But beyond this, beyond the possibility (that has yet to be proven) of implementing an institutional imagination capable of creating new relationships with society, musicians today still have a major problem to solve: to whom are we speaking and to say what? From what I've already said, it would seem that the bottom line of the moral 're-thinking' I'm hopin for is that a new way will be found to judge society at large for what it is and as it is today. This is the fundamental point of departure because it is this very social mechanism that has generated our century's music deepest reasoning mechanisms and this is the problem that must in some manner be reflected upon. Over the past few decades, the sociological analysis of the relationship between individual and society has become extremely elaborate and complex. To remain 95


faithful to Adorno's radicalism and to the Frankfurt school of thought as developed during the first half of this century is, in my opinion, totally anachronistic. It is not easy today to support the Manichaean notion that society as a whole is a sort of reign of evil, an imminent danger to be thwarted. Opposing forces exist within the wheels of government and the domination of the masses and it is at this level that the battle must be waged. Especially because the mass media are here to stay. The game being played is for their control, not for their destruction. But nothing could be more foreign to the media than the avant-garde music created to repudiate them. I still remember the depressing effect that many of Godard's films had on the audiences of twenty years ago; bulls in a china shop, or out of their natural habitat in any case. This is the same impression that would be made by the transmission of avant-garde music on television. But luckily enough we have been largely spared this torture. To settle accounts with the mass media also signifies entering within the magic circle of a relationship with real people, because the better part of our common consciousness today, and even that of musicians, is determined in fact by the very existence of this sort of collective bull horn. If, as I stated in the beginning, the world is basically a cultural construct, one would say that it is with this artificial construct that we must deal today, because this is the world that exists at this point in time in our collective consciousness. To deny this means breaking away from it. But in this case we are not talking about the journey Ulysses took to break away and to extend his boundaries, but simply of disappearing beyond the visible horizon. This seriously questions our inveterate habits, such as believing that an artist must always be a provoker. Who says so? It is admittedly difficult to discern which elements could replace those tied to provocation, to recover the centripetal forces in substitution of the centrifugal radicalism to which leading arti96


sts have always been accustomed. But it is not up to me to offer the solutions. I have appointed myself diagnostician, analyzer of the situation: I have studied the reports, I have attempted to gather the symptoms, to have them react with each other, to formulate an hypothesis based on a possible diagnosis, but I am unable to propose correct treatment. It is up to the composers to decide. Let us call them to the patient's bedside. But who is the patient? This is surely a unique and complex case because the ones that need treatment are the composers and there is no other possible doctor, it is up to them to heal themselves. traduzione Adriana Gandolfi

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Giampiero Cane

Centro marcio, periferia a brandelli Gerico è circondata, ma non si trovano trombettisti La Sinfonia era tedesca, l'Opera italiana/francese, la Canzone? diciamo napoletana, il Jazz statunitense, l'Operetta viennese/francese. Il resto era folklore, roba di poco conto, modi esotici/locali di concepire caso per caso/territorio per territorio la musica nel suo insieme, a volte solo il suono. Grieg, Wagner, Berlin, l'Hot Club de France, Herbert ed altri hanno rotto lo schema. Quelle territorializ zazioni sono saltate e non se ne parla più. Tutto appartiene a tutti e chi ha cominciato imitando, ha anche immesso nelle cose la propria differente originalità. Così sono cambiate anche le cose. In un certo senso, cambiando sono anche morte, o si sono malate gravemente. C'era una politica determinata da alcune centralità; a questa se n'è sostituita una più complessa, priva di fonti decisive, fondata sull'autorevolezza che riescono ad ottenere gruppi/voci di tutte le periferie. Istituzioni e pubblico sono a questo punto spaccati. Da un lato ci sono quanti vogliono che le vecchie istituzioni si fondino ancora sull'idea della centralità delle forme espressive alla cui conservazione si sentono delegate, e sono esse a disporre della maggior parte del denaro di cui vive la musica; dall'altro ci sono i curiosi, i cultori della perifericizzazione del mondo, i quali vorrebbero ottenere una sempre maggiore presenza della varietà, là dove domina l'uniforme. Il conflitto, che si sminuzza anche in tante contrapposizioni interne ai singoli generi là dove apertura concettuale e competenza musicale siano delimitate ad uno di essi, non è risolvibile dal punto di vista teorico. La Rai, per esempio, continua a pe nsare che la parola musica equivalga a canzonette, gli Enti lirico sinfonici a BeethovenVerdi e quel che sta d'attorno, i festival del jazz meglio finanziati e il quadro dei jazz club, per quel che contano, al revival be-bop. Una visione centralistica e protettiva del centro crea la 98


periferia, dove s'insediano disagio, malumore e protesta. Un centro che non lavori politicamente contro ciò vedrà crescere il disordine, fino anche alla violenza. I nostri centri sono molto reazionari, disposti perfino a rifilare "patacche" piuttosto che affrontare i temi della contemporaneità. Ce lo dice, a esempio, Venezia, con la nostra Fenice distrutta, che molti vorrebbero rifare tale quale appariva prima dell'incendio, o comunque, ripetendone uno stato delle trasformazioni storiche, rifiutandosi di convenire sul fatto che così, appunto, rifilerebbero una "patacca" all'umanità. I nostri centri sono molto reazionari, dicevamo: essi considerano che la simbolica presenza di una delle musiche periferiche, una volta, testimoni disponibilità e apertura, mentre, di contro, il ritorno alla gestione del consueto sarebbe determinato e voluto dalla risposta del pubblico, di fatto una ribadita affermazione del primato della centralità del genere e, nel genere, di ciò che viene di già prediletto. Sembrerebbe conseguente, ma non lo è, perché non del pubblico si tratta, ma di un pubblico, un pubblico che è stato formato, incapace oggi però di riproporre l'idea di formazione, il che significherebbe anche la propria rieducazione, e dunque idealisticamente convinto che valore, qualità e bellezza appartengano alle cose che ama veder realizzate a quell'uniforme singolarità che compone l'insieme. Tra le altre cose, l'arroccamento del centro e il suo rifiuto di constatare l'assoluta necessità di riformare l'amministrazione dei rapporti tra le istituzioni e i membri della società civile ha prodotto quei fenomeni che tutti conosciamo di ipervalutazione ed autoisolamento delle ideologie localistiche. Non solo non abbiamo la libertà di viaggiare tra le musiche, ma nemmeno quella, assai più importante, di viaggiare nel territorio. Spesso non sappiamo se sia lecito uscire dalla città e tanto meno se lo sarà entrare in quella di destinazione. Servizi per i quali i fondi sono raccolti nella nazione p rivilegiano i residenti. Un perverso sistema di prelazioni non solo permette, ma pro99


muove che siano sempre le stesse persone ad avvantaggiarsi di quello che dovremmo definire un servizio. E' il caso degli Enti lirici e della logica degli abbonamenti. Il sistema oggi è chiuso: è un asylum. Sparpagliato e minoritario, il mondo della cultura musicale non riesce a trovare gli strumenti, prima di tutto intellettuali, attraverso cui opporsi al dominio di una minoranza (che talmente mi noranza è da dover insistentemente lamentare anch'essa la trascuratezza con cui è trattata dal sistema politico nel suo insieme). Dovrebbero essere le istituzioni maggiori, già dotate di una immagine capace di renderle visibili alla generalità del pubblico, ad assumere la guida di tutto quel movimento che chiede allo Stato un intervento adeguato ai bisogni della cultura musicale; ma espressioni quali son o della miseria politica locale, e d'altro canto agiate, queste istituzioni sono incapaci di esprimersi a un livello politico anche minimo; da anni si ripetono e basta nella loro routine. Dunque a ciascuno tocca arrangiarsi come può, strappando un po' di contorno dal piatto dell'onnivoro melodramma per trarne tutto il proprio nutrimento pubblico. Ma l'inedia - e il malessere che induce - han spes so ragione delle migliori intenzioni. Stanchi da una vita da jazzman o da improvvisatori si tenta in maniera alquanto immatura la carta della composizione. La novità (?) teorica del modalismo si vede attribuita la potenzialità di un toccasana. Quel povero residuo di isolamento e arretratezza che si configura nella musica folcloristica vien trasformato da non inutile oggetto di memoria in materia ancora attuale, espressione viva di un'alterità che raramente, invece, ha posseduto. Ingannevoli ideologie che a una marginalità iponutrita, e forse proprio per questo, appaiono appetibili. Bisognerebbe saper evitare gli inganni, migliorare la propria capacità di concepire i valori, tra cui i canoni del gusto, come sottoposti al fluire del tempo. Da un lato non raccogliere la provocazione dell'eternità, ma dall'altro non retrocedere nel nido della cultura del villaggio: diven100


tare più bravi, saperne di più per poter opporre alla monotonia delle première della Scala, strumento d'immagine, un genio creativo che accantoni i Fontana per promuovere i Cage. Ciascuno per la sua strada, ma con tutta la musica nella propria valigia in modo da evitare che il territorio della ex-Musica si trasformi in un'area di guerra, il cui dominio non sarebbe di vantaggio a nessuno. Come Steve Lacy bisogna sapersi dire che "la musica procede", che "prepararsi significa suonare tutto dei classici e dei moderni, ciò che piace e quello che sembrerebbe non dir nulla, significa andare con curiosità nei diversi ambiti stilistici della musica, non limitarsi a un genere, ma muoversi contemporaneamente in molte direzioni. Per diventare un buon musicista è necessario accumulare esperienze, possedere quanto più si può dell'universo musicale e, soprattutto da giovani, non ci si deve fossilizzare in uno stile, per quanto affascinanti e coinvolgenti siano le figure artistiche che l'hanno espresso". Da materialista dotato di forte senso logico Lacy insegna ad apprezzare le strutture, i limiti, le leggi: "La libertà dice - non sta nell'assenza di norme, ma in una loro tale moltiplicazione che permetta d i ampliare le possibilità d'azione proprio per la ricchezza del sistema che diviene disponibile". Dove andrà nel prossimo domani la musica? La centralità agonizza, ma l'alternativa non si delinea. Anche il sapere si frantuma in una miriade di competenze tecnologiche. Le tradizioni non servono e affidarvisi significa indossare la camicia nera. Il futuro avviene e opera marcando sempre più la distanza tra quanti acquisiscono i nuovi strumenti che giungono a disposizione e quanto sono solo spettatori, consumatori di prodotti. Contro lo stabilirsi di questa distanza bisogna operare perché la musica socialmente si giustifica solo di fronte agli spettatori.

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Giampiero Cane

The center is rotten, the periphery in pieces Jerico is surrounded but we’re clean out of trumpeters The Symphony was German, Opera Italian/French, and the Song? let's say Neapolitan, Jazz from the States, Operetta Viennese/French. The rest was folklore, unimportant stuff, exotic/local ways of conceiving music in general, and sometimes only in terms of sound, one case, one area at a time. Grieg, Wagner, Berlin, the Hot Club de France, Herbert and others have broken the framework. This type of territorial division is no longer valid, nor will it ever be again. Everything belongs to everyone and who started through imitation, also added his/her own personal originality. And so things have changed. In a sense, having changed they have also died, or they have become seriously ill. Rule was once determined by a certain centrality, since replaced by a more complex one, lacking decisive sources, founded on an authoritativeness obtained by groups/voices from all the outlying or 'peripheral' regions. Institutions and the public are divided at this point. On one hand, there are those who want the old institutions to continue following the notion of centrality in the expressive forms they feel responsible for preserving, and it is they who hold the better part of the purse string's basic to the survival of music. On the other, we have the inquisitive ones, the cultivators of the "peripherization" of the world, the ones who support variety in the face of uniformity. From a theoretical point of view there is no solution to the conflict that is cut up into many contrasting factions internal to the individual genres wherein to each its openness to ideas and musical competence are defined. Italian National Television, for example, still believes that the word music means popular songs, to the Enti lirico sinfonici (Italy's Opera houses) it means Beethoven-Verdi and everything that surrounds them, to the better-funded jazz festivals and the jazz club scene, 102


for whatever it's worth, it means a bebop revival. A centralistic vision and one that is protective of the center creates the outlying areas, the 'periphery', where unrest, bad tempers, and protest take root. A center that does not work politically to fight against this will be faced with growing unrest, perhaps even violence. Our centers of power are very reactionary, even willing to palm off "fakes" rather than deal with the problem of contemporaneity. This was made evident by the recent incident in Venice, for example, where our Fenice was destroyed and which many would like to see rebuilt the exact way it was before it burned down, or in any event, they support an historical remake and refuse to admit that in this manner they are palming off a "fake" to all humanity. Our centers of power are very reactionary, as was said: they believe that the symbolic presence of one of the "outlying" or peripheral forms of music, on the one hand, proves interest and openness. On the other, the return to a management of habit would be determined and desired by public demand; in fact it would be a confirmation of the supremacy of the centrality of the genre and, of the favorites within each genre. This would seem to make sense, but it doesn't. We are not talking about the public, but of a public, a public that has been educated but that is unable today to repropose the idea of education, because this would also mean its own re-education, and that it is therefore idealistically certain that value, quality, and beauty belong to those things it loves to see achieved in the unchanging singularity that makes up the wh ole. Among other things, the center's self-defense and its refusal to admit the absolute necessity of reforming how the relationship between institutions and the members of society is being managed today have produced those phenomena we all know so well: the over assessment and self-isolation of localistic ideologies. Not only do we not have the liberty to travel between different types of 103


music, we haven't even the more important freedom of traveling within the territory. Often, we don't even know if we'll be allowed to leave the city and even less so if permission will be granted to enter the city of destination. Services for which our country gathers funds cater to local residents. A perverse system of pre-emption does not only allow, it favors the same people and gives them access to what we should call a service. This is the case of Italy's opera houses and of the logic behind season-tickets. We are dealing with a closed system today: it's an asylum. The present-day scattered and minority world of musical culture is not able to find the tools, above all intellectual ones, with which to oppose the dominion of a minority (so much a minority that it must continuously complain about the indifference with which it is treated by the overall political system). It should be the greater institutions, that have already created an image in the mind's eye of the public and are therefore "visible" to most people, to assume the leadership of the movement asking the government to intervene appropriately in answer to the needs of musical culture; but as the manifestations that they are of the misery of local politics even though they have means, these institutions are incapable of expressing themselves on a political level no matter how minor. The same routine has been going on for years. Therefore, all must fend for themselves as best they can, stealing a bit off the plate of the omnivorous melodrama in order to garner all the public nourishment they can get. But starvation - and the ill state of health to which it leads - often win over the best of intentions. Tired of a life as jazz players or improvisors an attempt is made at composition. The theoretical novelty (?) of modalism is seen as a cure-all. The poor remains of isolation and backwardness that take shape in the form of folk music are transformed from not useless objects of memory into matter that is timely, that is a living ex pression of a seldom possessed alterity. 104


Perhaps because the outer fringes are undernourished, the deceptive ideologies appear appetizing. It would be advisable to know how to avoid deception, to improve one's capacity in understanding what has value, such as our standards of taste, and as they change in time. On the one hand, avoiding the temptation offered by eternity, but on the other, not withdrawing into the safety of village culture: beco ming better, garnering more knowledge to counter the monotony of opening night at the Scala, an instrument of created images, a creative genius that sets Fontana aside in order to promote the John Cages. Each on his own way, but with all of music packed into his suitcase in order to avoid that the land of former Music is transformed into a battleground; a sorry lot for us all. As is clear to Steve Lacy, we must believe that "music goes first", that "being well-prepared means playing the classics and modern pieces, (people love music without meaning), it means being curious and exploring all styles of music, it means not limiting oneself to a single genre, but to move about simultaneously in all directions. In order to become a good musician one must have accumulated much experience, to possess as much as one can of the universe of music, and, especially while still young, a good musician must not become petrified in one musical style, no matter how fascinating and attractive the artists that expressed that style are." As a materialist endowed with a strong logical sense, Lacy teaches us to appreciate the confines, the limits, the rules: "Freedom - he says - does not lie in the absence of rules, but rather in such a great variety of them that the possibilities of action may become enormous precisely because of the richness of the system that has been made available." Which direction will music take in the near future? Centrality is dying, but no alternative has taken shape. Even knowledge is being broken up into a myriad of technological skills. Tradition serves no end and to count 105


on it is like accepting a return to Fascism. The future takes place and acts accentuating the distance more and more between those who learn to use the new tools that are made available and those who remain spectators, consumers of goods. We must work to prevent the creation of this distance for the essential reason that music is socially justified only with respect to its audience. traduzione Adriana Gandolfi

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Giordano Montecchi

Il trionfo della musica ovvero Il tronfio della musica (apologo interattivo in un prologo, un riassunto e due finali a scelta) ‘All those moments will be lost in time, like tears in the rain’ Roy Batty (N6MAA10816) Prologo Forse la ricorderanno come l'epoca in cui le cose si scrollavano di dosso i nomi, gli anni in cui si consuma una lotta aspra: da un lato un mondo che imponeva un lessico univoco e assoluto; dall'altro coloro per i quali invece i nomi, quei vecchi e rassicuranti nomi da usare per le cose e per le idee, si corrodevano, ormai inservibili, eppure così maledettamente difficili da rimpiazzare con nomi nuovi. Adesso, se dico ‘musica’ rivolgendomi a un destinatario generico, è un casino. Se invece parlo con Angelica so che se dico ‘musica’, dico qualcosa che sta dalle parti di Zorn o di Goebbels o fra le mani di qualche sconosciuto [la chiameremo Musica B] e sta invece a leghe di distanza da Pavarotti o Al Bano [Musica A]. In pochi, o forse molti, siamo convinti che l'arte e la Musica B abbiano una natura conflittuale nei confronti dell'ordine costituito, del senso comune, della norma. C'è, insomma - c'è sempre stato - un pensiero che si annida sotterraneo nel circuito B che è fuorilegge, sovversivo rispetto a un establishment congenitamente normalizzatore. Qualche generazione fa ci si sentiva oppressi dal Sistema, con la sua strategia, la pianificazione, il controllo delle coscienze. Per tanti anni è stato questo il vero feticcio del catastrofismo di Francoforte e di tanta critica derivata. Oggi invece non c'è più bisogno di nessun Big Brother, la quotidianità è qualcosa di molto più concreto, immediato e, in fondo, deludente. Si chiama grettezza, calcolo interessato nel dare le risorse, gli spazi, il credito di cui ogni attività artistica necessita; si chiama sordità, indifferenza ai 107


contenuti, agli stimoli innovatori; si chiama, soprattutto, occhio allenato a valutare unicamente l'input economico, di immagine, di demagogismo. Le attività B se vogliono l'aiuto dell'establishment devono, se non garantire, quantomeno lasciar balenare la prospettiva di una qualche forma di contraccambio vantaggioso. Non occorre nessun Central Scrutinizer che manipoli il consenso. Non serve, in quanto g li effetti di questo meccanismo random, così sordo e sfuggente non sono molto diversi: l'assolutamente casuale, in fisica come ovunque, coincide con l'assolutamente pianificato. E' noioso stare a ridire dell'handicap mostruoso che in Italia penalizza il circuito B e di come esso sia il frutto di un crepuscolo culturale che dura da tantissime lune e di un generalizzato costume politico di accaparramento e di utilizzo strumentale della cosa pubblica. Ne è risultato un perfetto meccanismo di concussione: io Potere passo a te, Artista, il tubo dell'aria, ti consento di vivere e magari prosperare a condizione che questo sostegno lasci presumere un guadagno per me. Non mi frega niente di ciò che tu fai, di cosa il tuo lavoro contiene o trasmette, si tratti di un'opera di valore o di una porcheria impresentabile. Trasgredisci, denuncia, violenta, non mi riguarda; l'importante è che alla fine io possa misurare, con i parametri dell'interfaccia A, un guadagno di prestigio e di consenso. Con ampie varianti locali è questa la dinamica cinica ma funzionale che regola il circuito B dello spettacolo, dell'arte e della cultura nella rete sterminata dei distretti urbani di mezzo pianeta. A uno degli incroci di questa rete, più precisamente a 44° 29' di latitudine Nord e 11° 20' di longitudine Est, è collocata Bologna, esattamente dove siamo noi, ora, col nostro carico di esperienze, sogni, disillusioni, soddisfazioni e incazzature, innamoramenti e rancori. Riassunto Late XX Century. Nell'ultimo terzo del XX secolo, il distretto Bo-N44E11 ha avuto una storia musicale di un certo rilievo. 108


Anni Settanta. Autunni caldi. Stadio, palasport. Concerti rock, festival jazz internazionali. Palasport sudato e pienissimo, studenti fricchettoni con lo spinello, commercialisti con la cravatta, fumatori passivi a migliaia, beati. Rituali frequenti, quasi abituali. Sale di quartiere: parallelepipedi, pareti bianche, neon, i manifesti del Comune, finestroni, pedana da trenta centimetri, pianoforte noleggiato, acustica da palestra, con pubblico inscatolato, insonorizzante quanto bastava. Musica gratis e concerti memorabili, in giro, Jean Luc Ponty suonava King Kong, Chick Corea con Antony Braxton e Dave Holland: lunedì in via San Donato, martedì alla Bolognina, mercoledì in via de' Foscherari, giovedì a Corticella, qualche volta al Teatro Comunale. Si era in molti, stretti, casino, temperatura, musica eccellente, musicisti sequestrati dai giovani appassionati, domande idiote e domande intelligenti. C'erano anche le cantine del jazz (forse ci sono ancora). Whisky, molta grana, elegantoni, belle fighe e belle macchine, ogni tanto qualche ospite famoso, jam sessions, hot jazz, al massimo be-bop, battere sempre il piedino. Città indimenticabile, curiosa e mobile, cafona e raffinata, ospitale e capitale, quantità e qualità, anche se la musica creativa era soprattutto importata. I progetti locali di avanguardia erano pochi, amatoriali, a denti stretti. Ambiente comunque stimolante. Molte onde nuove del rock peninsulare sono venute da questo distretto dove si concentravano un'università pilota, arti musica spettacolo, migliaia di cervelli giovani e irrequieti, esigenti e svaccati, fannulloni e inventivi. Chiusure e aperture, tentativi. Entusiasmi. Anni Ottanta. Riflusso. Spazi si chiudono, nessuno caccia più i soldi per cose che non fregano più niente a nessuno. Le occasioni e le idee si diradano mentre altri interessi si organizzano, si sviluppano: nascono i festival da ricchi. Commercianti e industriali si mettono in cordata e scoprono il nuovo status symbol: sponsorizzare la grande musica; si ritrovano a teatro, smoking, pellicce, la classica, il grande pianista, serate mondane, business. Il ricambio di generi e di pubblico è completo: via jazz, rock, avanguardie, dentro 109


Mozart e Chopin; fuori giovani e studenti, dentro cinquantenni e sessantenni, autorità civili e religiose. Dai concerti gratis, sudore e capelli lunghi, si passa ai club esclusivi per abbonati. E' l'ora della musica abbiente: miliardi, lobbie, macchine blu, carabinieri, tacchi a spillo, superlativi con l'erre moscia, un Ashkenazy a me un Uto Ughi a te, un Rostropovic a me un Pogorelich a te. Intanto piccoli locali arrancano, okkupazioni, spazi autogestiti, subcultura. Vi passano quantità di musiche creative; opportunità precoci, straordinarie ma ignorate. Damsterdamned. L'isola del cantiere. Ketty Do. Sentieri interrotti. L'improvvisa e costosa musicalizzazione della high class ha un prezzo e a pagarlo è proprio ciò che resta della musica B, che non fa mercato, che arretra a margine, nell'ombra, zoppicante, trash, sfigata. Biennale Giovani è il tentativo istituzionale di cavalcare l'onda. Maldestro. Respinto al mittente. Anni Novanta. Il vecchio tira sempre più forte, il nuovo e il diverso rantolano. Il sistema dei Festival si ramifica, cerca nuovi spazi, spreme la sua platea ben fornita e presenzialista. Tuttavia, al fondo del barile il meccanismo scricchiola: l'offer ta cresce, ma il pubblico no, al contrario. Concorrenza, polemiche, duelli feroci interni all'establishment. Dalla rete esterna arrivano segnali, altre avanguardie si affacciano. E anche nel distretto Bo-N44E11 il nuovo ritorna a spingere. Ma le porte sono molto più chiuse e avare di un tempo. Esperienze nuove, ancora autogestioni, luoghi inventati, okkupazioni, storie pese. Bestial Market, Morara, Livello 57, Link. Un possibile consenso alle musiche eterodosse si profila. Suoni dal mondo, Angelica. Qualche cosa decolla, nel palazzo qualche porta si apre. Per quanto precario, si riavvia un piccolo circuito fra istituzione, musica, innovazione, cultura, intelligenza. Finale A Early XXI Century Per Bologna l'anno 2000 rimarrà a lungo memorabile. Secondo certi commentatori dell'epoca la città fu addirittura in grado di competere con le grandiose celebrazioni 110


romane in occasione del concomitante e tanto discusso Anno Santo del nuovo millennio. La città, designata insieme ad altre come capitale europea della cultura, fu sede di una serie di iniziative prodotte in collaborazione con RAI, Fininvest e Paynet e con la consulenza di alcune delle più prestigiose agenzie di pubblicità. Piazza Maggiore ospitò il concerto d'addio (che poi non fu affatto tale) dei tr e tenori - Pavarotti, Domingo e Carreras - con la partecipazione di Michael Jackson. La trasmissione dello spettacolo in mondovisione superò ogni record d'ascolto e anche il relativo videolaser rimase per mesi ai vertici delle classifiche. Le sfilate dei maggiori stilisti di moda vennero quell'anno dirottate a Bologna e costituirono l'attrazione principale di un'edizione speciale di Bologna Sogna. Naomi Campbell, Claudia Schiffer e Carla Bruni, proclamate madrine della manifestazione furono le presentatrici d'eccezione di un grande trittico concertistico affidato a Claudio Abbado, James Levine e Riccardo Muti che si esibirono alla testa delle orchestre sinfoniche di Berlino, New York e Vienna. Anche il centenario della Tosca di Puccini venne celebrato a Bologna con uno straordinario allestimento a quat tro mani affidato a Franco Zeffirelli e Luca Ronconi. Con un progetto avveniristico e mai tentato prima l'opera, andata in scena al Teatro Comunale, venne proiettata in forma di ologramma sonoro nel cielo della città e fu visibile e udibile perfettamente da oltre dieci chilometri di distanza. Al Palareno di Casalecchio si tenne una ricca rassegna concertistica intitolata Musica 2000 pensata per avvic inare i giovani alla grande musica. Gli interpreti più famosi del concertismo internazionale si esibirono insieme alle star della musica pop e rock. La serata clou fu senza dubbio quella con la partecipazione di Madonna e di Uto Ughi con i Solisti Veneti. Memorabile fu anche il concerto di Winton Marsalis e Jessye Norman nel quale, in una gara di bravura, i due passarono disinvoltamente dal repertorio bar occo all'acid jazz. Fra le prime assolute presentate a 111


Musica 2000 si ricorda Philip Glass con la sua versione minimalista del celeberrimo Bolero di Ravel. Altra prima assoluta fu la nuova grande opera di Franco Battiato intitolata La Bibbia che ebbe come interpreti Pavarotti nel ruolo di Abramo e Mirella Freni in quello di Sara. Altri eventi musicali di spicco svoltisi in questo ricchissimo anno 2000 furono le finali di "Italia Oscar", il grande festival della canzone di Canale Cinque, vinto da Amore amore, cantata dal duo Gianni Morandi-Giorgia. Grande successo, soprattutto presso i turisti stranieri, riscosse infine la stagione estiva di danza classica Stelle marineGrandi eventi in Riviera la cui riuscita fu tuttavia in parte compromessa dalla massiccia ricomparsa di una maleodorante mucillagine in Adriatico. Alcune rassegne di musica alternativa si svolsero in spazi riservati, lontani dai centri abitati, ma nel novembre del 2000, durante uno dei tanti famigerati cyber-party, si verificarono violenti scontri fra forze dell'ordine e gruppi di Emarginati Organizzati che protestavano contro la pretesa ghettizzazione della creatività indipendente e contro il divieto di tenere in città spettacoli musicali non autorizzati. Fu il segnale del declino. Terminata la grande kermesse e venuto meno il richiamo dei grandi eventi spettacolari, gli anni successivi al 2000 furono caratterizzati da un forte ristagno dell'iniziativa culturale cittadina. L'incuria e il degrado ambientale resero temporaneamente inagibili alcune sedi tradizionali fra le quali il Teatro Comunale e la Sala Europa. Stagioni concertistiche e di musical si tennero per qualche tempo all'Arena del Sole, ma a causa dello scarso seguito di pubblico e del preoccupante aumento della criminalità nel centro cittadino, vennero soppresse. Bisognò aspettare una decina d'anni fino a quando il nuovo sindaco della città, Alba Parietti, con metodi molto discussi, ma indubbiamente efficaci, riuscì a riportare l'ordine in città, avviando così una ripresa che restituì a Bologna almeno in parte i l suo invidiato ruolo di elegante salotto musicale d'Italia. 112


Finale B Early XXI Century Fu verso l'anno 2000 che la situazione a Bo-N44E11 si modificò decisamente. Nei primi mesi del 1997, per una serie di ragioni che rimangono tuttora difficili da spiegare, intellettuali, organizzazioni studentesche e alcune associazioni culturali, riuscirono a far lievitare una fortissima pressione di opinione pubblica sull'amministrazione locale in vista dell'appuntamento co n l'anno 2000. Di fronte a questa inedita emergenza, accantonati i tradizionali meccanismi decisionali, venne istituita con severi criteri di trasparenza una Commissione Unificata per la Cultura formata da 43 membri scelti per la loro comprovata competenza e comprendente, oltre i rappresentanti dell'amministrazione, operatori culturali, studiosi, tecnici, docenti universitari. Articolata in diver si sottogruppi e adeguatamente finanziata, la commissione ebbe il suo momento forte proprio nel lavoro della sezione musica. Invece di puntare sullo star system e sul richiamo immediato dell'evento, com'era consuetudine predominante di quegli anni, con una scelta a dir poco rivoluzionaria, la commissione tradusse il proprio intervento nella realizzazione di un progetto di città-laboratorio dotata di strutture e infrastrutture, nella valorizzazione delle notevoli risorse umane del distretto e della potenziale ricettività della popolazione culturalmente più vivace. Conseguenza di questa strategia furono una serie di eventi spettacolari di spicco ed ebbero, com'è noto, il loro culmine nel 2003, con la prima edizione dell'IMF (Intercultural Music Forum, meglio conosciuto come Interforum). Fra le altre numerose rassegne musicali, mostre, convegni, workshop che richiamarono musicisti e studiosi da tutto il mondo, basti ricordare Quattromuse, il fortunato festival di musica preclassica e etnica; il già citato IMF; Jazz Ahead; Operantica e, ancora, i meeting plunderfonici di Nexus World. L'eco di tali iniziative fu molto forte, soprattutto sulla stampa estera, dove spesso si parlò di ‘rivoluzione culturale bolognese’. Di fatto nel giro di pochi anni Bo-N44E11 era diventa113


to un centro nevralgico della musica europea più progressiva. Fra le realizzazioni più rilevanti - favorite anche dalla decisa opera del ministro della cultura di allora, Umberto Eco, e dalla nuova legge sulla sponsorizzazione - vanno ricordate il triplo auditorium sotterraneo Marconi opera di Renzo Piano; i due innovativi blocchi MSC (music-studiocongress); il varo della rete Multilab; la grande la serteca intitolata a Diego Carpitella che, a pochi anni dall'inaugurazione, vantava - senza contare gli accessi telematici a Spidermusic NW - oltre cinque milioni di ore di documentazioni audio-video e, a corredo, circa 2700 gigabytes di testo, Screen-Scores inclusi. Fra le numerose iniziative per il rilancio delle strutture scolastiche pubbliche e dell'insegnamento musicale, particolarmente signifi cativa fu la fondazione dell'Istituto Superiore Distrettuale di Arti della Performance, una scuola al cui modello si ispirarono altri analoghi istituti aper ti dapprima a Torino, Stoccarda, Napoli, Vilnius e via via in molte altre città europee. Fra i tanti elogi che la stampa internazionale di allora rivolse all'esperienza bolognese, il commento più significativo fu forse quello di Suleyman J. Parker che sul "New York Times" scrisse: ‘Pochissimi di noi avevano avuto occasione di occuparsi di Bologna. Eppure, ciò che si è riusciti a realizzare in questo piccolo distretto europeo, ci dimostra che di qua dall'Oceano possiamo ancora imparare qualcosa’. E ancor oggi, a distanza di quasi un secolo, al recente congresso di Singapore, Hideo Kobayashi, ha indicato l'esperienza di Bo-N44E11 come modello anco ra attuale per l'ambizioso progetto Eurasian Culture Improvement. [Cliccare sul finale che interessa]

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Giordano Montecchi

The Elation of Music or The Inflation of Music (an interactive apologue within the prologue, a synopsis and the choice of two different endings) ‘All those moments will be lost in time, like tears in the rain‘ Roy Batty (N6MAA10816) Prologue Perhaps they'll remember it as the era in which things freed themselves of their names, the years in which a harsh battle was waged: on one side we had a world that imposed a unique and absolute lexicon; on the other those for whom the old and reassuring names for things and for ideas, were collapsing, no longer of use, and yet so damned difficult to replace with new names. Now, if I pronounce th e word "music" while referring to the general public, all hell breaks loose. However, when talking with Angelica, I know that the word "music" brings us within the vicinity of Zorn or Goebbels [heretofore referred to as Music B] and is light years away from Pavarotti or Al Bano [Music A]. Few, or perhaps many, of us are certain that at the core of art or of Music B abides a conflicting nature with regards the preordained order of things, common sense, respectability, mores. There exists - there has always existed - an underlying belief nesting in circuit B that lives outside the law, and that is subversive to the establishment's congenital tendency towards normalization. A few generations ago we felt oppressed by the System, with its strategy, planning, control of our consciences. For many years t his was the real fetish of Frankfurt's catastrophism and of much of the criticism that issued forth. Today, however, we no longer need a Big Brother, everyday life is more concrete, immediate and, in the end, disappointing. It is called pettiness, where interests are calculted in the allocation of resources, venues, and the 115


credit that every artistic endeavor deserves; it is called deafness, apathy towards content, towards innovative stimuli; above all, it is called a sharp eye able to rapidly and only assess the economic, demagogic input and the image created. If artistic endeavors B wish to have the establishment's support, they will have to, if not guarantee, at least allow that a ray of promise shines forth that the re will be some form of advantageous return of favors. There's no need of a Central Scrutinizer to control consensus. It is useless because the effects of this random device, so completely deaf and evasive, are not so terribly different: the totally random, in physics as in all things, coincides with the totally planned. It's too boring to reiterate the monstrous handicap that, in Italy, penalizes music circuit B or to speak of how it is the offspring of the cultural twilight that began two centuries ago and of the generalized political habit of forestalling and instrumentally using that which is public. What we have as a result today is an impeccable mechanism of misappropriation: I Power give you, Artist, a lifeline, I allow you to live and even prosper as long as this life support guarantees me a profit. I don't give a damn for what you do, what your work contains or communicates, be it a valuable work of art or an unpresentable piece of bullshit. Violate, denounce, rape, I could care less; what counts is that in the end I shall be able to measure, using the parameters of reference of interface A, an increase in prestige and consensus. These, with their many local variations, are the cynical yet functional dynamics that regulate circuit B in the performing arts, in art and in culture within the endless network of urban districts all over the globe. And one of the points of intersection in the network, to be exact the point found at 44Ëš 29' latitude North and 11Ëš 20' longitude East, the location of Bologna, exactly where we are now with our cargo of experiences, dreams, disillusions, satisfactions and frustrations, enamourments and lingering bad feelings. 116


Synopsis The Late XXth Century During the latter third of the XXth century, district BON44E11 has witnessed a rather important musical history. The Seventies. Warm autumns. Indoor and outdoor stadiums. Rock concerts, international jazz festivals. A crowded and sweaty indoor stadium, student freaks smoking joints, accountants wearing ties, thousands of passive smokers, blissful. Frequent rituals, nea ring habits. Communal halls: parallelepipeds, white walls, neon lights, City manifestos, tall windows, 30 centimeter daises, rented piano, acoustics worthy of a gym, with canned audiences, soundproofed to taste. Free music and unforgettable concerts, around town, Jean Luc Ponty plays King Kong, Chick Corea with Anthony Braxton and Dave Holland: Monday on Via San Donato, Tuesday in the B olognina, Wedne sday on Via de' Foscherari, Thursday in Corticella, and once in a while an evening at the Teatro Comunale. There were lots of us, packed tightly, bustle, heat, great music, musicians kidnapped by young music lovers, sometimes stupid and sometimes intelligent questions. Then of course there were the basements filled with jazz (perhaps they still exist). Whisky, lots of dough, sharp dressers, dolled-up cracks and beautiful cars, a famous guest artist now and again, jam sessions, hot jazz, bebop at best, and never-stoptapping time with your foot. An unforgettable city, inquisitive and mobile, boorish and refined, hospitable and the capital, quantity and quality, even though the creative music was mainly imported. Avant-garde local projects were few, amateurish, tight-lipped. And yet the environment was stimulating. Many new waves of our peninsular rock had found their origin in this district where you could find a condensation of a pilot university, artsy music performances, thousands of young and restless minds, demanding and slovenly, idle and inventive. Closings and openings, attempts. Enthusiasm. The Eighties. Reflux. Places close, no one continues to 117


chase down money for things that don't mean a fucking thing to anyone anymore. Opportunities and ideas peter out while other interests consolidate and develop: the rich-man's festival is born. Retailers and business men rope together and discover the new status symbol: sponsor grand music; they meet up again at the theatre, dinner jackets, fur coats, classical music, the great pianist, evenings in high society, business. The transformation of goods and of audience is complete: exeunt jazz, rock, avant-garde, and enter Mozart and Chopin; exeunt the young and students, and enter the fifty- and sixty-yearolds, public church officials. From free concerts, sweat and long hair, we've gone to private membership clubs. We've come to music for the haves: millions, lobbies, state cars, police, high-heeled shoes, superlatives sporting affected consonants, an Ashkenazy for me an Uto Ughi for you, a Rostropovich for me a Pogorelich for you. And in the meantime small locales plod along, 'okkupations' and autonomous initiatives, subculture. Quite a sum of creative music passes through these places; untimely opportunities, extraordinary but ignored. Damsterdamned. L'isola del cantiere. Ketty Do. Unbroken paths. The sudden and burdensome musicalization of the high class has a price and it's being paid by that which remains of music B, that which doesn't make the market, that which falls back towards the edges, into the shadows, limping, trash, losers. The Biennale Giovani is an institutional attempt to ride the wave. Clumsy. Returned to sender. The Nineties. The old is what attracts the most, the new and the different are gasping for breath. Music Festivals are taking on a different slant, looking for new spaces, squeezing their well-supplied and attending audiences. And yet, at the bottom of the barrel, the gears are creaking: the supply is growing, but not the public, on the contrary. Competition, controversies, cruel duels with the establishment. Signals are coming in from the external network, other avant-gardes are emerging. And even 118


in district Bo-N44E11 what's new is starting to push in tighter. But the doors are shut much more tightly and more stingily than before. New experiences, autonomous initiatives, improvised sites, okkupations, heavy-duty stories from real life. Bestial Market, Morara, Livello 57, Link. A hopeful consensus for heterodox music is forming. Suoni dal mondo, Angelica. Something is starting to take off, now and then a door is opening. However uncertain, a small circuit is starting up again among institutions, music, innovations, culture, intelligence. Ending A The Early XXIst Century For Bologna, the year 2000 will remain a memorable one for a long time to come. Some commentators claim that the city was even able to compete with the grandiose Roman celebrations to honor the concomitant and highly discussed Holy Year of the new century. The city, designated along with others as the European capital of culture, hosted a series of initiatives co-sponsored by Italian National Television networks (R AI), Fininvest, and Paynet together with some of the most prestigious advertising consulting agencies. Piazza Maggiore, the main square, hosted a farewell concert (which it wasn't) to the three tenors - Pavarotti, Domingo, and Carreras - with a special appearance by Michael Jackson. The show was aired to the largest worldwide audience ever and the videolaser of the broadcast was on the top-ten list for months. Fashion shows of some of the top stylists were re-routed to Bologna that year and were the main attraction of a special edition of Bologna Sogna. Naomi Campbell, Claudia Schiffer, and Carla Bruni, the 'godmothers' of the show were the special guest hosts of a grand concert triptic entrusted to Claudio Abbado, James Levine, and Riccardo Muti who conducted the Berlin, New York, and Vienna Philharmonic Orchestras respectively. Franco Zeffirelli and Luca Ronconi joined forces to create 119


an extraordinary staging for the centennial of Puccini's Tosca celebrated in Bologna. A never-attempted-before, futurist holographic sound projection live from the stage of the Teatro Comunale, visible and audible over a range of ten kilometres, was launched into the sky over the city. The Palareno of Casalecchio hosted a rich ensemble of concerts called Musica 2000 created to attract young people to classical music. World-famous international concert artists played side by side with pop and rock stars. The highlight of the series was without a doubt the night hosting Madonna, and Uto Ughi with the Solisti Veneti. The concert featuring Winton Marsalis and Jessye Norman was also memorable for its battle of bravura in which the two artists traveled effortlessly between baroque repertory and acid jazz. Fo r the first time ever, Musica 2000 presented Philip Glass who performed his minimalist version of Ravel's renown Bolero. Another first-ever was Franco Battiato's new grand opera entitled The Bible with Pavarotti in the role of Abraham and Mirella Freni singing Sarah. Other notable events that took place that so very plentiful year were the finals of "Italia Oscar," the grand song festival of Channel Five; Amore amore sung by Gianni Morandi-Giorgia took first place. A big hit, especially among the foreign visitors, was the ballet's summer season program, Stelle marineGrandi eventi in Riviera (Starfish-Great Happenings on the Riviera) whose success was partially marred by the reappearance of large quantities of malodorous seaweed in the Adriatic. Some alternative music reviews were held in quiet places out side of the city; however sad to remember, a few incidents took place in November of the year 2000 during one of the many notorious cyber parties where there were violent clashes between the police and various groups of the Alienated Peoples Movement who were protesting against the alleged ghettoizing of autonomous creativity and against prohibiting unauthorized musical performances to take place within the city walls. 120


This event marked the beginning of the end. The kirmess having ended and the lack of enthusiasm for the pageantry of shows exhibited, the years following the turn of the century were characterized by an almost complete stagnation of cultural initiatives on the part of the city's denizens. Lack of upkeep and environmental decay temporarily placed Bologna's two traditional theatres, the Teatro Comunale a nd the Sala Europa, off limits. The concert and musical seasons were hosted for a few years by the Arena del Sole, but a low affluence and rising crime in the center of town caused the cancellation of these performances. About ten years had to pass until the city's newly elected mayor, Alba Parietti, albeit thanks to much debated, extremely effective and persuasive methods, managed to bring order to the city, thus allowing for a 'revival' that gave Bologna back, at least in part, its much envied role as Italy's elegant music drawing-room. Ending B The Early XXIst Century Towards the end of the year 2000, the situation in BON44E11 changed drastically. During the first few months of 1997, for a host of reasons that are still rather difficult to explain, intellectuals, student organizations, and a few cul tural associations managed to foment public opinion to put pressure on the local authorities regarding the coming appointment with the year 2000. In order to meet the demands of unprecedented public pressure, a 43- member Unified Committee on Culture was instituted based on the standards of utmost transparency; the members made up of public administrators, cultural representatives, scholars, experts, and university professors were chosen for their long-established records of competency. Divided into many smaller task forces and amply funded, the committee had a chance to excel in its work in the field of music. Instead of counting on the star system and on immediate public interest in the 121


event, as was the norm in preceding years, a revolutionary (to say the least) decision was made; the committee designed and set up a project turning the city into a workshop and supplying it with facilities and infrastructures necessary to the positive exploitation of the district's important human resources and of potential receptivenes on the part of the city's culturally more alert populatio n. This strategy produced a series of spectacular and notable events that reached, as is well-known, their peak in the year 2003, with the first edition of IMF Intercultural Music Forum, better known as Interforum). Among the other music reviews, exhibitions, conventions, workshops that attracted musicians and scholars from around the world, suffice it to mention Quattromuse, the successful festival fe aturing preclassical and ethnic music; IMF mentioned earlier; Jazz Ahead; Operantica and, again the plunderphonic meetings of Nexus World. The echo of these events was very potent, with strong waves reaching the foreign press, often quoted as referring to "Bologna's cultural revolution." In fact within a few years, Bo-N44E11 had become a strategic center of Europe's most advanced music scene. Among the most important accomplishments, also favored thanks to input on the part of the then Minister of Culture, Umberto Eco, and to a new law on sponsorship - we'd like to remember the triple underground auditorium Marconi designed by Renzo Piano; the two innovative complexes - MSC (Music-Studio-Congress); the launching of the network Multilab; the large Diego Carpitella video library that, only a few years following its inauguration, boasted - not counting telematic access to Spidermusic NW - over five million hours of audio-video documentation and approximately 2700 gigabytes of text, including Screen Scores. Among the many initiatives for the improvement of public schools and the teaching of music therein, it is important to mention the founding of the Istituto Superiore Distrettuale di Arti della Performance, a school that has inspired other institutions in famous European 122


cities starting with Torino, Stoccard, Naples, Vilnius, and subsequently in many others. Among the many praises of the international press regarding Bologna's experience, the most relevant comment was made by Suleyman J. Parker for the New York Times: "Not many of us had a chance to concern ourselves with Bologna. However, what was achieved in this tiny European district proves that the Old World can still teach us a few things." And even now, almost a century later, at the recent congress held in Singapore, Hideo Kobayashi proposed the Bo-N44E11 experience as a still valid model for the ambitious project called Eurasian Culture Improvement [Click on the ending of your choice] traduzione Adriana Gandolfi

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prima edizione Bologna, 5-9 giugno 1991

Mary Iqaluk, Nellie Echaluk Giochi Vocali Inuit (Canada) Joseph Racaille, Daniel Laloux (Francia) Quartetto Vocale Giovanna Marini (Italia) Tom Cora (Stati Uniti) Caterine Jauniaux (Francia) Shelley Hirsch, David Weinstein (Stati Uniti) Lol Coxhill The Inimitable (Gran Bretagna) Carles Santos (Spagna) Phil Minton, Veryan Weston (Gran Bretagna) Ernst Reijseger (Olanda) Laboratorio Musica & Immagine (Italia) Mike Westbrook Orchestra "Big Band Rossini" (Gran Bretagna)

seconda edizione Bologna, 27 maggio - 4 giugno 1992 Popoli Dalpane Ensemble (Italia) Looping Home Orchestra (Svezia) Lindsay Cooper e l'Orchestra del Teatro Comunale di Bologna (Gran Bretagna/Italia) Stefano Scodanibbio (Italia) Gianni Gebbia, Fred Frith, Lindsay Cooper, Lars Hollmer (Svezia) Gruppo Ocarinistico Budriese, Que de la gueule (Francia) Workshop e Concerto diretto da Fred Frith (Italia / Gran Bretagna)


e

-18 maggio 19

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Bologna, 13

Riciclo delle Quinte ospite Wolter Wierbos (Italia/Olanda) All Dax(ophone) Band (Germania) Dietmar Diesner (Germania) Peter Kowald (Germania) Wolter Wierbos (Olanda) Butch Morris (Stati Uniti) Steve Beresford (Gran Bretagna) Hans Reichel (Germania) Tom Cora (Stati Uniti) Han Bennink (Olanda) Butch Morris Conduction 31 dirige: Hans Reichel, Dietmar Diesner, Wolter Wierbos, Han Bennink, Steve Beresford, (Inghilterra/Scozia/Russia Peter Kowald, Tom Cora, The Goose ) Vibraslaps (Belgio/Giappone) Workshop e Concerto diretto da Butch Morris (Italia/Stati Uniti)

Conduction 32 con l'ensemble Eva Kant


Ferdinand Richard Arminius (Francia/Cecoslovacchia/Germania/Giappone) Paolo Grandi Le Terre Silenziose ospite Ouassini Jamal (Italia/Marocco) Guy Klucevsek (Stati Uniti) Stefano Scodanibbio, Rohan de Saram (Italia/India) Say No More (Stati Uniti/Inghilterra) Bob Ostertag (Stati Uniti) Holly Small, Bill Coleman, Laurence Lemieux, John Oswald (Canada) Ain't Nothin' But A Polka Band Polka From The Fringe (Stati Uniti) Fred Frith, John Zorn, John Oswald, Bob Ostertag, Mark Dresser, Phil Minton, Gerry Hemingway (Stati Uniti/Canada/Inghilterra) Stephen Drury (Stati Uniti) esegue Carny di John Zorn Ecoensemble (Italia) diretto da Franco Sebastiani esegue Angelus Novus di John Zorn Orchestra del Teatro Comunale di Bologna diretta da Stephen Drury esegue For Your Eyes Only di John Zorn Stefano Scodanibbio esegue Endurance di Fred Frith Ensemble da "Band Is Woman" (Italia) diretto da Franco Sebastiani esegue Acupuncture di John Oswald, Orchestra del Teatro Comunale di Bologna esegue Orchestral Tuning Arrangement di John Oswald e Linda Catlin Smith (Canada) Orchestra del Teatro Comunale di Bologna diretta da Franco Sebastiani esegue Camelot di Claudio Scannavini (Italia) Ensemble EVA KANT esegue Pacifica di e diretto da Fred Frith (Italia/Inghilterra)

quarta edizione Bologna, 24-29 maggio 1994


qiunta edizione Bologna, 2-7 maggio 1995

Jon Rose, Otomo Yoshihide Budget Shopping (Australia / Giappone) N.O.R.M.A. ospiti Chris Cutler, Phil Minton (Italia / Inghilterra) Oban Sax Quartet (Italia) Lol Coxhill Before My Time (Inghilterra) Phil Minton, Veryan Weston Ways Past (Inghilterra) Maarten Altena Ensemble Songs & Colours (Olanda) Rova (Stati Uniti) Specchio Ensemble (Italia) Heiner Goebbels Die Befreiung des Prometheus (Germania / Stati Uniti) Suite f端r Sampler und grosses Orchester di Heiner Goebbels, Orchestra del Teatro Comunale di Bologna diretta da Peter Rundel (Italia / Germania) Impro Notte con Bruce Ackley, Steve Adams, Steve Beresford, Domenico Caliri, Mike Cooper, Lol Coxhill, Chris Cutler, Giorgio Fabbri Casadei, Edoardo Marraffa, Luigi Mosso, Larry Ochs, Jon Raskin, Jon Rose, Pat Thomas, Roger Turner, Otomo Yoshihide, Vincenzo Vasi, Stefano Zorzanello (Inghilterra / Stati Uniti / Italia / Giappone / Australia)



AngelicA Direzione Mario Zanzani Direzione artistica e organizzativa Massimo Simonini Segreteria organizzativa Maria Caterina Casadei, Monica Garuti Ufficio stampa Silvia Fanti Documentazione fotografica Gianni Gosdan, Massimo Golfieri Documentazione sonora Roberto Monari Tecnici del suono Dino Carli, Massimo Carli, Enrico Dall'Oca, Roberto Monari, Marco Selvatici (BH Servizi Audio) CIMES Direzione Mario Baroni Coordinamento Emma Dolza Pierrot Lunaire Presidenza Mario Zanzani

hanno collaborato Mario Baroni, Giampiero Cane, Libero Farnè, Claudio Lanteri, Giordano Montecchi, Huub van Riel, Kevin Whitehead si ringraziano Alberto Corazza, Chris Cutler, Franco Fabbri, Mauro Felicori, Adriana Gandolfi, Daniele Gasparinetti, Yvonne Harder, Gaetano La Rosa, Jackie Leeder, Rita Mengoli, Francesca Patella, Giulio Santagata

immagine di copertina “Ritratto di uomo con il colbacco (detto Sobieski?)” Rembrandt Piercing Art: Golfieri

immagine e grafica muschi&licheni

stampa TipoColor, Castelmaggiore (BO)



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