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PILOTI Quella strana annata
Quella strana annata
Di Daniele Veronelli
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Essendo la prima volta che mi ritrovo a scrivere in questo periodico, mi pare doverosa una piccola presentazione. Mi chiamo Daniele Veronelli e sono un comandante di Airbus 320. Lavoro in questo settore da dodici anni, sono stato basato all’estero per diverso tempo e attualmente lavoro dall’aeroporto di Milano Malpensa. La compagnia per cui lavoro è tra i principali vettori europei e ha una forte presenza sul mercato italiano.
Mi è stato chiesto di condividere con voi, lettori, il punto di vista di chi sta al di là dello schermo della sala radar, del vetro della torre di controllo. Ho deciso di farlo parlandovi di questo 2020 che, al netto della tragicità degli eventi da cui noi tutti siamo stati toccati, definirei “un’annata strana”. Strana perché ha visto concentrarsi una serie di situazioni fuori dall’ordinario. Strana perché ci ha costretti a uscire come mai prima dalla nostra comfort zone. Strana perché ciò che l’ha caratterizzata non sappiamo ancora, in realtà, quanto durerà e cosa ci lascerà.
Automatismi
Mi sono sempre considerato, come diceva Jovanotti negli anni ‘80, un “ragazzo fortunato”. Faccio il lavoro che amo e che desideravo fare sin da piccolo. Sono potuto entrare nel mondo dell’aviazione saltando quella parte di gavetta che ha visto molti colleghi passare da istruttore nella scuola di volo a pilota di turboprop fantozziani, di business jet pirateschi con reperibilità 24/7, di compagnia charter sfigata (quella, in realtà, un pochino l’ho fatta). Poi ci sono gli ex militari, ma quella è un’altra storia. Una combinazione di spalle coperte, lungimiranza, studio (e culo) mi ha portato quasi subito a lavorare per una compagnia in espansione, ben gestita, con una flotta giovane e solide procedure operative. Le operazioni di una compagnia low fare presentano il rischio di plasmarti a loro immagine e somiglianza, soprattutto se non si è visto molto altro prima. Cresci preciso, efficiente, instancabile, ma anche con poca fantasia. Il tutto avviene in maniera talmente pianificata da lasciare poco spazio allo sviluppo di quell’elasticità mentale che un’esperienza più variegata potrebbe offrire. Intendiamoci: la cosa è risaputa e l’addestramento moderno è totalmente orientato all’acquisizione di pochi skill fondamentali che consentano di affrontare un numero infinito di situazioni. Nonostante l’addestramento, un anno come questo – con un continuo susseguirsi di situazioni nuove e non standard – mi ha messo duramente alla prova.

Tutto si ferma
Ai primi dell’anno guardavo con un misto di curiosità e tristezza alla richiesta dei colleghi cinesi che, tramite la nostra federazione internazionale, chiedevano mascherine. Poi è arrivato il caso di Codogno, ma non la consapevolezza di quanto sarebbe accaduto. Poi i no show (biglietti venduti il cui passeggero non si presenta), sempre di più e con la frase “vabbè, tanto han pagato” detta con sempre meno convinzione. L’ansia dei familiari ha iniziato a farsi sempre maggiore e ogni uscita di casa un po’ più faticosa. Poi le cancellazioni e il fermo. I giorni, le settimane, i mesi. Gli aerei spostati su pochi aeroporti chiave per ottimizzarne la manutenzione con scenari degni del deserto del Mojave. Due mesi abbondanti chiusi in casa, a trovare una nuova routine, a sopportarsi, a litigare per chi scende a buttare la spazzatura. A maggio riapre il simulatore. Il check semestrale, di norma un evento che semina una discreta ansia e preoccupazione, si trasforma in un’occasione quasi festosa e pervasa dalla gioia di uscire di casa e vedere un po’ di facce diverse.
Pian piano si riprende
Iniziano, poi, a esserci i voli officina: gli aerei sono parcheggiati da un po’ e devono sgranchirsi! Più o meno una volta al mese bisogna accendere l’aeroplano, decollare, farsi dare un vettore per l’ILS e atterrare: questo al fine di garantire che l’aereo sia pronto a rientrare in servizio con il minimo del preavviso. Si va in aeroporto e si fanno due o tre di questi voli… niente passeggeri. Non si tocca l’aereo vero da un po’ e si riprende a farlo in una modalità insolita: capita, alcune volte all’anno, di posizionare aerei vuoti in giro per il network, ma non certo di fare voli di dieci minuti passando da un aereo all’altro. Qualche aereo resta miseramente al parcheggio con le batterie scariche, qualche atterraggio è un po’ più duro del solito, qualcuno riattacca. Riprendere i consueti ritmi è dura, anche perché di ritmi non si può davvero parlare… Questi voli sono infatti piuttosto rari e non consentono mai di riattivare pienamente tutti quegli automatismi che aiutano enormemente nella vita operativa di tutti i giorni. Sono sicuro sia così anche per gli ATCO: una parte del cervello pensa consapevolmente a come gestire la situazione, una parte copre i compiti di routine in modo automatico.

Tensioni dentro e fuori il flight deck
Quando, finalmente, riprendono i voli regolari il mondo è cambiato: mascherine, gel e distanziamento fanno ora parte delle nostre vite. Gli equipaggi, e i passeggeri, affrontano nuovi dubbi e paure. La compagnia decide, dopo un’attenta valutazione del rischio, che in flight deck (come amano chiamarlo da queste parti) non si indosserà la mascherina: questa causerebbe difficoltà con la maschera dell’ossigeno in caso di fumo o depressurizzazione. L’aria dell’aereo passa da filtri molto efficaci e sul 320 una certa distanza tra i piloti è presente. Anche i passeggeri si ritrovano ad aver a che fare con questo nuovo mondo e questo, sommato allo stress da lockdown, causa una bella impennata delle discussioni a bordo. C’è quello che non vuole indossare la mascherina o la indossa male, quello che gli si scaglia contro sfogando la rabbia repressa durante mesi di isolamento… tante situazioni di non facile gestione, che aggiungono altro stress a quello già connaturato a una ripresa dopo tanto tempo di inattività. In questo marasma è, però, anche tantissima la gioia di rivedere l’Italia dall’alto, da dove i problemi sembrano un po’ più piccoli, accompagnati dalle voci amiche dei controllori.
I ritmi ideali
Arriva il caldo e con lui il virus pare attenuarsi. I passeggeri prendono fiducia e i numeri (quelli giusti) risalgono, pur restando anni luce da quelli dell’anno precedente. Si cerca di distribuire il lavoro in modo tale da garantire operazioni senza intoppi e questo porta a ritmi di lavoro assolutamente anomali (in bene) per l’estate italiana. In un’annata normale si sarebbero fatti blocchi di cinque giornate consecutive di volo, prevalentemente da quattro settori l’una, condite da ritardi di varia natura, slot, mancanza di margine per recuperare. Questo 2020 ha invece visto giornate per lo più da due settori, molte riserve non chiamate, tanto tempo tra un volo e l’altro utile a recuperare gli eventuali – pochi - ritardi. “Fosse sempre così…” dico al collega, “… saremmo disoccupati!” mi risponde lui saggiamente. Godiamoci il frangente.

Ci si ferma di nuovo
In qualche modo ci speravamo tutti. Speravamo che la seconda ondata non sarebbe arrivata, oppure sì, ci sarebbe stata, ma contenuta. Che in fondo i francesi e gli spagnoli l’avevano presa sotto gamba e noi invece… Poi i contagi sono passati dalle centinaia alle migliaia ed è stato chiaro che c’eravamo dentro anche noi. Fortunatamente, rispetto al primo giro, non tutto è uguale. Anche se la maggior parte delle attività
sono sospese, alcuni voli vengono ancora operati e questo consente di mantenere i piloti attivi. Volando a rotazione, riusciamo a fare i tre decolli e tre atterraggi nei novanta giorni, limite legale per non dover ricorrere a ore extra di simulatore. Anche il centro addestramento è rimasto aperto e i simulatori attivi, ma i problemi per posizionarvi i piloti sono enormi, data la penuria di voli. Si cercano le soluzioni più creative, con vari scali o mezzi alternativi. Quando questo non è possibile si organizzano voli ad hoc con aerei della compagnia per spostare i piloti: ovviamente far volare un Airbus con dieci persone a bordo (neppure paganti!) è un bel costo, ma non avere piloti operativi quando il mercato lo richiederà sarebbe un costo ancora maggiore. Anche fuori dal lavoro non è dura come a marzo, nonostante le varie gamme cromatiche regionali e l’incertezza totale su cosa si potrà o non si potrà fare l’indomani, ma la voglia di vedere il mondo da lassù, dove i problemi sembrano più piccoli, non mi molla! Spero di risentire presto le vostre voci gracchiare dalla radio e tornare a stressarvi con la CPDLC! A presto cari amici!