Writers speciale natale 2016

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Rivista on line del gruppo “IL MONDO IN UN BLOG”

Illustrazione originale di Mariagrazia Catenacci

Numero speciale – Natale 2016

“...perchè a Natale siamo tutti più buoni , anche coi lupi più feroci della nostra vita”


In questo numero: 2 .......... Editoriale

4 ......... “La messa di Natale ” di Carlo Galli 6 …....... “Auguri de Natale” di Andrea Mazzolini 7 …....... “Fuori scende la neve” di Eufemia Griffo 9 …....... “Gli amiconi” di Antonella Fortuna 13 …..... “Serafino preposto al coraggio” di Pietro Pancamo 15 …..... “Nella memoria” di Eufemia Griffo 16 …..... “Notte di Natale” di Armando Cambi 23 ….... “Ice Queen” di Eufemia Griffo 24 ….... “Il quarto fantasma” di Serena Pisaneschi 32 ….... “Guardando il Natale” di Marta Vitali 34 ……. “Caro Babbo Natale” di Eleonora de Berardinis 35 ……. “Natale” di Anna Giulia Alfonzo 39 ……. “Il Re d’inverno” di Eufemia Griffo 40 ……. “Il Natale di Alice” di Brilli Elena

43 ……... La redazione di questo numero

Nota sull'uso delle immagini: Tutte le immagini riprodotte nella presente pubblicazione sono prese da internet e, per quanto è dato conoscere, non coperte da copyright.

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Editoriale E così eccoci qua... Arriva Natale e noi, ancora una volta, abbiamo voluto fare gli auguri a tutti voi, vecchi e nuovi lettori, nell'unico modo che ci è venuto in mente per abbracciarvi tutti in una volta, e cioè scrivendo. Se questo sia il modo migliore che avessimo a disposizione è dato a voi deciderlo, di sicuro noi lo abbiamo fatto nel modo che più ci piace. Quindi quello che vi accingete a leggere è un numero speciale con i racconti e le poesie che alcuni dei redattori di Writers e tanti nuovi collaboratori, che ci auguriamo restino a bordo del nostro progetto anche per i prossimi numeri, hanno deciso di scrivere per augurarvi Buon Natale e un felice 2017. Troverete e riconoscerete nomi, prose e versi che già conoscete e avete letto nei precedenti numeri della rivista, e tanti contributi, pensieri e stili nuovi ed eterogenei, di chi ha trovato nel nostro progetto uno spunto per mettere nero su bianco i propri personalissimi pensieri, emozioni, ricordi legati al Natale. Il tutto incorniciato dalla vignetta originale in copertina, ad opera della nostra Mariagrazia Catenacci. A noi è piaciuta molto l’idea di augurarvi un sereno Natale scrivendo dei racconti per voi, perché in fondo Writers è tanto simile ad un sogno da potersi quasi confondere con essi, in quel luogo indefinito dove albergano i desideri più reconditi di questo gruppo di “scribacchini” dagli occhi sfavillanti di eccitazione come quelli di un bimbo, proprio la mattina di Natale. E pensare che voi tutti possiate passare qualche momento felice in nostra compagnia, allietati da quello che abbiamo scritto, ci rende felici ed orgogliosi, fanciullescamente eccitati come quando si scartano i doni lasciati sotto l’albero. Il nuovo numero “ufficiale” di Writers, peraltro già in lavorazione, lo troverete on line intorno alla fine del prossimo mese di Febbraio. Nell'attesa, fateci sapere se i nostri più sinceri auguri di Buon Natale vi hanno in qualche modo toccato il cuore, fatto fermare, strappato una risata, o semplicemente tenuto compagnia negli attimi di veglia che precedono il sonno e i sogni. 2


"Da piccolo a Natale aspettavo un regalo. Un pacco dorato, sotto l'albero luminoso. Quando aprii il pacco, non era quello atteso. Lo tirai contro il muro piangente, iroso. Quanti regali ho rotto, ho respinto nella mia vita dopo quel giorno? Ora di questi ho rimpianto. Accettare i doni è difficile perché sempre ne aspettiamo uno soltanto. Impara ad amare ciò che desideri, ma anche ciò che gli assomiglia. Sii esigente e sii paziente. E' Natale ogni mattino che vivi. Scarta con cura il pacco dei giorni. Ringrazia, ricambia, sorridi.” Stefano Benni Se avrete voglia di condividere con noi le vostre impressioni, di ricambiare i nostri auguri o anche solo di passare a trovarci per un saluto veloce con gli avanzi del panettone e un vasetto di lenticchie beneauguranti per il nuovo anno che si avvicina, ci trovate qui: •

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E aspettiamo le vostre idee e, se vorrete condividere con noi i vostri racconti, le vostre poesie, i vostri pezzi di creatività, noi saremo pronti ad accoglierli e dar loro spazio nelle nostre future pubblicazioni! Ricordate che WRITERS può essere anche vostro! Vi aspettiamo tutti quanti per l'uscita del nuovo numero il prossimo Febbraio e nel frattempo tanti auguri di cuore perché il Natale sia una giornata di festa, di serenità, di armonia, ma soprattutto perché possa diventare uno stato d'animo che vi accompagni ogni giorno, nel turbinio di ogni vostro impegno quotidiano, nella calma della sera, nel disordine ordinato del disegno della vostra vita.

La direttrice Elena Brilli

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La messa di Natale di Carlo Galli

E’ di nuovo Natale. Non c’è la neve ma, in questo piccolo paesino montano, l’aria sembra schiaffeggiarmi il volto con la sua gelida mano. Il seggiolino di marmo, della panchina in piazza, sembra volermi inglobare nella sua freddezza. Ecco le prime persone che si avvicinano all’ingresso della chiesa, li conosco quasi tutti perché sono cresciuto vedendo le stesse identiche facce e, con mia grande tristezza, ho potuto constatare negli anni che i loro visi si facevano sempre più invecchiati, mentre i loro discorsi sembravano esser sempre fermi, da anni rimasti immutati nel tempo. Arriva l’Alfredo (detto él fredo), si avvicina alla scalinata della chiesa con riverente timore, forse sa di avere dei conti in sospeso con la morale dettata da Dio… Passa le sue giornate al bar della piazza facendo a gara di chi racconta più stronzate con i suoi amici. Alla sera, torna a casa quasi a gattoni, buttandosi nel letto ancora vestito, sordo delle imprecazioni che la moglie gli rivolge. La signora Teresa (detta teresina), è vestita da prima comunione. A passo svelto scavalca due gradini alla volta e corre lungo la navata, anche lei è una maratoneta che deve vincere a tutti i costi la gara, deve assicurarsi un posto sul podio, meglio nel primo banco… Di fondo non può sgarrare… Sia mai che qualcuno si ricordi di quel figlio che ha avuto fuori dal matrimonio… Ma Ssshhhhht, meglio neanche pensarlo perché magari il Signore le legge nel pensiero. Con i capelli pieni di brillantina, il Gianni, cammina lentamente, zoppicando e a testa bassa. Non entra dall’ingresso principale ma dall’entrata secondaria, quella sul lato dell’edificio. Da l’impressione che gli sguardi della gente gli arrivino come punte di trapano, si sente perforato… che figura aveva fatto col signor preposto quella volta, quando gli era stato dato l’incarico di riverniciare il confessionale e non si era accorto che il prodotto che avrebbe dovuto lucidarlo, era acqua ragia. 4


Si è seduto proprio di fianco a quel baldacchino, per coprire l’alone che ne è rimasto impresso. La macchia è sparita, ma lui rimane come ogni volta rosso in viso dalla vergogna. Sono le undici, la chiesa inizia ad essere piena di sorrisi, di buona sera sparati nell’aria come fuochi d’artificio e di sguardi amorevoli. Credo che l’ottanta per cento di quelle persone non si ricordi nemmeno più come è fatta la navata, sono lì solo perché è Natale… e guai a chi manca! Quelli si che sono imperdonabili! Restando sempre seduto immobile su quella panchina, mi è nato un sorriso spontaneo… Ma è possibile che l’uomo debba vivere di tutta questa ipocrisia? Davvero pensavano che bastasse esserci la notte di Natale per essere buoni cristiani? Certo che no… ma forse non importa nemmeno… l’importante è che la gente veda che ci sono… E meglio nelle prime file perché si sa, il fondo è riservato a quelli un po’ più disgraziati, come succede negli ultimi posti delle corriere con gli studenti. In occasione della messa di Natale, il parroco ha fatto montare due altoparlanti all’esterno della chiesa, così quando è iniziata la predica mi sono avvicinato al portone. Alle mie orecchie arrivano belle parole, anzi bellissime parole sull’amore e sulla famiglia… ma chi le sta pronunciando? Tutta questa gente non si è accorta che ascolta consigli su cose veramente importanti, dando fiducia piena ad un uomo che per voto non può provare ciò che dice? Sarebbe come voler imparare a scrivere avendo come maestro un analfabeta. Eppure, è molto importante essere lì ed essere ben vestiti, sbarbati e pettinati. Finita la funzione, gli alpini sono pronti con i barili di vino fumante, nel parcheggino di fianco alla chiesa. Alcuni, i “fedelissimi”, si fermano a scambiare quattro chiacchiere col parroco, alcuni vanno a casa diretti e molti altri si riversano sullo stand con il vino. Passata un’ oretta, mentre la strada si sta facendo sempre più bianca per il ghiaccio, ed i nasi sempre più rossi per il vino, i veri perbenisti, quelli che veramente ci credono fermamente fino quasi ad esser convinti di esserlo, sono tutti rientrati nelle loro case. Rimangono solo gli altri “fedelissimi”, non quelli del parroco ma quelli del vino. Ecco che timidamente qualche parolaccia inizia a confondersi tra i fumi del vin brulè, ma solo poche e dette timidamente, nascoste tra i denti, bisbigliate sottovoce… in fondo è la notte di Natale, bisogna resistere e non lasciare che il vino sciolga via le maschere.

Carlo Galli

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Auguri de Natale di Andrea Mazzolini Ormai se sa che quanno li marmocchi se fanno grannicelli, tre o quattr'anni, e vanno ar nido e giocano ai balocchi, e ppiù che pèsti paiono tiranni, te dicono fissandote ne li occhi: "No, so' tutte fregnacce, tu me inganni, mo' nun ce credo ppiù! Babbo Natale? Ii giochi stanno ar centro commerciale!" 'Sta cosa, sai, me mette sofferenza, a me che sto quassù vicino ar Polo com'avessi da fa' 'na penitenza. Mbè? C'ho le renne ma sto sempre solo. E pe passa' tranquillo l'esistenza mentre fo i pacchi canto e poi me sgolo: Gingol Bels o una nenia pastorale, mo' me fingo d'avecce 'na corale! Io nun lo so li sogni dove vonno quannno cresci e nun c'hai più er candore che c'ha un pupetto che fa er girotonno. Ma se vivi la vita co stupore, pe quello che ce sta de bello ar monno, vedrai de certo l'anima nun more. E nun scordà 'na mano a chi sta male. Stamme in pace e pe tutti bon Natale.

Andrea Mazzolini

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Fuori scende la neve di Eufemia Griffo

E’ nelle piccole cose della vita, nei piccoli gesti, apparentemente insignificanti, che è racchiuso il senso di quello che rincorriamo per giorni, mesi, anni interi, affannandoci come instancabili viaggiatori, alla ricerca della meta da raggiungere. Eppure, a volte, essa è lì, a portata di mano e a volte basta fare un piccolo passo indietro e la felicità è là ad attenderci.

Vigilia di natale di qualche anno fa. Ore 16,00 Scruto nervosa l’orologio della stazione. I minuti paiono non trascorrere mai e solo il suono dell’ultimo messaggio, mi scrolla dall’ansia che mi ha investita dopo avere letto del ritardo del treno. E’ la vigilia di Natale e fuori scende la neve e sento molto freddo al volto e alle mani. Mia madre mi ha appena chiamata sul cellulare per avere novità riguardo al treno; tra meno di due ore saremo tutti a tavola, tutti insieme, per festeggiare Natale che sta arrivando. Cerco con lo sguardo un bar nelle vicinanze, ho voglia di qualcosa di caldo che mi riscaldi il cuore, ma temo di allontanarmi nel momento sbagliato. Il treno potrebbe giungere ed io non sarei là ad attenderlo. Il cuore in tumulto, mentre la mente vaga altrove, mentre immagino l’istante atteso da giorni, rivisto nei miei sogni ogni notte, da quando mi sono resa conto d’amarlo. Un unico pensiero scandisce il ritmo dei battiti del mio cuore.

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Scruto i volti della gente e vi leggo le mie stesse domande; chissà quante persone attendono coloro che amano e che desiderano solamente abbracciare. Come me. Mi piace indugiare sull’espressione delle loro facce, fissarne gli occhi, osservarne il gesticolare a tratti nervoso e cercare di leggere le parole che si perdono nel brusio rumoroso. Mi chiedo se i loro pensieri siano gli stessi che attraversano la mia mente. Una bimba, avrà forse sei anni, domanda ad alta voce alla mamma che la tiene per mano, quando arriva il treno che riporta a casa papà. Il volto della donna tradisce la mia identica ansia, ma un sorriso rassicurante spazza via quest’impressione fugace, mentre accarezza i capelli della figlia: un gesto che mi ricorda qualcosa. Forse un ricordo che m’appartiene e che sento familiare. Piccole tracce della mia vita che ritrovo scavando nei meandri della memoria e che hanno il potere di fare sorridere anche me. Le osservo incantata, di nascosto, senza interferire con quell’attimo di felicità. Ore 16,20 Tra sprazzi di luce d’un pomeriggio d’inverno ne scorgo la sagoma. L’attesa è finita, lui sta tornando. Lentamente il treno si avvicina alla stazione, mentre volti concitati si pongono mille domande e si aprono in un unico sorriso, come se in quel treno fosse racchiuso il momento atteso da sempre. Le porte si aprono e scendono i primi passeggeri. Amo questo istante. Carrozza 9, non è vicinissima, ma da che parte scenderà? Ho il “dono” di attendere sempre dalla parte sbagliata e finirò col non vederlo! So che è solo l’emozione che tradisce un’immotivata preoccupazione, ma preferisco attenderlo all’inizio del binario. Mentre lo cerco tra la folla dei viaggiatori, mi volto e rivedo la bambina che poco prima domandava del padre. Scorgo un uomo elegante e dal volto sorridente che la prende tra le braccia e se la porta sulle spalle; la donna accanto alla bimba è visibilmente felice. In quel loro abbraccio è racchiusa una parte del senso della vita di quelle persone. Vedo ancora tanta, tantissima gente, che si abbraccia e che si bacia, ovunque vi è un’esplosione di gioia. O forse sono io che vedo solo questo. Mi piace pensare che ogni persona scesa da quel treno, regali un attimo di se stesso, quell’attimo che ci ostiniamo a chiamare felicità. I miei occhi incontrano i suoi, l’attesa è finita. Ora tocca a me abbracciare a piene mani e con una parte del mio cuore, quello che io credo sia il senso più profondo della vita e dei nostri giorni, ciò che io chiamo amore. Qualche volta basta fermarci e toccarlo con mano e avvolgerci di esso, così come ci avvolge la vita. Mando un messaggio a mia madre in cui scrivo semplicemente così: “Mamma stiamo arrivando, tra un’oretta saremo a casa” e subito dopo, col cuore pieno di emozioni, mentre qualcosa di freddo ci accarezza il volto, aggiungo: “Mamma…sta nevicando.”

Eufemia Griffo 8


Gli amiconi

di Antonella Fortuna La Sicilia è sempre stata una terra in cui di lavoro se n’è trovato ben poco. Due amici per la pelle, che certamente erano il simbolo del famoso proverbio “Vale più un amico in piazza che cento denari in uno scrigno”, discorrevano su questo problema seduti proprio al solito ed unico caffè del loro paese. Da quando avevano smesso di andare alla scuola elementare, che per quei tempi era considerata il massimo dell’istruzione necessaria per vivere, erano passati da un mestiere all’altro soltanto per imparare, insomma senza che nessuno li avesse mai pagati. Mario, il maggiore, diceva a Vittorio: “Se staremo qui, ormai ne sono convinto, rimarremo poveri e senza un’occupazione.”. E Vittorio, guardando fisso quel mezzo bicchiere di vinello che il cameriere gli aveva posato sul tavolino del bar, aggiunse: “Inoltre, caro Mario, non dimenticarti che in questa nostra situazione ci possiamo levare completamente dalla testa il pensiero di formarci una famiglia!”. Ogni tanto però si raccontavano anche delle barzellette e ridevano per poi ricominciare a preoccuparsi, proprio come tutti i ragazzi i quali, essendo in gioventù, da che singhiozzano a che si quietano e subito tornano a sorridere. Una domenica, uscendo dalla chiesa ove avevano assistito alla funzione religiosa, videro alcuni manifesti pubblicitari che mostravano le saline della città di Trapani. I due amici vi dettero uno sguardo di sfuggita, tant’è vero che, con noncuranza, si diressero all’amato bar, nel centro della strada principale del paese, discorrendo, scherzando, parlottando, fermandosi e, proprio all’uso dei compari, riprendendo a camminare. Wikipedia - Trapani - La raccolta del sale

Ma, quando Vittorio arrivò a casa ed entrò in cucina, ai suoi occhi si presentò questa scena: un lavello, un tavolo con quattro sedie, una candela, una brocca, un fornellino e lateralmente ad esso un grosso porta-sale di coccio. Allora, come in un lampo, gli venne in mente la soluzione: “Il sale…, le saline…, Trapani! Come mai non ci abbiamo pensato prima?” disse a se stesso, ad alta voce! Così, di corsa, tornò indietro per raggiungere Mario prima che potesse arrivare a casa sua. Dunque Vittorio raccontò la sua idea a Mario e fu così convincente che lo persuase a partire quasi all’istante. Perciò, trascorsa appena una settimana, furono già pronti e, dopo avere 9


salutato tutti i loro parenti ed amici, con il misero bagaglio di una valigetta legata da uno spago perché aveva la cerniera rotta, iniziarono ad avviarsi. Anche dovendo attraversare mezza Sicilia, montagne e terreni senza viottoli, la speranza di una vita migliore dava loro la forza di camminare ed il coraggio di andare avanti. Però una sera, anzi al quarto giorno di viaggio, il cielo divenne nuvoloso ed i nostri giovanotti non sapevano in che direzione proseguire. Infatti, essendo estate, il caldo dell’isola era soffocante e Mario e Vittorio camminavano dal tramonto alle undici dell’indomani mattina! Di giorno loro si orientavano con il sole e di notte con le stelle, proprio come facevano gli antichi pescatori ed i mercanti. Ma quella sera si dovettero fermare perché, non potendosi regolare con la stella Polare o di “Tramontana”, come era chiamata in qualche altro paese della Sicilia, avrebbero potuto correre il pericolo di perdersi. Allora si guardarono intorno per trovare un ricovero sicuro e videro una grotta in cima ad una salita tra gli alberi e quindi molto ben nascosta. Mentre discutevano animatamente sul da farsi, Vittorio posò la sua mano sul braccio di Mario e pressandolo e smuovendolo gli fece capire di accovacciarsi. Dopo un minuto, da codesta grotta, uscì un omone, che invece li aveva già visti, il quale gridò: “Venite fuori! Non nascondetevi più! Io non sono un brutto ceffo!” Ma i giovani ancora non si sentivano al sicuro e lui, vedendo che non apparivano, continuò a dire: “Sono l’Inverno e quando viene il caldo questa è la mia casa di villeggiatura.” E Mario a Vittorio: “Ci sta pigliando per scemi? E ci prende pure in giro! Quando mai s’è detto che l’Inverno abbia una casa di villeggiatura?” “Questa me la voglio vedere tutta”, gli rispose Vittorio annuendo con la testa per fargli capire meglio che era d’accordo con lui. Dalla strada in discesa si vedeva il suo mantello di nebbia scura ed il suo cappello bianco; la sua figura spiccava tra l’oscurità della notte ma il volto, anche se era severo, osservandolo meglio, aveva un’espressione di bontà. A questo punto allora i due compagni vennero avanti e lo salutarono così: “Tanti ossequi!” Grotta Mangiapane – Trapani

Subito l’Inverno, tutto felice di poter parlare con qualcuno, domandò loro chi fossero e, accogliendoli degnamente, li fece bere e mangiare. Quindi con le foglie più morbide preparò loro un giaciglio in fondo alla grotta affinché si riposassero un po’. All’alba dell’indomani mattina, Mario e Vittorio ancora stavano dormendo, talmente erano stanchi! M’appena avvertirono un impercettibile chiarore di luce sulle palpebre, si svegliarono e si alzarono. L’Inverno però, prima di farli andar via, disse loro: “Prendete questo bastone. Ogni volta che avrete sete, esso v’indicherà dove trovare l’acqua. Perciò, se scaverete in quel punto, vi sgorgherà una fontana e vi potrete dissetare.” 10


E quella fu l’ultima volta che videro e sentirono parlare il vecchio Inverno. Comunque, cercando di non rattristarsi, partirono nuovamente per Trapani ed il viaggio per fortuna non fu tanto pesante. Infatti il vecchio aveva regalato loro ciò che c’è di più prezioso al mondo quando la temperatura sale anche sopra ai quaranta gradi: la possibilità di trovare l’acqua pure nel deserto! Finalmente arrivarono nelle vicinanze di tale città e si meravigliarono nel vedere in lontananza una luce forte e abbagliante: ecco le saline che si delineavano davanti a loro! (da: Il vecchio focolare)

Dunque cominciarono ad allungare il passo e sveltamente si unirono alle fila dei giovani che, come loro, cercavano lavoro. Tutte quelle persone, in silenzio e senza niente in mano, stavano l’uno dietro l’altro, a testa bassa, calzando un basco nero ed impolverato: così grande era la loro fame e la loro disperazione! Dopo poco tempo anche Vittorio e Mario arrivarono vicino a zio Tano, il padrone, il quale, vedendoli, li osservò dalla testa ai piedi e, dando loro una pacca sulle spalle, disse: “Sembrate ben robusti. Entrate e staremo e vedere cosa saprete fare.” Senza farselo dire due volte, i due amici si fecero avanti e ai loro occhi apparvero tante montagne di sale ed alcune fosse piene d’acqua di mare. C’era pure un uomo, il magazziniere, che teneva in mano un pezzo di legno con tanti buchi: ad ogni secchio di sale che trasportavano gli operai, vi spostava un asticella nel foro successivo. Ma la stranezza era che, mentre facevano il loro lavoro, quegli uomini contavano i secchi, cantando…! “Ascolta!”, disse Vittorio a Mario sentendo la cantilena. “Questa musica è uguale a quella che mi cantava mio padre quando tornò dalla guerra di Grecia e dal deserto dell’Africa!” “Sicuramente tanto tempo fa queste genti si saranno incontrate!”, rispose Mario credendo di avere scoperto l’America! E così, discorrendo e osservando quel luogo, trascorsero la loro prima giornata di lavoro ed anche un’altra e tante altre ancora. I due compari non smettevano di lavorare neanche a mezzogiorno perché mangiavano in fretta una bella ciambella di pane per ciascuno con le olive, i pomodori, le cipolle ed alcune volte con un pezzetto di formaggio pecorino o di tuma col pepe, per terminare il loro compito prima del tramonto. E zio Tano lo permetteva loro perché erano veramente di buona volontà e specialmente due ragazzi di buon cuore. Per maggiore chiarezza è bene precisare che Mario e Vittorio sapevano che ogni giorno, al calar del sole, passavano da quelle parti gli uccelli che venivano dalla fredda Romania per andare verso l’Africa o i paesi più caldi ove c’era l’estate. Allora spargevano per terra delle molliche e del mangime e li facevano bere dalle loro stesse mani, giacché ormai gli animali avevano preso confidenza. Però un giorno in cui tutti quanti già se n’erano andati a casa ed erano rimasti per ultimi ad uscire dalla salina, Mario si accorse che in un angolo, da parte, si vedevano ammonticchiati 11


alcuni sacchettini. Ciò gli parse subito sospetto e, insieme al suo compare, ne aprì uno: sembrava sale ma… c’erano mischiate tante pietre preziose, dei brillanti! Vittorio, non credendo ai suoi occhi, teneva uno di questi tra le mani e lo osservava, rigirandolo, e pensava: “Quando mai mi potrà più succedere di toccare un diamante?”, e, nel fissarlo lungamente, stava quasi per ipnotizzarsi. Ma Mario, facendolo risvegliare, gli gridò: “Senza perdere tempo, andiamo a chiamare zio Tano.” Così fecero e così, tutti e tre, organizzarono un tranello: si misero nel punto dal quale vedevano passare i loro amici volanti e, battendo molto forte le mani, li fecero scendere giù. Poi spiegarono loro il problema e si appostarono ognuno secondo ciò che avevano stabilito: gli uomini si piazzarono in disparte negli angoli più bui e nascosti; i Fenicotteri rosa, uccelli grandi e molto belli che somigliano alle cicogne, alzarono in alto una rete trasparente e la tennero così, sospesa su quei sacchi. Siccome i Fenicotteri avevano le penne rosa come il colore del tramonto, Mario, zio Tano e Vittorio avevano pensato, e con ragione, che i contrabbandieri non se ne sarebbero accorti. Ed avvenne proprio così…: nel tempo in cui quei malviventi erano chinati per prendere e portare via i sacchetti con i brillanti nascosti tra il sale, tradendo la fiducia di zio Tano, i Fenicotteri, abbandonando la presa, fecero cadere la rete addosso a loro e li imprigionarono. Gli imbroglioni dunque furono arrestati ed il padrone della salina, in riconoscenza e plauso dell’onestà dei suoi due operai, approssimandosi il Natale, regalò loro un gran pezzo di terreno, nei dintorni delle saline, dove c’erano tante meraviglie della natura: alberi, fiori rari ed animali che non si trovavano da nessuna parte. Pure i Fenicotteri rosa rimasero lì per sempre e vi fissarono la loro dimora. I due amiconi ora potevano finalmente affidare i loro sogni a Gesù Bambino che li aveva aiutati a realizzarli: si sposarono, ebbero tanti figli, e vissero felici e contenti. Ed a voi, bambinetti miei, consiglio di andare a fare una gita alla Riserva Naturale, vicino alle saline di Trapani e Marsala: potrete ancora oggi bearvi a guardare quei trampolieri rosa che sono veramente uno spettacolo speciale ed uno splendore!

(da Wikipedia) Gli spaccapietre, 1849, andato perduto durante i bombardamenti a Dresda durante la seconda guerra mondiale

Antonella Fortuna

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Serafino preposto al coraggio di Pietro Pancamo

Gli angeli si diplomano al Conservatorio Astronomico perché studiano la musica, che le sfere celesti producono ruotando. Fanno l’analisi armonica degli accordi supremi che, una volta, anche gli uomini eletti (Pitagora, ad esempio) avevano la forza e il diritto di ascoltare. Gli esami sono molti, però che gran soddisfazione ultimare i corsi e ottenere infine (lode al Signore!) il permesso d’insegnare. I miei studi sono a buon punto e fra poco l’esame conclusivo mi darà il titolo che sogno tanto: quello di Maestro! Nel frattempo, grazie alle mie doti vocali, già occupo la carica di tenore-capo nella gerarchia lirica del Conservatorio: sono forse il più bravo, tra gli allievi di “Esercitazione corale”. E poi, dirlo mi riempie di gioia, lavoro come assistente di un angelo cherubino che scende ogni giorno in Terra, posandosi delicato sulla quercia di un bosco dolce e campagnolo, per educare gli uccellini al canto. Li abitua a portare il cinguettio in maschera e a sorreggerlo con il diaframma; non tutti riescono subito, anzi nessuno: perciò hanno bisogno di me, “serafino preposto al coraggio” che deve esortarli a ignorare la delusione. Mi capita, spesso, di calmare i picchi, tanto irascibili da abbandonarsi a voli isterici e rabbiosi, dopo un acuto sbagliato. Per sfogare il rammarico dell’errore, percuotono il becco addosso agli alberi, facendosi (io credo) un male diavolo! Allora intervengo: abbraccio con la mano grande il loro corpicino scosso dai nervi, accarezzo piano la testolina invasata di furore e fischietto per loro qualche melodia celeste; così, lentamente, l’ira si placa. L’agitazione, tachicardia dei nervi, torna ad essere tranquillità. Una lezione dura da mattina a sera e in fondo non è pesante: diverse pause concedono sollievo alla stanchezza. Io mi apparto, negli intervalli, su di un ramo nascosto e mi svago a pensare. Se un’aria d’opera comincia a formarsi nella mia immaginazione, la scrivo per appunti sulle foglie pentagrammate che gli uccelli usano a mo’ di spartito e, magari, cerco di farla somigliare a quelle dei compositori più illustri. No, non Rossini o Mozart, come ritengono gli uomini, bensì Giove, Saturno e Urano, come noi angeli sappiamo benissimo! Quando mi annoio, tento un’occhiata verso l’orizzonte e sempre vedo qualcosa d’interessante che mi convince a osservare il paesaggio. Ho una vista incantevole dagli occhi panoramici che possiedo in volto: gli avvenimenti fanno tappa nel mio sguardo, e nulla viene considerato con poca attenzione. D’altronde come può sfuggirmi una persona bizzarra simile a quel prete in tonaca di gala, che si avvicina lungo il sentiero mostrando, allegro, un giglio all’occhiello. Ah no! Si tratta di un 13


monaco elegante, che sfoggia un saio a coda di rondine… Macché! Ora lo scorgo chiaramente: è di sicuro un Beato, assorto nel compito di farsi propaganda (distribuisce infatti santini da visita a cacciatori e spaccalegna: “Casomai vi servisse una grazia…”). Anche Satana gradisce, talvolta, un giro nei boschi: sale dall’Inferno e va a rintanarsi nel buio intricato delle macchie più fitte. Nella tenebra contorta dei rami bassi, in quella notte artificiale, trova l’ispirazione per musiche blasfeme: con spirito malvagio architetta note sacrileghe, bestemmie sinfoniche, allucinazioni sonore da far eseguire alla sua orchestra d’orchi. Però i concerti non sono mai un granché ed anzi, in Paradiso, gli angeli ironizzano inventando dialoghetti briosi. È facile sentirli scherzare: “Ho fatto una volata all’Inferno per assistere a un’esibizione dell’orchestra d’orchi.”, “Ah sì? E chi suonava? Il primo violino?”, “No, il primo venuto: sai, era una cosa improvvisata…”. Sorrido fra me per le battute ingenue dei colleghi alati, mentre la mia curiosità continua a sorvegliare la vita intorno. E mi accorgo di un simpatico ragazzo, seduto ai piedi d’una betulla, intento a deliziarsi del tepore e della luce. Sembra davvero uno scrittore, forse perché si è poggiato accanto uno strato di fogli che non smette di compilare, mano mano, a penna. Affido agli occhi uno sguardo più pronto, per leggere le parole di quel ragazzo… ecco, finalmente capisco: è impegnato a buttar giù la recensione di un libro, che s’intitola Il Silenzio Stonato. Ha scelto la natura come ufficio di lavoro, quel ragazzo, e il suo inchiostro afferma, tutto disinvolto: “Rob Demàtt introduce la fantasia dei lettori all’uso narrativo dei ricordi, costruendo uno sfogo romanzato (dal linguaggio brillante e volitivo) che ha per contenuto un messaggio autobiografico: il sesto senso è quello di colpa. È il rimorso d’aver sprecato gli anni e la vita per dedicarci a illusioni che prima incantavano e che, adesso, ci deridono. Allora un’esclamazione prende in noi a gridare: “Temo il cielo e la terra; il tempo mi sta lasciando solo: entra nelle ossa la paura, il respiro non ha più forza nei polmoni e tutto mi incita alla morte!”. Ma quando i cicli d’angoscia termineranno e la sofferenza non sarà che uno stimolo di guarigione, scopriremo sollievo anche nel dolore e, nel sollievo, amore”. “Realizzerai i miei desideri?”, domanda l’uomo. “Aspetta e spira…”, ribatte il destino. Chissà per quale motivo, la recensione mi ha suscitato in mente questo lugubre giochetto di parole… Certo dev’essere triste per gli uomini ritrovarsi in mezzo alle ore, sempre minacciati da pene e afflizioni. Un giorno, però, avranno soltanto gioia e serenità, perché noi angeli provvederemo a convertire il destino! Per il momento, io e il Maestro cherubino salutiamo gli uccelli agitando le ali (è sera, la lezione è finita) e torniamo lassù, nel Conservatorio Astronomico, a riascoltar le stelle.

Pietro Pancamo

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Nella memoria di Eufemia Griffo

Nella memoria sigillo dei ricordi di altri natali, ricercano dimora i sogni prigionieri Verso la luna velata dalla notte attenderanno, nel cassetto mai chiuso nel fiume dei giorni Malinconico è il sentiero percorso nei meandri del tempo, fragile come neve caduta sulle mani Foglie già bianche della forma del cuore danzano lievi, ed infine cadono senza fare rumore

Eufemia Griffo

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Notte di Natale di Armando Cambi

Mancava circa una settimana a Natale, ero agitato a pensare alla capannuccia, ai regali, alle feste. All’asilo, in quei giorni il clima era allegro e c’era movimento, con le suore più agitate di noi. Io ci andavo da poco, e ci ero stato poco, la mamma non si separava volentieri da me, ero un bambino magrino, non mangiavo, ero abituato a stare parecchio con la mamma, il babbo e i nonni. Ma alla fine, un po’ perché tutti ci andavano, un po’ perché le mamme più esperte dicevano è bene, imparano a stare con gli altri bambini, poi andranno a scuola e saranno più abituati…..e insomma mi mandarono anche me. Ricordo che le merendine che ci davano erano strane, c’era una specie di mortadella tutta rosa, che sapeva di carne ma dolciastra, ma era buona, poi c’erano delle marmellatine dolci, di non so che cosa, e ce n’era una schifosissima di noccioline, di un sapore strano, che di nocciolina aveva poco, ma aveva come un sapore di olio che se ci penso mi fa venire il voltastomaco anche ora. Quel pomeriggio, aspettavo che qualcuno venisse a prendermi, perché ero stanco e faceva anche freddo. Venne la mamma e fui contento. Mi coprì ben bene, mi prese per mano e si cominciò la salita, arrivare a casa era questione di una decina di minuti, anche andando pianino come facevo io. Ma quel giorno mi sembrava che la strada non finisse mai, anzi, a dir la verità non mi ricordo che sia mai finita, perché mi ritrovai in casa mezzo addormentato in collo alla mamma, e quando mi mise in terra in cucina, non mi piacque molto. Avevo ancora sonno, sarei andato subito a letto, poi però il calduccio della cucina, l’unica stanza calda della casa, per merito della nostra cucina economica a legna, mi fece prima risvegliare, poi abbattere di nuovo. Sì, perché cominciai a non sentirmi bene, avevo sonno, e mi faceva un po’ male la gola. La mamma, all’inizio, si mise dietro ai suoi traffici di casa. Io mi ero messo a aggeggiare con i miei giocattoli. Ne avevo parecchi, per l’età e l’epoca che vivevamo. Avevo un bel trenino di ferro e latta, completo, con la macchina a vapore e tre vagoni, uno merci e due passeggeri, che però tiravo fuori dalla scatola solo ogni tanto, nelle grandi occasioni, poi avevo un vecchio 16


cavallo a dondolo, arrivato non so da dove, tutto spiaccicato, nel senso che il corpo del cavallo invece di essere bello rotondo era quasi piatto, forse per il peso di chissà quali ragazzi che doveva aver sopportato sulla groppa, e starci a sedere non era facile, perché si sentiva il duro del legno sotto, ma la testa e gli occhi erano ancora vivaci, e mi rimaneva simpatico. Ma quello che mi piaceva di più erano tanti legnetti di varie dimensioni che mi aveva portato il mio zio falegname, e con quelli facevo di tutto, li mettevo uno sopra l’altro, o inventavo barchette o aerei che volavano rombando, anche se il rombo ero io a farlo, con la bocca, e il volo ero sempre io a farlo, con le mani e le braccia. Avevo anche dei librini da colorare, ma non mi piacevano molto, perché c’erano già disegnati i contorni delle figure, e si doveva stare dentro con le matite, e io uscivo sempre dalla riga. Poi avevo dei librini scritti, non sapevo leggere ancora, ma uno o due li avevo imparati a mente a forza di sentirli leggere dal babbo, e li recitavo passando sulle parole con il dito, e sembrava che leggessi davvero. Il più bello era Frugoletto, che ne combinava sempre di tutte…… “piacerebbe a Frugoletto diventar marinaretto….” questo lo ricordo ancora. Ma quella sera, non avevo voglia di nulla. A un certo punto la mamma se ne accorse, era già buio, mi prese in collo e disse che le sembrava avessi un po’ di febbre….la nonna confermò, e infine mi misero a letto nel mio lettino a cancelli, fatto dal mio zio falegname, bello robusto, di color marroncino, dove i cancelli erano fatti a quadretti e sembravano la finestra di una prigione, ma a me piaceva, era grande e comodo e io ci dormivo da tempo ormai. Non mangiai nulla, la mamma cominciò a preoccuparsi, poi tornò il babbo e insomma, era ormai sera, se non miglioravo, domani avrebbero chiamato il dottore. La nonna disse dategli un po’ di olio di ricino, a volte i bambini all’asilo fanno indigestione. Poteva succedere, c’era un bambino, che la maestra chiamava ‘bombolino’, che avrebbe fatto due indigestioni al giorno, tanto mangiava, ma figuriamoci io. Passai la notte agitato, dormivo e non dormivo, mi sentivo strano, la gola mi faceva parecchio male, non riuscivo quasi a inghiottire la saliva, e mi venivano pensieri, come a Frugoletto che voleva fare il mare in casa con acqua, sale e la menta per colorare di verde l’acqua, perché il mare è verde. Io invece pensavo al Natale in arrivo, la capannuccia era già pronta in salotto, c’erano la statuina della Madonna, di S. Giuseppe, il bue e l’asinello. Questo era proprio bello, con grandi orecchie grigie che sembravano muoversi, e poi c’era l’angiolino con un gancino dietro e con le ali grandi che reggeva una specie di cartello con una scritta di traverso, ma questi non erano al loro posto, erano raggruppati senza ordine lì sul tavolo vicini alla capanna, in attesa di sistemazione. E poi ci sarebbe stata la befana, perché i regali li portava la Befana, con il carbone dentro la calza per chi era stato cattivo, e io un po’ cattivo ogni tanto ero stato, specialmente quando mi volevano far mangiare e non avevo fame, e portava anche gli agli, e questi non mi piacevano proprio, e il loro odore mi faceva schifo, e non li volevo dalla Befana, erano peggio del carbone. Qualche bel regalo sì, questo lo volevo, ma chissà cosa avrebbe portato, chissà. Un’automobilina di latta, o qualche altra cosa, un librino anche, o 17


qualche altra cosa….. Trascorsi la notte così, fra pensieri e incubi di bambino, e con un male alla gola sempre più cupo e la febbre. La mattina la mamma mi svegliò, si accorse subito che non stavo bene, ma per niente bene, mi accarezzò e mi prese vicino, ma non stavo bene neanche ora, e non mi consolò nemmeno il suo profumo di mamma che mi piaceva tanto. Cercò di provarmi la febbre, ma pensò che era inutile, si sentiva che scottavo molto, ed ero rosso. La nonna tornò a parlare di olio di ricino. Intanto il babbo mi venne vicino anche lui, e disse ora prima di andare a lavorare vado a chiamare il dottore, e se ne andò. La mamma era triste, mi sorrideva ma si vedeva che era preoccupata, cercò di farmi prendere qualcosa da mangiare, preparò il caffellatte, che mi piaceva, e me lo portò con delle fettine di pane bianco abbrustolito, con sopra un po’ di marmellata di susine dell’orto che mi piaceva anche tanto, con quel saporino asprino e di bruciacchiato e qualche minuzzolo nero che cercavo di acchiappare con i ditini. Qualcosa mangiai, ma poco, poi arrivò la nonna, parlò un po’ con la mamma, ancora di olio di ricino, e dopo di nuovo arrivò con una bottiglietta marrone e un cucchiaio. La mamma prese il cucchiaio, ci versò dentro un po’ di liquido che mi sembrava giallino, e mi disse, vedi, prendilo, ti fa bene e dopo starai meglio, ma la sua voce non mi sembrava troppo convinta. Io decisi che a me quella cosa lì non me l’avrebbero mai fatta ingoiare. La mamma si avvicinò delicatamente, come sempre, dai non è cattivo, ti fa bene, ma io la bocca non l’aprivo, mi sentivo venire le lacrime negli occhi, non volevo piangere, ma la bocca non l’aprivo, e mi agitavo girando la testa di qua e di là. La nonna diceva basta prendergli il viso con la mano, gli stringi un po’ il nasino, vedrai che ingoia….la mamma però continuava a non essere troppo convinta, sia avvicinò ancora, cercò di stringermi un pochino le guance, e sentii anche un rumorino del cucchiaio che toccava i denti, ma mi svincolavo, a me l’olio di ricino non lo davano….me lo ricordavo che il nonno, parlando con i suoi amici che venivano ogni tanto a trovarlo lo dicevano eh! quello poveretto è sempre stato tutto d’un pezzo, gli avevano dato anche l’olio di ricino, e non si era piegato….io non capivo, ma l’olio di ricino doveva essere una grande schifezza e una grande disgrazia, se chissà quando l’avevano dato a qualcuno che non aveva nemmeno fatto l’indigestione. E non me lo dettero, la mamma, vedendo che mi agitavo, diventavo rosso e forse mi cresceva la febbre, si sollevò e disse no no, non lo prende, e non posso farlo star male….tanto fra poco verrà il dottore. E mi lasciò stare. Ero sudato, mi ributtai nel letto, sotto le coperte, perché era freddo, anche se da quando avevamo comprato una stufa elettrica bella grande di ferro che aveva messo in vendita da poco il nostro elettricista, nella camera non era più tanto freddo come sulle scale, dove sembrava di essere fuori. Ma non stavo per niente bene, anche se ero sotto le coperte avevo freddo e i brividi, la mamma lo sapeva e mi carezzò sulla fronte, dicendomi di farle vedere la gola. La cosa mi 18


preoccupò, guardai in giro se c’era ancora la nonna o il cucchiaio, ma erano andati via tutti e due, e mi decisi ad aprire la bocca, sapevo che la mamma non mi ingannava, mi potevo fidare. Ad aprire la bocca sentivo un gran male, la mamma cercò di darmi un’occhiata e poi mi lasciò stare senza dire nulla. E mi rimisi sotto la coperta. In silenzio, a godermi il mio mal di gola. Mi pareva di dormire, male, senza sonno, poi chissà quanto tempo dopo sentii come dei rumori e dei passi, la mamma entrò in camera e insieme a lei c’era il dottore. Era da poco che veniva, prima mi ricordavo ce n’era un altro, sempre allegro, poi non c’era più, era andato via, e c’era questo nuovo. Era grassottello, serio ma mi piaceva, l’avevo visto visitare il nonno, battergli la schiena con i diti, e parlava poco. Si avvicinò, si chinò fra i cancelli del letto, mi aiutò a mettermi a sedere e mi guardò bene in viso, poi disse qualcosa alla mamma, prese in mano un cucchiaio e mi chiese di aprire la bocca. Ero preoccupato, ma al dottore dovevo obbedire, mi prese delicatamente la faccia e l’alzò verso l’alto, poi mi disse di fare aaah più forte che potevo, io cercai di fare ah e mentre ero a bocca aperta sentii che mi metteva qualcosa in bocca, e mi schiacciava la lingua, fu un attimo, e a un tratto mi sembrò di soffocare e vomitare, ma fu un attimo, tolse il cucchiaio e io chiusi la bocca, anche se sentivo un gran male alla gola e mi venivano le lacrime agli occhi, non per piangere, ma perché era l’effetto del cucchiaio. Ma passò. Il dottore non disse nulla, mi sollevò il pigiama e la camiciola e cominciò a sentirmi la schiena, poi mi fece sdraiare e mi sentì la pancia. Non sentivo male, e mi sorrideva anche un po’. Poi si sollevò, sembrò pensare un attimo e poi si voltò verso la mamma che stava dietro a lui zitta zitta, con la faccia rossa e preoccupata, è difterite, disse, bisogna intervenire subito. Vidi che la mamma diventò paonazza e si sedette sul lettone, cosa dobbiamo fare disse senza quasi la voce, deve andare a……, guardi, le farebbero la stessa cosa che possiamo fare qui, è meglio non spostarlo, bisogna iniziare subito il siero…. ora le faccio la ricetta, la mamma diceva o voleva dire qualcos’altro, siamo nelle mani di Dio, sentii questa frase detta piano dal dottore. Poi sentii che diceva altre cose, su cosa farmi, la mamma accennò a mezza voce all’olio di ricino, mi sembrò che lui sorridesse, si voltò un po’ verso di me, e disse no, qui non serve, ci vuole altro, mi sembrò anche di capire la parola tintura, e poi la frase, lei come sta, signora? e non capii cosa rispose la mamma. Poi non ricordo, mi distesi nel letto, e mi sembrava di addormentarmi di nuovo…. avevo imparato una parola ‘difterite’, che non conoscevo, ma non l’avrei più dimenticata. Non so se dormii, so che ad un tratto chissà quanto tempo dopo arrivò il babbo, e dopo una signora anziana, che conoscevo bene, che mi faceva ridere sempre, ma ora mi sembrò seria seria, poi vidi che armeggiavano con un tegamino e una cosa di vetro e un ago, e poi mi dissero dobbiamo darti questa medicina, poi guarirai, devi voltarti, vedrai che non sentirai nulla, mi voltai e aspettai, mi tirarono giù i pantaloncini del pigiama e sentii che mi strofinavano una mela, e poi sentii un dolorino, non tanto forte, ma lungo, che mi sembrava non finisse più, poi finì, e sentii la voce della signora che mi salutava un po’ più allegra, 19


come la conoscevo io. Mi voltai e cercai di salutarla, ma mi faceva male la gola, e tutto il resto, ero stanco, e mi distesi di nuovo mentre la mamma mi copriva ben bene. Avrei pianto tanto volentieri, mi piaceva a volte piangere, ma quando volevo un giocattolo che se non me lo compravano mi sembrava che finisse il mondo, o anche quando volevo andare fuori a giocare e non mi volevano mandare……. ma ora era una faccenda seria, non potevo piangere perché ero malato, sul serio, forse sarei morto, avevo sentito quando aveva detto siamo nelle mani di Dio, e la mamma aveva paura che mi mandasse all’ospedale, e poi quella parola che aveva fatto paura alla mamma, difterite, non potevo piangere, potevo dormire e guarire. Passò del tempo, sognavo, dormivo, ero strano, a un certo punto sentii di nuovo la mamma che mi svegliava, mi disse guarda, ora dobbiamo prendere un’altra medicina, ti farò delle spennellature alla gola, così guarisci prima, ci vuole pazienza, tu sei grande e sei bravo….. Mi prese quasi in collo e mi sollevò, mi misi a sedere, mi fece aprire la bocca e vidi che aveva preparato un bastoncino lungo con cotone idrofilo arrotolato in cima, lo bagnò con delle gocce marroni, con un odore forte, mi disse di aprire la bocca e piano piano mi mise dentro il bastoncino che sentii mi toccava la gola, e mi veniva ancora da piangere e da soffocare e da inghiottire e da vomitare, ma ce la feci, mi toccò un pochino di qua e di là e poi tolse il bastoncino. Visto, ce l’hai fatta. Ce l’avevo fatta e le lacrime erano solo pochine che venivano fuori dagli occhi, ma solo pochine. E dopo un po’ mi portò una minestrina a brodo, con dentro dei pezzettini bianchi che doveva essere petto di pollo tritato, l’odore era buono, cercai di mangiare, il sapore era come la medicina che mi aveva dato prima, e sentivo male a inghiottire, ma pensavo che dovevo mangiare…. se no magari mi mandavano davvero, all’ospedale. E dopo mangiai anche una mela grattata con una grattugia di vetro che mi piaceva tanto, e alla fine ce la feci, a mangiare un po’, forse non morivo e non andavo nemmeno all’ospedale. I giorni che seguirono furono confusi, la febbre, poi meno poi di più, un po’ dormivo, poi mangiare qualcosa, la pipì e la popò che mi toccava alzarmi con fatica, la mamma mi copriva tutto, mi prendeva in collo e mi aiutava e mi abbracciava. Il babbo non so quando aveva fatto il presepe sul cassettone della camera, c’era la capannuccia, il bue marroncino, l’asino grigio con le orecchie lunghe, la Madonnina che pregava in ginocchio, san Giuseppe con la barba che stava in ginocchio e si appoggiava ad un bastone, e Gesù piccolino dentro una specie di culla con la paglia gialla, con le braccine allargate e mezzo nudo, che mi sembrava anche troppo, e poteva prendere fresco. Poi c’era attaccato sulla capannuccia l’angiolino con il cartello, e c’erano due pastori, uno con la pecorina sulle spalle, poi un cammello bello marrone lucido, due dromedari più chiari, i tre re magi, uno scuro, tutti coperti da lunghe tuniche, e due belle palme che facevano ombra. Non c’era altro, mi ricordavo di avere anche altri personaggi, ma il babbo non li aveva messi, non c’era posto sul cassettone, dove c’erano anche tante altre cose, scatole di medicine, qualche fazzoletto, una bella foto del babbo e la mamma quando si erano sposati, e anche una 20


fotografia mia quando ero piccolo e un po’ triste (perché diceva la mamma non mi piaceva stare lì in posa a farmi fotografare), un vaso per i fiori, ma senza nulla dentro. Io vedevo queste cose, ma anche me le immaginavo, perché da dove stavo sdraiato vedevo solo qualcosa in alto, come il bordo della foto del matrimonio e il tetto della capannuccia. Ogni giorno, a metà pomeriggio, arrivava la signora delle punture, non mi piaceva, ma c’era poco da fare, mi preparavo senza piangere, poi mi voltavo e sentivo quando mi bucavano, ma non sentivo tanto male, anche se mi sembrava facessero più male ora che prima. E poi le pennellature alla gola, schifosine ma bisognava farle. A volte mi sentivo un po’ meglio, ma a volte ancora no e se dormivo ero agitato. Il dottore veniva ogni tanto, mi faceva aprire la bocca, con il solito sistema, ma anche qui c’era poco da fare, poi a volte mi sentiva dietro, e la pancia, non diceva nulla ma mi sembrava tranquillo. Poi parlava con la mamma, un giorno sentii che le disse che doveva riposarsi a letto, ma la mamma non rispose. I nonni venivano ogni tanto, erano silenziosi, il nonno poi mi guardava con i suoi occhini celesti e andava via quasi subito, anche la nonna stava zitta e se ne andava. La sera mi sembrava sempre di stare peggio, una sera il babbo accese un lumino davanti alla capannuccia, e io fui contento, vedevo la fiammella che si muoveva, e sul muro e sul soffitto le ombra dei personaggi della capannuccia, vedevo le gobbe del cammello che sembravano grandissime, come se un cammello vero fosse entrato in camera, e mi sembrava anche di sentire il suo odore selvatico, che somigliava al sapore delle pennellature. E poi vedevo la palma, con i suoi rami come foglie pelose. Passarono i giorni, non stavo bene, ma neanche peggio, la mamma era sempre lì con me, un pomeriggio cominciò a leggermi un librino nuovo, mi sembrava parlasse di un bambino avventuroso che sognava di andare in giro su un cavallo di legno con la testa di sughero, con una lancia fatta con il manico di una scopa, e un berrettino a punta. E c’erano delle figure disegnate divertenti che mi faceva vedere via via che leggeva e girava le pagine, e il personaggio principale era il bambino disegnato con le gambe e i bracci secchi secchi, e il collo lungo, e la testa tonda….ma poi mi veniva il sonno, e magari la febbre tornava e mi appisolavo e la mamma smetteva di leggere e se ne andava piano piano. Una sera all’ora della puntura a cui ero ormai abituato non venne la solita signora, ma vidi arrivare un signore anziano, che conoscevo perché lavorava in banca con il babbo, ma non capivo cosa ci facesse, il babbo disse che la signora aveva preso l’influenza. La puntura te la fa questo signore, stetti zitto, mi sorrise e mi sembrava più preoccupato di me. Poi ci fu la solita cerimonia, mi fece l’iniezione ma lo sentivo un po’ ansimare ma poi andò tutto bene. Si sollevò con la siringa in mano e sembrò molto contento. Dovrebbe essere l’ultima, disse il babbo, speriamo sia finita. La sera mi addormentai presto, subito dopo aver mangiato un po’ di riso con il burro e il formaggio, e la mela cotta. Mentre dormivo mi sembrava di vedere la fiamma della 21


capannuccia accesa che disegnava sul soffitto i soliti personaggi, ma più grandi e io nel letto mi sentivo grande, come più lungo e anzi mi sembrava anche di galleggiare nell’aria, ma dormivo. Mi sembrava anche di sentire fuori gente che parlava, e anche lontano un suono di campane. Era la notte di Natale. Io dormivo, ma sentivo qualcosa intorno a me, era buio, poi mi sembrava di svegliarmi e stare bene, non sentivo più la febbre, e la gola non mi faceva quasi più male. In camera però c’era un po’ di luce, mi voltai verso il lettone e mi sembrò di vedere dall’altra parte la mamma a letto, il babbo in piedi e anche qualcun altro, una donna che non conoscevo, seduta accanto alla mamma. Parlavano piano, io guardai un po’ e poi mi sentii tornare il sonno e mi addormentai. Feci un bel sonno, mi svegliai che era già giorno. Quella mattina la mamma non si era alzata, venne il babbo e mi disse come stavo, stavo meglio e lo dissi, il babbo fu contento, mi disse che i nonni erano tutti e due a letto con l’influenza, ma stavano abbastanza bene, ma non potevano venire perché se no magari me l’attaccavano anche a me. Mangiai il caffellatte che mi sembrò molto buono, forse perché l’aveva fatto il babbo. Dopo un po’ vidi che la mamma mi guardava dal letto, si sollevò e si alzo con la camicia da notte. Venne vicino mi abbracciò e piangeva piano, e anch’io piangevo e stavo bene, ma non capivo perché si piangeva, se stavo bene. Poi la mamma mi lasciò, tornò un po’ a letto. Venne il babbo, era giorno, mi sorrideva, il lumino davanti alla capannuccia si era consumato tutto ed era ormai spento, ma ora i personaggi non mi sembravano più grandi come prima, e anche io non mi sentivo più grande come prima, ma normale, la gola non mi faceva più male, solo un po’ a inghiottire, ma poco, e mi sembrava di avere fame, tanta fame. Era il giorno di Natale del ’48, avevo cinque anni e qualche mese, ed ero guarito. La notte la mamma aveva perso il fratellino, o sorellina, che mi voleva regalare, anche se io non lo sapevo ancora, e io ogni tanto ci penso anche ora, a quel fratellino, o sorellina, che non era mai nato, anche per colpa mia. Il babbo quel giorno non si fece la barba e non si lavò nemmeno il viso. Nei giorni seguenti vennero tante persone, mi salutavano e mi portarono tanti regali, uno in particolare che andava di moda quell’anno, una vespa di latta con sopra un omino di latta, e me ne regalarono tre uguali. E io giocavo ed ero contento. Dopo due anni però una sorellina bionda con gli occhi azzurri me la regalarono davvero, ma questa è un’altra storia.

Armando Cambi

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Ice Queen

di Eufemia Griffo Eri perfetta nel tuo candido manto color della Luna trapuntato di gemme ricoperte di ghiaccio Dalle stelle lassĂš ammiravi i contorni d'un mondo oscuro, sognando la purezza dei boschi in Inverno Tu misteriosa ferita dalla luce tenue e soffusa, come un velo di sposa trapuntato di neve

Eufemia Griffo

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Il quarto fantasma di Serena Pisaneschi

Anche quell'anno, come negli ultimi tre, Lucia aveva detto a tutti che avrebbe dovuto lavorare, con la differenza che stavolta aveva mentito. I turni in ospedale per le feste li aveva sempre fatti volentieri, con il beneplacito dei colleghi che almeno potevano godersi un po' la famiglia. Invece lei, dalla sua di famiglia, scappava. Si rinchiudeva in reparto e, tra reperibilità ed emergenze, metteva fuori il naso quando era finito tutto, l'alternativa sarebbe stata passare le feste dai suoi, immersi in un finto buonismo che opprimeva tutta la casa come una cappa grigia e scura. Andare da loro era obbligatorio, non ci si salvava se non con una scusa che doveva essere più che incontestabile, come un ictus la sera della vigilia o la caduta di un asteroide nel proprio giardino, in tutti gli altri casi non c'era via di scampo. Fortunatamente Lucia aveva la scusa di un lavoro importante e di responsabilità, non si potevano lasciare i bambini senza infermieri nei giorni di festa e lei era ben felice di far loro compagnia. Preferiva mille volte girare per i corridoi con le orecchie da elfo cambiando flebo o raccontando storie, magari mangiando un tramezzino preso alla macchinetta, piuttosto che sedersi ad una tavola imbandita e calarsi completamente nell'ipocrisia. Ma quel Natale qualcosa era cambiato. Sempre determinata a non passare le feste dai suoi, aveva sentito il desiderio di stare da sola, pensando, per la prima volta da anni, solo a sé. Perciò aveva deluso i colleghi, prenotato in un albergo ed era partita per le Dolomiti. Aveva guidato per alcune ore, immersa nella condensa dell'abitacolo e nella lotta con l'appannamento dei vetri, ed era arrivata che ormai la notte aveva steso il suo velo nero sul mondo. Il cielo era limpido e così scuro che si potevano vedere molte più stelle che in città, la Luna era quasi piena e illuminava la neve facendola risaltare come una di quelle magliette fluorescenti che di giorno sembrano normalissime T-shirt bianche ma al buio si accendono di un colore che quasi ferisce gli occhi. Lucia trovò subito l'albergo e si presentò alla reception, aveva prenotato una camera matrimoniale assicurandosi che il servizio SPA fosse garantito tutti i giorni e che le piste da sci fossero liberamente praticabili. La signorina al bancone, una ragazza sui trent'anni molto gentile e con capelli e occhi scuri come la pece, registrò i suoi dati invitandola ad accomodarsi in sala ristorante per la cena della vigilia, ma Lucia ringraziò cortesemente chiedendo invece di farle avere la cena in camera. La ragazza, che il cartellino appeso al petto diceva si chiamasse Anna F., prese nota con garbo, ringraziando e mettendo in mostra un sorriso limpido e bianco, ricreando nel suo viso lo stesso avvincente contrasto a cui, fuori, davano vita la neve e la notte.

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La camera numero trentacinque era spaziosa e ben arredata, anche se un po' scarna. Una coperta beige rivestiva il letto e sui cuscini erano sistemati due cioccolatini come piccolo segno di benvenuto. Sedia e scrivania, di fronte al letto, davano l'impressione di uno scrittoio di altri tempi tanto erano piccoli e di taglio classico, quasi barocco; Lucia immaginò che sopra quel tavolo fossero state scritte tante lettere d'amore o di addio. Cominciò a svuotare il trolley riempiendo l'armadio, poi andò in bagno a sistemare i pochi oggetti contenuti nel beauty. Toccò i teli da bagno ben ripiegati e poggiati accanto al lavello, erano morbidi e odoravano del disinfettante che si usa per igienizzare i tessuti. Vicino agli asciugamani, dentro un piccolo cestino in vimini, erano sistemati i soliti saponi monodose. Erano da poco passate le sette, cominciava a sentirsi stanca. Era smontata dal turno alle due e aveva guidato quasi per cinque ore senza fermarsi mai. Le avrebbero portato la cena alle otto, quindi aveva meno di un'ora per concedersi una lunga doccia calda e rilassarsi con un buon libro. Ne aveva portati un paio e sistemati subito sul comodino dalla parte del letto che aveva scelto per dormire, quella più lontana dalla finestra, quasi per sentirsi ancora più richiusa nel suo privato. Si spogliò rapidamente, aprì il getto della doccia per farla scorrere un po' e sistemò gli asciugamani in modo da poterli prendere senza inzuppare tutto il pavimento. Appuntò i lunghi capelli castani e si tuffò nel vapore che stava cominciando a salire dal box doccia. Prese a strofinare il corpo con gesti circolari, la spugna morbida rilasciava schiuma bianca e ne saliva un profumo buono e fresco, piacevole. Si lasciò accarezzare dall'acqua bollente e da quell'aroma per molti minuti prima di decidersi a uscire. Si avvolse velocemente con un telo e con altrettanta velocità si asciugò. Lo specchio del bagno era appannato e l'aria umida le aveva un po' appesantito il respiro. Con l'asciugamano intorno al seno ed un po' di pelle d'oca sulle braccia zompettò fino all'armadio per prendere la biancheria. Aprendolo notò lo specchio sistemato dentro l'anta, uno specchio alto da terra e fino a più di lei. A casa non aveva uno specchio così, che rifletteva la figura intera. L'unico che aveva la mostrava solo dalle spalle a poco sotto al ginocchio, e questo unicamente se si specchiava da lontano. Curiosa di vedere tutta se stessa si tolse l'asciugamano e rimase a guardarsi alcuni minuti. Non era poi tanto male, qualche chilo di troppo quello era certo, ma concluse che le regalavano quella morbidezza che, secoli addietro, era considerata l'apice della bellezza femminile dagli artisti dell'epoca. Fece un giro su se stessa avvitandosi un po' per scrutare il sedere. Quello non le piaceva, troppo grande, troppa buccia d'arancia. Ma non si disperò più di tanto, tutto sommato i suoi trentanove anni non se li portava poi tanto male. E poi non c'era nessuno a criticare la sua cellulite, i fianchi larghi e i seni piccoli, così come, d'altra parte, non c'era nemmeno nessuno che li apprezzasse. Mossa da un gesto d'impazienza e rassegnazione Lucia si mise la biancheria e indossò una tuta calda che era rimasta nel trolley, che poi richiuse e appoggiò tra l'armadio e la parete. L'ultima volta che aveva mostrato il suo corpo nudo a qualcuno che non fosse un medico risaliva a quasi due anni prima. Un amore di passaggio, di quelli che si cercano quando la solitudine ti schiaccia troppo. Una relazione di qualche mese durante la quale aveva cercato in tutti i modi una speranza per ricominciare, ma non era riuscita a trovarla. Forse non era pronta, forse lui non era adatto, ma Lucia aveva sempre avuto un altro timore, ovvero di non essersi ancora lasciata alle spalle la storia con Nicola. Era stata innamorata persa di Nicola, completamente in balia di quell'uomo. Un uomo che l'aveva conquistata, sposata, fatta sentire una regina, ammaliata con il suo fascino. Ma le aveva anche sempre fatto credere di essere l'unica quando, invece, lui di regine ne aveva contemporaneamente tante altre. La scoperta fu 25


scioccante e ancora più scioccante fu la reazione di lui: non gliene era importato nulla. Non si era curato di poter ferire sua moglie quando lei aveva cieca fiducia in lui, figuriamoci cosa potesse importargliene dopo che l'aveva scoperto. Non si era nemmeno scusato. E quando Lucia, dopo mille notti in bianco e giorni passati a rimuginare sulla scelta migliore, gli disse che lo avrebbe lasciato, lui accettò passivamente la decisione, anzi le parve addirittura sollevato. Così era seguito un trasloco, reso pesante da un notevole carico di dolore e delusione, e il suo primo Natale da sola dopo otto anni. A peggiorare le cose ci pensò la sua famiglia, i suoi genitori non si capacitavano del perché avesse voluto lasciare Nicola, un uomo tanto perbene. Lucia aveva sempre pensato che, per loro, ad essere 'tanto perbene' fosse più il titolo dott. davanti al cognome. Le dissero che poteva passarci sopra, che una scappatella si poteva perdonare, e fu quell'atteggiamento tanto risoluto al necessario perdono del marito fedifrago che le fece aprire gli occhi. Che cosa aveva visto fino a quel momento? Quale famiglia credeva di avere intorno? Quel Natale fu una somma di sorprese e qualche conferma, sicuramente il primo che aveva guardato con la prospettiva giusta. I suoi genitori che si parlavano a malapena, le sue sorelle che facevano a gara a chi indossava il gioiello più prezioso o esibiva i figli più ben vestiti e beneducati, mentre i mariti se ne stavano in disparte a imbottirsi di noccioline e prosecco. E lei? Che cosa c'entrava lei in tutto quello? Che cosa c'era mai entrata? Se era vero che qualche scappatella si poteva anche perdonare, era anche vero che lei non sarebbe mai scesa a patti con il suo diritto alla felicità e ad un amore onesto e sincero. Si stese sul letto mangiando un cioccolatino, l'altro lo mise da parte per dopo. Sistemò i cuscini dietro la schiena e prese uno dei libri dal comodino. Era stata a lungo indecisa su cosa portare, poi aveva optato per un classico e un giallo, niente storie d'amore. Scelse il classico, prese Dickens ed il suo 'canto di Natale'. Lesse per alcuni minuti, in silenzio, accomodandosi ogni tanto sul letto. In sottofondo sentiva porte che si chiudevano e calpestio nei corridoi, sporadicamente qualche frase spezzata. Con ancora in bocca l'amaro del cioccolato fondente al settanta per cento assaporava una prosa classica, non difficile, ammaliante e molto descrittiva. Scrooge e la sua durezza, l’ostilità con cui rifiutava il Natale, ne negava la bellezza ed il sentimento le ricordavano vagamente se stessa. Per la verità lei aveva sempre amato il Natale, negli ultimi anni però si era ritrovata a viverlo da sola, monca di quella parte affettiva che, spavalda, se ne stava li a raccontare di famiglie perfette e amori pulsanti, mentre lei non poteva far altro che scambiarsi qualche augurio con i familiari o con i colleghi. Nessun pacchetto speciale, nessun bacio dato a mezzanotte, nessun progetto romantico, solo una settimana di interminabili, infiniti, insopportabili convenevoli che, implacabili e feroci, la mettevano di fronte alla sua solitudine. Dopo quasi mezz’ora bussarono alla porta, il cameriere mise la cena sul piccolo tavolo augurandole buon appetito e buon Natale. Lucia mangiò con calma e in silenzio. Il cibo era buono, sostanzioso e abbondante, le fu persino portata una fetta di panettone che sbocconcellò togliendo i canditi. Finito di cenare si lavò i denti e si mise il pigiama, rifugiandosi sotto le coperte continuò nella lettura ancora per un po’, fino a leggere tutta la seconda strofa. Poi con gli occhi che si erano stancati tanto per la lettura quanto per la luce un po’ troppo fioca della stanza, con in testa la presenza del fantasma del Natale Passato chiuse il libro e si addormentò. D’improvviso si ritrovò catapultata nei suoi sei anni, in braccio a un Babbo Natale che somigliava un po’ troppo a suo zio. Da brava non disse niente e fece finta di considerare autentico quel Babbo Natale, giusto per non rovinare l’aspettativa di chi aveva organizzato tutto. Poi eccola un paio di anni dopo, con i giochi attesi tra le mani e la malizia di chi, ormai, 26


alle favole non ci crede più. Ed ancora da adolescente, felice dei pranzi caotici della sua numerosa famiglia e con qualche pacchetto speciale da scartare. Sognò le sensazioni che aveva provato nei Natale passati, quel meraviglioso senso di attesa di qualcosa di magico e profondo che, nonostante si esaurisse in poco più di quarantottore, valeva tutto il tempo impiegato ad aspettarlo. Lucia si svegliò con in bocca il sapore degli auguri detti e ricevuti in quantità inimmaginabili, masticati e assaporati per donarli a chiunque si affacciasse nella sua vita e ricevuti indietro con lo stesso slancio con cui li aveva spesi lei. Si svegliò con i ricordi di tavole imbandite, di sua madre che tirava fuori il servito buono e la tovaglia rossa ricamata d’oro. Loro tre sorelle che ogni anno imbastivano un centrotavola nuovo e si divertivano ad addobbare l’albero con decorazioni vecchie ed altre nuove, che a forza di aggiungere un pezzo ogni anno ce n'erano abbastanza per addobbarne due. Suo padre che sistemava il presepe nell’angolo a destra, sotto i rami di un abete rigorosamente vero che sopravviveva poco più di un mese infilato in un vaso di plastica ricoperto di carta argento. Ogni personaggio aveva il suo posto da decenni tanto che, se avessero scattato delle fotografie ad ogni Natale e poi le avessero paragonate, avrebbero visto che padre, madre e figlio sarebbero stati perfettamente equidistanti tra di loro e da pastorelli, re magi e pecorelle. L’unica cosa differente sarebbe stato il riflesso delle luci dell’albero, che ovviamente cambiavano posizione ogni anno ma che lampeggiavano ininterrottamente per quasi quaranta giorni. La stella cometa, con la sua luce gialla, guidava sicura il cammino di tutti. Lucia guardò l’orologio, mancava ancora più di mezz’ora alle otto. Si alzò dal letto e scostò le tende, un cielo blu brillante invase il buio del sonno. La giornata era luminosa e serena, molto fredda, l’ideale per sciare un po’. Gli impianti avrebbero aperto alle nove, l’aspettava una magnifica mattina. Si preparò e scese a fare colazione, poi recuperò l’attrezzatura da sci che aveva lasciato in macchina. Da quando era uscita dalla camera a quando ci aveva fatto ritorno aveva incrociato una certa quantità di sguardi sorridenti e aveva scambiato altrettanti auguri. Il personale dell’albergo, già molto cordiale, aveva accentuato il calore con cui la salutava e gli altri ospiti non erano da meno. Il tipo alla reception (evidentemente la ragazza con gli occhi scuri aveva finito il turno e si godeva la festa in famiglia o chissà dove) le chiese se sarebbe scesa per il pranzo, Lucia disse che glielo avrebbe fatto sapere. Tornando in camera cercò di capire quale sarebbe stata la scelta migliore, ma preferì rimandare la decisione dopo aver sciato, confidando che le si sarebbero schiarite le idee scivolando veloce sulla neve ghiacciata. Alle nove era già con gli sci ai piedi. Erano almeno un paio d’anni che non sciava, forse di più. Sì di più, l’ultima volta era stato poco dopo aver lasciato Nicola, un’altra vacanza in solitaria, un altro bisogno di evasione. Allora era scappata dalla delusione, dal sogno infranto, dalla sua cocciuta cecità che non le aveva permesso di capire chi avesse avuto veramente accanto. Adesso cercava di scappare da un contesto che non sentiva più suo, da qualcosa dentro cui non si trovava più a suo agio. Discesa dopo discesa cercava di togliersi dalla mente tutte le immagini che le avevano abitato i sogni durante la notte, inquilini inopportuni di una stanza che avrebbe dovuto avere l’incarico di farla sentire accolta e protetta nel suo isolamento. Invece continuavano a tornarle in mente vecchie scene, quando gioire di un gioco ricevuto o confrontare con le sorelle i doni degli innamorati era la cosa più semplice del mondo. Vedere le manine dei suoi nipoti tutte prese a strappare la carta, implacabili nel frantumare quel pacchetto fatto con cura, e poi illuminarsi di gioia. Vedere sua madre tutta preoccupata perché le patate sembravano cuocere più lentamente dell’arrosto, salvo poi scongiurare il peggio perché, alla fine, tutto era riuscito alla perfezione. Claudia e Maria tutte fiere dei loro dolci, 27


ché ne portavano sempre uno a testa, e il padre che non aspettava altro che mettere in tavola il Vinsanto con i cantucci. I suoi cognati erano i più divertenti, tutti presi a cercare di essere uno migliore dell’altro, accaparrandosi il favore dei suoceri e spalleggiando quella innocua rivalità che nasce per natura tra sorelle. Scene di festa in famiglia, di entusiasmo infantile e di allegra baraonda l’avevano accompagnata durante tutta la mattina, distraendola a tal punto da rischiare di farsi male in un paio di occasioni. Poco prima di mezzogiorno, stanca nelle gambe e nella testa, tornò in albergo e, mossa dal primo spirito del Natale, comunicò al ragazzo della reception che avrebbe pranzato in sala. Dopo aver fatto una doccia bollente si unì agli altri ospiti nel ristorante. La sala da pranzo era splendida, diversa dal mattino. Addobbata con tonalità rosse e bianche, dalle tovaglie alle stoviglie alle decorazioni sembrava tutto come in una copertina di uno di quei mensili di arredamento nel numero di dicembre. Dal soffitto calavano fiocchi di neve e comete, diverse stelle di Natale erano sistemate strategicamente in tutti gli angoli in modo che, ovunque si voltasse lo sguardo, se ne potesse apprezzare una. Lucia trovò il suo tavolo e si accomodò, il fatto che fosse apparecchiato solo per uno non la turbò più di tanto, dopotutto era sola. Sarebbe stato peggio che ci fossero stati due coperti e poi, con un’assoluta mancanza di tatto, il cameriere avesse tolto il piatto in più rimarcando senza delicatezza che non aveva compagnia. Vicino al suo c'era un tavolo con quattro coperti, scoprì poi che lo occupava una famiglia di Genova, i genitori sulla cinquantina e due ragazzi adolescenti. Per tutto il pranzo, che fu squisito e ricercato, Lucia si ritrovò a parlare con questa famiglia. Nessuno ebbe il coraggio di chiederle come mai fosse sola e lei, se anche lo avessero fatto, avrebbe mantenuto una certa fierezza nel dire che si era concessa una piccola vacanza (anche se, a ben guardarlo, quel posto vuoto cominciava ad infastidirla un po’). Chiacchierando del più e del meno scoprì che lui era un avvocato e sua moglie si occupava della casa e dei figli, i quali frequentavano le scuole superiori con buon profitto ed alle lodi dei genitori si limitavano ad annuire annoiati. La signora le suggerì di recarsi alla SPA nel pomeriggio, le piscine erano favolose e i massaggi l’avrebbero rimessa al mondo. Lucia disse che in effetti ne aveva intenzione perché era un po’ indolenzita dalla mattinata di sci. Il pranzo era durato molto a lungo, Lucia tornò in camera poco dopo il brindisi di buon augurio, dopo aver bissato con lo spumante e il tiramisù (che comunque era meno buono di quello di sua sorella Maria). Si sdraiò sul letto con la pancia piena di buon cibo e la testa ingombra di pensieri che stavano cominciando a dare vita ad una percezione che voleva ignorare di proposito. Accese noiosamente la tv per distrarsi un po’ ma uno zapping veloce la convinse che non ne valeva la pena e la spense pochi minuti dopo. Riprese in mano Dickens e si sdraiò comoda sul letto, con le gambe allungate e nessun senso di colpa per aver mangiato troppo, ricominciò a leggere. Lesse poco meno di un’ora, erano da poco passate le tre e, alla fine della terza strofa, Lucia decise di andare alla SPA tanto reclamizzata dalla mamma genovese. Si preparò indossando un costume a due pezzi, che giudicò le stesse particolarmente bene, e scese le scale in accappatoio e ciabatte accompagnata ad ogni passo dal fantasma del Natale Presente. La SPA era veramente bella, elegante e in un certo senso rilassante. C’era un piacevole tepore ed il rumore dell’idromassaggio, unito a quello delle cascate calde, regalava un sottofondo gradevole. Lucia fu accolta da due ragazze giovani e carine, una le porse un morbido telo bianco e l’altra le illustrò gli orari dei massaggi ed il funzionamento del bagno turco. Lucia prenotò un massaggio per le quattro e mezzo, nel frattempo si sarebbe goduta quello delle 28


bolle. Quando arrivò a bordo piscina vide che non c'era nessuno oltre lei, la cosa non le dispiacque affatto. Mise telo e accappatoio su una delle sdraio e si immerse lentamente nell’acqua, quando le arrivò all’altezza del collo si sentì come avvolgere da un abbraccio caldo. Se ne stava seduta a farsi infrangere addosso i getti d’acqua che sputavano fuori i bocchettoni e a galleggiare nelle onde che le nascevano tutto intorno quando pensò che, in quel momento, non avrebbe voluto essere da nessun’altra parte. Quella convinzione durò quanto una di quelle bolle però. Prima che potesse assaporare la convenienza della sua scelta nella testa le si scatenò una tempesta più violenta di quella che le circondava il corpo, ché se fosse stato un mare e non una piscina, non avrebbe dato scampo a chiunque vi si fosse immerso. Valutò all’improvviso se davvero fosse quella la cosa che desiderava, se lo fosse mai stata anche negli anni passati: trascorrere il Natale da sola, lontano dalla famiglia e dagli affetti più cari. Le feste passate in ospedale non le avevano mai fatto dubitare della sua scelta, presa com’era dal dovere professionale di far bene il suo lavoro e da quello umano di rendere migliore il Natale di bambini che non avevano davvero altra soluzione. Quei bambini e le loro famiglie non potevano fare diversamente, non avevano possibilità. Lei, invece, che aveva potuto scegliere, si era permessa di rinchiudersi dentro la propria ostilità, dentro quel dolore reale ma forse esagerato, dentro l’assurda convinzione di non volere assolutamente un Natale pieno di affetto e colmo di persone che le volevano bene. Chi era lei per essersi privata di un’opportunità tanto importante e genuina che altri davvero erano impossibilitati a vivere? Chi era lei per buttare alle ortiche qualcosa che molti non avevano e che avrebbero voluto con tutto il cuore? L’acqua le ribolliva intorno e la colpiva lungo la schiena e le gambe, riuscendo ad arrivarle dritta al cuore. Perché aveva scelto di scappare? Perché aveva deciso di non vedere? Vigliaccheria, trovò solo quella risposta. La paura di non riuscire ad affrontare un Natale come avrebbe dovuto essere, la certezza che si sarebbe trovata le mani vuote di un sentimento a cui sentiva di avere diritto, ma anche la sottovalutata certezza che, comunque, sarebbe stata all’interno del calore della sua famiglia. Presa da questi pensieri non sentì nemmeno che una delle ragazze che aveva incontrato poco prima, quella più loquace delle due, la stava chiamando. Al terzo “signora, mi scusi” si destò dalla voragine in cui era finita e uscì dalla vasca, si mise l’accappatoio e la in una piccola stanzetta con un lettino bianco e le pareti color verde oliva. Le fu dato il tempo di asciugarsi ed indossare biancheria usa e getta, quando fu pronta la raggiunse l'altra ragazza che le chiese di stendersi a pancia sotto mentre accendeva un bastoncino di incenso. Le spalmò sulla schiena un olio tiepido e cominciò a massaggiarla, la ragazza era minuta ma possedeva una notevole forza nelle mani e nelle braccia. La massaggiò a lungo distendendole i muscoli, gambe e schiena le dolevano per gli sforzi della mattina ma trovarono giovamento nei movimenti energici e caldi. Completamente in balia di quelle carezze vigorose Lucia riuscì a distendersi, ma il rumore nella sua testa, simile a quello dell’idromassaggio, non ne volle sapere di placarsi. Poco più di mezz’ora dopo era di nuovo in camera, sotto la doccia, a togliersi via dalla pelle l’olio profumato e quella sensazione di errore che le si era appiccicata addosso. Strofinò fino a che non si sentì soddisfatta ma la spugna che le aveva pulito la pelle non aveva avuto la stessa efficacia sulla sua coscienza. Uscì dal bagno e si vestì in fretta senza badare a stupidaggini come quella di rimirare il proprio corpo, che tanto, se c’era qualcosa che non andava, era ben annidato dentro. Si buttò sul letto e prese il cellulare, dalla sera precedente non lo aveva più degnato di uno sguardo. Dopo l’accensione le arrivarono all’orecchio suoni di diversa provenienza che raccoglievano gli auguri di chi le voleva bene. Rispose telegrafica a tutti, 29


compresi i componenti della sua famiglia, quasi infastidita perché si erano permessi di scriverle. Chi li aveva cercati? Lei era scappata proprio per non sentirseli addosso con tutta la loro ingombrante perfezione. Che vivessero le feste in pace lasciandola da sola nel posto in cui era scappata, rinchiudendosi di proposito in quella ricercata solitudine. Eppure, pur volendoli cacciare fuori, pur avendo scelto di isolarsi e costringendosi a centinaia di chilometri di distanza, Lucia li sentiva attorno a sé. Con un gesto di stizza buttò il telefono sul cuscino accanto a lei e ingurgitò, tutti e due insieme, i cioccolatini che aveva trovato prima di pranzo. Dickens, era colpa sua e del suo libro. Era lì che la fissava dal comodino, con la copertina in brossura un po’ rialzata. I suoi maledetti fantasmi la tormentavano come avevano tormentato Scrooge. Il vecchio burbero, però, aveva ceduto quasi subito al loro potere e, visita dopo visita, si era addolcito riuscendo ad aprire gli occhi sui propri sbagli. Lei, invece, cercava di convincersi del contrario, che non aveva sbagliato a passare le feste a lavoro e, tanto meno, aveva sbagliato ad andarsene da sola in cima a quelle montagne. Era quello che voleva, stare da sola, non sentire il peso delle altre perfette vite che la schiacciava sottolineando quanto la sua, di vita, fosse imperfetta. Si era isolata per non dover affrontare i suoi parenti e i loro sguardi di pietà e, quel che era peggio, i propri sentimenti d’inadeguatezza. Era delusa da sé, dalla sua vita, da quello che non era riuscita a costruire. Era delusa dal fatto di non aver saputo perdonare Nicola, di non aver avuto la forza di riprovare. Se ci pensava razionalmente ed in altri periodi dell’anno si diceva che aveva fatto benissimo a mandarlo al diavolo, lui con tutte le sue amichette poco di buono. Ma nel mese di dicembre, con la presenza costante e oppressiva di quel ‘vogliamoci bene e perdoniamoci’ sulla testa e l’immagine della famiglia felice che se ne stava appollaiata tutta quieta su un albero come fa il condor sull’animale morente, si chiedeva se fosse stato giusto dare più potere al suo orgoglio piuttosto che a una più misera e docile debolezza. Decisa a confermare le sue scelte prese a leggere la quarta strofa, sfidando apertamente il fantasma del Natale Futuro. Lesse con attenzione e trasporto le ultime quaranta pagine. Più andava avanti e più cercava quell’appiglio che le avrebbe potuto dare un po’ di sicurezza nella sua scelta, e più cercava quell’appiglio più non lo trovava. Il povero Scrooge era morto solo, con i domestici che l’avevano derubato e nessun conoscente che parlasse bene di lui o che versasse una lacrima. Chi gli aveva voluto un po’ di bene, invece, aveva subito una sorte peggiore, sorte che lui avrebbe potuto cambiare se fosse stato più generoso, e questa era la cosa che lo aveva impressionato di più. Scrooge era rimasto così sconvolto dalle visite dei tre fantasmi, in particolare dall’ultimo (che raffigurava la morte non solo del corpo, ma soprattutto la morte della sua anima), che al risveglio di quella notte tormentata aveva gioito di essere vivo e, più di tutto, aveva gioito di essere ancora in tempo per festeggiare il Natale e rimediare a tutti i suoi errori. Si era speso in gesti di generosità, aveva riconosciuto e premiato la lealtà di chi da sempre gli era fedele e, più di tutto, si era riavvicinato alla sua famiglia, a quel nipote che, nonostante il suo caratteraccio, non gli aveva mai voltato le spalle. Lucia ebbe la netta sensazione di essere diventata come quel povero vecchio arido e scorbutico, convincendosi che il Natale fosse solamente una fesseria a cui non si doveva dare troppo peso. Nello stesso modo in cui le tre presenze spettrali avevano toccato Scrooge, però, avevano toccato anche lei. I ricordi dei Natale passati erano tornati a raccontarle quale e quanto grande fosse il suo significato, il Natale che stava vivendo quel giorno l’aveva messa di fonte ad una consapevolezza improvvisa, e cioè che il suo isolamento stesse ferendo i suoi familiari, che avrebbero festeggiato comunque ma anche loro, a tavola, si sarebbero trovati di 30


fronte una sedia vuota che avrebbero tanto voluto vedere occupata. E nei prossimi anni? Se avesse continuato così, nella sua cocciuta ricerca dell’auto-esclusione, come sarebbe andata a finire? Altri turni in ospedale, altre vacanze da sola? I suoi nipoti sarebbero cresciuti domandandosi come mai la zia non c'era mai, gli altri avrebbero certamente festeggiato ma con quell'angolino del cuore costantemente volto al pensiero della sua assenza. E se avesse trovato un uomo onesto e si fosse di nuovo innamorata allora sarebbe tornata a festeggiare? Probabilmente sì, ma allora l'ipocrita sarebbe diventata lei. Il dolore di quello che non si poteva più vivere andava affrontato adesso, voltarsi dall’altra parte non avrebbe cambiato le cose e certo non lo avrebbe fatto sparire. Lei era sola, era un dato di fatto, e stava dando troppo potere al suo personale quarto fantasma, quello del Natale che non è stato più. Ma perché non è stato più? Perché Nicola ha fatto quel che ha fatto, perché lei lo ha cacciato o perché non si è mai permessa di andare oltre? Era rimasta impiantata nella colla della delusione, un cemento a presa rapida che non le aveva permesso di muoversi in nessuna direzione ma solo di restare ferma lì, a vedere ogni anno le stesse scene, la stessa storia ripetuta come in loop psichedelico. Adesso però era venuto il momento di distogliere lo sguardo dalla spirale bianca e nera e spezzare quel cemento, tirare fuori le gambe e cominciare a muovere qualche passo nella direzione giusta, che di tempo ne aveva perso già troppo. Prese la decisione in un attimo, svelta scese dal letto e si precipitò a prendere il trolley riempiendolo alla rinfusa. Erano le sei, se si fosse sbrigata sarebbe riuscita ad arrivare a casa per mezzanotte o poco prima, poi una bella dormita e infine dai suoi l’indomani, per il rituale pranzo degli avanzi. Fece due viaggi per portare giù gli sci e la valigia, poi caricò tutto in macchina. Si scusò con la receptionist (ancora la ragazza della sera precedente, con gli occhi più scuri ed il sorriso più luminoso che mai) per dover lasciare la stanza un giorno prima, ma proprio non poteva restare. Pagò il conto e ringraziò di tutto cuore per la professionalità e la gentilezza che aveva trovato. Ripartì com'era arrivata, con una grossa manciata di stelle appiccicate al cielo nero e con la neve che rifletteva il bagliore delle Luna, solo che stavolta non era una fuga ma un viaggio di ritorno che l’avrebbe restituita ad una dimensione dalla quale mancava da troppo tempo. Nella camera numero trentacinque intanto, sotto un cuscino buttato di traverso e sopraffatto dalla rivoluzione che aveva creato in Lucia, sonnecchiava buono buono 'il canto di Natale', in attesa di qualche altra anima persa da prendere per mano e a cui far scoprire, di nuovo, il vero spirito del Natale.

Serena Pisaneschi

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Guardando il Natale di Marta Vitali

"Ci saranno due gradi, e sono anche ottimista!" "Dai ti prego, scendi tu a portare la spazzatura…" "Va bene, tanto qui ogni scusa è buona…" Cappotto, berretto e sciarpa. Guanti, parastinchi e parapolsi. Tutto rigorosamente di lana, spessa. Ai piedi ovviamente le pantofole da divano, quelle con la gomma sotto, per intenderci, perché no, scendere con un paio di scarpe degne di tale nome sarebbe troppo. Succede che scendere in strada nella versione freddolosa del pupazzo di neve mi causa un moto di sconforto. Salvo poi ricredermi e rendermi conto che il Natale qui, ha preso il sopravvento. Lucine che sembra di essere in una discoteca anni ottanta, lampeggiano a ritmo musicale, perché sì, esistono anche quelle. Ecco che, con un sacco della spazzatura ben saldo tra le mani mi ritrovo ad improvvisare un ottava in mezzo alla strada. Occhi chiusi in modalità christmas time attivata. Ballo e canto. In un attimo mi ritrovo a pensare a quella volta che… Era quasi Natale, stavo finendo di preparare il presepe per accogliere il bambinello che da lì a poco sarebbe comparso. Quando si è bambini è tutto magico. Era tutto pronto. Ecco che come da tradizione mia nonna mi prese in braccio ed iniziò a raccontarmi la storia. Quella storia, quella di quando lei da bambina raccoglieva un panino dalla tavola il giorno di Natale e lo portava alla famiglia che abitava al di là della strada, quella che non aveva niente, ma proprio niente, ed a Natale, in tanti presi dalla compassione e dalla necessità di pulirsi la coscienza aiutando qualcuno, attraversavano la strada e raggiungevano la casa invisibile. Sì, la chiamavano proprio così, perché nessuno la vedeva durante l’anno, solo a Natale la gente si accorgeva di loro. 32


Ecco che mia nonna, ancora bambina, andava da quella famiglia e portava loro un panino, era poco, ma sembrava tanto. Ad aprire, ogni anno veniva la stessa signora, sempre lei, e di anno in anno aveva una ruga in più. Mia nonna mi raccontava, che non le faceva paura, perché aveva gli occhi buoni. Ricordati piccola mia, quando sarai grande dovrai imparare a leggere negli occhi le persone. Lo ricordo come se fosse ieri, ancora oggi, spesso, quando incontro persone nuove, cerco di leggere negli occhi prima di ascoltare le parole. Oggi ripenso a quelle parole con nostalgia. Qui in mezzo alla strada mi accorgo che la mia ottava è finita, la musica sta sfumando, inizio a sentire freddo, una lacrima mi riga il viso. E’ ora di rientrare in casa, è ora di sorridere a chi fa tanto per me, è ora di ringraziare le persone che ho intorno, è ora di amare il Natale. Buon Natale!

Marta Vitali

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Caro Babbo Natale di Eleonora de Berardinis Caro babbo Natale, forse sono troppo grande per scriverti una lettera, ma ho bisogno di credere in qualcosa, che ci sia ancora qualcuno capace di ascoltare e di adoperarsi per migliorare un po' il mondo perchÊ, parliamoci chiaro, se ognuno facesse qualcosa nel proprio piccolo, le cose un pochetto sarebbero diverse. Non ti chiedo di vincere soldi al superenalotto, di farmi trovare le chiavi di una bella macchina sotto l'albero: ti scrivo per lasciare dentro ogni calza che trovi un piccolo sorriso, di fare una carezza a tutti quei bambini che non ne hanno abbastanza. Per me stessa non chiedo nulla, anzi, forse un po' di neve la sera della vigilia perchÊ dopo una piccola nevicata, è tutto piÚ magico. A tutti quelli che hanno una famiglia con la quale passare queste feste, in particolar modo a chi purtroppo non ce l'ha. A chi nonostante i problemi ha l'amore e il sole nel cuore, ma anche a chi dentro ha il gelo. A chi sogna, a chi cade e si rialza, a chi soffre a chi piange a chi ride... A chi spera: Auguri.

Eleonora de Berardinis

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Natale

di Anna Giulia Alfonzo Nell'Europa settentrionale, a Nord del Circolo Polare Artico e precisamente in Lapponia una volta viveva un simpatico vecchietto che si chiamava Natale.... Natale abitava in una capanna del bosco, circondata da abeti, vicino ad un allegro ruscello d'acqua limpida e fresca.

Disegno originale di Lucrezia Giulia Indelli, 9 anni

Questo vecchietto ogni giorno coltivava il suo orticello, curava le sue renne e intagliava il legno. Vestiva sempre di rosso, il suo colore preferito. Era un vecchietto assai buono e generoso con una lunga barba bianca ed aiutava spesso i suoi vicini. Un giorno pensò che era troppo poco quello che stava facendo e si mise a pensare: voleva trovare un modo per poter dare agli altri qualcosa di piÚ. 35


Quella sera fece un sogno: nel sogno gli apparve un angioletto, era molto bello e grazioso e, con una dolce vocina, gli spiegò che nel mondo c'erano tanti bambini ma tanti di questi erano poveri e non potevano permettersi niente.

Disegno originale di Lucrezia Giulia Indelli, 9 anni

Anche loro come tutti gli altri bambini più fortunati desideravano dei giocattoli, ma non avrebbero mai potuto averli. Il cuore dell'angelo era colmo di tristezza e un lacrima cominciò a scorrergli sul viso. Natale che era molto sensibile chiese all'angioletto cosa poteva fare per far spuntare sui visi di tutti i bambini un sorriso e un po' di felicità nei loro cuori. L'angioletto rispose che se voleva aiutarli, sarebbe dovuto partire caricando sulla sua slitta trainata dalle sue renne un sacco pieno di doni da consegnare a ciascun bambino la notte santa, quando nacque Gesù. "Ma dove posso trovare i giocattoli per tutti i bambini del mondo? E come posso farcela a consegnarli tutti in una sola notte e ad entrare nelle case? Ci saranno tutte le porte chiuse!" disse il vecchietto. L'angioletto gli disse che Gesù Bambino l'avrebbe aiutato a risolvere ogni problema. Fu così che Gesù Bambino nominò Natale papà di ogni bambino donandogli il nome di Babbo Natale! I primi giochi che Babbo Natale regalò furono costruiti con le sue stesse mani: intagliò nel legno bambole, macchinine, pupazzi ed ogni sorta di giocattolo. Gesù Bambino mandò a Babbo Natale degli Elfi che altro non erano che piccoli angeli dalla faccia simpatica che lo aiutavano a costruire i giocattoli, a caricarli sulla slitta e a consegnarli in tempo ogni anno la sera di Natale! 36


Disegno originale di Lucrezia Giulia Indelli, 9 anni

GesĂš Bambino fece anche un piccolo miracolo: concesse alla slitta e alle otto renne il dono di poter volare nel cielo per poter portare, in una sola notte, un sorriso nei visi di tutti i bambini del mondo e nei loro cuori!

Disegno originale di Elio Sorri, 6 anni e mezzo

Babbo Natale può, quindi, entrare in ogni casa calandosi dal camino e riempiendo le calze che ogni bimbo appende sotto al camino e posando gli altri pacchetti piÚ grossi sotto agli alberi di 37


abete adornati a festa con luci e addobbi vari: palline, candeline, bastoncini di zucchero, e anche nelle case delle famiglie piĂš povere gli alberi di abete venivano adornati con noci, mandarini, frutta secca, che profumavano l'aria di festa e che poi venivano mangiati in famiglia tutti insieme.

Disegno originale di Sergio Tofani, 5 anni e mezzo

Grazie alla magia dell'amore Babbo Natale, la notte santa, riesce puntualmente a consegnare i suoi doni per poter far felici tutti i bambini del mondo!

Disegno originale di Lucrezia Giulia Indelli, 9 anni

Anna Giulia Alfonzo 38


Il Re d’inverno di Eufemia Griffo

E’ il re d’inverno amante della luna che oscura il sole, solitario il suo passo che affonda nella neve Tra i suoi capelli perle di neve e luci si rincorrono scomparendo nel buio della gelida notte Lo sguardo perso ad ammirar la beltà del nuovo mondo mentre le ultime foglie dormono il lungo sonno

Eufemia Griffo

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Il Natale di Alice di Elena Brilli

Fa caldo qua dentro. Ma fuori dev’essere tanto freddo e tira anche vento. L’ho capito quando lei ha aperto la finestra per fumare. Lo fa sempre la sera prima di andare di sopra e lasciare tutto al buio. Da qualche tempo lei ha messo in salotto una cosa verde a punta, sembra un albero, ma le foglie non si mangiano, non sono come le cose vere. E poi insieme a quello piccolo, che urla e corre e salta e mi fa paura quasi tutte le volte anche se ho imparato che quando salta devo scappare, lei ha messo, su questa cosa verde, tutta una serie di cose che penzolano e fili e palline e io vorrei tanto prenderle e a volte ci riesco anche, ma se lei è in casa mi brontola e mi tocca scappare anche se volevo continuare a giocare. Ma quando non c’è perché sta fuori tutto il giorno con quello piccolo e tornano solo quando è buio, io allora ci riesco a tirane giù una di quelle cose penzolanti e gioco a rincorrerla tutto il tempo, finché non si nasconde sotto il mobile e non ci arrivo più e allora salgo di sopra e dormo. Stasera dev’essere una serata speciale però. Quello piccolo si è addormentato tutto contento. Prima di andare a dormire, insieme a lei, quello piccolo ha messo sopra il davanzale dove mi siedo per guardare fuori, una cosa uguale a quella dove mi mettono le cose da mangiare. Ci hanno messo sopra una cosa marrone e una cosa arancione. Erano tutti contenti prima di andare di sopra. Io l’ho assaggiata subito la cosa marrone. Mi si è staccato un pezzettino e l’ho mangiato, ma non mi piaceva. Un po' come quando la mattina quello piccolo mangia prima di uscire e io a volte, quando si incanta a vedere le figure che si muovono da dentro una cosa che fa luce davanti a lui, gliene rubo un pezzettino, ma non mi piace. Quella arancione invece aveva un odore cattivo. Dopo che quello piccolo si è addormentato, lei è andata su e giù un tante volte e ha portato un sacco di scatole colorate con un sacco di fili sopra, ma mi ha guardato male e mi ha detto che non le devo toccare. “Sono del mio bambino” ha detto, e credo che siano una cosa importante, ma io ho voglia di giocarci lo stesso. 40


Sono belle e colorate, e hanno i fili. Le ha messe sotto la cosa verde tutta colorata e accesa con un sacco di lucine che si muovono, che io ci ho provato a rincorrerle ma non le prendo mai. A volte mi arrampico anche per provare a prenderle, ma quando torno giù mi viene dietro quasi sempre un filo dorato che io un po' mordo e lei lo rimette a posto tutte le sere quando torna. Ha lavorato un sacco le scorse sere per sistemare quelle scatole colorate. C’era la carta, che io provavo a sedermici sopra o ad infilarmici sotto e lei mi mandava via, e c’erano i fili, tanti fili, tutti luccicanti, e allora ci giocavo un sacco mentre lei sistemava la carta colorata sopra le scatole. Poi le volte che le serviva proprio il filo che stavo mangiando io, allora me lo prendeva e io lo volevo riprendere e lei allora mi mandava via di nuovo. Ma io tornavo sempre. C’erano tanti fili. Era contenta mentre lavorava a quelle scatole colorate. Nel silenzio della notte ogni tanto parlava e diceva dei nomi e sorrideva. Forse pensava a qualcosa o a qualcuno che la rendeva felice. Forse è così che lei dice agli altri che vuole loro bene. Forse è il suo modo di fare le fusa. Io faccio le fusa quando voglio bene a qualcuno e mi sento bene. E’ il mio modo per dirgli ‘grazie’. Poi, dopo aver sistemato le scatole sotto la cosa verde tutta colorata, ha spento tutte le luci grandi e alte ed è andata su. Io mi sono messa sotto le coperte con lei, come faccio sempre, e mi ha accarezzato tanto stasera. Ho fatto tante fusa. Lei è buona. Mi da sempre da mangiare e mi coccola e mi brontola a volte. A volte gioca anche con me. Quello piccolo la chiama ‘mamma’, ma non credo assomigli alla mia di mamma. Non me la ricordo la mia mamma, chissà se ne ho una anch’io. Chissà dov’è. Quello piccolo, invece, lei lo chiama ‘il mio bambino’, gli da anche un nome, ma non me lo ricordo, dev’essere il suo cucciolo. Il mio nome invece credo sia Alice, lei mi chiama sempre così, anche se a volte, soprattutto quando ho combinato qualcosa che però non saprei dire cosa, mi chiama ‘peste di gatta’, chissà perché. Dopo che anche lei si è addormentata sono tornata giù e mi son messa sul grande cuscino a guardare la danza delle lucine colorate arrampicate sulla cosa verde. Non so quanto tempo è passato, forse mi sono addormentata, di nuovo, anch’io. Ho sentito un rumore e mi sono svegliata di colpo. Che paura! C’è un omone grosso e rosso e un animale grande con delle punte sulla testa accanto a lui. Sono schizzata a nascondermi ma li vedo. L’animale grande con le punte sulla testa ha mangiato la cosa marrone e quella arancione sulla finestra mentre l’omone grande ha aggiustato un paio di cose sulla cosa verde colorata. Sembra uno di quegli omini disegnati da quello piccolo, il cucciolo, sulla carta. Ne ha fatti tanti di disegni così ultimamente e tutto contento li descriveva alla sua mamma.

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“Guarda mamma, ho disegnato Babbo Natale! E’ tutto rosso, ha la barba bianca e il suo cappello in testa, rosso anche lui! Poi gli ho fatto anche il cinturone nero in vita, gli scarponi e il sacco verde sulle spalle con dentro tutti i miei regali! Ti piace mamma?” Lei sorrideva sempre e faceva un sacco di complimenti a quegli scarabocchi colorati sulla carta. Quello piccolo lo chiama ‘Babbo Natale’, ma quello disegnato aveva anche un sacco verde sulle spalle. Questo qua è tutto uguale a quello disegnato dal cucciolo, ma il sacco verde non ce l’ha. Forse è proprio ‘Babbo Natale’, quello vero. Sorride, gli occhi sono calmi. Sembra tanto buono. Sono salita sul tavolo, chissà che odore ha. Ha allungato una mano, ha un buon odore. La mano è grande e mi ha fatto una carezza, che bella che è la carezza di questo omone grande. Me ne ha fatte due o tre. E’ calda la sua mano. Ha detto piano all’animale con le punte sulla testa: “Andiamo Rudolph, qui non hanno bisogno di me. Hanno già il loro Natale.” Poi mi ha battuto piano sulla testa e ha detto: “Buon Natale micetta. Sei fortunata, in questa casa c’è tanto amore, non c’è bisogno dei miei regali.” Ne hanno parlato tanto lei e il cucciolo di questo ‘Natale’, è una cosa che li rende allegri e quando ci pensano sono tutti contenti. Chissà cos’è ‘Natale’. Mi sono riaddormentata quasi subito, dopo che ‘Babbo Natale’ è andato via. Chissà come ha fatto ad uscire. La finestra era chiusa. La prossima volta che lo vedo glielo chiedo come fa ad uscire anche se la finestra è chiusa. Non so se anch’io sorrido. Se potessi farlo, adesso sorriderei. Sono contenta stanotte. C’è pace. Lo hanno aspettato tanto lei e il cucciolo. Non ho capito bene cosa sia, ma stanotte dev’essere ‘Natale’.

Elena Brilli

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La redazione di questo numero: Elena Brilli: Direttrice – Grafica Autrice del racconto: “Il Natale di Alice” E-mail : elena.brilli@gmail .com Blog: Crazy Alice in Wonderland http://crazyaliceinwonderland .com/ Facebook: Elena Brilli Mariagrazia Catenacci Autrice dell’ illustrazione originale di copertina E-mail : mgcatenacci@libero.it Facebook: Mariagrazia Catenacci Carlo Galli Autore del racconto: “La messa di Natale” E-mail : carlogalli .galli@gmail .com Blog: Carlo Galli – Parole , Pensieri , Emozioni https://gallicharl .wordpress.com/ Facebook: Carlo Galli Eufemia Griffo Autrice del racconto: “Fuori scende la neve” Autrice delle poesie: “Nella memoria”, “Ice Queen” e “Il Re d’inverno” E-mail : eufemia_g@live .it Blog: Il fiume scorre ancora https://ilfiumescorreancora .wordpress.com/ MultiBlog : Memorie di una Geisha https://eueufemia .wordpress.com/ 43


Andrea Mazzolini Autore della poesia: “Auguri de Natale” E-mail : mazzolini@gmail .com Facebook: Andrea Mazzolini Antonella Fortuna Autrice del racconto: “Gli amiconi” E-mail : anto.fortuna@libero.it

Pietro Pancamo Autore del racconto: “Serafino preposto al coraggio” E-mail : pipancam@tin .it, pietro.pancamo@alice .it Armando Cambi Autore del racconto: “Notte di Natale” E-mail : armando.cambi@libero.it Serena Pisaneschi Autrice del racconto: “Il quarto fantasma” E-mail : serena .pisaneschi@gmail .com “Letture da metropolitana”: http://www.letturedametropolitana.it/autori Facebook: Serena Pisaneschi Eleonora de Berardinis Autrice del racconto: “Caro Babbo Natale” E mail : ell .elly@hotmail .it Pagina Facebook: https://www.facebook .com/eleonora .deberardinis85/ Anna Giulia Alfonzo Autrice del racconto: “Natale” E-mail : giulia .anna .a@gmail .com

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Marta Vitali Autrice del racconto: “Guardando il Natale� E mail : martavitali@live .it Blog: Pensieri Loquaci https://pensieriloquaci .wordpress.com/ Facebook: Marta Vitali

Il nuovo numero di WRITERS vi aspetta a Febbraio! La redazione augura a tutti i nostri lettori un sereno Natale e uno strepitoso nuovo anno. Auguri!

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