José Ovejero
Fumo
traduzione di Bruno Arpaia Voland
Titolo originale: Humo
© José Ovejero, 2021
© dell’edizione italiana
Voland SRL2023
Tutti i diritti riservati
Prima edizione: aprile 2023
ISBN978-88-6243-519-2
Di José Ovejero presso le edizioni Voland:
Come sono strani gli uomini
Nostalgia dell’eroe
Donne che viaggiano da sole
La vita degli altri
Non succede mai niente
Prime notizie su Noela Duarte
Un anno nero per Miki
L’invenzione dell’amore
La seduzione
Insurrezione
La traduzione di quest’opera ha ricevuto la sovvenzione del Ministero della Cultura e dello Sport di Spagna
Ci dicevano che le api stavano scomparendo, ma qualche mattina ce ne sono tante che se usciamo dalla baracca dobbiamo camminare con la bocca e gli occhi chiusi perché non ci si infilino dentro. In realtà, ormai esco io sola, se non c’è alternativa, perché l’ultima volta che lo abbiamo fatto tutti e due al bambino ne sono entrate sette o otto dalle maniche e dal colletto della camicia e gli hanno conficcato i pungiglioni nelle braccia e nel petto. Prima ha gridato molto forte, un unico grido che sembrava più di sorpresa che di dolore. Poi è scoppiato a piangere. Di solito i suoi attacchi di pianto non durano a lungo. Per di più, è rimasto molto impressionato quando ho sputato nel terreno e ho fatto con le dita una fanghiglia che, dopo avere estratto i pungiglioni con le unghie, ho applicato sulle punture. Così il fango succhia il veleno, gli ho spiegato. Da allora il bambino rimane nella baracca, con la fronte appiccicata alla finestra, se devo uscire tra la nube di api a tagliare la legna o a sturare dalla melma lo scarico rotto che va alla fossa settica. Anche se continuo a rattopparlo, il tubo è spaccato in tanti punti che il fango finisce per entrarci e si solidifica all’interno, provocando l’intasamento del gabinetto.
Quando una di queste piccole emergenze che mi costringono a uscire dalla baracca coincide con l’invasione di api, mi chiudo il fondo dei pantaloni e i polsini della blusa o del pullover con una corda. Mi copro il collo con una sciarpa e me ne avvolgo un’altra intorno alla testa per evitare che mi si impiglino nei capelli. All’inizio mettevo gli occhiali per non farmele sbattere
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contro gli occhi, ma qualcuna si perdeva sempre dietro le lenti, si spaventava e finiva per pungermi su una palpebra. Sebbene mi sia abituata alle punture, sulla palpebra sono molto dolorose e l’infiammazione mi rende difficile vedere per giorni. Tuttavia, se possiamo, restiamo nella baracca a guardare quelle ondate che si spostano con movimenti simili a quelli degli storni. Come un sacchetto di plastica che aleggia nel vento, scende, sale, ondeggia, sembra deformarsi. Il bambino guarda in silenzio – fa quasi tutto in silenzio – e deve avere paura perché mi prende la mano e a volte sussulta come se avesse i brividi e si avvicina un po’ di più a me. È uno dei rari momenti in cui mi permette di tenergli un braccio sulle spalle. A volte ci avvolgono per così tante ore che finiamo per abbandonare il nostro posto di sorveglianza, il che non significa che ci dimentichiamo di loro, perché il ronzio attraversa le pareti di legno e io stessa mi scuoto spesso via un insetto inesistente ogni volta che sfioro qualcosa. La pelle mi brucia come se fosse percorsa, anche sotto i vestiti, da migliaia di zampette invisibili. Quando finalmente scompaiono, apriamo la porta e lui guarda da una parte e dall’altra per assicurarsi che se ne siano andate, per quanto, se fossero vicine, continueremmo a sentire il bordone delle loro ali. Per terra restano alcuni cadaveri e anche api che non sono ancora morte del tutto e camminano intontite o sgambettano con la schiena sul terreno. Il bambino non le uccide calpestandole, però le osserva con diffidenza e a volte, quando qualcuna smette di camminare, la spinge con la punta del piede come per assicurarsi che sia morta.
Non sono riuscita a scoprire da dove vengono. I favi di sughero che si trovano lungo il sentiero del bosco sono abbandonati e vi si accumulano foglie secche e ragnatele sporche in cui tremolano legnetti e resti di insetti. Non so neanche perché vengono; non le vedo succhiare il nettare dai fiori vicini alla
baracca, non si interessano ai cisti, alla lavanda né alle ginestre e si accalcano in questa zona anche in periodi in cui non ci sono quasi fiori; volano soltanto, ammucchiandosi in aria le une contro le altre in modo che a volte è perfino difficile distinguere le montagne che si innalzano dall’altra parte della valle.
Ora devono essere passate due o tre settimane da quando l’ultimo sciame ha circondato la casa. Forse perché comincia a fare freddo o perché da giorni spira dalla sierra un vento che le mette in fuga. Anche se in realtà sto parlando della stessa cosa, perché il freddo arriva sempre con il vento della sierra, come se l’inverno non potesse venire da un’altra parte. L’arrivo di quell’aria gelida mi provoca ogni anno una sensazione di avvilimento e di rabbia a un tempo. Mi paralizza per ore all’interno della baracca. Mi fa pensare alla fuga o immaginare un miracolo – falso, non riesco nemmeno a immaginarlo – che venga a risolvere i miei problemi. Con l’inizio dell’inverno la nostra vita diventa, se possibile, ancora più precaria, più incerta. Di nuovo il gelo. Di nuovo la neve. Soprattutto, di nuovo la fame. Avranno timori simili i pochi animali che abitano questi boschi?
Sono cinque o sei anni che non vado in una città e mi sono abituata ad ascoltare soltanto i rumori che produce la natura. Qui vicino non ci sono macchine e all’auto parcheggiata a cento metri dall’ingresso della casa avevano già rubato il motore quando sono arrivata. Anche se per usare la parola rubare bisognerebbe supporre l’esistenza di un proprietario. Naturalmente le mancano le ruote e immagino anche i circuiti elettrici. Una delle prime cose che ho controllato è se fosse rimasta della benzina, però il tubo che ho introdotto nel serbatoio mi ha procurato soltanto una boccata di gas di petrolio, il cui sapore pungente ricordo ancora. Non funziona nemmeno la segheria, che è andata via via crollando nel bosco di eucalipti e adesso tra le tavole crescono lillà e ginestre, more e rosai selvatici. Perfino gli aerei che a volte attraversano il cielo tracciano in silenzio le loro linee bianche sull’azzurro: l’aeroporto più vicino è a diverse centinaia di chilometri e perciò gli aerei volano a grande altezza. Così, sento quasi unicamente scricchiolii, ronzii, fischi, le foglie che si sfregano l’una contro l’altra sui rami, il richiamo o il lamento di un animale, la pioggia sulle tegole e sulla lamiera ondulata, il vento che fa tamburellare le imposte, le ho tolte per questo motivo e perché erano così rotte che non proteggevano dal freddo. Neanche il bambino è rumoroso. Non che non parli, è solo che può passare giorni senza dire una parola. A volte risponde e a volte no, altre è lui che, di propria iniziativa, dice qualcosa. Indica e dice: nocciole. Dice ruscello, e lo dice allungando e accentuando la erre, come
se provasse piacere a pronunciare quel suono. Dice pioggia. Dice cardo. Dice fuoco. Dice ieri, e allora non so a cosa si riferisce. Se gli domando da dove viene, rimane un po’ a pensare e dice: tempo. Ignoro come si chiama e forse neanche lui lo sa. Uno dei primi giorni, seduti ognuno su un lato del tavolo della cucina, mi sono portata l’indice al petto e ho detto: Andrea. Non mi chiamo Andrea, ma è un nome che mi piace e non importa come mi chiamo davvero. È una delle poche cose che posso scegliere. Andrea, gli ho ripetuto indicandomi. Andrea. Poi ho indicato lui. Ha piegato il collo per guardare il punto in cui il mio dito si appoggiava al suo sterno. Io Andrea, mi sono toccata di nuovo. Tu? Ha aggrottato la fronte; guardava il mio dito come aspettando di vedere cosa succedeva dopo, come se quel gesto fosse l’inizio di un avvenimento interessante. Ciao, ha detto alla fine, che è ciò che dice sempre quando una situazione lo travalica. Da allora, quando sono di buonumore, lo chiamo Ciao. Affermare che sorrida sarebbe troppo, però ho l’impressione che i suoi lineamenti si distendano un po’, come se stesse pensando di sorridere.
La mattina, quando il suo viso è rilassato, appena apre gli occhi svegliandosi, si direbbe che abbia sei anni. Verso il pomeriggio è già invecchiato, o meglio, si è logorato e i suoi tratti sembrano diventare vaghi, disfarsi. Allora ricorda un ragazzino di dieci o dodici anni appena scappato dall’orfanotrofio in cui lo maltrattavano. Mi piace molto la mattina, mi fa allegria sorvegliare di sottecchi i gesti con cui esplora il minuscolo mondo in cui viviamo incapsulati. Nel pomeriggio già provo per lui tenerezza o compassione o le due cose mescolate, mi piacerebbe cullare quell’uccellino appena caduto dal nido, quel gatto che torna a casa dopo essere sopravvissuto a un tuffo nel fiume gelato, quel cane che malgrado tutto si avvicina timoroso alla persona che l’ha appena picchiato.