Estratto Etica dell'acquario

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Per molto tempo ho creduto di dover dimenticare Pisa. Invece dopo ogni fuga finivo sempre per tornare. A volte mi ritrovavo alla stazione nel primo buio della sera, a volte era mattina quando l’aereo atterrava, e c’era il sole, un taxi bianco e un tassista che aveva voglia di chiacchierare. E subito risentivo suonare quell’accento che non avevo ancora capito se mi era indispensabile o insopportabile. O tutt’e due le cose.

Erano passati anni senza che tornassi, poi una mattina arrivai in aereo: c’era il sole e un’ombra di neve sulle montagne basse e limpide. Le case screpolate e silenziose come una volta, il fiume colore del fango alto per le piogge d’autunno. Il tassista voleva chiacchierare, ma io ero spaventata. Come se tutte le ossessioni che avevo cercato a poco a poco di erodere negli anni fossero tornate a tormentarmi, e mi rendevo conto di non aver dimenticato niente. O forse avevo solo paura di sentirmi improvvisamente vecchia in una città dove avevo vissuto quando il tempo della vita pareva non esistere. Sembrava una cosa

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volgare, a Pisa, avere un’età e delle ambizioni, o almeno lo sembrava a me e ai miei amici di allora. Ma in realtà avevamo tutti vissuto, trascinando altrove i nostri anni e i nostri desideri, e ci eravamo convinti di aver dimenticato Pisa. Naturalmente ci sbagliavamo. E ce ne saremmo resi conto presto.

La prima volta, quindici anni prima, avevamo diciannove anni ed eravamo abbronzati, settembre finiva e faceva ancora caldo. Abbronzati e orgogliosi di aver passato il concorso di ammissione alla Scuola. Avevamo nostalgie, ognuno le sue, della vita vissuta fino al giorno prima, nelle case dei genitori, ampie e luminose come negli annunci immobiliari, con il divano, la televisione e la spesa nel frigo, delle camere in cui eravamo cresciuti, con i libri di scuola e le foto degli amici, con i fratelli e le sorelle e le porte che non si chiudevano a chiave. A qualcuno mancava un amore lasciato a casa, o soltanto il profumo del caffè in cucina a interrompere lo studio il pomeriggio, e poi il telefono, gli amici, il suono improvviso del citofono e le sere nelle piazze di paesi o città che non erano le piazze di Pisa.

All’inizio vivevamo uno smarrimento euforico. Le stanze di collegio erano squallide, cadevano a pezzi. Il corridoio su cui affacciavano le porte aveva le piastrelle sconnesse, le sentivamo vibrare ogni volta che passava qualcuno. Però c’era sempre il sole, in quei giorni, e ottobre per la prima volta mi sembrava un mese d’estate.

La città sonnecchiava, ma sembrava una condizione provvisoria e anche quando ci rendemmo conto che provvisoria non era, non ci preoccupammo

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troppo perché avevamo capito che noi non avremmo mai avuto l’indolenza, a tratti vagamente astiosa, sempre però placida, dei veri abitanti della città. Nei pomeriggi calmi di ottobre, in quel primo mese passato a Pisa, spiavo i giardini oltre i cancelli, e non pioveva mai; qualche volta andavo a leggere all’orto botanico, sotto palme altissime che sembravano sul punto di crollare ed erano puntellate a terra da intrecci di cavi d’acciaio grandi come un braccio, e la città mi appariva bella e piena di misteri. Andavamo a prendere il gelato sul Lungarno e restavamo seduti sulle spallette a chiacchierare. Al buio, il fiume sembrava meno limaccioso e i lampioni ci coloravano i capelli di una luce aranciata. Le sere erano tiepide e noi diventavamo amici in fretta.

La Scuola era un posto anomalo, ci disorientava. Eravamo ancora frastornati per il fatto di essere lì, all’inizio forse intimoriti. Io ero arrivata a Pisa il giorno del mio compleanno. Diciannove anni, una mattina fresca e azzurra alla fine di settembre, una brezza lieve tremolava fra gli ombrelli spalancati dei pini lungo la litoranea. Sbarcai convinta che avrei abitato nel palazzo storico, con la torre antica che era stata la prigione del conte e dei suoi figli.

Invece, solenne e giunonica nel suo tailleur rosso lacca, la signora – “signorina, tesoro” – che signoreggiava sulle questioni degli alloggi ci scortò fino a un palazzone sul Lungarno, fatiscente ma luminoso. E lì, con la dolcezza chioccia e forse un po’ cinica che avremmo riconosciuto in tutte le persone incaricate di occuparsi di noi, brandendole a una a una in quelle mani scarlatte di smalto e bigiotteria,

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ci consegnò le chiavi di stanze decrepite con l’aria abbandonata che – lo scoprivo allora – hanno sempre le stanze di collegio. I mobili erano vecchi e malandati, la tinta delle pareti scrostata. C’era un lettino nella mia stanza, col materasso infossato, e un tavolone di legno per studiare; una libreria minuscola e un armadio ricoperto di carta da parati verde acqua. Imparai allora che anche il verde acqua può sbiadire. Ma dalla finestra, che aveva infissi di alluminio (vent’anni prima a qualcuno dovevano essere parsi moderni, magari eleganti), si vedeva un giardino nascosto alla strada che pareva dimenticato e invece era tutto vivo. C’era uno stagno artificiale, una magnolia altissima con le foglie lucide e un albero di ginkgo biloba che è l’albero più antico del mondo, ma allora non lo sapevo. Il bagno era stretto, un budello buio con una finestrina a feritoia, una lampadina nuda sullo specchio e un buco nel pavimento. Nel buco, a intervalli, gorgogliava l’acqua.

Tutti i miei amici di Milano erano rimasti a casa, e in quei primi giorni mi sorprendevo a pensare quanto fosse diventata diversa la mia vita; sentivo un po’ di nostalgia, ma più spesso ero felice di essere riuscita ad andarmene lontano, perché davvero mi sentivo lontana. Mi piaceva quella sensazione asprigna di malinconia e libertà sotto l’azzurro ininterrotto del cielo. La notte seguivo sul soffitto le sagome di foglie sconosciute, ritagliate nella luce del lampione.

Gli altri ospiti del collegio ci parevano inquietanti. Ci eravamo accorti subito di essere un’attrazione: ci studiavano a mensa e nei corridoi e sentivamo

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