Mia madre aveva 26 anni quando sono nata, 45 quando è morta, io 19.
Non ha dunque mai conosciuto mia figlia, che è nata quando ne avrebbe avuti 58, io ne avevo 32.
Mia figlia è morta a 16 anni, quando io ne avevo 48, mia madre ne avrebbe avuti 74.
Considerato che in entrambi i casi la scomparsa è stata, come si suol dire, improvvisa, qual è la probabilità che le due defunte si parlino in cielo?
Aritmetica pindarica.
Sembra l’enunciato di un problema di matematica, con treni che deragliano e rubinetti che perdono. Tranne che, in questo caso, sono vite che si perdono e destini che deragliano.
Di questa matematica dello sconquasso e della perdita porrò un’equazione a due incognite: il passato di mia madre, il futuro di mia figlia. Tracce irresolubili. Le due incognite resteranno per sempre tali, è chiaro.
Riprenderò il filo generazionale che la morte si è divertita a strappare con i denti, come una sarta capricciosa e impaziente, rammenderò le smagliature, imbastirò toppe sui gomiti e alle ginocchia di questo grande scheletro prematuramente scarnito. Le cucirò insieme.
Di Camille, i suoi occhi blu, il suo amore smodato per la Nutella, il modo in cui è tragicamente volata via una sera, alla vigilia di Natale, ho già parlato. Ora è un libro. Un essere di carta.
Di Nicole possiamo dire di non sapere nulla. I 26anni che precedono il suo matrimonio, subito seguito dalla mia nascita, sono avvolti in un gran mistero.
Sugli anni della gioventù ha sempre taciuto con feroce ostinazione. Snocciolava un discorso che faceva le veci della verità: una sorta di argomentario preformattato del tipo che propinano gli imbonitori di fiera o i rappresentanti di commercio. Ben presto ci siamo stancati di indagare oltre: il tono di voce con cui spazzava via le nostre domande era di un’autorità perentoria – l’unica che io abbia mai conosciuto in lei.
Per evitare che quel silenzio passasse per gretta maleducazione o per la prova lampante di trascorsi da nascondere, come quelli dei pregiudicati, stillava qualche informazione con il contagocce, un canovaccio grezzo che ci lasciava insoddisfatti e non faceva altro che infittire il mistero. Noi, però, ci accontentavamo, perché era con noi in tutto e per tutto, senza ombre, senza fughe equivoche, amorevole, viva.
Per noi è come se la sua vita sia iniziata quel giorno di primavera del 1964in cui ha incontrato mio padre. Come se tutto ciò che è successo prima non sia mai esistito.
La donna che avrebbe potuto essere la nonna di Camille era piccola, minuta, aveva gli occhi brillanti, color nocciola, e non ha mai imparato ad andare in bicicletta. Io l’ho sempre vista con i capelli tagliati corti, un po’ alla Annie Girardoto alla Jean Seberg, ma in versione castana. Aveva un modo di piegare la testa di lato che le dava quell’aria irresistibile delle ingenue di provincia.
Di lei si diceva fosse un’ammaliatrice, definizione misteriosa dovuta forse alla sua capacità di infilarsi un qualsiasi straccio trovato ai piedi del letto e portarlo come un Courrègeso uno Chanel sul suo figurino agile e scattante.
Di lei si diceva anche avesse i nervi fragili, forse per le stesse ragioni.
Addosso le ho sentito due profumi: “Femme” di Rochas, e “Opium” di YSL, entrambi troppo pesanti per lei. Passava l’aspirapolvere con una cicca in bocca mentre un’altra finiva di consumarsi nel posacenere della cucina, o nel posacenere del bagno, o nel posacenere del salotto. Fumava una cicca dietro l’altra – Gitanessenza filtro, mai per strada, questione di principio. Ci ho messo parecchio a capire che il cerotto che le cingeva il dito medio dissimulava non una ferita, ma il nero della nicotina incrostata sul polpastrello. Ci ho messo parecchio anche a capire che, se si rifiutava di aiutarmi a ripassare per la scuola, non era per incoraggiarmi all’autonomia o a sviluppare il mio metodo di studio, ma perché i nomi di Stendhal o di Flaubert, di Talleyrand o di Danton le erano del tutto estranei. La parola bled l’ha fatta a lungo piombare in abissi di perplessità: più che il nostro manuale di grammatica, quello di Odettee Édouard, le evocava il termine arabo per definire il paesino d’origine. Collezionava senza passione oggetti inutili: uova di alabastro, portapillole. Non amava i dolci, a eccezione di una pasta chiamata pithiviers: una variante di torta frangipane presentata in rettangoli dorati
per cui andava matta, al punto da ingurgitarne diversi in un sol colpo nonostante mangiasse come un uccellino. Detestava cucinare. In ogni caso la scipitezza e la mancanza d’immaginazione di cui dava prova ai fornelli ci avevano spinti ben presto ad arrangiarci da soli. Prossima al mancamento, esigeva che si allontanassero da lei i mazzi di mimose. Erano, così diceva, un ricordo doloroso legato alla camera d’ospedale in cui era morta sua madre. Ma quando le chiedevamo “Dov’è successo? Di cosa è morta?”, trovava una cauta scappatoia senza meglio precisare. Provava un autentico disgusto per la malattia, le ferite, il sangue, per ogni forma di avaria. Parlava a voce molto bassa, spesso bisognava chiederle di ripetere, e non ho ricordi della sua risata.
Quella donna aveva dunque dei segreti che l’avrei ovviamente implorata di confidarmi se avessi saputo che non sarebbe mai diventata un’anziana signora, una placida nonnina da interpellare in vecchiaia, una volta sopraggiunta la prescrizione. Ormai sono sepolti, o meglio, bruciati, spariti per sempre; poiché le ceneri dell’urna hanno mischiato senza distinzione ossa e segreti.
Per ricostruire la trama della gioventù di mia madre ho però a disposizione qualche indizio, oggettivi frammenti di realtà contenuti in una scatola delle scarpe in cui mio padre ha verosimilmente raccolto i rari effetti molto personali della moglie all’indomani della sua morte. Vi si trovano: Una serie di fotografie in bianco e nero, formato piccolo con i bordi dentellati, senza data, senza didascalia, scattate probabilmente nello stesso giorno e in gran numero. Ritraggono sempre i soliti soggetti: una donna di una certa età, con un abito senza vezzi a metà tra il vestito e il grembiule, e una bambina
di circa un anno che si può supporre essere mia madre. In alcune foto la bimba, molto sveglia, è in carrozzina, all’epoca la si chiamava carrozzella o landau; in altre muove i primi passi: la carrozzina è abbandonata sul margine dell’inquadratura e la donna è china sul corpo sbilenco della bimbetta, con la schiena ricurva, mentre le mani afferrano da dietro i ditini contratti per aiutarla a camminare. Lo sfondo è una strada in salita, un paesino scandito da platani e villette a schiera che oggi non ha più un nome, solo il numero di una strada provinciale, di quelle che trasformano presto la periferia delle cittadine in monotona campagna.
La scatola delle scarpe contiene anche: Due fotografie di classe non datate in cui si riconosce mia madre, la famosa brunetta a un tempo frizzante e riservata, sui 12, 13anni. Gli alunni seduti tutti appuntiti in prima fila tengono in mano una lavagnetta su cui si legge, scritto col gesso in bella calligrafia corsiva: “École Sainte-Thérèse – Le Blanc – Ville Haute.”
Varie altre fotografie senza data né luogo. In alcune mia madre, adolescente, è in piedi davanti a enigmatici sfondi; in altre si vede solo un edificio, o un veicolo, o un ponte, nessun personaggio.
Immaginette come quelle infilate nei messali, cartoncini goffrati con disegni in rilievo raffiguranti vergini in tunica con un cero in mano, o alberi su cui stanno appollaiati pettirossi e cince che portano la Parola di Dio. Bambine sui 13 anni che ancora pasticciano con la penna stilografica hanno scritto: In ricordo della Solenne Comunione, Le Blanc, 1954 . Firmato Monique, Clara o Denise. Su due cartoncini c’è una dedica meno impersonale: le amiche le augurano tanta forza per la prova che stai attraversando .
Sette cartoline ricevute. Un indirizzo a Coulommiers. Un indirizzo a Le Blanc. Uno a Contrexéville. Quattro indirizzi a Belfort. Spesso il timbro postale è illeggibile o sbiadito. I mittenti non sono mai gli stessi.
Alcune buste paga.
Una lettera manoscritta su cui l’inchiostro sbiadisce, la indirizza la sorella maggiore di mia madre, Paulette, a un certo Fernand, lamentandosi del comportamento da svergognata della sorella minore.
Possiedo anche una registrazione su cassetta per dittafono di un colloquio che mia sorella ha avuto con la suddetta Paulette dieci anni fa.
All’epoca Delphine aveva intrapreso un cammino simile al mio: seguire le tracce, svelare i segreti. Così si è trovata a interpellare la sorella maggiore e superstite. Ingegnoso.
Paulette sputacchia nel dittafono brandelli di parole gracchianti, appena udibili. Verso la fine s’intuisce una rivelazione famigerata, ma la qualità del suono è davvero scarsa, così quella che poteva essere una pista si rivela perlopiù inutilizzabile. Infine si sentono vagamente le due donne promettersi un nuovo incontro durante il quale Paulette consegnerà fotografie e documenti. Nel frattempo è morta. Increscioso.
Posso dunque ricamare, come si dice mentire. Tesserò una stola che scaldi le mie defunte, comporrò una storia per ripopolarmi, per addensarmi il sangue che l’assenza del loro ha reso
troppo liquido, troppo incalzante – un torrente impazzito lambito ormai solo da numeri, mai più da stagioni. Inventerò i loro inverni e le loro primavere, ne rianimerò il respiro soffocato, rimpolperò le loro tenere labbra di cui tanto amavo i baci.
Ci siamo. Inizierò quando mia madre era nel ventre della sua.