S’ARTI NOSTRA
Leon Gouin
Silicon Valley e Ritorno
Donne e Agricoltura
Odessa Steps
Angela Ciboddo
Bernardino Palazzi
Frida Khalo a BittI
Scavi Bastione Santa Caterina
Sa Die de Sa Sardigna
Lucido Sottile a New York
Madonna di Bonaria
Antonio Gramsci
Supplemento all’édizione di “SARDONIA“ Aprile 2023
Foto angelaciboddo
S’Arti Nostra
Programma Televisivo OnLine di Diffusione
d’Arte Contemporanea a cura di Vittorio E. Pisu
Prolungamento editoriale
Pubblicazione irregolare supplemento del mensile Sardonia
Vittorio E. Pisu
Redattore Capo Direttore Fondateur et Président des associations
SARDONIA France
SARDONIA Italia
créée en 1993 domiciliée c/o UNISVERS via Ozieri 55
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SARDONIA
Pubblicazione
dell’associazione omonima
Partecipa alla redazione
Luisanna Napoli
Angelo custode
Dolores Mancosu
Supplemento al numero dell’Aprile 2023 in collaborazione con
PALAZZI A VENEZIA
Publication périodique d’Arts et de culture urbaine
Correspondance
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Palazzi-A-Venezia
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Maquette, Conception Graphique et Mise en Page
L’Expérience du Futur
une production
UNISVERS
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Commission Paritaire
ISSN en cours
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na foto sbiadita in bianco e nero lo ritrae e tramanda la sua immagine sino ai giorni nostri ma il ricordo del suo vissuto a Capoterra è ben presente ancora tra i più anziani della cittadina che non dimenticano quel personaggio del passato che ha lasciato il segno indelebile e che merita di essere omaggiato.
Leon Gouin nacque a Tours il 9 Marzo 1829 e morì a Parigi il 26 Aprile 1888.
Alla notizia della sua morte “l’Avvenire di Sardegna”, giornale ostile agli stranieri, di lui scrisse: “Coltivò non distrusse”.
L’ingegner Leon Gouin giunse in Sardegna nel 1858 per studiare i problemi legati al mondo minerario.
Vi rimase un trentennio.
Nel 1861 la Società Petin Gaudet nominò Gouin responsabile delle miniere di ferro nelle montagne di Capoterra, da lui poi chiamata miniera di S. Leone.
Vista la sua esperienza nel campo dei trasporti maturata durante i suoi lavori per la costruzione della ferrovia Panama-Colon e in altre parti del mondo, nel 1864 costruì la prima strada ferrata della Sardegna della lunghezza di 15 km.
La ferrovia collegava la miniera di S. Leone alla spiaggia della Maddalena a Capoterra. Nel territorio di Baccu Tinghinu costruì una villa a ridosso di un vasto bosco; lì visse per diversi anni dopo aver sposato una nobildonna cagliaritana. Gouin è stato un uomo di grande cultura: si interessò di agricoltura, botanica, allevamento, letteratura, ed infine la sua grande passione, l’archeologia. Grazie a lui oggi si può ammirare una delle più importanti collezione di antichi reperti custoditi nel Museo Civico di Cagliari. Nel 2020 l’amministrazione comunale, guidata allora da Francesco Dessì, dedicò una piazza a Petin, a dimostrazione che la comunità è grata e riconoscente del grande lavoro svolto nell’ambito minerario locale. castedduonline.it
uesto numero si inserisce nella serie di ritardi di pubblicazione ormai consueti, visto che siamo non solo soprafatti di lavoro ma anche vittime di qualche malore temporaneo influenzale tipico del momento, senza contare qualche testo che abbiamo aspettato con ansia, ma l’importante é sempre di arrivare a chiudere e questo mese non mancano le celebrazioni, tra Sa Die de Sa Sardigna, di cui Roberta Olianas ci regala un suo souvenir di cui la ringraziamo, la ricorrenza della festa della Madonna di Bonaria, patrona della Sardegna e madrina fino alla città argentina di Buenos Aires, senza dimenticare l’anniversario della morte di Antonio Gramsci, figura sarda particolarmente eminente e che forse vediamo celebrato più all’estero che nella sua terra natale.
Per quanto riguarda invece l’attualità riportiamo con piacere traducendolo in italiano il post pubblicato sul suo blog da Zack Calhoon al’occasione della visita ormai sistematica delle Lucido Sottile a New York City, dove, come al solito ottengono il più che meritato successo che la loro patria si ostina per il momento a negargli quando dovrebbe al minimo fornirgli un teatro, purtroppo merce assai rara in un luogo dove la maggior parte dei cinema teatri residui sono stati sia distrutti o lasciati all’abbandono, oppure traformati in boutiques di pret-à-porter, per la più grande gioia delle fashion-victimes locali.
Nel frattempo mentre la primavera finalmente si installa sul nostro territorio, anche se qualche perturbazione atlantica persiste a voler continuare l’inverno, ma sappiamo che l’estate é ormai già qui, la maggior parte delle località turistiche e le città d’Arte hanno ritrovato il pubblico di prima della pandemia e forse anche molto più numeroso, constringendo alcune località particolarmente prese d’assalto ad istituire un numerus closus per contenere le folle vacanziere e limitare gli eventuali danni. Nel frattempo le guerre continuano indisturbate dimostrandoci che se non si trovano finanziamenti per le manifestazioni artistiche o umanitarie ce ne sono in abbondanza per le armi. Alcune ciffre riportate da diversi organi di stampa ci indicano con le stesse somme si potrebbe mettere fine alla fame nel mondo ma tant’è che si preferisce utilizzarle per distruggere ed assassinare.
Forse non cambieremo mai e l’estinzione della specie umana alla quale lavoriamo con alacrità non é forse così lontana come ci sembra.
Allora che senso ha parlare d’Arte?
Ne ha invece sempre di più, perchè ci sembra anche l’unico modo pacifico per contrastare questa violenza endemica che si manifesta non solo attraverso i conflitti tra nazioni, ma anche a livello individuale, dove il nostro egoismo ha assunto proporzioni mostruose, ritorcendosi tra l’altro contro noi stessi, in dei modi che dovrebbero essere considerati come degli allarmi degni di essere capiti ed interpretati in modo adeguato.
Personalemnte la redazione di queste riviste è sempre un momento di piacere, di scoperta di tante iniziative e di tante personalità che spesso e volentieri in un mondo particolarmente ostile perchè donne ed artiste, sono riuscite a creare delle opere personali e al tempo stesso universali che vanno appunto nel buon senso e che mi fanno sperare e credere che tutto non é perduto, così cerco di continuare a scegliervi una lista di persone o di momenti che hanno particolarmente colpito come in questo caso, anche se spesso li conoscete già.
Spero comunque di divertirvi almeno un pò sia rinvangando stori spessso e volentieri dimenticate oppure cercando di approfondire quelle che crediamo di conoscere e di cui spesso ignoriamo i risvolti più segreti o più succosi.
Mentre il mese di Maggio arriva più in fretta che d’abitudine almeno se giudico dalla situazione metereologica che ci promette un ‘estate africana prima del tempo, ringrazio l’instancabile Alessandra Sorcinelli alla quale ho chiesto un testo di commento per la fotografa del mese, e che ha trovato il tempo, in mezzo alle sue innumerevoli attività artistico letterarie, di produrci un testo lirico come ne ha l’abitudine, a descrizione di una fotografa molto schiva che per il momento considera la sua attività fotografica come un hobby, che trovo per altro molto riuscito professionalmente ed alla quale sarò lieto di offrire uno spazio di esposizione quest’estate al Museo del Vino a Berchidda se tutto procede come sembra, vi terremmo comunque al corrente sia attraverso queste pagine che con i video che pubblichiamo su vimeo.com/channels/sartinostra e che vi invitiamo a consultare.
Vittorio E. Pisu
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S’ARTI
ono 14 giovani sardi con competenze trasversali e idee nuove, rientrati da poco nell’Isola dopo un percorso intensivo di un anno culminato con un mese in Silicon Valley e due mesi al Babson college di Boston.
Ognuno di loro ha un progetto – in altri casi una vera e propria startup – che si è affinato nelle culle mondiali dell’innovazione. Dopo la full-immersion in contesti così stimolanti, gli innovatori-imprenditori ora sognano di far decollare le loro proposte nella loro Isola.
È il progetto Talent Up, gestito dalla Fondazione Giacomo Brodolini e dall’Aspal nell’ambito del programma “Entrepreneurship and back” finanziato dal Fondo sociale europeo.
I partecipanti hanno mescolato teoria e pratica seguendo il Global entrepreneurship programme al Babson College di Boston.
Idee che possono diventare realtà nelle campagne della Sardegna attraverso l’agritech: da Davide Ardu che mira alla produzione di cibo di qualità, coltivato in autonomia da chi consuma, a Fabiano Asunis, che intende sostenere le grandi compagnie agroindustriali nel riutilizzo degli scarti di produ-
zione, convertendoli in fertilizzanti biologici.
E poi Riccardo Campesi e Antonio Tenuto: nella loro proposta un mix tra agricoltura rispettosa dell’ambiente e l’esigenza di socialità, anche con l’utilizzo della “gamification”, elementi mutuati dai giochi per indurre a comportamenti attivi da parte dell’utenza.
Cibo del futuro per Irene Ciabattini Bolla, che si rivolge al mercato del novel food proponendo un integratore alimentare per il benessere femminile, a base dei classici prodotti dell’alveare più la covata di fuchi.
Nel settore turismo Sara Fadda promuove una piattaforma per creare il proprio itinerario di viaggio culturale con premio.
Mentre Camilla Mameli e Caterina Paddeu hanno lavorato sul binomio viaggi e benessere tra forest therapy e percorsi personalizzati in contesti rurali e sostenibili.
Stare bene con il proprio corpo è anche l’obiettivo di Silvia Cadelano: nuova vita ai capi d’abbigliamento usati, invenduti e ai prodotti tessili inutilizzati grazie all’upcycling, ossia il riutilizzo creativo.
Marco Dettori propone il co-living per i viaggi di breve periodo e Daniele Gavelli biciclette elettriche ricaricabili con ener-
gia solare, con batteria dal design funzionale così da duplicare le miglia percorribili al giorno. Tre progetti sono invece rivolti alle nuove tecnologie, con David Andrea Collu che propone l’uso della stampa di metalli 3d nel campo della meccanica per ottenere pezzi fatti su misura e ad alta resistenza per macchine e motori, ad un costo e con tempi inferiori rispetto a quelli attuali.
Mentre Lorenzo Finotto sollecita designer e creativi a lavorare insieme all’interno di una community che ottimizza sforzi, investimenti e risultati.
Gaia Maria Sitzia invece si rivolge al mercato dei freelance, con una piattaforma che suggerisce l’incontro perfetto per sviluppare un prodotto o un servizio.
Infine, Eleonora Todde offre una piattaforma per amanti del do it by yourself: attraverso l’upload di foto e video di spazi casalinghi modificati in base alle proprie esigenze e esperienze di vita, si scambiano consigli per spazi gradevoli, funzionali ed economici.
https://www.sardiniapost.it/ innovazione/in-silicon-valley-con-talent-up-il-rientro-dei-14-manager-sardi-per-innovare-lisola/
uattordici startup rappresentate da sette donne e otto uomini sono pronte a decollare, restando ben ancorate alla regione di partenza, la Sardegna, per portare valore, talento e innovazione al territorio, sono i numeri di Talent Up, il progetto gestito da Fondazione Giacomo Brodolini e promosso dall’ Agenzia Sarda per le Politiche Attive del Lavoro (Aspal), nell’ambito del Programma Entrepreneurship and Back, finanziato dal Fondo Sociale Europeo.
Negli ultimi 8 mesi, i partecipanti al programma hanno preso parte a un corso sull’imprenditorialità innovativa a Cagliari, a un percorso di formazione e apprendimento esperienziale nella Silicon Valley, culla mondiale dell’innovazione, della durata di quattro settimane e, infine, al Global Entrepreneurship Programme di due mesi, presso il Babson College, a Boston. Le proposte migliori sono state selezionate e ora si apre la fase conclusiva del progetto, la parte più sfidante, ambiziosa ed entusiasmante del loro percorso: il lancio del proprio progetto imprenditoriale attraverso la costituzione delle startup.
«La Fondazione Giacomo Brodolini ha lavorato sodo negli ultimi dieci anni per mettere a sistema le sue competenze nell’ambito della gestione di infrastrutture di innovazione, della ricerca e della formazione unendole alla capacità di lavorare a livello internazionale – ha commentato Manuelita Mancini, direttrice della Fondazione Brodolini. Vogliamo costruire ponti per connettere ecosistemi dell’innovazione a livello nazionale e transnazionale e abbiamo creato una filiera che oggi può davvero fare la differenza». Quali sono i 14 progetti pronti a decollare in Sardegna Il risultato di questo percorso restituisce la storia di giovani dalle idee brillanti per un futuro sostenibile, seppur in un pianeta in affanno. Molte, infatti, le proposte nel settore dell’agritech: da Davide Ardu che mira alla produzione di cibo di qualità, coltivato in autonomia da chi consuma a Fabiano Asunis che intende sostenere le grandi compagnie agroindustriali nel riutilizzo degli scarti di produzione, convertendoli in fertilizzanti biologici; Riccardo Campesi e Antonio Tenuto, per conciliare un’agricoltura rispettosa (segue pagina 4)
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Foto chiara cossu
S’ARTI
SILICON VALLEY E RITORNO
(segue dalla pagina 3) dell’ambiente con l’esigenza di socialità di molte persone, vogliono ideare spazi adatti a coltivare cibo sostenibile, anche attraverso l’utilizzo della “gamification”, ossia elementi mutuati dai giochi per indurre a comportamenti attivi da parte dell’utenza.
Sempre nell’ottica del cibo del futuro, Irene Ciabattini Bolla si rivolge al mercato del novel food proponendo un integratore alimentare per il benessere femminile, a base dei classici prodotti dell’alveare più la covata di fuchi, normalmente considerata uno scarto. Ci sono anche proposte sul turismo, come quella di Sara Fadda che promuove una piattaforma per creare il proprio itinerario di viaggio culturale, a partire dalle opportunità turistiche offerte dalla Sardegna, e di condividerlo in cambio del godimento di un premio.
Mentre Camilla Mameli e Caterina Paddeu hanno lavorato sul binomio viaggi e benessere: la prima vuole offrire percorsi di Forest Therapy per dare beneficio alle persone che soffrono la quotidianità, mentre Paddeu ha scelto di rivolgersi solo alle donne che soffrono di stress e burnout con percorsi personalizzati in contesti rurali e sostenibili. Stare bene con il proprio corpo è anche l’obiettivo di Silvia Cadelano che propone di dare nuova vita ai capi d’abbigliamento usati, invenduti e ai prodotti tessili inutilizzati grazie all’upcycling, ossia il riutilizzo creativo in grado di trasformare materiali di scarto in nuovi oggetti, creando un network di artigiani per ottimizzare la produzione.
E ancora, idee per un turismo differente per l’isola della Sardegna, dove Marco Dettori propone il co-living per i viaggi di breve periodo e Daniele Gavelli biciclette elettriche ricaricabili con energia solare, con batteria dal design funzionale così da duplicare le miglia percorribili al giorno. Tre progetti sono invece rivolti alle nuove tecnologie, con David Andrea Collu che propone l’uso della stampa di metalli 3D nel campo della meccanica per ottenere pezzi fatti su misura e ad alta resistenza per macchine e motori, ad un costo e con tempi inferiori rispetto a quelli attuali. Lorenzo Finotto sollecita designers e creativi a lavorare insieme all’interno di una community che ottimizza sforzi, investimenti e risultati.
Mentre Gaia Maria Sitzia si rivolge al mercato dei freelance, con una piattaforma che suggerisce il match perfetto per sviluppare un prodotto/ servizio.
Infine, Eleonora Todde offre una piattaforma per amanti del “Do It by Yourself”, attraverso l’upload di foto e video di spazi casalinghi modificati in base alle proprie esigenze e esperienze di vita, ci si scambiano consigli per spazi gradevoli, funzionali ed economici.
Progetti, dunque, che coniugano tecnologia e sostenibilità, innovazione e spazi per la crescita umana, personale e delle comunità.
Con l’obiettivo di far emergere il potenziale delle capacità imprenditoriali già presenti sul territorio sardo, investendo sui giovani talenti imprenditoriali, scegliendo le idee con maggior possibilità di riuscita e le persone che hanno le caratteristiche adatte a portare avanti un progetto di impresa.
Gabriella Rocco
https://startupitalia. eu/196808-20230417-come-funziona-e-cosa-prevede-la-nuova-sezione-esploraditiktok?infinite
Quando sono in campo, alla guida del mio trattore, mi sento orgogliosa del percorso che ho compiuto e felice di lavorare immersa nella natura.
Certo, se anni fa mi avessero detto che sarei diventata una bieticoltrice ed agricoltrice così appassionata, nonché responsabile d’azienda, non ci avrei mai creduto. E se oggi mi chiedessero di cambiare professione risponderei: mai”. Barbara Barone è socia fondatrice, insieme al marito, dell’azienda agricola La Favorita a Crevalcore, in provincia di Bologna. Un’attività ereditata dai suoceri, in un momento in cui per lei l’idea di impegnarsi in questo settore era assolutamente lontana.
“Venivo da una laurea in lettere e da 15 anni di lavoro nel settore della comunicazione e del marketing, ma avevo da poco lasciato l’impiego per seguire la famiglia.
Così ho iniziato a dare una mano, da un punto di vista prettamente amministrativo, perché per il resto non avevo nessun tipo di conoscenza.
Da lì, però, è nata una vera e propria passione, che mi ha portato a frequentare nume-
rosi corsi per acquisire competenze tecnico-agronomiche specifiche.
Anzi, il mio è un percorso di formazione continua, che continua anche ora”.
“Quando sono in campo, alla guida del mio trattore, mi sento orgogliosa del percorso che ho compiuto. E se oggi mi chiedessero di cambiare professione risponderei: mai” Da ormai 3 anni Barbara Barone gestisce da sola 120 ettari di azienda, 30 dei quali sono destinati al biologico:
“Accanto alla barbabietola da zucchero, coltiviamo anche grano, orzo, mais, girasoli, piselli, ceci, sorgo, colza.
“Considerata la sua formazione economica, mio marito si occupa di strategia aziendale.
Io, oltre a seguire ancora la parte burocratica, scendo direttamente in campo, guidando il trattore e manovrando gli altri macchinari a guida satellitare.
La tecnologia ha fatto passi da gigante, rivoluzionando questo settore: oggi anche una donna può svolgere mansioni che un tempo erano riservate agli uomini, a causa della forza fisica richiesta.
Le nuove macchine computerizzate sono facili da gestire
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automobilclubd’italia
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e hanno dimensioni talmente grandi da permettere di lavorare ampie superfici: da sola riesco a svolgere il lavoro di tre persone”.
“La tecnologia ha fatto passi da gigante, rivoluzionando questo settore: oggi anche una donna può svolgere mansioni che un tempo erano riservate agli uomini” Nel periodo che va febbraio a ottobre, ovvero durante i mesi dedicati alla semina, alla coltivazione e al raccolto, Barbara Barone dedica alla terra 7-8 ore al giorno: “Lavoro in campo anziché in ufficio. Come tante donne lavoratrici, riesco ad organizzarmi per dedicare il giusto tempo alla mia famiglia, tenendo anche conto degli imprevisti che possono capitare, legati soprattutto alle condizioni meteo”.
Donne e agricoltura: una relazione vincente
La sua non è una storia rara, perché in Italia un’impresa agricola su 3 (32%) è gestita da donne, secondo l’ultimo rapporto del WWF presentato nel 2020.
Si parla di 361.420 aziende rispetto a un totale di 1.145.680: su 872.000 addetti le donne sono 234.000 (26,8%).
“Oltre alla buona volontà e alla determinazione, per la
mia crescita professionale sono stati fondamentali gli strumenti e gli aiuti che ho ricevuto”, racconta. Innanzitutto, la formazione: “Ho frequentato numerosi corsi organizzati dalla Regione Emilia Romagna: sono stati un’occasione per accrescere le mie conoscenze, ma anche per incontrare altre persone giovani come me, che stavano iniziando lo stesso percorso. Tra noi si sono instaurate relazioni preziose, che manteniamo tuttora: ci sentiamo spesso per scambiarci consigli ed informazioni e per segnalarci a vicenda eventuali opportunità ed agevolazioni”. Per esempio, il recente bando “Più Impresa – Imprenditoria giovanile e femminile in agricoltura” targato Ismea, che prevede contributi a fondo perduto, fino al 35% delle spese ammissibili, e mutui a tasso zero per progetti fino a 1,5 milioni di euro per favorire la competitività, lo sviluppo sostenibile e l’innovazione tecnologica delle pmi agricole condotte da giovani e donne under 41.
Inoltre, la Legge di Bilancio 2022 ha previsto alcune agevolazioni per le imprese condotte da donne di qualsiasi età, mentre la Commissione
europea ha lanciato il piano decennale Farm to Fork per guidare la transizione verso un sistema alimentare equo, sano e rispettoso dell’ambiente, prevedendo incentivi 4.0 che possano favorire un’agricoltura più smart in Italia. L’importanza della filiera di settore
Altrettanto importante per chi fa impresa è la presenza sul territorio di realtà che permettano di fare rete, come Italia Zuccheri – Coprob, l’unica filiera dello zucchero del nostro Paese: una realtà cooperativa, che rappresenta oltre 7.000 aziende agricole di bieticoltori nostrani e da oltre 50 anni è impegnata nella difesa dell’agricoltura italiana, con coltivazioni distribuite in molte regioni, dall’Emilia Romagna al Veneto, dalle Marche alla Lombardia, dall’Umbria al Friuli-Venezia Giulia, sino al Piemonte.
“Condividere competenze e risorse è l’unica strada oggi, perché una piccola realtà possa riuscire ad avere successo sul mercato”, riflette Barone.
“Per esempio, ci sono macchinari che la singola azienda non si potrebbe permettere di acquistare, e che non sfrutterebbe nemmeno appieno.
DONNE E AGRICOLTURA
Mettendosi insieme, invece, si abbattono i costi e si uniscono le forze”.
Attraverso le campagne di comunicazione, la filiera svolge anche una preziosa opera di sensibilizzazione dei consumatori:
“Spesso si pensa che lo zucchero sia tutto uguale, invece è importante raccontarne la storia, mostrando da dove arriva e come si coltiva, ed investire risorse per avere prodotti all’avanguardia, come lo zucchero grezzo e lo zucchero biologico, che sono nati grazie a Italia Zuccheri –Coprob.
Pur non avendo grandi dimensioni, diamo prova di lavorare bene e ci ritagliamo il nostro spazio nel settore del made in Italy: solo noi produciamo uno zucchero al 100% italiano”.
Innovazione, multifunzionalità e sostenibilità
Infine, un pensiero alle altre donne che stanno avviando la loro attività nell’agricoltura:
“
In questi anni mi è capitato di essere presa come modello da tante ragazze, che hanno voluto intraprendere questa attività contro il comune sentire.
Sono orgogliosa che abbiano preso questa decisione anche dopo aver sentito la mia storia”.
Si sente spesso affermare che il lavoro del futuro si basa su valori e soft skills che appartengono all’universo femminile, come una naturale propensione all’innovazione, alla multifunzionalità e sostenibilità.
“Grazie alla nostra capacità di adattamento e al nostro legame con il territorio possiamo apportare nuove visioni nel mondo imprenditoriale e lavorativo”.
Le donne, inoltre, percepiscono l’azienda e il lavoro non solo come fonte di reddito, ma anche come stile di vita.
“Io coltivo la terra pensando ai miei figli”, conclude Barbara Barone.
“
Non so se loro porteranno avanti questa azienda agricola, ma so che in ogni caso vivranno e cresceranno in questo mondo: questo è il futuro che lasceremo loro”.
Alessandro di Stefano https://startupitalia.eu/terra-chiama-drone-quando-tecnologia-aiuta-dall-alto-agricoltori?infinite
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Foto automobilclubd’italia
a Scalinata Potëmkin fra cinema e architettura” è questo il titolo dell’inedita mostra, a cura di Giovanni Francesco Tuzzolino, Federico Crimi e Paolo De Marco, che verrà ospitata al Museo MAN di Nuoro dal 3 marzo al 25 giugno 2023.
Divenuta celebre in seguito alla fortuna del film di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, La corazzata Potëmkin del 1925, la scalinata di Odessa, rinominata dalla cultura popolare la “Scalinata Potëmkin”, venne progettata quale monumentale cerniera di congiunzione fra il mare e la città negli anni trenta dell’Ottocento, dall’architetto Francesco Carlo Boffo (1796-1867) la cui biografia è rimasta per decenni avvolta nel mistero.
Francesco Carlo Boffo, figura di grande interesse per la sua continua esigenza di sperimentazione e per la diffusione della cultura architettonica italiana, è stato autore di moltispazi pubblici, di architetture rappresentative e della stessa scalinata simbolo del luogo che congiunge la spianata del porto alla Piazza de Richelieu, lungo un asse ideale.
Il MAN approfondirà per la prima volta l’opera dell’architetto, sottolineando l’apporto offerto nella costruzione dell’identità architettonica e urbana di Odessa, insieme all’affascinante vicenda umana e artistica sospesa fra la leggenda dei suoi natali sull’Isola e le reali origini ticinesi.
In esposizione ci saranno disegni forniti eccezionalmente dall’Archivio di Odessa, planimetrie originali in prestito da prestigiosi istituti italiani, fra cui la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze e l’Archivio Storico di Torino, oltre alla ricostruzione dei disegni e di un modello in scala realizzati grazie alla collaborazione con il Polo Territoriale Universitario di Agrigento dell’Università degli Studi di Palermo. La storia di Boffo e della “sua” celebre scalinata non poteva non intrecciare quella di una pellicola che ha reso universalmente noto questo panorama agli occhi del pubblico del Novecento, trasformando un capolavoro dell’architettura dell’Ottocento in un’icona del grande schermo, complice il montaggio serrato, violento e drammatico della famosa sequenza di Ėjzenštejn, scolpita nell’immaginario comune. Dunque architettura e cinema si alternano lungo tutto il percorso della mostra, arricchita
Odessa Steps
La Scalinata Potëmkin fra cinema e architettura a cura di Giovanni Francesco Tuzzolino, Federico Crimi e Paolo De Marco MAN Museo d’Arte
Provincia di Nuoro
fino al 25 giugno 2023
Via Sebastiano Satta 27 – 08100 Nuoro tel +39.0784.252110
dalle 10:00 alle 19:00 (Lunedì chiuso) info@museoman.it
anche da due dipinti romantici di notevole valore e qualità, una marina in tempesta di Ivan Konstantinovič Ajvazovskij del 1897, concessa dal Museo Nazionale di Varsavia, e un grande porto di Odessa di Rufim Gavrilovitš Sudkovski del 1885, in arrivo dal Kunstimuseum di Tallin, in Estonia. Ha un profondo legame con l’Italia la città portuale ucraina di Odessa, la ‘perla sul Mar Nero’ sempre più nel mirino dell’offensiva russa.
La sua fondazione nel 1794 fu promossa da Josè de Ribas, un napoletano di origine spagnola a cui nel 1994 è stato anche dedicato un monumento.
Fu lui a suggerire a Caterina la Grande, di cui sarebbe stato anche amante, di creare un porto commerciale nella baia naturale davanti a un forte turco.
E fu guardando il cielo di Odessa e non quello di Napoli che nel 1898 Eduardo di Capua scrisse “O’ sole mio”, una delle più celebri canzoni partenopee di tutti i tempi.
Il nome scelto da Ribas si ispirava all’antica colonia greca di Odessos e al viaggio di Ulisse e nell’800 la città divenne una sorta di Hong Kong tricolore, un porto franco con l’italiano come lingua semi-ufficiale.
Arrivarono armatori, commercianti, pasticcieri e artigiani dal Regno delle Due Sicilie e le insegne dei negozi e i nomi delle vie erano in italiano. Nel frattempo lo stile barocco della penisola dominava le nuove costruzioni del porto zarista anche grazie all’architetto sardo Francesco Boffo, autore della celeberrima scalinata Potemkin, quella della rivolta dei marinai del 1905 raccontata dal film di Sergej Ejzentejn e resa immortale in Italia da “Il secondo tragico Fantozzi”.
Francesco Boffo (in russo: Франц Карлович Боффо?, traslitterato: Franc Karlovič Boffo; Orosei (Sardegna), 5 settembre 1796 – Cherson, 10 novembre 1867) è stato un architetto svizzero, che disegnò moltissimi edifici in stile neoclassico italiano nella città di Odessa (Ucraina) tra il 1818 e il 1861, inclusa la famosa scalinata Potëmkin. Boffo nacque nel 1790 in Sardegna nel 1796) e fu apprendista di un architetto di Arasio nel Canton Ticino.
Dopo gli studi presso l’Università degli Studi di Torino, entrò in servizio come architetto della nobile famiglia Potocki in Polonia.
Fu in seguito capo architetto
del comune di Odessa tra il 1822 e il 1844 e fu a servizio anche del conte Michail Semënovič Voroncov e di sua moglie Elisabetta Branicka. Boffo fu responsabile della trasformazione di Odessa in un museo a cielo aperto dell’architettura neoclassica, rivaleggiando con San Pietroburgo nel nord dell’Impero russo.
Tra le opere più importanti, si ricordano i palazzi Potocki (attuale Museo d’arte di Odessa), Scidlovskij e Voroncov (palazzo dei Pionieri) a Odessa ed il palazzo Zarnomskij a Beršad’ (1817), famoso per la sua somiglianza con la Casa Bianca.
La scalinata Potëmkin, il progetto più ambizioso di Boffo, venne modellata sulla precedente scalinata Depaldo disegnata da lui nella città di Taganrog nel 1823.
Boffo concepì anche la colonna-memoriale alta 22 metri della battaglia di Cahul.
Costruì anche l’albergo Londonskaja nel 1826-1828 (inizialmente come residenza privata) in stile neorinascimentale italiano.
L’architetto morì nel 1867 a Cherson e venne seppellito nel Primo cimitero cristiano di Odessa (distrutto nel 1930).
L S’ARTI NOSTRA 6
Foto automobilclubd’italia
Era il 1951 e tutti nel mondo dormivamo il sonno della ragione, rimboccati sotto la coperta nucleare della Guerra Fredda.
Dormiva anche Martha Laird, in una notte di quel 1951.
Una giovane mamma di 26 anni addormentata accanto al marito, ai due figli piccoli, alle sue pecore e ai suoi cavalli nelle colline del Nevada a ovest di Las Vegas, in un villaggio minuscolo chiamato Twin Springs, sorgenti gemelle.
“Ci svegliò un lampo di luce che ci scaldò il viso come se il sole fosse esploso davanti alla finestra” racconta adesso.
“Dopo qualche secondo sentimmo arrivare da lontano il ruggito, come di un terremoto. La casa cominciò a tremare, le finestre si sbriciolarono, la porta volò via come un vecchio giornale. I bambini piangevano. Mio marito e io ci stringemmo uno all’ altra, fino a quando il rombo si calmò e il sole di notte si spense. Non capimmo niente”. Cominceranno a capire più ta rdi, quando il bambino più grande si ammalò di leucemia, il più piccolo di cancro alle ossa, il marito al pancreas e il neonato che Martha porta-
va in sè nacque prematuro, di sei mesi, “con due strane appendici nere e contorte che gli penzolavano sotto la pancia, al posto delle gambe”. Visse cinque ore prima di morire anche lui, come i fratelli, come il padre, come i puledri deformi usciti dal ventre delle giumente che galoppavano via con gli occhi da matte, come se avessero paura di quel che avevano partorito. “Allora non sapevamo di essere i ‘ downwinders’ , il popolo-cavia che viveva ‘ sottovento’ rispetto agli esperimenti nucleari nel poligono atomico del Nevada” dice Martha.
Ora, 40 anni dopo, lo sanno. Lo sa anche il governo americano che ha versato pochi giorni or sono a questa donna, e a migliaia di ‘ sottovento’ come lei, 50 mila dollari, 70 milioni a testa, per “risarcimento danni da radiazioni” secondo una legge finanziata con un fondo speciale voluto da Clinton di oltre 200 miliardi di lire annui. Soltanto oggi, dopo anni di querele, cause, processi, inchieste e soprattutto morti orribili su morti orribili, la verità sulla guerra segreta condotta contro il popolo dei “Sottovento” comincia a venire a galla, sciolta dall’ omertà della Guerra Fredda.
Le 104 bombe all’ idrogeno fatte esplodere all’ aria aperta nel deserto del Nevada fra il 1951 e il 1963, quando Kennedy firmò la messa al bando degli esperimenti atmosferici, e poi le oltre 800 detonate nelle caverne sotterranee fino a ieri hanno fatto più vittime di Chernobyl, qui nell’ enorme regione fra l’ Arizona, lo Utah e il Nevada coperta dalla nuvola del ‘ fallout’ nucleare. Il loro numero esatto è ancora un segreto di Stato. Forse 50 mila, come in Vietnam.
Eppure Clinton sta meditando di autorizzare altri quattro test nucleari, entro il 1996.
Come tutto quel riguarda l’ atomo, anche di questo orrore non v’ è segno visibile altro che nelle conseguenze.
Bisogna cercare gli effetti nella famiglia Laird, distrutta dalla ricaduta della bomba ‘Harry’ (ogni esperimento aveva un suo nome, Harry, Bob, Frank, John, per umanizzarlo. Anche quella che distrusse Hiroshima era detta simpaticamente ‘ Fat Boy’ , (ciccione).
L’ impronta di quella guerra interna sta nei 100 mila indiani della nazione Navajo impiegati come minatori d’ uranio per scavare il minerale necessario alle bombe, sterminati dai tu-
mori al polmone e morti senza neppure poter dare un nome a ciò che li uccideva: in lingua Navajo non c’ è una parola che esprima il concetto di ‘ radioattività’ .
La chiamavano la “morte che consuma”.
Per anni, il silenzio ufficiale fu assoluto, feroce.
Nel paese di St.George, un villaggio fra i mormoni dello Utah, un medico del posto scoprì a metà degli anni ‘ 60 quantità mostruose, inspiegabili di tumori, 25 volte più della media nazionale... perchè? chiese alle autorità, perchè tanta mortalità fra questa gente sana, in uno degli angoli più belli e vergini d’ America?
Come risposta gli arrivò a casa un agente dello Fbi: lei non è per caso un comunista? Una spia russa?
Il medico lasciò perdere. Non ci sono monumenti, medaglie, eroi di quella guerra segreta di Americani contro altri Americani.
Solo cimiteri. Solo il nulla sinistro e gigantesco di roccia e deserto che fu il ‘ Nevada Test Site’ , il poligono atomico. Di quell’ inferno oggi resta soltanto un cartello - “Warning! Attenzione! State entrando nel poligono nucleare del Nevada!” - a poco più di un’ ora d’ auto da Las Vegas. Non è proibito entrarci, ma molti dicono che sia stupido. La polvere che ricopre la strada è forse ancora ‘ calda’ , radioattiva e lo sarà per 400 anni.
A bassa voce, per non disturbare i turisti, i vecchi del posto ti suggeriscono di viaggiare coi finestrini della macchina ben chiusi, la ventilazione bloccata e le mascherine di carta sulla bocca per non respirare la ‘ morte che consuma’ . Quella stessa morte che uccise anche John Wayne e tutta la gente che lavorava con lui sul set di un western realizzato da queste parti.
Nessuno della troupe di quel film girato accanto al poligono nucleare è scampato. Tutti sono morti qualche tempo dopo aver lavorato qui per 4 settimane, tutti di cancro al polmone.
Dissero che erano le sigarette. Allora non sapevamo quel che sappiamo ora, si difendono le autorità, eravamo sprovveduti, ingenui. Ma non è vero. Sapevano benissimo.
Quando il vento spirava dal poligono in direzione di Las Vegas e di Los Angeles, rimandavano gli esperimenti.
(segue pagina 8)
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S’ARTI NOSTRA 7
L’ATOMICA NEL CORTILE
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Aspettavano che il vento girasse e portasse la polvere verso le Montagne Rocciose, a est, nelle zone poco abitate, verso i disgraziati che vivevano sparsi nei villaggi sottovento, come Martha e i suoi figli. Il Pentagono le chiamava “popolazioni marginali”.
Diciamo pure la parola: cavie. Sapevano, eccome sapevano. Da Las Vegas si vedevano benissimo i ‘ funghi’ stagliarsi contro l’ orizzonte ad appena 100 chilometri.
I giocatori si alzavano dai tavoli del ‘ Blackjack’ , si staccavano dalle slot machines per correre sui tetti a vedere ‘ the mushroom’ , il fungone.
Le scuole distribuivano pasticche di iodio ai bambini per combattere l’ effetto delle radiazioni.
Dicevano ai genitori che erano “vitamine”.
Ai soldati che in 250 mila vennero piazzati a pochi chilometri dal ‘ ground zero’ , il punto della detonazione, veniva data paga doppia, come agli scienziati che lavoravano agli esperimenti.
Dunque il rischio era ben noto. “Li pagavano profumatamente e gli dicevano che era un lavoro patriottico, indispensabile per difendere l’ America dalle bombe dei comunisti” racconta la vedova di un cow-boy del Nevada.
Suo marito aveva il compito di portare vacche vicino alla bomba per studiare gli effetti. Alle bestie usciva una schiuma purpurea dalle narici, gli occhi si gonfiavano fino a cadere dalle orbite.
Qualche volta anche ai vaccari. E le vedove zitte. “Non una parola con nessuno, mi disse mio marito vomitando abbracciato alla tazza del cesso, dopo un esperimento”. Morì sei mesi dopo.
Lungo la ‘ Frontiera della Bomba’ oggi non c’ è più niente di vivo.
Deserto doppio. Vedo, dal finestrino ben chiuso della mia macchina, la carcassa di un vecchio carro armato bianco, calcinato dall’ esplosione.
Rottami di autobus, macchine, tronconi sbriciolati di ponti in cemento armato, pezzi di rotaia divelti, usati per misurare l’ effetto-bomba, tutti coperti da quella polvere candida e finissima che viaggiava per centinaia, per migliaia di chilometri.
A volte ricadeva fitta come neve sui villaggi e i bambini correvano fuori a tuffarvisi dentro, ridendo e respirando. La notte vomitavano, la matti-
TUTTO TREMENDAMENTE VERO. IL DELIRIO UMANO.
na apparivano le prime piaghe e i capelli cominciavano a cadere 48 ore dopo.
Le madri pregavano per loro. Prima perchè guarissero. Poi perchè morissero in fretta. La gente si fidava. La propaganda funzionava e la ‘ Bomba’ non dispiaceva affatto. Quel fungo enorme contro il cielo terso del West era una bandiera, un segno di trionfo. Era l’ America.
BOMBA ATOMICA FA STRAGE
Miss Nevada 1953 vinse il titolo indossando un costumino da bagno fatto di bambagia a forma di fungo atomico. Parve una gran trovata. Il due pezzi rivelatore non si chiamava forse ‘ Bikini’ , l’ atollo della prima Bomba H? Nel deserto del Nevada, spuntavano gli ‘ Atomic Bar’ , ‘ Atomic Restaurant’ , ‘ Atomic Casinò’ .
Le prostitute di Reno offrivano ai clienti ‘ The Atomic Fuck’ , la scopata atomica.
Le famiglie andavano a fare i pic-nic sulle colline per guardare il ‘ sole a mezzanotte’ attraverso gli occhiali affumicati.
L’ esercito distribuiva e proiettava nei paesi sottovento del Nevada, dell’ Arizona, dello Utah un filmino rassicurante intitolato “Il Cappellano e la Bomba”.
Anno: 1956. Recitava il cappellano: “Domani assisterai in prima linea a un esperimento nucleare, hai paura?”.
Il soldato: “Un po’ sì, Padre”. “Non averne, figliolo. Non c’ è alcun pericolo. Vedrai un grande lampo, sentirai il calore sul viso come quando prendi il sole al mare, avvertirai la terra tremare, il vento alzarsi.
E poi vedrai un fungo di colori meravigliosi volare verso i cieli, verso il Signore. Sarà bellissimo”. “Sì padre, ora sono tranquillo”.
Vedo nel deserto resti di enormi gabbie, come grandi voliere sparse qua e là. Erano le gabbie per gli animali collocate a varie distanze dal “ground zero”.
I più vicini venivano polverizzati. I più sfortunati, quelli più lontani, vivevano un giorno o due. Reason Wareheim, un ex Marine di servizio nel Poligono che oggi ha 67 anni ed è sopravvissuto a un tumore al polmone, ricorda ancora le grida e gli ululati strazianti di quelle bestie, lasciate a morire sotto il cielo del deserto. Sopravvivevano solo scorpioni e scarafaggi. Bisognava farlo. C’ era la Guerra Fredda. Stalin e Kruscev. Budapest e
Cuba. Il giorno dell’ Olocausto atomico sembrava inevitabile, imminente. Gli esperti parlavano di “deterrenza” nucleare fra Usa e Urss per garantire la pace.
Forse milioni di vite furono risparmiate. Certamente migliaia di vite furono consumate in silenzio, qui nel Selvaggio West della Bomba coperto dalla polvere portata dal vento del Nevada che lasciava in bocca “un sapore metallico, come leccare la lama di un coltello”.
E il ‘ fallout’ radioattivo arrivava sino a New York, dicono le carte segrete. Racconta ancora Martha Laird: “Poco prima di morire mio figlio alzò la testa dal letto dove stava tutto avvolto in un guscio di gommapiuma perchè le sue ossa erano ormai diventate così fragili per il tumore che si spezzavano solo a muoversi. “Mugolava come un cane... mamma sento il vento arrivare... mamma ferma il vento... Credevo che delirasse”. Martha ha messo in cornice l’ assegno del governo. Giura che non incasserà mai quei soldi portati dal vento del Nevada, come la morte senza nome che consumò tutti i suoi figli.”
Vittorio Zuccon Repubblica
Foto keblog.it
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/6 /1993
“1951, LA
IN AMERICA LAS VEGAS
Ricordare e raccontare per impedire che il Passato torni ad essere il Presente.
Il 25 aprile è un appuntamento fondamentale per la storia della nostra Repubblica, che affonda le sue radici e la sua Costituzione sulla Resistenza partigiana che ha dato un contributo fondamentale al processo di Liberazione del paese dall’occupazione nazista
Una ricorrenza che assume un’importanza e un significato ancora maggiori, se si considerano i risvolti bellici che hanno colpito e che impegnano l’Ucraina da oltre un anno a questa parte.
Ricordare la Resistenza, raccontarla e difenderla è quindi una necessità e una missione.
In occasione dell’incontro “Gemellaggio Cagliari-Spilamberto in memoria del partigiano Nino Garau”, è stato il presidente del Consiglio comunale Edoardo Tocco ad accogliere Umberto Costantini, sindaco del Comune nei pressi di Modena, nel cuore delle Terre di Castelli. Ospitato nel pomeriggio di sabato 22 aprile al Palazzo Civico di via Roma 145, l’incontro ha visto la partecipazione di Dino Garau e Francesca Nurra, rispettivamente figlio e nipote del partigiano Nino.
Tanti anche i docenti, le studentesse e gli studenti delle scuole su-
periori di Spilamberto, del Liceo classico “Dettori” e del Convitto Nazionale “Vittorio Emanuele II” di Cagliari.
“Antonio Garau nacque a Cagliari il 12 dicembre 1923, fratello secondogenito di Lina, la maggiore, e di Gianna.
Il padre, Raimondo, era un facoltoso proprietario di immobili, la madre, di origini modenesi, si chiamava Iolanda Gibertini.
La passione giovanile per il volo unita a frequentazioni familiari nel mondo dell’aviazione lo portarono a compiere la scelta di accedere all’accademia dell’Aeronautica militare di Caserta (corso «Zodiaco» 1941, trasferito a Forlì nell’agosto del ’43 a seguito degli sbarchi delle forze alleate nel Sud Italia)”.
“Dopo l’8 settembre, e un breve periodo di sbandamento, raggiunse i parenti materni nella pianura modenese e qui, nemmeno ventenne, abbracciò la causa resistenziale costituendo e guidando la brigata partigiana “Aldo Casalgrandi” con il nome di battaglia “Geppe”.
Fu catturato dai tedeschi, torturato e imprigionato in un carcere a Verona da dove nonostante fosse ferito, riuscì a fuggire con l’aiuto di un soldato sardo, Spartaco Demuro.
Il suo ruolo nella lotta per la liberazione del quadrante sud-orien-
tale dell’attuale provincia di Modena, precisamente del territorio di Vignola, Marano e Savignano sul Panaro, Castelvetro, Castelnuovo Rangone, e del paese di Spilamberto tra il 22 e il 23 aprile 1945, fu determinante.
Dopo la guerra e il ritorno a Cagliari la falsa accusa dell’omicidio di un fascista gli costerà qualche giorno di detenzione”.
“Laureatosi in giurisprudenza, il 1° ottobre del 1949 fu assunto in qualità di funzionario dal Consiglio regionale della Sardegna.
L’11 ottobre 1952 sposò Luciana Magistro con la quale ebbe tre figli: Dino, Emanuela e Stefania. Garau è stato un apprezzato dirigente pubblico, ha ricoperto l’incarico di capo Ufficio resoconti dell’istituzione consiliare sarda sino a diventarne Segretario generale dal 1960 al 1976, anno di conseguimento della pensione.
Ha collaborato alla compilazione del “Rapporto Giannini” per la riforma dell’amministrazione statale ed è stato componente effettivo del Consiglio superiore della Pubblica Amministrazione sino al 1978.
Nel 1969 gli è stata conferita tardivamente la medaglia di bronzo al valore militare”.
“Insignito dal presidente del Coni Giulio Onesti della Stella d’argento al Merito Sportivo, ha inoltre assunto ruoli dirigenziali
nella Federazione italiana pallacanestro.
Ci sono voluti sessant’anni perché Antonio ‘Nino’ Garau, cagliaritano, classe 1923, decidesse di condividere i suoi ricordi di partigiano.
Sessant’anni in cui ha dovuto custodire pensieri dolorosissimi e allo stesso tempo scontrarsi con una memoria della Resistenza spesso superficiale, frettolosa, imprecisa. Oggi “La resistenza di Geppe. Diario di un giovane sardo che scelse di combattere per la libertà e la democrazia” è diventato un libro pubblicato dalla casa editrice Soter a cura di Walter Falgio grazie all’impegno di Issasco, l’Istituto sardo per la storia dell’antifascismo e della società contemporanea.
Nel rispetto delle sue volontà, le pagine del diario sono state pubblicate dopo la sua morte, avvenuta il 12 luglio 2020: il motivo di questa scelta è spiegato dallo stesso Garau:
“
Non vorrei che i miei comportamenti e le mie azioni durante la Resistenza fossero risucchiati da quella grossa marea di scritti avvenuta dopo la Liberazione”. “Posso dire di aver conosciuto l’intera società umana con i suoi pregi e i suoi difetti – ha scritto Nino tra le ultime righe del suo diario. – Ma ciò che più conta per me è aver vissuto la guerra in prima linea, e aver vissuto la pace. Oggi posso dire che nella guerra anche i vincitori non vincono, perché l’uccisione di un vincitore non essere ripagata dalla vittoria di una nazione. Non possono essere ripagate le famiglie che hanno perso figli, i poveri cagliaritani che hanno subito i bombardamenti e perso le persone care (centinaia di morti). La guerra non la vince nessuno. La guerra è morte sia per i vinti che per i vincitori. La miglior ragione è la pace”.
Nel 2005, in occasione del 60° anniversario della Liberazione, è stato riconosciuto cittadino onorario del Comune di Spilamberto dove ha ricevuto le chiavi della città”.
“Il 17 marzo 2016 la prefetta di Cagliari Giuliana Perrotta gli ha consegnato la medaglia della Liberazione conferita dal Ministro della Difesa a quanti hanno partecipato alla Resistenza italiana contro il nazifascismo.
Antonio Garau, Nino per gli amici, è mancato a Cagliari a 96 anni, il 12 luglio 2020”.
Tratto da “Nino Garau, partigiano e testimone” di Walter Lagio Istituto sardo per la storia dell’antifascismo e della società contemporanea ISSASCO.https://www. gazzettadimodena.it/modena/cronaca/2019/11/21/ news/libero-spilamberto-dai-nazifascisti-al-senato-il-film-su-nino-geppe-garau-1.37943692
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ANTONIO GARAU NOTO GEPPE
ermania, alba del nuovo secolo.
Un gruppo di giovani studenti di architettura decide di rompere con i valori del passato e di dare vita ad un movimento teso a creare un Brücke (ponte) verso un nuovo modo di esprimersi, fatto di una pittura fortemente espressiva, di colori violenti, di linee spigolose e di temi che raccontano il mondo contemporaneo: scene di realtà metropolitana, nudi, ballerine, scene circensi. Tra i fondatori della Die Brücke vi sono Ernst Ludwig Kirchner (1880-1938), Eric Heckel (1883-1970) e Karl Schmidt-Rotluff (1884-1976), ai quali si aggiunsero poi Max Pechstein (1881-1955), Emil Nolde (1867-1956) e Otto Müller (1874-1930).
Nella primavera del 1906, Kirchner scrive un manifesto in caratteri gotici, stampato in xilografia, in cui invita gli artisti a cercare la libertà di lavoro e di vita contro le forze conservatrici.
Quest’ultime sono rappresentate dalle Accademie tedesche che si propongono come centri di educazione autoritaria e convenzionale, in cui all’artista sono assegnati compiti decorativi.
Uno di loro, Heckel, suggerisce il nome per il gruppo, ispirandosi ad un passo di “Così passò Zarathustra” di Nietzsche, scritto filosofico che incita proprio alla ribellione contro la cultura e la morale dominanti dove c’è scritto che “l’uomo è una corda tesa tra la bestia e l’uomo nuovo, una corda che attraversa l’abisso. La grandezza dell’uomo sta nel suo essere un ponte, non un fine“.
Il pensiero di Nietzsche (ma anche di Bergson) esprime un dissenso contro una civiltà che reprime il flusso energetico e che ragiona per categorie. Convinti che l’arte potesse giocare un ruolo importante nel ricondurre l’uomo moderno a valori incorrotti, Kirchner e gli altri stabiliscono il loro quartier generale in un ex negozio di calzolaio e li, tra morfina, nottate trascorse in giro per la città e incontri sessuali disinibiti, danno vita ad alcune delle loro opere più importanti.
Visitano musei, si innamorano delle sezioni dedicate all’etnografia, si dedicano alla xilografia, pubblicano riviste con le quali Die Brücke cerca di parlare al grande pubblico. Le loro opere, così diverse da quelle dei colleghi francesi, si
DIE BRUCKE IL PONTE
caratterizzano per le pennellate dense e pastose, dall’assenza di sfumature, da una nuova attribuzione di significato ai colori: perché un volto non può essere blu o verde? Chi ha stabilito che il brutto non è degno di comparire su una tela?
Giovane talentuoso e fragile, Ernst Ludwig Kirchner è tra i principali protagonisti del movimento della Die Brücke. Appassionato, impetuoso, infaticabile, alterna momenti di grande entusiasmo ad altri in cui la depressione lo attanaglia.
La sua parabola artistica è ben esemplificata da tre opere: Marcella (1910), Cinque donne nella strada (1913) e Autoritratto come soldato (1915).
Marcella è una ragazzina che siede su un letto con le mani incrociate, una giovane prostituta che posa, mettendo in evidenza un corpo acerbo e un volto pesantemente truccato segnato dalla vita.
Unico rimando alla purezza è quel fiocco bianco appuntato sui capelli.
Anche le Cinque donne nella strada fanno il mestiere di Marcella, sono delle prostitute che attendono i loro clienti sugli squallidi marciapiedi di
Berlino.
Ma, a differenza della giovane ragazza, sfoggiano degli abiti impreziositi da pellicce di colore verdastro e i loro volti appuntiti sono simili a coltelli. L’ambiente del postribolo torna anche in Autoritratto come soldato, dove il corpo nudo di una donna fa da sfondo alla scena.
Il pittore si presenta qui monco: non solo la mano è mozzata ma anche i suoi sentimenti.
Erich Heckel, nelle sue opere abbandona progressivamente il colorismo e dà alle forme una rappresentazione quasi geometrica.
La sua poetica è evidente in Giornata cristallina, opera del 1913.
Vi è raffigurata una giovane donna dal corpo voluttuoso che fa il bagno immersa in una natura, per contrapposizione, spigolosa.
Le nubi, come cristalli pungenti, si riflettono nelle acque azzurre che sono un tutt’uno col cielo.
Emil Nolde si unisce al gruppo della Die Brücke a quasi quarant’anni.
Ama definirsi un “copista della propria immaginazione”, impegnato nella traduzione visiva di ciò che la sua mente fervidamente produce.
Il colore violento, feroce e brutale da vita a composizioni che si rifanno al mondo delle leggende, della sfera religiosa e della natura.
Opera emblematica di questo periodo è “La ballerina, una figura istintiva e selvaggia che si esibisce animata da una furia cieca e scomposta: la testa reclinata, la bocca spalancata, la chioma nera agitata dalla turbinosa danza, la gonnellina a frange che lascia intravedere le parti intime.
Leggi anche Angelica Kauffmann, spregiudicata ritrattista nella Roma tra Sette e Ottocento
Con la loro pittura, Kirchner, Heckel, Nolde e gli altri lanciano un grido di allarme e di dolore al mondo che pare essersi addormentato.
Un mondo cieco e incosciente, trascinato dalla brutalità degli eventi che in quegli anni stanno sconvolgendo l’Europa intera.
I loro colori puri, le loro forme selvagge e primitive somigliano tanto ai disegni dei bambini che, senza malizia alcuna, stanno tentando di parlare al mondo dei grandi.
https://www.diariodellarte. it/espressionismo-germania-brucke/
S’ARTI NOSTRA 10 G
Photo wikipedia.org=
E’stato il supplemento a Palazzi A Venezia, il mensile in francese che pubblichiamo dal lontano 1989 con grande successo di pubblico, ad iniziare la pubblicazione delle immagini di alcuni fotografi dei nostri amici inspirandoci ad una rivista ormai cult, voglio parlare qui del Playboy degli anni ‘50 e ‘60 che con il suo centerfold proponeva una locandina domestica ai suoi lettori.
Abbiamo voluto rinnovare l’esperienza proponendo un’immagoine nel formato
A2 in modo da poter eventualmente realizzare un poster da affiggere sulle pareti di quelle che sono ancora le nostre camere e dove conserviamo i nostri sogni.
Così anche il supplemento a Sardonia ha voluto inspirarsene, proponendo quindi periodicamente uno o una fotografa ai nostri lettori.
Questa volta abbiamo il piacere di presentarvi una fotografa che esercita il suo talento nella regione dove vive cioè il Nord della Sardegna.
Questa regione é assunta a simbolo di vacanze lussuose da quando un consorzio italo-belga alla ricerca di uno spot velico nel Mediterraneo,
scopri questo tratto di terra e di mare, dove per altro eisteva già la scuola di vela del Touring Club italiano.
In effetti molti tra di noi ignorano il fatto che il livello del mare non é uguale a zero e sopratutto sempre lo stesso nelle diverse parti del globo terraqueo, come direbbe l’altra, in effetti la superficie del mare é costituita da piani inclinati, per esempio la differenza di livello media tra l’Oceano Atlantico ed il mare Mediterraneo é di ben 80 (ottanta) metri mentre tra il mar Tirreno ed il Mar di Sardegna é di 40 (quaranta) metri.
Questa situazione crea nello spazio marino situato tra la Corsica e la Sardegna non solo un movimento di acvque estremamente importante, ma sopratutto una presenza costante di venti di ogni direzione secondo le diverse condizioni metereologiche, quindi una zona assolutamente ideale per le barche a vela. Come da tradizione sia in Corsica che in Sardegna, le terre in riva al mare erano considerate senza alcun valore e quindi lasciate in eredità alle donne della famiglia, per di più in questo tratto di costa non c’era assolutamente niente , se non molte rocce ed una
caratteristica del terreno che le impediva di essere destinata a pascolo per i bovini, Al massimo qualche capra avrebbe potuto sopravviverci. Così il consorzio italo-belga incominciò a comprare le terre, dapprima per dei prezzi assolutamente derisori, poi spargendosi la voce dell’esistenza di tali acquirenti i prezzi salirono naturalmente, a volte con degli episodi particolarmente succosi, come quando un avvocato partecipo ad una compravendita offrendo un miliardo di lire per l’acquisto del terreno si vide rispondere “Non vogliamo un miliardo vogliamo quattrocento milioni”, anedotto ormai leggendario.
Piano piano il progetto si materializzò ed apparve il famoso Aga Khan, que naturalmente dette lustro e credibilità all’operazione che creò’ tra l’altro anche qualche regata velica di importanza mondiale portando così i maggiori equipaggi a cimentarsi nello specchio d’acqua sardo e dando una visibilità internazionale e lussuosa a tutta la Costa ormai battezzata Smeralda.
La località Porto Cervo, ormai famosa, fu impiantata in un luogo, forse l’unico della zona, dove una sorgente di
acqua potabile vi fu scoperta vedendo appunto un cervo abberevarsene.
Ormai tutto questo é storia ma vogliamo piuttosto presentarvi la fotografa del mese per la quale abbiamo chiesto ad Alessandra Sorcinelli di scriverci qualche parola di commento.
Che vi presentiamo qui di seguito:
Angela Ciboddo fotografa della Gallura.
La costa Smeralda crea meraviglia che viene sapientemente colta dall’obiettivo di Angela che come una vera esploratrice cerca la migliore essenza della luce e delle sfumature.
Non solo natura ma anche storie di persone di vita di luoghi.
Combatte contro la violenza sulle donne con scatti ad hoc molto suggestivi.
Tra colore e flash si indaga su mondi .
Vita vera e momenti. Autodidatta e istintiva. Solare ed emotiva.
Ingenua tanto da affacciarsi allo scatto come una bambina curiosa.
Questa dote di innocenza la contraddistingue.
Emerge il volto dello stupore intatto.
Insegnante donna madre sensibilità e intuito.
Personalmente possiamo solo dire che gli scatti di Angela Ciboddo ci mostrano la bellezza di una regione nonostante tutto ancora incontaminata rivelandoci il talento di una fotografa molto schiva e di cui per il momento non abbiamo molti testi critici a disposizione ma pensiamo di suscitarne qualched’uno prossimanente perchè l’abbiamo invitata ad esporre le sue fotografie quest’estate al Museo del Vino a Berchidda, in concomitanza con la manifestazione Insulae Lab, bandita ormai al secondo anno, da Mattea Lissia e Paolo Fresu, noti organizzatori della manifestazione Time in Jazz ormai alla sua trentaseiesima edizione e che hanno voluto estendere l’avventura musicale agli altri mesi dell’anno, incominciando da Aprile e finendo a Settembre invitando i gruppi musicali delle diverse isole del Mediterraneo, come Mqalta, Cipro Baleari, eccetera.
In attesa ecco qui qualche cliché di Angela Ciboddo, di cui siamo lieti di presentarvi il lavoro sicuri che lo troverete di altissimo livello fotografico ed artistico. Come noi tutti. Vittorio
E. Pisu
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ANGELA CIBODDO
Phto angelaciboddo
S’ARTI NOSTRA 12
Fotografia di Angela Ciboddo
S’ARTI NOSTRA 14
Fotografie di Angela Ciboddo
Bernardino Palazzi, indicato spesso dalla critica come un enfant-prodige,intraprende molto presto un percorso autonomo di ricerca stilistica, mostrandosi assolutamente coerente, lungo tutto l’arco della propria attività artistica, nella scelta dei temi e più in generale nelle convinzioni circa il significato del fare arte.
Cresciuto nella complessità del clima culturale milanese degli anni tra le dueguerre mondiali, mantiene autonomia di ricerca rispetto alle diverse correntiartistiche e, totalmente incurante delle critiche, si apparta, approntando unlinguaggio che si fa interprete unicamente della personale sensibilità.
Senza mettere in discussione la conoscenza e le riflessioni di Palazzi sull’evoluzionedelle ricerche artistiche a lui contemporanee, si può affermare che la sua pittura non tocca vicende storiche o problematiche connesse al sociale: fare arte ha significato, per lui, innanzi tutto godere del piacere che scaturisce dal puro atto del dipingere e, in secondo luogo, andare alla ricerca di emozioni estetiche che sono testimonianza di un atteggia-
mento positivo nei confronti dell’esistenza e della predisposizione al racconto di una realtà serena, opulenta erilassata.
È così appassionato alla vita e così occupato a trasferire quel mondo nel linguaggio della pittura che non sente come primaria la necessità di interrogarsi o di porsi dubbi sulle ricerche visive delle avanguardie.
Ogni singolo elemento ch’egli raffigura nello spazio del dipinto contribuisce a definireun’atmosfera felice che impregna l’intera composizione, in una perfetta sintesi di forma e colore.
Sostenitore fino all’ultimo dei valori autonomi della pittura, Palazzi è capace di raccogliere, nel XX secolo inoltrato, l’eredità di Matisse, non tanto nel senso espressivo del colore, quanto piuttosto nella predisposizione a un disinteressato piacere gioioso dell’arte.
Musa ispiratrice e protagonista indiscussa ne è la donna: la signora elegante dell’alta borghesia milanese in posa per il ritratto; la moglie Maray colta negli atteggiamenti più intimi e quotidiani; oppure, semplicemente, la modella nuda, in genere sdraiata, in uno stato deliziosamente vago, che
sembra ondeggiare tra il torpore e la noia o fra il sonno e la veglia.
Egli si compiace di cantare liberamente la gioia della giovinezza: l’eleganza e l’erotismo del corpo femminile diventano il mezzo più dolcemente persuasivo per esprimere quel senso di pienezza e di soddisfazione che fa parte del ritmo incessante della vita, tanto quanto gli affanni e le emozioni dolorose.
La scoperta del mondo femminile avviene attraverso la luce, che rivela e costruisce tramite il colore.
»Troppo spesso gli altri possano pensare e dire…», scriveva Bernard Berenson, illustre scopritore ed estimatore del mondo palazziano, mostrandosi sensibile alla verità e al coraggioche sottendono all’impulso creativo dell’artista.
Medesimo registro è adottato da Palazzi anche nelle opere incui affronta le tematiche sarde, affascinato dai toni delpaesaggio, dai costumi tradizionali e dalla suggestionedelle feste popolari, lavori in cui ci offre un’interpretazione del mondo isolano complessivamente distante dai modelli proposti dagli artisti suoi conterranei, testimonianze
S’ARTI NOSTRA 15
concrete di un legame sempre vivo con la terra abbandonata nell’adolescenza.
Questi dipinti sono con-cepiti con l’intento di rispondere a quell’urgenza di richiami della quale egli stesso ci parla, legami che nonhanno mai smesso di farlo avvicinare, non solo coi ricordi, alla Sardegna, la sua parte meno nota.
Ha poco più di quattordici anni Bernardino Palazzi quando si allontana dalla Sardegna per andare ad apprendere all’Accademia di Francia, a Roma, le tecniche dell’incisione e l’uso del pastello, sotto la guida di Carlo Alberto Petrucci.
La sua innata passione per la pittura si era manifestata quando ancora frequentava le scuole a Nuoro e poi a Sassari. Fermamente deciso a seguire la sua vocazione artistica, ottiene il consenso per allontanarsi dall’Isola e rag-giungere la capitale.
Roma lo sbalordisce, la sua magnificenza eterna lo disorienta, quasi l’opprime.
Non si perde d’animo, dopo pochi mesi, trascorsi tra l’Accademia e la Libera Scuola del Nudo, il trasferimento a Firenze segna una tappa fondamentale nel percorso di formazione dell’artista: appena sedicenne entra nello studio del pittore torinese Felice Carena, i cui insegnamenti lasceranno un’impronta ben manifesta, addirittura evidente nelleopere realizzate tra la fine degli anni Venti e i primi anni Trenta.
Palazzi disegna incessantemente. È convinto che senza il disegno non si possa dare vita ad alcuna creazione nelle arti figurative.
Firenze lo accoglie in un momento in cui la ventata futurista si affievolisce e si fa strada la necessità di un rinnovato confronto con la tradizione e con la natura.
Per raggiungere la famiglia, trasferitasi a Padova a seguito di esigenze legate al lavoro del padre, Palazzi lascia il capoluogo toscano e intraprende una nuova esperienza nel Veneto, coincidente con gli anni delle prime prove pittoriche e delle prime apparizioni in pubblico.
A Padova copia Mantegna e sicuramente anche Giotto, come ci “racconta”nel dipinto autobiografico, un rotolo lungo 18 metri iniziato nel 1969, nel quale l’artista riporta i momenti più significativi del suo lavoro.
A Venezia scopre Tiziano, Tintoretto e soprattutto la pittura chiara (segue pagina 16)
BERNARDINO PALAZZI
(segue dalla pagina 15) e grandiosa di Veronese, affascinato dai colori luminosi e iridescenti della sua tavolozza, che hanno dato vita alle immagini più felici della gloria veneziana.
L’esordio di Palazzi avviene nell’estate del 1925 alla I Espo-sizione degli Artisti di Ca’ Pesaro, tenutasi al Lido; nell’oc-casione l’artista raccoglie elogi e riconoscimenti per una serie di dipinti di soggetto esclusivamente sardo. La Sardegna continua a riecheggiare anche nel grande oliointitolato La croce (vedi illustrazione pagina 15), presentato nel 1926 a Padova alla IV Esposizione d’Arte delle Tre Venezie.
Realizzato probabilmente sulla base di appunti e disegni che Palazzi ha portato con sé dall’Isola, il dipinto contribuisce ad accrescere la notorietà che l’artista pian piano si va conquistando.
I critici contemporanei esprimono giudizi prevalentemente positivi di fronte alle eccellenti qualità del pittore, soprattutto in considerazione della sua giovanissima età. Si rilevano innanzi tutto una grande chiarezza costruttiva e un forte senso della composizione: la croce, concepita quasi come apparizione simbolica, è circondata da figure disposte nello spazio secondo unpreciso ordine geometrico. Prevale un senso generale di staticità che, unito alla raffinata eleganza di alcuni volti femminili, contribuisce ad allontanare qualunque effetto di drammaticità. È certamente plausibile che ildipinto faccia pensare, come ha giustamente sottolineato la critica,ai nostri artisti del Quattrocento, così come certi accenti di matrice espressionista, culminanti nelle linee che definiscono il volto ele mani nodose del suonatore di launeddas, rivelano l’aggiornamento del pittore, da poco giunto a Venezia, sul panorama internazionale delle arti; ma è altrettanto evidente che lo stile risentedel legame con la tradizione figurativa isolana e dell’amicizia conMario Delitala, che lasciano sensibili tracce nella produzione gio-vanile di Palazzi. Negli anni che precedono la partenza dalla Sardegna, egli respira ilclima artistico sassarese: la città è attraversata da fermenti di cultu-ra europea e vede crescere un’intellettualità aperta e spregiudicata che mira ad un continuo confronto con l’esterno. L’esempio delpittore Giuseppe Biasi
ha favorito il nascere di un gruppo di artistiche orienta le proprie scelte in direzione secessionista: il gusto de-corativo, la tendenza alla geometrizzazione dei contorni, la predile-zione per le figure bidimensionali e per le tonalità pure e lumino-se, attestano l’aggiornamento sulle novità proposte negli ambientidella Secessione romana, indirizzati principalmente verso un rin-novamento linguistico nelle scelte antiaccademiche. Un anno prima della realizzazione del grande dipinto La croce, Palazzi realizza l’olio intitolato “Beoni” (a noi noto da una fotografia d’epoca), nel quale alla sintesi di matrice secessionista si unisce l’influsso del pittore Felice Casorati, anch’egli, come Carena, di area piemontese.Casorati, oltre ad avere frequentato l’ambiente padovano e gli artisti di Ca’ Pesaro, è ben rappresentato da una sala personale alla Biennale di Venezia nel 1924, con ben quattordici opere che documentano la raggiunta maturazione del suo stile aristocratico.
Il campo bianco della tovaglia, i volumi perfettamente scanditi degli oggetti e la forzatura prospettica del volume sghembo del tavolo, sul quale
poggia la testa uno dei beoni, rimandano al linguaggio diCasorati e in particolare alle opere realizzate all’inizio degli anni Venti, quando la sua ricerca, espressa in forme semplificate ed elementari, riscopre gli arcaismi negli oggetti della realtà ricondotti a volumetrie pure.
Palazzi osserverà con attenzione soprattutto gli studi di Casorati sul corpo femminile e i motivi iconografici ricorrenti nelle sue tele, quali la modella nello studio dell’artista e il nudo sdraiato, temi abbondantemente sviluppati nella produzione successiva.
E una prima evidente suggestione si coglie nell’ Autoritratto con figure ignude, dipintonel1929 e anch’essopervenutoci tramite un’immagine d’archivio: la luce av-volge i volumi ben torniti e levigati dei corpi delle duedonne vicine all’artista in silenziosa contemplazione.
Prevale una sensazione di purezza e di quiete, che ricon-duce a certe atmosfere irreali e magiche degli internidomestici dipinti appunto da Casorati. Nel 1929 Palazzi abbandona il Veneto per trasferirsi a Milano; a parte isuoi viaggi, frequenti soprattutto in Francia, risiede nel capoluogolombar-
do fino al 1950.
Sono anni decisivi per la definizione della sua personalità artistica e soprattutto del suo ruolo negli ambienti dell’alta borghe-sia milanese, da cui provengono numerose e importanti commissioni.
Sin dalla fine del primo conflitto mondiale, Milano è animata da un grandefervore di ricerca in campo artistico. In linea con la tendenza generale dell’arte europea nell’immediato dopoguerra, si avverte la necessità di un ritorno all’ordine, che coincide con un’esigenza di figuratività, di rigore plasticoe di semplificazione delle forme che si riaggancia alla tradizione rinascimen-tale italiana, in opposizione agli sperimentalismi portati avanti dalle avan-guardie, prima fra tutte il Futurismo.
Questi presupposti sono alla base dell’orientamento del gruppo di Novecento,destinato a diventare un importante punto di riferimento per molti artisti ita-liani.
Il primo contatto di Palazzi con il mondo culturale e più specificamen-te artistico milanese avviene con l’ingresso nel gruppo di Bagutta, del quale fanno parte artisti, giornalisti, critici letterari, poeti e
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Foto
pamelaladogana
scrittori che si riunisco-no per discutere liberamente d’arte e di letteratura lontano dall’atmosfera op-primente del fascismo e in sintonia con l’ala progressista della borghesia mila-nese.
«Vengo accolto assai affettuosamente nel cenacolo di Bagutta», scrivePalazzi nei suoi ricordi autobiografici, «… stavo molto ad ascoltare, essendoio il più giovane, e ascoltando imparavo molte cose, mi orientavo sulle lettureda fare e da non fare».
In breve tempo il pittore sardo diventa celebre come ritrattista di quel mondo, una grande dote che la critica non gli ha mai contestato.
«Palazzi è ritrattista nato», scrive il giornalista Orio Vergani, nel primostudio monografico dedicato alla sua opera, «e la sua sensibilità è dominata da un sentimento prepotente e squisito della personalità».
Abbandonati, per il momento, i temi legati alla Sardegna e con essi il gusto decorativo (seppurerisolto con grande originalità), a riempire le tele dell’artista sono soprattuttoritratti delle signore dell’alta borghesia milanese, realizzati col pastello o conl’olio, contrassegnati da una grande ele-
ganza e raffinatezza di tocco, che incontra gli apprezzamenti di un pubblico d’élite sempre più vasto.
È fuor di dubbio che la piena maturazione stilistica di Palazzi si compie attraverso scelte che mostrano una dichiarata indipendenza dalle correnti artistiche milanesi contemporanee; ma è innegabile, tuttavia, che in alcuni dipinti dei primi anni Trenta si percepisca un influsso novecentista, già in parte assorbito con la lezione di Casoratie rielaborato in maniera assolutamente personale.
Ne sono un esempio il ritratto di Wanda Toscanini, la figlia del grande maestro, e lo splendido olio intitolato “Figura in rosso”, che Palazzi dipinge nel 1934.
Nel primo, la solidità plastica e il nitore formale, uniti aduna pungente introspezione psicologica, ricordano i ritratti femminili del pittore triestino Piero Marussig (uno dei fondatori del gruppo Novecento), che si distinguono, oltre che per il purismo formale, per un’aria velatamente malinconica che aleggia negli sguardi delle eleganti signore; nel secondo, invece, l’ordine misurato della composizione, com’è stato acutamente osser-
vatodalla critica, rimanda ad esempi quattrocenteschi, in linea con l’esigenza di ritorno alla tradizione rinascimentale italiana, diffusa negli ambienti novecentisti.
Ed è ancora dagli esempi milanesi degli anni Venti che Palazzi attingequando realizza nel 1935 il suo dipinto in assoluto più conosciuto, intitolato Bagutta, conservato alla Galleria d’Arte Moderna di Milano e diventato simbolo dell’omonimo gruppo.
Il primo gruppo di giudici del premio Bagutta è raffigurato mentre discute con grande vivacità e animazione: si avvicina il giorno in cui deve essere assegnato il premio annuale di letteratura.
Racconta lo scrittore Orio Vergani che l’esecuzione deldipinto ha significato tanti mesi di lavoro. Palazzi ospita nello studio, aduno ad uno, gli amici di Bagutta e li fa posare davanti alla tela gigantesca in atteggiamenti predisposti come in un “cenacolo sacro”. Il carattere documentario del dipinto e la ripresa analitica dei gesti e delle espressioni dei personaggi fanno tornare alla mente il realismo minuziosoe a tratti lenticolare dei dipinti di Leonardo Dudreville (anche lui come Marussig S’ARTI NOSTRA 17
tra i fondatori del gruppo milanese), che utilizza l’oggettività come strumento di penetrazione psicologica. Per quanto riguarda l’attenzione alla definizione plastica dei personaggi, nota bene il severo occhio di Ugo Ojetti, nome di punta della critica italiana del tempo, quando riferendosi a Bagutta sottolinea le «figure una volta tanto più sode deibei nudi femminili», ponendo l’accento sull’esigenza di saldezza costrutiva, imposta all’artista da una osservazione attenta del dato reale.
Le citazioni,da Ingres a Cézanne, sono riassorbite nell’insieme a creare un’atmosfera quasi immobilizzata, fuori dallo spazio e dal tempo. Nel suo studio milanese, che Orio Vergani ricorda così piccolo da non esserci spazio che per lavorare, Palazzi dipinge copiosamente, con rari momenti di stasi, fino a quando nei primi anni Cinquanta lascia il capoluogo lombardo per trasferirsi in Liguria, a Sanremo.
Sono in assoluto le donne, nella raffinatezza esecutiva dei ritratti e ancor più esplicitamente nella morbida sensualità dei nudi, a rappresentare fino agli ultimi anni di attività il tema prediletto dall’artista. L’anima femminile,così complessa e inafferrabile, ha trovato in Palazzi un interprete attento eraffinato, che l’ha saputa esaltare mettendo a nudo gli aspetti più intimi eseducenti del suo carattere. Le sue dolci creature sono colte preferibilmentenei momenti di maggiore rilassatezza, rapite dai loro pensieri più intimi in una dimensione di assoluta serenità: sedute o sdraiate, in interni diffusamente illuminati dal sole, sono immuni da qualsiasi angoscia e inquietudine, pronte ad offrirsi in tutta la loro bellezza fisica e spirituale.
«Per me la donna è l’oggetto più bello del creato» afferma l’artista in un momento diriflessione sulla sua produzione pittorica, «è la grande madre, la grande sorella, la grande consolatrice. Pensare di destinare le donne a questo ruolo inmodo pressoché esclusivo (ecco che cosa significa il mio insistere su temicome l’odalisca, l’harem, l’attesa), sottraendole alla brutale concorrenza la-vorativa col maschio, significa appunto rendere loro, se-condo me, il massimo degli omaggi».
Pamela Ladogana
Bernardino Palazzi ILISSO
Foto ritapamelaladogana
n’immersione multisensoriale nella vita e nell’opera di una delle più celebri e iconiche figure femminili dell’arte del ‘900, attraverso un universo di proiezioni video, effetti luminosi e acustici.
Torna a Bitti l’appuntamento con le grandi mostre di primavera, con l’inaugurazione, sabato 8 aprile al cinema Ariston, dell’esposizione multimediale “Frida Kahlo – Viva la Vita”. A finanziare l’evento – il terzo multimediale e itinerante ospitato nel comune barbaricino, dopo quello del 2019 dedicato a Leonardo Da Vinci e l’esposizione del 2022 “Van Gogh – Il sogno” – la Regione Sardegna, la Fondazione di Sardegna e il Comune di Bitti, mentre l’organizzazione della mostra è affidata, come per le precedenti, alla cooperativa bittese Istelai.
Divulgare senza banalizzare: una ricetta che richiede esperienza e precisione.
Bitti mette dunque di nuovo al centro una figura della storia dell’arte che il tempo, il mito e l’evoluzione dei costumi hanno catapultato fuori dai testi scolastici o dalla cerchia degli appassionati per attribuirle un nuovo status, forse anche suo malgrado: quello di icona pop, la cui effigie, svuotata del significato originale, diventa prodotto di consumo tornando milioni di volte su magliette, gadget, bacheche social. Una scelta ponderata e orientata senza dubbio a richiamare, in questo piccolo comune caratterizzato da una forte vivacità culturale, una fetta di pubblico ampia e trasversale, dalle scolaresche alle famiglie, dai turisti italiani e stranieri ai sardi che vogliono organizzare una “gita della domenica” in chiave culturale. Sarebbe tuttavia semplicistico pensare a questo appuntamento come a un evento “acchiappa ingressi”: la forza dell’esposizione sta proprio nella restituzione della figura di Frida Kahlo con una soluzione espositiva multimediale di forte impatto che è sì “facilmente” accessibile, ma che non banalizza la profondità della produzione di Kahlo. Immerso in un mondo esotico e variopinto, animato da una voce fuoricampo e da una colonna sonora appositamente composta per l’esposizione, il visitatore prende gradualmente confidenza con la poetica dell’artista, inscindibile dal suo percorso biografico e dalla sua identità.
“Frida Kahlo, nata Magdalena Carmen Frida Kahlo y Calderón” dichiara Emanuela Manca, storica dell’arte e curatrice della tappa sarda della mostra, “è stata la prima donna nella storia dell’arte ad aver affrontato con assoluta schiettezza e in modo anche spietato, ma al tempo stesso pacato, temi molto forti come quelli della disabilità o quelli che riguardano le donne, diventando, non a caso, un’icona del femminismo. (affetta da spina bifida, l’artista rimase anche vittima, nel 1925, di un terribile incidente stradale che compromise ulteriormente, per il resto della sua vita, la già precaria salute della schiena e la deambulazione, ndr), tema forte e difficile da rappresentare, ma non solo: è una figura estremamente complessa, divenuta anche emblema del femminismo per la sua adesione alla Rivoluzione messicana.
E rappresenta a tutt’oggi un forte simbolo di resilienza”. Ad arricchire il percorso, una serie di scatti, prodotti dal grande fotografo colombiano Leo Matiz, che restituiscono l’essenza di Frida Kahlo all’interno della sua dimora, la sua amata Casa Azul appena fuori Città del Messico.
Una mostra che, al di là dei contenuti, invita a riflettere sull’effervescenza culturale che sta vivendo negli ultimi anni Bitti, piccolo centro di nemmeno tremila abitanti a mezz’ora di auto da Nuoro. Un fortunato e ammirevole percorso che il comune condivide con altri piccoli e vivaci centri del Nuorese, da Mamoiada a Gavoi, da Lula a Sarule, ma che ritrova, a Bitti, un’organicità e una varietà di proposte che costituiscono probabilmente un unicum.
L’ormai classico appuntamento con le mostre multimediali itineranti non è, infatti, che una delle tante tappe di un percorso articolato e focalizzato sulle diverse fasce d’età.
Dall’archeologia, con il villaggio-santuario di Romanzesu, alla tradizione testimoniata dal Museo della Civiltà pastorale; ma anche il Museo Multimediale del Canto a tenore, l’unico in tutta l’isola dove è protagonista l’antico canto dei pastori.
E poi, l’attesa riapertura, a partire dalla settimana pasquale, del parco paleontologico all’aperto di BittiRex, che propone, soprattutto a un pubblico di giovanissimi, un viaggio tra i dinosauri dominatori dell’Era Mesozoica.
“L’obiettivo che l’amministrazione pubblica sta cercando di perseguire ormai da anni” – commenta il sindaco di Bitti, Giuseppe Ciccolini, “è quello di dare la possibilità a un pubblico vasto di avere un approccio coordinato e originale a varie forme d’arte. Dare continuità a questo progetto per noi è diventato ormai una priorità”. Con un’ulteriore ambizione: “adesso vogliamo portare un po’ più in alto l’asticella, iniziando a produrre anche dei contenuti che possano esaltare le caratteristiche uniche dei nostri territori e delle comunità”.
E se volete passare l’intero weekend, eccovi qualche idea in più:
#bittinsecta: mostra sul mondo degli insetti;
BittiRex: parco paleontologico all’aperto;
Su Romanzesu: sito archeologico dalla grande magia, nel quale la storia si immerge in un bosco di sughere incantato Museo della Civiltà Pastorale, nel centro storico di Bitti Museo Multimediale del Canto a Tenore, nel centro storico di Bitti
Parco naturale regionale di Tepilora:
U
Foto artribune
FRIDA KHALO VIVA LA VIDA fino al 9 Luglio 2023 Cinema Ariston Via Deffenu 14 BITTI a cura di Istelai: coop.istelai@tiscali.it Tel.: 3333211346 3332371759 S’ARTI NOSTRA 18
La ripresa delle indagini presso il bastione di Santa Caterina ha permesso dicompletare le scoperte della precedente campagna del 2009-2010, sia per quanto riguarda gliambienti sopratterra che per la struttura ipogea; i primi verosimilmente da connettere ad al-loggi legati alle strutture difensive che occuparono il sito a partire dall’età medievale, la secon-da, una probabile cisterna punica, trasformata in luogo di culto in età romana, poi riutilizzatoin epoche successive e destinato a discarica nell’altomedioevo.
Quest’ultima ha restituito interessanti reperti ceramici, ascrivibili a produzioni finora raramente attestate nei contesti meridionali dell’Isola, quali la forum ware e la sovradipinta.
Pertanto, seppure le indagini sianoancora in corso e i dati in fase di studio, si ritiene opportuno darne una preliminare notizia.
Parole chiave: Discarica, ceramica altomedievale.
Con questo contributo si presentano, seppure in via preliminare, i rilevantiritrovamenti di epoca altomedievale in corso presso la terrazza o bastio-
ne di Santa Caterina a Cagliari, che potranno gettare nuova luce su una serie diproblematiche connesse alle vicende insediative della collina del Castello cagliaritano, finora definite dal Medioevo in poi, ma incerte per i periodi precedenti.
La puntuale analisi dei risultati, attualmente allo studio, consentiràdi chiarire gli aspetti connessi alle fasi di frequentazione e di individuare iflussi dei traffici e i rapporti commerciali.
Al momento è sembrato indispensabile presentare in anteprima alcuni dati particolarmente significativi perchécostituiscono un unicum nel panorama dell’archeologia della Sardegna meridionale.
Nel luglio del 2012, dopo una pausa di circa due anni, è ripreso lo scavo archeologico presso il bastione di Santa Caterina, trasformato in piazza alla fine delXIX secolo a seguito della dismissione delle strutture difensive bastionate, che fin dall’epoca spagnola svettavano sulla città di Cagliari.
L’indaginesi presenta come la prosecuzione di quella condotta tra il 2009 e il 2010, con l’apertura di un nuovo saggio a ridosso del precedente, che
ha raddoppiato.
Desideriamo ringraziare Rossana Martorelli per averci invitato a pubblicar equesta scoperta avvenuta con singolare coincidenza proprio nei giorni del presente convegno.
Le considerazioni attuali, pertanto, potranno essere precisate e ampliate allaconclusione dell’indagine e degli studi. Al momento sentiamo il dovere di presentare agli studiosi elementi particolarmente rilevanti per la ricostruzione del periodoanalizzato in questa sede.
Finora gli studi sul quartiere hanno interessato soprattutto la fase punica, con ipotesi relative ad un insediamento.
La Soprintendenza Archeologica di Cagliari e la cattedra di Archeologia Cristiana hanno avviato un laboratorio interdisciplinare coordinato da Sabrina Cisci( Soprintendenza Archeologica) e Rossana Martorelli (Università di Cagliari) con lapartecipazione di Matteo Tatti e Laura Soro ed il coinvolgimento dei tirocinanti della Laurea magistrale e della Scuola di Specializzazione di Beni Archeologici.
.La presenza di forum ware e il suo accostamento alle produzioni sovradipintee alle anfore globulari, accanto a materiali
SCAVI BASTIONE SANTA CATDERINA CAGLIARI
diversi, quali ad esempio una fibbia decorata di tipo bizantino, sembrerebbero confortare una datazione del contesto di riempimento dell’ambiente ipogeo in un periodo abbastanza ristretto,compreso tra VIII e X secolo.
La scoperta appare quindi piuttosto interessante in quanto testimonia la presenza in Castello di un insediamento altomedievale, finora non altrimenti at-testato né in letteratura né archeologicamente. La quantità e la tipologia deireperti, che trova stringenti confronti a Roma e in Sicilia, suggeriscono inoltre l’importanza dell’abitato, aprendo a nuove e interessanti riflessioni sui ca-ratteri insediativi, le dinamiche commerciali e produttive che in questo periodo dovevano regnare nel Mediterraneo secondo un asse centro-meridionale.le dimensioni dell’area già indagata.
La nuova campagna ha permesso sia di confermare quanto già emerso, sia di acquisire ulteriori dati riguardanti l’oc-cupazione del sito.Nelle precedenti indagini erano state rinvenute delle strutture murarie e dellecanalizzazioni che, a parte un muro in grossi blocchi con rivestimento in coc-ciopesto ipoteticamente databile in età punica o romana, vanno riferite allefasi in cui, a partire dal Medioevo, l’area era stata occupata da installazioni difensive con i relativi alloggi militari, nonché da un pozzo noto come Fontana Bona.
In questa campagna di scavo l’individuazione di muri e sistemazioni pavimentali realizzate con ciottoli e mattonelle in cotto, ha comprovato l’esistenzadi ambienti a impianto rettangolare particolarmente curati.
Sulla base del materiale ceramico e di quello numismatico rinvenuto in strati sigillatipossono datarsi tra il XVII e il XVIII secolo, a conferma delle notizie riportatenei documenti.
È stata inoltre messa in luce la prosecuzione di un ambiente sotterraneo già individuato nell’indagine precedente, permettendone la totale lettura (lungh.circa m 18, largh. sulla sommità circa m 1, al fondo m 4,20). Come già evidenziato, sembrerebbe trattarsi di una cisterna, di probabile impianto punico,con sezione trasversale “a bottiglia” che per affinità planimetriche e struttu-rali trova confronti con un grande cisternone ubicato presso Capo (segue pagina 20)
Foto giusycalia
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(segue dalla pagina 19)
S. Elia a Cagliari.
La struttura idrica, come già rilevato, venne però interessata in una seconda fase, collocabile in epoca romana, da una diversa destinazione d’uso, verosimilmente di tipo cultuale, che comportò degli interventi volti a modificarnel’icnografia.
L’ambiente ipogeo, a pianta longitudinale orientata in senso est-ovest, con l’estremità orientale absidata, si presenta infatti scandito da sette nicchie di grandi dimensioni con la sommità arcuata, di cui tre nel lato meridionale e quattro in quello opposto, oltre ad altre quattro più piccole, posizionate presso le estremità est e ovest.
La novità di questo scavo è stato il rinvenimento di due stanze a pianta rettangolare, una della quali profonda circa 3 metri e provvista sulla parete di fondo di una teoria di tre nicchie realizzate a basso rilievo, nonché di un tunnel d’accesso dotato di scalini scavati nella roccia collocato nell’estremità ovest.
In questa fase venne inoltre riutilizzata come ulteriore stanza una piccola cisterna, posizionata nel limite sud-occidentale, ora collegata all’ipogeo.
Successivamente venne inserito un basso tramezzo murario con andamento N-S e con apertura mediana, che ha diviso lo spazio interno dell’ipogeo in due settori, di cui quello occidentale più piccolo.
L’ambiente appariva colmato da strati di terra solo in parte compromessi in tempi recenti, tra cui si segnalano la US 304 (circa m 2 sotto il piano dellapiazza) e il suo taglio, US -292, una trincea moderna all’interno della quale si è recuperata, tra gli altri materiali, la base di un lampione dell’illuminazione pubblica ottocentesca.
Tale trincea è testimonianza dell’esito dei lavori di risistemazione della zona, successivi ai bombardamenti del 1943.
È comunque dalla quota di circa m 3,70 dal piano della piazza che il grande ambiente ipogeo appare riempito da strati antichi, assolutamente sigillati, privi di contaminazioni successive (US 324 e seguenti) e attribuibili alle fasi di abbandono, quando venne trasformato in discarica.
Il riempimento è caratterizzato da materiali collocabili in ambito altomedievale che rivestono un’importanza notevole per il valore documen-
tario e la rarità nei contesti meridionali dell’Isola.
Si segnalano infatti, la produzione forum ware, quella della ceramica sovradipinta e quella delle anfore globulari.
La prima è presente in diverse varianti cromatiche e tipologiche e con un numero consistente di frammenti anche di notevole dimensione La ceramica sovradipinta si caratterizza per spartiti decorativi con bande, spirali,bolli, zigzag, nei colori bruno e rosso; infine le anfore mostrano spesso la superficie mossa da profonde solcature, a volte accompagnate da motivi incisi a onde e soprattutto da gruppi di lettere greche, talvolta in nesso graffite con tratto fine, a crudo, e disposte generalmente sulla spalla ma anche sulle anse.
.La presenza di forum ware e il suo accostamento alle produzioni sovradipintee alle anfore globulari, accanto a materiali diversi, quali ad esempio una fibbiadecorata di tipo bizantino, sembrerebbero confortare una datazione del con-testo di riempimento dell’ambiente ipogeo in un periodo abbastanza ristretto,compreso tra VIII e X secolo.
La scoperta appare quindi piuttosto interessante in quan-
to testimonia la pre-senza in Castello di un insediamento altomedievale, finora non altrimenti at-testato né in letteratura né archeologicamente. La quantità e la tipologia deireperti, che trova stringenti confronti a Roma e in Sicilia, suggeriscono inoltre l’importanza dell’abitato, aprendo a nuove e interessanti riflessioni sui ca-ratteri insediativi, le dinamiche commerciali e produttive che in questo perio-do dovevano regnare nel Mediterraneo secondo un asse centro-meridionale., Associazione analoga è stata messa in luce a Cagliari in località Bonaria, dove in un butto altomedievale pochi frammenti di forum ware sono stati rinvenuti insieme ad anfore globulari con iscrizioni greche in nesso a frammenti di ceramica sovradipinta (Mureddu, 2002 pp. 237-241).
Altri ritrovamenti di forum ware sono statieffettuati a Cagliari nell’ex albergo “La Scala di Ferro”, il cui studio è stato oggettodi una tesi di laurea (Soro, 2009-2010).
Si sottolinea che l’attenzione a questa classeè relativamente recente.
Non si esclude pertanto che in alcuni contesti non sia statariconosciuta..
La nuova campagna ha permesso sia di confermare quanto già emerso, sia di acquisire ulteriori dati riguardanti l’occupazione del sito.
Nelle precedenti indagini erano state rinvenute delle strutture murarie e delle canalizzazioni che, a parte un muro in grossi blocchi con rivestimento in coccio pesto ipoteticamente databile in età punica o romana, vanno riferite alle fasi in cui, a partire dal Medioevo, l’area era stata occupata da installazioni difensive con i relativi alloggi militari, nonché da un pozzo noto come Fontana Bona.
Donatella Mureddu
https://www.academia. edu/18319554/
CAGLIARI. INDAGINI ARCHEOLOGICHE PRESSO
IL BASTIONE DI SANTA CATERINA.CAMPAGNA 2012-2013
Convegno di Studi
Cagliari, Dipartimento di Storia, Beni culturali e Territorio Cittadella dei MuseiAula Roberto Coroneo 17-19 ottobre 2012 a cura di Rossana Martorellicon la collaborazione di Silvia Marin
Foto c.buffaarchivio
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EEra il lontano 1996 ed io ero una quasi diciottenne. Insieme ad alcuni dei miei più cari compagni di scuola, venimmo a conoscenza di una grande festa organizzata nel quartiere di Castello per commemorare Sa Die. Si trattava di un evento piuttosto articolato e, con l’entusiasmo di quell’età e la felicità di avere un’occasione per curiosare ed unirci alla festa, ci mettemmo d’accordo per incontrarci.
Poche erano allora a Cagliari le occasioni dove ci si poteva unire ad un flusso che sapeva di festa. C’era la fiera Natale ed il Matherland a dicembre; la fiera campionaria tra fine aprile e maggio, dove passavo un’intera giornata a curiosare, tra i padiglioni di artigianato estero, l’area dei giochi e l’angolo dei peruviani, ad ascoltare per un tempo infinito la loro musica.
Immancabile poi il 1° Maggio, che univa la festa del lavoro a quella di Sant’Efisio. I miei genitori lavoravano quasi sempre anche durante i festivi; perciò, da bambina mi alzavo molto presto e mi accontentavo di girare l’angolo della mia via per vedere le tracas provenienti dai paesi vicini e dirette verso il cuore della sfilata.
In genere portavo a casa i fiori di cui i componenti dei carri mi
facevano dono insieme ai loro sorrisi.
Un po’ più grande, quando potevo uscire con gli amici, si andava a piedi fino al Largo Carlo Felice, si girava tra la folla, si faceva tappa per mangiare un gelato o un panino. La sera poi ci si univa alla festa in piazza del Carmine.
Venne poi quell’anno, il ’96, che ricordo come tra i più belli della mia vita.
L’aria già tiepida di primavera, l’abbigliamento più leggero, l’ora legale e la luce fino a tardi, l’anno scolastico che si avviava al termine e un orizzonte di vacanze. E quella curiosa novità:
Sa Die de sa Sardigna. Ricordo che arrivammo da viale Buoncammino, per fare in modo di entrare in Castello dalla parte di Porta Cristina.
E già da quel primo passaggio, capimmo di trovarci non già ad una banale festa con le bancarelle ed un po’ di musica, ma ad una gigantesca ricostruzione storica in chiave teatrale. Ci accolse un gigantesco fuoco, alla stregua di quelli fatti nei paesi per Sant’Antonio, ogni 17 gennaio.
Erano state allestite più aree sceniche dove venivano riproposti i fatti realmente accaduti in quel 28 aprile del 1794.
Attori professionisti, un grandissimo numero di comparse,
il pubblico inconsapevolmente “attore” anch’esso nell’interpretare la folla assiepata tra gli stretti vicoli di Castello in quella che è stata definita come la giornata dell’emozione.
In un attimo fummo risucchiati dal fiume di persone e circondati da teatranti vestiti con abiti di fine Settecento. C’erano gli armigeri, che sparavano sui popolani che avanzavano inferociti verso il palazzo viceregio.
C’era il viceré, in abiti sontuosi ed eleganti, affacciato al balcone che parlava di “sardignoli”, e faceva esplodere ancora più la rabbia dei rivoltosi.
Era tutto molto affascinante e, quando ebbi modo di rifletterci a mente fredda, mi resi conto che di quei fatti reali trasposti in versione teatrale non sapevo nulla.
Per me e credo per la maggior parte dei presenti, quella era semplicemente la cacciata dei piemontesi. E anche solo questa semplice definizione bastava a molti per battersi il petto con orgoglio, secondo quella tipica reazione di fierezza spontanea, che si innesca a prescindere e che non poggia su basi solide, ma è determinata dal famoso stereotipo dell’orgoglio sardo. Insomma, per farla breve, un pezzo di storia che resta in superficie ed inorgoglisce più o meno alla stessa stregua di una vittoria del
SARDIGN A DI ROBERTA OLIANAS
SA DIE DE SA
Cagliari. Non può essere altrimenti. L’orgoglio fine a sé stesso che non nasce dal ri-conoscersi. Non mi vergogno di affermare che anche per me quella era “solo” la cacciata dei piemontesi. Mi accorsi che avevo molti vuoti, volevo capire. Ma nessuno a scuola ci aveva mai raccontato nulla di quella storia e, a dire il vero, di nessuna parte della nostra storia.
In nessuna pagina dei tanti libri scolastici che mi erano passati tra le mani si parlava di un episodio tanto importante, né del triennio rivoluzionario, di Giovanni Maria Angioy e di una società fortemente basata sullo sfruttamento.
Sarei stata felice di studiare e mi sono sempre sentita in qualche modo privata di qualcosa di giusto. La non conoscenza apre il cammino a due mostri: la negazione dell’identità da una parte e la mitizzazione dall’altra. In mezzo il vuoto cosmico che inghiotte il passato e ci priva della possibilità di elaborare in maniera equilibrata il “chi siamo”. Era un mondo senza internet. Oggi è più facile imbattersi nella conoscenza ed approfondire temi che ci interessano; è certamente più difficile, però, in questo mondo veloce, soffermarsi davvero e non trangugiare le informazioni attraverso il filtro del “consumo”.
E per quanto io abbia avuto accesso a un innumerevole quantità di materiale per approfondire e comprendere cosa c’è dietro a “S’annu ’e s’aciapa”, sento che qualcosa mi è mancato negli anni di formazione.
Perché è allora che si forma la nostra identità personale, e questo delicato processo di crescita non dovrebbe essere mai privato dell’identità collettiva che viene dal proprio specifico cammino storico.
Oggi, attraverso Assemblea Nazionale Sarda, ho la fortuna di impegnarmi attivamente per far sì che Sa Die, e molte più pagine di storia rispetto ai meri fatti “de su 28” vengano ricordate come meritano. E lo faccio con immensa gratitudine.
Del resto, per noi soci di Assemblea Nazionale Sarda non si tratta soltanto della portata ludica di una festa, ma di un momento importante di divulgazione. Si tratta di semi lasciati al vento, con la speranza che nascano fiori e frutti di consapevolezza, come fu per una quasi diciottenne che da allora non ha mai smesso di volgere lo sguardo alla sua storia e sentirsene parte.
Roberta Olianas
https://www.sindipendente.com/ blog/1996-la-prima-emozionante-edizione-de-sa-die/
S’ARTI NOSTRA 21
Musio e Tiziana Troja sono le direttrici artistiche della compagnia teatrale LucidoSottile. Conosciute come “Le Lucide”, sono attrici, coreografe, cantanti e registe con un’esperienza ventennale.
Come artisti anticonformisti, istrionici e irriverenti, il loro lavoro è trasversale e attraente, spesso osteggiato dalla politica e dai conformisti, suscitando dibattiti pubblici.
Le Lucide non sono artisti comuni, il loro lavoro spazia tra teatro, danza, cinema, fotografia e musica, esplorando la comicità tagliente e satirica così come il dramma contemporaneo, sempre con un occhio di riguardo all’impegno sociale e alla politica culturale.
Quando ha capito di voler diventare attrice e drammaturga?
La scelta di diventare attrici e autrici è stata obbligata, perché l’alternativa sarebbe stata quella di interpretare ruoli e far parte di progetti che non rispecchiano appieno la nostra poetica e la nostra visione del mondo, così come la nostra volontà di affrontare temi urgenti sulle donne, sulla società in cui si trovano e sulle questioni legate alla discriminazione di genere che ci stanno sempre molto a cuore.
Mi parli di Women. Cosa vi piace di più dello spettacolo?
Donne Donnette Donnacce è uno spettacolo che parla dell’amicizia e della solidarietà femminile nel mondo dello spettacolo, dei problemi inerenti al mondo delle artiste teatrali professioniste e delle inadeguate politiche culturali che non incoraggiano le produzioni in un ambiente in cui il lavoro equamente retribuito è molto raro.
Non mancano tuttavia alcuni momenti ironici che raccontano quanto le donne, spesso stupidamente, siano in competizione tra loro.
Il risultato è molto divertente, anche se i temi sono a volte avvilenti e ancora molto attuali.
Chi o cosa ha influenzato maggiormente il suo lavoro di artista teatrale?
La provenienza dal teatro sperimentale e dalla danza contemporanea ci ha portato a essere molto esigenti in termini di ispirazione.
Anche il cinema, un mondo in cui siamo spesso coinvolti, sia
LUCIDO SOTTILE A NYC
come attrici che come autrici e produttrici, ha comunque un ruolo decisivo nella creazione di un progetto artistico. Le figure che più ci hanno affascinato sono i grandi maestri del teatro, Dario Fo, Pina Baush, Eduardo de Filippo, ma anche registi più contemporanei come Paolo Sorrentino, Matteo Garrone e giganti come Mario Monicelli, Federico Fellini, Lina Wertmuller.
Da dove trae ispirazione?
L’ispirazione nasce sempre dall’urgenza di descrivere un’emergenza, politica o etica. La possibilità di affrontare temi scottanti e talvolta di inserirli in una cornice basata sulla satira.
A cos’altro sta lavorando in questo momento?
La prossima creazione è un progetto cinematografico che racconterà la storia autobiografica di Le Lucide di Lucidosottile per la realizzazione del “Holy Peep Show” nel 2011. Censurato per diversi mesi per l’immagine del manifesto considerata blasfema dalla Chiesa italiana, lo spettacolo è stato poi rappresentato in Italia e in Spagna nel 2012 e 2013.
È stato un tema di rottura tra politica e opinione pubblica nelle cronache nazionali e internazionali, in quanto denunciava gli scandali legati ad alcuni episodi di pedofilia all’interno della chiesa cattolica.
Inviato 1 settimana fa da Zack Calhoon
Traduco dall’inglese queste poche indicazioni riportate dall’attore Zack Calhoon che le diffonde sul suo blog ( vedi) all’indirizzo di tutti coloro che non hanno voglia di andare a carcare e che non capendo l’inglese avrebbero difficoltà a capire il senso di queste pochissimke parole.
Personalmente posso solo dire che ammiro moltissimo il lavoro incredibilmente professionista delle Lucide e nonostante vivessi a Parigi in quel momento, seguendo comunque l’attualità cagliaritana, fui immediatamente affascinato dalle loro produzioni che per altro avevo solo visto di straforo e mai di persona, così realizzai un’intervista (vedi il video https://vimeo.com/110445200)
alla prima occasione di un mio soggiorno cagliaritano.
In seguito ho avuto l’occasione, il piacere e l’onore di filmare alcune delle loro prestazioni come per esempio la
manifestazione “Cagliari ti amo” che mobilitando più di 60 attori per un centinaio di spettacoli rtealizzati nelle zone periferiche della città furono un evento enorme, gigantesco, di una professionalità musicale, teatrale, scenica, performativa unica alle quali l’Assessorato alla Cultura dovrebbe isprirarsi più spesso. Nemo profeta in patria, dice un proverbio spesso e volentieri verificato in Sardegna, dove bisogna normalmente andare fuori, per vedere riconosiuti i propri talenti.
Sperando che i numerosissimi allori raccolti dalle nostre Lucide Sottili facciano capire alla Municipalitò ed alla Regione che bisognerebbe assolutamente offrirgli un teatro alfine di poter continuare nella loro opera non solo scenica e teatrale ma anche e sopratutto pedagfogica, non solo rispetto alla popolazione che adora i loro spettacoli ma anche come laboratorio per aspiranti attori, il corpo di ballo che accompagnò Cagliari ti amo fu assolutamente sublime.
Vittorio E. Pisu
http://zackcalhoon.blogspot.com/2023/04/people-you-should-know-tiziana-troja.html
https://vimeo.com/110445200)
al 2002 Michela Sale
S’ARTI NOSTRA 22 D
Era il 24 aprile 1370 una nave spagnola con a bordo persone e merci, fu sorpresa da un’improvvisa tempesta al largo del porto di Cagliari.
Il comandante, per ritardare l’affondamento, ordinò ai marinai di gettare tutto ciò che era presente nella stiva. Intanto, i passeggeri invocarono la Madonna, pregandola di salvarli.
Una grande, pesantissima cassa di carrubo, fu lanciata in mare per ultima ma non affondò.
Galleggiò tra le onde. Al suo passaggio, nel cielo si apriva uno squarcio e la tempesta si placava.
Seguendo quella cassa verso la costa, i marinai riuscirono ad approdare sani e salvi al porto di Cagliari.
Poi tutti si precipitarono verso la spiaggia di Bonaria, a Su Siccu, per cercare di aprire la cassa che si era arenata.
Dopo inutili e svariati tentativi, chiamarono i frati mercedari del convento situato sul vicino colle.
Loro riuscirono, in pochi istanti, ad aprire la cassa e con grande sorpresa, all’interno della cassa trovarono una statua della Madonna con una candela accesa.
La chiamarono “Nostra Signora di Bonaria”. Fu qui che i conquistatori spagnoli conobbero il culto della Madonna di Bonaria, cui avrebbero intitolato, nel Nuovo Mondo, la città di Buenos Aires.
Il 24 aprile 1870, in occasione del quinto centenario della scoperta del simulacro, il simulacro della Vergine, su decreto del Vaticano, venne incoronato durante una solenne cerimonia.
In quella stessa data il Papa Pio X stabilì per quel giorno liturgico la celebrazione della festa di Nostra Signora di Bonaria.
Il santuario di Nostra Signora di Bonaria è un complesso religioso della città di Cagliari situato in cima al colle omonimo.
È uno degli edifici mariani più importanti della Sardegna ed è costituito:
-dal santuario in stile gotico-catalano risalente alla prima metà del XIV secolo; qui è custodito il simulacro di “Nostra Signora di Bonaria” (o “Madonna di Bonaria”), titolo dato alla Madonna, come patrona massima della Sardegna e di Cagliari, protettrice dei naviganti.
-dalla basilica risalente al XVIII secolo, in stile neo-
classico, elevata dapprima a basilica minore da Pio XI nel 1926[1], poi a vera e propria basilica nel 1952 da papa Pio XII[2];
-dal cimitero-parco monumentale omonimo;
-dal convento omonimo gestito dall’Ordine dei padri mercedari, che altresì officiano, come sede parrocchiale, le funzioni religiose.
Nel chiostro, è presente anche il Museo di Bonaria.
Il santuario è la parte più antica del complesso e fu il primo esempio di architettura gotico-catalana in Sardegna.
Nel 1324, durante l’assedio di Castel di Castro, l’infante Alfonso fece costruire su questo colle, detto in catalano di Bon Aire ovvero “buona aria”, una cittadella fortificata.
Nel 1326 Pisa abbandonò per sempre la Sardegna e, nel 1335, il re donò l’area di Bonaria ai frati dell’Ordine di Santa Maria della Mercede, all’epoca nel suo massimo splendore, i quali vi fecero costruire un convento con annessa la chiesetta, di stile catalano-aragonese.
La costruzione della basilica, che affianca il santuario, risale al 1704, quando i frati mercedari decisero di edificare una chiesa più grande in onore del-
SIGNORA LA MADONNA DI BONARIA
la Vergine di Bonaria. La chiesa, costruita su progetto dell’architetto piemontese
Antonio Felice De Vincenti, era stata progettata in origine in stile barocco; i lavori subirono però delle interruzioni, e verso la fine del XVIII secolo vennero affidati all’architetto Giuseppe Viana, che rielaborò il progetto in stile neoclassico. Nel corso dell’Ottocento i lavori subirono ancora diversi rallentamenti.
Il 24 aprile 1885 l’arcivescovo di Cagliari Paolo Maria Serci Serra riconsacrò il santuario dopo che erano stati effettuati dei lavori; una grande lapide, fu posta a ricordo del duplice avvenimento.
L’edificio venne però terminato solo nel 1926, anno in cui il papa Pio XI gli conferì il titolo di basilica minore.
Durante la seconda guerra mondiale l’edificio subì gravi danni dovuti ai bombardamenti; venne ristrutturato tra il 1947 e il 1960 e poi di nuovo nel 1998.
Il santuario di Bonaria è stato visitato il 24 aprile 1970 da papa Paolo VI, da papa Giovanni Paolo II il 20 ottobre 1985, da papa Benedetto XVI il 7 settembre 2008 durante la sua visita a Cagliari e da papa Francesco il 22 settembre 2013, per sottolineare il legame tra le città di Cagliari e Buenos Aires, dato che proprio da questo santuario la capitale dell’Argentina prende il nome.
Juan Díaz de Solís sbarcò nel 1516 alla foce del Rio de la Plata, e ribattezzò il grande fiume che attraversava la zona con i nomi di “Río de Solís” e “Mar Dulce”.
La sua avventura terminò quello stesso anno, quando fu attaccato e ucciso da un gruppo di indigeni.
Il 3 febbraio 1536 un altro spagnolo, Pedro de Mendoza, fu inviato dal Re di Spagna in missione per frenare l’avanzata dei portoghesi. Sulla sponda destra del Río de la Plata fece costruire una fortificazione che chiamò “Santa María de los Buenos Aires”.
Furono alcuni marinai sardi ad insistere perchè il nome della Madonna di Bonaria y figurasse, in seguito fu più semplice identificare la città unicamente con il nome di Buenos Aires, che gli é rimasto.
https://www.vistanet. it/cagliari/2023/04/23/ accadde-oggi-24-aprile-1370-quando-la-madonna-di-bonaria-salvo-i-marinai-dalla-tempesta-rep-1-2/
S’ARTI NOSTRA 23
NOSTRA
27 aprile 1937, morì dopo una lunga prigionia nelle carceri fasciste il pensatore e filosofo sardo Antonio Gramsci, uno dei più grandi intellettuali della storia del ‘900.
Nacque ad Ales il 22 gennaio 1891.
Figlio di Francesco Gramsci, impiegato del registro di Ghilarza di origini albanesi, e di Giuseppina Marcias, figlia di un esattore e piccolo proprietario terriero locale, il piccolo Antonio mostrò fin da subito grande talento e passione per gli studi.
Tra mille difficoltà dovute alle ristrettezze economiche della famiglia, ai piccoli guai giudiziari in cui fu coinvolto il padre e alle precarie condizioni di salute, riuscì a ottenere la licenza ginnasiale a Santu Lussurgiu. Socialista da quando era adolescente, in Sardegna simpatizzò per l’indipendentismo che all’epoca era largamente diffuso per via delle condizioni di estrema povertà e disuguaglianza sociale in cui versava l’isola .
Questo fomentò in lui sentimenti di ostilità verso la classe politica italiana e contribuì a forgiare l’indole ribelle che lo caratterizzò tutta la vita. Nel
1908 Gramsci si trasferì a Cagliari dove visse fino al diploma conseguito nel 1911 a pieni voti al Liceo Classico Dettori in piazzetta Savoia, alla Marina, quartiere dove abitò insieme al fratello Gennaro.
Successivamente si trasferì a Torino, dove entrò a far parte delle redazioni de Il Grido del Popolo e L’Avanti.
Fu anche direttore della rivista
L’Ordine Nuovo, per il quale scrisse l’editoriale in cui esortava il popolo a informarsi per non vivere nell’ignoranza:
«Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza.
Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il vostro entusiasmo.
Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la vostra forza».
Nel 1921 fu uno dei principali fondatori del Partito Comunista Italiano, che cinque anni dopo fu bandito dal regime fascista e proseguì le sua attività clandestinamente.
In “missione politica” a Mosca nei primi anni della Rivoluzione leninista conobbe quella che sarebbe diventata sua moglie due anni dopo, nel 1923, e madre dei suoi due figli: la violinista Giulia Schucht.
«Mia carissima, che cosa mi
ANTONIO GRAMSCI
ha salvato dal diventare un cencio inamidato? L’istinto della ribellione», scrisse in una delle sue lettere durante gli anni di prigionia.
Nel 1924 Gramsci fondò L’Unità, il cui titolo fu scelto da lui in nome «dell’unità di tutto il popolo italiano nella lotta contro il fascismo».
Nel frattempo, Mussolini consolidava sempre di più il carattere dittatoriale del suo esecutivo proibendo ogni forma di libera associazione e di parola. Gramsci volle tuttavia essere ottimista sulla durata del regime: «Le forze rivoluzionarie italiane non si lasceranno schiantare, il vostro torbido sogno non riuscirà a realizzarsi», scrisse, forse non immaginando che la fine del fascismo sarebbe passata attraverso un’altra guerra mondiale con milioni di morti.
«Le guerre sono fatte per il commercio, non per la civiltà», scrisse il Gramsci adolescente in un tema di fine anno al liceo.
Se la prese anche con chi, pur essendo contrario al regime, non faceva niente per cambiare il corso degli eventi e lo disse in una celebre dichiarazione:«Odio gli indifferenti anche per ciò che mi dà noia loro piagnisteo di eterni innocenti».
Fu arrestato il 5 ottobre 1926 e rinchiuso dapprima nel carcere romano di Regina Coeli e, l’anno successivo, in quello milanese di San Vittore. Il processo si tenne nel 1928 e e Gramsci venne condannato a vent’anni con l’accusa di cospirazione, istigazione alla guerra civile, apologia di reato e incitamento all’odio di classe.
Nella sua requisitoria, il pm pronunciò una frase divenuta tristemente famosa: «Per vent’anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare».
Ma il cervello del pensatore di Ales non si lasciò mai intimidire e, anzi, dalla prigione pugliese di Turi (dov’era stato trasferito e dove conobbe il futuro presidente Sandro Pertini) cominciò a scrivere i famosi Quaderni dal carcere.
Trentatré quaderni scritti dal 1929 al 1935, in cui Gramsci raccolse le sue riflessioni. Famose furono anche le sue lettere ai famigliari, in particolare alla moglie e alla madre.
A quest’ultima scrisse: «Vorrei consolarti di questo dispiacere che ti ho dato, ma non potevo fare diversamente. La vita è così, molto dura, e i figli qualche volta devono dare dei grandi dolori alle loro mam-
me, se vogliono conservare il loro onore e la loro dignità di uomini».
Intanto, le sue condizioni di salute divennero sempre più precarie: oltre al morbo di Pott e all’arteriosclerosi, soffrì di ipertensione e di gotta.
Fu liberato solo il 21 aprile 1937, quando ormai era gravissimo e morì sei giorni dopo.
A oltre ottant’anni dalla sua scomparsa, il suo pensiero viene tutt’oggi studiato in tutto il mondo. Sulla scorta delle dichiarazioni di Tatiana Schucht («[dopo l’ictus] parlava benissimo»), di quelle di Togliatti («La morte di lui rimane avvolta in un’ombra che la rende inspiegabile... soprattutto per il momento in cui è avvenuta») e di alcuni parenti stretti di Gramsci, delle pratiche omicide del fascismo (Matteotti, Giovanni Amendola, Gobetti, Nello e Carlo Rosselli furono le vittime illustri, assassinate insieme a migliaia di antifascisti meno noti), Ruggero Giacomini, propende per l’avvelenamento del dirigente comunista e non già per una morte di malattia. Giacomini, pp. 266-269 Fu cremato e le sue ceneri riposano nel cimitero acattolico di Roma. wikipedia.org collettiva.it
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27 APRILERICORDIAMO
S’ARTI NOSTRA 24
pietrinaatzori
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