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DONNE E AGRICOLTURA
Mettendosi insieme, invece, si abbattono i costi e si uniscono le forze”.
Attraverso le campagne di comunicazione, la filiera svolge anche una preziosa opera di sensibilizzazione dei consumatori:
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“Spesso si pensa che lo zucchero sia tutto uguale, invece è importante raccontarne la storia, mostrando da dove arriva e come si coltiva, ed investire risorse per avere prodotti all’avanguardia, come lo zucchero grezzo e lo zucchero biologico, che sono nati grazie a Italia Zuccheri –Coprob.
Pur non avendo grandi dimensioni, diamo prova di lavorare bene e ci ritagliamo il nostro spazio nel settore del made in Italy: solo noi produciamo uno zucchero al 100% italiano”.
Innovazione, multifunzionalità e sostenibilità
Infine, un pensiero alle altre donne che stanno avviando la loro attività nell’agricoltura:
“
In questi anni mi è capitato di essere presa come modello da tante ragazze, che hanno voluto intraprendere questa attività contro il comune sentire.
Sono orgogliosa che abbiano preso questa decisione anche dopo aver sentito la mia storia”.
Si sente spesso affermare che il lavoro del futuro si basa su valori e soft skills che appartengono all’universo femminile, come una naturale propensione all’innovazione, alla multifunzionalità e sostenibilità.
“Grazie alla nostra capacità di adattamento e al nostro legame con il territorio possiamo apportare nuove visioni nel mondo imprenditoriale e lavorativo”.
Le donne, inoltre, percepiscono l’azienda e il lavoro non solo come fonte di reddito, ma anche come stile di vita.
“Io coltivo la terra pensando ai miei figli”, conclude Barbara Barone.
“
Non so se loro porteranno avanti questa azienda agricola, ma so che in ogni caso vivranno e cresceranno in questo mondo: questo è il futuro che lasceremo loro”.
Alessandro di Stefano https://startupitalia.eu/terra-chiama-drone-quando-tecnologia-aiuta-dall-alto-agricoltori?infinite a Scalinata Potëmkin fra cinema e architettura” è questo il titolo dell’inedita mostra, a cura di Giovanni Francesco Tuzzolino, Federico Crimi e Paolo De Marco, che verrà ospitata al Museo MAN di Nuoro dal 3 marzo al 25 giugno 2023.
Divenuta celebre in seguito alla fortuna del film di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, La corazzata Potëmkin del 1925, la scalinata di Odessa, rinominata dalla cultura popolare la “Scalinata Potëmkin”, venne progettata quale monumentale cerniera di congiunzione fra il mare e la città negli anni trenta dell’Ottocento, dall’architetto Francesco Carlo Boffo (1796-1867) la cui biografia è rimasta per decenni avvolta nel mistero.
Francesco Carlo Boffo, figura di grande interesse per la sua continua esigenza di sperimentazione e per la diffusione della cultura architettonica italiana, è stato autore di moltispazi pubblici, di architetture rappresentative e della stessa scalinata simbolo del luogo che congiunge la spianata del porto alla Piazza de Richelieu, lungo un asse ideale.
Il MAN approfondirà per la prima volta l’opera dell’architetto, sottolineando l’apporto offerto nella costruzione dell’identità architettonica e urbana di Odessa, insieme all’affascinante vicenda umana e artistica sospesa fra la leggenda dei suoi natali sull’Isola e le reali origini ticinesi.
In esposizione ci saranno disegni forniti eccezionalmente dall’Archivio di Odessa, planimetrie originali in prestito da prestigiosi istituti italiani, fra cui la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze e l’Archivio Storico di Torino, oltre alla ricostruzione dei disegni e di un modello in scala realizzati grazie alla collaborazione con il Polo Territoriale Universitario di Agrigento dell’Università degli Studi di Palermo. La storia di Boffo e della “sua” celebre scalinata non poteva non intrecciare quella di una pellicola che ha reso universalmente noto questo panorama agli occhi del pubblico del Novecento, trasformando un capolavoro dell’architettura dell’Ottocento in un’icona del grande schermo, complice il montaggio serrato, violento e drammatico della famosa sequenza di Ėjzenštejn, scolpita nell’immaginario comune. Dunque architettura e cinema si alternano lungo tutto il percorso della mostra, arricchita
Odessa Steps

La Scalinata Potëmkin fra cinema e architettura a cura di Giovanni Francesco Tuzzolino, Federico Crimi e Paolo De Marco MAN Museo d’Arte
Provincia di Nuoro fino al 25 giugno 2023
Via Sebastiano Satta 27 – 08100 Nuoro tel +39.0784.252110 dalle 10:00 alle 19:00 (Lunedì chiuso) info@museoman.it anche da due dipinti romantici di notevole valore e qualità, una marina in tempesta di Ivan Konstantinovič Ajvazovskij del 1897, concessa dal Museo Nazionale di Varsavia, e un grande porto di Odessa di Rufim Gavrilovitš Sudkovski del 1885, in arrivo dal Kunstimuseum di Tallin, in Estonia. Ha un profondo legame con l’Italia la città portuale ucraina di Odessa, la ‘perla sul Mar Nero’ sempre più nel mirino dell’offensiva russa.
La sua fondazione nel 1794 fu promossa da Josè de Ribas, un napoletano di origine spagnola a cui nel 1994 è stato anche dedicato un monumento.
Fu lui a suggerire a Caterina la Grande, di cui sarebbe stato anche amante, di creare un porto commerciale nella baia naturale davanti a un forte turco.
E fu guardando il cielo di Odessa e non quello di Napoli che nel 1898 Eduardo di Capua scrisse “O’ sole mio”, una delle più celebri canzoni partenopee di tutti i tempi.
Il nome scelto da Ribas si ispirava all’antica colonia greca di Odessos e al viaggio di Ulisse e nell’800 la città divenne una sorta di Hong Kong tricolore, un porto franco con l’italiano come lingua semi-ufficiale.
Arrivarono armatori, commercianti, pasticcieri e artigiani dal Regno delle Due Sicilie e le insegne dei negozi e i nomi delle vie erano in italiano. Nel frattempo lo stile barocco della penisola dominava le nuove costruzioni del porto zarista anche grazie all’architetto sardo Francesco Boffo, autore della celeberrima scalinata Potemkin, quella della rivolta dei marinai del 1905 raccontata dal film di Sergej Ejzentejn e resa immortale in Italia da “Il secondo tragico Fantozzi”.
Francesco Boffo (in russo: Франц Карлович Боффо?, traslitterato: Franc Karlovič Boffo; Orosei (Sardegna), 5 settembre 1796 – Cherson, 10 novembre 1867) è stato un architetto svizzero, che disegnò moltissimi edifici in stile neoclassico italiano nella città di Odessa (Ucraina) tra il 1818 e il 1861, inclusa la famosa scalinata Potëmkin. Boffo nacque nel 1790 in Sardegna nel 1796) e fu apprendista di un architetto di Arasio nel Canton Ticino.
Dopo gli studi presso l’Università degli Studi di Torino, entrò in servizio come architetto della nobile famiglia Potocki in Polonia.
Fu in seguito capo architetto del comune di Odessa tra il 1822 e il 1844 e fu a servizio anche del conte Michail Semënovič Voroncov e di sua moglie Elisabetta Branicka. Boffo fu responsabile della trasformazione di Odessa in un museo a cielo aperto dell’architettura neoclassica, rivaleggiando con San Pietroburgo nel nord dell’Impero russo.
Tra le opere più importanti, si ricordano i palazzi Potocki (attuale Museo d’arte di Odessa), Scidlovskij e Voroncov (palazzo dei Pionieri) a Odessa ed il palazzo Zarnomskij a Beršad’ (1817), famoso per la sua somiglianza con la Casa Bianca.
La scalinata Potëmkin, il progetto più ambizioso di Boffo, venne modellata sulla precedente scalinata Depaldo disegnata da lui nella città di Taganrog nel 1823.
Boffo concepì anche la colonna-memoriale alta 22 metri della battaglia di Cahul.
Costruì anche l’albergo Londonskaja nel 1826-1828 (inizialmente come residenza privata) in stile neorinascimentale italiano.
L’architetto morì nel 1867 a Cherson e venne seppellito nel Primo cimitero cristiano di Odessa (distrutto nel 1930).
Era il 1951 e tutti nel mondo dormivamo il sonno della ragione, rimboccati sotto la coperta nucleare della Guerra Fredda.
Dormiva anche Martha Laird, in una notte di quel 1951.
Una giovane mamma di 26 anni addormentata accanto al marito, ai due figli piccoli, alle sue pecore e ai suoi cavalli nelle colline del Nevada a ovest di Las Vegas, in un villaggio minuscolo chiamato Twin Springs, sorgenti gemelle.
“Ci svegliò un lampo di luce che ci scaldò il viso come se il sole fosse esploso davanti alla finestra” racconta adesso.
“Dopo qualche secondo sentimmo arrivare da lontano il ruggito, come di un terremoto. La casa cominciò a tremare, le finestre si sbriciolarono, la porta volò via come un vecchio giornale. I bambini piangevano. Mio marito e io ci stringemmo uno all’ altra, fino a quando il rombo si calmò e il sole di notte si spense. Non capimmo niente”. Cominceranno a capire più ta rdi, quando il bambino più grande si ammalò di leucemia, il più piccolo di cancro alle ossa, il marito al pancreas e il neonato che Martha porta- va in sè nacque prematuro, di sei mesi, “con due strane appendici nere e contorte che gli penzolavano sotto la pancia, al posto delle gambe”. Visse cinque ore prima di morire anche lui, come i fratelli, come il padre, come i puledri deformi usciti dal ventre delle giumente che galoppavano via con gli occhi da matte, come se avessero paura di quel che avevano partorito. “Allora non sapevamo di essere i ‘ downwinders’ , il popolo-cavia che viveva ‘ sottovento’ rispetto agli esperimenti nucleari nel poligono atomico del Nevada” dice Martha.
Ora, 40 anni dopo, lo sanno. Lo sa anche il governo americano che ha versato pochi giorni or sono a questa donna, e a migliaia di ‘ sottovento’ come lei, 50 mila dollari, 70 milioni a testa, per “risarcimento danni da radiazioni” secondo una legge finanziata con un fondo speciale voluto da Clinton di oltre 200 miliardi di lire annui. Soltanto oggi, dopo anni di querele, cause, processi, inchieste e soprattutto morti orribili su morti orribili, la verità sulla guerra segreta condotta contro il popolo dei “Sottovento” comincia a venire a galla, sciolta dall’ omertà della Guerra Fredda.
Le 104 bombe all’ idrogeno fatte esplodere all’ aria aperta nel deserto del Nevada fra il 1951 e il 1963, quando Kennedy firmò la messa al bando degli esperimenti atmosferici, e poi le oltre 800 detonate nelle caverne sotterranee fino a ieri hanno fatto più vittime di Chernobyl, qui nell’ enorme regione fra l’ Arizona, lo Utah e il Nevada coperta dalla nuvola del ‘ fallout’ nucleare. Il loro numero esatto è ancora un segreto di Stato. Forse 50 mila, come in Vietnam.

Eppure Clinton sta meditando di autorizzare altri quattro test nucleari, entro il 1996.
Come tutto quel riguarda l’ atomo, anche di questo orrore non v’ è segno visibile altro che nelle conseguenze.
Bisogna cercare gli effetti nella famiglia Laird, distrutta dalla ricaduta della bomba ‘Harry’ (ogni esperimento aveva un suo nome, Harry, Bob, Frank, John, per umanizzarlo. Anche quella che distrusse Hiroshima era detta simpaticamente ‘ Fat Boy’ , (ciccione).
L’ impronta di quella guerra interna sta nei 100 mila indiani della nazione Navajo impiegati come minatori d’ uranio per scavare il minerale necessario alle bombe, sterminati dai tu- mori al polmone e morti senza neppure poter dare un nome a ciò che li uccideva: in lingua Navajo non c’ è una parola che esprima il concetto di ‘ radioattività’ .
La chiamavano la “morte che consuma”.
Per anni, il silenzio ufficiale fu assoluto, feroce.
Nel paese di St.George, un villaggio fra i mormoni dello Utah, un medico del posto scoprì a metà degli anni ‘ 60 quantità mostruose, inspiegabili di tumori, 25 volte più della media nazionale... perchè? chiese alle autorità, perchè tanta mortalità fra questa gente sana, in uno degli angoli più belli e vergini d’ America?
Come risposta gli arrivò a casa un agente dello Fbi: lei non è per caso un comunista? Una spia russa?
Il medico lasciò perdere. Non ci sono monumenti, medaglie, eroi di quella guerra segreta di Americani contro altri Americani.
Solo cimiteri. Solo il nulla sinistro e gigantesco di roccia e deserto che fu il ‘ Nevada Test Site’ , il poligono atomico. Di quell’ inferno oggi resta soltanto un cartello - “Warning! Attenzione! State entrando nel poligono nucleare del Nevada!” - a poco più di un’ ora d’ auto da Las Vegas. Non è proibito entrarci, ma molti dicono che sia stupido. La polvere che ricopre la strada è forse ancora ‘ calda’ , radioattiva e lo sarà per 400 anni.
A bassa voce, per non disturbare i turisti, i vecchi del posto ti suggeriscono di viaggiare coi finestrini della macchina ben chiusi, la ventilazione bloccata e le mascherine di carta sulla bocca per non respirare la ‘ morte che consuma’ . Quella stessa morte che uccise anche John Wayne e tutta la gente che lavorava con lui sul set di un western realizzato da queste parti.
Nessuno della troupe di quel film girato accanto al poligono nucleare è scampato. Tutti sono morti qualche tempo dopo aver lavorato qui per 4 settimane, tutti di cancro al polmone.
Dissero che erano le sigarette. Allora non sapevamo quel che sappiamo ora, si difendono le autorità, eravamo sprovveduti, ingenui. Ma non è vero. Sapevano benissimo.
Quando il vento spirava dal poligono in direzione di Las Vegas e di Los Angeles, rimandavano gli esperimenti.
(segue pagina 8)
(segue dalla pagina 7)
Aspettavano che il vento girasse e portasse la polvere verso le Montagne Rocciose, a est, nelle zone poco abitate, verso i disgraziati che vivevano sparsi nei villaggi sottovento, come Martha e i suoi figli. Il Pentagono le chiamava “popolazioni marginali”.
Diciamo pure la parola: cavie. Sapevano, eccome sapevano. Da Las Vegas si vedevano benissimo i ‘ funghi’ stagliarsi contro l’ orizzonte ad appena 100 chilometri.
I giocatori si alzavano dai tavoli del ‘ Blackjack’ , si staccavano dalle slot machines per correre sui tetti a vedere ‘ the mushroom’ , il fungone.
Le scuole distribuivano pasticche di iodio ai bambini per combattere l’ effetto delle radiazioni.
Dicevano ai genitori che erano “vitamine”.
Ai soldati che in 250 mila vennero piazzati a pochi chilometri dal ‘ ground zero’ , il punto della detonazione, veniva data paga doppia, come agli scienziati che lavoravano agli esperimenti.
Dunque il rischio era ben noto. “Li pagavano profumatamente e gli dicevano che era un lavoro patriottico, indispensabile per difendere l’ America dalle bombe dei comunisti” racconta la vedova di un cow-boy del Nevada.
Suo marito aveva il compito di portare vacche vicino alla bomba per studiare gli effetti. Alle bestie usciva una schiuma purpurea dalle narici, gli occhi si gonfiavano fino a cadere dalle orbite.
Qualche volta anche ai vaccari. E le vedove zitte. “Non una parola con nessuno, mi disse mio marito vomitando abbracciato alla tazza del cesso, dopo un esperimento”. Morì sei mesi dopo.
Lungo la ‘ Frontiera della Bomba’ oggi non c’ è più niente di vivo.
Deserto doppio. Vedo, dal finestrino ben chiuso della mia macchina, la carcassa di un vecchio carro armato bianco, calcinato dall’ esplosione.
Rottami di autobus, macchine, tronconi sbriciolati di ponti in cemento armato, pezzi di rotaia divelti, usati per misurare l’ effetto-bomba, tutti coperti da quella polvere candida e finissima che viaggiava per centinaia, per migliaia di chilometri.
A volte ricadeva fitta come neve sui villaggi e i bambini correvano fuori a tuffarvisi dentro, ridendo e respirando. La notte vomitavano, la matti-
TUTTO TREMENDAMENTE VERO. IL DELIRIO UMANO.
na apparivano le prime piaghe e i capelli cominciavano a cadere 48 ore dopo.
Le madri pregavano per loro. Prima perchè guarissero. Poi perchè morissero in fretta. La gente si fidava. La propaganda funzionava e la ‘ Bomba’ non dispiaceva affatto. Quel fungo enorme contro il cielo terso del West era una bandiera, un segno di trionfo. Era l’ America.
Bomba Atomica Fa Strage
Miss Nevada 1953 vinse il titolo indossando un costumino da bagno fatto di bambagia a forma di fungo atomico. Parve una gran trovata. Il due pezzi rivelatore non si chiamava forse ‘ Bikini’ , l’ atollo della prima Bomba H? Nel deserto del Nevada, spuntavano gli ‘ Atomic Bar’ , ‘ Atomic Restaurant’ , ‘ Atomic Casinò’ .

Le prostitute di Reno offrivano ai clienti ‘ The Atomic Fuck’ , la scopata atomica.
Le famiglie andavano a fare i pic-nic sulle colline per guardare il ‘ sole a mezzanotte’ attraverso gli occhiali affumicati.
L’ esercito distribuiva e proiettava nei paesi sottovento del Nevada, dell’ Arizona, dello Utah un filmino rassicurante intitolato “Il Cappellano e la Bomba”.
Anno: 1956. Recitava il cappellano: “Domani assisterai in prima linea a un esperimento nucleare, hai paura?”.
Il soldato: “Un po’ sì, Padre”. “Non averne, figliolo. Non c’ è alcun pericolo. Vedrai un grande lampo, sentirai il calore sul viso come quando prendi il sole al mare, avvertirai la terra tremare, il vento alzarsi.
E poi vedrai un fungo di colori meravigliosi volare verso i cieli, verso il Signore. Sarà bellissimo”. “Sì padre, ora sono tranquillo”.
Vedo nel deserto resti di enormi gabbie, come grandi voliere sparse qua e là. Erano le gabbie per gli animali collocate a varie distanze dal “ground zero”.
I più vicini venivano polverizzati. I più sfortunati, quelli più lontani, vivevano un giorno o due. Reason Wareheim, un ex Marine di servizio nel Poligono che oggi ha 67 anni ed è sopravvissuto a un tumore al polmone, ricorda ancora le grida e gli ululati strazianti di quelle bestie, lasciate a morire sotto il cielo del deserto. Sopravvivevano solo scorpioni e scarafaggi. Bisognava farlo. C’ era la Guerra Fredda. Stalin e Kruscev. Budapest e
Cuba. Il giorno dell’ Olocausto atomico sembrava inevitabile, imminente. Gli esperti parlavano di “deterrenza” nucleare fra Usa e Urss per garantire la pace.
Forse milioni di vite furono risparmiate. Certamente migliaia di vite furono consumate in silenzio, qui nel Selvaggio West della Bomba coperto dalla polvere portata dal vento del Nevada che lasciava in bocca “un sapore metallico, come leccare la lama di un coltello”.
E il ‘ fallout’ radioattivo arrivava sino a New York, dicono le carte segrete. Racconta ancora Martha Laird: “Poco prima di morire mio figlio alzò la testa dal letto dove stava tutto avvolto in un guscio di gommapiuma perchè le sue ossa erano ormai diventate così fragili per il tumore che si spezzavano solo a muoversi. “Mugolava come un cane... mamma sento il vento arrivare... mamma ferma il vento... Credevo che delirasse”. Martha ha messo in cornice l’ assegno del governo. Giura che non incasserà mai quei soldi portati dal vento del Nevada, come la morte senza nome che consumò tutti i suoi figli.”
Vittorio Zuccon Repubblica
Ricordare e raccontare per impedire che il Passato torni ad essere il Presente.
Il 25 aprile è un appuntamento fondamentale per la storia della nostra Repubblica, che affonda le sue radici e la sua Costituzione sulla Resistenza partigiana che ha dato un contributo fondamentale al processo di Liberazione del paese dall’occupazione nazista
Una ricorrenza che assume un’importanza e un significato ancora maggiori, se si considerano i risvolti bellici che hanno colpito e che impegnano l’Ucraina da oltre un anno a questa parte.
Ricordare la Resistenza, raccontarla e difenderla è quindi una necessità e una missione.
In occasione dell’incontro “Gemellaggio Cagliari-Spilamberto in memoria del partigiano Nino Garau”, è stato il presidente del Consiglio comunale Edoardo Tocco ad accogliere Umberto Costantini, sindaco del Comune nei pressi di Modena, nel cuore delle Terre di Castelli. Ospitato nel pomeriggio di sabato 22 aprile al Palazzo Civico di via Roma 145, l’incontro ha visto la partecipazione di Dino Garau e Francesca Nurra, rispettivamente figlio e nipote del partigiano Nino.
Tanti anche i docenti, le studentesse e gli studenti delle scuole su- periori di Spilamberto, del Liceo classico “Dettori” e del Convitto Nazionale “Vittorio Emanuele II” di Cagliari.
“Antonio Garau nacque a Cagliari il 12 dicembre 1923, fratello secondogenito di Lina, la maggiore, e di Gianna.

Il padre, Raimondo, era un facoltoso proprietario di immobili, la madre, di origini modenesi, si chiamava Iolanda Gibertini.
La passione giovanile per il volo unita a frequentazioni familiari nel mondo dell’aviazione lo portarono a compiere la scelta di accedere all’accademia dell’Aeronautica militare di Caserta (corso «Zodiaco» 1941, trasferito a Forlì nell’agosto del ’43 a seguito degli sbarchi delle forze alleate nel Sud Italia)”.
“Dopo l’8 settembre, e un breve periodo di sbandamento, raggiunse i parenti materni nella pianura modenese e qui, nemmeno ventenne, abbracciò la causa resistenziale costituendo e guidando la brigata partigiana “Aldo Casalgrandi” con il nome di battaglia “Geppe”.
Fu catturato dai tedeschi, torturato e imprigionato in un carcere a Verona da dove nonostante fosse ferito, riuscì a fuggire con l’aiuto di un soldato sardo, Spartaco Demuro.
Il suo ruolo nella lotta per la liberazione del quadrante sud-orien- tale dell’attuale provincia di Modena, precisamente del territorio di Vignola, Marano e Savignano sul Panaro, Castelvetro, Castelnuovo Rangone, e del paese di Spilamberto tra il 22 e il 23 aprile 1945, fu determinante.
Dopo la guerra e il ritorno a Cagliari la falsa accusa dell’omicidio di un fascista gli costerà qualche giorno di detenzione”.
“Laureatosi in giurisprudenza, il 1° ottobre del 1949 fu assunto in qualità di funzionario dal Consiglio regionale della Sardegna.
L’11 ottobre 1952 sposò Luciana Magistro con la quale ebbe tre figli: Dino, Emanuela e Stefania. Garau è stato un apprezzato dirigente pubblico, ha ricoperto l’incarico di capo Ufficio resoconti dell’istituzione consiliare sarda sino a diventarne Segretario generale dal 1960 al 1976, anno di conseguimento della pensione.
Ha collaborato alla compilazione del “Rapporto Giannini” per la riforma dell’amministrazione statale ed è stato componente effettivo del Consiglio superiore della Pubblica Amministrazione sino al 1978.
Nel 1969 gli è stata conferita tardivamente la medaglia di bronzo al valore militare”.
“Insignito dal presidente del Coni Giulio Onesti della Stella d’argento al Merito Sportivo, ha inoltre assunto ruoli dirigenziali nella Federazione italiana pallacanestro.
Ci sono voluti sessant’anni perché Antonio ‘Nino’ Garau, cagliaritano, classe 1923, decidesse di condividere i suoi ricordi di partigiano.
Sessant’anni in cui ha dovuto custodire pensieri dolorosissimi e allo stesso tempo scontrarsi con una memoria della Resistenza spesso superficiale, frettolosa, imprecisa. Oggi “La resistenza di Geppe. Diario di un giovane sardo che scelse di combattere per la libertà e la democrazia” è diventato un libro pubblicato dalla casa editrice Soter a cura di Walter Falgio grazie all’impegno di Issasco, l’Istituto sardo per la storia dell’antifascismo e della società contemporanea.
Nel rispetto delle sue volontà, le pagine del diario sono state pubblicate dopo la sua morte, avvenuta il 12 luglio 2020: il motivo di questa scelta è spiegato dallo stesso Garau:
“
Non vorrei che i miei comportamenti e le mie azioni durante la Resistenza fossero risucchiati da quella grossa marea di scritti avvenuta dopo la Liberazione”. “Posso dire di aver conosciuto l’intera società umana con i suoi pregi e i suoi difetti – ha scritto Nino tra le ultime righe del suo diario. – Ma ciò che più conta per me è aver vissuto la guerra in prima linea, e aver vissuto la pace. Oggi posso dire che nella guerra anche i vincitori non vincono, perché l’uccisione di un vincitore non essere ripagata dalla vittoria di una nazione. Non possono essere ripagate le famiglie che hanno perso figli, i poveri cagliaritani che hanno subito i bombardamenti e perso le persone care (centinaia di morti). La guerra non la vince nessuno. La guerra è morte sia per i vinti che per i vincitori. La miglior ragione è la pace”.
Nel 2005, in occasione del 60° anniversario della Liberazione, è stato riconosciuto cittadino onorario del Comune di Spilamberto dove ha ricevuto le chiavi della città”.
“Il 17 marzo 2016 la prefetta di Cagliari Giuliana Perrotta gli ha consegnato la medaglia della Liberazione conferita dal Ministro della Difesa a quanti hanno partecipato alla Resistenza italiana contro il nazifascismo.
Antonio Garau, Nino per gli amici, è mancato a Cagliari a 96 anni, il 12 luglio 2020”.
Tratto da “Nino Garau, partigiano e testimone” di Walter Lagio Istituto sardo per la storia dell’antifascismo e della società contemporanea ISSASCO.https://www. gazzettadimodena.it/modena/cronaca/2019/11/21/ news/libero-spilamberto-dai-nazifascisti-al-senato-il-film-su-nino-geppe-garau-1.37943692 ermania, alba del nuovo secolo.
Un gruppo di giovani studenti di architettura decide di rompere con i valori del passato e di dare vita ad un movimento teso a creare un Brücke (ponte) verso un nuovo modo di esprimersi, fatto di una pittura fortemente espressiva, di colori violenti, di linee spigolose e di temi che raccontano il mondo contemporaneo: scene di realtà metropolitana, nudi, ballerine, scene circensi. Tra i fondatori della Die Brücke vi sono Ernst Ludwig Kirchner (1880-1938), Eric Heckel (1883-1970) e Karl Schmidt-Rotluff (1884-1976), ai quali si aggiunsero poi Max Pechstein (1881-1955), Emil Nolde (1867-1956) e Otto Müller (1874-1930).
Nella primavera del 1906, Kirchner scrive un manifesto in caratteri gotici, stampato in xilografia, in cui invita gli artisti a cercare la libertà di lavoro e di vita contro le forze conservatrici.
Quest’ultime sono rappresentate dalle Accademie tedesche che si propongono come centri di educazione autoritaria e convenzionale, in cui all’artista sono assegnati compiti decorativi.
Uno di loro, Heckel, suggerisce il nome per il gruppo, ispirandosi ad un passo di “Così passò Zarathustra” di Nietzsche, scritto filosofico che incita proprio alla ribellione contro la cultura e la morale dominanti dove c’è scritto che “l’uomo è una corda tesa tra la bestia e l’uomo nuovo, una corda che attraversa l’abisso. La grandezza dell’uomo sta nel suo essere un ponte, non un fine“.
Il pensiero di Nietzsche (ma anche di Bergson) esprime un dissenso contro una civiltà che reprime il flusso energetico e che ragiona per categorie. Convinti che l’arte potesse giocare un ruolo importante nel ricondurre l’uomo moderno a valori incorrotti, Kirchner e gli altri stabiliscono il loro quartier generale in un ex negozio di calzolaio e li, tra morfina, nottate trascorse in giro per la città e incontri sessuali disinibiti, danno vita ad alcune delle loro opere più importanti.
Visitano musei, si innamorano delle sezioni dedicate all’etnografia, si dedicano alla xilografia, pubblicano riviste con le quali Die Brücke cerca di parlare al grande pubblico. Le loro opere, così diverse da quelle dei colleghi francesi, si