Il Natale IN FONDO AL TUNNEL



è più di un fiume carsico della società e dell’economia varesina che spinge per uscire alla luce ed essere raccontato. Fenomeni che, però, al momento sfuggono ad un’analisi complessiva e che, forse proprio per questo, faticano a diventare un modello generale di cui, invece, abbiamo bisogno per risalire le graduatorie di crescita e dare nuove prospettive al nostro futuro.
Uno di questi campi sfuggevoli è quello dell’innovazione.
Quanto innova Varese? È questa la domanda di fondo di questo numero di Varesefocus, le cui pagine di apertura vengono dedicate ancora una volta al Piano Strategico #Varese2050 lanciato da Confindustria Varese per contribuire al riposizionamento strategico del territorio. È bene ricordare le cinque linee di azione che l’associazione datoriale, editrice di questa rivista, propone a tutti i propri stakeholder politici, economici e sociali per garantire al Varesotto decenni di crescita e creazione di benessere. Il primo: la costruzione di una fabbrica del sapere e saper fare, da concretizzare attraverso la nascita a Castellanza, a fianco della LIUC – Università Cattaneo, di Mill – Manufacturing, Innovation, Learning, Logistics, un acceleratore
di imprenditorialità di cui abbiamo ampiamente parlato nel numero scorso. Secondo: il posizionamento dei cluster industriali al centro delle politiche economiche territoriali. Terzo: la creazione di un ecosistema dell’innovazione di cui trattiamo nelle pagine che vi apprestate a sfogliare. Quarto: fare leva sul settore della logistica e su Malpensa quali principali driver di sviluppo. Quinto: trasformare Varese in una “wellness destination”, sfruttando natura, cultura e vocazione sportiva.
Tra queste cinque linee di azione, in questo nuovo numero, ci concentriamo sulla terza: la creazione di un ecosistema dell’innovazione.
Partiamo da alcuni dati che ci restituiscono l’immagine di una Varese che innova meno di quanto potrebbe e che poco protegge con i brevetti le proprie capacità innovative.
Intendiamoci, questo non vuol dire che per le imprese varesine l’innovazione sia un’attività totalmente sconosciuta. Il fatto è che siamo protagonisti di un’innovazione diffusa che è solo in parte all’altezza delle potenzialità del nostro sistema economico e che sfugge alle statistiche e alle banche dati. Non una cosa da poco in ottica di capacità di attrazione di investimenti, anche stranieri, che, sulla base delle classifiche certificate, spesso impostano le proprie decisioni. Denunciato il dato serve, però,
parallelamente anche un racconto che vada oltre le graduatorie. La narrazione di un territorio è fatta di statistiche, ma anche di storie. Scopriamo così che Varese riesce a esprimere capacità imprenditoriali in grado di trasformare una startup in una “unicorno”, una società dal valore di 1 miliardo di dollari. Siamo in grado di creare nuove imprese in settori tra i più disparati, esprimendo primati di competenze su aree strategiche come quelle della cybersecurity, della sostenibilità e della medicina. Abbiamo primati tecnologici sul fronte della ricerca e soccorso (Leonardo Divisione Elicotteri docet), ma siamo anche una capitale internazionale della formazione per i medici di montagna. Le nostre Università sono in prima linea nell’innovazione della didattica, e nella creazione di app che riescono anche a far “suonare l’arte”. Singole storie concrete che non si riconoscono tra loro e che non riusciamo, però, a ricondurre ad un sistema. Anzi, ad un ecosistema. Dell’innovazione, per l’appunto. È questo il vero punto debole su cui Varese deve intervenire: fare delle proprie singole eccellenze un metodo, un modello. Il Piano Strategico #Varese2050 punta proprio a questo.
Creiamo progetti di design unici e personalizzati, realizzando uffici, sale riunioni e abitazioni, sempre ponendo lʼattenzione sui dettagli. Lʼelaborazione degli spazi, la progettazione illuminotecnica, la scelta dei materiali e dellʼarredamento, tutto viene ideato e realizzato secondo le esigenze del cliente.
Il nostro obiettivo è progettare e creare uno spazio lavorativo che sia professionale, armonico e sereno.
Moveco, società di progettazione e produzione di sistemi oleodinamici, alla fine del 2021 sceglie AG Forniture come partner per la progettazione e la realizzazione della nuova palazzina uffici. Professionalità, innovazione nelle proposte ed estrema disponibilità, portano a settembre 2022 ad un risultato più che ottimale nella sua interezza.
Grande attenzione viene sempre data ai progetti illuminanti: vengono impiegati corpi illuminanti in quantità e disposizione per ottenere ambienti performanti e confortevoli
Presidente : Roberto Grassi
Direttore editoriale: Silvia Pagani
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L’ecosistema dell’innovazione di #VARESE2050 Come e quanto si innova a Varese La strada per un rinascimento imprenditoriale La startup che ridà vita ai cellulari Nozomi Networks la (quasi) unicorno varesina Diverse ma uguali. Storie di nuove imprese
Progetto grafico e impaginazione: Paolo Marchetti
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Il numero è stato chiuso il 24
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Il cuore italiano di Sanofi è a Origgio La sostenibilità di Comerio Ercole Due aziende, una sola storia Da novant’anni al volante Secondo Mona e l’impegno per le “People”
FORMAZIONE
Come nascono gli esperti delle lavorazioni meccaniche
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SCIENZA & TECNOLOGIA Cybersecurity, un mondo sottosopra L’algoritmo che fa suonare le opere d’arte
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Varese è alla ricerca di un nuovo fermento imprenditoriale. Il territorio sta perdendo alcune posizioni nelle classifiche della competitività, ma risalire la china è possibile. Il terreno è fertile, come dimostrano sia i dati sia le numerose storie di imprese giovani che stanno nascendo su diversi fronti. Quello tecnologico e informatico, ma anche in settori più tradizionali e strettamente manifatturieri. È anche da queste esperienze che si può ripartire per costruire un ecosistema dell’innovazione in grado di favorire la creazione di aziende, un più diffuso ricorso alla brevettazione (oggi poco utilizzata dal sistema produttivo locale) e attrarre investitori e capitali a supporto. Per riuscirci servono nuovi talenti, puntare ad essere una provincia più per giovani e un punto di riferimento che faccia da cabina di regia. La proposta del Piano Strategico #Varese2050 è quella di puntare su una fabbrica del sapere e del saper fare: Mill - Manufacturing, Innovation, Learning, Logistics
Le perdite di posizione nelle classifiche nazionali sul fermento imprenditoriale impongono al territorio varesino una priorità: ridisegnare l’ambiente economico e sociale per tornare ad essere una provincia attrattiva per talenti, startup, imprese e investitori. Questo uno dei principali obiettivi del Piano Strategico per la competitività del territorio lanciato da Confindustria Varese e realizzato insieme al think tank Strategique
FernandoFonte: elaborazione Strategique
innovazione, driver fondamentale della competitività di aziende e territori, oggi è sempre meno frutto di processi di ricerca e sviluppo ad appannaggio esclusivo delle grandi imprese e sempre più il risultato di un’attività imprenditoriale diffusa che nasce da processi di contaminazione tra aziende, imprenditori, manager, consulenti, idee, investimenti e comunità locale. Il risultato, cioè, della capacità di un territorio di lavorare sul proprio grado di dinamismo imprenditoriale, supportando la nascita e la crescita di nuove imprese, startup e Pmi innovative, incoraggiando l’imprenditorialità ed accrescendo la valorizzazione e l’attrazione di talenti, risorse e capitali attraverso efficaci politiche e strategie di investimento. Quale misura di tale dinamismo imprenditoriale, nella formulazione del Piano Strategico #Varese2050 per la competitività del territorio di Confindustria Varese, abbiamo guardato all’Indice del Fermento Imprenditoriale. L’indice viene elaborato ogni anno dal nostro think tank Strategique e diffuso per il tramite del progetto Italia Compete
sulla base di più di 25 indicatori organizzati in 5 dimensioni: sviluppo delle competenze, innovazione, tessuto industriale, performance imprenditoriali e sviluppo finanziario. Le performance della provincia di Varese nella classifica delle 50 province d’Italia più “in fermento” sono una dimostrazione del progressivo indebolimento competitivo vissuto dal territorio negli ultimi anni. Nel 2022, Varese ha perso 4 posizioni rispetto all’edizione precedente scendendo in 48° posizione, tra Pavia e Piacenza. Complice, nonostante il buon posizionamento in classifica rispetto alle performance del tessuto industriale (10°), un rallentamento generale in tutte le altre dimensioni ma soprattutto una significativa perdita di posizioni in quelle legate alle competenze (-2), all’innovazione (-5) e soprattutto allo sviluppo finanziario (-11).
Il tessuto industriale della provincia di Varese si compone di Pmi fortemente specializzate e radicate nel territorio. Le principali specializzazioni locali, seppur in modo non uniforme, dimostrano complessivamente buone performance negli ultimi tre anni
(+4), facendola entrare di diritto nella top 10. Guardando alle imprese “highgrowth”, ossia quelle che sono state in grado di accrescere i propri ricavi, anno su anno tra il 2017 e il 2020, di almeno il 10%, la provincia si colloca nella prima metà della classifica (30°), ma solo se consideriamo la loro densità (high-growth vs totale imprese) perché se guardiamo, invece, al tasso medio di crescita del fatturato, Varese risulta oggi 85°.
Per quanto riguarda le performance imprenditoriali, nonostante la riconquista di 14 posizioni nell’ultimo triennio, la provincia di Varese resta 61° nella classifica italiana. Seppur guadagnando qualche posizione in termini di produttività e di valore delle retribuzioni, il territorio ha, infatti, faticato ad accelerare le proprie performance in termini di creazione di nuove imprese, posti di lavoro e valore aggiunto. È, in particolare, la partecipazione al mondo del lavoro che rivela le prime forti preoccupazioni. Nonostante un tasso di disoccupazione in linea con la media regionale e di gran lunga inferiore a quella nazionale, si segnalano alcune aree di forte criticità legate alla disoccupazione giovanile (oggi al 17%), in maggiore difficoltà
Fonte: elaborazione Strategique
rispetto al resto della regione ed in crescita allarmante negli ultimi dieci anni ed all’incidenza dei Neet, che nel 2020 supera il 18%. Nella dimensione dell’innovazione, l’Indice guarda alla capacità innovativa delle imprese leggendola non solo come capacità brevettuale ma anche come capacità del territorio di orientarsi al futuro attraverso la nascita di startup. In termini di capacità brevettuale, Varese perde ben 40 posizioni negli ultimi vent’anni anni arrivando a collocarsi in 83° posizione nel 2022. Guardando alle startup innovative, Varese si poni in 33° posizione per numero assoluto (102 imprese) ma solo 78° in termini relativi (startup vs numero imprese). Simile il quadro delineato dalle Pmi innovative che in provincia sono ad oggi 11; numero che la rende 82° se rapportato al totale delle imprese presenti sul territorio. In termini di sviluppo finanziario, la provincia di Varese dimostra una evidente difficoltà nel rafforzare la capacità delle imprese di attrarre capitali così come di ricorrere alle forme di finanziamento, tradizionali ed innovative, disponibili. Dagli ultimi dati Istat (2019), risulta, infatti, come, a Varese, la percentuale di imprese che riescono ad intercettare
bandi europei e fondi pubblici si aggiri intorno al 2,5%, a fronte di una media italiana del 3,6%. Le performance più allarmanti sono da riscontrarsi nella ancora troppo contenuta capacità di attrarre capitali per le nuove attività imprenditoriali. Il numero di earlystage deals chiusi negli ultimi cinque anni (2015-2020) è, infatti, fermo a 1.
Nell’ambito dello sviluppo delle competenze, l’Indice guarda sia ai programmi educativi legati ad ambienti scolastici ed accademici, sia a quegli spazi (quali incubatori, acceleratori, coworking e community) in grado di stimolare la contaminazione tra conoscenze imprenditoriali trasversali. In tal senso nel 2022 Varese scende in 50° posizione (-2). Ad aggravare la sua condizione una concentrazione di ambienti dedicati alla nuova imprenditorialità che si rivela ben al di sotto delle potenzialità di sviluppo di un tessuto industriale così denso ed operativo e con ben due Università (LIUC - Università Cattaneo e Università degli Studi dell’Insubria). Sorprende come la provincia risulti al di sotto della media sia lombarda sia italiana per numero di giovani con un titolo accademico o terziario (27,5% della popolazione rispetto al 28,3%
italiano ed il 33,2% lombardo).
Le evidenze emerse dalle analisi appena descritte hanno portato al centro del nuovo posizionamento strategico di Varese l’urgenza di ridisegnare il territorio come una provincia attrattiva per talenti, startup, imprese e investitori. Un nuovo posizionamento che, come già annunciato dal Presidente di Confindustria Varese, Roberto Grassi, passerà per la realizzazione di Mill –Manufacturing, Innovation, Learning, Logistics, un luogo di aggregazione del sapere e del saper fare, uno “onestop-shop” di competenze e servizi per talenti, startup, imprese e cluster. Ciò consentirà non solo di disporre di una regia strategica unitaria per la competitività del territorio, ma anche di dotarlo di quei servizi necessari per talenti, startup, imprese e cluster, come programmi di incubazione e accelerazione, fablab e tecnologie per la prototipazione e la sperimentazione.
Parallelamente ed in modo sinergico, Confindustria Varese, insieme ai propri stakeholder, lavorerà alla costruzione di un ecosistema dell’innovazione per la provincia di Varese, dinamico, innovativo ed attrattivo. Un ecosistema che possa favorire la creazione di startup attorno
alle specializzazioni di territorio, promuovendo una diffusa politica della brevettazione e attraendo investitori e capitali a supporto. Sarà fondamentale concentrarsi a tal fine sullo sviluppo di un ambiente imprenditoriale orientato alla innovazione diffusa e alle startup, favorendo lo sviluppo di iniziative di formazione, incubazione e accelerazione di nuove imprese sul territorio, l’attrazione e lo sviluppo di investitori e l’accompagnamento alla brevettazione. Questa linea insiste sulla rilevanza di disporre di un luogo del sapere e del saper fare che non solo orienti ricerca, formazione e servizi sulla attuale community di imprese del territorio, ma permetta anche l’arricchimento e l’allargamento della stessa con lo sviluppo di nuove imprese e l’iniezione di una vera cultura dell’innovazione e della sperimentazione. In ultima istanza, ciò consentirà alla provincia di rendersi nel complesso più attrattiva creando un ecosistema capace di “trattenere” ed attrarre giovani, individui e talenti da Varese, e non solo, a supporto delle startup e delle aziende di territorio, valorizzando quanto già avviato da Confindustria Varese con il progetto “People –L’impresa di crescere insieme”, per una maggiore diffusione nel sistema
Fonte: elaborazione Strategique
produttivo locale della cultura del welfare aziendale e di progetti a sostegno della genitorialità.
Per poter dare concretezza a questa linea strategica, il Piano realizzato da Confindustria Varese insieme a Strategique, indica le modalità, gli strumenti, le azioni e le risorse necessarie per:
• sviluppare un ambiente imprenditoriale favorevole alle startup con particolare attenzione a quelle che nascono attorno alle specializzazioni di territorio e che maggiormente possono contribuire all’aumento della competitività e alla creazione di prosperità locale (alto valore aggiunto), favorendo:
• la creazione di percorsi di formazione imprenditoriale già a partire dagli studi superiori;
• l’introduzione di progetti finalizzati a trattenere talenti sul territorio, attratti oggi da altri ecosistemi;
• favorire l’apertura di una diffusa presenza di fablab, incubatori e acceleratori di impresa sul territorio;
• disegnare una politica di promozione, incentivazione e
supporto alla brevettazione dei processi di innovazione sul territorio, soprattutto tra le micro, piccole e medie imprese locali, attraverso programmi di formazione e informazione sul tema e lo sviluppo di pacchetti di servizio dedicati che accompagnino le imprese del territorio lungo tutto il ciclo della innovazione di prodotti e processi fino alla loro brevettazione e sfruttamento commerciale; • disegnare una politica di attrazione di giovani, individui e talenti a supporto delle startup e delle imprese della provincia attraverso la creazione di maggiori e migliori opportunità di lavoro, l’offerta di soluzioni abitative agevolate per i giovani e la sensibilizzazione di giovani ed imprese sul tema della genitorialità; • disegnare una politica di attrazione dei capitali di finanza innovativa (private equity, venture capital, crowdfunding) a supporto delle startup del territorio sia favorendo lo sviluppo e l’attrazione di intermediari finanziari dedicati sia aprendo canali privilegiati con operatori già esistenti sulle principali piazze nazionali e internazionali.
Le buone potenzialità in termini di capacità innovativa da parte delle imprese. La scarsa propensione brevettuale, soprattutto delle Pmi. Il basso livello sul fronte del numero di startup. È questa l’immagine del tessuto produttivo all’ombra delle Prealpi, vista con la lente dell’osservatorio dell’Uff icio Studi della Confindustria varesina. Una fotografia che pone al territorio la necessità di investire in progetti e iniziative di sistema. Il terreno è fertile, ma occorre fare presto e partire dalla costruzione di una cultura dell’innovazione
Ogni impresa che innova, innova a modo suo. Il tema di come si costruisca la catena del valore innovativo è un argomento delicato e sensibile. Perché va a toccare il Dna competitivo di ogni singola azienda. Innovazione è, allo stesso tempo, il principio fondante della capacità competitiva aziendale e l’assicurazione per poter garantire un futuro alla propria impresa. Il processo con cui si arriva ad innovare è, soprattutto nelle Pmi, un processo molto personale che può variare da settore a settore, ma anche in base alla cultura aziendale di ciascuno. La vera questione è come si debba misurare il processo innovativo. Gli studiosi della materia si dividono in due grandi fazioni: c’è chi privilegia la misurazione
dell’output innovativo (tipicamente i brevetti) e chi invece privilegia quella dell’input innovativo reale (come, ad esempio, investimenti in ricerca e sviluppo o numero ricercatori) e potenziale (numero addetti nei settori high tech).
Sembra una questione accademica, ma non lo è. Nella distanza tra i risultati, non sempre garantiti, della ricerca e gli sforzi profusi in essa si colloca il “profilo comportamentale di chi ricerca”. A Varese, per esempio, il divario è grande. Siamo la 83esima provincia a livello nazionale per numero di brevetti, marchi e disegni industriali registrati ogni 10mila addetti, secondo il criterio del domicilio elettivo del richiedente (come dimostra il grafico in questa pagina elaborato da Strategique), ma il nostro potenziale è ben al di sopra
se si calcola il numero degli addetti operanti in imprese manifatturiere ad alto contenuto tecnologico, che ci vede come quarta provincia in senso assoluto in Italia dopo Milano, Roma, Torino e appena sopra MonzaBrianza. E la nostra provincia è anche posizionata nel quintile più elevato in termini di spesa in attività di ricerca e sviluppo intra-muros (ossia svolte dalle imprese con proprio personale e proprie attrezzature) in percentuale del totale nazionale (come mostra la cartina dell’Italia proposta in queste pagine).
Ricerchiamo poco? Non sembra. Brevettiamo poco? Sicuramente. La vera domanda è: perché?
Partiamo da un’importante ed elementare constatazione: non tutti arrivano a brevettare. E le cause possono essere molteplici. Da quella
più elementare: “Non brevetto perché la mia ricerca non ha portato a risultati abbastanza solidi da prevedere una commercializzazione con buone prospettive di mercato”. A quelle più “complesse”: “Non brevetto perché non mi fido a fornire una descrizione analitica della mia idea che permetta a qualcuno di trarne ispirazione per riproporla con poche variazioni” oppure “la mia innovazione è relativa ad un software”. Quindi, non sempre si arriva al brevetto. Si può decidere di fare ricerca, ma di non tutelare i risultati.
Nel mezzo ci stanno i comportamenti dettati dalle specificità del singolo business e dal livello di appartenenza alla filiera produttiva, su cui influiscono sia la psicologia dell’imprenditore in termini di maggior o minor apertura, ma anche e soprattutto il profilo competitivo specifico del comparto.
A Varese c’è una larga fascia di imprese manifatturiere che lavorano nella “pancia dell’economia”, ossia nella fascia dei prodotti intermedi che non ha un immediato sbocco sul mercato finale con i risultati della propria produzione. Si stima che il 41,6% degli addetti dell’industria in
MARCHI E BREVETTINumero di brevetti, marchi e disegni industriali registrati nella provincia di Varese e riportati secondo il criterio del ‘domicilio elettivo del richiedente’. Confronto su venti anni con le altre province della regione Lombardia Fonte: elaborazione Strategique su dati UIBM per Piano Strategico #Varese 2050
senso stretto sia occupata in imprese che fanno prodotti intermedi. Sono molte le aziende di trasformazione e di lavorazione che operano su specifiche del cliente. Tante di loro innovano, ma lo fanno sul processo oppure sul prodotto, apportando miglioramenti a favore del proprio cliente. È tipico del nostro modo di produrre ed è anche per questo che i fornitori italiani sono celebri nel mondo avendo mantenuto una “capacità artigianale” di migliorare le cose che fanno e di agire sui piccoli lotti, sui campionari, sui prototipi aggiungendo creatività e personalizzazione. Difficile, però, arrivare a brevettare in queste condizioni. Non tutti se la sentono. Non sempre è necessario.
Se poi si analizzano, come ha fatto Strategique per il Piano Strategico #Varese2050 di Confindustria Varese, i brevetti depositati e registrati dalle aziende in provincia di Varese negli ultimi vent’anni, emerge che più del 31% del totale dei titoli industriali sia ad appannaggio di tre grandi imprese operanti nel settore dell’aeronautica, della grande impiantistica e delle appliance. Grande è quindi la sfida nel diffondere l’abitudine alla tutela della proprietà industriale
In termini assoluti Varese è 33esima in Italia per numero di startup innovative con poco più di 100 unità (tante quante Avellino).
In termini relativi, ossia di startup innovative per numero di imprese, invece, si scende al 78esimo posto
sul nostro territorio. Molto c’è da fare per far sì che la ricerca e soprattutto l’innovazione nascosta trovino un adeguato riconoscimento. Che i percorsi di rinnovamento siano facilitati e che infine si possa valorizzare lo sforzo quotidiano di migliaia di Pmi. L’analisi del come si innova a Varese non si può tuttavia limitare all’innovazione all’interno delle imprese già costituite senza considerare le startup e le Pmi innovative. È questo un canale aggiuntivo, che crea nuova imprenditorialità e che è sempre più
Numero di startup innovative in provincia di Varese per sezione di attività (% sul totale)
Fonte: elaborazione Ufficio Studi Confindustria Varese su dati Infocamere, estrazione al 26 settembre 2022
diffuso in tempi di open innovation. In termini assoluti Varese è 33esima in Italia per numero di startup innovative con poco più di 100 unità (tante quante Avellino). In termini relativi, ossia di startup innovative per numero di imprese, invece, si scende al 78esimo posto.
Anche in questo caso, un risultato
poco soddisfacente che stimola una riflessione. Innanzitutto, è interessante indagare quali tipologie di startup innovative generiamo. A settembre del 2022 circa il 45% apparteneva al mondo della produzione di software, della consulenza informatica e delle app o dei servizi di informazione e altri
servizi informatici. Appena il 19% era di provenienza manifatturiera. C’è ampio spazio di miglioramento (come mostra il grafico a torta dell’Ufficio Studi di Confindustria Varese presente in queste pagine).
Spesa in R&S intra-muros delle imprese, ossia spesa per R&S svolta direttamente dalle imprese, all’interno delle proprie strutture e con proprio personale
Fonte: elaborazione su dati Istat, Rilevazione su ricerca e sviluppo delle imprese
Se poi si analizza la distribuzione territoriale, si osserva un fenomeno interessante, che potremmo chiamare “l’ombra del baobab”. A livello lombardo si contano circa 3.937 startup innovative, di cui il 71% in provincia di Milano. Non è un caso, considerato che l’area metropolitana attrae anche 6 sedi di atenei con corsi di laurea in area scientificotecnologica e le sedi di numerosi centri ricerca oltre al nascente Mind – Milano Innovation District. Nelle province confinanti è come se si proiettasse un cono d’ombra, poiché ciascuna di esse si colloca al di sotto del 4% delle startup regionali: Varese (2,7%), Como (2,6%), Monza Brianza (3,9%), Cremona (1,1%), Lodi (0,6%) e Pavia (1,8%). Unica eccezione, tra le confinanti, è Bergamo che, anche grazie alla presenza del Kilometro Rosso – Innovation District, supera il 6,5%, posizionandosi vicino alla percentuale di Brescia (7,3%). Sembra, quindi, emergere una correlazione tra l’esistenza di “poli di sviluppo del sapere scientifico” e la maggior fertilità nella creazione di imprese innovative. Correlazione tanto più forte quanto ci si distanzia dal tronco del baobab.
L’insieme di queste evidenze per la provincia di Varese (buone potenzialità in termini di capacità innovativa, scarsa propensione brevettuale, basso livello di startup) lascia spazio ad iniziative di supporto all’innovazione. Con la consapevolezza che i risultati non saranno immediati, ma che comunque convenga seminare in un tessuto che di per sé è fertile. Iniziando a farlo dalla cultura innovativa. Perché l’innovazione è principalmente un’attitudine che si fonda sulla capacità di trasgredire.
Ancora una volta BPER Banca riceve un importante riconoscimento che vede premiato l’impegno profuso nel rafforzare la gestione della propria strategia di sostenibilità, con l’ambizione di essere una best practice nazionale e creare valore condiviso per tutti i suoi stakeholder. Recentemente, infatti, l’agenzia di rating internazionale MSCI ESG Rating ha alzato la valutazione di BPER Banca a “AA”, portando l’Istituto a livello “Leader”. Le valutazioni ESG del MSCI (Morgan Stanley Complex Index) mirano a misurare la capacità di un’azienda di far fronte ai rischi ESG (Environmental, Social and Governance) a lungo termine e finanziariamente rilevanti. Il rating ha classificazioni che vanno da CCC ad AAA, dove AA e AAA sono considerati livello “Leader”.
MSCI ESG Rating ha valutato molto positivamente i miglioramenti nelle pratiche di protezione finanziaria dei consumatori poste in essere
dalla Banca. Infatti, BPER dispone di un solido meccanismo di gestione dei reclami, un organo di revisione interno e tempi di risposta definiti che possono aiutare a proteggere i diritti dei consumatori. Inoltre, le policy adottate dalla Banca hanno contribuito al miglioramento delle pratiche nel settore della cybersecurity. L’agenzia di rating ha poi valutato positivamente le iniziative di educazione finanziaria, sviluppate in collaborazione con organizzazioni esterne, rivolte a scuole di ogni ordine e grado e la serie di prodotti e servizi volti a soddisfare le necessità dei gruppi di persone vulnerabili. A testimonianza dell’impegno e del continuo miglioramento del Gruppo in tale ambito, possono essere ricordati i rating di BPER Banca come il Carbon Disclosure Project (CDP), un’organizzazione no-profit internazionale che consente alle aziende di dichiarare e rendicontare i propri rischi legati ai cambiamenti climatici o Standard Ethics, che
promuove i principi standard di sostenibilità e governance emanati dalla UE, dall’Ocse e dalle Nazioni Unite le cui valutazioni finali sul livello di conformità di società e nazioni ai principi di sostenibilità sono espresse attraverso nove diverse classificazioni di rating (da EEE a F). Nel 2021 BPER ha confermato il rating “EE”. La Banca, inoltre, si è collocata ampiamente entro il 30% delle società del settore con la più alta performance ESG relativa all’indice ISS ESG, il gruppo di società Institutional Shareholder Services che sostiene gli investitori e le società nella costruzione di una crescita sostenibile a lungo termine fornendo dati, analisi e approfondimenti di alta qualità. Sempre lo scorso anno, va ricordato, BPER Banca ha ottenuto un rating Robust (classificazioni Weak/Limited/ Robust/ Advanced) da Vigeo Eiris, primaria agenzia di rating ESG europea che opera esclusivamente sui temi della sostenibilità fornendo ricerche e analisi ESG agli investitori e supportando le organizzazioni nei loro percorsi di responsabilità sociale. Va infine menzionato l’inserimento di BPER Banca nel MIB ESG Index, nuovo indice di Borsa Italiana lanciato nel 2021 e dedicato alle blue-chip nazionali con l’obiettivo di raggruppare i grandi emittenti italiani quotati che presentano le migliori pratiche ESG. L’indice, lanciato da Euronext in collaborazione con Vigeo Eiris (parte di ESG Solutions di Moody’s), combina la misurazione della performance economica con valutazioni ESG in linea con i principi del Global Compact delle Nazioni Unite.
Una provincia a metà classifica per titolari d’azienda under 35, in zona retrocessione sulla qualità di vita dei ragazzi e per offerta culturale non può certo essere definita un territorio ideale per le nuove generazioni. Ma il Gruppo Giovani Imprenditori crede nelle potenzialità di Varese nel risalire la china dell’attrattività di talenti e competenze. L’arma segreta? L’impresa. Intervista alla Presidente uscente Giorgia Munari che, sul fronte delle politiche giovanili e della nuova imprenditoria, lascia il testimone di concretizzare il Piano Strategico #Varese2050 a Martina Giorgetti
ggi Varese non è un territorio per giovani. O accettiamo questo dato di fatto o rischiamo di illuderci sul nostro futuro”. Il richiamo al senso di realtà per spronare la creazione di nuovi progetti è di Giorgia Munari, la Presidente uscente del Gruppo Giovani Imprenditori di Confindustria Varese. Al suo posto, l’Assemblea del Movimento, che rappresenta le nuove leve dell’imprenditoria locale, ha eletto, a inizio novembre, Martina Giorgetti. Ma prima di cederle il testimone, Munari, giunta al termine del suo mandato, ha voluto tracciare, attraverso la sua ultima relazione dal palco del Centro Congressi Ville Ponti di Varese, le linee di una
sfida aperta che i suoi colleghi devono ora saper giocare nei prossimi anni, dopo che proprio il Ggi è stato uno dei protagonisti nella costruzione del Piano Strategico #Varese2050: “Le analisi svolte da Strategique e dall’Ufficio Studi di Confindustria Varese sullo stato di salute della nostra provincia sono impietose. Luci e ombre si accavallano. Ma quando si parla di giovani a dominare sono soprattutto le seconde: le tinte fosche”.
Da dove ripartire dunque?
Di certo, non potremo farcela se non riusciremo a scalare quelle posizioni da retrocessione dove ci piazzano le classifiche per la qualità della vita dei giovani. Graduatorie che penalizzano Varese per l’offerta culturale e ricreativa. Troppo bassa è la quota di risorse che le nostre Amministrazioni Comunali stanziano per la cultura. I nostri ragazzi e le nostre ragazze non sono alla ricerca solo di stipendio e carriera. Questi sono elementi fondamentali di realizzazione, ma non gli unici per misurare il successo di una vita. Ed è questo il messaggio che molte statistiche ci stanno restituendo nella lettura della nostra società. Dobbiamo prima di tutto costruire le ragioni perché Varese possa essere scelta dai giovani come una provincia dove formarsi, lavorare, vivere e fare famiglia. Varese esprime delle eccellenze, ma ciò che manca con sempre maggiore palpabilità è la carenza di una strategia.
Ciò da cosa dipende? È una situazione frutto della polverizzazione dei centri decisionali che si è venuta a creare depotenziando il ruolo dell’ente Provincia, un dramma per una realtà policentrica come il Varesotto. Ma prima o poi dobbiamo uscire da questa impasse. E la strada non è certo quella di far emergere un progetto piuttosto che un altro, quell’idea di quell’amministrazione, piuttosto di un’altra. Altrimenti continueremo a rimanere schiacciati verso il basso dai nostri campanilismi.
L’offerta formativa con due Università, diversi Its e scuole superiori di alto livello, di certo non manca. Delle carenze sul tempo libero abbiamo parlato. Ma sul fronte lavoro?
Anche su questo versante le opportunità a Varese non mancano. Siamo pur sempre una provincia che esprime un numero di imprese manifatturiere con una densità per chilometro quadrato che è sei volte più elevata della media italiana e doppia rispetto a quella lombarda. Dobbiamo, però, essere onesti con noi stessi e saperci guardare come imprenditori allo specchio: le nostre imprese sono ancora attrattive per i giovani? Già solo porre la domanda in una forma più corretta potrebbe darci una chiave di lettura più efficace nelle nostre capacità di risposta. E cioè: le nostre aziende sono attrattive per i valori a cui i giovani di oggi si ispirano?
È Martina Giorgetti la nuova Presidente del Gruppo Giovani Imprenditori di Confindustria
Varese. Classe 1988, è laureata in Scienze Politiche e Sociali all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e ha svolto un corso in General Management in Marketing e Relazione alla SDA Bocconi School of Management. Dal 2014 opera nell’azienda di famiglia, la Cibitex Srl di Solbiate Olona, specializzata nella costruzione di impianti per il finissaggio e la nobilitazione tessile, nella quale è componente del Consiglio di Amministrazione e Responsabile Marketing.
Lei che risposta si è data?
Credo che sia in atto un’incomprensione generazionale che in territori come Varese sta diventando crescente, trasformandoci in un’area del Paese vecchia non tanto a livello demografico, ma di progetti di sviluppo. È anche per questo che ci posizioniamo solo a metà classifica per il numero di aziende guidate da under 35. Siamo una provincia poco vivace in termini di startup e capacità di attrarre risorse di finanza innovativa. Il Piano Strategico #Varese2050 nasce per contrastare questi gap economici, sociali e culturali, per promuovere le diversità, l’inclusione e l’equità, puntando sulla convivenza tra diverse generazioni.
Ci può fare qualche esempio concreto su cui agirà il Piano Strategico #Varese2050?
La creazione di Mill a Castellanza è il perno di tutto. Ma anche investimenti continui in percorsi accademici post-laurea volti all’imprenditorialità; programmi di formazione sulla brevettazione; sviluppo di pacchetti per accompagnare le imprese sul fronte innovazione; collaborazioni con incubatori, acceleratori di impresa e fablab; l’attuazione del progetto People di Confindustria Varese per il sostegno alla genitorialità, al welfare aziendale e alla conciliazione lavoro/famiglia.
Ci può indicare un progetto del Piano Strategico di Confindustria Varese prioritario per i giovani imprenditori?
La creazione di percorsi di formazione imprenditoriale già nelle scuole superiori. Abbiamo tutte le competenze, la conoscenza e le risorse umane per farlo. Perché dunque non intraprendere questa strada e fare di Varese una diffusa scuola d’impresa? Servono imprenditori disposti a formare nuovi imprenditori, così come servono nuovi imprenditori disposti a rinnovare il concetto di impresa e di territorio. Varese è terra di impresa. Ora diventi anche terra di un nuovo rinascimento imprenditoriale.
Fare nuova impresa a Varese si può. Un esempio concreto è la ITC Srl di Oggiona con Santo Stefano, azienda fondata tre anni fa. Il business: la rigenerazione di smartphone. Investimenti in tecnologia, economia circolare e legame con il territorio. Questi i segreti del successo di un’azienda (nata come vuole la tradizione in un garage) oggi in forte crescita. Passata da un fatturato di 110mila euro nel 2019, alla previsione di chiudere il 2022 a quota 4 milioni
Perché i telefonini, solitamente, non vengono riciclati? Principalmente perché quando se ne rompe uno, è di fondamentale importanza averne subito un altro già pronto da utilizzare. Non siamo (per la maggior parte dei casi) in grado di attendere che venga riparato. Questo si traduce in un enorme spreco di materiali e di risorse. Spreco al quale la startup innovativa ITC Srl di Oggiona
con Santo Stefano cerca di dare un nuovo significato, attraverso un processo altamente tecnologico di rigenerazione, basato sui principi dell’economia circolare. “Da sempre i cellulari vengono considerati come una grande fonte di waste: qualcosa in cui nessuno riesce a vedere valore, ma non è detto che in realtà non ci sia. Ecco, per noi quello scarto diventa un’opportunità. Non a caso ‘I rifiuti come opportunità’ è il principio che ci ispira, su cui intendiamo costruire
il nostro domani e quello delle generazioni future. Secondo questo principio, infatti, attraverso i nostri prodotti perseguiamo una sostenibilità economica, sociale ed ecologica, aspetto non negoziabile per lo sviluppo futuro”. A parlare è Boris Tuzza, Ceo e fondatore della ITC (che sta per Italian Technological Company), manager che dopo importanti esperienze lavorative in diverse aziende e altrettanti settori, come ad esempio Candy, Whirlpool e IBM, ha scelto di vestire i panni di imprenditore, partendo dal famoso garage, stereotipo dell’immaginario collettivo legato al mondo delle startup, compiendo una scelta di vita coraggiosa.
La storia di ITC muove i primi passi nel 2019, anno in cui vede la luce come startup innovativa,
con radici profonde sul territorio ma un’attitudine internazionale e un approccio industriale. Il focus su cui si basa il modello di business industriale pensato e ideato da ITC è il mercato degli smartphone ricondizionati, portato avanti con il marchio Recall First Hand, in grado di dare nuova vita ai dispositivi, riducendo l’impatto inquinante e lo spreco che lo smaltimento precoce genererebbe. “Era arrivato il momento di guardare le cose da un altro punto di vista e abbiamo scelto di partire da qui, dai cellulari – racconta Tuzza –. L’idea è quella di superare la figura dei ‘semplici’ riparatori per arrivare dove il produttore stesso non è riuscito, grazie a tecnologie innovative. In altre parole, vendiamo smartphone seconda vita, garantendone una funzionalità pari al nuovo, perciò, immettiamo sul mercato prodotti
con una serie di servizi aggiuntivi sviluppati su misura per le esigenze dei clienti”. A dimostrare le potenzialità di questo mercato sono, come sempre, i numeri: nel 2019 il fatturato di ITC era di 110mila euro, l’anno successivo è salito a 560mila, nel 2021 è arrivato a quasi 3 milioni e le previsioni per il 2022 si attestano sui 4 milioni di euro. Il tutto con operative, al momento, solamente cinque persone. Un percorso, quello intrapreso dalla startup varesina, in continua ascesa ma non privo di difficoltà: “Le problematiche che riscontriamo sono soprattutto di due tipologie: la prima legata all’accesso al credito, dato che sul mercato non c’è alcun riscontro di cose già fatte in questo stesso ambito. Dall’altra parte facciamo fatica a trovare un sistema in grado di muoversi coerentemente al nostro livello di sviluppo: abbiamo bisogno di una maggiore velocità e reattività”, precisa il Ceo di ITC.
La fetta maggiore del fatturato della startup fondata da Boris Tuzza (per la precisione l’80%) è destinata ai mercati esteri, eppure la scelta di rimanere in Italia è precisa: “Varese è una zona strategica, con un tessuto sociale ed imprenditoriale ben innestato e attivo. Puntiamo comunque a diventare leader in Italia anche se, attualmente, solamente il 20% del nostro fatturato rimane entro i confini nazionali e la provincia di Varese è il punto perfetto da cui partire con questo sviluppo”. In questo quadro, l’espressione made in Italy assume ancora più significato: “È un aspetto su cui vogliamo puntare molto, nell’ottica di restituire qualcosa al territorio in cui siamo nati e stiamo crescendo. Lo scopo è quello di riportare alcuni asset tecnologici strategici in patria: nel nostro piccolo ripartiamo dalla rigenerazione dei cellulari per salvaguardare l’ambiente”, spiega di nuovo Tuzza.
Vero punto di forza di ITC è il continuo investimento in tecnologia, che permette alla startup di realizzare, in laboratori di prova qualificati, oltre 40 controlli tra test e collaudi sui dispositivi. “Le tecnologie che stiamo sviluppando in ITC – precisa Tuzza – possono fare da apripista alla rigenerazione di altri prodotti in settori anche molto diversi. La conoscenza profonda e radicata di questa tecnologia ci sta portando a capire come integrarla al meglio all’interno di altri processi”.
E questo per garantire ai clienti la miglior customer experience possibile: “Spediamo in 24 ore in tutta Europa, da 50 fino a 100 pezzi al giorno. Puntiamo molto sul customer service, che facciamo in 18 diverse lingue: un vero e proprio punto nevralgico per rendere scalabile la nostra attività, attraverso un approccio pragmatico. L’obiettivo è gestire le persone nel miglior modo possibile, occupandoci dell’intero ciclo, fino alla consegna direttamente a casa del cliente”.
È nata proprio nel Varesotto, dieci anni fa, la startup che dal 2016 opera in Silicon Valley e affermatasi nel tempo tra le realtà “top 3” a livello mondiale nel campo della cybersecurity industriale. I giovani varesini fondatori, Andrea Carcano e Moreno Carullo, raccontano la veloce ascesa di un’impresa che oggi si candida ad arrivare alla soglia del valore di un miliardo di dollari
Adieci anni dalla sua nascita, Nozomi Networks può sicuramente vantare nella sua storia tutti gli ingredienti da manuale di una startup: dagli esordi, in cui si viene bonariamente definiti “pazzi”, all’epilogo finale che oggi pone questa realtà imprenditoriale di fronte a un bivio. A mettere in fila i passi sono Andrea Carcano e Moreno Carullo, giovani varesini con un’idea ben precisa: operare nel campo della cybersecurity, dando gambe ad una intuizione maturata durante gli studi, che ha a che fare con il monitoraggio e la protezione di infrastrutture critiche dal punto di vista informatico. In soldoni, le soluzioni di Nozomi tutelano il corretto funzionamento dei sistemi informatici controllati da computer, affidandosi a reti di controllo in grado di bloccare
gli attacchi. Qualcosa di troppo complesso? Non possiamo dire così se pensiamo che oggi la tecnologia e i dati sono dietro ad ogni più semplice gesto della nostra vita quotidiana e che dalla sicurezza informatica dipendono
migliaia di azioni che compiamo ogni giorno, dall’accendere una luce a fare rifornimento all’auto, per non parlare di quando prendiamo un aereo o un treno.
Nel 2012 in Italia nessuno sembra
essere pronto a scommettere su questa idea che, a giudizio di molti, ha qualcosa di eccentrico: buttarsi in un settore, quello dalla cybersecurity, che è da sempre appannaggio di imprese israeliane e americane. In altre parole, una situazione alla Davide e Golia, dove scommettere il capitale sul “piccoletto” non è da tutti. Senza capitale iniziale, ovvero senza il Business Angel (una figura che aiuta le startup promettenti sia dal punto di vista economico sia attraverso assistenza tecnica e direzione strategica) di cui è piena la narrativa delle startup, non è pensabile partire. Quando arriva finalmente qualcuno che ci crede, porta con sé anche il suggerimento che farà di Nozomi non più una startup made in Varese, ma un’impresa italiana all’estero. Il primo investimento arriva da un imprenditore italiano che, a sua volta, aveva già sviluppato un’idea di impresa in Svizzera. “In Italia non stavamo trovando nessun finanziatore – racconta Andrea Carcano –. Così abbiamo accolto il suggerimento e ci siamo trasferiti in un quartiere alle porte di Mendrisio”. In termini di distanza stiamo parlando di una manciata di chilometri, ma qui i due trovano fibra super veloce, burocrazia snella e agevolazioni fiscali per i neoimprenditori come loro. Un cambio di prospettiva totale che, nel giro di qualche anno si rivela vincente: nel 2016 l’impresa è pronta per il passo successivo ovvero quello di portare
la sua testa in America, direttamente nella Silicon Valley. Ed è qui che nel 2019 i due varesini riceveranno la visita del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nella loro veste di imprenditori italiani all’estero. Il modello di sviluppo che sta dietro ad ogni passo è quello tipico delle startup con una componente forte di milioni di capitali, raccolti attraverso fondi e ingenti risorse per ricerca e sviluppo.
Dietro alla veste di impresa italiana all’estero restano però un cuore e, soprattutto, una mente italiana. “Abbiamo aperto una filiale a Milano – dice Moreno Carullo –. Si tratta della Nozomi Networks Italia Srl che si occupa del mercato italiano e in Italia continuiamo ad assumere talenti che lavorano per noi nel campo della ricerca e dello sviluppo, anche perché siamo in un contesto in cui non ci si può mai fermare e bisogna continuamente innovare e ricercare soluzioni, ancora più oggi con la situazione delicata che si è creata a livello internazionale”. I risultati parlano da soli: l’azienda è arrivata nella “top 3” mondiale nel campo della cybersecurity industriale, accanto a concorrenti americani ed israeliani ai quali contende clienti che operano nei campi che vanno dell’estrazione di gas e petrolio, all’energia, passando da farmaceutica e dai settori automotive e manufacturing, ma anche aeroporti, e trasporti. Anche se tecnicamente a dieci anni dalla nascita non si tratta più di una startup, il modello di
sviluppo resta quello tipico di queste imprese, che hanno tassi di crescita elevati e un’evoluzione molto veloce. Il risultato? Oggi questa azienda è candidata a diventare un unicorno, ovvero una startup dal valore di almeno un miliardo di dollari. Quali sono dunque ora le prospettive? Anche in questo caso il “bivio” a cui si trovano di fronte i due varesini è veramente da manuale delle startup: restare indipendenti, tramite la quotazione in borsa, che rimane il sogno più grande oppure cedere ad una eventuale proposta di acquisto. “A patto – dicono Andrea e Moreno – che sia la proposta giusta, non solo in termini economici ma anche di prospettiva e che non vanifichi il lavoro fatto fino ad ora da tutta la squadra. Al momento puntiamo all’obiettivo della quotazione in borsa e abbiamo la fortuna di non dover prendere una decisione nel breve periodo e di poter continuare a portare avanti il nostro lavoro”.
Il termine è stato coniato da Aileen Lee, fondatrice del fondo di venture capital “Cowboy Ventures”. Con esso si intende un’azienda privata, meglio una startup, che ha raggiunto un valore di mercato di 1 miliardo di dollari, ma non ancora quotata in Borsa.
Giovani o meno, legate al digitale o alla tradizione, di servizio o di prodotto: le startup non sono mai identiche una con l’altra. Qualcosa, però, le accomuna. Alla base, un’idea originale, non necessariamente del tutto inedita. Ma, soprattutto, una certezza: le persone sono il cuore dell’azienda. Il racconto di quattro realtà varesine
“Chi dice che è impossibile non dovrebbe disturbare chi ce la sta facendo”. Che sia stato Einstein, Confucio o
Bernard Shaw a pronunciarlo, questo è uno degli aforismi motivazionali più noti al mondo. Superare i limiti, i confini, guardare al nuovo: è la più alta delle aspirazioni degli esseri umani e, naturalmente, di chi sente la vocazione
Alla base di Mia Kombucha, una scelta di business in linea con una cultura di consumo di bevande più sana e consapevole. Ingrediente: il made in Italy
del fare impresa. Oggi, però, superare l’impossibile, creando qualcosa di nuovo, potrebbe ragionevolmente sembrare molto difficile, considerando il tasso di innovazione degli ultimi anni. Eppure, alcune storie, anche varesine, smentiscono questo timore e incoraggiano l’entusiasmo da aforisma. Ma qual è il minimo comune denominatore alla base della capacità, di giovani imprenditori e non, di costruire il nuovo e avviare delle startup? A raccontarlo, con i fatti, quattro nuove imprese.
L’idea è nuova, il prodotto no. Kombucha è, infatti, una bevanda naturale dalla storia millenaria, portata a Induno Olona da quattro amici varesini under 32 che, dopo l’esperienza di uno di loro in Australia, hanno deciso di produrla in un capannone di Induno Olona, dove è rinata con il nome di Mia Kombucha. Ma qual è il punto di forza dell’iniziativa? “Sicuramente il carattere di novità del nostro progetto sta nell’idea di riproporre al pubblico qualcosa di naturale e sano. Una scelta che si sposa perfettamente con il cambiamento culturale che stiamo vivendo e con la nuova educazione a un consumo di bevande più sano e sostenibile”, racconta il Presidente di Mia Kombucha, Mattia Baggiani. In perfetta tradizione romantica da startup, il progetto industriale è nato in una stanza dell’azienda di uno dei ragazzi e, in poco tempo, semplici esperimenti, quasi amatoriali, sono diventati un brand caratterizzato da colorate e riconoscibilissime lattine. Passione per una bevanda dal gusto piacevole, rinfrescante e salutare, materie prime scelte, niente additivi e conservanti e produzione made in Italy per una proposta in quattro gusti (original, zenzero, limone e lampone): sono questi gli ingredienti dietro al successo di una startup, che, in poco più di un anno, hanno portato il brand ad affermarsi sul mercato nazionale con una capacità produttiva di oltre 10mila litri al mese.
Da un gruppo di giovani ad un altro. Quello di Nthn Studios di Varese è un progetto decisamente contemporaneo, all’apparenza semplice, ma in realtà particolarmente sfaccettato, caratterizzato da un ricco catalogo di servizi offerti. L’azienda nasce nel 2019 dall’idea del fondatore Nathan Francot di creare una realtà che, puntando sulle tecnologie, fornisse diversi servizi di comunicazione:
dalla brand identity allo storytelling, al digital marketing. In pochi anni il team di ragazzi è cresciuto, così come il parco clienti. “Il nostro obiettivo rimane sempre lo stesso: aiutare le aziende a comunicarsi, partendo dai loro valori. In poco meno di tre anni abbiamo sviluppato più di 20 siti Internet, scattato oltre 16mila fotografie, realizzato centinaia di video”, spiega il fondatore e Amministratore Delegato. Ma qual è la forza di Nthn Studios? “Quello che ci caratterizza sono la flessibilità e la gentilezza. Può sembrare banale, ma non lo è se si pensa che siamo partiti in pieno Covid, in un periodo in cui, da una parte le persone e le imprese avevano la necessità di andare sul digitale con urgenza, dall’altra la difficoltà e la paura erano palpabili.
Nella frenesia di quel momento e di quello attuale, ci siamo sempre resi disponibili, anche nella elasticità dell’offerta economica, attraverso lo studio di pacchetti o di formule di rateizzazione ma, soprattutto, puntando subito sui rapporti personali, di fiducia e di integrità, con il cliente. Questo ha sicuramente fatto la differenza”.
L’impresa che vola Ma non si creda che il fenomeno startup riguardi solo i giovanissimi e che solo loro abbiano l’entusiasmo per scommettere sul nuovo. La storia di Helitaly lo conferma. Un progetto recente che si basa, però, su esperienze e operatività preesistenti, combinando passioni e competenze, nella realizzazione di una iniziativa unica nel suo genere. “Il carattere di novità del nostro progetto sta
Nthn: “Il nostro plus è la flessibilità. Non è banale se si pensa che siamo partiti in pieno Covid, quando le persone avevano l’urgenza di andare sul digitale ma anche tanta paura”
L’ascolto del cliente, delle sue esigenze, del suo stile sono il cuore di Helitaly, un servizio di voli su misura in elicottero o jet per affari o per turismoHelitaly
sicuramente nel suo combinare un servizio tailor made e una piattaforma tecnologica fortemente innovativa per proporre in una veste nuova qualcosa che in realtà già c’era”, racconta Andrea Poretti, ideatore con Mauro Turchetti di un progetto che conta su un team di professionisti dal background internazionale. In pratica, Helitaly offre un servizio esclusivo di voli su misura in elicottero o jet, dedicato al cliente
che ha l’esigenza di trasferimenti rapidi e confortevoli per affari e per turismo e che possa eventualmente essere anche arricchita con un pacchetto di esperienze preziose, ad esempio, enogastronomiche o sportive. “Che sia per piacere o per affari, ci impegniamo a fornire la soluzione più adatta e confortevole, oltre che ovviamente più sicura, per i voli in elicottero in Italia e nei paesi vicini e anche per il noleggio di jet privati, in base agli interessi e agli orari dei nostri ospiti”, spiega l’imprenditore. Il cuore del progetto sta dunque nell’ascolto del cliente, nel rispetto delle sue esigenze e del suo approccio, in maniera da poter offrire un quid in più, completamente unico e differente e, quindi, memorabile.
Inedito, però, non significa per forza completamente nuovo: in alcuni casi il neonato ramo d’azienda, per quanto autonomo, cresce su una pianta già esistente e ben solida,
puntando anche su una rielaborazione creativa del tradizionale business aziendale. La El.m.a. Servizi Fiduciari, ad esempio, nasce così nel 2019 all’interno di una realtà consolidata sul territorio varesino, Merlo Group, le cui radici hanno origine nel 1950, con la costituzione della prima realtà aziendale a Gallarate: si potrebbe a tutti gli effetti definire uno spin-off. Avete presente i controlli all’ingresso di una azienda, di un negozio o di un condominio? Questi servizi, come quelli di portierato, receptionist, hostess, stewart, interpretariato e così via, sono la specializzazione di un’azienda nata all’interno di un gruppo dedicato proprio alla sicurezza. Nello specifico, El.m.a. Servizi Fiduciari si occupa di sicurezza non armata, controllo accessi, assistenza a edifici e persone per privati e aziende, anche in campo sanitario: tutta una serie di servizi la cui richiesta è aumentata negli ultimi anni. Qual è quindi il punto di forza? “La nostra realtà nasce dalla necessità di diversificare, facendo fronte ad esigenze molto attuali, in un settore in cui la tecnologia ha un ruolo fondamentale. Nonostante questo, siamo convinti che a fare la differenza sia il fattore umano, non ultima la capacità di instaurare una relazione di fiducia tra operatore e clienti. I numeri del triennio ci hanno dato ragione: abbiamo dato continuità lavorativa a 60 dipendenti e abbiamo soddisfatto un ampio parco, sempre crescente, di clienti”, racconta Mara Castano, Presidente dell’azienda.
El.m.a. Servizi Fiduciari: “Siamo convinti che a fare la differenza sia il fattore umano, non ultima la capacità di instaurare una relazione di fiducia tra operatore e clienti”El.m.a. Merlo
Lo stabilimento varesino del gruppo farmaceutico compie cinquant’anni di storia e inaugura una nuova area dedicata alla produzione di Enterogermina. Con l’obiettivo di raddoppiare, entro il 2025, la sua capacità, destinata a oltre 55 Paesi in tutto il mondo. La parola d’ordine per la multinazionale francese è investire sul territorio ed espandersi sui mercati internazionali: 40 i milioni messi sul piatto negli ultimi anni per migliorare l’efficienza delle linee e dei processi Con un occhio di riguardo alla sostenibilità
‘‘Inostri primi cinquant’anni di storia ci hanno portato ad essere un elemento chiave di questo territorio e siamo fieri di aver contribuito a renderlo a tutti gli
effetti un polo di rilevanza globale della produzione farmaceutica. Celebriamo un traguardo importante ma rilanciamo il nostro impegno per il futuro, con l’obiettivo di scrivere nuove pagine di successo per questo stabilimento”. A parlare è Roberto Di
Domenico, Direttore di Stabilimento di Origgio di Opella Healthcare Italy Srl del Gruppo Sanofi. L’occasione
Da sinistra, inaugurazione della nuova area per la produzione di Enterogermina; gli stabilimenti Sanofi di Origgio
è la cerimonia celebrativa del cinquantesimo anniversario del sito produttivo. Una realtà che ha fatto del proprio core business una missione: in mezzo secolo sono state tantissime le scoperte scientifiche messe a disposizione e al servizio dei pazienti e della comunità. “L’impegno nei confronti della salute pubblica ci ha permesso di proteggere la salute di milioni di persone, ogni anno, per decenni”, spiega Di Domenico. Il cuore italiano della multinazionale francese Sanofi è a Origgio. Un sito tecnologicamente avanzato e dedicato alla produzione di alcuni dei marchi più importanti della gamma Consumer Healthcare. Tra questi: Enterogermina, Maalox, Bisolvon e Mucosolvan. Prodotti destinati a più di 50 mercati in tutto il mondo. Non solo la ricorrenza di un compleanno, però. “Festeggiamo un altro risultato: l’inaugurazione di una nuova area dedicata alla produzione di Enterogermina”, racconta il Direttore di Stabilimento, che ricopre anche la carica di Vicepresidente del Gruppo “Chimiche, Farmaceutiche e Conciarie” di Confindustria Varese, dopo esserne stato Presidente per diversi mandati.
L’investimento ha portato ad un ampliamento di circa 500 metri quadrati rispetto alla precedente
area in uso, già attrezzata con 4 fermentatori da 3.000 litri ciascuno. “Il nuovo stabile ci doterà di 2 ulteriori fermentatori. Da qui al 2025, questo ampliamento e potenziamento tecnologico permetterà di raddoppiare i volumi produttivi e raggiungere circa 120 tonnellate di prodotto – spiega Marcello Cattani, Presidente e Amministratore Delegato di Sanofi Italia –. L’aspettativa è di realizzare circa 800 milioni di pezzi di Enterogermina all’anno”. Sanofi cavalca l’onda della crescita e del progresso ormai da tempo. Non si ferma e guarda al futuro. Capitale umano, innovazione, ricerca e sviluppo e sostenibilità: questi gli asset a cui tende l’azione strategica della multinazionale. Complice, un mercato, quello del settore farmaceutico, ricco di opportunità e stimoli da cogliere. “Il comparto, nel nostro Paese, sta attraversando un momento cruciale per il suo futuro e la sua competitività – spiega Cattani –. Stiamo mettendo in campo tutto il potenziale necessario in termini di innovazione, competenze e forme di collaborazione pubblico-privato per continuare a sostenere lo sviluppo dei nostri stabilimenti in centri di eccellenza chiave per il futuro del Gruppo”. A testimoniare il successo, come sempre, i numeri: lo scorso anno lo stabilimento varesino ha
prodotto circa 50 milioni di pezzi di cui 37 milioni di Enterogermina e circa 13 milioni di Maalox ed altri prodotti liquidi, nonostante il forte rallentamento subìto dal settore dell’automedicazione a causa della pandemia. “Solo negli ultimi tre anni – ricorda Di Domenico – abbiamo investito 40 milioni di euro. Ci siamo espansi nei mercati internazionali, abbiamo efficientato le linee produttive e i processi”. A fare da volano a questo balzo in avanti, anche la scelta, nel 2011, di spostare il portafoglio prodotti sulla Customer Healthcare. Non c’è progresso, però, senza attenzione alle persone, alla sicurezza, alla salute e alla sostenibilità. E Sanofi, in questo, si impegna da sempre. “Il Gruppo – precisa Di Domenico – è conforme ai più alti standard internazionali di sicurezza”. Sulla sostenibilità, lo stabilimento di Origgio ha lavorato per stilare una roadmap con l’obiettivo di ridurre, ogni anno, del 5% le emissioni di anidride carbonica. Nel 2021, il sito varesino ha ridotto le sue emissioni di 227 tonnellate, per un risparmio energetico complessivo di 369mila euro rispetto all’anno precedente.
Mezzo secolo di storia. Un nuovo stabilimento tecnologicamente avanzato capace di raddoppiare in pochi anni la propria produttività. Tanti investimenti nell’ultimo periodo. “Tutto questo – sottolinea Di Domenico – è soprattutto per merito delle persone che lavorano con e per noi”. La multinazionale è attenta al benessere dei propri dipendenti. La prova tangibile è l’adesione di Sanofi alla Rete Giunca, ovvero la prima rete di imprese dedicate al welfare aziendale. “Abbiamo aderito a questa iniziativa nata dalla volontà di alcune imprese del Varesotto, anche grazie al supporto di Confindustria Varese, perché crediamo molto nell’importanza delle persone, della loro salute, del loro benessere e del loro lavoro”, chiosa infine Roberto Di Domenico.
Biciclette a disposizione dei dipendenti, gruppi di cammino per rimanere in forma, pannelli fotovoltaici per autoproduzione di energia elettrica. L’impresa ultracentenaria bustocca, specializzata nella realizzazione di macchine ed impianti per la lavorazione della gomma e delle materie plastiche, punta tutto sulla sustainability, ambientale ma anche e soprattutto sociale. E a dimostrare questo impegno sono anche importanti premi a livello nazionale
Cosa significa, oggi, essere un’azienda sostenibile?
Saper dar vita a un modello di business responsabile, capace di garantire uno sviluppo ampiamente inteso, attento non solo alla salute del pianeta, ma soprattutto al benessere sociale ed economico delle persone. Impegno, su due fronti ben distinti ma che viaggiano su binari paralleli, che la Comerio Ercole Spa porta avanti, con convinzione, ormai da anni. L’impresa, nata a Busto Arsizio nel 1885 a supporto del settore tessile e ora specializzata nella realizzazione di macchine ed impianti completi per la lavorazione della gomma e delle materie plastiche, per l’industria del non tessuto e applicazioni speciali, vanta un processo produttivo, qualificato secondo gli standard
ISO 9001-14001-45000, che vede i propri prodotti esportati per oltre il 90% in tutto il mondo. Anche grazie ad un servizio tecnico di ingegneria ed assistenza che da oltre
130 anni fa del proprio capitale umano una vera leva in grado di fare la differenza in un mercato ed un contesto socioeconomico sempre più complesso e sfidante.
Come racconta il Presidente dell’azienda, Riccardo Comerio: “Ci definiamo una family company, ovvero un’entità che punta sulla continua e costante attenzione al profilo personale dei propri collaboratori. Anche e soprattutto attraverso la messa in pratica di azioni di welfare aziendale a loro dedicate. In altre parole, alla Comerio Ercole le persone hanno la consapevolezza di essere parte di una squadra che è sempre a disposizione e a supporto. Non a caso, il nostro simbolo è un ingranaggio, fatto di tanti denti e tutti ugualmente importanti affinché la macchina funzioni alla perfezione. La squadra per noi è quell’ingranaggio”. Attualmente sono 190 gli addetti della sede di Busto Arsizio della Comerio Ercole che, con tutte le altre aziende del gruppo sparse tra la provincia di Varese e quella comasca, arriva a contare 270 collaboratori. Una squadra numerosa ma accomunata e unita da una serie di attività e progetti sostenibili. “Partiamo dal recupero delle bottiglie d’acqua e dei loro tappi, destinati a supportare le attività di una Onlus che si occupa di animali, passando poi all’iniziativa, per il momento ancora in fase di sviluppo,
pensata per organizzare passeggiate guidate il sabato pomeriggio per riscoprire luoghi meno conosciuti del nostro territorio. C’è poi, per esempio, il progetto ‘Pedala che ti passa’: abbiamo messo a disposizione dei dipendenti una cinquantina di mountain bike da poter utilizzare durante la pausa pranzo per esplorare i dintorni dell’azienda e fare un po’ di attività fisica. Stiamo inoltre valutando la possibilità di adibire circa 1.500 metri quadri di terreno di nostra proprietà a diverse coltivazioni stagionali da destinare al servizio di mensa aziendale”, racconta il Presidente Riccardo Comerio. Come non menzionare, poi, l’Associazione “Noi della Comerio Ercole 1885”, fondata nel 2017 dalla famiglia Comerio ma gestita da ex dipendenti in piena autonomia: “Si tratta di un progetto in grado di creare un grandissimo senso di aggregazione. La finalità principale dell’Associazione, che gestisce e organizza anche svariate collaborazioni con le scuole del territorio, è mantenere viva la storia della nostra impresa. Anche attraverso il ricordo delle persone che hanno contribuito a renderla tale”.
La Comerio Ercole prende anche parte, da diversi anni, al programma Whp – Workplace Health Promotion portato avanti da Confindustria Varese insieme ad ATS Insubria e alle Organizzazioni sindacali del territorio, per favorire cambiamenti organizzativi nei luoghi di lavoro ed incoraggiare l’adozione consapevole e la diffusione di stili di vita salutari.
Ma qual è quindi il valore aggiunto di puntare sulla sostenibilità sociale?
La risposta di Comerio è di una chiarezza disarmante: “Se si vive in un ambito sostenibile, è più semplice lavorare bene e al massimo delle proprie capacità. Ci si concentra di più sul fare al meglio il proprio lavoro
se il clima in cui lo si svolge è sereno e disteso. Il nostro obiettivo è quello di far sì che gli ingranaggi lavorino nel modo migliore possibile e, in questo senso, la sostenibilità è il lubrificante che li fa girare”.
Dal lato ambientale, invece, la Comerio Ercole sta affrontando il tema della sostenibilità e della crisi energetica con un piano composto da 20 punti su cui agire tempestivamente. “Si parte da azioni più semplici come l’acquisto di nuovo abbigliamento termico ad interventi sulle macchine utensili, ora dotate di dispositivi di riscaldamento a infrarossi. Azioni condivise in questo momento storico di grande incertezza geopolitica con il supporto e la collaborazione delle rappresentanze sindacali. Per poi arrivare all’investimento più massiccio avviato a giugno ed inaugurato nel mese di ottobre, ovvero un impianto fotovoltaico da circa 250 kilowatt già attualmente in funzione, anche se la piena efficienza si vedrà, ovviamente, nella stagione primaverile ed estiva del prossimo anno – afferma Comerio –. Abbiamo inoltre fatto diversi interventi per migliorare le coibentazioni delle nostre strutture, senza contare poi le colonnine di energia per la mobilità sostenibile istallate in azienda già da un paio di anni. Insomma, sono tanti i punti su cui intervenire per cercare di impattare il meno possibile sull’ambiente”. A sottolineare l’impegno messo in campo dalla Comerio Ercole in tema di sostenibilità è il Premio Sustainability Award, promosso da Kon e Credit Suisse di cui Forbes è media partner, assegnato all’impresa bustocca per il secondo anno di fila. “Anche nel 2022 abbiamo fatto diversi investimenti nell’ambito del nostro progetto di sostenibilità e siamo orgogliosi di essere, nuovamente, rientrati nella top 100 nazionale delle aziende più sostenibili. Pur in un momento non certamente semplice a livello generale, manteniamo fermi i nostri target di sostenibilità. Il nostro mantra è: crederci sempre”, conclude Comerio.
Nuove convenzioni riservate alle Imprese associate a Confindustria
Executivelease, Noleggio Veicoli Aziendalioffre condizioni agevolate su servizi di noleggio a lungo termine, sistemi di ricarica e promozioni dedicate alle vetture ibride ed elettriche. Offre anche servizio di Mobility Manager in outsourcing certificato secondo la metodologia europea EPOMM e le linee guida adottate dai ministeri competenti il 4 agosto 2021.
Al fine di valorizzare tutte le forme di mobilità integrata e sostenibile, offriamo alle imprese la PROMO GREEN MOB valida per ordini di noleggio a lungo termine formalizzati entro e non oltre il 15 Dicembre 2022. L’offerta prevede, in alternativa:
• la bici a pedalata assistita E-RUN di Atala in omaggio, il cui prezzo di listino è di 1.180,00 euro; • un buono di 700,00 euro sull’acquisto di una E BIKE PIEGHEVOLE ATALA CLUB (prezzo di listino 1.709,00 euro)
Executivelease, inoltre,offre alle imprese associate la promozione “SENZAPENSIERI”che prevede condizioni agevolate e servizi speciali in omaggio sul noleggio a lungo termine:
• Controllo costi: canone fisso comprensivo di tutte le spese di gestione del mezzo;
• Servizi opzionali: cambio pneumatici e veicolo sostitutivo compresi nel canone;
• Servizi facoltativi gratuiti: presa e consegna del veicolo in sede gratuita per gli interventi di carrozzeria su tutta la provincia di Varese;
• Mobilità elettrica Plug In: colonnine di ricarica e /o Wallbox con consegna chiavi in mano
• Servizio di Mobolity management in outsourcing con costi contenuti
• Sportello di consulenza fiscale gratuito: dedicato alla gestione del parco auto aziendale.
• Speciale sportello di consulenza sui tempi di consegna delle vetture
• Noleggio dipendenti: noleggio a dipendenti senza PIVA;
CUn volante Nardi in lavorazione
Sostenibilità, flessibilità, prevenzione, condivisione: queste alcune tra le parole chiave al centro dei progetti per le persone dall’azienda di Somma Lombardo, attiva da quasi 120 anni nel comparto aeronautico. Azioni che rientrano alla perfezione nel Progetto “People – L’impresa di crescere insieme” portato avanti da Confindustria Varese per sensibilizzare il sistema produttivo sui temi del welfare e della genitorialità
Una storia lunga 120 anni, vissuti sempre con lo stesso entusiasmo del bisnonno, fondatore nel 1903 di una startup ante litteram, condiviso oggi dalla quarta generazione rappresentata da Claudia e Riccardo Mona. Lo spirito resta quello: la volontà di essere sempre all’avanguardia e di affrontare con coraggio e visione le sfide di ogni epoca. Accanto a quelle del proprio mercato, la Secondo Mona di Somma Lombardo, impresa aeronautica ben nota a livello internazionale, oggi ne affronta anche altre. In particolare, quella molto attuale del guardare al proprio interno. Il tema, che si inserisce nel dibattito avviato tra le imprese varesine dal progetto “People – L’impresa di crescere insieme” portato avanti da Confindustria
Varese per sensibilizzare sui temi del welfare e della genitorialità, è quello dell’attenzione verso le proprie persone.
“Un tema non nuovo per Secondo Mona, ma che certamente oggi viene sistematizzato anche con la realizzazione di un Company Profile Esg, pubblicato lo scorso agosto, che mette nero su bianco le priorità dell’azienda”, racconta Cinzia Petroni, già Responsabile delle Risorse Umane nel recente passato e ora Responsabile Compliance della società. “Pur non essendoci ancora un obbligo normativo riguardo alla presentazione di un Bilancio di sostenibilità, abbiamo scelto volontariamente di formalizzare il nostro impegno per sottolineare la convinzione che non può esistere un benessere reale delle persone senza sostenibilità ambientale, economica
e sociale. L’attenzione alle persone, largamente intesa, infatti, per noi parte da qui, dalla sostenibilità. E non si tratta di un obbligo normativo, ma di una sensibilità verso l’ambiente ma, soprattutto, verso la comunità in cui viviamo e operiamo, verso la quale l’impegno di Secondo Mona, in quasi 120 anni, non è mai mancato. Ma, più in generale, sono tre gli obiettivi di sviluppo su cui stiamo lavorando: accanto alla sostenibilità, l’attenzione alle persone e ai temi sociali”. Ma come vengono perseguiti questi ambiziosi obiettivi? “Sgombriamo ogni equivoco: in quest’ambito, i progetti non possono essere solo un’idea del top management, per quanto lungimirante e per quanto imprescindibile, ma deve esserci una condivisione tra tutti quelli che fanno parte dell’impresa”, spiega Petroni. “Per questo, alla base dei
nostri progetti, c’è il coinvolgimento delle persone stesse, rappresentate dai propri responsabili: siamo, infatti, partiti da un monitoraggio tra i responsabili delle funzioni aziendali e abbiamo individuato 17 temi ritenuti importanti, su cui lavorare. Tra questi ci sono l’attrazione, la ritenzione e lo sviluppo di talenti e il benessere sul luogo di lavoro”.
“Benessere sui luoghi di lavoro, welfare e sicurezza sono temi
importanti, ma non bisogna generalizzare: accanto al doveroso rispetto dell’obbligo di legge, ci sono diverse modalità di agire. Se da un lato, l’indice di frequenza di infortuni in Secondo Mona è quasi prossima allo zero e ne siamo felici, quello che ci interessa è alzare l’asticella”, racconta Lorenzo Genoni, Responsabile delle Risorse Umane. “Sono tanti i progetti per le nostre persone e molti quelli
Con la storia di Secondo Mona continua il viaggio di Varesefocus tra le imprese del territorio impegnate in azioni di welfare aziendale, conciliazione lavoro-famiglia, sviluppo demografico, supporto alla genitorialità, inclusione di genere. Un racconto in linea con gli obiettivi del Progetto “People –L’impresa di crescere insieme” lanciato da Confindustria Varese per contribuire
all’attrattività della provincia di Varese con una serie di iniziative ad ampio spettro. Tutte accomunate da un unico filo conduttore: l’investimento e la valorizzazione delle persone in azienda. Per segnalare la storia della tua impresa scrivi a info@varesefocus.it. Per maggiori informazioni sul Progetto People vai su www.univa.va.it oppure scrivi a people@univa.va.it.
nuovi in cantiere. Ad esempio, un obiettivo raggiunto ed ampliato dopo l’esperienza della pandemia è stato quello della flessibilità: di orario e di smart working per le funzioni operative d’ufficio, di part time reversibile per i neogenitori, di gestione di permessi a recupero”. E in termini di salute nei luoghi di lavoro? “Grande spazio è quello dato alla salute e, in particolar modo, alla prevenzione”, aggiunge Genoni. “Rendiamo disponibili per tutti i nostri dipendenti gratuitamente ogni anno analisi del sangue e l’esame chimico e microscopico delle urine (aggiuntivi rispetto a quelli previsti dal piano sanitario) e da diversi anni abbiamo attivato misure di screening preventivi per i marker tumorali con l’introduzione quest’anno della eco mammaria volontaria per tutte le donne dell’azienda senza limiti di età anagrafica. A quest’ultima, per dare un’idea, ha aderito subito quasi tutta la popolazione femminile di Secondo Mona. Gli esami sono eseguiti direttamente in azienda nella nostra infermeria e durante l’orario di lavoro, sempre nell’ottica del massimo risparmio di tempo lasciando libero quello privato delle persone per una migliore qualità di vita. Senza dimenticare i permessi retribuiti per il tempo impiegato nelle visite specialistiche (permessi comprensivi anche del tempo necessario al tragitto) estendibili anche ai figli, secondo determinate condizioni. Il tema delle convenzioni è sicuramente interessante, un po’ in tutti i campi: dalla convenzione in atto per il cambio delle gomme auto, alla possibilità di avere assistenza per il 730 in azienda e, anche questo, durante l’orario di lavoro, alle convenzioni per i campi estivi, tra cui ad esempio Volandia. Le idee, anche quelle che lanceremo a breve, sono tante, creative e raccolgono gli stimoli di tutta la squadra, a conferma di quanto detto. La condivisione in azienda è fondamentale”.
Dalle macchine industriali al settore automotive, passando per le moto e i sistemi a controllo numerico. La Formazione Professionale della provincia di Varese offre a ragazze e ragazzi, dopo gli esami di terza media, la possibilità di specializzarsi su più fronti nel comparto della meccanica. Continua il viaggio di Varesefocus all’interno dei corsi IeFP presenti sul territorio
C’è chi si occupa della cura di macchine utensili, chi realizza manutenzioni su vere e proprie automobili futuristiche e chi opera sul controllo di sistemi di macchine. Le prospettive sono ampie e diverse, ma certo è che per conoscere come organizzare cicli di lavoro di una macchina o programmarne il controllo numerico bisogna avere sicuramente una formazione di tipo professionale. Nel territorio di Varese sono 25 gli enti e i centri di formazione che erogano i corsi IeFP (Istruzione e Formazione Professionale), quei percorsi scolastici, per l’appunto, accessibili dopo la terza media, che danno la possibilità di poter diventare Operatore meccanico nel settore delle
macchine utensili oppure Operatore alla riparazione di veicoli a motore. I percorsi sono lunghi ma modulabili e si strutturano su tre livelli: il primo della durata triennale offre un iniziale approccio al mondo del lavoro, con l’alternarsi di materie teoriche con ore di formazione laboratoriale al cui termine è possibile ottenere la Qualifica Professionale. Al termine di questo primo step, lo studente può essere inserito direttamente in azienda o continuare la propria formazione con un anno integrativo che porta all’ottenimento del Diploma Professionale. Successivamente, per implementare il proprio livello di qualifica scolastica, esiste la possibilità di accedere ad un quinto anno che sfocia poi in un Diploma di Maturità, necessario eventualmente per
l’accesso ai corsi universitari.
“Purtroppo, esistono ancora una serie di pregiudizi nei confronti dei corsi di Formazione Professionale – racconta Lucia Reggiori, Coordinatrice Formazione Professionale di Aslam (ente che opera nei settori della formazione, dell’orientamento e dei servizi al lavoro) –. L’idea generalizzata è che questa tipologia di percorsi non siano in grado di offrire ampie prospettive. Ma non è così. Stiamo lavorando affinché le conoscenze e le competenze che eroghiamo diano la possibilità, a chi fosse interessato, di iscriversi anche all’Università”.
Un corso strutturato su più livelli che, partendo da un triennio, inizia con l’apprendimento degli utilizzi di macchinari come i torni manuali tradizionali, per poi passare all’uso di dispositivi più articolati come ad esempio quelli a controllo numerico, garantendo così l’accesso ad officine meccaniche per conto terzi. Al termine del terzo anno, per poi continuare durante il quarto, gli insegnamenti si specializzano, curando soprattutto la fase di programmazione e progettazione di un macchinario, motivo per cui la qualifica cambia, passando da Operatore meccanico a Tecnico dell’automazione. Durante questi
anni una grande attenzione è dedicata alle ore di laboratorio: “All’interno della nostra sede – spiega Clara Marafioti, professoressa tutor del settore meccanico Enaip Varese –abbiamo almeno 2 laboratori per settore, arrivando ad un totale di 10 più 3 aule di informatica. I ragazzi hanno modo di imparare ad usare sia macchine utensili, sia apparecchi legati al mondo dell’automotive. Nota di pregio è anche la presenza di un
Fablab aperto a tutti i settori”.
Nella sede varesina, oltre al corso di Operatore meccanico, è possibile accedere anche a quello di Operatore alla riparazione di veicoli a motore, legato, appunto, al mondo delle automobili e delle moto. I ragazzi e le ragazze hanno, qui, l’opportunità di sviluppare conoscenze che partono dallo svolgimento dei check-up sui veicoli al cambio gomme, tutto grazie anche all’esperienza nei laboratori
della scuola, dove occasionalmente sono presenti anche auto ibride.
Forte attenzione alle attività manuali, quindi, senza però escludere gli insegnamenti più teorici. Le classiche materie “da banco” infatti, sono comunque presenti e vertono di più sul tipo di indirizzo del corso, come scienza dei materiali o disegno meccanico. La quasi totalità degli insegnanti di laboratorio, inoltre, proviene dal mondo del lavoro, garantendo così un approccio più autentico alla materia.
Dalla scuola, poi, si passa direttamente all’azienda. Una volta apprese le prime conoscenze in aula, i ragazzi imparano il lavoro vero e cosa vuol dire “mettere le mani in pasta” in azienda. Durante il triennio, il monte ore nell’impresa è di quasi il 50%, con stage formativi obbligatori. Gli studenti hanno modo di imparare sul campo e di mettere in atto gli insegnamenti appresi in aula. “Quello dello stage è un momento molto importante – continua Lucia Reggiori – perché permette a studenti e studentesse di potersi entusiasmare in maniera diretta alla professione che stanno studiando. Alcuni di loro si innamorano talmente tanto del lavoro che vorrebbero entrare subito in azienda. Cosa ovviamente non possibile in quanto è necessario che terminino almeno il primo ciclo di studi, ovvero il triennio”. Capita infatti che alcuni studenti, con la modalità dei contratti di apprendistato, entrino direttamente in azienda dopo il primo anno, continuando però gli studi. I ragazzi così completano il ciclo scolastico con già un inserimento in azienda. “È un’opportunità da tenere in considerazione come scelta per il proprio futuro. Non dimentichiamoci che la richiesta di operatori è altissima e le imprese faticano a trovare persone. È un modo perfetto per conciliare scuola e lavoro, senza trascurare la formazione culturale che ha sempre la sua importanza”, conclude Clara Marafioti.
La LIUC riparte dopo la pandemia: la parola d’ordine per la didattica è innovazione, per continuare a migliorare le metodologie a supporto dell’apprendimento degli studenti di oggi, che un domani entreranno a far parte delle realtà imprenditoriali.
Il Covid, in questo scenario, ha scardinato ogni punto fermo: non si torna più indietro al 2019.
Il presente è fatto di un mix di soluzioni: esami e lezioni tornano a svolgersi in presenza, ma viene
anche promosso, parallelamente, l’utilizzo di strumenti digitali, come piattaforme online a supporto.
È in questo contesto che ha visto la luce LTH, Learning and Teaching Hub, il centro di innovazione della didattica della LIUC – Università Cattaneo. “Questo progetto è nato prima della pandemia a seguito di rilevazioni sulle metodologie e sulle attività formative di LIUC. L’emergenza sanitaria ha fatto da acceleratore a questo processo e nel 2021 abbiamo formato il team di lavoro”. Così Aurelio Ravarini, Delegato del Rettore all’innovazione didattica che, insieme ai colleghi Daniela Mazzara ed Emanuele Strada, porta avanti le attività dell’Hub. L’obiettivo è individuare, sperimentare e condividere con i docenti metodologie e strumenti didattici per migliorare il valore degli insegnamenti. In che modo? Attraverso un costante lavoro di ricerca e una serie di attività dedicate ai docenti che, di riflesso, sono destinate alla formazione degli studenti.
“Sono stati realizzati e sono in programma corsi di formazione per docenti – racconta Daniela Mazzara –. Per insegnare servono certamente competenze tecniche, in larga misura acquisite durante gli scorsi mesi, ma c’è bisogno anche di competenze pedagogico-didattiche”. Per avere ottimi manager d’impresa, serve un approccio d’insegnamento nuovo. Innovativo, sicuramente, ma anche interattivo. Coinvolgente e stimolante. “L’anno scorso abbiamo realizzato un corso sulla valutazione dell’apprendimento, tema molto dibattuto di riflesso a quanto accaduto durante la pandemia. Più recentemente abbiamo promosso un corso sull’espressività corporea e uno sulle tecniche di utilizzo della voce”, continua Mazzara. È importante il linguaggio verbale ma anche quello non verbale. Quello del corpo. Spesso fa la differenza. Un movimento può attirare l’attenzione.
Un tono di voce calante può far scemare l’interesse. “Tutt’altro discorso, invece, per la progettazione delle modalità di valutazione intesa, al di là del voto da verbalizzare, come una misurazione della conoscenza di un argomento – precisa ancora Mazzara –. Un supporto al processo di apprendimento”.
Per realizzare tutte queste iniziative sono stati fatti tanti investimenti. Su più fronti. “In primis sulle persone – spiega Emanuele Strada –, mettendo a disposizione dei docenti fondi destinati ad attività di sperimentazione di metodologie didattiche innovative.
In secondo luogo, sulla tecnologia, per sperimentare applicativi, strumenti e apparecchi digitali. E infine, abbiamo investito nella formazione per migliorare, sempre di più, le competenze didattiche dei docenti”. È lo stesso nome dell’Hub a spiegarne la missione: avere un punto di incontro tra tutti gli attori dell’ateneo. I docenti, gli studenti e il personale. Si tratta di un luogo fisico, in cui operano molte persone, pensato come spazio di ritrovo ma anche centro di idee, proposte e dialogo che sorge proprio in prossimità delle aule. “Uno degli strumenti usati in modo sistematico da tutti i docenti è la piattaforma Moodle – continua Strada –. In capo alla Biblioteca: il sistema consente di avere un singolo luogo virtuale
dove sono presenti tutti i corsi e i materiali messi a disposizione degli studenti dai singoli docenti”. Le comunicazioni sono immediate, i tempi si velocizzano e si possono, per esempio, inviare progetti richiesti dai professori o si possono fare lavori di gruppo. Ma non solo. Il docente può interagire in modo più dinamico con lo studente, chiedendo, per esempio, di rispondere a test o domande, per verificare il livello di apprendimento dei temi trattati a lezione. Il Learning and Teaching Hub della LIUC offre anche supporto al corpo docenti. “Da un lato individuando gli elementi di forza e le best practice per condividerle con i colleghi. Dall’altro evidenziando aree di criticità su cui lavorare e attuare interventi migliorativi – informa Ravarini –. L’attività di co-design si svolge a partire da un primo incontro con i docenti per comprendere le caratteristiche principali di un corso, sulla base di un framework di analisi che abbiamo sviluppato appositamente”. In un secondo incontro, il team LTH fornirà un riscontro su quanto emerso, “attraverso un quadro sintetico e inclusivo dei diversi aspetti della didattica analizzati – conclude Ravarini –, proponendo ai docenti, discutendo e infine definendo insieme a loro gli interventi migliorativi da mettere in campo e le modalità attuative”.
Non conosce sosta il ciclone di attacchi informatici alle imprese. Nella classifica mondiale sul numero di grandi crimini cyber, basta scendere di poco per trovare tra le principali vittime il nostro Paese: terza posizione, dopo Stati Uniti e Regno Unito. A subire la maggior parte di questi ransomware (70% dei casi) sono le aziende manifatturiere e in particolare le Pmi. Ma difendersi è possibile. A dimostrarlo, CybergON, la divisione di sicurezza informatica della Elmec di Brunello
85% delle imprese italiane subisce attacchi di cybercrime, ma solo una su quattro risulta avere gli strumenti per difendersi. Mediamente, per il 42% delle aziende si tratta di un fenomeno che avviene una sola volta al mese, mentre per il 31% sono vere e proprie minacce che si ripetono almeno due volte. Ed è bene precisare che anche una mail di phishing in grado di raggiungere un utente interno all’azienda è, di fatto, un attacco. Questi i dati raccolti da CybergON, la business unit dedicata alla sicurezza informatica della Elmec di Brunello, in un report svolto tramite Statista, la società tedesca specializzata nell’archiviazione e nell’elaborazione di ricerche. Quella dell’azienda varesina è un’indagine condotta nell’ultimo anno su un campione di 100 decisori IT, in imprese italiane con 100 o più dipendenti, che mette in luce come gli attacchi informatici siano problemi sempre più pervasivi
nelle realtà imprenditoriali tanto da occupare una parte rilevante del loro lavoro quotidiano.
Dai dati raccolti si evince, poi, che il restante 15% delle realtà intervistate non ha subìto alcuna minaccia nel corso dell’ultimo anno. Una percentuale, questa, da prendere però con le pinze, perché potrebbe essere dovuta proprio al fatto che alcune di queste aziende non si siano rese conto di essere state attaccate. Per lo stesso motivo, i dati globali in merito al volume di affari che genera il crimine informatico, possono solo essere stimati per difetto. L’indotto generato dall’industria del cybercrime, invece, si avvicina all’intero Pil di un Paese come l’Italia: un valore, questo, che cresce di anno in anno con percentuali a doppia cifra. A livello mondiale, nel 2022, il nostro Paese occupa, per numero di grandi crimini informatici registrati, la poco invidiabile terza posizione, dopo Stati Uniti e Regno Unito. A subire la maggior parte di queste minacce,
prendendosi la fetta del 70% degli attacchi, sono le aziende del settore manifatturiero, soprattutto quelle di piccole e medie dimensioni.
A causa dei nuovi scenari geopolitici, i dati di queste Pmi sono molto appetibili, soprattutto per i Paesi attualmente sotto embargo. Le ragioni di questa peculiare vulnerabilità delle Pmi sono molteplici. A partire da un processo di digitalizzazione non sempre governato al meglio: con la transizione digitale, alcune imprese si sono rese totalmente dipendenti dalla continuità di funzionamento dei propri Sistemi Informativi senza, però, studiare piani di emergenza e opportune protezioni da eventuali minacce. La pandemia, la necessaria apertura verso l’esterno dei Sistemi Informatici per agevolare il lavoro da remoto e la mancanza di formazione del personale, hanno poi fatto il resto, allargando, così, la superficie di attacco a disposizione.
Ma, esattamente, questi criminali
informatici, come riescono ad addentrarsi negli archivi digitali delle imprese? Il più delle volte si tratta di attacchi che avvengono tramite quelle situazioni definite “by opportunity”: in pratica, il malcapitato incappa in un phishing, una trappola generica tesa tipicamente via mail ad una molteplicità di soggetti e così, involontariamente, compromette le proprie password e fornisce ai criminali l’accesso ai sistemi aziendali. Solitamente, poi, l’attaccante si accorge di avere tra le vittime un obiettivo particolarmente interessante e da lì inizia un assalto personalizzato con esportazione dei dati, compromissione dell’intera rete e, infine, crittografia massiva dei dati e richiesta di riscatto. In casi molto più rari, invece, l’obiettivo viene individuato a priori e attaccato su vari fronti fino all’ottenimento del controllo sul sistema. La vendita dei dati rubati è l’inevitabile epilogo di ogni attacco. Esistono, poi, altre situazioni meno impattanti sotto il profilo informatico ma non dal punto di vista economico. Un esempio, sono le sempre più diffuse truffe “man in the middle” o “man in the mail”, che consistono nel dirottare i pagamenti delle fatture sui conti dei criminali. Senza dimenticare le pericolose
sostituzioni di persona, attraverso le quali si invitano amministrativi in buona fede ad effettuare dei bonifici, talvolta consistenti, su conti esteri a disposizione delle cybergang.
Gli incidenti informatici, dunque, avvengono e piuttosto frequentemente, ma esistono anche le tecnologie per prevenirli e contrastarli. “Ciascuna impresa ha un livello di rischio, una visibilità, una dimensione e un ambito di lavoro unico – sottolinea Filadelfio Emanuele, Ciso & Security Operation Manager di CybergON –. Quello che fanno i nostri esperti è organizzare la difesa dei sistemi delle aziende con l’obiettivo di proteggere il loro ecosistema digitale, a partire dall’asset più importante: i dati. Ecco perché abbiamo identificato 6 step secondo noi necessari a difendere l’unicità di ogni realtà imprenditoriale: protezione dei dati; attenzione alle vulnerabilità attraverso un’attività continuativa sul rimedio o sulla mitigazione; difesa dei dispositivi con un sistema di analisi comportamentale; protezione dell’identità degli utenti; awareness (formazione) degli utenti per permettergli di aumentare il loro livello di diffidenza digitale e un centro di competenza attivo 24 ore al giorno, 7 giorni su 7, in grado di
integrare le armi difensive”.
Occorre, quindi, organizzare la propria strategia di difesa attraverso l’ausilio di professionisti di provata competenza. Sapere chi chiamare è parte della soluzione, così come adottare le strategie che consentono in modo preventivo di risolvere i problemi strutturali e di monitorare i fattori di rischio.
È per questo che anche Confindustria Varese si è mobilitata predisponendo e mettendo a disposizione delle imprese il decalogo dal titolo: “PuntoZero –Un percorso di avvicinamento alla sicurezza informatica nelle imprese”. Più precisamente, una guida, a cura dell’Area Sistemi Informativi e del gruppo di lavoro costituito in seno al Gruppo merceologico “Terziario Avanzato” di Confindustria Varese, che attraverso 10 semplici step, fornisce un metodo di approccio facile, graduale e strutturato al problema degli attacchi cyber. Obiettivo: sensibilizzare le imprese affinché possano iniziare a presidiare la tematica e ad apportare le prime azioni correttive alle criticità più macroscopiche, raggiungendo così un più alto livello di consapevolezza e prevenzione rispetto al dilagante fenomeno del crimine informatico.
Arriva dall’Università degli Studi dell’Insubria di Varese RISMapp, un’applicazione in grado di tradurre (per così dire) i colori, le pennellate e le geometrie di un artista in note musicali. Alle spalle di questa progettualità innovativa, un team di matematici impegnati in una sperimentazione che, in futuro, potrebbe avere sviluppi anche in altri ambiti
Una suggestione casuale: quella di un musicista che, davanti ad un’opera d’arte raffigurativa, si chiede che tipo di musica potrebbero suggerire quei segni e quei colori impressi sulla tela. Ma anche senza essere artisti, a chi non è capitato, davanti alle tinte piene delle geometrie di un Kandiskij o alle pennellate soffuse di un Monet, di immaginare quale fosse la musica che meglio interpretasse quell’opera? Da qui è nata l’idea di provare a dare una risposta suggestiva ma non casuale, che utilizzasse strumenti e modelli matematici in grado di restituire una risposta. Il prodotto finale si è concretizzato grazie all’impegno di alcuni matematici ed ha portato a una “prototipazione” tutta made in Varese, con il coinvolgimento
della Fondazione Morandini e delle sue opere e alla creazione di un’app gratuita e scaricabile per IOS e Android denominata RISMapp, sviluppata appunto attraverso la Rism
(Riemann International School of Mathematics) dell’Università degli Studi dell’Insubria di Varese. Gli sviluppi potrebbero essere anche altri, visto l’interesse che la
sperimentazione sta riscuotendo a livello imprenditoriale e da parte di gallerie d’arte e musei.
Tutto parte da codici e algoritmi
Nella pratica, semplificando al massimo, il risultato è che i quadri possono suonare. Ovvero ciascun quadro può essere accostato a un determinato brano musicale con una approssimazione molto alta grazie a un indicatore di “similarità” che può assumere, appunto, valori percentuali molto elevati. La prototipazione è avvenuta partendo dalle opere di Marcello Morandini, che con la sua arte concreta fatta di forme geometriche in bianco e nero ha rappresentato un modello ideale per poter cominciare questo tipo di lavoro. Nello specifico caso di studio si sono riscontrati elementi di coincidenza inaspettati, in grado di unire forme di arte e periodi storici molto diversi. Dalle prime prove è emerso, infatti, che alcune opere di Morandini hanno un grado di somiglianza di oltre il 70% con Mozart, altre con le musiche di Morricone e quelle di George Gershwin. Per il visitatore
dell’esposizione la fruizione è molto semplice: scaricando l’app e inquadrando il QR Code esposto vicino all’opera, sarà possibile ascoltare le note del brano individuato come più similare all’opera stessa. Non solo, il contenuto in comune tra immagine e musica produce esso stesso una musica che RISMapp ci fa ascoltare. Ma facciamo un passo indietro per capire come ciò possa accadere. Tutto parte dalla creazione di due codici, uno che deriva dall’opera d’arte e uno dalla musica. “Nel primo caso –racconta Daniele Cassani, docente dell’Università dell’Insubria e Direttore della Rism – si è studiato un algoritmo che digitalizza attraverso un campionamento sull’opera d’arte. Allo stesso tempo è stato eseguito un secondo campionamento su un determinato registro musicale, su una compilation di brani scelti tra generi differenti, dalla musica classica al jazz, tutti, per il momento, non coperti da diritto d’autore che sono stati a loro volta codificati e digitalizzati. Il risultato finale sono due diversi insiemi di codici, quelli generati dai quadri e quelli dei brani musicali”.
Dal confronto dei codici è possibile poi andare a chiedere all’app di selezionare, per ciascuna opera, il brano musicale il cui codice sia il più possibile similare all’opera stessa. Nelle diverse fasi del lavoro il professor Cassani non era solo, con lui ci sono stati fin dall’inizio due colleghi esperti di matematica applicata, Alfio Quarteroni del Politecnico di Milano e Paola Gervasio dell’Università di Brescia.
Sviluppi e nuove suggestioni “Da quando abbiamo presentato pubblicamente il progetto – dice ancora Cassani – abbiamo riscontrato grande interesse da parte di diversi soggetti e indubbiamente si tratta di una sperimentazione che è ancora solo all’inizio e che può aprire nuove strade”. Si potrebbe pensare ad un ulteriore sviluppo che permetta al visitatore di “indagare” la somiglianza dell’opera che sta osservando rispetto ad un preferito registro musicale, che sia musica classica oppure pop o jazz, permettendo così una fruizione personalizzata rispetto ai gusti di ciascuno. Grazie a questa app, l’esperienza di fruizione viene decisamente ampliata e potrebbe portare anche un effetto per così dire “collaterale” per le persone non vedenti, che avrebbero modo di ascoltare la melodia suggerita da un determinato quadro. Sempre a proposito di sviluppi possibili, c’è anche da ragionare sulla reversibilità di questo procedimento. “Grazie all’algoritmo – spiega ancora Cassani – è anche possibile sovrapporre una nuova melodia frutto della prima e ottenuta dal rimando del quadro stesso, una sorta di gioco infinito di rimandi tra le diverse codificazioni”. Insomma, il costante dialogo tra arte raffigurativa, musica e matematica, fin dall’antichità riconosciute come discipline fortemente affini, trova in questa sperimentazione una nuova forma che utilizza le tecnologie digitali per mettere al centro la scoperta e la fruizione del bello in tutte le sue forme.
Volge al termine il cammino intrapreso da Varesefocus tra le leggende del territorio legate ai laghi. In questo itinerario conclusivo la penna dell’europeista convinto Roberto Fassi, e i suoi testi, tratti dal blog “Itinerari nella vecchia Europa”, ci porteranno alla scoperta di un misterioso cavaliere, dell’eremita del Sasso Ballaro, del Lago di Monate e, infine, della leggenda del Sass Preja Buia
Terzo e ultimo appuntamento con le leggende e i miti del continente europeo e, nello specifico, con le storie nate sulla “sponda magra” del Lago Maggiore. Alla scoperta di cavalieri misteriosi, laghi ghiacciati, tristi dame e molto altro ancora.
Sotto il pesante mantello che lo imbacuccava fino alle orecchie, il cavaliere avvertì un brivido prolungato e pungente. Trattenne il cavallo e lo costrinse ad un’andatura più cauta. Quasi al passo. Non era solo un brivido di freddo come tutti gli altri. Non era un brivido di paura che si sommava ai timori di quel viaggio pieno di insidie. Era tutto quel bianco che lo avvolgeva nella notte fonda. Un bianco che pareva senza fine, fatto di nevischio e di umidità, di nebbia lattiginosa e appiccicaticcia. Ma era soprattutto quell’immensità di neve sottilmente ghiacciata che si apriva sotto di lui e sotto gli zoccoli del cavallo. Una neve quieta, immacolata, senza traccia di vita, senza un arbusto, senza rami secchi né sassi né alberi di consolazione. Una neve di tranquilla angoscia. Ma che razza di posto era mai quello? E perché mai quella torma di cavalieri che lo aveva inseguito per miglia e miglia dentro paesi fangosi, in mezzo a boscaglie intricate, su per colline gelate, con accanimento e con voglia assassina, adesso era improvvisamente scomparsa? Eppure, erano tagliagole senza misericordia, al soldo dei pirati che infestavano da anni le coste del Lago Maggiore. Certamente qualcuno, tra la gente dei suoi paesi, aveva tradito e aveva rivelato quella sua missione di messaggero per il Visconti, il duca milanese al quale recava una richiesta d’aiuto contro i corsari che con le loro scorrerie rendevano ormai impossibile l’esistenza nei millenari borghi costieri dell’alto Verbano. Non poteva che essere così, visto che si era trovato addosso quel branco selvaggio appena sbarcato a Luvino e l’inseguimento era continuato senza tregua, con rabbia e con furore, fino al villaggio denominato de Ghivirate. Una corsa disperata per evitare che le loro lame a pagamento gli lacerassero in modo conclusivo i vestiti fradici e le carni sudate. Gli pareva ancora incomprensibile la vista delle loro sagome evanescenti
che si arrestavano all’improvviso nella nebbia e ristagnavano immobili ai bordi di quella piana candida. Lui invece aveva continuato a cavalcare, ma sempre più lento e incerto e stupito su quella neve incorrotta. Scosso dai brividi, stremato dalle emozioni inconsuete. Adesso schiacciato da quella solitudine senza suoni e senza colori. Doveva essere quasi l’alba. La luce flebile penetrò infatti la foschia e gli mostrò un ciuffo di cannette. Un cespuglio con pendagli di ghiaccio. E un contorto salice piangente. E poi un boscaiolo dalle mani pelose che faceva rumore e spezzava rami secchi e che gli disse irriverente: “È un’ora insolita, mio signore, per fare due passi sul lago ghiacciato”.
del Sasso Ballaro Tanto tempo fa (si dice che fosse il 1200) c’era un piccolo naviglio che, all’imbrunire d’una sera d’estate, solcava le acque leggermente increspate del Lago Maggiore, dirigendo la prua verso il porticciolo di Arolo. A poppa stava beatamente seduto messer Alberto de’ Besozzi, nobiluomo e mercante di stoffe. Si godeva il panorama e si stropicciava soddisfatto le mani, in un gesto che gli era consueto dopo una giornata di buoni affari ai mercati della sponda grassa, tra Pallanza e le isole di Stresa. L’approdo era ancora lontano quando, come succede ancor oggi in certi giorni d’estate, un improvviso vento di tempesta cominciò a soffiare impetuoso dai fianchi delle montagne d’occidente. Un temporale incattivito si rovesciò senza indugi e senza clemenza sul lago. Alberto de’ Besozzi finì di stropicciarsi le mani e le adoperò svelto per rimanere avvinghiato alle fiancate della barca flagellata da violente ondate e da scrosci di pioggia torrenziale. Naturalmente non erano certo le monete d’oro ricavate dai buoni affari del giorno che lo potevano trarre d’impaccio in quella disperata situazione della sera. E non ci riuscivano nemmeno i due servitori che tentavano invano di riprendere il controllo dell’imbarcazione. Il piccolo naviglio si frantumò contro la sponda magra che in quel tratto era particolarmente ossuta, aspra e inospitale. Il lago in tempesta si accanì a lungo contro le rocce, contro i legni spezzati e contro le miserie degli uomini. Solo un vero e proprio miracolo salvò Alberto de’ Besozzi da quel naufragio aggressivo e senza cuore. Il mercante riuscì a stento ad aggrapparsi a uno di quegli arbusti che resistevano gagliardi, a pelo d’acqua, tra gli anfratti rocciosi. Si issò a fatica su uno sperone di roccia meno
scivoloso degli altri e scovò un buco protettivo scavato nel tempo dalle acque del lago e messo lì, a disposizione del miracolo in corso. Il naufrago si abbandonò in quella spelonca di salvataggio, sfinito e sanguinante. Quando riprese conoscenza era un uomo malconcio nel corpo, ma rimesso a nuovo nell’anima. Sopravvisse da eremita dedito alla preghiera in quell’antro a picco sul lago e si fece fama di sant’uomo con le genti dei dintorni che gli portavano di che sfamarsi. All’anacoreta Alberto de’ Besozzi, anticamente uomo d’affari dalla bella vita e ora asceta dalle virtù miracolose, si rivolgevano ricchi e poveri nei periodi grami di pestilenza e di carestia. La costa rocciosa del Sasso Ballaro divenne il luogo di una particolare devozione e, quando venne il tempo, gli uomini delle rive vi edificarono una cappella che era, anch’essa, un vero miracolo di equilibrio costruttivo. E considerato che questo era il destino di quei sassi scoscesi, lì attorno si insediò anche una comunità di monaci che diede vita allo spettacolare Eremo di Santa Caterina del Sasso.
Tanto tempo fa (si dice che fosse appena cominciato il Medioevo) la bella Motena governava in beltà e saggezza le terre a oriente del Lago Maggiore dove si apriva una verde e vasta conca tra il monte Pelada e le colline dei dintorni. Da lontano il truce sire di Capronno, suo vicino di feudo, ammirava quel paesaggio e, di quando in quando, ammirava pure la bella Motena e si rodeva dentro. L’aveva già chiesta in sposa una decina di volte, ma quella si faceva beffe di lui: una volta aveva il mal di testa, un’altra volta non era la stagione adatta, un’altra volta ancora aveva la luna storta. Il truce sire di Capronno, di anno in anno, si vedeva sfuggire di mano quel verde feudo che gli piaceva tanto e quella bionda castellana che gli piaceva altrettanto. Venne la primavera, una delle tante e venne anche un giovane e aitante cavaliere che aveva tutte le prerogative per attrarre la bella Motena: lei, infatti, se ne invaghì e in men che non si dica se lo sposò mentre il sire di Capronno schiumava di rabbia. Venne poi anche la guerra e tutti i cavalieri del regno
ci andarono per difendere le proprie terre e l’onore del re. Motena attese a lungo il ritorno del proprio sposo dalla guerra. Attese fin quando non vide avvicinarsi un lungo corteo di uomini d’arme che attraversava la verde e vasta conca. Alla testa del corteo, vivo, vegeto e sempre più truce, stava il sire di Capronno: su un carro bardato a lutto trascinava il corpo di un cavaliere giovane e aitante ma, ahimè, trafitto a morte da una lunga lancia. “Cose che succedono in guerra”, disse beffardo il sire di Capronno alla bella Motena che aveva riconosciuto il corpo del suo sposo riverso sul carro.
Ogni giorno Motena, che era rimasta bella nonostante il dolore che la aff liggeva, si recava
Il blog “Itinerari nella vecchia Europa”, pensato e popolato dalla penna di Roberto Fassi, racchiude una serie di itinerari turistici mirati, facilmente consultabili, con caratteristiche ben definite. Come, ad esempio, il riferimento al continente europeo, la scelta di una città-fulcro attorno alla quale ruota l’itinerario e la volontà di privilegiare la sfera letteraria, artistica, scientifica e cinematografica nei percorsi proposti. Il tutto tenendo bene al centro della narrazione l’Europa.
al centro della verde conca dove il suo cavaliere era stato sepolto e piangeva disperata fiumi di lacrime. Piangeva, piangeva così intensamente che un giorno anch’ella lasciò quella valle di lacrime e si unì al suo sposo nell’eterno riposo. Furono probabilmente gli spiriti delle acque che, mossi a compassione per quel grande dolore, raccolsero le lacrime della bella castellana e con tutto quel liquido a disposizione formarono un azzurro e tranquillo laghetto nella verde e vasta conca: è il Lago di Monate, le cui acque sono sempre limpide e trasparenti esattamente come tanto tempo fa.
Tanto tempo fa (si dice che fosse il 200 o il 300 a.C.) c’era un drago che, a detta dei frequentatori di leggende, altro non era se non un pescatore del Lago Maggiore che si era fatto sorprendere in abiti succinti e in atteggiamenti svenevoli a contatto con la dea Venere che già, per sua natura, di abiti ne faceva a meno fin dalla nascita. I due erano stati colti in flagrante su quelle rive dal padre della dea, Giove, il quale, non volendone sapere di avere un genero di basso rango e che magari puzzava di pesce, con un colpo di fulmine l’aveva tramutato in drago. È difficile capire cosa passi per la testa di un drago perché, anziché prendersela con quel suocero irascibile, il drago-pescatore scatenò la sua rabbia schiumante contro i territori del basso Verbano che avevano visto l’inizio e la fine del suo colpevole amore con una dea. Pasciuto di una infernale mistura di erbe, il nuovo mostro vomitò fuoco e fiamme dalla potenza distruttiva straordinaria: le lingue di fuoco ammorbarono e scheletrirono il territorio circostante con il tipico effetto di un’esplosione atomica di tot megatoni. Le genti di quei tempi e di quei posti, ignare delle unità di misura con cui si calcola l’energia emanata
da uno scoppio atomico, pensarono solo a trovare scampo dinanzi all’inesorabile avanzare di quei fumi mortali. Nel massiccio esodo molti sciagurati ci rimisero la pelle. In cerca di una via di fuga c’era anche la povera moglie di quel pescatore libertino. La donna portava sulle spalle il figlio minore e trascinava a fatica il maggiore. Stremata, stretta in una morsa di veleni letali, cadde riversa nella boscaglia cercando di fare scudo, con il suo corpo e le sue vesti, ai due ragazzi innocenti, ormai moribondi. Così la trovarono gli indigeni superstiti quando ripopolarono le antiche lande devastate. Anzi, proprio di fronte ai loro occhi, quel simbolo dell’amore materno si trasformò, per un portentoso sortilegio, in un’enorme chioccia di pietra dorata che proteggeva i propri piccoli. Un magico, longevo monumento alla mamma.
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Hanno tra i 17 e i 25 anni. Sono accomunati da una grande passione per l’attualità, i temi politici, l’economia. E hanno un obiettivo: creare spazi di dibattito per le nuove generazioni, scardinando le bolle d’informazione degli algoritmi attraverso il confronto reale tra opinioni diverse. Sono le ragazze e i ragazzi dell’associazione Politics Hub. Una vera e propria community (apartitica) che, tra Busto Arsizio e Legnano, sta riuscendo ad appassionare i cittadini di ogni fascia di età ad una nuova partecipazione civica
Igiovani disinteressati alla politica? “Non è vero, semmai è la politica a disinteressarsi dei giovani”. Ragazze e ragazzi disinformati a causa dei social network? “Ma i ragazzi sui social cercano l’intrattenimento, l’approfondimento delle notizie avviene su altri canali. E comunque sanno meglio di altri distinguere tra verità e propaganda”. Le nuove generazioni polarizzate in un voto che si posiziona sugli estremi di destra e sinistra? “In realtà le scelte politiche degli under 25 sono meno dettate dalle ideologie e più legate al pragmatismo”. Alessandro Lupi, classe 1999, è Presidente di Politics Hub, un’associazione di studenti tra i 17 e i 25 anni nata nel 2019 e che opera tra Legnano e Busto Arsizio. Almeno per il momento. L’ambizione di espandersi con le proprie attività, infatti, è grande. “Stiamo già puntando ad organizzare qualche evento su Milano”. Obiettivo: avvicinare i giovani alla politica. Ma non solo. I loro dibattiti si aprono spesso a tutta la cittadinanza, come avvenuto anche in occasione dell’ultima tornata elettorale nazionale durante la quale hanno organizzato incontri con i candidati nei collegi locali. Momenti di approfondimento, gestiti con passione e altrettanta professionalità, che, anche per questo, hanno raccolto la partecipazione di centinaia di cittadini di ogni fascia di età.
Togliamoci subito il pensiero: siete un’associazione politica di destra o di sinistra?
È una domanda che ci pongono tutti. Ma per occuparsi di politica e avere la passione di approfondire e studiare l’attualità non bisogna essere per forza schierati. Noi non lo siamo. Lo scopo di Politics Hub è quello di creare degli spazi dove i giovani possano parlare di politica liberamente e informarsi anche con dibattiti e confronti tra gli iscritti e aprendosi alla società. Lo facciamo con una prospettiva del tutto apartitica. Intendiamoci, ognuno di noi ha le proprie idee, ma nessuna prevale sull’altra nella linea dell’associazione improntata all’equidistanza. Offriamo un servizio ai giovani insoddisfatti dai pregiudizi e dagli stereotipi che li circolando.
Nessuna etichetta, dunque. Ma possiamo definire i ragazzi di Politics Hub quanto meno un’eccezione nel panorama giovanile, spesso apatico nei confronti della politica? Anche questo è un luogo comune. I giovani seguono la politica. O comunque lo fanno
sugli stessi livelli dei senior. I tassi di astensione al voto lo confermano. Più o meno siamo sulle stesse percentuali. Certo, visto i numeri dell’ultima tornata questo non conforta. Ma è proprio su questa passività che vogliamo incidere. Vogliamo interrompere un circolo vizioso di una politica che spesso parla di giovani ma che non li ascolta e non li mette al centro della propria proposta. Ci sono troppo pochi politici giovani e troppe poche proposte per i giovani nei programmi.
Come riuscire a invertire questo trend, secondo voi? Serve un nuovo patto tra cittadini e politica. I primi devono essere più consapevoli di quanto occuparsi di politica in prima persona possa migliorarla. I politici, da parte loro, devono mettersi al servizio dei cittadini, prima di tutto dei più deboli.
Detta così siamo tutti d’accordo. Però nei fatti questo non avviene perché non si punta sul legame con il territorio. Servono più scelte coraggiose che la politica oggi non fa. Manca la capacità e la forza di andare controcorrente. Guardiamo all’esempio dei candidati alle ultime elezioni politiche, catapultati spesso in collegi che non conoscono. Come creare vicinanza alla politica se il candidato non conosce il territorio e viceversa? Ripartiamo per esempio da qui.
È di questo che parlate nei vostri dibattiti? Sì, anche. Tutto è partito nel 2019 nella Parrocchia di San Magno a Legnano. Eravamo un gruppo di una quindicina di ragazzi e ragazze, la gran parte del Liceo Crespi di Busto Arsizio. Amici che si riunivano a parlare di politica, attualità ed economica. Poi ci siamo aperti agli ospiti esterni. Il primo è stato il Presidente della Provincia e Sindaco di Busto Arsizio, Emanuele Antonelli. Poi l’ex Ministro della Difesa del Governo Letta, Mario Mauro. Durante il lockdown abbiamo scritto un libro sull’economia con introduzione di Carlo Cottarelli e del rettore della LIUC – Università Cattaneo, Federico Visconti. Siamo anche molto presenti sui social dove facciamo approfondimento e curiamo articoli di spiegazione dei fenomeni d’attualità. Nel tempo ci siamo occupati e abbiamo dibattuto di aborto, di elezione del Presidente della Repubblica, di guerra in Ucraina. Non arriviamo mai ad una sintesi, intesa come posizione ufficiale di Politics Hub. Il nostro obiettivo è aiutare le persone a costruirsi le proprie idee sulla base del confronto. Siamo arrivati ad essere in 60 a condividere questa azione.
Insomma, tutto quello che non ci si aspetta dai giovani.
Perché non li si conosce e si ha di noi un’idea distorta. I giovani non sono divano e Netflix. Con le condizioni giuste, i ragazzi e le ragazze sono pronti all’impegno più di quanto si pensi. Ecco, noi puntiamo a creare quelle condizioni. O almeno a contribuire alla loro costruzione.
Per esempio?
Scardinando le bolle d’informazione spesso dettate dagli algoritmi che ripropongono a chi è di destra informazioni e opinioni di destra e chi sta a sinistra idem. Combattiamo questa riproposta delle proprie convinzioni aprendo spazi di dialogo e confronto con chi la pensa diversamente.
Chi ha una tessera di partito può entrare a far parte di Politics Hub?
Sì, certo che può, ma rispettando determinate regole: non potrà entrare a far parte del nostro Consiglio Direttivo e non può sfruttare la partecipazione ai nostri incontri per fare propaganda.
Come interpretate i risultati del voto tra gli under 25? Tra i più giovani, ad esempio, il cosiddetto terzo polo raddoppia il proprio consenso, il M5S guadagna 5 punti percentuali, il Pd è coerente con se stesso, Fratelli d’Italia perder 12 punti percentuali. Cosa ci dicono questi numeri?
Anche tra i giovani c’è un senso di appartenenza tra destra e sinistra, ma è meno forte. Il voto è meno ideologizzato e più fluido. Il bipolarismo interpreta meno il consenso tra gli under 25. Conta molto di più il pragmatismo della proposta politica e la capacità di leadership. C’è tra i giovani una richiesta crescente di questo. Ma anche di coerenza.
È trascorso un quarto di secolo dalla sua fondazione, tra trasformazioni, mostre e tanti progetti. Il racconto di un patrimonio di cultura d’impresa, nato nella sede dell’ex Cotonificio Ottolini, che ora ospita, tra i tanti reperti, una serie di pregevoli quaderni di tessitura oltre che un archivio campionari di ben 4.000 pezzi, insieme ad una serie di macchinari dedicati alla filatura, alla tessitura e al finissaggio
L’identità culturale ed economica di Busto Arsizio è sempre stata legata al mondo del tessile. Nel suo momento di massimo fulgore veniva chiamata la Manchester d’Italia e con Biella e Como rappresentava il fiore all’occhiello del tessile italiano: Busto per il cotone, Biella per la lana e Como per la seta. Anche nel sociale, il tessile è permeato in modo profondo, a tal punto che sono nate due maschere riconosciute a livello nazionale: il “Tarlisu”, realizzato con il tessuto usato per ricoprire i materassi e la “Bumbasina”, creata con un tessuto più leggero, con il quale venivano fatte le lenzuola. E non mancano neppure espressioni nella lingua parlata, come: “Non fare flanella”, per indicare di non perdere tempo (La flanella è uno degli scarti della lavorazione del cotone). Proprio a questo mondo, al suo ricordo e alle sue tradizioni, è stato dedicato il Museo del Tessile, nato 25 anni fa. E sono Manuela Maffioli, Assessore a Cultura, Identità e Sviluppo Economico, nonché Vicesindaco di Busto Arsizio ed Erika Montedoro, da poco nominata conservatrice del Museo, a raccontarci la storia di questo luogo, le sue attività e i progetti per il futuro. Il Museo nasce nella sede dell’ex Cotonificio Ottolini fondato alla metà dell’800 e diventato Cotonificio Bustese nel 1915; la parte oggi adibita a Museo è solo una piccola porzione di quella che era la fabbrica nel suo periodo di massima espansione: il reparto filatura. Nel tempo il cotonificio si era talmente ingrandito da occupare l’intera via Volta, compresa l’area verde
antistante il museo. Negli anni ‘70 il cotonificio ha chiuso i battenti e nel 1990 l’intera area è stata acquisita dal comune di Busto Arsizio per farne un polo civico. Di tutti gli edifici che costituivano il complesso, è stato mantenuto il solo nucleo centrale, per intenderci quello il cui fronte presenta le due torri. Nella parte retrostante si trova un cortile quadrato all’aperto, oggi utilizzato per diverse manifestazioni e due aree coperte, all’occasione allestite per mostre temporanee. Gli altri edifici sono stati abbattuti e l’intera area destinata a verde pubblico. L’assessore Maffioli ci racconta che di recente si è pensato di ridisegnare il Museo in tutti i suoi aspetti e per farlo si è incominciato dal personale. Si è indetto un bando per una figura di conservatore a tempo pieno. Prima una sola persona part-time si occupava sia del Museo del Tessile sia di Villa Cicogna, sede del Museo di Arte Moderna. Dal dicembre del 2021, sono stati nominati due curatori distinti per le due entità e Erika Montedoro è colei che si occupa del Museo del Tessile. Suo intento è quello di valorizzare e studiare il materiale contenuto nel Museo che vanta una serie di pregevoli quaderni di tessitura oltre che un archivio campionari di ben 4.000 pezzi, che in futuro verranno esibiti al pubblico a rotazione, con eventuali mostre tematiche. Si sta anche lavorando all’introduzione della realtà aumentata negli spazi espositivi, tramite la visione di filmati, con suoni e rumori provenienti dai filmati storici dell’Istituto Luce. Il Museo attualmente si sviluppa su tre piani. Al piano terra si trovano macchinari dedicati alla filatura, alla tessitura e al finissaggio. Al primo piano è possibile visitare uno spazio dedicato alla tessitura Jacquard, tecnica inventata nel 1805 che utilizza schede perforate tramite le quali è possibile produrre tessuti anche molto complessi con un solo operaio. Segue una sala campionari ed etichette e una vetrina dedicata a Enrico dell’Acqua, pioniere dell’esportazione tessile in Sud America. Dell’Acqua era andato alla ricerca di comunità italiane stabilitesi in Sud America con le quali aveva intrecciato degli scambi commerciali, legati inizialmente all’acquisto del cotone e all’esportazione del prodotto finito. A questa prima fase ne è seguita un’altra in cui aveva fatto impiantare degli stabilimenti in loco, dove la produzione avveniva nello stesso luogo di reperimento della materia prima. Sempre sul medesimo piano vi è poi una parte didattica dove è possibile sperimentare
la stampa a mano con gli antichi blocchi di legno provenienti dalla Zucchi Collection.
Al secondo piano, invece, si trova la biblioteca del Museo del Tessile, che è rivolta agli studiosi e agli appassionati, una sala dedicata alla Schirpa, la dote che veniva data alle spose, realizzata con tessuti locali e un ulteriore spazio dedicato alle fibre nuove, vocazione alla quale si sono convertite diverse aziende tessili del territorio, specializzate in tecnologia avanzata e innovazione. Per capire l’alta tecnica dei prodotti realizzati, basti pensare che una di queste aziende è uno dei fornitori della Nasa. Nello stesso spazio è allestita anche una curiosa collezione di Antonio Ferramini sugli antichi strumenti di sartoria. Sarto di professione, ha raccolto nel tempo una collezione di oltre 800 pezzi. Tra le iniziative del Museo vi sono visite guidate, domeniche tematiche e attività didattiche per scuole e bambini. Per quanto riguarda le mostre vi è una programmazione sulla Fiber Art, l’arte legata all’utilizzo di materie prime legate al mondo del tessile o alla loro armatura, (l’arte di intrecciare i filati) o entrambe. Dal 2018 il Museo del Tessile è una delle tappe del Mini Art Textil, unica mostra itinerante in Europa con cadenza annuale. Negli anni precedenti alla pandemia e precisamente nel 2019 sono state promosse altre iniziative di rilievo, tra cui una mostra di Maria Lai, l’artista sarda che prima ha sdoganato la Fiber Art, esponendo alla Biennale di Venezia del 1978. È dello stesso anno l’omaggio a Leonardo Da Vinci con la ricostruzione in scala ridotta delle macchine tessili da lui studiate e da lui definite “la più bella e sottile invenzione”. Si è poi di recente conclusa proprio nel Museo del Tessile una importante mostra mondiale: “The soft revolution” che celebrava il venticinquesimo anno di vita del Wta (World Textile Art), che casualmente ha coinciso con i 25 anni di nascita del Museo, una buona occasione per accomunare le due iniziative. La mostra ha visto la luce
contemporaneamente in 15 Paesi diversi, tra cui per la prima volta l’Italia. Per il salone bustocco sono stati invitati 25 artisti italiani o residenti in Italia per esporre le proprie opere. Tra i futuri traguardi dell’assessore Maffioli c’è la promozione e creazione di un turismo diverso, fatto di appassionati di archeologia industriale.
Per questo, con capofila il Museo del Tessile, è nata Miva (Musei Industriali del Varesotto), la prima e unica rete italiana di musei industriali, che comprende otto realtà dei più disparati settori produttivi: si va da Volandia, al Museo della Pipa di Brebbia, dal Museo Flaminio Bertoni, al Museo Agusta, per non dimenticare il Museo della motocicletta Frera, il Museo Fisogni della Stazione di Servizio, il Museo delle Industrie e del Lavoro del Saronnese e a breve entrerà a far parte anche il Museo della Ceramica di Cerro. L’idea è creare dei percorsi di visita in grado di attrarre gli appassionati, offrendo loro una serie di servizi che vanno dagli itinerari, ai luoghi dove mangiare e soggiornare. Il lavoro è ancora lungo, rivela l’assessore, ma alla base c’è un grosso entusiasmo e un’energia positiva che sicuramente daranno i loro frutti.
Una gita, da organizzare anche nel periodo invernale, alla riscoperta di sentieri e tesori lungo le aree umide dei Fontanili, ai piedi delle colline moreniche di Jerago con Orago, Cavaria e Gallarate. Percorrendo strade dimenticate, paludi e siti archeologici, a piedi oppure in bicicletta. Proprio come usavano fare i genitori dei nostri genitori
Ci sono aree boschive ricche di fascino e legate a preziose tradizioni locali, quasi dimenticate. Alcune di queste, durante i periodi di restrizioni dovuti alla pandemia, sono state riscoperte.
Una bellezza vicino casa che merita di essere conosciuta e percorsa, anche per essere salvaguardata, che ripercorre storie antiche dei nostri nonni, quando, invece di prendere la macchina per andare lontano, si esploravano i dintorni in bicicletta e a piedi.
Una di queste è un vero e proprio polmone verde all’interno di una zona fortemente urbanizzata: si tratta dell’area umida dei Fontanili, collocata ai piedi delle colline moreniche di Jerago con Orago, Cavaria e Gallarate. Un reticolato di sentieri nei boschi che si può estendere, grazie a collegamenti e sentieri, fino ai vicini comuni di Arsago Seprio e a luoghi ricchi di fascino come Centenate e l’area archeologica della Lagozza. Ne percorriamo alcuni con l’aiuto della guida ambientale escursionistica Alice Mometti, originaria proprio di queste zone.
Il Sentiero dei Fontanili
L’itinerario, pianeggiante e facile da percorrere, parte nei pressi della strada provinciale 26 a Besnate ed è lungo circa 3 chilometri. Il percorso si sviluppa attorno alla palude centrale, tra i boschi di prugnolo tardivo, robinia, quercia, betulla, biancospino e sambuco. Ma si può raggiungere anche partendo dal rione Caiello di Gallarate e inoltrandosi nel bosco seguendo le indicazioni per il sentiero.
Il cammino costeggia aree pianeggianti e si addentra nel verde, tra ponticelli, piccole salite e punti di vista sempre nuovi, ruscelli e pozze d’acqua, che toccano anche i territori di Cavaria
e Gallarate. Proprio qui si trova il nuovo Centro Parco “Cascina Monte Diviso” in località Caiello, sulla sommità di Monte Diviso la prima collina morenica che troviamo risalendo la pianura dal gallaratese. Il bello del percorso molto caro agli abitanti dei comuni limitrofi, sottolinea la guida, è che costituisce un “hub verde” per raggiungere molte altre aree affascinanti nel circondario, fino a Centenate, Arsago Seprio e Casorate Sempione.
Il Castello di Jerago
Partendo dall’area verde dei Fontanili in località Cavaria, dopo pochi passi nel bosco si troverà un cartello di legno con la scritta “Castello di Jerago”. È il percorso da seguire per arrivare alla fortezza, prima di proprietà dei Visconti e poi Real Casa Austriaca fino alla fine del ‘700, quando venne acquistato dalla famiglia Bossi e Anguissola e trasformato in residenza. Oggi location per eventi e matrimoni, si può ammirare dall’esterno ed è situato in uno scenario affascinante, circondato da un’atmosfera verde e rurale.
Tra natura, borghi e archeologia
Proseguendo lungo sentieri sterrati e alcuni tratti asfaltati si può incrociare “l’Anello dei Borghi” un percorso ad anello di circa 12 chilometri, misto sterrato, boschi e asfalto (circa 20%). Proseguendo, spiega la guida, si potrà arrivare in località Centenate. Besnate, un’area umida e campestre conosciuta anche come “le risaie” dagli abitanti, ricca di aziende agricole e maneggi. Poco distante, a ridosso del bosco, si trova il sito naturalistico-archeologico della Lagozza, nel parco del Ticino. Un tempo questo luogo era una conca lacustre di 40mila metri quadri, mentre oggi si presenta come un bacino parzialmente prosciugato. Formatasi in seguito all’ultima glaciazione, ospitò un grande insediamento palafitticolo stimato intorno alle 350 unità e risalente circa al
2.800 a.C. A poche centinaia di metri, si trova anche la Lagozzetta, un secondo bacino (oggi una palude), nato anch’esso durante l’ultima glaciazione. Le due località dal 2010 sono state dichiarate S.I.C. (Sito di Interesse Comunitario) dall’Unione Europea. Se la giornata è uggiosa, si può prolungare l’esperienza di conoscere questi luoghi con una deviazione ad Arsago Seprio: il museo civico archeologico, infatti, conserva le testimonianze delle civiltà palafitticole che vivevano qui nella preistoria.
Il Museo di Arsago Seprio è un piccolo gioiello di storia collocato in un paese ricco di fascino. Conserva, nelle sue tre sale, i reperti archeologici provenienti dagli scavi condotti dalla Soprintendenza nell’ultimo trentennio. Questi consentono di seguire il popolamento di Arsago e del suo territorio a partire dalla preistoria fino ai Visconti. Dell’insediamento antico di Arsago Seprio si hanno testimonianze a partire dall’età del Bronzo finale; qui si stanziarono poi popolazioni della stirpe celtica degli Insubri che subirono dal II secolo a.C. un lento ma costante processo di assimilazione con Roma che, in età Augustea, le portò ad assumere usi e costumi romani. Da non perdere, inoltre, la ricca collezione paleontologica “Divisione Julia” raccolta tra il 1973 e oggi dal dottor (è anche medico) Giancarlo Politi e donata alla cittadina. Un patrimonio che conta oltre 400 pezzi: tra questi una interessantissima collezione del Giurassico di Solnhofen (Baviera) e dell’Eocene di Bolca.
La guida Alice Mometti consiglia, per una gita a piedi durante il periodo invernale, nella zona del Gallaratese, un giro di Malpensa. “Sono tutti boschi in piano: si può fare in bici o a piedi ed è un percorso lungo circa 33 chilometri. Partendo da Gallarate si passa da Cardano al Campo, Ferno, Vizzola Ticino, si arriva nella zona di Volandia, si torna indietro costeggiando le piste di Malpensa. Si prosegue poi lungo i canali del Ticino per risalire nella frazione Maddalena di Somma Lombardo e dirigersi verso Arsago, Casorate e, ancora, Cardano”.
Sopra, una cascina all’inizio del percorso in località Caiello. In apertura, da sinistra, uno scorcio che accoglie i visitatori a Centenate (frazione di Besnate) e il Sentiero dei Fontanili
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Luci, ghirlande e palline. I decori sono un po’ sempre gli stessi, ma per molti, addobbare l’albero, non significa solo vestire la casa di quell’atmosfera caratteristica del Natale, bensì un’occasione magica per esprimere la propria creatività e il proprio stile. Ecco, allora, qualche consiglio su tendenze, colori e decorazioni che possono rendere trendy e alla moda il vostro abete. Che sia vero, finto o fatto in casa con materiali di riciclo
è da fare l’albero!” Chi ancora non lo ha ricordato alla mamma, alla collega o al marito? Ma soprattutto, come lo si addobba? Qual è il trend di quest’anno? Cosa suggeriscono gli esperti per il 2022? Ebbene sì, ve lo confermiamo, c’è una moda anche per quanto riguarda gli addobbi di Natale, specialmente per l’abete! È importante vestirlo della propria creatività, senz’altro, ma per alcuni anche di un vero e proprio stile. Degno di una foto ricordo, da condividere in privato con gli amici del cuore o da postare sui social.
Le aziende del settore arredamento rivelano che i toni più glamour e le gradazioni più originali di quest’anno sono quelle che spaziano dal rosa tenue al blu brillante. Ma sembrerebbe che sia alla moda anche una palette dalle tonalità più calde come quelle che vanno dal sabbia al color cioccolato. Tra le tendenze 2022 anche l’elegantissimo total white con tocchi di oro e argento, sia sul classico albero dagli aghi verdi, sia su quello tutto bianco. Un candore che negli ultimi anni è stato protagonista degli stili più gettonati nell’arredamento natalizio e quest’anno sembra ritornare in voga per il suo carattere chic. Per i gusti più tradizionali, invece, ci sono sempre gli intramontabili classici: rosso, verde e oro.
Per ottenere un’atmosfera fiabesca, invece, gli esperti consigliano, poi, di tenere in considerazione i colori pastello, i fiori, i fiocchetti, combinando
un albero innevato con decorazioni della tavola e zuccherini: ad esempio, meringhe, macarons, caramelle e chi più ne ha, ne metta. Magari home made, realizzati con il feltro, il pannolenci o il compensato. Per un effetto ancora più “paese incantato”, in verità, l’ideale sarebbe un albero tutto sulle tonalità del blu e dell’azzurro, con palline glitterate e decorazioni in plastica o vetro per ricordare la trasparenza del ghiaccio. Ma ovviamente si deve abbinare anche all’arredamento di casa, agli spazi e ai componenti. Amici pelosi compresi! Ecco che allora si può optare per un qualcosa di meno dispendioso, facendolo home made. Un’ottima soluzione potrebbe essere quella di realizzarlo attraverso un bancale in legno. Basterà prendere una struttura integra in pallet, dipingerla di bianco o di verde, in modo da ottenere la forma dell’abete e decorarla incastrando tra un asse e l’altro il filo di lucine, incollando delle palline, ma anche dei fiocchi di neve e ciò che più vi piace. Per un Natale ecologico, invece, l’albero si può lasciare anche un po’ più leggero con poche decorazioni, magari in stile country o realizzate in casa con elementi naturali e sostenibili. Foglie, rametti, pigne, frutta secca, ma anche legno, nastri di juta e sughero: questi i materiali che gli esperti consigliano di utilizzare per dare spazio alla fantasia. Ma non solo. La creatività si può sfogare anche attraverso l’uso di oggetti riciclati: bottiglie, tappi, gomitoli di lana, pagine ingiallite di vecchi libri. E perché no? Calze colorate della famiglia, guanti, cappellini, collane e fotografie.
Basteranno delle piccole mollettine per riempire l’albero dei vostri sorrisi.
Ah, non dimenticate la famosa “ciliegina sulla torta”: salite fino alla punta e decorate anche quella!
Nelle sale del Castello Visconteo Sforzesco della città piemontese, i migliori interpreti del Romanticismo e della Scapigliatura milanese. Con molti capolavori provenienti anche dai Musei Civici varesini. Tra queste le opere di Bertini, Pagliano, Hayez. Presente anche l’estroso Giovanni Carnovali, detto il Piccio, originario di Montegrino Valtravaglia
Una mostra ricca di suggestioni, con i migliori interpreti del Romanticismo e della Scapigliatura milanese, è ospitata fino al 23 marzo 2023 nel castello Visconteo Sforzesco di Novara. Curata da Elisabetta Chiodini, comprende otto sezioni: la pittura urbana, i protagonisti, la Milano libera dagli Austriaci, il popolo, dal disegno al colore, la pittura di Filippo Carcano, verso la scapigliatura, il
trionfo del linguaggio scapigliato. La mostra segue un percorso ricco e affascinante tra autori come Francesco Hayez (imperdibili i suoi capolavori dedicati al dramma di Imelda de Lambertazzi e alla contessa Teresa Zumali Marsili), Giuseppe Molteni, Mosè Bianchi, Tranquillo Cremona, Daniele Ranzoni, Giuseppe Bertini, Giuseppe Grandi (immortale scultore, nativo della nostra Valganna) e tanti altri. Sfilano anche gli scorci paesaggistici di Giovanni Migliara, Giuseppe Canella, Luigi Bisi, Angelo Inganni, di una Milano amata e visitata dai suoi pittori nei più riposti angoli e raccontata in ogni edificio solenne, palazzo o chiesa, nelle sue ringhiere, nei mercati. O nei Navigli, dove correvano, fin dal Medioevo, i barconi con i marmi per la Fabbrica del Duomo. Spirano nelle opere odori e profumi, palpiti segreti di una città universale, brulicante di residenti e di visitatori, guidata nel suo evolversi, anche urbanistico e architettonico (il Teatro alla Scala e la Galleria Vittorio Emanuele ne sono esempio) da una borghesia illuminata e da un’aristocrazia fiera. Città mai davvero asservita agli invasori, orgogliosa, anche nelle componenti sociali più umili, votate a laboriosità e rispetto. E luogo di incontro di ogni creativa ingegnosità. Si vedano al proposito le opere di Molteni, pittore di illustri (particolare il ritratto di Alessandro Manzoni) ma
anche cantore degli ultimi (“La Fruttaiuola”, 1832), accanto a Gerolamo Induno. Milano si propone via via nel corso dell’800 come città colta, ricca di teatri, di cenacoli letterari, di musei, di salotti dove si costruisce la libertà contro i ribaltoni della storia. Che hanno visto il succedersi, dopo l’epoca teresiana, della dominazione napoleonica con la Repubblica Cisalpina e il Regno d’Italia, poi della Restaurazione, di nuovo sotto la casa austriaca. Soprattutto è al centro, come denuncia l’antico nome Mediolanum, di una regione ricca e attiva. Corredata dal fascino delle sue pianure, di laghi e montagne. Luoghi di svago per i milanesi o di rifugio nei momenti politici bui. Manzoni fuggirà a Lesa, a Villa Stampa, in esilio dorato. Verdi sarà ospite nelle nostre terre. E si dice che a Villa Morosini, costruita dai milanesi Recalcati nel ‘700, compose parte de “I Lombardi alla prima crociata”. Questo scambio culturale e artistico tra Novara, Milano e Varese, tra Piemonte e Lombardia, offre dunque la visione di grandi opere, ma anche di comuni percorsi di storia e libertà. Varese fu la prima città risorgimentale a liberarsi dal dominio austriaco. Era il 1859. Garibaldi passò il Ticino il 23 maggio a Sesto Calende, coi suoi Cacciatori delle Alpi. È in quel momento che Eleuterio Pagliano, artista e patriota a sua volta, nato nel Monferrato, inquadra con precisione, diremmo oggi fotografica, lo sbarco e ne fa grandiosa opera, che è attuale fulcro del Museo risorgimentale varesino di Villa Mirabello. Fissa il movimento imponente dell’arrivo, tra cielo e acque, la forza numerica e fresca di giovani votati alla causa della patria attorno al loro comandante. E li rappresenta a uno a uno. Ben diversa per soggetto e
atmosfera l’opera di Pagliano in mostra al castello di Novara, un intenso olio su tela dal titolo “Il libro di preghiere” (1857-1858). Contiene suggestioni letterarie ispirate all’artista da opere del ‘300-‘400, durante un suo viaggio a Firenze. È presente ai Musei Civici Varesini dal 1977, grazie a un legato testamentario del notaio Bonazzola. Che è donatore anche della seconda opera museale varesina in mostra a Novara, “La ragazza coi fiori”, splendido dipinto, questa volta di Giuseppe Bertini.
Appare ispirato, secondo la studiosa Lucia Pini, al personaggio di Ofelia. Ricorda analoga opera dell’artista esposta a Brera nel 1859 che si riferisce al IV atto dell’Amleto. Quando la ragazza, turbata dalla morte del padre, distribuisce fiori nella sala del trono. Pare che l’opera del 1859 andasse poi persa, ma fu a suo tempo motivo di entusiasmo, così da conquistare al Bertini la cattedra di pittura a Brera. L’artista era membro di una famiglia nota in Milano per la realizzazione di alcuni mosaici delle vetrate del Duomo. Un’altra sorpresa è la presenza di Giovanni Carnovali, detto il Piccio (1804-1873). Nato a Montegrino Valtravaglia da umile famiglia, giovane studente all’Accademia Carrara (da qui il soprannome Piccio ovvero il piccolo), scelse di vivere nel bergamasco, dopo qualche anno a Milano. Fu amico della classicità, ma la sua pittura già preludeva alla Scapigliatura e al Divisionismo. Morì annegato nel Po, mentre nuotava. In mostra, accanto a “Ragazzo con berretto rosso” e a un “Autoritratto” (entrambi 1838-1840) sono altri due suoi lavori: “Bambina con bambola” (1864) e il ritratto di “Gina Caccia” (1862). Opere più mature, dove il colore è frutto di un lavoro preparatorio e sapiente. Di chi guardava avanti.
Sopra, Pagliano, Il libro di preghiere, olio su tela, Musei Civici Varese. Nell’altra pagina, sopra, Bertini, Ofelia, olio su tela, Musei Civici Varese; sotto, Hayez, Imelda de’ Lambertazzi, olio su tela, Musei Civici Varese
Castello Visconteo Sforzesco, Novara Dal 22 ottobre 2022 al 12 marzo 2023
Da martedì a domenica, dalle 10.00 alle 19.00 Catalogo METS Percorsi d’arte Main Sponsor Banco BPM
Una chiacchierata a tu per tu con Claudio Benzoni, artista varesino poliedrico, anche grafico, pittore, scultore ed editore, che nel corso della sua carriera ha sviluppato diversi linguaggi creativi nel campo dell’espressione visiva e non visiva. Partendo dagli studi al Liceo Artistico di Busto Arsizio fino ad arrivare a fare la conoscenza di Dacia Maraini e Nanni
Quando iniziamo a scrivere o a disegnare, quasi mai sappiamo del tutto quale traguardo la nostra mano e la mente inseguiranno. Perché pensiero e parole, idee e forme, immagini e segni, nella loro dignità e motivazione d’insieme, sono i mattoni di una costruzione unica e imprevedibile. Che a nessun’altra somiglia, in quanto frutto di una ricerca e di una conoscenza che solo al suo ideatore appartiene. Lo sa bene Claudio Benzoni, classe 1949, poliedrico artista, come lui stesso ammette. Grafico, pittore, scultore, nonché editore (il vizio della ricerca che a tutto s’allarga), ha sviluppato diversi linguaggi creativi nel campo dell’espressione visiva e non visiva. E pare essere d’accordo con il geniale Basquiat, prestidigitatore dell’arte in bilico tra segno e forma: “La parola ispira le mie immagini, ma poi ne cancello le lettere”.
Dalla sua piccola patria, la verdeggiante Cantello, è sceso, da giovane studente, al sud della provincia, per frequentare una scuola d’arte.
Scelsi il Liceo Artistico di Busto Arsizio, perché nel capoluogo non era presente un Liceo parallelo. Ne sono stato allievo, prima dell’Accademia, poi anche insegnante. Arrivai
in seguito come docente a Varese, dov’era finalmente nato il Liceo Artistico, dedicato ad Angelo Frattini. E sono rimasto. Ho insegnato in tutto 27 anni.
Come giudica oggi le scuole di arte e il tipo di insegnamento? L’uso del computer consente tante possibilità e fantasiose risposte un tempo inimmaginabili. Temo però il rischio che i ragazzi perdano il contatto con la materia e la manualità. Su questo è necessario vigilare. Perché chi sceglie la strada della creatività non può fare a meno della manualità, fondamentale nella sperimentazione e crescita artistica.
Parliamo del suo percorso, del suo lavoro di grafico innanzitutto. Illustrare libri per bambini è stato il mio primo lavoro, poi cominciai a collaborare come Graphic Designer con diverse aziende, molte del territorio, dove non sono mai mancate industria e creatività. Nacquero progetti con committenti diversi, Aermacchi e Banca Commerciale Italiana, Zanussi e IBM, Novartis e Omnitel, SSB-Società e Servizi Bancari Svizzeri. E incrociavo intanto, attraverso il mio lavoro, anche Case come l’Editrice La Scuola, Emme Edizioni, Mondadori, Rizzoli e Sperling & Kupfer.
È stato quello il suo primo contatto professionale con il libro, in quanto oggetto editoriale. Prima di scoprire, era il 2006, che voleva a sua volta diventare editore, anche di libri suoi?
È così. Proprio in questo settore ho avuto incontri interessanti, che mi avrebbero illuminato sulla strada della ricerca, stimolandomi a giocare
Sopra, Biblioteca-Luce, Plexiglas trasparente, 2020. Opera esposta a Palazzo Reale di Milano, Premio Arte, nel mese di ottobre 2022. Nell’altra pagina, Parole nomadi, Stampa su seta, 2022. Installazione, Prima Scuderia Ducale-Leonardiana, Castello di Vigevano, mese di settembre 2022
tra segno e parola. Da lì è partita la mia indagine sulla scrittura e sulla possibilità di un’interpretazione figurativo-teorico pratica. Ho pubblicato sul tema anche due opere mie “Il Carattere della parola” (2013) e “In una Parola” (2014). Perché il segno è all’origine di tutto: è la prima espressione scritta atta a esprimere un concetto, a rappresentarlo. La scrittura nasce dalla traslitterazione di questi segni primordiali, ma la parola che dà voce all’oggetto ingabbia i segni in sé stessa.
Così le è venuta voglia di mettere da parte la grafica e giocare con le parole: a comporre e scomporre. Lo ha fatto con le sue opere, quadri e sculture, quando ha scelto di scendere in campo come artista. Si tratta di un serio divertissement che è entrato
nei miei lavori. Dove mi diverto a separare le lettere l’una dall’altra, a contaminare diverse forme di scrittura per cercare l’origine del segno. Tornare alle fonti del passato mi è servito a trovare nuovi simboli, codici e tracce di idee: un immaginario interminabile che ha acquistato senso proprio nella mia nuova produzione. Che per me non è il riferirsi alla natura, ma andare a cercare nella scrittura il segno primitivo. È importante ripensare al passato, perché significa ogni volta scegliere nel presente. Per rendersi conto di quanto succede attorno a noi. Soprattutto di una cultura egemone, vuota spesso di significati, ma traboccante di pretese.
Questa sua ricerca su “un’egemonia del linguaggio sempre più abusato e violato” ha dato origine a due espressioni visive che lei chiama “Il Virus” e “La Ideoscriptura”. E che si materializzano nelle sue opere grafico-digitali, in grado di coniugare grafica e pittura, alcune esposte anche nel 2017 al castello di Masnago.
Ho immaginato che, di fronte all’egemonia di un linguaggio sempre più abusato e violato, “Il Virus”, ribellandosi e aggredendo i caratteri della scrittura, aggrovigliandoli o distruggendoli, annulli ogni possibilità di espressione o supremazia di significato. La demolizione avviene per salvare il segno e mantenere intatta la sua libertà. “Il Virus” non accetta la forma unica stabilita e si allontana da ogni regola per poter danzare liberamente tra parole mutilate. “L’Ideoscriptura” si nutre a sua volta del Virus per creare nuovi movimenti, le prime risposte all’impulso espressivo e il risultato delle sue tracce, pur frutto di una contaminazione e dunque non più innocente, contiene un proprio senso. Come la scrittura. Questo ho cercato di mostrare nelle mie incisioni a laser su alluminio anodizzato o su plexiglas, così come negli acrilici o digitali su tela, a tiratura unica, presentati a Masnago.
Sembra quasi avere anticipato nei lavori precedenti quanto poi è avvenuto con il Covid. Le sue opere esposte nel 2022 alle Scuderie Leonardiane di Vigevano e a Palazzo Reale lo confermano. Il tempo della pandemia, nel silenzio di giorni che potevano apparire tutti uguali, ha rappresentato un momento per me di grande riflessione. Il virus, quello da Covid-19, ha sconvolto le nostre vite, ha scombinato le lettere della quotidianità, ma nello stesso tempo ci ha indotto a guardarci dentro e attorno, spingendoci poi a ricostruire noi stessi, a trovare parole nuove, a guarire la nostra limitata visione della realtà. Ho concepito un’opera a forma di piramide rovesciata, immaginandola (quasi un Vaso di Pandora) dapprima colma di ogni genere di problemi e preoccupazioni, tutti quelli portati dal Covid, infine svuotata e pronta ad accogliere nel suo grembo il meglio della vita. E poi ho realizzato un trittico di libri in plexiglas trasparente, dal titolo greco “Fos”, dove la luce è simbolo della mente che, nutrendosi di parole, si illumina.
Lo è, non solo per la particolarità in sé delle mie opere, ma anche perché sono partito tardi come artista e questo suscita diffidenza. Ma ho alle spalle una ricerca che dura da quando il mio lavoro è iniziato. E poi sono tenace, guardo avanti.
Come editore quali soddisfazioni ha avuto?
Sono molto fiero del mio “Donne raccontano donne” (2006), non solo per il progetto in sé, che è il rispecchiamento di figure femminili che si raccontano e si confrontano. A presentarlo ho voluto Dacia Maraini. Sono riuscito a convincerla e si è rivelata molto attenta e sensibile all’opera. È nata un’amicizia che mi ha gratificato. E lo stesso libro, durante una presentazione a Roma, mi ha portato poi alla conoscenza di Nanni Moretti, un altro incontro felice.
Quanti gradini, per usare un’espressione cara a Hermann Hesse, crede di dover ancora salire?
Credo di essere ai primi gradini. Non smetterò mai di cercare, voglio ancora sperimentare. Sono curioso, così mi sento. In questo periodo mi sto confrontando con il marmo. È una sfida impegnativa ma è un altro incontro con il passato, con le fonti originarie. Mi affascina la Stele di Rosetta. Perché da lì, da quel blocco scuro di granodiorite tempestato di geroglifici, che ho ripreso più volte, insidiandolo e giocandoci nelle mie opere, è partito tutto. E tutto si spiega e ricongiunge, attraverso il presente, il passato e il futuro.
Dai più piccoli “Diavoli rossi” al settore giovanile fino ad arrivare ai senior: gli appassionati dello sport dalla palla ovale, nel Varesotto, sono sempre di più, anche tra i giovanissimi. In apparente controtendenza rispetto ai dati relativi all’abbandono agonistico da parte dei ragazzi nel periodo pandemico. Complice una disciplina dai grandi valori, un affetto storico della città e un centro sportivo, in quel di Giubiano, da poco rinnovato e a misura di famiglie
anno che verrà sarà, di fatto, quello della ripartenza. Dopo i lunghi mesi della pandemia, quando il campo si è visto poco, ora è davvero il momento di tornare in mischia. Al Levi di Giubiano, con la palla ovale che, ricordiamolo, rimbalza male ma colpisce il cuore di chi pratica rugby. “È stato un periodo duro per tutti. Possiamo dire di averlo superato alla grande”, dicono il Presidente del Rugby Varese Giovanni Barbieri ed Emanuela Tombolato, punto di riferimento del Mini Rugby o meglio, dei “Diavoli rossi” (nome con cui sono conosciuti). Ma prima le presentazioni, ammesso che ce ne sia bisogno.
Giovanni Barbieri, biancorosso con il numero 72 sulla schiena quando giocava, è da novembre 2021 il Presidente dell’A.S.D. Rugby Varese. Un anno alla guida della società in cui ha iniziato a giocare fino ad arrivare in Prima Squadra. La prima maglia rossa con le foglie di quercia l’ha indossata all’età di 16 anni. E da quel momento non “l’ha più tolta”. Soprattutto, dicono dalle parti del Levi, non ha mai smesso di amarla. È stato per anni consigliere dell’A.S.D. e poi, per 20 anni segretario. “Pilone, uomo di fatica, di poche chiacchiere e di grande cuore”. Così lo descrivono i rugbisti che lo conoscono da una vita. Vanta anche la Bislunga d’Oro: anno 2015. Emanuela Tombolato, ma anche Vladimiro Costantini. Marito e moglie. Il Mini Rugby a Varese nasce con loro: anno 2006. E ancora oggi Emanuela Tombolato è un punto di riferimento per il settore giovanile, ma soprattutto per le famiglie e per i papà e le mamme che, per la prima volta, entrano al Levi. Tesseramenti, pianificazione delle trasferte e tutto ciò che riguarda la parte organizzativa passa da lei. Il marito, Vladi (che ha guidato il settore giovanile, ora affidato a Mario Galante, ex giocatore e che ha allenato anche della Prima Squadra) ha il compito di far fare il salto di qualità agli Under 15, leva considerata dalla Fir “di interesse nazionale”. Ma torniamo al Levi.
In controtendenza, nonostante il Covid
Torniamo al campo. Lo stop per il Covid non ha risparmiato neppure il rugby. Sport che ha il vantaggio di disputarsi all’aperto, ma che è anche di contatto. E così nei mesi della pandemia, quando anche per la palla ovale è stato impossibile tracciare traiettorie imprevedibili, a cementare il gruppo ed evitare la diaspora di atleti che ha colpito tantissime realtà sportive, il Mini Rugby Varese ha messo in campo la capacità di socializzare tipica dei rugbisti. Mondo straordinario in campo e fuori. “Conosciamo molto bene l’arte di fare di necessità virtù – dice Emanuela Tombolato – e così quando non ci si poteva allenare in campo, l’abbiamo fatto in streaming. E quando anche online non era possibile, abbiamo dato vita a momenti in cui ci si collegava per giocare a quiz sul rugby. Insomma, abbiamo sempre cercato di trasmettere l’amore per questo sport”. Una bella impresa che ha dato i risultati sperati. “Non solo non abbiamo perso i ragazzi – interviene il Presidente Barbieri – ma siamo riusciti a incrementare, anche se di poco, gli iscritti. Qualche settimana fa ho assistito a un incontro in cui si è parlato del fenomeno dell’abbandono dello sport da parte dei giovani durante il Covid. Il numero stimato è impressionante: circa 1 milione e 200mila atleti hanno smesso di fare la propria disciplina sportiva. Ecco, noi nel nostro piccolo siamo in controtendenza”. Sono cinque più una le fasce d’età che compongono il Mini Rugby. Si parte dall’Under 5 e di biennio in biennio si arriva all’Under 13. La 15 è sul filo tra settore giovanile e mondo degli adulti. Ecco questo spicchio nel Rugby Varese raggruppa più di 150 ragazzi, con gli Under 5 e 7 che fanno la parte del leone con una cinquantina di bambini. “Tenendo anche conto – continua Barbieri – che in molti genitori c’è ancora
l’idea che il nostro sia uno sport pericoloso e a volte violento”. Un pregiudizio che svanisce appena si varca l’ingresso del Levi. Un centro sportivo da poco rinnovato con una palestra coperta, un’area per la fisioterapia e una club house accogliente. “La ciliegina che mancava sulla torta”, commenta il Presidente. “Il luogo in cui i papà e le mamme si ritrovano mentre i figli si allenano – prosegue Emanuela Tombolato –. C’è chi fa i compiti con i più piccoli, chi continua a lavorare in smart working e chi invece viene solo per un aperitivo”. I confini del rugby si allargano ben oltre il campo. “Ora abbiamo tutto ciò che serve – spiega il numero uno dell’A.S.D. – e questo è davvero l’anno per tornare alla normalità. Abbiamo ripreso l’attività in campo con continuità. Proseguiamo con la promozione del rugby nelle scuole e stiamo portando avanti un progetto anche in un asilo. Inoltre, per i più grandi, l’Under 17 e l’Under 19, abbiamo stretto una collaborazione con il Tradate e unito le squadre per sopperire alle rispettive mancanze di numeri”. E ancora: “Stiamo anche lavorando con il mondo della pallacanestro. Con il ‘Basket siamo noi’ abbiamo il progetto di riqualificazione del campo adiacente al Levi dove i ragazzi del quartiere vengono a giocare a basket. Ecco per noi è importante quel campetto e in primavera lo vogliamo restituire alla gente di questa zona della città”.
Ultimo, per chiudere in bellezza, non si può non ricordare che a Varese la palla ovale è anche sinonimo di festa: quella del Rugby, che si ripete con l’arrivo della bella stagione e che nell’edizione 2022 ha radunato quasi 10mila persone in un solo weekend.
Giovanni Barbieri: “Ho assistito a un incontro in cui si è parlato del fenomeno dell’abbandono dello sport da parte dei giovani durante il Covid. Il numero stimato è impressionante: circa 1 milione e 200mila atleti hanno smesso di fare la propria disciplina sportiva. Ecco, noi nel nostro piccolo siamo in controtendenza”
Sta per arrivare il periodo più emozionante dell’anno Andrea, Emilia e tutto lo staff sono pronti ad accogliervi e a guidarvi nella scelta del regalo perfetto.
“Les Cretes”, un affare di famiglia
Riuscire a trasmettere alle vetture Porsche le idee e la personalità degli acquirenti è l’obiettivo del programma capace di rendere irripetibile ogni Porsche, proprio come un’impronta digitale, con un livello di personalizzazione unica
Matteo Dall’AvaDa Centro Porsche Varese fa sfoggio di sé una versione molto speciale della Taycan Cross Turismo, la super sportiva elettrica di Stoccarda. A renderla realmente unica, oltre alle prestazioni,
è l’allestimento in esclusiva da Centro Porsche Varese per presentare agli appassionati fino a quale punto si può spingere il Porsche Exclusive Manufaktur, il programma capace di rendere irripetibile ogni Porsche, proprio come un’impronta digitale, con un livello di personalizzazione unica.
L’unicità dell’esemplare di via Silvestro Sanvito 81 a Varese si riconosce a partire
Porsche Varese
Via Sanvito Silvestro 81 Varese
dal colore: un vivacissimo rosso ciliegia metallizzato. A tale proposito, nello stabilimento principale di Zuffenhausen, in Germania, è attivo un nuovo banco di miscelazione dei colori, dove gli esperti di verniciatura combinano diverse decine di ingredienti fino all’ultimo milligrammo per ottenere la tonalità desiderata dal cliente. Sono diverse le possibilità di personalizzazione che riguardano praticamente ogni dettaglio estetico come i cerchi da 21” satinati nero, le scritte del modello sulle porte a richiamare le leve in nero lucido o ancora la fascia luminosa sul posteriore con logo Porsche in nero. All’interno, l’abitacolo è un tripudio di pelle nera con cuciture rosso bordeaux. L’attenzione ai dettagli si traduce nella chiave in tinta con la carrozzeria. Passando all’aspetto tecnico, la Taycan Cross Turismo, studiata dallo staff varesino, monta il pacchetto Sport Chrono che prende forma nel manettino rotante installato sul nuovo volante multifunzione. Insieme alle quattro posizioni per la selezione delle differenti modalità di guida elettrica, è presente il pulsante Sport Reponse a cui è associabile una precisa risposta del veicolo proprio come nel mondo delle corse. Rimanendo nella tecnica, l’intervento del Porsche Exclusive Manufaktur si riconosce anche nel sistema PSCB, cioè Porsche Surface Coated Brake: la sigla descrive l’innovativo disco in fusione di ghisa grigia con rivestimento in carburo di tungsteno. Una lavorazione che ne migliora l’attrito riducendo l’usura e le polveri di frenatura. Il dettaglio? Le pinze dei freni sono verniciate di nero lucido e la superficie del disco sviluppa dopo la frenata una lucentezza unica. Infine, per scoprire le performance di questa super car elettrica consigliamo di visitare di persona i saloni del Centro Porsche Varese: l’auto dei vostri sogni vi attende.
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Lexus Varese Novauto Viale Ippodromo 59, Varese
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Un messia bianco in grado, negli anni Settanta e Ottanta, di mobilitare aiuti per l’Uganda da ogni parte d’Italia, sostenuto dal governo e da facoltosi mecenati. Il giornalista e scrittore Gianni Spartà ripercorre in un libro, con prefazione di Papa Francesco, la vita del missionario varesino soprannominato il “Panzer di Dio”, Vittorio Pastori, nato con un destino “segnato”: aiutare gli ultimi
“Chi ha fame, ha fame subito”, era il mantra di Vittorio Pastori, nato nel 1926 all’ombra della Basilica di San Vittore con un destino “segnato”, quello di aiutare gli ultimi della terra, a qualunque costo. Aveva una vita tranquilla, un ristorante ben avviato che serviva la crème di Varese (industriali, professionisti e intellettuali), ma la sua missione era un’altra, quella di dare da mangiare agli affamati del Karamoja, una delle aree più povere e a rischio dell’Uganda, teatro di sanguinose guerre intestine. Così Vittorio Pastori diventò Don Vittorione, un uomo gigantesco di oltre 200 chili,
un messia bianco in grado di mobilitare aiuti da ogni parte d’Italia, sostenuto dal governo Andreotti e da facoltosi mecenati. Ora la sua figura è ricordata da un libro del giornalista e scrittore Gianni Spartà e pubblicato da Pietro Macchione, “Don Vittorione l’Africano”, un affresco lungo una vita, con la prefazione di Papa Francesco, che racconta nei dettagli l’avventurosa esistenza di un benefattore che a 58 anni fu ordinato sacerdote dal vescovo di Gulu, Cipriano Kiangire, in una toccante cerimonia al Palazzetto dello Sport di Varese. Il libro esce in occasione dei cinquant’anni
di Africa MissionCooperazione e Sviluppo, la Ong fondata a Piacenza da Vittorione e dal vescovo di allora Enrico Manfredini, già prevosto di Varese e poi arcivescovo di Bologna. Don Vittorione, passato alla storia come il “Panzer di Dio” o “Bulldozer della Provvidenza”, metafora coniata dal cardinale Ersilio Tonini, incominciò come chierichetto in Basilica e poi cerimoniere, non ancora colpito dalla disfunzione ghiandolare che gli fece prendere peso condizionandogli la vita, ma non facendogli mai perdere di vista la missione alla quale si era votato.
Gianni Spartà, conosceva già la storia di Vittorio Pastori?
No, quella vera, profonda, carica di virtù spirituali per chi crede, di straordinari slanci umanitari per chi è
scettico, non la conoscevo. Sapevo del ristoratore extralarge che aveva smesso di servire primi e secondi ai ricchi di Varese per correre a sfamare gli ultimi in Africa. Sapevo che lo criticavano quando andava in tv da Mike Bongiorno e dalla Carrà a parlare di bambini denutriti, di morti per sete, di guerre e carestie. L’invidia rende stupidi.
Facciamo un riassunto della vita di Don Vittorione. Vittorio Pastori è stato collaboratore di sacerdoti e partigiani cattolici durante il fascismo, quando bisognava aiutare dissidenti ed ebrei a espatriare in Svizzera, guadando il fiume Tresa. In questa schiera di intrepidi preti varesini, spicca immensa la figura di Don Natale Motta. Poi Vittorione ha fatto l’educatore nelle colonie della Pontificia Opera Assistenza a guerra finita,
Il libro esce in occasione dei cinquant’anni di Africa Mission-Cooperazione e Sviluppo, la Ong fondata a Piacenza da Vittorione e dal vescovo di allora Enrico Manfredini, già prevosto di Varese e poi arcivescovo di Bologna
quando occorreva sottrarre alla vendetta sbandati e figli dei vinti. Nato e vissuto con la Basilica di San Vittore appiccicata alla sua casa, l’allora Vittorino non poteva immaginare simili coinvolgimenti. Lui faceva il chierichetto, organizzava processioni, la guerra con i suoi traumi gli ha cambiato la vita. Cominciò a gonfiarsi patologicamente al ritorno da un lungo internamento da rifugiato nel cantone di Berna.
Quando arriva la svolta missionaria?
Quando Don Enrico Manfredini, prevosto di Varese, diventa vescovo a Piacenza e convince Vittorione a occuparsi dell’Africa al suo fianco. Gli dice: chi ha fame, ha fame subito. E lui comincia a organizzare viaggi in Karamoja, la regione più povera dell’Uganda, chiedendo ai partecipanti di riempire le valigie di cibo. Hanno fame anche i missionari. Le valigie in breve tempo diventano container e aerei cargo. Giulio Andreotti
sposa la causa della cooperazione internazionale, siamo negli anni ’70-‘80 e mette a disposizione di “Africa Mission”, fondata da Vittorione e Manfredini, Hercules C 130 dell’Aeronautica militare. È un fantastico ponte solidale che dopo 50 anni sta ancora in piedi.
Cosa l’ha colpita di più della sua figura?
Ciò che egli chiese alla Madonna Addolorata nella Basilica di San Vittore quando aveva 10 anni: voglio diventare prete, madre di Dio aiutami. Se c’è stata intercessione, l’ha raccolta la chiesa africana, ordinandolo sacerdote a 58 anni. Il seminario l’aveva frequentato “da privatista” a Piacenza. L’ordinazione avvenne al palasport di
Varese il 15 settembre del 1984, spalti gremiti. Don Vittorione incarna una predestinazione alla santità che mi auguro diventi oggetto di approfondimento. Ci vogliono i miracoli? L’ambasciatrice ugandese in Italia dice, in una pagina del libro, che per il suo popolo Don Vittorione è già santo.
Oggi sarebbe partito per l’Ucraina? Se gliel’avessero concesso, sì. In Uganda gli spararono, lo sequestrarono, umiliarono la gente che lui aiutava, uccisero donne e bambini nei villaggi tra un colpo di stato e l’altro ai tempi dei feroci e avidi dittatori Amin e Obote. La domanda però è un’altra: dove eravamo noi europei quando laggiù soldataglie accecavano
i prigionieri prima di rinchiuderli nei lager e tagliavano le pance alle partorienti gettando per strada le loro creature? Qualcuno sentì parlare di sanzioni? Papa Francesco in una intervista televisiva il Venerdì Santo del 2022 ha detto quello che tutti pensano: un po’ razzisti siamo, questo è brutto.
Come ha ottenuto dal Papa la breve prefazione del libro?
Scrivendogli a Casa Santa Marta. Dopo qualche tempo, mi chiesero il testo e poi arrivò lo scritto con firma autografa, piccolissima. C’è questa frase: auguro ai lettori di questo libro di lasciarsi ferire dalla testimonianza di Don Vittorione. Grazie Santo Padre.
Comprendere la mente ascoltando il corpo: questo è il punto di partenza dell’autore per riscoprire la naturale unicità e genialità delle persone e per conciliare le esigenze del fisico e le aspirazioni dell’anima.
Un percorso di ricerca personale, che passa anche dal respiro consapevole ed esercizi di visualizzazione. Ciprandi è stato a lungo allenatore di pallavolo femminile, docente e formatore.
Oggi si occupa di mental coaching. Tra gli atleti che segue, da diverse discipline, il pilota varesino Alessio Rovera, che ha curato la prefazione.
L’autore si propone di accompagnare in un percorso per comprendere il potenziale nascosto della mente imparando a usare consapevolmente le emozioni per creare relazioni più armoniose e migliorare
la vita di tutti i giorni. Un approccio al mondo dell’intelligenza emotiva per sviluppare “la capacità di formulare, percepire e interpretare i desideri propri e altrui”, indispensabile al miglioramento delle dinamiche relazionali, allenando soprattutto la relazione con se stessi. Insegnare a usare le emozioni anzichè reprimerle è tema quanto mai attuale e che merita una riflessione personale.
emotionalpower.eu
Un libro davvero originale che racconta una storia, ma anche un mestiere e una famiglia. Il noto paleontologo Cristiano e suo figlio Stefano, classe terza elementare, accompagnano in un viaggio nel tempo i lettori di ogni età. Tra storia e preistoria, tra domande e risposte, in un racconto alla scoperta dei dinosauri, affascinante come una fiaba.
Ma più reale del re. Cristiano Dal Sasso è curatore della sezione Paleontologia dei Vertebrati al Museo di Storia Naturale di Milano, il più antico museo civico milanese, fondato nel 1838.
edizionipiemme.it
I libri di queste pagine sono consultabili, anche in prestito (su appuntamento o previo contatto telefonico), alla Biblioteca “Mauro Luoni” di Confindustria Varese (in piazza Monte Grappa, 5 a Varese, terzo piano). Tel: 0332.251000. E-mail: biblioteca@univa.va.it
Apochi giorni dal Natale perché non sfogliare il “Catalogo delle Grandi Comete”? Con le loro scie luminose, le comete attraversano lo spazio e la curiosità degli esseri umani fin dai tempi antichi. Un viaggio alla scoperta delle grandi comete che hanno illuminato cieli antichi e contemporanei e che cacciatori di comete di ogni epoca hanno imparato a riconoscere. Da quella del 1471 alla Hale-Bopp, passando per la Donati e per la Halley: code, chiome e periodi orbitali di centinaia di anni raccontano la profondità del rapporto fra l’umanità e il cielo. In collaborazione con INAF - Osservatorio Astronomico di Capodimonte.
nomosedizioni.it
Gli organizzatori dei Giochi di Monaco del 1972 avevano un obiettivo: cancellare il ricordo della precedente edizione disputata in Germania (Berlino 1936, i Giochi di Hitler) e presentare
la loro nazione come un Paese finalmente moderno. Tutti gli sforzi vennero vanificati dall’atto terroristico in cui furono uccisi atleti e allenatori di Israele. La cronaca, giorno per giorno, di quella tragedia raccontata da un autore che, pur essendo all’epoca un bambino, era già un grande appassionato di sport. L’autore, nato ad Alessandria, giornalista anche per “La Stampa”, nel 2019 ha pubblicato il romanzo “Correndo a vuoto”.
ultraedizioni.it
“Stelle capaci di esaudire desideri.../ Cassetti che custodiscono sogni.../ Giocattoli che insegnano la felicità.../ Ombrelli che non si bagnano mai...”.
Magiche storie per illuminare le notti d’inverno e non sentirsi soli. Nella stagione in cui le giornate si accorciano e il buio scende veloce, servono storie, magari lette ad alta voce, per rischiarare. Con le illustrazioni dell’artista Paola Formica, collaboratrice anche della nostra rivista. tsedizioni.it
Le ultime notizie sulle #ImpresediVarese dal web e dai social network. Solo su
Fiamma è una realtà di riferimento mondiale per il settore degli accessori per camper, caravan, furgonati e minivan. Il segreto del successo? Creare un ambiente di lavoro sereno, favorire un clima disteso e venire incontro alle necessità dei dipendenti. Ma anche investire risorse nella comunità di Cardano al Campo per dotare, ad esempio, l’asilo nido comunale di nuovi spazi all’aperto.
La Spica di Castiglione Olona festeggia il nuovo sistema di trigenerazione. Quello che l’impresa ha celebrato con una festa in stile bavarese, è un progetto aziendale parte di un più ampio investimento che guarda alla sostenibilità. Obiettivo: diventare una società ESG (Environmental, Social e Governance) compliant, impegnata sui fronti della sostenibilità ambientale, sociale e amministrativa.
È grazie alla Cumdi di Germignaga, specializzata nella lavorazione di metalli, che l’ex torcitura di Rancio Valcuvia tornerà a vivere. Lo stabile, in stato d’abbandono dal 2004, è stato acquisito lo scorso anno dall’azienda luinese e ora, grazie ad un investimento di oltre 30 milioni di euro, verrà riqualificato in nuovo polo di produzione per l’impresa.
NCAB Group Italy, filiale italiana del produttore svedese di PCB, da poco più di un anno ha scelto la provincia di Varese per il proprio quartier generale. L’azienda ha presentato per la prima volta la sua strategia di sostenibilità in una giornata moderata dal professor Emanuele Pizzurno della scuola d’ingegneria industriale della LIUCUniversità Cattaneo.
Un investimento di oltre 2 milioni di euro per aprire un nuovo reparto specializzato nella progettazione di occhiali fresati in acetato di cellulosa, che si andrà ad aggiungere alla realizzazione
di occhiali iniettati. Mirage, azienda di Venegono Inferiore, aprirà un nuovo stabilimento, completamente digitalizzato, nel rispetto della filosofia “lean”, che guarda alla sostenibilità.
La bella comunicazione o, meglio, la comunicazione della bellezza di un’azienda, non è legata solo al prodotto ma anche e soprattutto al valore generato e alla cultura d’impresa espressa. Un compito che i comunicatori aziendali prendono sempre più a cuore, arrivando a ricercare il bello anche là dove sembra impossibile trovarlo
Stando a Wikipedia “il Poliossibenzilmetil englicolanidride conosciuto comunemente come bakelite è il nome dato a una resina fenolica termoindurente (...)”. Ma come si può comunicare la bellezza di un elemento che ai più risulta addirittura impronunciabile? La domanda che si pone tutti i giorni il comunicatore d’impresa non sarà precisamente questa, ma non è comunque molto diversa: che siano rettificatrici, microfibre o altri elementi ignoti al grande pubblico e ai consumatori di prodotti di uso comune, la difficoltà del racconto è indubbia. E, proprio per questo, affascinante. A porre la questione, Federica Campagna di Bakelite Italia, nel pubblico della recente ultima edizione del festival
del giornalismo Glocalnews che, durante uno dei panel organizzato da Varesenews in collaborazione con Confindustria Varese e la sua community di comunicatori, ha avuto come protagonisti Barbara Cimmino di Yamamay, Antonio Calabrò nella doppia veste di giornalista e comunicatore d’azienda e Davide Cionfrini,
Direttore di Varesefocus. Un evento su come comunicare la cultura d’impresa che
rapidamente si è concentrato sul tema della bellezza: la chiave del racconto delle aziende, ma anche il suo punto debole. “Se la nostra identità non passa, la colpa è nostra”: così Barbara Cimmino, sintetizza in poche parole e con grandissima umiltà, lunghi trattati sulla comunicazione. All’impresa oggi il dovere di raccontarsi meglio, superando anche i limiti dei pregiudizi diffusi. Il dato è che la nostra società si basa sull’impresa generatrice di lavoro, ricchezza e benessere e che l’impegno delle imprese (se non di tutte, di molte) verso sostenibilità, sociale, politiche demografiche e persone, in generale, è sempre più forte. Ed è l’impresa stessa a doverlo far comprendere all’opinione pubblica. Come? “Raccontando la bellezza”, spiega Cimmino che, pur a capo di un brand che punta sulla bellezza come business, si riferisce ad altro. Al cuore, a quello che c’è oltre la superficie, concordano
Silvia Giovanninipanelist e pubblico. E qui arriviamo alla bakelite: il comunicatore che sa raccontare la bellezza dietro un’impresa che produce una resina dal nome complicato ha colto alla perfezione il suo ruolo. Dietro ogni impresa, del resto, c’è una bella storia da raccontare, con una sua morale: questo è il compito. Vietato chiamarlo marketing. È, a tutti gli effetti, responsabilità sociale. E cultura d’impresa.
La Community dei Comunicatori di Confindustria Varese è un gruppo di professionisti che si occupa di comunicazione d’impresa nelle aziende varesine. Obiettivo è organizzare momenti di condivisione, come quello inserito nel programma di Glocalnews e strutturare un percorso comune di crescita professionale. L’adesione al gruppo è libera. Per saperne di più: comunicazione@univa.va.it.