L'Albero della vita A7 -1 2022

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L'albero della vita


L'albero della vita L'albero della vita

1A Foto di Graziano Piovesan

Anno 7 numero 1

4A “Sentieri di intima luce”, di M. Antonietta

Febbraio 2022

Pasquon

COORDINATRICE EDITORIALE

Gabriella Madeyski REDATTORE CAPO Giuseppe Ragusa

L'albero della vita Febbraio 2022

REDAZIONE Albachiara Gasparella Dino Santarossa GRAFICA e versione on line Dino Santarossa

HANNO COLLABORATO: Attilio Bonsignori Elsa Caggiani Liliana Paternò Castello Renzo De Zottis Edo Guarneri Donatella Grespi

3a Editoriale 4a I primi mesi di questo anno Unitre 4° di copertina a 5 Dante Alighieri e Gustave Dorè 7a Con i piedi per terra 8a La potenza della cultura latina 10a Medicina: L'alluce valgo 12a Il piacere della lettura 13a 'O scartellato 14a Aristofane e la commedia greca antica 16a Gerda e Robert, un amore sotto le bombe 18a Il carnevale degli animali, di C. Saint­Saens 19a Per chi (non) suona il campanello 20a Amarcord: La bambola di carta 21a Filastrocca della bambola di carta 22a Il postino suona sempre almeno una volta 23a La televisione degli anni 50: Il Musichiere

Maria Caterina Ragusa

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Con il contributo del Comune di Mogliano V.to

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Editoriale: Onore alla Regina Gabriella Madeyski cui l’esperienza pluridecennale ha insegnato che ricchezza e potere non sempre vanno di pari passo con la saggezza. Un Monarca la cui grandezza non deriva dagli ornamenti materiali della regalità, ma da una lunga vita dedicata al dovere. Quando lei parla, il mondo ascolta. E non perché parla ad alta voce o con forza, o perché si circonda di simboli di potere. Ascoltiamo perché è calma, saggia e un po’magica. Eppure rimane così molto umana.

Durante il suo discorso, trasmesso con un videomessaggio dal salotto del castello di Windsor, è apparsa vestita di verde con, sulla spalla, una spilla a forma di farfalla che riecheggiava, sul tavolo vicino, la fotografia del suo defunto marito, il Duca di Edimburgo, in una nuvola di farfalle, in Messico, nel 1988. Quando ha riconosciuto, con grande affetto, il suo ruolo nell’evidenziare la questione dell’ambiente fin dal 1969, ha subito fatto pensare alla profondità del loro rapporto e della loro collaborazione durata 73 anni. E le sue lodi per suo figlio Charles e suo nipote William erano commoventi come quelle di qualsiasi madre orgogliosa. Mai, in nessun momento, si è lasciata andare all’autocommiserazione o ha chiesto la nostra compassione. Era lì, nonostante la sua salute cagionevole, per compiere il suo dovere. Ed è quello che ha fatto, con grazia tranquilla. Se si rendeva conto che stava mettendo in scena un piccolo colpo di stato, non si vedeva. Ma era così. Sullo sfondo di tutti quei cortei di automobili e jet privati e manifestanti per il clima, che intanto inquinavano, la semplicità del suo messaggio senza fronzoli era rinfrescante come una luminosa mattina di primavera.

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UNITRE Mogliano Veneto

Il cambiamento climatico, purtroppo, colpisce tutto, dalla geopolitica alle economie, alle migrazioni, modella le città e le campagne, cambia le aspettative di vita. Per questo i Grandi della terra anche quest’anno si sono ritrovati a Glasgow per cercare di trovare un accordo sulle strategie da adottare per riuscire a contrastarne gli effetti negativi, da qui fino al 2030 e poi fino al 2050. Quando la COP26, che riunisce tutti i leader mondiali, gli attivisti e i maggiori esperti di tematiche ambientali all’interno della comunità scientifica, si è conclusa, con più di 24 ore di ritardo, l’atmosfera all’interno degli squallidi edifici temporanei eretti per ospitarla era un misto di festa e frustrazione. La dolorosa realtà che ha pervaso la conferenza, infatti, è stata che il mondo non riesce a limitare il riscaldamento globale di 1,5° C al di sopra dei livelli preindustriali. Ci sono state, come al solito, tante belle parole, tanti impegni presi, tante promesse fatte, ma la realtà è che il mondo moderno non vuole rinunciare al proprio stile di vita e, infatti, a testimonianza di ciò, domenica 31 ottobre, giorno di apertura della Conferenza, circa 400 jet privati hanno procurato un ingorgo nei cieli di Glasgow provocando 13.000 tonnellate di emissioni di CO2, l’equivalente della quantità prodotta da più di 1.600 Inglesi in un anno. Questa è solo una delle incongruenze dei partecipanti alla Conferenza ma sembra incapsulare perfettamente la follia, la vanità e la vacuità generale del mondo moderno. Un evento progettato per attirare l’attenzione sulla difficile situazione del pianeta e su coloro che già soffrono gli effetti del cambiamento climatico sembra, in realtà, averci ricordato soprattutto quanto siano fuori dal mondo i Grandi a cui noi affidiamo la responsabilità del cambiamento. Con un’eccezione. Una piccola novantenne, dai capelli bianchi e dagli occhi piccoli, con una mente come una trappola d’acciaio e un senso di decoro combinato con una tranquilla umiltà che, francamente, mette in ombra tutti questi signori pavoneggianti. Sto parlando della Regina, ovviamente. Una donna a


I primi mesi di questo anno Unitre

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Elsa Caggiani Tante speranze frustrate, dopo tanti rinvii siamo riusciti ad inaugurare con orgoglio un lil trentatreesimo Anno accademico in presenza. Siamo tra le prime Unitre che hanno avuto il coraggio di ricominciare. Siamo felici di essere tornati ai incontrarci: sappiamo che vi siamo mancati, ma sappiate che anche voi ci siete molto mancati! Come avete sperimentato, siamo molto attenti: numero limitato dei partecipanti, scansione quotidiana del green pass, mascherina, disinfezione dell’aria e dei locali: stiamo rispettando rigorosamente le direttive del Governo per dare a voi, a noi, la massima possibile sicurezza. Per agevolare chi, per vari motivi, non vuole o non può partecipare stiamo trasmettendo e registrando sul nostro sito you­tube le conferenze e, per alcuni corsi dove è possibile, utilizziamo la didattica mista, in presenza e a distanza. Un certo timore di uscire, una ancora forte prudenza, uno scoraggiamento pigro, le restrizioni obbligatorie, la scomparsa di alcuni corsi hanno ridotto i nostri ranghi: oggi siamo 450 iscritti, 300 meno di due anni fa, ma molto più numerosi di tante altre associazioni. Siamo ancora molto prudenti e facciamo un passo per volta; abbiamo rinunciato alla Festa di Natale, ma a gennaio il gruppo Visite culturali riprenderà a ricevervi il lunedì e il venerdì dalle 10 alle 12 per proporvi nuove uscite. Anche la segreteria avrà gli stessi giorni di ricevimento e gli stessi orari. Vi ricordo che venerdì 25 marzo 2022 ci sarà l’assemblea per il rinnovo delle cariche sociali, e che molti di noi del Direttivo ­ me compresa ­ vorrebbero dare le dimissioni. Vi chiedo con tutta sincerità di farvi avanti e di proporvi come candidati, per non lasciare finire questa nostra cara Associazione. Ci aspetta ora la seconda parte del nostro Anno Accademico. Che essa sia serena e felice!

La 4a di copertina: “Sentieri di intima luce”, di Maria Antonietta Pasquon La Redazione Maria Antonietta Pasquon vive ed opera a Mogliano Veneto, dove insegna al Corso di acquerello organizzato dalla locale Università della terza età. Ha frequentato l’Accademia di Belle Arti di Venezia. Ha seguito per molti anni i Corsi di Analisi critica del professor Giancarlo Zaramella, fondatore del Circolo Piranesi. Ha inoltre partecipato a numerosi Concorsi e Mostre, riscuotendo sempre positivi consensi di critica e di pubblico. Dell’acquerello scelto oggi per la quarta di copertina della nostra Rivista, “Sentieri di intima luce”, riproduciamo il commento critico di Chiara Polita, autrice, in ambito saggistico, di numerose pubblicazioni ed articoli relativi a storia ed arte del territorio: “Lontani sono i rumori del traffico della città. Protagonisti sono lo spazio e la musica della natura: sembra allora di ascoltare il fruscio degli alberi prima del temporale, il silenzio delle colline, della campagna, la voce del fiume. Le ampie distese del cielo su paesaggi luminosi offrono innanzitutto l’incanto di poter respirare quello spazio, che infonde un senso di purezza, di quiete.”

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Dante Alighieri e Gustave Dore' Inferno Paradiso. La nascita della sensibilita' moderna

Giorgio De Conti

UNITRE Mogliano Veneto

Sabato 30 ottobre 2021, in occasione dei 700 anni dalla morte di Dante Alighieri, è stata inaugurata al Brolo, centro di arte e cultura, la mostra "INFERNO PARADISO. LA NASCITA DELLA SENSIBILITA' MODERNA", in cui sono esposte 93 xilografie (1861­1868) di Gustave Dorè. La mostra è stata organizzata e curata dal prof. Angelo Zennaro Presidente del Centro artistico Piranesi e rimarrà aperta fino al 9 gennaio 2022.

Inferno, Canto XXXII ­ Dante e Virgilio nel Cocito Entrando nello spazio espositivo si percepisce immediatamente la sensazione di trovarci di fronte a un mito: il mito di Dante. In effetti nell'Ottocento, a seguito della riscoperta del mondo e della cultura medievali, Dante è stato riletto e reinterpretato sotto vari punti di vista. Negli anni in cui Dorè decideva di rappresentare con le sue xilografie l'Inferno (poi seguito dal Purgatorio e dal Paradiso), a Treviso si inaugurava, in occasione dei 600 anni dalla nascita del grande poeta fiorentino, la stele che oggi si trova al ponte Dante. Questo evento, nei discorsi dei vari rappresentanti del mondo culturale e politico di Treviso, ha dato il pretesto per celebrare Dante come precursore dell'unità nazionale, interpretando la sua figura e la sua opera, in particolare la Commedia, in chiave nazionalistica antiaustriaca. Anche Gustave Dorè si è "impossessato" di Dante, rileggendolo alla luce della sua visione romantica. Egli è rimasto affascinato dalla vicenda di Francesca da Rimini, trasformandola in una eroina romantica carica di passione e sensualità. Una particolare attenzione, poi, è riservata ai personaggi che hanno vissuto una vita intensa e drammatica come il Conte Ugolino nel cui volto traspare tutta la disperazione di un padre che vede morire tra le sue braccia i propri figli. Attraverso il gioco del chiaro­scuro, Dorè ha messo in rilievo l'atmosfera orrido­fantastica del modo infernale. Più arduo per lui, come del resto anche per Dante stesso, è stato il tentativo di descrivere la luce abbagliante del Paradiso. Un tentativo che, comunque, è pienamente riuscito. Basta soffermarci sulla rappresentazione della Candida Rosa per apprezzare lo sforzo e l'abilità dell'autore

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nel cogliere la bellezza eterea del Paradiso. Questa mostra ha due grandi meriti. La si può leggere come un lungo racconto in cui incontrare i personaggi famosi della Commedia, come Farinata degli Uberti, Pier delle Vigne, Brunetto Latini, che ormai fanno parte dell'immaginario collettivo, ma anche i personaggi meno noti e dialogare con loro. Ci si può stupire di fronte alla descrizione straordinaria del mondo infernale e compatire le sofferenze dei dannati. E poi uscire dalle tenebre e "trasumanar" nella gloria celeste del Paradiso, rimanendo estasiati dalla bellezza dell'ineffabilità della luce della beatitudine e così terminare il

Inferno, Canto III ­ Dante incontra Pier delle Vigne

"nostro viaggio" accompagnati dallo sguardo amorevole della Vergine Maria. Ma la mostra, e questo è l'altro suo merito, ci dà la possibilità di introdurci a una lettura più critica e consapevole del pensiero e dell'opera di Dante. Ci può aiutare a riscoprire la sua mentalità, la sua visione del mondo, ancora fortemente legata alle concezioni politiche e religiose del Medioevo, così lontane dalle nostre. Infatti, come afferma Lucio Villari, rendere attuale un autore non vuol dire"portarlo nel nostro tempo". Siamo noi, piuttosto, che dobbiamo cercare di "entrare nel suo mondo". Solo così, scoprendo la diversità di Dante, potremo confrontarci con lui e cogliere appieno la grandezza e l'attualità del suo pensiero. Solo così potremo apprezzare la sua straordinaria innovazione linguistica che è alla base della nostra lingua italiana e, indagando attentamente i suoi versi, potremo ritrovare le radici della nostra identità nazionale e quegli aspetti che sono all'origine della nascita della sensibilità moderna, scopo e intento di questa emozionante mostra.

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Il piacere della lettura

È un romanzo di formazione e di denuncia l'ultimo libro di Viola Ardone, autrice de "Il treno dei bambini". In un paesino della Sicilia, negli anni sessanta, cresce Oliva assieme alla sua famiglia, povera ma dignitosa. La sorella Fortunata è stata costretta ad un matrimonio riparatore ed infelice perché il mondo in cui vivono è un mondo fatto di matrimoni combinati, maschilismo, violenze e pregiudizi, dove la donna non ha diritti e riconoscimenti e ha un solo ruolo, quello di sposarsi e procreare, completamente sottomessa all'uomo. Per Oliva sembra esserci lo stesso destino anche perché così le ha insegnato sua madre, donna energica ed aggressiva. Bellissima, invece, la figura del padre, uomo taciturno e mite, ma del tutto anomalo nel suo ambiente. Sarà proprio lui a dare ad Oliva la forza di riconoscere e ad affermare la sua volontà, a ribellarsi alla violenza sfidando l'intera comunità e a percorrere, fiera , la sua strada... Una curiosità: il nome della protagonista è l'anagramma del nome dell'autrice.

Luca Ammirati ­ L'INIZIO DI OGNI COSA ­ Sperling & Kupfer Ed., Milano

Tommaso è un insegnante di liceo che ha la passione per gli incipit dei romanzi. Un imprevisto che lo fa dubitare della sua compagna e fa riemergere un dolore antico, un incontro inaspettato con il suo primo grande amore e la scoperta, in un mercatino, di quadri raffiguranti una donna misteriosa, lo portano a Bussana vecchia, un paese distrutto da un terremoto e ripopolato da una comunità di artisti.... Un romanzo poetico che parla di resilienza e offre una visione positiva della vita perché qualsiasi cosa accada c'è sempre la possibilità di ricominciare... Ammirati, che non conoscevo, una bella scoperta.

Martina Merletti ­ CIO' CHE IL SILENZIO NON TACE ­ Einaudi, Torino Una suora coraggiosa riesce,con uno stratagemma, a portare in salvo un neonato che altrimenti avrebbe dovuto seguire la sorte di sua madre, prigioniera alle Nuove di Torino e poi deportata. Cinquant'anni dopo una giovane donna parte alla ricerca di un fratello di cui, per tutta la vita, aveva ignorato l'esistenza... Per il suo esordio letterario Martina Merletti è partita da una storia vera costruendoci attorno un romanzo che vale la pena di essere letto. Scritto molto bene con passaggi continui tra il passato e il presente, alternando i punti di vista dei personaggi e riportando fatti storici realmente accaduti. Finalista del premio Berto. Come era successo con Alice Cappagli e il suo "Niente caffè per Spinosa" che si è poi rivelato un successo di pubblico e di vendite, penso di aver visto giusto. Mi è piaciuto molto e, confesso, mi ha pure fatto scendere qualche lacrima.

Donatella Grespi 7

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Viola Ardone ­ OLIVIA DENARO ­ Einaudi, Torino


La potenza della cultura latina

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Attilio Bonsignori Il chiarissimo professor Enea Abbadessa era un mito di cultura e saggezza nel suo paese natale, Ramacca, antico feudo contadino disperso tra le campagne del catanese. Non riconoscendo la grandezza di Dio, Enea era anche un ateo incrollabile. Qualche tempo prima dei fatti che sto per raccontarvi, il professore si era ammalato gravemente di polmonite e siccome era un grande fumatore e con un enfisema avanzato, che lo faceva respirare male, corse voce nel paese che fosse arrivato alla fine dei suoi giorni. La notizia della gravità delle sue condizioni giunse anche all’orecchio del Vescovo, monsignor Narciso Ferlito, un sant’uomo al quale non sembrò vero che gli si presentasse una simile storica occasione, cioè quella di riportare, più che la pecorella, il caprone smarrito all’ovile, un miracolo che sarebbe stato immortalato con una testimonianza scritta da lui stesso e pubblicata sul giornalino della Diocesi. Sarebbe stata una tappa importante verso la sospirata ma tortuosa nomina ad Arcivescovo di Palermo! Pertanto si presentò, con la immacolata cotta bianca impreziosita dai ricami di sua sorella Mena, la stola viola e il sacro olio degli infermi, a casa del professor Abbadessa, con sorpresa immensa della famiglia e della moglie Carmela (che il professore, intriso di latinismo, chiamava anche nelle effusioni di intimità la sua Lavinia!) che, poco convinta, lo lasciò comunque entrare in camera da letto. Appena mise la santa testa dentro la stanza del moribondo professore, effettivamente si compì il miracolo perché i malandati polmoni di Enea, improvvisamente diventati mantici d’acciaio, fecero tuonare cassa toracica e corde vocali esplodendo in un «Esca fuori!» che spinse via violentemente lo stupito alto prelato e lo fece quasi ruzzolare giù per lo scalone d’ingresso del nobile palazzo. Il professore si riprese, ma quel che non era riuscito a quel sant’uomo di monsignor Narciso riuscì invece a quella testa di asino di Puccio Ferebo. Ferebo, che in realtà si chiamava Puccio D’Arrigo, era un mio compagno di ginnasio che avevo in qualche modo doppiato giacché, per ogni classe, a lui servivano dai due ai tre anni. Lo chiamavamo Ferebo perché, al ginnasio (dove era miracolosamente arrivato grazie all’intervento pressante dello zio, il notaio Ferdinando Sgarrammone) interrogato in latino sul verbo “fero”, verbo irregolare, declinò il futuro in modo sbagliato: ferebo anziché feram. Però il punto non fu questo, cioè l’errore grammaticale, ma il fatto che, declinando, lui invitò la classe a fare coro: "Ferebo, ferebis, ferebit" e tutti, compreso me, declinavamo in coro assieme a lui che muoveva a ritmo le mani come fosse Riccardo Muti che dirige l’orchestra mentre il professore di latino, inorridito, guardava l’ignobile spettacolo a bocca aperta. Alla fine scoppiò un generoso ed entusiastico applauso, quasi un’ovazione da stadio, Puccio venne respinto e vi furono due giorni d’espulsione per tutta la classe. Per solidarietà maschile (nella scuola tenuta dai preti, non c’erano rigorosamente né studentesse, né insegnanti donna, e neppure bidelle, anche se vedove e bisognose di lavoro) convenimmo che dovevamo dargli una mano d’aiuto. La nostra attenzione andò proprio diritta diritta sul professor Enea Abbadessa, un autentico asso in latino, il quale, se non fosse stato per la guerra maledetta, che aveva colpito pesantemente anche le terre siciliane, avrebbe senz’altro potuto ambire a una cattedra universitaria, nientemeno quella prestigiosa e antica di Catania. Temutissimo e rispettato dagli alunni in classe, lo stesso rapporto aveva mantenuto con quelli delle

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lezioni private: con lui non si scherzava e loro, per quanto asini, si dovevano impegnare per raggiungere quei minimi risultati che avrebbero condotto alla promozione, o in prima o in seconda battuta agli esami di riparazione. E nella sua lunga esperienza, si potevano contare sulla punta delle dita di una mano i casi irrecuperabili che il professore aveva vissuto come un fallimento personale, si era sentito come uno che aveva carpito buona fede e denaro a quelle famiglie per poi non ottenere nulla. Quelle rare volte che era successo, ne aveva sofferto terribilmente. Dunque, convenimmo che era lui la medicina giusta per Puccio: le lezioni il professore gliele avrebbe impartite gratis perché l’esimio Enea Abbadessa mi doveva un favore a causa d’una sua nipote scema, una certa Cecilia Tegazzo, che si credeva una grande romanziera e che avevo messo sotto le mie ali protettrici, anche perché si faceva baciare e alzare la gonna senza mai protestare. Forse dopo la malattia – già da tempo era andato in pensione – non avrebbe dovuto riprendere le lezioni private: era stato un brutto colpo andar via dalla scuola, non si sentiva come prima, era più debole, più vulnerabile, più emotivo. E fu in questo frangente che entrò in scena Puccio: mai visto nulla del genere in quarant’anni! Perché Ferebo rappresentava una tipologia d’asino molto speciale; lui era buono, giudizioso, non si distraeva un istante, pendeva dalle labbra del professore e ne ciucciava le spiegazioni quasi fossero gocciole di miele, dando l’impressione non solo d’aver capito ma addirittura d’essersi nutrito di quella magistrale conoscenza e d’averla perfettamente assimilata. E invece, poi, all’atto di dover dar prova di quanto fosse riuscito a capitalizzare, dopo aver emesso vari rumori gutturali e disarticolati fonemi, si bloccava in un tragico silenzio confortato, però, da un sorriso innocente e mite. Disperato e impotente, il professore diventava pazzo, cominciava ad arrossire, tossire, sbuffare come una locomotiva ingolfata, come quelle della Circumetnea, rischiava veramente un colpo apoplettico! Ma poi si calmava e ritornava all’attacco perché non era concepibile e ammissibile che un Puccio qualsiasi decretasse una tale clamorosa sconfitta alla fine d’una carriera leggendaria. Ma il tre dicembre di quell’anno, eravamo agli inizi degli anni ’50, prima che anche in Sicilia scoppiasse il boom economico (che per uno strano caso del destino non sfiorò neppure con un alito di vento Ramacca) accadde la catastrofe o il miracolo, a seconda dei punti di vista. Da tre mesi erano sulla terza declinazione. La pietra dello scandalo fu la traduzione della celebre frase «Omnia munda mundis». Gli occhi di Puccio brillarono, la sapeva la traduzione, eccome! E quindi, con un sorriso compiaciuto ma modesto, nel suo stile, quasi imbarazzato per la prontezza della risposta, tradusse: «Facile professore: “Tutto il mondo è paese”!» E a questo punto si aprirono le cateratte del cielo: Enea Abbadessa spalancò il balcone del suo studio di Piazza Regina Elena, che era prospiciente alla grandiosa facciata della Chiesa della Natività di Maria Santissima, e con la sua voce cavernosa, urlò fino a farsi scoppiare le vene del collo: «Madonna Immacolata, se siete potente come dicono, fatelo imparare Voi il latino a Puccio, perché io stavolta cedo le armi!» E mentre il cielo era diventato plumbeo e squarciato da lampi spaventosi, il chiarissimo professor s’accasciò sul balcone rendendo l’anima non sapeva bene a chi, avvinto nelle sue certezze atee. Puccio piangeva disperato sul cadavere del suo maestro, sbigottito e sorpreso dalla potenza letale della sua cultura latina.


Medicina: l’alluce valgo Giuseppe Ragusa

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L’alluce valgo è una patologia molto comune, caratterizzata dallo spostamento verso l'esterno della base dell'alluce con contemporanea sporgenza del primo osso metatarsale. Questa deformità ossea è di solito associata ad un'infiammazione costante o recidivante della borsa mucosa che si trova alla base dell'alluce stesso (cosiddetta“cipolla”) e che tende a peggiorare con lo sfregamento della scarpa. Nei casi più gravi la deviazione dell'alluce può portare all’accavallamento dell’alluce stesso con il secondo dito del piede. E’ una patologia che interessa più frequentemente le donne, con maggiore incidenza, in età matura o senile.

Le cause dell'alluce valgo possono essere congenite o acquisite. Nel primo caso le persone che presentano alterazioni del piede presenti dalla nascita (esempio: piedi piatti) hanno più probabilità di sviluppare l'alluce valgo nell'età dell'accrescimento. Esisterebbero, inoltre, alcuni fattori predisponenti connessi ad una predisposizione genetica soprattutto nei casi di alluce valgo giovanile. Le forme acquisite possono essere secondarie ad alcune patologie, quali alcuni tipi di artriti (anche quella reumatoide), la gotta o anche malattie neuromuscolari. Più frequentemente la responsabilità può essere attribuita soprattutto a modelli di calzatura inadeguati alla fisiologia del piede, come ad esempio scarpe con punta stretta, troppo piccole o col tacco alto. Le scarpe che non si adattano adeguatamente costringono l'alluce ad una posizione non naturale e non assecondano la corretta pronazione del piede. Altre cause possono essere problemi di peso, di postura o di tono muscolare. Il quadro clinico è rappresentato principalmente da una deformazione della prima articolazione metatarso­falangea, che si presenta dolente e gonfia, talvolta con limitazione della motilità. Il progredire della patologia può provocare dolore anche intenso, conseguente difficoltà a camminare e può portare a deformazioni più o meno invalidanti dell’intero piede. Oltre al dolore e all'infiammazione cronica, l'alluce valgo può comportare lesioni ossee, ulcerazioni, callosità, artrite e rigidità articolare. Con il tempo questa patologia può evolvere in una vera e propria alterazione della postura considerato che l'alluce è sfruttato nella deambulazione per spingere in avanti e bilanciare il corpo. La diagnosi è semplice: al medico sarà sufficiente un accurato esame fisico, durante la visita lo

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specialista effettuerà alcune manovre atte a valutare la capacità di movimento dell'alluce. La valutazione clinica, si avvale dell'esame baropodometrico, che è un test che permette di valutare la qualità dell'appoggio a terra dei piedi. Il medico può procedere con una radiografia per avere un'indicazione sul grado della deformità e per valutare i cambiamenti che si sono verificati a carico del piede. Diversi sono i trattamenti a disposizione per l'alluce valgo. La scelta dipende dalla gravità del disturbo e dalla quantità di dolore che provoca. Il trattamento conservativo dell'alluce valgo si avvale di misure per alleviare la sintomatologia a carico del piede, che tuttavia non sono in grado di far regredire la deformità stessa o di migliorare l'aspetto estetico del piede. Le misure sono varie: vanno evitate le attività che costringono a stare in piedi per lunghi periodi di tempo; si consiglia l’utilizzo o di cuscinetti distanziali per evitare l'attrito tra le dita, o di tutori correttivi o di plantari adeguati; infine è indicato indossare scarpe ampie e comode che offrano molto spazio per le dita dei piedi. Trattamenti fisioterapici possono contribuire a ridurre i sintomi. Al bisogno si può usare ghiaccio per ridurre lo stato infiammatorio e si possono assumere farmaci antidolorifici (su prescrizione medica). Anche se raramente utilizzate nel trattamento dell'alluce valgo, le iniezioni di corticosteroidi possono essere utili nel trattamento dell'infiammazione. Se i sintomi sono gravi ed i trattamenti convenzionali non sono efficaci, può essere considerata la scelta della chirurgia. Il tipo di intervento chirurgico utilizzato dipenderà dal livello di deformazione, dalla gravità dei sintomi, dall'età del paziente e dalla presenza di altre condizioni mediche associate. L’intervento viene spesso eseguito come procedura ambulatoriale, in regime di day hospital non richiedendo quindi il pernottamento in ospedale. Può essere eseguito in anestesia locale o generale. L’approccio chirurgico classico consiste nel taglio della cute e dei tessuti sottostanti (procedura "a cielo aperto"), la correzione della deformità viene effettuata mediante l'asportazione di parte di osso (osteotomia) volto a riportare l'alluce nella corretta posizione. L’approccio chirurgico percutaneo consente di ottenere i medesimi risultati dell'approccio chirurgico classico ma in modo meno invasivo e con tempi di recupero post­operatori molto più brevi. La procedura percutanea – mediante appositi strumenti e sotto la guida di immagini radioscopiche – permette di operare direttamente sull'osso attraverso piccoli fori effettuati nella cute. Dopo l'intervento chirurgico, è necessario indossare un gesso o un'apposita scarpa post­operatoria, per mantenere il piede nella posizione corretta fino alla guarigione completa. Alluce valgo: è possibile prevenirlo? Il modo migliore per ridurre la probabilità di sviluppare l'alluce valgo consiste nell'indossare scarpe che calzino in modo comodo e funzionale.


Con i piedi per terra

Albachiara Gasparella

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L’impronta di un piedino che scalciava deciso contro il ventre teso di una mamma in attesa. Il futuro padre disposto a scommettere l’arrivo di un maschio già presupponendo per lui un futuro con ai piedi un bel paio di scarpe da calcio. E invece… i piedi dell’infante immaginato non avrebbero mai calzato scarpe coi tacchetti perché era venuta al mondo Marina. Ben altri tipi di tacco e tante altre civettuole e modaiole costrizioni le sarebbero toccate in sorte. Croce e delizia del genere femminile!

All’inizio, per Marina furono solo delizie: amava girare per casa scalza ed entrare così in contatto con le diverse superfici senza filtri. La prima volta che aveva riconosciuto le sue piccole impronte lasciate sulla sabbia umida, era quasi impazzita per la felicità e forse fu anche il momento in cui prese coscienza della propria identità. I suoi piedi tanto anarchici dovettero a poco a poco adattarsi alle calzature e tutto andò bene finché, sventuratamente, non capitolarono davanti ad un paio di scarpette blu col tacco alto quattro o cinque centimetri, con la punta stretta e con un cinturino alla caviglia. L’occasione era una cerimonia nella chiesa parrocchiale del paese. Quel giorno Marina uscì di casa raggiante, ma già dopo un centinaio di metri, i suoi piedi facevano scintille e due acquose vescichette avevano iniziato a lavorare alacremente dietro i suoi innocenti talloni. Ogni tanto la sventurata si fermava, respirava a

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fondo e stoicamente riprendeva tentando anche di accelerare il passo per recuperare il tempo perduto nelle numerose e dolorose pause. L’incontro con un tombino le diede il colpo di grazia: il tacco di una sua scarpetta, imprigionato tra le maglie fitte della griglia, la stava sfidando beffardo. Rossa di rabbia , Marina con fatica riuscì a rimuoverlo, lo infilò nella borsetta e riprese il cammino procedendo in punta di piede per equilibrare l’incedere, ma quell’andatura esasperata non resse per molto e lei dovette rassegnarsi a claudicare. Una strategia fallimentare dopo l’altra! “Io torno indietro!” digrignò tra i denti. Si levò entrambe le scarpe e cominciò a guadagnare la strada di casa a piedi nudi coi talloni ormai in carne viva e che imploravano pietà. Era strano, ma non provava nessun imbarazzo incontrando gli sguardi stupefatti della gente, al contrario avvertiva una sensazione di benessere che, partendo dai suoi piedi finalmente liberi, le risaliva lungo tutto il corpo. Se qualcuno in quel momento le avesse detto che era un bel tipo strano, Marina avrebbe risposto fieramente: “Strano assolutamente no, semplicemente sono un tipo con i piedi per terra!” E non si è smentita nel tempo. Non ha mai più indossato scarpe strette e coi tacchi alti e da qualche anno ha aperto un negozio dove si vendono soltanto espadrillas e infradito!


‘O scartellato

La figura dello scartellato (il gobbo) riveste un’importanza fondamentale nella cultura popolare partenopea. ‘O scartellato era simbolo di buona sorte già dal Medioevo, poiché si credeva che chi avesse una gobba pronunciata fosse stato sfiorato dalla mano di Dio; di conseguenza, chiunque portasse tale menomazione non l’avvertiva come un pesante fardello ma come simbolo di fortuna: i gobbi erano in tal senso dei prescelti dal Cielo e non era raro che i passanti li toccassero per assicurarsi un po’ di benessere economico e di salute per il futuro. L’origine è antichissima, risale alla Grecia antica: il kartos era il cesto e quindi etimologicamente lo scartellato è il “portatore del cesto”, costretto a curvarsi per il peso che gli grava sulle spalle. Come per le cornucopie, anche i cesti colmi sono simbolo dell’abbondanza offerta dagli dei, di conseguenza toccarlo significava goderne anche se in piccola parte. Con il passare dei secoli la figura dello scartellato non ha perso la sua importanza, anzi è rimasta nell’immaginario popolare partenopeo con tutto il suo carico di positività: il suo ruolo è talmente importante che compare addirittura nella Smorfia, il suo numero è il 57. Ma attenzione: non tutti gli scartellati portano fortuna, se si tratta di una donna con la gobba è da evitarla! Questa particolare credenza, a dire il vero fortemente maschilista, affonda le radici in epoca medievale quando la religione era ancora fortemente intrecciata con la magia. Il popolo medievale guardava con estrema diffidenza le donne affette da malformazioni o deformità fisiche, spesso etichettate come streghe: a differenza dell’uomo, per il quale avere la gobba era sintomo chiaro del “tocco di Dio”, per una donna non poteva che essere il risultato dei suoi rapporti incestuosi con il Demonio. Lo “scartellato” è un vero e proprio personaggio, vestito con giacca nera e un ampio e inconfondibile cilindro nero in testa; la sua figura è associata ad un altro oggetto scaramantico, il corno, che spesso sostituisce le gambe del personaggio. Talvolta si confonde la figura dello scartellato con quella del Gobbo Sciò Sciò, un’altra figura scaramantica partenopea che ha il compito di allontanare il potere del malocchio e delle malelingue. Anch’esso gobbo, ha un tipico cappello nero, un grande papillon rosso, l’ombrello e una treccia di aglio sul collo. Sparge incenso da una “buatta” bucherellata e ­ suonando il campanaccio ­ ripete continuamente questa cantilena antimalocchio: «Sciò sciò ciucciuvè, uocchio, maluocchio, funecelle all’uocchio, aglio, fravaglio, fattura ca nun quaglia, corne e bicorne, cape’e alice e cape d’aglio, diavulillo diavulillo, jesce a dint’o pertusillo, sciò sciò ciucciuvè, jatevenne, sciò sciò … (Via civetta, occhio malocchio e fune all’occhio, aglio più aglio, fattura che non prende, corna e bicorna, testa di alici e teste di aglio, diavoletto, diavoletto, esci dal buchetto, via via civette, andate via via via)». (“Essere superstiziosi è da ignoranti, ma non esserlo porta male”. Eduardo De Filippo.)

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Giuseppe Ragusa


Aristofane e la commedia greca antica

L'albero della vita Febbraio 2022

Maria Caterina Ragusa Rispetto alla tragedia, la commedia greca antica ebbe uno sviluppo iniziale difficile e incerto ed acquistò prestigio solo dopo la metà del V secolo a.C. Poche sono le testimonianze circa la sua origine: la più nota è quella di Aristotele, secondo il quale il termine “commedia” (comodìa, in greco) deriva probabilmente da kòmos (= baldoria) e odé (= canto): era il canto dei giovani che, al termine dei riti sacri in onore di Diòniso (il Bacco dei Latini), dopo aver mangiato e bevuto abbondantemente, improvvisando intonavano i “canti fallici”. Le feste dionisiache, o falloforìe, si svolgevano all'inizio della primavera: venivano portati in processione simboli sessuali (= falli) per ottenere dal dio la fertilità degli uomini, dei campi e del bestiame o per ringraziarlo di un favore ottenuto o di un buon raccolto. Le fonti però non ci dicono come da questi canti sia nata la commedia in forma di rappresentazione teatrale: probabilmente derivò dalla fusione dei canti con scenette incentrate sulla vita quotidiana reale del popolo di cui si prendevano in giro vizi, difetti, debolezze. Sulla scena agivano gli attori (sempre uomini, anche nei ruoli femminili) e i coréuti, i componenti del coro; i primi portavano la maschera e un costume fisso, con ventre prominente, natiche enormi, un fallo di dimensioni esagerate, un camiciotto corto e largo, stretto da una cintola; anche i coréuti erano mascherati, ma il loro costume era variabile, secondo la volontà dell'autore e in base al ruolo che svolgevano. La commedia antica si sviluppò e raggiunse grande successo ad opera di Aristofane, vissuto tra il 445 e il 380 a. C., quando Atene, durante la guerra del Peloponneso, da grande potenza passò ad un periodo di declino per poi tornare ad un ruolo egemone. La tradizione ci dice che egli compose numerose commedie, ma a noi ne sono arrivate intere solo undici (tra queste: 'I Cavalieri', 'Le Vespe' 'Le Rane', 'La Pace'). Ispirate alla realtà contemporanea, trattano del malessere politico, dell'immoralità diffusa e del conseguente venir meno degli ideali che avevano contraddistinto gli Ateniesi del passato; attraverso la satira si prendono in giro vizi, difetti, debolezze umane. L'intento era quello di divertire il pubblico: per questo gli interpreti erano personaggi comuni, di ceto non elevato, spesso rozzi, tanto da lasciarsi andare a urla, gesti volgari, che si esprimevano in un linguaggio vario, anche con vocaboli di nuovo conio. Capolavoro di Aristofane è considerata “Lisistrata” (= dissolvitrice di eserciti): protagonista è l'ateniese Lisistrata, per iniziativa della quale le donne, sia ateniesi sia spartane, stanche dell'interminabile guerra che tiene lontani da casa gli uomini, rifiutano di aver contatti sessuali con loro finché non sarà conclusa la pace. Decisamente moderno è il modo in cui Aristofane rende protagoniste le donne, intelligenti, sagge, capaci di risolvere problemi che gli uomini non sanno affrontare. In un'altra commedia, “I cavalieri”, l'Autore prende in giro i politici, denunciandone la corruzione e la sfrontatezza.

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La commedia su cui intendo soffermarmi è “Gli Uccelli” (414 a.C.), in cui si rappresenta la voglia dei protagonisti di evadere da una realtà scomoda per costruire un mondo diverso, alternativo, naturalmente migliore. Nonostante la pace sia stata raggiunta, la situazione ad Atene era molto diversa da quella sperata: non tranquillità e benessere, ma un'atmosfera di pesanti sospetti, di intrighi. Disgustati da ciò, due vecchi Ateniesi, Pistetéro (= Buon compagno) e Euélpide (= Sperabene), decidono di cercare un'altra città dove la vita sia diversa, colma di tutti i piaceri e di tutte le delizie. Sono guidati in questo viaggio da due uccelli che li conducono tra i loro simili: questi dapprima si oppongono violentemente alla proposta di Pistetèro (gli uomini sono definiti “stirpe malvagia”, “animali ingannevoli, sempre e a ogni modo”), poi, svelando la loro volubilità, mostrano entusiasmo per le idee dei due uomini. Così nell'aria, a metà strada tra cielo e terra, viene fondata la nuova città di Nefelococcugia (= la città delle nuvole e dei cuculi): posta nel cielo tra gli uomini e gli dei, la nuova città consentirà ai suoi abitanti di attuare un singolare ricatto: intercettando il fumo delle vittime sacrificali che dalla terra salgono verso gli dei, farà morire di fame le divinità se non vorranno accettare il nuovo ordine del mondo. Al contrario, la vita degli uomini migliorerà, perché agli dei si sostituiranno gli uccelli: divoreranno le cavallette che distruggono i raccolti, i bruchi e i mosconi che rovinano le piante; al posto degli indovini, forniranno, grazie alle loro conoscenze, gli auspici sulla navigazione, mostreranno i tesori sepolti. Ma presto nella nuova città arrivano i seccatori che tormentavano Atene, tutti desiderosi di fare fortuna in quel luogo. Tutti però sono scacciati dagli uccelli e da Pistetèro. Anche gli dei si convinceranno a mettere da parte le ostilità. Così Pistetèro vince e sposa Basilèa (= la Regalità), mentre il Coro invita tutti gli uccelli a volare “intorno all'uomo beato che ha sorte beata”. La commedia si conclude con i canti nuziali che inneggiano alla comune felicità. “Gli Uccelli” sono il trionfo della fantasia, della capacità inventiva di Aristofane, che propone un continuo contrasto tra la città reale e la città del sogno. In questo è riconosciuto il merito dell'Autore: saper analizzare la realtà inserendo un elemento nuovo che trasferisce tutto su un piano fantastico: ne viene fuori un intreccio di realtà e fantasia, che guarda la realtà attraverso il filtro di una lente deformante. Da qui la capacità comica di Aristofane. Ciò che più in generale traspare dall'opera di Aristofane è la passione con cui affronta i problemi della polis ateniese nel momento in cui essa attraversa la grave crisi della guerra. Nostalgico di un passato che esaltava le virtù militari e morali dei suoi concittadini, mette in scena personaggi che hanno dimenticato il valore della democrazia, uomini disonesti, che curano solo gretti interessi personali a danno di quelli della collettività. Voglio concludere sottolineando come, seppure in contesti molto diversi i personaggi aristofaneschi, le istanze che portano avanti, i modi usati per raggiungere i propri scopi, siano adattabili alla nostra situazione attuale. Per questo invito a leggere questi testi: ci renderemo conto di come tutto il mondo è paese e che l'uomo e la donna del passato non siano così diversi dai nostri contemporanei.


Gerda e Robert, un amore sotto le bombe

L'albero della vita Febbraio 2022

Liliana Paternò Castello Gerta Pohorylle nasce a Stoccarda il primo agosto del 1910, figlia di genitori ebrei polacchi e benestanti. Inarrestabile, con una spiccata personalità anche da bambina, si distingue subito per un carattere difficile da inquadrare e gestire. Di simpatie socialiste, l’avvento del nazismo in Germania la vede subito attiva sull’altro fronte. A vent’anni fa volantinaggio anti­Hitler: arrestata, benché non collabori con la polizia rifiutandosi di fare altri nomi di attivisti, grazie al suo passaporto polacco viene liberata. Subito parte alla volta di Parigi. Lì Gerta fa piccoli lavori: dattilografa, segretaria, assistente di agenzia di stampa. Vive con una amica, Ruth, molto bella. Ruth un giorno ha un appuntamento con un giovane fotografo che vorrebbe ritrarla. Gerta la accompagna e conosce cosi questo bel ragazzo, un ebreo ungherese, figlio di una famiglia proprietaria di una importante casa di moda: Endre Erno Friedmann, di tre anni più giovane di lei e che, come lei, è comunista e antifascista. Endre era stato arrestato a diciassette anni proprio per le sue idee politiche; liberato, aveva deciso anche lui di lasciare il suo paese e partire per Berlino, ove si era poi iscritto all’Università di Scienze politiche. Lavorando come fotografo, aveva già anche iniziato a distinguersi e nel 1932 era stato inviato a Copenaghen per fotografare Lev Trotsky; questa esperienza gli aveva dato la convinzione definitiva di voler fare il fotoreporter. A causa dell'avvento del nazismo, nel 1933 Capa aveva poi lasciato Berlino per Vienna, da dove si era successivamente spostato a Parigi. In Francia si faceva chiamare Andrè, per edulcorare le sue origini e avere meno problemi. Quindi, pur partendo da punti ben differenti, Gerta e Endre vengono pilotati dal destino uno verso l’altra. E Endre, che doveva fotografare Ruth, si innamora invece della sua amica. «Solo la pala e il piccone possono separarmi da Gerta», dice ad un suo amico. Endre è un appassionato fotografo, lavora meticolosamente, dimostra talento. Gerta e Endre si trovano velocemente in sintonia ed è lui a farla innamorare, oltre che di sè, anche della fotografia. Ma le cose non vanno molto bene, per entrambi tutto stenta: ebrei, senza le spalle appoggiate su alcuna poltrona, i giornali non li menzionano. E lei è donna e comunista oltre che ebrea. Finché non hanno una idea: inventano lo pseudonimo di Robert Capa (in omaggio al regista Frank Capra), un fantomatico celebre fotografo americano giunto a Parigi per lavorare in Europa. Con quel nome iniziano a lavorare entrambi. I due fingono inizialmente di essere gli assistenti e girano per le redazioni dato che l’”importante” fotografo non ha tempo da perdere. Sono una coppia ormai inscindibile, addirittura firmano le loro fotografie con l’unico marchio "Capa", a prescindere dal fatto che le avesse fatte lui o lei. Gerta cambierà il suo prendendo quello di Gerda Taro in omaggio alla attrice Greta Garbo. E il marchio diverrà “Capa e Taro”. E’ lei ad avere più iniziativa, è lei a portar con sé Robert per le redazioni, ove parla lei stessa con i direttori dei giornali. Nell’agosto del 1936 Gerda riesce ad avere un accredito dalla agenzia di stampa e i due partono per

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seguire le vicende della guerra civile spagnola in prima linea, tra le bombe e i proiettili. L’aereo sul quale viaggiano si schianta al suolo ma loro non riportano alcuna ferita. Questo agevola la loro idea di invincibilità se sono insieme. Come verrà poi scritto, lei per chilometri si trascina dietro la fotocamera, la cinepresa e il cavalletto, scattando a raffica e proteggendo sopra la testa la sua Leica. Vengono così realizzati molti reportage poi pubblicati in periodici prestigiosi. La Rivista "Vu" pubblica una loro fotografia anche in Robert Capa: Morte del miliziano lealista (1936) copertina. Nell’estate del 1937, mentre Robert si trova a Parigi per curare rapporti con le agenzie, Gerda parte da sola per realizzare un importante reportage durante la battaglia di Brunete, ad est di Madrid. Al ritorno dalla cruenta battaglia, la donna viaggia aggrappata al predellino esterno della vettura del generale "Walter" (Karol Świerczewsky). Aeroplani tedeschi mitragliano il convoglio e, nel trambusto generale, un carro armato urta l'auto: Gerda finisce sotto i cingoli del tank restandone schiacciata nella parte inferiore del corpo. Non era invincibile, era sola, non c’era Robert. La ragazza, che ha appena 26 anni, non perde conoscenza. E’ addirittura lei stessa, drammaticamente, a trattenere le viscere del suo corpo con la pressione delle proprie mani. "Dove sono i miei rullini? Sono intatti?" chiede insistentemente. Ricoverata, senza anestetici e senza antibiotici, i medici delle Brigate Internazionali cercano di suturare la devastante ferita, ma il suo corpo riesce a resistere solo poche altre ore. Muore alle cinque del mattino del 26 luglio 1937. E' la prima reporter della storia a cadere sul campo di battaglia. Il suo corpo viene traslato a Parigi accompagnato da 200.000 persone e, con tutti gli onori dovuti ad un'eroina repubblicana, viene tumulato il giorno di quello che sarebbe stato il suo ventisettesimo compleanno al cimitero di Pere­Lachaise, nella zona dedicata ai rivoluzionari e alla Resistenza. E’ Pablo Neruda a leggere il suo elogio funebre. Nel 1942 il regime collaborazionista fascista francese censura l'epitaffio inciso sulla tomba di Gerda. L’epitaffio non sarà mai più restaurato. La tomba di Gerda è stata l'unica ad essere violata dalla mano nazi­fascista, forse per l'influenza che la giovane rivoluzionaria, caduta nella guerra contro il fascismo, ancora esercitava sulla crescente Resistenza francese. Dopo la morte di Gerda, Capa è sconvolto: Gerda era la donna che amava, la compagna di vita e di lavoro. E una grandissima fotografa. Non si riprenderà più dal dolore di quella perdita, Capa adesso quasi cerca la morte, non si limita a sfidarla, e segue conflitti su conflitti. Nel 1954 il quarantenne Robert incontra la morte in Indocina ove è al seguito di una squadra di truppe francesi, incaricate di evacuare e distruggere due fortini a sud est di Hanoi. Sulla via del ritorno scatta le ultime immagini delle sua vita: indietreggiando per allargare il campo visivo, calpesta una mina. Le vite di Gerda e Robert sono state un romanzo ove vi è stato tutto: amore, avventura, coraggio, talento. Manca solo il lieto fine, per una fortuna sfidata troppe volte.


Il Carnevale degli animali, di Camille Saint­Saëns

L'albero della vita Febbraio 2022

Edo Guarneri Singolare destino quello de “Il carnevale degli animali” del compositore francese Camille Saint­ Saëns, una raccolta di brani per due pianoforti e piccola orchestra, scritta per le festività di un martedì grasso da celebrare con gli amici. Questa "grande fantasia zoologica" piacque subito per la brillantezza della scrittura, piena di verve e di humour, e per la singolarità del soggetto, con quegli animali che erano anche una ironica carrellata di personaggi dell'ambiente musicale parigino. Però a Saint­Saëns non sembrò opportuno pubblicare una partitura così "scottante" che avrebbe potuto nuocere alla sua carriera (si pensi ai critici musicali che egli trasforma, nel suo zoo, in asini o in fossili), e quindi proibì che venisse data alle stampe prima della sua morte. I quattrodici pezzi che compongono questa fantasia zoologica sono come una serie di ritratti e di caricature, illustrati con straordinario acume, un gusto caustico e sottili dettagli. Nel primo brano, Introduzione e Marcia reale del leone, è il re della foresta il primo animale a fare il suo ingresso trionfale: il ritmo marcato e solenne ­ scandito dai due pianoforti ­ mette in evidenza la sua superiorità nei confronti degli altri animali. I suoi ruggiti sono mimati dalle scale cromatiche ascendenti­discendenti del pianoforte e degli archi gravi. L'abilità descrittiva di Saint­Saëns si coglie nel brano successivo nello starnazzare di Galli e galline affidato alle note ribattute di pianoforti, violini, viola e clarinetto, impegnati a riprodurre i caratteristici versi di questi pennuti. Il terzo brano è un Presto furioso che richiama la corsa sfrenata degli Emioni, cavalli selvatici che galoppano nelle praterie asiatiche, raffigurata dalle scale velocissime dei due pianoforti, eseguite all'unisono su e giù per la tastiera, nelle intenzioni del compositore uno sberleffo contro i vacui virtuosi del pianoforte. Per rappresentare le Tartarughe Saint­Saëns usa il celebre tema del Can Can di Jacques Offenbach ma rallentato in un modo grottesco. Il brano molto rallentato, quasi irriconoscibile, presenta nel contrasto tra il pianoforte e gli archi un particolare ondeggiamento della musica che ricorda l’incedere lento e dondolante di questi animali. Adesso è un brano di Berlioz a fornire il tema per il brano successivo, L’Elefante. Saint­Saëns trasforma il grazioso e leggero Balletto delle Silfidi, tratto da “La dannazione di Faust”, in un goffo valzer affidato al contrabbasso, accompagnato dal pianoforte. I due pianoforti si alternano negli accordi staccati e saltellanti dei Canguri, resi ancora più elastici dai continui rallentamenti e accelerazioni degli strumenti. Elementi timbrici e melodici creano, nel sesto brano, Acquario, una delicata tessitura, dalla grazia cajkovskijana, nella quale ogni strumento rende percepibile l’immagine di un acquario. Gli arpeggi dei pianoforti rappresentano il movimento dell’acqua, l’effetto bollicine è affidato alla celesta (o al glockenspiel), i lenti e sinuosi movimenti dei pesci sono descritti dal flauto e dai violini all’unisono. Personaggi dalle orecchie lunghe è una pagina brevissima (solo 26 battute), nella quale il bersaglio di Saint­Saëns sono i critici musicali, che ascoltano molto e male. Protagonisti i due violini che si alternano nell'imitazione del raglio degli asini, uguale al chiacchiericcio dei critici saccenti. Poi è il momento dei volatili: il clarinetto imita Il cucù nel bosco, accompagnato dagli accordi dei due pianoforti; nel brano successivo (il decimo), Voliera, lo svolazzare degli uccelli nella grande gabbia è descritto abilmente da un intrecciarsi di trilli, arpeggi e scale, al gioco sonoro partecipano anche i violini ed i pianoforti; su tutti emerge una melodia velocissima del flauto, lo strumento più agile e

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Per chi (non) suona il campanello? Renzo De Zottis Bicicletta è bello. Fatta questa doverosa premessa voglio spezzare una lancia a favore dei poveri pedoni che hanno la disavventura di incrociare i ciclisti nelle famigerate corsie ciclopedonali (ma quale mente perversa le ha inventate?). La moderna tecnologia ha portato ad una formidabile evoluzione di quello che i nostri bisnonni chiamavano il velocipede, creando silenziosissimi bolidi che ti arrivano alle spalle senza che tu te ne accorga. A quel punto se hai fortuna l’UFO a due ruote ti sfiora con un sibilo sinistro, come una sorta di proiettile che scompare velocemente all’orizzonte. Ti aspettavi qualche segnale salvavita? Ebbene no. Il campanello, quell’allegro trillo, quel gioioso segnale di allegre scampagnate che spingeva tanto tempo fa a cantare “ma dove vai bellezza in bicicletta?” sembra diventato un reperto archeologico o, peggio, un segno di debolezza che questi moderni velocipedisti in fosforescenti tutine attillate e caschi aerodinamici rifiutano sdegnosamente di usare in nome di uno smisurato ego del pedale: la strada è mia, scànsati! Sono momenti brutti nei quali tutta la vita ti passa davanti e rimpiangi di non aver stipulato qualche assicurazione contro i rischi del biker selvaggio. Passato il primo momento di smarrimento, al sollievo per lo scampato pericolo subentra una sorda rabbia contro il pirata della strada e per estensione contro tutti i ciclopirati del mondo. Decenni di convinta adesione alla creazione di piste ciclabili e di sostegno entusiasta alle due ruote come alternativa al CO2 automobilistico svaniscono in un attimo. L’impotenza ti assale, mediti terribili vendette (raccolta di firme contro bicicletta selvaggi, vibrata protesta al sindaco..) poi il tuo bagaglio classico ti viene in aiuto e ti suggerisce gli immortali i versi del poeta elisabettiano John Donne: “La morte di ciascun uomo mi sminuisce. Perché faccio parte del genere umano. E perciò non chiederti per chi suoni la campana. Suona per te”. Magari.

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canoro dell’orchestra. Nel suo zoo Saint­Saëns inserisce anche i Pianisti, considerati una particolare specie di animali, o meglio, di asini: una pagina divertentissima che fa la parodia dei principianti costretti a passare lunghe ore in noiosissimi esercizi tecnici, passando attraverso tutte le tonalità. Gli esecutori "devono imitare il modo di suonare di un principiante e la sua goffaggine", andando quindi spesso fuori tempo, suonando lentamente le parti difficili e correndo nei passaggi facili. Il dodicesimo pezzo, I Fossili, richiamati dal suono secco dello xilofono, sono un'altra incarnazione "preistorica" dei critici musicali, incapaci di capire il nuovo corso della musica per colpa della loro mentalità antiquata. Per questo Saint­Saëns cita la sua Danse macabre (un poema sinfonico che descrive la danza di alcuni scheletri sopra le tombe di un cimitero), ma anche alcuni vecchi motivi popolari, e infine la celebre Aria di Rosina dal Barbiere di Siviglia di Rossini. Il famosissimo canto del Cigno, intonato dal violoncello e accompagnato dagli arpeggi dei due pianoforti ­ in realtà una sottile parodia del melodizzare lezioso e sentimentalistico ­ prepara efficacemente la passerella del Finale: un rondò basato su un pimpante refrain suonato dall'ottavino e dal clarinetto, in cui i temi precedenti vengono ripresi e combinati insieme al fine di chiudere in modo festoso questa rassegna di animali, facendoli sfilare tutti insieme, come in un circo. A chi volesse ascoltare questa celeberrima e umoristica raccolta consiglio la bella interpretazione di Charles Dutoit che dirige la London Sinfonietta, con Pascal Rogè al pianoforte (Decca).


Amarcord Come vi avevamo anticipato, parte con questo numero la rubrica “Amarcord”. Fra i diversi ricordi che ci sono arrivati abbiamo deciso di iniziare pubblicando queste pagine, certi che vi accompagneranno in un viaggio a ritroso nel tempo.

La bambola di carta

L'albero della vita Febbraio 2022

Albachiara Gasparella “Amarcord“ di una bambola sagomata su un cartoncino leggero e del suo nutrito guardaroba sempre di carta. Io mi ricordo che, forse in terza o quarta elementare, una compagna arrivò in classe dicendoci che durante la ricreazione ci avrebbe mostrato qualcosa che non avevamo mai visto. Infatti, davvero non avevamo mai visto una bambolina di carta alta circa quindici centimetri con tanti bei vestiti di carta che, grazie a dei rettangolini posizionati sulle spalle, potevano essere attaccati alla sagoma della bambola stessa. In breve tempo, i numerosi e segreti scambi con materiale scolastico e non solo, per avere in prestito la bambola originale, permisero a tutte noi bambine di possederne una da personalizzare a piacere. Bastava seguirne la sagoma su un cartoncino, connotarla secondo un proprio ideale e poi ritagliarla con estrema cura. Anch’io naturalmente diedi vita alla mia che era il ritratto preciso di una compagna di cui avevo sempre ammirato e invidiato la chioma rossa imprigionata in due lunghe e lucide trecce. La “sarta “che era in me poi, cominciò a confezionare un vestito dietro l’altro; non riuscivo proprio a tenere a bada la mia frenesia creativa alimentata dalla soddisfazione per i risultati che ottenevo nonché dalla comprensibile competizione sorta tra noi stiliste in erba. Ma in questo contesto anche il sentimento della solidarietà aveva preso forma: chi era più portata per il disegno ed aveva una buona manualità, si dimostrava ben disposta ad aiutare le compagne più in difficoltà senza pretendere nulla in cambio. La straordinarietà di questa bambola consisteva soprattutto nel fatto che, quasi priva di spessore, poteva dimorare protetta tra le pagine di un libro e con lei anche il suo guardaroba racchiuso in una semplice busta per corrispondenza. La bambola era sempre con te, persino a scuola e anche… durante le lezioni! Di quel periodo nulla mi è rimasto di tangibile però fortunatamente possiedo un kit completo di una bambola di carta da collezione che, quasi trent’anni fa, un’amica mi ha portato dalla Russia. Fino al momento di questo mio “amarcord” sentimentale, non ero a conoscenza dell’origine di queste bambole e nemmeno mi ero mai chiesta quale destino avessero avuto. Evidentemente avevo l’errata convinzione che fossero sparite dalla circolazione o che, al meglio, fossero finite nelle teche di qualche museo del giocattolo d’epoca. E’ bastato un click e la mia curiosità tardiva è stata appagata. In sintesi, le bambole di carta, altrimenti dette “Paper Dolls“ apparvero verso la metà del ‘700 a Parigi alla corte di Luigi XV che le aveva introdotte per intrattenere gli ospiti delle sue sfarzose feste e contemporaneamente in Inghilterra dove invece il loro scopo era a carattere didattico illustrativo. Poiché il procedimento per la realizzazione delle bambole era lungo ,complicato e costoso, solo gli adulti facoltosi potevano permettersele; con l’introduzione di nuove macchine per la produzione della carta, nei primi decenni dell’800, le Paper Dolls divennero più economiche e di conseguenza

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semplici fogli di carta da ritagliare! L’arrivo della Barbie, nata dall’intuizione di una certa Ruth Hander mentre osservava la figlia giocare con la bambola di carta, segnò il declino di questo “gioco” che aveva spopolato fino agli anni ’60, tuttavia, sempre digitando, ho potuto constatare che le bambole di carta sono vive e vegete e che per chi fosse alla ricerca di un regalo davvero originale c’è solo l’imbarazzo della scelta.

Filastrocca della bambola di carta Un guardaroba da divina racchiuso tutto in una bustina forbici matite e pastelli svariati modelli principessa regina dottoressa bambina. Mamme coi figli di cartone con abiti di carta ognuna gran signora e grande sarta. Un bel gioco un buon gioco bastava così poco. 21

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ebbero una più larga diffusione. Le nascenti riviste femminili poi, si servirono delle bambole di carta da ritagliare e da vestire per promuovere abiti d’alta moda. Nel corso degli anni vennero create le prime bambole con un nome, una personalità, un ambiente sociale…insomma corredate di tutto ciò che serviva per inventare e costruire una storia intorno a loro. Molti personaggi famosi diventarono familiari grazie alle bambole che li impersonavano. Nel 1830 a Parigi, ne fu realizzata una che riproduceva Marie Taglione, la più grande ballerina di danza classica dell’epoca e nel 1840 un’intera serie in edizione limitata fu dedicata alla Regina Vittoria. E con il cinema, le dive come Mary Pickford, Greta Garbo, Marlene Dietrich e Marilyn Monroe furono immortalate con il loro glamour e tutto il loro guardaroba…su


Il postino suona sempre almeno una volta

L'albero della vita Febbraio 2022

Renzo De Zottis In questo tempo così denso di preoccupazioni vorrei farvi partecipi di un mio personale un ulteriore motivo di angoscia: l’arrivo del postino. Con grande rammarico devo constatare che questa figura di pubblico funzionario ha ormai perso completamente quell’aura di simpatica bonomìa che da sempre ne caratterizzava l’attività. Nei bei tempi andati la sua funzione rivestiva una grande rilevanza sociale perché costituiva il trait d’union tra le persone, recapitando allegre cartoline da amene località di vacanza, lettere di amici o fidanzati lontani, giornali e riviste illustrate: insomma contribuiva in maniera concreta al nostro indispensabile tessuto di relazioni con il mondo esterno. Il suo arrivo segnalato dallo squillo del campanello ci rassicurava: la nostra vita continuava a svolgersi regolarmente e ci sentivamo in contatto con il mondo, più che mai rassicurati perché tutto rientrava in un grande e ordinato disegno. Oggi non è più così. La romantica figura in bicicletta ha lascito il posto a trafelati centauri, anonimi messaggeri nascosti da inquietanti caschi, rapidi a riempirti la buca delle lettere di qualsiasi cosa (tranne le lettere) per poi schizzare velocissimi verso un altro indirizzo. Nessun contatto umano, nessuno scambio di opinioni sul tempo o sul calcio. Ormai ho imparato a riconoscere il rombo dello scooter giallo del mio postino (come si chiamerà? avrà una vita felice?) e tremo per quello che potrà recapitarmi: bollette, multe o, nel migliore dei casi, inutili brochures. E se non mi trova in casa? Il maledetto mi lascia dei tagliandini di carta chimica (di solito spuntano minacciosamente dalla cassetta) con su scritto che solo dopo due giorni (tre se la consegna avviene di venerdì), previa coda all’ufficio postale, potrò sapere chi e perché mi cerca. Quasi sempre si tratta di persone sgradevoli (notai, avvocati, amministratori di condominio, polizia locale) che inviano notizie spiacevoli (citazioni, solleciti, ultimatum, multe). Mi scatta così la sindrome della raccomandata e passo giorni da incubo fino a che non scopro, presentandomi dimesso e tremebondo allo sportello, cosa mi riserva il destino (postale). Ma si può vivere così?

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La Televisione degli anni ’50: “Il Musichiere”

Il Musichiere è stato un celeberrimo programma televisivo andato in onda dal 1957 al 1960 il sabato sera per 90 puntate, condotto dall'attore romano Mario Riva, che conferì alla trasmissione un’atmosfera familiare e popolaresca. Il Musichiere era un gioco musicale a quiz: i concorrenti, seduti su una sedia a dondolo, dovevano ascoltare l'attacco di un brano musicale e, una volta riconosciutolo, precipitarsi a suonare una campanella a dieci metri di distanza per avere diritto a dare la propria risposta, accumulando gettoni d'oro per il montepremi finale. Il montepremi si conquistava indovinando il "motivo mascherato", eseguito all'apertura di una cassaforte che conteneva la vincita. I motivi musicali erano eseguiti dall'orchestra di Gorni Kramer e da due cantanti: Nuccia Bongiovanni e Johnny Dorelli (poi sostituito da Paolo Bacilieri). Uno dei momenti più attesi della trasmissione era quello dell’ospite che, anche se proveniente dal mondo del cinema, del teatro o dello sport, veniva inevitabilmente costretto a cantare. Ospiti celebri furono Mario Soldati, Gary Cooper, Totò, Marcello Mastroianni, Jayne Mansfield, Fausto Coppi e Gino Bartali. Il quiz, ideato dalla coppia di autori di rivista e commedia musicale Pietro Garinei e Sandro Giovannini, riscontrò un grandissimo favore di pubblico grazie alla semplicità del meccanismo di gioco, ma soprattutto grazie alla facilità con cui tutti da casa potevano partecipare attivamente, avvalendosi soltanto della propria conoscenza del panorama musicale popolare, allora molto più semplice di quello odierno. Il successo della trasmissione fu qualcosa di assolutamente impensabile. Il Musichiere all’epoca registrava un ascolto di ben 19 milioni di televisori sintonizzati sul programma paralizzando di fatto l’Italia televisiva: nei cinema di Roma e Milano, i gestori dovettero mettere gli apparecchi TV per evitare che le sale in quel giorno e in quell’orario andassero deserte. Le vincite non raggiunsero mai cifre leggendarie: l'unico campione che riuscì ad emergere dall'anonimato, con una vincita di otto milioni di lire circa, fu Spartaco D'Itri, cameriere in un ristorante romano che, grazie al premio vinto, riuscì ad aprire un'attività in proprio. Il programma si concluse nel 1960 con la tragica morte di Mario Riva all'età di 47 anni, che precipitò da un’altezza di tre metri dietro le quinte del palcoscenico dell'Arena di Verona. La sua morte, avvenuta dopo dieci giorni di agonia, gettò nel lutto l’Italia intera. Ai suoi funerali parteciparono quasi 250.000 persone. Mario Riva con la mascotte del Musichiere Pigi, che veniva regalato come ricordo ad ogni concorrente del programma

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UNITRE Mogliano Veneto

Giuseppe Ragusa



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