Albero della vita n° 6 - 1 2021

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L'albero della vita


L'albero della vita L'albero della vita

1a La copertina realizzata da Dino S.

Anno 6 numero 1

4a Quadro "La rocca di Casale sul Sile" di Serio Muraro

Maggio 2021 COORDINATRICE EDITORIALE Gabriella Madeyski REDATTORE CAPO Giuseppe Ragusa REDAZIONE

L'albero della vita ­ Maggio 2021

Albachiara Gasparella Donatella Grespi Dino Santarossa GRAFICA e versione on line Dino Santarossa HANNO COLLABORATO: Angela Gardin ­ Cecilia Barbato Cinzia Sabadini ­ Edo Guarnieri Elsa Caggiani ­Giancarlo Bontà Giuseppina D'Amato ­ Marisa Toniolo ­ Maria Marrelli Michela Trabucco ­ Renzo De Zottis ­ Sabina Ferro ­ Teresa Angela Grandis ­ Vittorio Pellizzari

3a Editoriale 4a Il saluto della Pesidente 5a Non arrendersi alle distanze 6a Lettera di Seneca a Giancarlo 7a La D.A.D. dell'Unitre 8a Cambiamenti e trasformazioni in tempo di pandemia a 9 Generazione U3 10a La narrazione di sè come cura 11a Le nostre copertine 12a Pionieri veneti dell'automobile 13a Davvero siamo fortunati 14a L'associazione art4sport ONLUS 15a Le portatrici carniche 16a Il piacere della lettura 18a La peste di Atene del 430 A.C. 20a Un pomeriggio particolare 21a Bastano poche parole 22a Dantedì 24a Musica: Eine Kleine Nachtmusik, di W. A. Mozart 25a Visita alla mostra: "Viaggi su carta. Disegni e parole" a 26 Kha, architetto egizio 27a Il sorriso del Cristo di legno

Indirizzo per inviare i vostri articoli

uni­tre@unitremoglianotv.it Indirizzo del sito UNITRE www.unitremoglianotv.it Il nostro periodico è aperto a tutti coloro che desiderano collaborare nel rispetto dell’ art. 21 della Costituzione che così recita: “Tutti hanno diritto di manifestare il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione ”, non costituendo per­ tanto, tale collaborazione gratuita alcun rapporto di lavoro dipen­dente o di collaborazione autonoma.

Distribuzione gratuita

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Con il contributo del Comune di Mogliano V.to

"È tacito che, a protezione del diritto d’autore e della proprietà intellettuale, sulla base della legge 633/1941 e successivi aggiornamenti, ogni autrice ed autore è responsabile dell’autenticità degli scritti e delle immagini fotografiche inviati alla redazione dell'Albero della Vita". Ci scusiamo per eventuali, non volute, carenze od omissioni nelle indicazioni di autori di porzioni di testi non virgolettati, degli autori di immagini fotografiche, pittoriche e disegnate, delle eventuali proprietà editoriali o ©, a fronte di una carenza d'indicazioni delle stesse, o presenti su fogli volanti, o poste in siti internet anonimi.


Nell’anno appena trascorso abbiamo vissuto mesi molto difficili. La pandemia ha sconvolto e rivoluzionato le nostre vite. Adesso stiamo uscendo lentamente dall’atmosfera del lockdown e, dopo ormai un anno, mi rendo conto che sono e siamo tutti un po’ cambiati. Siamo stati costretti a stare fermi a casa, siamo stati costretti a pensare invece che a vivere “inconsa­ pevolmente” una vita frenetica, e nello stesso tempo priva di veri stimoli. Siamo stati a casa e abbiamo vissuto in modo nuovo il condividere la vita con il nostro coniuge, i nostri figli ma anche con noi stessi. La vita precedente, quella pre­ Covid, aveva reso tutto una routine, il lockdown, forse, ci ha riportati nella giusta dimensione. Nonostante i gravi danni portati all’economia secondo me questo periodo è servito invece moltissimo come esperimento sociale: ci ha cambiati e ci fatto riflettere. Io, ad esempio, ho capito che devo allargare gli orizzonti, devo cercare nuove sfide, devo avere il coraggio di cambiare. Ho deciso di impegnarmi di più nel sociale: voglio combattere contro i mulini a vento per combattere i luoghi comuni che ritengo siano il grande male della società che mi circonda: liberarla dai pregiudizi e dagli stereotipi. Credo che la società civile, e non solo quella italiana, almeno nei paesi democratici, stia vivendo un momento difficile. C’è il rischio concreto che il sentimento dittatoriale e prepotente che è in ciascuno di noi stia prendendo il sopravvento. Ad esempio, vedendo Facebook ed altri social, noto una “cattiveria” debordante. Troppo spesso si

afferma, senza il minimo dubbio, che se uno osa contraddirci è sicuramente un “imbecille” e un “fascista”. Questo impedisce il nascere di qualunque vero dibattito che è invece la base di ogni sistema democratico. Ma la democrazia si basa sulla tolleranza e sull’accettazione delle differenze: non solo quelle basate sul colore della pelle o sul sesso o sulla religione ma anche, e soprattutto, quelle basate su diverse opinioni. La cosa importante è considerare la società (e prendo in prestito una metafora di Seneca) un arco di pietre che si sostengono a vicenda, evitando che l’arco cada. Come le pietre anche se sono diverse fra loro, sono utili una all’altra, così gli uomini devono soccorrere i loro simili e aiutarsi vicendevolmente. Tenendo presente allora questo concetto, anche se ancora non si può dire che tutto sia finito, dobbiamo far prevalere il desiderio di voltare pagina e di guardare al futuro con più fiducia. C’è voglia di ripartire, di ricominciare a vivere sotto nuovi auspici. L’arrivo del vaccino lascia ben sperare e l’orizzonte s’intravede più sereno. Restano, purtroppo, molte ferite ancora non del tutto sanate. Ferite fisiche, morali ma anche economiche che hanno prodotto lutti, solitudine e miseria. Ferite che hanno vulnerato il mondo della scuola, del lavoro, della sanità, con strascichi che si protrarranno nel tempo. Tuttavia mi auguro che questo lungo periodo ci abbia insegnato a guardare la nostra vita con occhi diversi e a non sprecare occasione per cambiare stili di vita.

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UNITRE ­ Mogliano Veneto

Editoriale di Gabriella Madeyski


Saluto della Presidente

L'albero della vita ­ Maggio 2021

Elsa Caggiani Chi di noi avrebbe pensato a febbraio 2020 che avremmo dovuto vivere un periodo così lungo, sospeso, pieno di timore? Già le previsioni che saremmo usciti dall’epidemia solo a dicembre mi sembravano tremende e ritenevo impossibile resistere così a lungo. L’estate scorsa, pur con prudenza abbiamo tutti tirato un sospiro di sollievo, abbiamo alleggerito il nostro animo. A settembre noi del Direttivo abbiamo visitato locali che ci permettessero di riaprire l nostri incontri con tutte le cautele necessarie, e abbiamo previsto l’apertura all’inizio di novembre. Poi abbiamo pensato a gennaio, poi a febbraio… ed eccoci qua. Aristotele l’aveva scritto nel IV secolo a.C.: l’uomo è un animale sociale. Affermazione scontata, ma quanto è vera! La nostra vita è costituita da care abitudini sociali, di condivisione e familiarità, così semplici e così importanti. Solo in questo periodo, forzati ad abbandonarle, ci siamo veramente accorti della loro necessità. Negli incontri casuali per strada, a fare la spesa al mercato o al supermercato, in Chiesa, era una gioia vederci, era commovente sentirvi dire che vi manchiamo, sentirvi chiedere quando potremo riaprire, quando potremo tornare a viaggiare insieme. Insieme! Questo è il nostro desiderio. Non è certo la stessa esperienza, però mi è stato di molto aiuto frequentare a distanza, tramite computer e telefono, i corsi di inglese, spagnolo e francese e rivedere così le insegnanti e i compagni di corso. Ma so che non molti hanno potuto o voluto, per impossibilità o scarsa familiarità con le nuove tecnologie. Il mio ringraziamento va alle docenti e ai docenti che con spirito di iniziativa e coraggio hanno portato avanti i corsi durante tutto questo diverso anno accademico. Molti però hanno accolto con favore la nostra iniziativa di celebrare il “Dantedì” con una conferenza del prof. De Conti sul canale YouTube del Comune. Stiamo perciò organizzando la trasmissione di altre conferenze nel periodo aprile ­ maggio, per il piacere di rinnovare il nostro impegno culturale, per risentirci insieme studenti della nostra Unitre. Ma so che più di tutto vorremo tornare alla nostra scuola tradizionale. Probabilmente all’inizio del nuovo anno accademico ad ottobre avremo qualche regola di sicurezza ancora da rispettare, ma riprenderemo! Però, facendo tesoro dell’esperienza di quest’anno, stiamo anche pensando a dare la possibilità di un collegamento a distanza a chi per particolari motivi non può frequentare fisicamente la nostra Unitre. Per riprendere la nostra attività, sarà sicuramente necessario più di prima l’aiuto di molti volontari. Insisto quindi a chiedervi di offrire la vostra collaborazione, anche perché alla fine di quest’anno ci saranno le elezioni per il nuovo Consiglio Direttivo, e molti di noi hanno deciso di non candidarsi più. Abbiamo bisogno di forze nuove! Un caloroso abbraccio…virtuale. Elsa Caggiani

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Non arrendersi alle distanze Lockdown! Confinamento, chiusura, blocco d’emergenza… Lockdown, questa la parola che abbiamo imparato a conoscere ormai da un anno e che, legata com’è all’emergenza sanitaria che stiamo vivendo, continua a perseguitarci e a confondere le nostre vite. Molti di noi, pur afflitti da comprensibili ansie e solitudini, incertezze e sofferenze, hanno tuttavia saputo far emergere risorse inaspettate per reagire e contrastare l’isolamento fisico, relazionale e affettivo che ogni confinamento comporta. Ed è proprio questo atteggiamento, il non arrendersi alle distanze, che ha contraddistinto il nostro gruppo del ”Laboratorio di lettura interpretata” ideato e condotto ormai da sei anni dalla prof.ssa Gabriella Madeyski. Il mezzo che ha tenuto insieme il gruppo è stato Whatsapp per “fare salotto” e successivamente l’applicazione Meet per vere e proprie lezioni. Credo che tutto sia iniziato con la partenza di un nostro compagno di corso che a marzo sarebbe dovuto andare in Australia al matrimonio di un nipote. E’ partito, è arrivato a destinazione, ma in Australia si è dovuto fermare molto più a lungo del previsto e il perché è di facile intuizione. Quel che importa ora è sottolineare come all’improvviso, tra chi è rimasto e chi si trovava oltreoceano e per di più agli antipodi, sia scattata un’amorevole e nutrita corrispondenza che non si è interrotta dopo il sospirato ritorno in patria del nostro amico, anzi si è protratta per tutta l’estate, l’autunno, l’inverno e tuttora continua. Di sicuro, in tutti noi c’era un gran bisogno di raccontare e raccontarsi, di ascoltare e condividere e la necessità di sentirci vivi, attivi, utili l’uno all’altro. Oltre la cortina, uno squarcio azzurro cielo! E l’obiettivo è stato raggiunto dal momento che la gratitudine continua a respirarsi in ogni messaggio inviato. Piano piano ci siamo svelati ed abbiamo

imparato a conoscerci più di quanto non fossimo riusciti a fare frequentandoci in classe: dalla presenza alla sostanza! E’ davvero difficile elencare tutti gli argomenti con i quali abbiamo inondato il nostro social, ma è doveroso evidenziarne alcuni, tanto per far capire la capienza e la qualità della fucina che li ha generati. A pioggia battente sono arrivate le poesie scaturite dal cuore e dalla penna di qualche amica poetessa, poi fotografie e filmati personali e non, riguardanti paesaggi vicini e lontani, fenomeni naturali, flora e fauna… Ed ancora brevi cronache del quotidiano, sfoghi esistenziali, succulente ricette di cucina documentate e poi sperimentate e commentate. Per non dire delle segnalazioni di eventi culturali, di celebrazioni e commemorazioni. Quando l’aria si faceva troppo densa, una provvidenziale vignetta umoristica arrivava giusto a stemperarne la pesantezza. Infine… tantissimi baci e abbracci, fiori e arcobaleni, calici tintinnanti. Nel momento in cui scrivo, un abbraccio reale purtroppo non è ancora avvenuto, ma il nostro legame virtuale continua non solo attraverso Whatsapp ma anche con Meet grazie al quale alcuni di noi si incontrano per leggere e commentare insieme alla prof.ssa Gabriella le “Lettere a Lucilio” di Seneca. Anche chi non è collegato, si tiene informato e non perde il passo!

https://www.novetv.com

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UNITRE ­ Mogliano Veneto

di Albachiara Gasparella


Lettera di Seneca a Giancarlo

di Giancarlo Bontà In questo particolare momento sociale, che dura oramai da più di un anno, mi sono trovato in una situazione mai affrontata nella mia lunga vita. Un forte aiuto l’ho ricevuto, almeno in parte, “fruttando” la mia partecipazione ai vari corsi dell’Unitre che ho seguito, malgrado le restrizioni, perché hanno continuato la loro attività on line. In uno di questi gruppi, “ Lettura interpretata”, la professoressa Gabriella, ci ha proposto di leggere e commentare un’opera di Seneca e precisamente: Lettere morali a Lucilio. Dalla lettura e successiva analisi di gruppo, mi è venuta l’idea di farmi scrivere una lettera da Seneca, in risposta ad una mia nella quale gli prospettavo le moltissime difficoltà da me riscontrate in questo particolarissimo momento.

Questa è la risposta da me immaginata.

L'albero della vita ­ Maggio 2021

Seneca saluta Giancarlo nella tua lettera mi descrivi il tuo stato d’animo derivato dalla situazione eccezionale che stiamo vivendo. Mi dici di soffrire psicologicamente per l’assenza dei contatti umani con familiari e amici e soprattutto che non riesci a immaginare quando questa situazione potrà finire definitivamente. A questa tua ansia e paura io rispondo che sono gli animi più deboli ad essere colpiti, chi è forte spiritualmente riesce a sopportare e superare questo difficile ostacolo. Quindi reagisci con tutta la forza di volontà, poniti traguardi raggiungibili e perseguili con tenacia. Disponi di mezzi che possono aiutarti a mantenere contatti con parenti e amici, sfruttali al meglio e ne ricaverai grandi benefici per la tua stabilità emotiva. Per quanto concerne il fatto che non riesci ad intravvedere la fine di questa situazione, ti rispondo che anticipare e temere il male futuro è vivere nel peggiore dei modi il presente. Mi dici che sei arrivato ad una età considerevole e che spesso ti ritrovi a ripensare alla lunga vita passata; nulla di più sbagliato: il passato lo hai dietro le spalle e il futuro sarà quel che sarà. Non devi temere la morte perché è inevitabile, ogni giorno procediamo verso di lei. Vivi ogni giorno al massimo, concentrati sul presente. Fortifica il tuo spirito, godi delle gioie di ogni momento e quando ti sentirai carente di contatti sociali cerca di bastare a te stesso il più possibile. Così riuscirai a superare questo difficile momento nel migliore dei modi. Stammi bene

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La D.A.D. dell'Unitre

di Giuseppina D’Amato e Angela Gardin

Dopo un breve periodo di sgomento, noi insegnanti di inglese dell’Unitre e amiche da 50 anni, ci siamo dette: “Se i nostri nipoti possono seguire la didattica a distanza perché non possiamo farlo anche noi?” Dopo esserci consultate abbiamo pensato che potevamo continuare le nostre lezioni usando semplicemente WhatsApp, visto che esistevano già i gruppi classe in questa applicazione. Con entusiasmo abbiamo contattato la presidente Elsa Caggiani che è stata piacevolmente sorpresa della nostra idea. Quindi, sentito il parere e la disponibilità degli allievi dei nostri corsi, e la loro pronta risposta, ci siamo rese conto che proseguire le lezioni con la consueta cadenza settimanale sarebbe stato molto importante; avrebbe contribuito non solo al miglioramento della lingua inglese, ma anche e soprattutto a risollevare il morale e ad evadere dalla prigione in cui eravamo costretti. Abbiamo adattato la nostra programmazione alla didattica online e in itinere abbiamo sentito il bisogno di poterci vedere tutti contemporaneamente, così abbiamo scelto uno dei programmi più facili: Jitsi Meet , ma all’inizio, nell’adoperarlo: "Mi vedete? Mi sentite? Ti vedo, ma non ti sento! Apri il microfono! E’sparita Pina! "Etc… Sia noi docenti che i nostri allievi abbiamo affrontato questa sfida con successo e in questo modo si è concluso l’anno accademico 2019/2020. Durante l’estate, con l’aiuto prezioso dei tecnici dell’Unitre, siamo passate a un programma più sofisticato: Google Meet. Durante le lezioni abbiamo potuto usufruire di molteplici sussidi didattici, collegandoci ad altri siti web, ad altre applicazioni e con altri docenti dal Regno Unito. Nel corso dell’Anno Accademico 2020/2021 si sono unite alla nostra esperienza altre docenti di lingua straniera e attualmente si stanno svolgendo sei corsi di inglese, due di francese e uno di spagnolo. Il giorno in cui potremo ritornare alla docenza in presenza, rimpiangeremo di sicuro la qualità delle lezioni online, integrate da risorse didattiche complementari, che ci hanno permesso di svolgere i nostri corsi nonostante la pandemia.

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UNITRE ­ Mogliano Veneto

Febbraio 2020: improvvisamente il lockdown! Scuole chiuse, bar e ristoranti chiusi, negozi chiusi, spesa e shopping on line, Unitre chiusa! La vita sembrava essersi fermata!


Cambiamenti e trasformazioni in tempo di pandemia

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di Michela Trabucco Come possiamo contrastare efficacemente questo tempo anomalo che ha alterato pesantemente la nostra vita in tutti i suoi aspetti? Come beneficiare di un soffio di leggerezza per affrontare il difficile quotidiano? La mia testimonianza vuole provare a dare una risposta ottimista, nonostante tutto, nonostante questo, come dire, spiazzante tempo. E non uso il termine positiva, mai come ora abusato e carico di ambiguità. Perché mai proprio ottimista? Forse perché ho fatto una scoperta, o meglio, ho riscoperto una forma di sensibilità che era latente fin dalla mia infanzia: la scrittura. L’impulso dello scrivere è il mezzo attraverso il quale trasmettere le mie emozioni, poter comunicare con le persone lontane, rese lontane da queste circostanze avverse. E’ stata come un’esplosione dirompente, uno sgorgare improvviso da una sorgente nascosta, io per prima ne sono rimasta sorpresa. Non ho timore ad ammettere che è stata la mia salvezza, una cura, una deliziosa terapia che ha generato un ritorno di affetto, vicinanza, condivisione. Ho creato una consuetudine virtuosa. Ogni giorno da quasi un anno scrivo una poesia, alcune righe, che originano dagli stimoli più diversi e comuni: una parola, un oggetto, un nome, un pensiero. E’ sufficiente un modesto innesco per dare vita alla penna sul foglio bianco. Poi, giornalmente, invio senza riserve i miei pensieri alle persone care che affettuosamente mi leggono con costanza. Sentivo la necessità di arrivare facilmente e rapidamente ai miei destinatari e quindi, malgrado una certa ritrosia informatica, mi sono convertita alla messaggistica di WhatsApp, ma non mi sono fermata qui, ho osato di più, sono stata davvero temeraria e così ho imparato ad usare l’applicazione Meet che consente le riunioni e gli incontri on line. Le parole sono amiche preziose, uniscono, alleg­ geriscono le pene, arricchiscono sedimentandosi

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pian piano anche in chi apparentemente non le condivide; la poesia è bellezza, perché consente a ciascuno un’interpretazione libera e personale. La conclusione alla quale sono giunta è che anche dalle avversità scaturisce qualcosa di buono. Perciò imparare a incanalare le proprie risorse in un qualsiasi progetto è bene, è di grande aiuto. Nulla è perduto se siamo vicini e insieme proviamo a superare gli ostacoli.

PERCHÉ UNA POESIA Scrivere versi e insolite rime riempire pagine mischiare vocali parole libere parole prigioniere luoghi lontani e amori presenti quanti segni e suoni insistenti da me a te scambio di ruoli finzione o realtà scarti emotivi di colori sgargianti.


Generazione U3 Si parla oggi a proposito dei giovani e degli adolescenti di Generazione Z, Generazione Alpha, di ”nativi digitali”, ma noi associati all’Università della terza età ­ Unitre non potremmo chiamarci Generazione U3? Penso di sì, visto che in tempi di pandemia ci siamo adeguati alle nuove tecnologie del mondo digitale bypassando le difficoltà oggettive per entrare in sintonia con il mezzo utilizzato: internet, piattaforme social per continuare ad intrattenere buone relazioni, seguire lezioni, mantenere rapporti a distanza. All’inizio, non senza difficoltà, per qualcuno si è reso necessario aggiornare il computer, spesso ci si è avvalsi dell’aiuto dei nipoti “social animals” ma, una volta apprese da questi le dinamiche, siamo stati in grado di utilizzare le numerose opzioni che offre la moderna tecnologia: Google meet, YouTube, WhatsApp…. Non è mancato il sostegno dei nostri insegnanti che puntualmente ogni settimana erano on­line per invitarci a partecipare alla lezione, pronti ad interagire con noi. Noi studenti, dopo i saluti e qualche chiacchiera, diligentemente svolgevamo gli esercizi condividendo le nostre conoscenze, gli approfondimenti sui temi assegnati, avviando conversazioni in lingua incoraggiati dall’in­ segnante che interveniva durante la lezione, sostenendo il nostro apprendimento e valorizzando le potenzialità di ognuno di noi. Non neghiamo che ci siano stati momenti di difficoltà nell’uso di Meet: qualcuno improvvisamente spariva dallo schermo e bisognava recuperarlo, qualcun altro non appariva sullo schermo ma si sentiva la sua voce; raramente era l’insegnante a sparire e questo era un momento veramente di disorientamento, ma si risolveva tutto molto presto. Era importante per tutti noi stare insieme, resistere all’isolamento fisico ed emozionale a cui siamo stati costretti, allentare la tensione e fronteggiare anche così l’epidemia. Il programma svolto è stato molto interessante,

si è discusso su tanti argomenti di attualità ma anche sono state lette e commentate alcune poesie di poeti americani che hanno risvegliato in noi sentimenti ed emozioni mettendosi in contatto con la nostra anima. L’incontro settimanale è stato arricchito da tanta partecipazione, dal supporto di ognuno di noi, ma soprattutto dalla disponibilità e dalla competenza dei docenti che hanno sostenuto la motivazione e il desiderio di ritrovarci. Anche se solo virtualmente, ci siamo riorganizzati in modo positivo ed efficace allentando così la tensione a cui oggi siamo sottoposti causa Coronavirus. Noi comunque continueremo ad essere resilienti e ad

ottobre ci ritroveremo in presenza per continuare il nostro percorso e per partecipare alle lezioni; finalmente potremo dire: ce l’abbiamo fatta! Abbiamo combattuto contro un nemico terribile, ma abbiamo vinto!

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UNITRE ­ Mogliano Veneto

di Maria Marrelli


La narrazione di sè come cura

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di Sabina Ferro Cos’è la Medicina Narrativa e quali sono le sue origini? Negli anni ottanta del secolo scorso, nelle Università americane, è stato lanciato un grido d’allarme rispetto a una sorta di “emorragia dell’anima” che sembrava mettere in pericolo il fine stesso della medicina. Ci si è dunque chiesti dove stesse portando il modello scientifico di medicina “super tecnologica”. Si occupava veramente della salute della persona? Il paziente, nella sua unitarietà di corpo, mente, spirito e relazionalità familiare e sociale era considerato? La Medicina veramente centrata sul paziente, richiede una CURA fondata sull’ascolto e di conseguenza sul dialogo. Parlare di Medicina Narrativa significa quindi aprirsi ad un nuovo concetto di malattia e di cura, vuol dire adottare una pratica clinica assistenziale basata sulla competenza della narrazione. Il narrarsi, il raccontarsi sono strumenti fondamentali per acquisire, comprendere e integrare i diversi punti di vista e tracciano un ponte tra il medico e il vissuto del paziente. Il concetto di malattia viene ad essere trasformato in questo modo perché non si riduce ad una diagnosi o a una classificazione, ma si cala dentro la storia del paziente e prende senso nel modo in cui egli la vive e la sperimenta. La malattia con la conseguente sofferenza, crea una “ frattura della identità biografica”, mentre attraverso la narrazione e l’ascolto, il paziente diventa il vero esperto della sua malattia, attribuendole nuovo significato. E’ un invito a riflettere con qualcuno su ciò che ci sta accadendo, per iniziare ad accettare e a integrare nella propria vita, l’esperienza dolorosa della malattia, della crisi, del trauma e della disabilità. Questa nuova pratica si rivolge quindi ai pazienti, ai familiari e agli operatori sanitari allo scopo di riconoscere, rappresentare e interpretare le storie di malattia. La narrazione dell’esperienza sia che venga fatta dall’operatore che dal paziente, che dai familiari, acquista così un ruolo significativo nella relazione di aiuto e diventa condivisa e un’importante risorsa. Ci permette di comunicare ed esprimere i nostri stati d’animo e disagi e di fornire testimonianze che potranno essere utili ad altri medici o pazienti. Soprattutto ci consente di prendere decisioni con più consapevolezza. La Medicina Narrativa come approccio relazionale, necessita del mondo dell’Arte e della narrazione prendendo vita attraverso strumenti come la scrittura, la letteratura, la poesia, la musica, le arti figurative, la fotografia, il teatro e il cinema. Lo strumento più importante per lo sviluppo della competenza della narrazione è la scrittura autobiografica. Nel silenzio dello stare tra il foglio e il pensiero, spesso si trova la via per raccontarsi. In questo contesto, la scrittura diventa spazio per sé e strumento di cura. Scrivendo di sé nell’ambito della cura, pazienti e operatori si sentono accolti, ascoltati e compresi. Riflettere su di sé porta ad un miglioramento della propria autoconsapevolezza. Si rielabora la propria esperienza ma soprattutto si ascoltano le proprie emozioni. Condividere ciò che si scrive in gruppo rispettando il patto autobiografico crea inoltre un legame con la storia degli altri e rafforza il senso di appartenenza e di solidarietà: un momento di sosta dove ritrovarsi in questa frattura. In conclusione, la pratica della Medicina Narrativa, attraverso la scrittura, diventa forma di autosupporto e di ricomprensione della propria storia. E’ una modalità che sviluppa capacità osservative e di giudizio utili a costruire un “sapere intuitivo” importante per gli operatori per migliorare la relazione di aiuto.

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Le nostre copertine

La Redazione Con la nostra copertina in prima pagina (creata dall’estro del nostro redattore Dino Santarossa, come tutte le altre copertine sin dalla nascita del giornale) rivolgiamo a tutti voi, care amiche e cari amici della nostra Rivista, il nostro più caro saluto, felici di ritrovarvi come sempre. L’arcobaleno è il simbolo di speranza, il volo degli uccelli il nostro tornare a volare tutti insieme, l’albero è la nostra associazione, le copertine degli ultimi due numeri della Rivista esprimono la volontà di voler continuare a lavorare per voi che in tutti questi anni ci avete seguito e avete collaborato con i vostri scritti. Nella 4a copertina è raffigurato un dipinto di Serio Muraro “La Rocca di Casale sul Sile”. Serio Muraro è stato un pittore nato a Mogliano Veneto nel 1922. La sua dedizione alla pittura nacque in giovanissima età. Subito dopo il dopoguerra lavorò nelle più importanti ville del Terraglio e in prestigiosi palazzi a Venezia, dove eseguì lavori su stucchi, marmorini e ripristini di affreschi. La sua arte durante l’arco della sua vita si evolse e si espresse attraverso diverse tecniche: dai carboncini, alla pittura ad olio, allo spatolato, all’acquarello sino ad arrivare, in età matura, agli affreschi che si possono ancora ammirare in diverse ville venete e nell’abitazione in cui è vissuto. Fondamentale nella sua vita fu l’incontro con il professore Giancarlo Zaramella e con il grande maestro partecipò alla fondazione del Circolo artistico G.B. Piranesi, che, sin dalla sua nascita nel 1962, ha rappresentato per la nostra città di Mogliano Veneto un ragguardevole esempio di luogo di aggregazione culturale e di fermento di idee. “La Rocca di Casale sul Sile” è un dipinto paesaggistico ad olio appartenente al periodo della maturità del pittore e raffigura con toni sfumati e quasi melanconici la famosa torre dei Carraresi, immersa nella natura della campagna trevigiana. Serio Muraro si è spento nel 1995, all’età di 73 anni.

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UNITRE ­ Mogliano Veneto

Allora perché non lasciarci con una pratica di scrittura iniziando dallo scegliere un quadro su tre e scrivere cosa ci racconta?


Pionieri veneti dell’automobile

di Renzo De Zottis

L'albero della vita ­ Maggio 2021

Quando parliamo di geografia dell’automobile italiana il nostro pensiero va inevitabilmente a Torino, grazie alla Fiat e alla Lancia, in seconda battuta a Milano dove è nata l’Alfa Romeo e infine a Modena e Bologna, culla di marchi prestigiosi come Ferrari, Maserati e Lamborghini. Eppure anche il nostro Veneto può vantare personaggi di assoluto rilievo nella storia

triciclo Bernardi 1896

illuminante, Bernardi anticipava di alcuni mesi il tedesco Gottlieb Daimler, universalmente riconosciuto con Karl Benz come l’inventore della prima automobile. Questo propulsore aveva la modestissima potenza di 0,024 CV e venne usato per azionare piccole macchine da cucire e perfino il triciclo giocattolo del figlio Lauro. Nel 1893 Bernardi costruì un veicolo composto da una bicicletta spinta da un rimorchietto sul quale veniva montato un piccolo motore e successivamente si dedicò alla costruzione di un motore a quattro tempi, denominato motore Lauro, monocilindrico alimentato a benzina. La sua realizzazione più importante resta però una vettura a tre ruote con motore di 625 cc. e una potenza di due cavalli e mezzo. A tal fine nel 1896 Bernardi fondò a Padova la Casa Miari e Giusti (la Fiat nascerà solo tre anni più tardi) da dove uscirono un centinaio di esemplari di questa automobile che raggiungeva la velocità massima di 35 Km/h e partecipò anche a gare

dell’automobile, in particolare tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento quando venne inventato e perfezionato questo straordinario mezzo di locomozione. Il primo è il veronese Enrico Zeno Bernardi (1841­1919), direttore dell’Istituto di Macchine della facoltà di ingegneria di Padova, che ottenne nel 1887 il brevetto per il progetto di un motore a due tempi alimentato a benzina grazie ad un nuovo dispositivo denominato “carburatore”. Fu un vero e proprio primato assoluto in quanto, con l’utilizzo della benzina al posto del gas

bicicletta motorizzata Bernardi 1893

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motocicletta Menon anni Venti

internazionali ottenendo 7 primi posti, 2 secondi posti e 5 terzi posti. In particolare la prima vittoria la ottenne alla Torino­Asti­Alessandria e ritorno del 1898 percorrendo 192 chilometri in 9 ore e 47 minuti. Altro nome importante dell’automobilismo pioneristico veneto è quello del roncadese Carlo Menon (1858­1924) il quale comincia costruendo velocipedi (gli antenati della bicicletta) dal telaio in legno con due ruote cerchiate in ferro ma passa rapidamente a costruire i telai in tubi di acciaio con le ruote ricoperte di gomma piena. Nel 1887 la sua bottega vanta già 40 dipendenti e


si fregia del nome di “Carlo Menon, Artigiano Fabbro Ferraio, Armaiolo, Costruttore di Biciclette su commissione”. Le sue biciclette diventano ben presto concorrenziali con i marchi nazionali più famosi come Stucchi e Bianchi ma il vulcanico Carlo non si ferma qui. Il suo vero sogno è quello di costruire una “carrozza senza cavalli”, come venivano denominate ai primordi le automobili. Nel 1897 realizza un primo prototipo dotato di un motore francese De Dion­ Bouton da due cavalli e mezzo, superando difficoltà tecniche immense relative ad accensione, carburazione, raffreddamento,

Davvero, siamo fortunati! di Margherita Bonamico "A Mogliano siete fortunati: avete l'UNITRE"! ­ Spesso lo abbiamo sentito dire da amici o conoscenti di zone vicine. Davvero, siamo fortunati! L'UNITRE non si è lasciata avvilire dal Covid e due indomite insegnanti di inglese, innamorate della loro disciplina e irriducibili divulgatrici di cultura e di cortesia, la prof. Angela Gardin e la prof. Pina D'Amato hanno proposto di continuare le loro lezioni on line. Panico, sudori freddi, attacchi di balbuzie ­ calmi tutti, ce la faremo! E la nostra instancabile Presidente, prof.ssa Caggiani, ha accolto il suggerimento e ha permesso di realizzare i nostri incontri. Le prime lezioni sono state, diciamo, sperimentali, poi anche i più negati per la tecnologia si sono abituati, guidati anche da un paziente e preparatissimo allievo A.G. (Antonio), che vede le schermate dei nostri computer anche ad occhi chiusi. Un esperimento vincente, che ci ha permesso di continuare la lezioni con impegno, profitto e il solito entusiasmo. La nostra riconoscenza alle insegnanti Angela e Pina è totale e il nostro gruppo di compagni è diventato ancor più un gruppo compatto di amici, partecipe di gioie e dispiaceri di cui tutti insieme godiamo e patiamo. Ci colleghiamo dalle nostre cucine, dai nostri salotti, alcuni dal treno o dalle seconde case, ma cerchiamo di non perdere mai una lezione.

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UNITRE ­ Mogliano Veneto

Vetturetta Menon 1897

lubrificazione, frizione, cambio di velocità, sterzo, trasmissione e differenziale. Affronta perfino la costruzione di pneumatici visto che le coperture da bicicletta utilizzate finora risultavano troppo leggere e sembra che abbia collaborato con la Pirelli per realizzare i primi pneumatici utilizzando delle fasce di gomma e tela da vela! Fra gli ultimi anni del secolo e il 1902 dovrebbero essere state costruite a Roncade almeno 23 automobili Menon con motori di produzione propria (molto diversi per cilindrata e tipo di raffreddamento) che potevano funzionare a benzina o ad alcool. Nel 1916 l’azienda inizia a produrre anche motociclette e durante la Grande Guerra riceve numerose commesse militari relative ad armamenti che continueranno anche negli anni successivi. Purtroppo di questo patrimonio straordinario è rimasto poco o nulla dopo la vendita della ditta nel 1985. L’ultimo esemplare di vetturetta è oggi ancora a Roncade e viene gelosamente custodita dagli eredi di Carlo Menon, straordinaria figura di inventore e imprenditore ancora in attesa del giusto riconoscimento nel novero dei pionieri dell’automobilismo.


L'albero della vita ­ Maggio 2021

L'Associazione art4sport ONLUS Presidente Teresa Angela Grandis L'Associazione art4sport ONLUS é stata fondata a fine 2009 e si ispira alla storia di Beatrice Vio chiamata “Bebe”, una bambina con tante passioni tra cui quella per la scherma. Bebe all’età di 11 anni è stata colpita da una grave malattia che ha portato all’amputazione dei quattro arti. Nel giro di un anno è riuscita a tornare alla sua vita di prima e uno dei fattori motivanti che l’ha portata a reagire con determinazione è stato il suo desiderio di ritornare a praticare scherma. I genitori di Bebe si sono attivati per conoscere la realtà delle protesi ed attrezzature sportive per i ragazzi con questo tipo di disabilità. Oltre a ciò l’intera famiglia si è dovuta scontrare con la sconcertante situazione italiana dal momento che c’è l’assoluta mancanza di supporto da parte del Sistema Sanitario Nazionale. Da qui è nata la decisione di creare un’associazione che fungesse da punto di riferimento per lei e per altri ragazzi con amputazione di arto. Art4sport crede fermamente che lo sport sia importante per bambini e ragazzi portatori di protesi, in quanto dà loro grandi motivazioni e soddisfazioni,

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mantiene in forma il fisico e permette di acquisire maggiore consapevolezza del proprio corpo. Nascono così tanti progetti sportivi dedicati ai singoli bambini disabili sparsi per l'Italia e l'art4sport team è in continua crescita. La squadra, a tutt’oggi, conta 35 bambini e ragazzi provenienti da tutta Italia che art4sport segue e aiuta. Ognuno di loro viene seguito in un percorso sportivo ma anche di vita, fatto di crescita personale e di rafforzamento del fisico ma anche dello spirito. Lo staff di art4sport sa bene che non è possibile cambiare il mondo ma vuole dimostrare a questi bambini che con la determinazione ed i giusti mezzi tecnici non ci sono limiti, indipendentemente da quello che la vita li obbliga a sopportare ogni giorno. Da poco è stato anche creato il progetto “Fly2Tokyo” volto a mostrare e far conoscere al grande pubblico il sogno di 10 ragazzi dell’art4sport team verso le Paralimpiadi di Tokyo 2020.


8 Marzo: Festa della Donna. In questa occasione il mio pensiero va a una pagina poco nota del passato che ha come protagoniste delle donne coraggiose: le Portatrici Carniche. La loro storia comincia nell’agosto del 1915 quando, lungo la linea del fronte del “Settore Carnia”, 31 battaglioni di soldati italiani erano impegnati in aspre battaglie contro l’esercito austroungarico. I rifornimenti di vettovaglie e materiali bellici dovevano partire dalle valli sottostanti per arrivare ad alta quota, ma nessun militare poteva essere assegnato ai trasporti per non indebolire la forza operativa della difesa. I vari Comandi furono costretti a chiedere aiuto alla popolazione delle vallate, abitate in quel momento da vecchi, donne e bambini, dato che gli uomini validi erano impegnati nel conflitto. Furono le donne a mettersi a disposizione dell’esercito. Abituate da sempre alla fatica e temprate dalla vita dura del tempo, utilizzarono le loro “gerle” per i carichi di munizioni, medicinali, cibo e vari materiali necessari a rinforzare le postazioni, inerpicandosi lungo sentieri impervi. Non vi erano strade per il transito di carri e automezzi e tutto doveva essere caricato sulle spalle. Nacque così un Corpo di Ausiliarie di quasi 1500 donne appartenenti a 27 Comuni: furono munite di un libretto di lavoro in cui i militari addetti ai vari magazzini segnavano le presenze, i viaggi compiuti e il materiale trasportato. Portavano un bracciale rosso di riconoscimento. I vari gruppi di 15­20 unità partivano dai depositi militari per

raggiungere le postazioni, percorrendo per 2­4 ore sentieri ripidi con un peso di 30­40 kg sulle spalle. Scaricato il materiale ritornavano alle loro case, alle stalle e alle famiglie da accudire, con i messaggi dei soldati, i vestiti da lavare e , all’occorrenza, trasportando i feriti con le barelle e i morti che poi venivano sepolti nei cimiteri in fosse da loro stesse scavate. Ricevevano un compenso di una lira e cinquanta centesimi per ogni carico consegnato e potevano essere chiamate a qualunque ora del giorno o della notte. Accadde che tre di queste furono ferite e Maria Plozner Mentil, di Timau (Tolmezzo), fu colpita a morte da un cecchino austriaco mentre si riposava dopo aver scaricato la gerla colma di munizioni. Aveva 32 anni, era madre di quattro figli e il marito combatteva sul Fronte Carsico. Maria Plozner Mentil ebbe un funerale con gli onori militari cui parteciparono tutte le portatrici, ora la sua salma riposa nell’Ossario di Timau, vicino ai resti di 1763 soldati italiani e austroungarici. Nel 1987 le fu conferita dal Presidente Luigi Scalfaro la Medaglia d’Oro al Valor Militare. Tempo fa sono stata a Timau, ultimo paese prima del confine austriaco, dove ho potuto ammirare il grande monumento in bronzo intitolato a Maria Plozner Mentil e alle Portatrici Carniche, donne coraggiose che meritano di essere ricordate.

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Le portatrici carniche di Cecilia Barbato


Il piacere della lettura Massimo Gramellini – C'ERA UNA VOLTA ADESSO – Longanesi, Milano 2020 Il lockdown e la Pandemia visti attraverso gli occhi di un bambino di nove anni... Massimo Gramellini ci racconta il difficile rapporto tra un figlio e un padre, la vita di una simpatica famiglia che vive in un condominio di ringhiera, testimonia sentimenti, emozioni, pene e difficoltà che tutti abbiamo affrontato in quel periodo e stiamo affrontando tuttora, con empatia, tenerezza, umorismo anche, lievita' e bravura

L'albero della vita ­ Maggio 2021

Valérie Perrin ­ CAMBIARE L'ACQUA AI FIORI – Edizioni e/o , Roma 2019 Violette, dal passato intenso e sfortunato, fa la guardiana di un cimitero, in un paesino della Francia. La storia si svolge tra vari intrecci e continui flashback. Il personaggio della protagonista è delizioso, permeato di grazia e generosità verso gli altri, nonostante il dolore che ha provato nel corso della sua vita. È un romanzo che io ho trovato bellissimo, intenso, commovente, ma anche leggero. Valerie Perrin lo ha scritto benissimo, sembra la sceneggiatura di un film, ambiente in cui la scrittrice sa muoversi molto bene...

di Donatella Grespi Giuseppe Lupo ­ BREVE STORIA DEL MIO SILENZIO – Marsilio, Venezia 2019 Prodigiosa è la capacità di scrittura di Giuseppe Lupo, capace di condensare in appena duecento pagine del suo nuovo romanzo la storia di un’infanzia, di una vocazione, della scoperta della letteratura. L’infanzia, più che un tempo, è uno spazio. Infatti dall’infanzia si esce e, quando si è fortunati, ci si torna. Così avviene al protagonista di questo libro: un bimbo che a quattro anni perde l’uso del linguaggio, da un giorno all’altro, alla nascita della sorella. Da quel momento il suo destino cambia, le parole si fanno nemiche, anche se poi, con il passare degli anni, diventeranno i mattoni con cui costruirà la propria identità. Breve storia del mio silenzio è il romanzo di un’infanzia vissuta tra giocattoli e macchine da scrivere, di una giovinezza scandita da fughe e ritorni nel luogo dove si è nati, sempre all’insegna di quel controverso rapporto tra rifiuto e desiderio di dire, che accompagna la vita del protagonista. Così Giuseppe Lupo racconta, sempre ironico e sempre affettuoso, dei genitori maestri elementari e di un paese aperto a poeti e artisti, di una Basilicata che da rurale si trasforma in borghese, di una Milano fatta di luci e di libri, di un’Italia che si allontana dagli anni Sessanta e si avvia verso l’epilogo di un Novecento dominato dalla confusione mediatica. E soprattutto racconta, con amore ed esattezza, come un trauma infantile possa trasformarsi in vocazione e quanto le parole siano state la sua casa, anche quando non c’erano.

di Gabriella Madeyski

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Sara Rattaro ­ NON VOLARE VIA – Garzanti, Milano 2013

Kent Haruf ­ VINCOLI ALLE ORIGINI DI HOLT – NNE Editore, Milano 2018 Conosciamo Kent Haruf, romanziere statunitense, per aver pubblicato la nota “TRILOGIA DELLA PIANURA” e successivamente "LE NOSTRE ANIME DI NOTTE" di cui vi avevamo suggerito la lettura nel numero di Dicembre ­Gennaio 2018 del nostro Giornale. Soltanto nel 2018, arriva in Italia il suo romanzo d’esordio “VINCOLI” uscito negli USA nel 1984. Come recita il sottotitolo "Alle origini di Holt", veniamo a scoprire come nasce questa cittadina immaginaria dell’America rurale, quali sono stati i primi personaggi che l’hanno popolata e quali sono state le vicende che si sono susseguite nel corso degli anni. Haruf, com’è nel suo stile, è sincero e schietto nel raccontare e non fa sconti quando si tratta di descrivere episodi cruenti e tragici. Nello stesso tempo però è maestro nel porre l’accento sui sentimenti e sui forti legami familiari e amicali come appunto possiamo riscontrare leggendo VINCOLI.

Giacomo Mazzariol ­ MIO FRATELLO RINCORRE I DINOSAURI ­ Edizioni E/O, Roma 2019 Giacomo Mazzariol ha 19 anni quando scrive questo libro e ciò che racconta è la sua storia di crescita e formazione accanto a un tanto atteso fratello, nato con la Sindrome di Down. Nessuna anticipazione sullo sviluppo della vicenda e sui personaggi coinvolti perché il lettore sia libero di immergersi in questa narrazione autentica e commovente e si lasci trasportare dalle proprie emozioni pagina dopo pagina.

Albachiara Gasparella

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Sara Rattaro, giovane scrittrice laureata in Biologia e in Scienze della comunicazione, è autrice di numerosi romanzi tra i quali “ NIENTE E’ COME TE “ vincitore del Premio Bancarella 2015 In “NON VOLARE VIA” conosciamo una bella famiglia i cui equilibri vengono sconvolti dopo la nascita del secondogenito affetto da totale sordità. Gestire la crescita di Matteo diventa un’ impresa difficile che richiede coraggio, rinunce, scelte pesanti, dedizione illimitata e soprattutto tanto amore. La famiglia fa squadra attorno al bambino affinché egli impari a capire e a farsi capire… Il percorso sarà accidentato; ci sarà chi ad un certo punto “volerà via “ dalle sue responsabilità e chi "tradirà"a sua volta, ma ci sarà anche chi, nonostante la giovane età, non verrà mai meno ai patti. Alla fine però qualcuno arriverà a dire: “Non lo vorrei un figlio che non fosse sordo, perché quel ragazzo non saresti tu. “


L'albero della vita ­ Maggio 2021

La peste di Atene del 430 a.C. di Giuseppe Ragusa La pandemia del Covid­19 tuttora in corso ha sconvolto nell’ultimo anno la vita di milioni di persone in tutto il mondo e si comincia solo adesso a vedere la luce in fondo al tunnel con la scoperta di più vaccini. Guardando indietro nella storia, altre epidemie e pandemie hanno segnato la storia dell’umanità. Una di queste è stata la Peste di Atene del 430 a.C., una data lontana nel tempo ma che non ha perso la sua tragicità anche nei tempi attuali. La troviamo narrata nel II libro delle Storie di Tucidide dove lo storico greco racconta la guerra del Peloponneso, durante la quale un’epidemia di peste colpì con violenza la capitale greca. Il diffondersi dell’epidemia venne favorito dalle particolari condizioni del momento: in quel momento la città era sotto assedio, e le precarie condizioni igienico­sanitarie amplificarono la virulenza del morbo, che provocò numerose migliaia di morti. Gli studiosi moderni ipotizzano che, in realtà, possa essersi trattato di vaiolo o di una forma virale particolarmente aggressiva: ma ciò non toglie nulla alla tensione narrativa e alla profonda umanità del racconto di Tucidide. In un crescendo sempre più drammatico, lo scrittore illustra la diffusione geografica del male, le ipotesi sulle sue cause – una vera e propria azione di guerra batteriologica da parte degli Spartani –, i sintomi e i segni presentati dagli ammalati, l’alternarsi di paura e coraggio, l’abbandono e la solidarietà nelle relazioni umane e familiari, fino alle ripercussioni del morbo sulla “pietas” per i morti, il rispetto degli dei e delle consuetudini religiose, l’osservanza delle leggi civili. La storia. Subito all’inizio dell’estate i Peloponnesiaci e i loro alleati invasero l’Attica con i due terzi delle loro forze e dopo essersi accampati cominciarono a devastare la terra. Erano nell’Attica solo da pochi giorni, quando il morbo cominciò a manifestarsi ad Atene.

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Dapprima – secondo il racconto di Tucidide ­ la peste era iniziata in Etiopia, poi passò anche in Egitto e in Libia. Quando scoppiò la pestilenza, la novità e la gravità della malattia fecero sorgere il sospetto di un complotto ordito dagli Spartani: «Su Atene si abbatté all’improvviso; dapprima colpì le persone al Pireo, tanto che qui si disse che i Peloponnesiaci avevano avvelenato i pozzi (al Pireo non vi erano ancora fontane). Più tardi giunse anche nella città alta, col risultato che il numero dei morti crebbe notevolmente». Gli effetti furono subito molto gravi, anche perché nessuno sembrava in grado di frenare la malattia: «In nessun luogo si aveva memoria di una pestilenza così grave e di una tale moria di persone. Infatti non erano in grado di fronteggiarlo né i medici, che all’inizio prestavano le loro cure senza conoscerne la natura, e anzi erano i primi a morire in quanto più degli altri si accostavano agli infermi, né nessun’altra arte di origine umana; ugualmente le suppliche nei santuari, il ricorso a oracoli e altre cose del genere, tutto si rivelò inutile; e alla fine, sopraffatti dalla sventura, rinunciarono a qualsiasi tentativo». I sintomi del male. Così lo storico continua: «Io stesso ne fui affetto e vidi altri malati. Senza alcuna motivazione visibile, all’improvviso, le persone venivano prese da vampate di calore alla testa, arrossamento e bruciore agli occhi. La gola e la lingua assumevano subito un colore sanguigno, ed emettevano un odore strano e sgradevole. Dopo questi sintomi sopraggiun­ gevano starnuti e raucedine, e dopo non molto tempo il male scendeva al petto con una forte tosse; e quando raggiungeva lo stomaco provocava spasmi, svuotamenti di bile e forti dolori. Nella maggior parte dei casi, si manifestava anche un singhiozzo con sforzi di vomito che generavano violente convulsioni. Il corpo non era troppo caldo, né pallido, ma rossastro, livido e come fiorito di piccole pustole e di ulcere; le parti interne però ardevano a tal punto da non riuscire a sopportare nemmeno le vesti leggere, né altro che non fosse l’andar nudi, e il gettarsi nell’acqua fredda. E molte persone non curate lo fecero davvero, gettandosi nei pozzi, oppresse da una sete inestinguibile: ma il


male, inizialmente localizzato nella testa, percorreva tutto il corpo e infine raggiungeva le estremità, fino ai genitali, alle mani, ai piedi e anche agli occhi: e molti si salvarono perdendo queste parti. Altri, fisicamente guariti, smarrirono però la memoria, e non riconoscevano più se stessi e i loro familiari.» Inoltre, l'affollamento causato dall'afflusso di rifugiati portò alla scarsità di cibo e delle forniture di acqua e all'accumulo di rifiuti con enorme proliferazione di topi, mosche, zanzare, pidocchi. Queste condizioni avrebbero peggiorato il diffondersi e la letalità dell'epidemia. Le conseguenze sociali. Tucidide cerca di descrivere con la maggior accuratezza possibile la sintomatologia del morbo ma sono soprattutto le conseguenze dell’epidemia sulla società ateniese ad essere al centro della sua narrazione. L’inutilità dei rimedi infatti provocò un generale scoraggiamento fino a sfociare nella disperazione; molti finirono per morire in solitudine, abbandonati dai parenti timorosi del contagio; solo coloro che sopravvivevano alla

malattia dimostravano maggior pietà per i morenti. Le regole della vita civile iniziarono a essere sovvertite: le norme sulle sepolture vennero stravolte, accadde perfino che i cadaveri non venissero neppure sepolti ma ammucchiati nei santuari, senza alcun rispetto delle norme né divine né umane: «Poiché non c’erano case disponibili ed essi vivevano in tuguri che la stagione rendeva soffocanti, la strage avveniva in piena confusione: i corpi dei morti erano ammucchiati gli uni sugli altri, e si vedevano uomini mezzo morti rotolarsi per le strade e intorno a tutte le fontane spinti dal desiderio di bere. I santuari in cui avevano preso dimora erano colmi di cadaveri, dal momento che morivano lì stesso: sotto l’incalzare violento del male, non sapendo che cosa sarebbe avvenuto di loro, gli uomini divennero indifferenti in eguale misura nei confronti delle cose sacre e di quelle profane. Tutte le usanze funerarie precedentemente in vigore furono sconvolte e ciascuno provvedeva alla sepoltura come poteva». Regnava l’ανομία, la mancanza di regole, che diventò disordine e anarchia, e si insinuò nella vita quotidiana: gli individui cercavano di appagare i propri istinti senza più alcuna inibizione, quelli che erano i criteri condivisi del bello (καλόν) vennero sostituiti dalle proprie momentanee pulsioni; si perseguiva il piacere egoistico a scapito di qualsiasi finalità comune. È indubbiamente un quadro fosco e amaro, che ritroveremo anche nelle pagine della peste descritte da Boccaccio nel suo Decamerone e da Manzoni nei Promessi Sposi. Nella sovraffollata Atene la malattia uccise da un terzo a due terzi della popolazione. Molti soldati di Atene morirono assieme al loro generale Pericle. La vista dei roghi ardenti ad Atene consigliò agli spartani di ritirare le loro truppe non volendo rischiare il contagio con il nemico malato.

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bere molto o poco dava lo stesso risultato. La difficoltà di riposare e l’insonnia li opprimevano continuamente. E il corpo, per tutto il tempo in cui la malattia era al suo culmine, non si logorava, ma inaspettatamente resisteva, cosicché la maggior parte moriva dopo giorni per effetto del calore interno, avendo ancora un po’ di forza; se invece sopravvivevano a questa fase, la malattia scendeva nell’intestino e produceva forti ulcerazioni e una violenta diarrea, e così morivano in seguito, per lo sfinimento. Infatti il


Un pomeriggio particolare

L'albero della vita ­ Maggio 2021

di Marisa Toniolo Visita alla Mostra Ittica "Pesci, molluschi e crostacei della Laguna Veneta e dell’alto Adriatico." Giovedì 16 gennaio alcune di noi del corso di acquerello, su invito dell’insegnante Maria Antonietta Pasquon, ci siamo recate a Mestre per visitare la Mostra Ittica dell’acquarellista Claudio Trevisan. Siamo partite da Mogliano in cinque: Maria Antonietta, Adriana, Cinzia, Silvana ed io con due macchine. Contente di trascorrere un pomeriggio diverso dai soliti e chiacchierando del più e del meno, siamo arrivate a Mestre. Dato che eravamo in anticipo, abbiamo fatto una puntatina in libreria, un giretto per Piazza Ferretto sbirciando qua e là le vetrine dei negozi. Verso le 17, orario di apertura della mostra, abbiamo raggiunto il Palazzetto della Provvederia dove appunto era stata allestita. Siamo state ricevute molto cordialmente dall’incaricata all’accoglienza dei visitatori. Ha risposto alle nostre domande e ci ha offerto del materiale figurativo. Davanti agli acquerelli siamo rimaste incantate da tanta bellezza: i pesci, i molluschi e i crostacei dipinti erano davvero stupendi nella precisione scientifica con cui erano stati realizzati. La vivacità dei colori, le sfumature argentate e dorate delle squame, la luce degli occhi, l’accostamento dei colori…tutto incredibilmente

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perfetto e vivo. Sì, quegli animali sembravano vivi, guizzanti nell’acqua della laguna o su un banco del mercato. Insomma una vera gioia per gli occhi. L’ambiente, piccolo ma accogliente, si era nel frattempo riempito di visitatori, tra questi il pittore Enzo Ellero amico di Maria Antonietta con il quale ci siamo intrattenute. Il tempo è volato. Quando siamo uscite era già buio e si erano accese le luci della città. Come dopo ogni visita alle varie mostre "ogni salmo finisce in gloria" e pertanto ci siamo infilate in un “bacaro” per un giro di prosecco e per gli ultimi commenti sul nostro pomeriggio interessante e divertente. Ci siamo quindi salutate per raggiungere le rispettive macchine e dirigerci verso casa. E’ stato bello godere di tanta bellezza e stare insieme in allegria e amicizia. Un grazie di cuore alla nostra Insegnante che ci ha offerto questa opportunità. Abbiamo tutti bisogno di bellezza.


Uno spesso strato di neve ricopre i tetti, gli alberi, le strade. "Usciamo lo stesso" dice la signora avvolgendosi nel caldo mantello di pelliccia. Tatiana alza le spalle in segno di assenso. Abituata a temperature molto più rigide, un po' di neve non la spaventa di certo. La signora, piuttosto, così sofferente e avanti negli anni, potrebbe prendere un malanno! Ma ha imparato a non contraddirla, è l'unico sistema per farsi accettare da quella vecchia taciturna e solitaria. Il lavoro poi non è duro. Deve tenere in ordine una casa di certo spaziosa, ma spartana, del tutto priva di mobili superflui e di suppellettili, tappeti e fotografie. Cucina poco, la padrona mangia come un uccellino, lo stretto indispensabile, giusto qualche minestrina e un po' di verdura. Non ha neppure l'obbligo di tenerle compagnia perché l'altra rifiuta conversazioni che durano più di dieci minuti. Del resto, a differenza di altre persone anziane che vivono di ricordi e li ripetono all'infinito, lei sembra non averne o per lo meno non avere ricordi remoti della sua giovinezza. Tatiana sa che è vedova da poco, è molto benestante e ora sola al mondo. Piccole informazioni date col contagocce, risposte fatte di monosillabi. Ora stanno camminando piano, lungo il viale, attente a non scivolare. L'anziana procede con andatura eretta, poggiando la mano destra al bastone e reggendosi, con l'altra, al braccio della badante. Vanno in silenzio. Ad un tratto dei passi sordi, ovattati, alle loro spalle, rivelano due uomini, due ragazzi anzi, che indossano scarponi e giacconi pesanti. Le stanno raggiungendo. Uno tiene al guinzaglio uno splendido esemplare di pastore tedesco. "Bitte...Planak Hotel",chiede una voce stentorea. A questa vista, ma soprattutto al suono di questa frase, la vecchia, fino ad allora immersa nei suoi pensieri, sbianca di colpo. Il ragazzo si accorge di averla spaventata: "Entschuldigung... scusate... Planak hotel...bitte" e avvicinandosi a lei, come per rassicurarla,

protende la mano, le sfiora un braccio. Lei fa un balzo in dietro. Nei suoi occhi un mare di orrore, il suo corpo è squassato da un tremito che la percorre da capo a piedi. "Mi spiace...non sappiamo...non siamo di qui." Tatiana li liquida velocemente. Solo quando sono due puntini lontani, la vecchia, che era rimasta impietrita, sembra risvegliarsi. Stringe le labbra con forza, si raddrizza sulla schiena. "Ho ricordato di colpo quello che voglio dimen­ ticare..., "sussurra, "Oggi fa particolarmente freddo...andiamo a casa". I suoi occhi sembrano due pozzi vuoti, ma il tremore continua leggero, impercettibile. La ragazza collega particolari, indizi, brandelli di discorsi... Ripensa a quel corpo scheletrico, che tante volte ha aiutato a lavare, squarciato in certi punti da cicatrici, rivede quegli strani numeri sul braccio scambiati in un primo momento per un bizzarro tatuaggio, ricorda certi silenzi più eloquenti di tanti discorsi. E capisce. A volte il passato, anche se cancellato con tenacia, ritorna inatteso, prepotente, doloroso in una fredda mattina di fine gennaio. Bastano poche parole, un paesaggio coperto di neve, un cane...

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"Fa proprio freddo oggi. Appena a casa, berremo un tè bollente!" Rincuora la sua padrona e, per la prima volta, l'avvolge in un caldo abbraccio.

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Bastano poche parole di Donatella Grespi


L'albero della vita ­ Maggio 2021

DANTEDI’: l’attualità di Dante di Gabriella Madeyski Dantedì è la parola che il prof. Francesco Sabatini ha creato per battezzare il 25 marzo proclamato dal Consiglio dei ministri Giornata nazionale di Dante. L’idea della giornata è venuta a Paolo Di Stefano, giornalista del Corriere della sera ma il termine “Dantedì” è stato coniato dal Professore che voleva un nome solo, originale, comprensibile a tutti e in grado di scalzare il Dante­day che desiderava evitare: come martedì è il giorno di Marte, il 25 marzo sarà il giorno di Dante, che veneriamo come una “divinità” linguistica e culturale. Il 25 marzo di quest’anno acquista poi un ulteriore valore perché nel 2021 ricorre il settecentesimo anniversario della morte di Dante Alighieri, avvenuta tra il 13 e il 14 settembre del 1321. Già l’anno scorso, però, quando è stato celebrato il primo Dantedì, ed eravamo in pieno lockdown, a declamare Dante sono stati in tanti. Dotti accademici e cultori della poesia di Dante hanno usato i mass­media ma anche moltissime persone si sono affacciate alla finestra alle 18 e hanno letto terzine della Divina Commedia. “E quindi uscimmo a riveder le stelle” il celebre verso con cui il sommo poeta chiude la prima Cantica, l’Inferno, mai come allora è diventato un verso della speranza. Va da sé che è la speranza che anche in questi giorni tutti coltiviamo: uscire dall’inferno del contagio da Covid. Il Dantedì si celebra il 25 marzo perché questa è la data presunta dell’inizio del viaggio nei tre ragni oltremondani (inferno, purgatorio e paradiso) che il poeta fiorentino ci ha descritto nella Divina Commedia. La Commedia è, dopo la Bibbia, il testo più tradotto al mondo. La fortuna di Dante è vastissima, e il poema nel corso del Novecento è stato fonte di ispirazione, e lo è tutt’oggi, per poeti, artisti, teatranti, cineasti che vi hanno trovato un modello altissimo di riferimento, una miniera inesauribile di spunti, un termine di confronto ineludibile E’ un libro in qualche modo “infinito”, dove “non c’è parola che sia ingiustificata”, come annota lo scrittore argentino Luis Borges. I debiti nei confronti del poeta fiorentino sono i più disparati: citazioni, riscritture, calchi, parodie e volgarizzazioni. Dante ha dato vita a un poema così denso di dettagli e d’immagini da potersi scolpire con immediatezza nella memoria dei lettori e la Commedia, in particolare in Italia, è senza dubbio un riferimento, un patrimonio collettivo. Sappiamo che l’esistenza stessa della lingua italiana è dovuta principalmente al successo immediato che ebbe il suo poema in tutta l’Italia. Nell’arco di due secoli dalla sua morte, tutte le persone di una certa cultura si abituarono a considerare il fiorentino usato da Dante come la propria lingua di cultura, rinforzando questa scelta con l’imitazione di altri due grandi poeti a lui vicini, per origine ed età, Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio. La parole più comuni della nostra lingua odierna risalgono, per il 90%, all’uso di quegli scrittori. Ma il fatto sorprendente è anche un altro: ci sono parole particolari, che ci sembrano nate di recente per designare fatti nuovi e specifici del nostro tempo, e non di rado scopriamo che invece ce le ha date Dante. Ogni giorno, senza saperlo, usiamo parole inventate da Dante: “inurbarsi”, per esempio. Oppure “alto mare” che si trova nel canto di Ulisse per dire mare profondo dal latino di Virgilio. Senza l’Inferno, non diremmo che il traffico di Roma è una “bolgia”: la parola già esisteva, voleva dire “sacco”, Dante per primo l’ha adoperata per indicare un luogo di confusione e disagio. Per celebrare degnamente il “Padre” della Lingua italiana, come da tutti è definito Dante, ho deciso di spiegare due parole affiancando alla loro spiegazione la proposta di lettura dei versi che la contengono. Ecco la prima: il verbo trasvolare. Significa “volare su una grande distesa di terra o di acque” e diremmo proprio che sia nata insieme con le grandi imprese aviatorie dell’inizio del ‘900, quando furono compiuti i primi voli transoceanici. Tant’è vero che essa e i suoi derivati, come trasvolata e trasvolatore, sono usati con grande enfasi dagli scrittori e poeti dell’epoca, come Gabriele d’Annunzio, pilota lui stesso, e i futuristi Marinetti e Soffici, fanatici delle macchine e proprio di quelle volanti. Ma questo verbo, che era piaciuto già ad altri poeti dell’800, ce l’ha dato Dante! Il quale, nel 32° canto del Paradiso (versi 88­93) lo usa per descrivere la

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scena degli angeli (chiamati menti sante “pure intelligenze celesti”) che avvolgevano di voli la Vergine Maria versando su di lei la gioia dell’amore di Dio, una scena che superava la meraviglia di ogni altra cosa (quantunque) che Dante aveva visto, sempre come riflesso della grandezza di Dio, nel precedente percorso celeste. Ecco i versi:

Ed ecco la seconda: inurbarsi Dopo l’unificazione politica d’Italia cominciò a verificarsi il grande movimento di popolazione che dai piccoli centri di provincia si trasferiva nelle principali città. Nelle città si organizzava la vita cittadina ed era più attivo il commercio; intorno alle città sorgevano i principali nuclei di industrie. Si fecero grandi piani di costruzione di quartieri per le abitazioni e si moltiplicarono i professionisti della pianificazione urbana. Si parlò molto dell’attività di un nuovo tipo di professionisti, gli urbanisti. Di coloro che si spostavano verso le città si disse che si inurbavano. A molti sarà sembrata una parola del tutto nuova, perché nuovo era il fenomeno, almeno in quelle dimensioni. Invece il verbo inurbarsi era già bell’e pronto: lo aveva coniato Dante circa sei secoli prima, e proprio con il significato che indicava il “trasferirsi in una grande città”. L’urbe (latino urbs = città) è la città, un agglomerato di case ed edifici vari, che nel passato non era così diffusa come oggi. Dante ha coniato questo verbo per definire il vivere nella città rispetto a quello della campagna. Compare per la prima volta in assoluto nel canto XXVI del Purgatorio. “Non altrimenti stupido si turba lo montanaro e rimirando ammuta quando rozzo e selvatico s’inurba…” Cosa voleva dire Dante con questo verbo? Che il montanaro che proveniva dalle montagne nei pressi di Firenze e che per la prima volta, vedendo i grandi palazzi, la gente elegante, le bellissime donne, non si saziava mai di guardarli. Contemplando tante cose mai viste restava stupefatto e ammutolito. Spero che a qualcuno, dopo aver letto questo breve articolo, sia venuta voglia di riprendere in mano la Divina Commedia. Oggi leggere Dante può insegnarci quanto sia vitale disporre di un linguaggio capace di parlare con intensità e chiarezza sia delle cose più importanti sia di quelle più superficiali senza fare distinzioni.

Domenico di Michelino, Dante ed i tre regni, 1465, Firenze, Santa Maria del Fiore

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Io vidi sopra lei tanta allegrezza piover, portata nelle menti sante create a trasvolar per quell’altezza, che quantunque io avea visto davante di tanta ammirazion non mi sospese, né mi mostrò di Dio tanto sembiante.


L'albero della vita ­ Maggio 2021

Eine Kleine Nachtmusik, di W. A. Mozart di Edo Guarneri I Divertimenti, le Cassazioni, le Serenate e i pezzi che prendono il nome di musiche notturne sono legati al gusto settecentesco di far musica insieme e riflettono una identica struttura formale in cui si alternano movimenti di danza e passaggi solistici e virtuosistici, riservati ad esecutori bravi e di talento, ma non necessariamente eccezionali. Per questa ragione le Serenate e i Divertimenti per archi e per strumenti a fiato sono musiche di piacevole ascolto, dalla scrittura semplice e lineare e dai segni armonici chiari e precisi, che denotano un classicismo equilibrato e sereno. Tra le musiche d'intrattenimento mozartiane nessuna ha raggiunto la popolarità di Eine kleine Nachtmusik in sol maggiore per archi K 525 (Una piccola musica notturna, o Serenata notturna), scritta nell'estate del 1787, mentre Mozart lavorava al Don Giovanni, probabilmente in occasione di una ricorrenza festiva, destinata ad una esecuzione da tenersi in un elegante cortile o in giardino di un palazzo principesco, secondo le abitudini della società del tempo. La composizione si apre con un Allegro festoso e pieno di brio, il cui motivo principale si staglia subito, deciso. Tutto il movimento vive della contrapposizione fra due temi (ritmico il primo, melodico il secondo). Una purissima melodia contrassegna la delicatissima Romanza, dolcissima e cullante come una ninna nanna. I temi principali sono due, il primo quieto e sognante, il secondo appena vivace, dalla levigatissima linea melodica (con un romantico dialogo in minore fra violino e basso). Il Minuetto risente più delle altre pagine dello stile rococò, allegretto, garbato e nobile come si conviene ad una danza di corte. Secondo un'annotazione autografa dello stesso musicista, la Kleine Nachtmusik avrebbe dovuto racchiudere due minuetti, ma il primo è andato perduto o addirittura sarebbe stato spostato altrove. Il Rondò – Allegro finale è molto vivace ed ha il classico taglio gioviale e brillante degli allegri finali mozartiani dalla straordinaria forza ritmica propulsiva. La ragione che ha reso giustamente e universalmente noto questo lavoro mozartiano risiede senza dubbio nella sua freschezza inventiva. Le serenate, eseguite spesso all'aperto, nascevano nel segno del disimpegno e sceglievano perciò melodie facilmente orecchiabili, di sapore «popolare». Ma in questo genere Mozart porta una raffinatezza e una cura assolutamente inedite: qui, pur utilizzando una semplice orchestra d'archi, trasforma la composizione in un vero arcobaleno di associazioni timbriche, sfruttando il suo innato talento per il colore strumentale. Semplicità del materiale tematico, raffinatezza della scrittura strumentale: i due aspetti si fondono in quell'equilibrio che costituisce l'essenza più profonda dell'arte mozartiana. Chi desidera acquistare il CD, consiglio le interpretazioni di Bruno Walter e di Claudio Abbado.

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Visita alla mostra: "Viaggi su carta. Disegni e parole”

di Cinzia Sabadini sfumature generate dalla luce su ogni particolare. Ci emozionano i paesaggi campestri, i monti

inviolati, le placide mucche al pascolo, le vigne settembrine e ciascuna di noi ritrova in quei freschi dipinti i suoi luoghi del cuore. Ci riempiamo gli occhi con tanta bellezza. La mente è ispirata e già pensiamo alle prossime sfide pittoriche da intraprendere il prossimo giovedì nella nostra aula… Rientriamo beate non prima di un allegro brindisi alla bellezza e alla dolce maestra Maria Antonietta e di qualche breve riflessione condivisa: amiamo dipingere e amiamo l’acquerello ma il nostro corso è per noi anche felicità di stare insieme, di dipingere insieme, di godere della bellezza insieme e… di brindare insieme.

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UNITRE ­ Mogliano Veneto

Mogliano, 28 Novembre 2019, ore 15.00 : si ritrovano la Panda, la 500, la carrozza di Silvana e le intrepide acquerelliste Maria Antonietta, Adriana, Silvana, Carla e Cinzia in rappresentanza del folto gruppo di apprendisti che si incontrano ogni giovedì nelle aule dell’Unitre. La spedizione ci porterà a Padova presso la libreria che ospita la mostra “Viaggi su carta. Disegni e parole”. Viaggio impegnativo… ma non ci spaventa! Usciamo indenni dall’autostrada e con qualche rito scaramantico riusciamo a trovare parcheggio. La sete d’arte ci conduce sull’acciottolato sconnesso del percorso padovano e nonostante qualche giro vizioso raggiungiamo l’agognata meta sane e salve. Ultimo ostacolo: la ripida scalinata che conduce ai sotterranei della libreria dove è allestita la mostra. Incanto! Rapite ed emozionate contempliamo i capolavori di Laura, Marco, Marianna e Romina dell’Associazione ONDA CREATIVA, sperando, inconfessatamente in cuor nostro, di poter un giorno emulare tanta delicatezza e armonia. Sono acquerelli bellissimi, realizzati “en plein air” e accompagnati da appunti di viaggio dettati dalle fresche emozioni suscitate dalla visione di scorci incantevoli. Abbiamo dinanzi a noi la magia dell’acquerello realizzato all’aperto che riesce a cogliere le sottili


Kha, architetto egizio

L'albero della vita ­ Maggio 2021

di Cecilia Barbato Chi ha visitato il Museo Egizio di Torino ha certamente potuto ammirare i sarcofagi di Kha e di sua moglie Meryt esposti, con il loro splendido corredo funerario, in tre grandi luminose vetrine al piano terra del palazzo seicentesco. I reperti archeologici testimoniano che egli fu un architetto dalla carriera prestigiosa e che operò sotto il regno di tre faraoni della XVIII dinastia: Amenhotep II, Thutmosi IV e Amenhotep III. Oltre che Scriba Reale, fu Capo della Grande Sede (cioè della necropoli reale), Sovrintendente ai lavori nella Grande Sede e Sovrintendente ai lavori della Grande Casa (cioè del palazzo reale). Visse intorno al 1400­1450 a.C. nel villaggio di Deir­el Medina fondato, un secolo prima, in una valle ai piedi dei Monti Tebani, a ovest del Nilo e dell’attuale Luxor, per ospitare un gruppo di artigiani e artisti di alto livello, impegnati nella realizzazione delle tombe reali scavate lungo i pendii rocciosi della zona oggi conosciuta come Valle dei Re. Kha fu l’architetto di corte e organizzava le molteplici attività di scavatori, scalpellini, muratori, falegnami, disegnatori, scribi, avvalendosi di collaboratori capaci. Da Amenhotep II ebbe l’onore di ricevere in dono un cubito di legno laminato in oro lungo cm 55,4 e da Amenhotep III un coppa di bronzo con inciso il nome del sovrano. I faraoni premiavano i loro più capaci funzionari con l’oro del valore, una particolare collana di dischi d’oro che anche Kha ricevette. La moderna tecnica della tomografia computerizzata ne ha rivelato la presenza, insieme a quella di altri gioielli, tra le bende della sua mummia. La sua tomba fu scoperta nella necropoli di Deir­el Medina nel 1906, durante gli scavi archeologici diretti da Ernesto Schiaparelli, allora direttore del Museo Egizio di Torino, ma egli era già noto agli egittologi perché, nel secolo precedente, era stata portata alla luce la sua cappella funeraria di cui una stele era già pervenuta a Torino. La Cappella funeraria e la tomba erano, per antica tradizione, due luoghi separati. La prima, edificata in un cortile recintato, era utilizzata per le funzioni funerarie del culto familiare e comprendeva anche una piccola piramide sovrastante. La seconda era sotterranea e vi si accedeva attraverso un pozzo scavato nel cortile stesso. Portava ad un ambiente dove venivano collocati i sarcofagi e il corredo personale del defunto. Il ritrovamento della tomba di Kha non fu facile: il villaggio e la necropoli erano letteralmente sepolti da enormi cumuli di detriti e macerie, frutto di precedenti scavi e manomissioni. Un grande numero di operai, divisi in varie squadre, erano stati impegnati per circa un mese a rimuovere in maniera sistematica il pietrame e i resti di ossa umane, fino a raggiungere una parete rocciosa dove un’apertura, otturata dalle macerie, nascondeva l’accesso a una scala ripidissima che scendeva nel ventre della montagna. Oltre la scala un corridoio, sigillato da un muro di pietra, conduceva alla camera sepolcrale dove erano collocati i bellissimi sarcofagi di Kha e di Meryt e il loro ricco corredo funerario. Ernesto Schiaparelli ottenne di portare in Italia quasi tutti i preziosi reperti che oggi costituiscono una delle principali attrazioni del Museo Egizio: dalle tuniche di lino alla biancheria, dagli alimenti ai cofanetti, dalla splendida parrucca di Meryt alle brocche, ai letti, allo spettacolare papiro decorato lungo ben 14 metri, contenente le formule tratte dal Libro dei Morti… Non è noto perché Kha abbia fatto scavare il pozzo funerario lontano più di venti metri dalla sua cappella: forse era il modo più sicuro per sventare i tentativi di furto da parte dei ladri capaci di profanare anche le tombe dei faraoni.

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Il sorriso del Cristo di legno di Vittorio Pellizzari precipizio. Pochi secondi che a me sembrarono lunghissimi in cui temetti di non riuscire a fermarmi e poi, per fortuna, ci riuscii e feci due passi indietro, Poi girai sui tacchi e discesi rapido, ma attento, con lo zaino ben allacciato, mentre il corpo mi si copriva di sudore. Nel gelo circostante sempre più aspro il mio corpo continuava a essere pervaso da brividi Passando davanti al Cristo lo salutai in greco: Oh Cristòs Yios Sotér (Gesù Cristo figlio di Dio Salvatore). Il sorriso del Crocifisso, passò da impercettibile, vago, arcaico, a largo , partecipativo, confortante: C’ERAVAMO PRESI UN BELLO SPAVENTO!

UNITRE ­ Mogliano Veneto

Mi ritrovai una mattina su un grosso e vecchio pullman, guidato da un signore grasso e vecchio sulla linea Feltre ­ Caoria. Dopo aver lasciato lo Shener, la valle che collega la provincia di Belluno con quella di Trento, con una virata secca di novanta gradi abbiamo raggiunto l’immenso roccione del Totoga e abbiamo affrontato il Passo Gobbera e la Cortella, una strada di circa 8 Km che, costeggiando il monte Totoga, collegava Canal San Bovo al Veneto. Era una strada senza guard rail e molto pericolosa, oggi è chiusa al traffico ed è stata sostituita da un tunnel che passa sotto il monte. Dopo questo viaggio emozionante, ma molto bello, alla fine sono giunto all’albergo Al Pin di Canal san Bovo. Dopo un breve riposo, attaccai il sentiero che portava al bivio Val Sorda ­ Val Zanca. Bisognava scavalcare un dosso di 500 metri, passare dai 900 metri di Caoria ai 1400 del bivio, volevo fare un po’ di esercizio e salutare gli amici, cioè gli abeti ingrigiti dal freddo senza neve e il Cristo crocefisso, che non aveva l’aria solita, ma uno sguardo un po’ complice e incoraggiante. Avevamo deciso che eravamo amici, le parole non sono sempre necessarie, e per questo, quando potevo, passavo a salutarlo, ricambiato. Andò così anche allora, procedetti poi rapidamente su un sentiero sempre più largo e comodo che passava sotto cime rocciose, calcaree. Era il sentiero che una volta percorreva chi andava al maso a caricare il fieno falciato d’estate e tornava con un’enorme massa di fieno, sul piccolo slittino, in un turbine di velocità e neve. Scavalcato il costolone, scesi al bivio. Lì c’era un po’ di neve, ma pochi centimetri. Tutto era freddo, buio, triste. Decisi di non fermarmi neppure a mangiare il panino che avevo nel sacco, e rientrare. Il buio scendeva troppo rapidamente e così decisi di risalire il sentiero; lo affrontai velocemente perché in discesa e ben spianato e largo. Il sentiero seguiva il fianco della montagna anche con curve abbastanza secche. In una di queste, misi il piede forse su un po’ di neve e così improvvisamente scivolai verso il

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