Albero della vita n° 5 - 1 2020

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L'albero della vita


L'albero della vita L'albero della vita

1A Maschera Veneziana

Anno 5 numero 1°

4A Paulo vestito da Arlecchino”, di Pablo Picasso

Febbraio ­ Marzo 2020 COORDINATRICE EDITORIALE Gabriella Madeyski REDATTORE CAPO

L'albero della vita ­ Febbraio ­ Marzo 2020

Giuseppe Ragusa REDAZIONE Cecilia Barbato Albachiara Gasparella Donatella Grespi Dino Santarossa GRAFICA e versione on line Dino Santarossa

HANNO COLLABORATO: Rita Ambrosio Renzo De Zottis Alba Compagnone Mauro Cicero Edo Guarneri Enzo Prete Gianni Soleni Adriana Terzano Michela Trabucco

Indirizzo del sito UNITRE www.unitremoglianotv.it Il nostro periodico è aperto a tutti coloro che desiderano collaborare nel rispetto dell’ art. 21 della Costituzione che così recita: “Tutti hanno diritto di manifestare il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione ”, non costituendo per­ tanto, tale collaborazione gratuita alcun rapporto di lavoro dipen­dente o di collaborazione autonoma.

Distribuzione gratuita

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3a Editoriale 4a Prima e dopo la pensione ­ La 4a di Copertina: “ 5a Tesori sepolti nella laguna di Venezia 7a Maschere ­ Maschera (poesia) 8a L'origine dei coriandoli 9a Scherzando su un nome 10a Dolci di Carnevale a Napoli 11a Poesie 12a Medicina: l'enigma Mozart 14a La dama con la gabbietta 15a Andrea Camilleri e la fortuna 16a Un incontro da ricordare 18a Musica e Carnevale 20a Il piacere della lettura 21a Un incontro letterario ­ il mio pensiero... 22a La Televisione degli anni ’60: Belfagor, il fantasma del Louvre a 23 Paese che vai, maschere che trovi

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Con il contributo del Comune di Mogliano V.to

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Editoriale Le passioni fanno vivere l’uomo

Prima di scrivere queste mie riflessioni da condividere con voi, ho pensato a lungo a due grandi “vecchi” che spesso ci capita di vedere o ascoltare: Piero Angela e Francesco Sabatini. Mi sono chiesta quale fosse il segreto che li porta ad essere sempre così attivi non solo fisicamente, ma anche mentalmente, e come facessero ad interessare trasversalmente generazioni diverse. La risposta è stata molto semplice, è la passione che costituisce l’anima del nostro successo, è quell’emozione intensa che proviamo quando ci dedichiamo a qualcosa che realmente amiamo, e che consideriamo fondamentale, che ci fa vivere veramente. Nel mondo latino già Seneca aveva dato lezioni di felicità nel momento in cui ci aveva fatto capire che la felicità non va immaginata o desiderata o invidiata, perché è a portata di mano. E’ importante ricordare che ognuno ha il diritto di vivere con passione, infatti, una vita che ne è priva non consente di raggiungere il potenziale che risiede in noi fin dalla nascita. Perché questo avvenga però, è necessario impegnarsi in quello che facciamo, percepire il tempo che scorre ogni volta che portiamo a termine qualcosa che ci piace. Quando si prova la passione di vivere, si compie la scelta di cercare, di lottare, di dare il meglio di sé verso coloro che ci circondano e che amiamo. Per stare bene, quindi, serve uno scopo nella vita, qualcosa che ci fa sentire in pace con il mondo e soprattutto utili. Chiara Ruini, professoressa di psicologia clinica presso l’Università di Bologna e membro della Società Italiana di psicologia positiva, ha affermato che molte ricerche documentano come le persone che hanno degli obiettivi nella vita, hanno anche profili biologici più sani. Insomma, c’è una correlazione, documentata a livello interna­

zionale, tra aspetti esistenziali, migliori condizioni di salute e, di conseguenza, longevità. Cercare di vivere con passione è importante per tutti, ma ancor di più per gli anziani e per chi va in pensione. In questo periodo, infatti, spesso le persone perdono il significato della propria vita e si considerano ormai inutili sia dal punto di vista lavorativo che sociale; è proprio questo il momento per analizzare le proprie sensazioni e per scoprire, o riscoprire, quelle passioni che permettono di continuare ad avere un ruolo attivo. L’esempio arriva dal Giappone (i cui abitanti sono tra i più longevi al mondo) dove anche chi si ritira dal lavoro non rinuncia a svolgere qualche attività e a sentirsi utile. Non bisogna però cadere nella trappola di pensare che le nostre passioni siano solo quelle legate alla nostra attività lavorativa passata, la routine, infatti, rende tutto meno eccitante, ma una passione, anche se sfiorita, può durare in eterno. Capire qual è la cosa che più ci appassiona, quella a cui si dovrebbe dar retta per il resto della vita, è complesso, ma si può iniziare chiedendosi qual è quella cosa in cui crediamo solo noi. Qual è quella cosa per cui nessuno ci dà retta e neppure quelli che ci sono più vicini ci sostengono. Ecco quella cosa che siamo disposti a difendere da soli contro tutti è la nostra vera passione, quella a cui vale la pena dedicarsi per il resto della vita L’ideale è quindi cercare di rimanere coinvolti e impegnati, sentendosi vivi e partecipi in tutte le fasi della propria vita. Francesco Sabatini e Piero Angela hanno sicuramente capito tutto ciò e sono, per me, diventati i testimoni della vera vita, in un periodo in cui la frenesia legata al performance e alla produttività fa perdere il valore intrinseco di ciò che facciamo.

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Gabriella Madeyski


Prima e dopo la pensione

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Adriana Terzano Ho fatto la maestra elementare per più di 30 anni e nella prima pagina di quello che chiamavo "il mio diario di bordo" avevo scritto a caratteri cubitali ENTUSIASMO. L'entusiasmo è il lievito che fa salire alle stelle le tue speranze. L'entusiasmo è lo scintillio nei tuoi occhi, la baldanza del tuo passo, l'irresistibile impulso e l'energia necessaria per mettere in pratica le tue idee. Ho sempre lavorato con entusiasmo, meglio "vissuto" con entusiasmo, ed oggi, a più di 70 anni, continuo a farlo; talvolta io stessa mi sorprendo, ma è proprio così! Oggi come ieri, sono incline al gioco. Oggi come ieri, amo sognare. Oggi come ieri, sono pronta ad accettare una sfida. Oggi come ieri, amo il teatro e faccio parte di una compagnia. Oggi come ieri, vado in groppa ad un moderno cavallo guidato da mio marito, riducendo però la velocità. Oggi, diversamente da ieri, posso assistere alle lezioni dell’Unitre. Oggi, diversamente da ieri, partecipo, dall'anno della sua formazione, al gruppo di Lettura interpretata. Oggi, diversamente da ieri, faccio footing con due amiche, "comarando" piacevolmente. Oggi, diversamente da ieri, sono una nonna "terribilmente" felice. Oggi, diversamente da ieri, abito in una mansarda colorata e piena di fantasia, che mi calza a pennello. Il mio quotidiano è ancora connotato da emozioni forti.

La 4a di Copertina: “Paulo vestito da Arlecchino”, di Pablo Picasso

La Redazione Questo dipinto ad olio fu realizzato da Picasso nel 1924: è un ritratto del figlio Paulo vestito da Arlecchino, che è la maschera della Commedia dell’Arte che Pablo Picasso ha più amato, e più volte dipinto, incantato dalla malinconia che emana e dalla semplicità con cui questa maschera vive e interpreta la vita. L'artista dipinge il figlio sempre con una tenerezza e una delicatezza molto lontane dalle sperimentazioni che lo vedevano occupato in quegli stessi anni, e che si ponevano al confine con quelle del gruppo surrealista. Paulo è ritratto con candido pallore, è appoggiato su una poltrona sospesa nello spazio, bambino e sedia sembrano galleggiare senza appiglio sulla tela. Tutto ciò che circonda la figura è lasciato volutamente non finito, gli stessi piedi di Paulo sono solo accennati. Lo sfondo è leggermente colorato con una tinta ocra fluida che non definisce nessuno spazio, proprio questa assenza di profondità dà la sensazione di fragilità e di malinconica infanzia. Nel dipinto, sono ben visibili parte dello schizzo e alcuni successivi ripensamenti dell’artista, poiché, come affermava Picasso “Un quadro non è mai pensato e deciso anticipatamente, mentre viene composto segue il mutamento del pensiero...".

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Durante i periodi di bassa marea, quando i canali minori si riducono a rivoli d’acqua e gli argini delle isole emergono per la quasi totalità, tra pietre e rottami di ogni genere la laguna di Venezia restituisce resti di piatti, boccali, ciotole finemente lavorati e dipinti. La loro riscoperta iniziò negli anni Venti del secolo scorso quando Luigi Conton, già direttore onorario del museo di Torcello e grande conoscitore della storia veneziana, raccolse tra i resti dell’antico argine di San Marco sul margine occidentale della laguna, splendidi frammenti di ceramica dipinta a vivaci colori, piatti e boccali, scodelle e vasi di ogni forma e dimensione. Ad un attento esame stilistico e iconografico i reperti furono datati in un arco di tempo che va dal XIII al XV secolo ma quel che più conta provarono la presenza di un’industria ceramica a Venezia fin dal medioevo, contrariamente a quanto la tradizione riteneva. Infatti il Conton si formò l’esatta convinzione che i cocci provenissero non tanto dalle abitazioni quanto dalle fornaci esaminando le decine di piccoli treppiedi in terracotta rinvenuti e identificandoli come tipici strumenti di lavoro della bottega del vasaio, in quanto su di essi venivano posti i piatti o i Luigi Conton boccali di ceramica al momento della loro introduzione nei forni. Ma perché i cocci si trovavano così numerosi nell’argine di San Marco (spazzato via nel 1968 dallo scavo del Canale dei Petroli) o, come risultò da successive ricerche, nei vecchi canali interrati della città, a Mazzorbo, Poveglia, Sant’Erasmo o lungo gli argini a mare di Lido e Malamocco? La spiegazione è semplice: in una città costruita sull’acqua e in perenne lotta con essa, qualsiasi materiale sfruttabile per il consolidamento delle arginature contribuiva a formare quella sapiente cordonatura di terrapieni che per secoli il governo della Serenissima conservò in perfetta efficienza. Il materiale di scarto delle fornaci, calcolato in almeno il 60% della produzione totale, veniva così mescolato a terra e pietrisco che nel corso dei secoli servirono a più riprese alla manutenzione delle arginature o costituivano la base di nuovi terreni edificabili. Per questo Conton poté rinvenire cocci databili tra l’inizio del Quattrocento e la fine del Cinquecento mentre reperti ceramici del Seicento affiorarono alla Malcontenta, nell’immediato entroterra lagunare, in una zona un tempo paludosa e bonificata con terra di riporto proprio nel XVII secolo. Oggi purtroppo gran parte di questi terreni è scomparsa sotto gli insediamenti industriali di Porto Marghera ma ad un attento ricercatore è ancora possibile trovare piacevoli sorprese, per esempio nei campi coltivati di Fusina, ai margini dei grandi impianti industriali o sui bordi delle

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Tesori sepolti nella laguna di Venezia Renzo De Zottis


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casse di colmata che, negli anni Settanta, hanno cancellato interi lembi della laguna sud occidentale in previsione di una mai realizzata terza zona industriale. Durante il periodo dell’aratura affiorano dai campi a centinaia i cocci le pietre e i marmi mentre dagli argini esposti dalla bassa marea spuntano innumerevoli frammenti che vanno controllati uno ad uno perché sotto la fanghiglia che li ricopre può sempre apparire una pregevole decorazione. Cinque secoli di ceramica veneziana giacciono sepolti qui e grazie al Conton e agli studi successivi è ora possibile collocare ogni frammento nella sua giusta epoca. Le piccole lucerne e le semplici coppette in argilla grezza indicano il primo periodo dell’arte fittile lagunare mentre già le stoviglie graffite indicano un’evoluzione dello stile che si manifesta compiutamente con la terracotta verniciata. Direttamente importata da Bisanzio, questa tecnica permise di ottenere colori brillanti e assai resistenti tanto che ancora oggi stupisce l’intensità del verde ramina, del giallo ferraccia o del blu cobalto di queste ceramiche databili dal XIII al XVI secolo. Ecco infine le raffinate maioliche del XVI e XVII secolo sul cui fondo bianco risultano splendide decorazioni policrome. La varietà dei motivi ornamentali è poi infinita: dai primi graffiti geometrici in stile bizantino si passa ai segni propiziatori di derivazione pagana come il nodo vinciano, la losanga tagliata a croce o la stella a sei punte. Abbondano inoltre i motivi religiosi, presenti soprattutto nelle stoviglie usate dai monasteri, un tempo numerosi nelle isole della laguna, nonché gli stemmi araldici delle famiglie patrizie veneziane come i Mocenigo, i Marcello, i Foscari o gli Zorzi. Di particolare bellezza sono poi le raffigurazioni di animali e vegetali proprie soprattutto del Quattrocento, quando appaiono anche i primi profili antropomorfi spesso ispirati dai pittori dell’epoca. Un posto particolare infine spetta alle ceramiche iscritte con nomi di pietanze riportate nell’idioma veneto sul fondo del piatto o della scodella: rosto (arrosto), salata (insalata), sopa (zuppa) e tanti altri che costituiscono oltretutto una preziosa testimonianza sulle abitudini alimentari dell’epoca. Altre iscrizioni riguardano invece nomi propri (Caterina, Piero..), motti religiosi (Ave Maria..) o più semplicemente marchi di fabbrica o iniziali dell’acquirente. Chiudiamo queste brevi note ricordando che i circa 1350 pezzi della raccolta Conton, dalla quale tutto è iniziato, sono stati acquistati dallo Stato nel 1978 e sono attualmente ammirabili nella Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ d’Oro

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Pancrazio

A Carnevale Venezia cambia la sua dimensione temporale: sembra di tornare indietro di qualche secolo, quando le maschere prendevano il posto delle persone come le conosciamo nei giorni ordinari. Le maschere avvolte in colori sgargianti ti circondano nelle calli e ti fissano col loro sguardo immobile, a volte accattivante, altre volte enigmatico. Ma si tratta di maschere aristocratiche, distaccate. Cambi Campo o Rio Terà e ti trovi di fronte l'allegria mascherata. Arlecchino, col suo costume multicolore si inchina saltellando al tuo passaggio. Pantalone ti paga la corsa sul gondolone brontolando mentre, tra la gente accalcata, senti i pettegolezzi di Colombina. Allora, come possiamo dimenticare la commedia dell'arte e Goldoni durante il Carnevale? Impossibile! E poiché Carnevale vuol dire inverno con i relativi malanni, ecco un divertente pezzo del grande commediografo della Serenissima Repubblica con

protagonisti Pancrazio e Gandolfa. Panc: Oh siora Gandolfa. ..diseme. ..come va? Come ve senti'ancuo? Gand: A dir la verità, caro sior Pancrazio, sta matina me par de star megio. Panc: Go proprio caro! Vol dir che ve ga fato ben quele pirole che ve go da'! Gand: E el vostro cataro ve trattalo ben la note? Panc: Ah! No stemo gnanca a parlarghene! !Maledeto cataro !Nol me lassa dormir la note. Gand: Oh,anca mi,vede,stago ore intiere senza poder serar ocio; gh'ho un affanno de peto che me sento morir. Panc:Tiole' le pirole ah!...No so se ogi sia fredo o se me vegna a freve. Gand: A freve? Oh povereta mi! Ve sentiu mal? Panc : Go un certo no so par a vita. .. Gand: Vedeu? Dovevi tior le pirole. Ah,a proposito de pirole. ..recordeme. ..alora. ..Verde. .. Panc: Alora, a pirola rossa xe par el cuor, quela nera par a stitichessa, quela verde par a digestion. Gand: E...quela blu?

MASCHERA Una maschera cela il volto che forse conosco. Solo gli occhi veri vedo e la bocca un poco. Gioia dolore disappunto distacco non so. Comodo rifugio che tutto consente. Nascoste intenzioni di anonima beltà

Michela Trabucco 7

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Maschere Mauro Cicero


L’origine dei coriandoli Alba Compagnone Il Carnevale è per eccellenza la festa più divertente, allegra e colorata dell’anno, che viene festeggiata con carri, maschere, stelle filanti e coriandoli.

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Ma quando e perché è nata l'usanza di lanciare i coriandoli? Il lancio di oggetti sulla folla durante i festeggiamenti di Carnevale è una pratica molto antica. Già nei cortei in maschera del 1500 (ma anche in altre feste) durante le tipiche sfilate delle carrozze, venivano lanciati dai carri sulla folla mascherata granturco, arance, fiori, gusci d’uovo ripieni di essenze profumate e monete. Nel periodo rinascimentale iniziarono a spopolare piccoli confetti di zucchero con un seme di coriandolo al loro interno, che presero quindi il nome di coriandoli. Questa produzione era però molto costosa e ben presto i confetti vennero sostituiti da piccole palline formate dal seme del coriandolo ricoperto di gesso colorato, e anche palline multicolori di carta, che continuarono a essere chiamate coriandoli. I coriandoli di carta ­ così come li conosciamo al giorno d’oggi ­ nacquero però solo nel 1875 grazie ad un'idea dell'ingegner Enrico Mangili di Crescenzago (Milano) che li realizzò con i dischetti di scarto provenienti dagli allevamenti di bachi da seta. Questi dischetti ebbero subito un enorme successo durante il Carnevale milanese in quanto poco costosi e molto facili da realizzare. L'ingegnere milanese divide la paternità dell'invenzione con un altro ingegnere di Trieste, Ettore Fenderlche, che, nel 1876, allora quattordicenne, durante la parata di Carnevale che passava sotto casa sua, non avendo a disposizione costosi confetti o petali di rose da lanciare sul corteo, tagliuzzò triangolini di carta colorata e li lanciò sulle maschere che passavano. Fu subito imitato da tantissimi presenti e l'invenzione si propagò velocissima a Vienna, Venezia e in tutto il mondo. Ettore Fenderlche sarebbe diventato nell’età adulta un grande scienziato di fama mondiale nel campo della fisica nucleare. Oggi i coriandoli sono immancabili in ogni Carnevale, amati soprattutto dai bambini e rappresentano l’allegria, l’atmosfera di gioia e di libertà concessa a Carnevale.

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Scherzando su un nome Il mio nome è Piera. Non c’è una santa e nemmeno una beata che mi rappresenti; ne sono certa. Dico ciò perché fin dall’adolescenza ho dedicato molto del mio tempo in questa ostinata ricerca, sfogliando calendari delle più svariate edizioni e curiosando tra le pagine ingiallite dei vecchi messali ereditati da nonne e zie e amiche delle zie. Sempre senza risultato! Ahimè, sono diventata anche il terrore degli espositori di oggetti sacri ai mercatini dell’antiquariato. Niente da fare nemmeno qui! Nessun casto e pallido volto di una qualsiasi Piera con l’aureola, mi ha mai sorriso dagli smunti cartoncini che fanno bella mostra sulle bancarelle! Di questa fantomatica santa dunque, nessuna traccia. Al contrario di quello che è avvenuto per Piero che, oltre l’indiscutibile capostipite Pietro, ha avuto i suoi innumerevoli e venerabili “Santucci.” Alla fine me la son messa via e come tutte le Piera, Pierina, Pieranna e Pierangela ho dovuto riconoscere, per quanto riguarda l’onomastico, la supremazia del santo maschio. Tuttavia non mi sono data per vinta e mi son detta che questo nome, in qualche modo, doveva avere un’identità al di fuori dei calendari e così mi son messa subito all‘opera! Tanto per cominciare “piera” non è soltanto il corrispondente dialettale veneto della ben più nobile parola “pietra” ma pare che derivi nientemeno che dal francese. E poi…mi domando: chi è nato prima? Pietro o la pietra? Non le ho dette io le parole rivolte all’apostolo Simone!! “Tu sei Pietro e su questa Pietra…” (dunque la pietra già esisteva) e se possediamo almeno un’infarinatura di Storia Sacra, capiamo cosa si intende per Pietra. Innegabilmente Pietro è assai gettonato come nome proprio, ma pietra, nel linguaggio corrente si impone al primo posto. Pensate solo all’infinità di immagini e significati che questa parola ci offre da sola o in coppia con un verbo, un aggettivo, un avverbio o una preposizione! Infinite sono le citazioni! Solo qualche esempio. Dove ci porta “l’età della pietra” o piuttosto cosa ci indica “una pietra miliare?” Chi è quel personaggio che sta “posando la prima pietra?” Pensa che adesso è diventato “la pietra dello scandalo!” Beh, “chi è senza peccato scagli la prima pietra”! Esiste davvero “la pietra filosofale?” Ce la siamo mai sentita “una pietra sullo stomaco” o non abbiamo mai sofferto del “mal della pietra? Ed ancora…”pietra preziosa”, “pietra pomice”, “ pietra focaia”, ”pietra di paragone”… Vi ho lasciati impietriti per questo mio farneticare? “Metteteci una pietra sopra”. E’ Carnevale!!!

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Albachiara Gasparella


Dolci di Carnevale a Napoli

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Rita Ambrosio Oggi voglio darvi la ricetta del Migliaccio, un dolce molto antico e tipico della tradizione napoletana del Carnevale. Il nome deriva da miglio, il cereale adoperato per la preparazione, poi sostituito dalla semola di grano: il semolino. Servono poi ricotta, uova, zucchero tutti ingredienti “poveri” per preparare questa squisitezza. Iniziamo. Versare in una pentola mezzo litro di latte, mezzo litro di acqua, 40 grammi di burro e la buccia di una arancia. Sul fuoco girando con una frusta si fa sciogliere il burro, poi si toglie la buccia di arancia e si versa a pioggia il semolino, che verrà cotto per 5 minuti. Si lascia raffreddare. In una ciotola si mettono 4 uova intere che vengono sbattute con 250 grammi di zucchero. Si aggiungono poi, un po' alla volta, 500 grammi di ricotta setacciata e infine il semolino, sempre un po' alla volta e sempre girando con una frusta fino ad ottenere un composto cremoso. Si versa quest’ultimo in una teglia, di quelle con cerniera, foderata di carta forno e si cuoce in forno statico a 200° per circa un'ora. Se la superficie diventa troppo scura, coprire con carta alluminio. Bisogna poi avere la pazienza di aspettare che il dolce si raffreddi prima di tagliarlo a fette e servirlo spolverizzato di zucchero a velo. La preparazione base è questa. Volendo si può arricchire con l’aggiunta di uvetta e/o pezzetti di frutta candita. Ma quello che davvero faceva impazzire me e i miei fratelli, quando eravamo ragazzi, era il sanguinaccio, che mia madre preparava una sola volta all’anno, proprio nel periodo di Carnevale. Purtroppo è qualcosa che non si potrà rifare perché occorre il sangue del maiale che mia madre si faceva dare dal macellaio. Credo oggi sia difficile da reperire, per ovvi motivi. A questo ingrediente sia aggiungeva sul fuoco latte, acqua, farina, cacao e zucchero; si girava fino a farne una crema liscia e scura, che, con l’aggiunta di pezzetti di cedro, noi divoravamo con biscotti Savoiardi. Era un gusto inimitabile, come tutti i sapori dell’infanzia. Buon Carnevale a tutti!

Migliaccio

https://www.trovaricetta.com/

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Sanguinaccio


Carneval a Venessia

Poesie

Un bon odor de fritoe e de galani se spande par la cale e par el canal anca sto ano come i altri ani a Venessia riva el Carneval. Come i colombi co ti ghe tiri el gran le maschere le vien fora a mucci le bala, le canta, le se tien per man un arcobalen de colori e luci.

Un astronauta, un gorilla e un nano voga in laguna sora a un pupparin un omo xe vestio da aeroplano, uno da Doge, una fia da canarin. Co Marti grasso xe finia la festa, ogni mato a tornar serio prova el Carneval una sola roba resta... i coriandoli bagnai da la piova.

Donatella Grespi

Poesia Carnevale La paffuta damina e la furba fatina il cavaliere audace e l'Arlecchino mendace Irrequieto girotondo di festanti mascherine Un due tre...salta con me! Nuvole di carta colorata per movimentare la giornata Un due tre...la magia è servita sognata e anche un po' inventata

Michela Trabucco

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El solito Arlechin co Colombina xente de tuti i tipi e ogni età: la fata, el cavalier co la damina, el pirata, Gianduia e un maragià.

Maschere veneziane Maschere tra nebbie veneziane maschere strane dal profilo sfocato. Venezia appena sveglia dal bordo di laguna le mira, le rimira una a una. Coriandoli sul viso: un riso repentino fa il sole tra la nebbia capolino. S'accendono i ventagli su labbra modellate gia' brillano i fermagli di vesti damascate. Maschere al sole al sole veneziano in posa nella Piazza a filo d'un canale tra sguardi di stupore. Trionfa il carnevale in tutto lo splendore di storici scenari.

Cecilia Barbato 11


Medicina: l’enigma Mozart Giuseppe Ragusa

L'albero della vita ­ Febbraio ­ Marzo 2020

Come risulta da vari documenti e testimonianze, la salute di Mozart fu sempre malferma: tra le patologie più gravi e frequenti delle quali

sappiamo che egli soffrì sono da annoverare le ricorrenti infezioni streptococciche alla gola e alla cute, che gli causarono gravi complicanze renali (nefriti, e una probabile insufficienza renale). Un grande mistero riguarda la causa della precoce morte di Mozart avvenuta all’età di 35 anni. Sfortunatamente, il suo certificato di morte è andato smarrito; abbiamo però il registro delle morti della parrocchia di Santo Stefano a Vienna che riporta come causa del decesso una «febbre miliare acuta», una malattia infettiva che poteva portare a morte, specialmente in quei tempi nei quali non esistevano gli antibiotici. Anche nei pochi necrologi che accompagnarono la sua scomparsa si riporta la stessa diagnosi. Ma nulla è certo. Nel corso di questi oltre 200 anni dalla sua scomparsa, gli studiosi hanno ipotizzato oltre 150 differenti cause della morte, da quella dell’avvelenamento agli esiti di un trauma cranico, ad un’insufficienza renale

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progressiva, a malattie più o meno comuni a quell’epoca, come la malattia reumatica, la sifilide, ecc. Studi recenti hanno ipotizzato anche una morte da Trichinellosi, un’infezione causata dalla Trichinella, un nematode parassitario: questa parassitosi viene contratta ingerendo carne cruda o poco cotta di animali infetti ­ generalmente suini, cinghiali, cavalli ed altri animali selvatici ­ ed è complicata da una significativa mortalità. La tesi maggiormente accreditata è quella della morte per avvelenamento: non ci sono naturalmente prove, anche se Mozart, pochi giorni prima della morte, aveva confidato alla moglie di essere stato avvelenato con acqua toffana (piombo). Il compositore italiano Antonio Salieri, compositore di Corte a Vienna ai tempi di Mozart, colpito da demenza senile, nel 1823 accusò se stesso di avere avvelenato Mozart, ma in questo caso non vi sono le prove che avesse le conoscenze e le relazioni necessarie a commettere l'omicidio. La sua confessione provocò comunque un grande clamore e diffuse dicerie mai smentite. Franz Hofdemel, marito di una delle allieve di Mozart, si suicidò il giorno del funerale del compositore, e i sostenitori della "teoria dell'avvelenamento" hanno cercato, ma senza successo, di collegare la sua morte con quella di Mozart. La donna era incinta e dopo 5 mesi, partorì un bimbo che poteva essere figlio del compositore. Un altro prestigioso studio scientifico riporta che, se vi fu un responsabile, questi non fu certo Salieri ma il dottor Closset, medico curante di Mozart, i cui salassi ripetuti stroncarono un paziente già ridotto in pessime condizioni. Negli ultimi dodici giorni di vita, a Mozart vennero prelevati non meno di due ­ tre litri di sangue, e non si può escludere che sia morto proprio a causa dell'anemia che i ripetuti salassi provocarono in un fisico per suo conto già debilitato. Alla fine rimane l’ipotesi più romantica, secondo


legali ritengono essere autentico. Il teschio sarebbe stato recuperato ­ dalla fossa comune dove Mozart fu seppellito ­ dal sacrestano di San Marco, Joseph Rothmayer nel 1801, quando il terreno fu dissodato per preparare nuove tombe. Il sacrestano identificò i resti del cadavere di Mozart, in quanto egli stesso aveva avvolto intorno al collo sul telo della salma, prima dell’inumazione, un pezzo di robusto filo metallico. Rothmayer conservò il teschio per anni come una reliquia, fino a quando il fratello di Franz Schubert ne venne in possesso e lo regalò al Mozarteum. Questo teschio è stato oggetto di analisi e studi al fine di accertarne la vera identità, ma ancora oggi i dubbi rimangono. Infatti, nessuno sa con certezza se quel cranio esposto sotto vetro nella Biblioteca della fondazione Mozarteum di Salisburgo sia davvero appartenuto al genio immortale di Wolfgang Amadeus Mozart, perché le tante analisi svolte da ben due team di scienziati incaricati di eseguire gli esami opportuni del DNA non hanno risolto il mistero, che quindi continua nel tempo. Uno degli studiosi trovò sul teschio, nella regione temporo­parietale sinistra, una frattura longitudinale lunga dieci centimetri; la superficie interna del cranio mostra anche l'impronta di un

coagulo di sangue. Questa frattura (verosimilmente causata da una caduta, o secondo altri, da percosse da parte di un rivale in amore) potrebbe spiegare i mal di testa di Mozart comparsi alla fine del 1790 ed un’altra possibile causa di morte, cioè i postumi di un’emorragia intracerebrale. Negli anni 2000, infine, due team di scienziati dell’Università di Innsbruck e del Laboratorio dell'esercito americano a Rockville nel Maryland hanno prelevato dei frammenti del teschio per identificarne il DNA e paragonarlo a quello di alcuni componenti della famiglia Mozart sepolti nel cimitero di Salisburgo, cioè il padre di Mozart, Leopold, e, per la linea materna, la nipote del compositore Jeanette Berchthold zu Sonnenburg e la nonna Euphrosina Pertl. I risultati hanno confuso però ancora di più le idee: si è desunto che non solo i corpi dei Mozart non sono imparentati col proprietario del cranio, ma è risultato che questi presunti familiari (padre, nipote e nonna) non sarebbero neppure imparentati tra di loro. Conclusione: non solo il mistero non è stato risolto, ma non è nemmeno chiaro chi sia sepolto nella tomba della famiglia Mozart…

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la quale Mozart è morto soltanto perché Dio aveva bisogno di un nuovo maestro di cappella in Paradiso. Il teschio di Mozart. Il Mozarteum di Salisburgo custodisce un teschio che si suppone sia quello del compositore e che alcuni medici


La dama con la gabbietta

L'albero della vita ­ Febbraio ­ Marzo 2020

Donatella Grespi Arriva seguita da un codazzo di turisti e passanti armati di macchina fotografica e certamente incuriositi da questa dama in costume del settecento che reca nella mano destra una gabbietta per uccellini... vuota e nella sinistra un ventaglio di pizzo nero che cela il suo volto. Altera, senza guardarsi attorno, entra al caffè Florian, si ferma al centro di uno dei salottini che danno sulla Piazza. I suoi occhi vagano qua e là cercando un posto dove sedere. Quel tavolo laggiù in fondo? ... Lontano. Quello sulla destra?... Troppo in ombra. Alla fine ne sceglie uno d'angolo, esposto alla vista altrui, ma nello stesso tempo discreto, dove può essere ammirata senza avere seccature. Appoggia la gabbietta sul ripiano di marmo, armeggia un po' con la seggiola e poi finalmente prende posto. Il vecchio conte è dietro la vetrata assieme ai curiosi che si sono fermati ad osservarla. Lei sembra non vederlo, non si cura neppure delle decine di occhi che la scrutano e indugiano sui particolari del suo abbigliamento e del suo corpo. Si lascia guardare indifferente, immobile, il viso quasi completamente coperto dal ventaglio. " Che bella dama!", "E che vestito!...", "Fotografala" commentano le persone. Il conte sorride compiaciuto. Sa che lei è bella. Nessuno più di lui può saperlo!

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Un cameriere, anch'egli in costume, si frappone tra la dama e la folla. Pochi istanti. Poi si congeda con un inchino. A questo punto lei accavalla le gambe e, da sotto l'ampia gonna, spunta un piedino. Un leggero dondolio contrasta con l'assoluta immobilità del suo corpo. " Noia?" "Freddo?" si chiede il conte. Oh, come vorrebbe entrare, sfilare quella scarpetta di raso e prendere quel piccolo piede nervoso tra le sue mani e scaldarlo! Con lo sguardo risale dalla scarpina alla gonna troppo larga, mortificata sotto al tavolino. Nota le sue piccole dita guantate, intente a lisciare il prezioso tessuto, a tracciare misteriosi percorsi, fatti di perline e ricami. La manina torna in superficie, afferra la gabbietta e la pone sul pavimento per far posto al vassoio che il cameriere le sta porgendo. Tutti attendono il momento in cui la dama si accingerà a bere, spostando finalmente il ventaglio. Il vecchio, mescolato ai presenti, ne percepisce la curiosità e l'attesa. Sorride tra sé. Sa che l'unico a conoscerla davvero e a possederla è lui. Di lei sa tutto, anche se chiude gli occhi sa percorrerne a memoria i particolari: il busto sottile, i seni tondi e sodi, il collo lungo e pallido, solcato da uno strangolino di velluto nero, il neo impertinente a un lato della bocca piccola e turgido, la parrucca bianca di riccioli morbidi... Un oh!!! lo risveglia dai suoi pensieri. Lei, che sta bevendo una cioccolata calda, ha finalmente rivelato il suo volto. Sorseggia la bevanda piano, con evidente piacere. Poi, una volta finito, appoggia sul tavolino delle monetine, riprende ventaglio e gabbietta e, con andatura solenne, esce dal caffè. Scattano fotografie, molti la fermano per farsi riprendere con lei che avanza superba e, incurante di chi la circonda, attraversa Piazza San Marco. Il conte la segue mantenendosi a una certa distanza. La dama si allontana dal centro, percorre fondamenta e callette deserte mentre i suoi passi spediti risuonano sul selciato, affannata, quasi come se dovesse giungere in tempo ad un appuntamento. Giunta in una calle lunga e stretta, dalle parti di San Polo, si ferma davanti ad un palazzo con le finestre a bifora. Il portone di legno massiccio è socchiuso e lei entra sicura. Il conte la vede attraversare l'ampio atrio rischiarato da lampade veneziane, salire a piccoli passi lo scalone di


marmo. Quando arriva al primo piano si ferma in mezzo al salone e si guarda attorno. Appesi alle pareti ci sono decine di quadri che ritraggono nobildonne, cavalieri, bambini, prelati... un'intera famiglia di nobili. Sorride quando scorge di fianco a sé il vecchio conte, ultimo discendente di quella famiglia, proprietario di quel palazzo. Sorride rivelando una fossetta sulla guancia destra, appena sopra al neo. Portando il

ventaglio chiuso alla bocca gli manda un bacio poi, senza dire nulla, va verso un quadro vuoto dove, dopo esser salita su un divanetto, entra .... Ogni anno, l'ultimo giorno di Carnevale, la dama con la gabbietta esce dal suo quadro e, per poche ore, va al caffè Florian per farsi ammirare o forse soltanto per bere una cioccolata fumante.... Qualcuno di voi l'ha vista?

Nel corso di “Lettura interpretata”, che frequento da quest’anno, l’insegnante ha presentato a noi allieve e a Giancarlo, unico uomo del gruppo, l’ultimo libro di Andrea Camilleri “Esercizi di memoria” da lui scritto, anzi dettato, quando ormai novantenne i suoi occhi non vedevano più. Sono ventitré storie, vivaci e intense, che raccontano altrettanti episodi della sua vita. Una di esse, intitolata “La fortuna”, mi ha particolarmente colpito perché, se un giorno il giovane Andrea non fosse stato assistito dalla buona sorte, noi non avremmo mai conosciuto né lui, né le sue opere che hanno dato vita, tra l’altro, a un personaggio famoso come il Commissario Montalbano. Lo scrittore, fin da bambino, trascorreva le vacanze estive nella casa di campagna dei nonni materni “una via di mezzo tra una villa e una cascina colonica”, nel retro della quale c’era un grande cortile circondato da mura, dove un giorno il quindicenne Andrea stava giocando una partita a tennis con un nuovo amico: Mimmo, suo coetaneo, che abitava in una casa colonica vicina. Ad un tratto questi fu chiamato dal padre con cui doveva andare in paese (la sua voce giungeva dal viottolo oltre le mura) e dovette abbandonare la partita. Salutando Andrea, gettò la sua racchetta e la palla poco lontano da lui, si sarebbero visti l’indomani. Quando si fu allontanato, il giovane fece qualche passo per raccogliere palla e racchetta ma, all’improvviso, udì un violentissimo “crac” e la terra si aprì sotto di lui facendolo precipitare, terrorizzato, in una melma scura che lo coprì fino alla gola. Comprese subito di essere finito nel pozzo nero della casa e che due delle assi di legno che lo coprivano, probabilmente marcite e rese invisibili da uno strato di terriccio che le nascondeva, si erano spezzate sotto il suo peso. Stava con i piedi poggiati su uno spuntone, in equilibrio instabile, con le mani avvinghiate come artigli a un pezzo di asse rotta che sporgeva dalla melma fetida. Provò a gridare, ma nessun suono usciva dalla sua gola paralizzata dalla paura, cercò di sollevarsi ma la situazione rischiava di peggiorare, perciò rimase immobile per un tempo che gli sembrò infinito. Quando già le ginocchia cominciavano a piegarsi, vide la contadina Carmela diretta al pagliaio: raccogliendo tutte le sue forze, lanciò un urlo, la donna si girò e vedendo la sua testa sporgere dal pozzo nero, gridando per lo spavento corse immediatamente a cercare aiuto. L’intervento del contadino Totò e dello zio Massimo riuscì, pur con difficoltà, a mettere in salvo il ragazzo che fu portato in una zona erbosa vicina e spogliato nudo. I tre cominciarono a gettargli addosso secchiate d’acqua gelida che prendevano dal pozzo e Carmela, ogni volta che gli rovesciava addosso l’acqua del suo secchio, gli ripeteva: “don Nenè non s’apprioccupassi, vossia sarà ‘n omu fortunato picchì la merda fortuna porta, cchiù merda e cchiù fortuna”. Tralascio i particolari successivi della vicenda per giungere alla conclusione e riporto le parole dell’autore: “… devo confessare di avere avuto una vita felice in tutti i sensi, nel matrimonio, nel lavoro: forse che davvero come aveva detto Carmela, quel bagno nella, diciamo così, melma mi aveva portato fortuna?”

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Andrea Camilleri e la fortuna Cecilia Barbato


Un incontro da ricordare Gabriella Madeyski

L'albero della vita ­ Febbraio ­ Marzo 2020

Il 27 novembre 2019 alle 20.45 Mogliano Veneto ha accolto festosamente l'ingresso del prof. Francesco Sabatini nell’Auditorium del Centro Sociale. Nonostante il brutto tempo, e la pioggia che incessantemente era caduta per tutto il

giorno, un numeroso pubblico ha applaudito l'esimio professore, dal 2008 Presidente Onorario dell’Accademia della Crusca. Il docente, insignito dell’onorificenza di “ventilato”, che metaforicamente individua il “chicco puro” della Linguistica, ha dato forte connotazione alla Lingua Italiana nell’ incontro dal titolo “Occhio e mano sulla carta, il tuo pensiero vola. Leggere nell’era digitale”. L’evento è stato organizzato dalla Associazione culturale 42 Linee che in questo modo ha fatto un regalo speciale alla nostra città ospitando uno studioso di tale prestigio. Giunto da noi dopo aver tenuto già due incontri a Treviso, l'ultra ottantenne esperto linguista, accompagnato dalla prof.ssa Chiara Pini docente di lettere all’Istituto Astori, ha dato prova di essere un eloquente oratore appassionato dei suoi studi ed un uomo infaticabile. A fare gli onori di casa, sostituendo il Sindaco impegnato nel Consiglio Comunale, c’era l’Assessore (o meglio “l’Assessora” se vogliamo seguire i consigli del Professore) Giuliana Tochet che lo ha ringraziato

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non solo per le parole di stima espresse nei confronti di Mogliano, città in cui ha affermato di tornare sempre volentieri perché culturalmente vivace, ma anche per l’opera meritoria che svolge in difesa della Lingua Italiana. Il Professore è al centro dell'attenzione mediatica da anni ormai, visto il successo dei suoi interventi in TV la domenica mattina nella trasmissione di Rai Uno “Mattina in famiglia” condotta da Tiberio Timperi. La tv ha senza dubbio amplificato la sua fama ed il grande valore accademico dispensando piacevolmente e con chiarezza le sue perle meravigliose di cultura e di sapere. Sicuramente la Televisione ci ha permesso di conoscerlo meglio ma, ogni volta che si ha il piacere di incontrarlo personalmente, la sua semplicità e la sua chiarezza espositiva affascinano profondamente. L’argomento della serata ha toccato un problema di grande attualità: l’importanza della scrittura manuale. Si moltiplicano, infatti, gli studi scientifici che dimostrano come sia importante rimettere al centro dei programmi educativi la scrittura manuale come strumento fondamentale di formazione della persona, dal momento che il linguaggio e la conoscenza nascono dal corpo e


Non dimentichiamoci quindi il motto del Professore: Tria digita scribunt, totum corpus laborat. (Tre dita scrivono, tutto il corpo lavora).

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UNITRE ­ Mogliano Veneto

dalle relazioni che l’uomo stabilisce con l’ambiente in cui vive. Gli argomenti trattati dal Professore, che da sempre sostiene come lo scrivere a mano sia fondamentale per conoscere ed usare la lingua, ha offerto spunti preziosi per una riflessione trasversale e profonda tra lingua e scienza in una fase delicata come la nostra, in cui l’onnipresenza della tecnologia “touch” ed i nuovi orizzonti dischiusi dall’Intelligenza Artificiale, stanno ridisegnando i confini del nostro essere umani. Toccare è un gesto istintivo delle mani. E’ quell’attimo in cui l’uomo entra in contatto fisico con il mondo e, facendone esperienza, conosce e si conosce. Già Aristotele affermava che l’amore per le sensazioni alimenta negli uomini il desiderio di sapere e permette loro di cogliere, di sentire le infinite sfumature del reale e di trasformale in arte e scienza grazie alla capacità di ricordare, di immaginare e di

astrarre. Tra tutti i sensi il tatto è il più complesso, perché non è un unico senso, ma più sensi, attraverso i quali riesce a cogliere nell’immediatezza la forma ed essenza degli oggetti e a prendere coscienza della sua individualità dialogante con il mondo. Oggi la tecnologia touch si fonda sulla punta delle dita. Ma il “touch” è un toccare diverso. Il contatto fisico tra il nostro dito e la superficie toccata mette in moto il dispositivo, ma la reazione fisica che scaturisce in noi è molto diversa dal “toccare” nel suo significato di movimento fisico di andata (toccare) e ritorno (essere toccati): tocchiamo, andiamo verso il mondo, manifestiamo una volontà, ma il movimento di ritorno in noi, il “sentire”, il fare esperienza attraverso i sensi, è falsato. Quindi la scrittura digitale, che si sta a poco a poco sostituendo a quella manuale, sta compromettendo lo sviluppo armonico del cervello e con esso sta ipotecando le capacità di pensare in modo complesso e unitario. Non è solo una questione scolastica. Le conseguenze sono tangibili a livello relazionale, lavorativo e anche politico.


L'albero della vita ­ Febbraio ­ Marzo 2020

Musica e Carnevale Edo Guarneri Dal punto di vista storico, l’origine del Carnevale risale a molti secoli fa, in Grecia con le celebrazioni pagane dedicate al dio Dioniso e nell’antica Roma con i Saturnalia, feste dedicate al dio Saturno, entrambe caratterizzate da un temporaneo sovvertimento dalle regole sociali per lasciare posto alla sfrenata gioia di vivere, allo scherzo e anche alla dissolutezza. Entrando nel campo musicale, fu a partire dal Romanticismo che il Carnevale fu fonte di ispirazione per molti compositori. La prima opera che voglio ricordare è il “Benvenuto Cellini” dell’allora trentunenne Hector Berlioz, un’opera la cui vicenda si svolge a Roma durante il Carnevale. Possiamo definire questa composizione un ritratto dell'artista da giovane, se non della giovinezza in quanto tale. L'opera vive infatti di una frenesia giovanile fin dalla straordinaria Ouverture, nella quale spicca un tempo allegro di grande vitalità ritmica, estremamente breve e incisivo; senza dimenticare le pagine che compongono la scena più famosa dell'opera, il Carnevale che conclude il secondo atto, ricco di fantasmagoriche idee musicali e di timbri ritmici esaltanti. La prima rappresentazione pubblica fu un fiasco colossale, ma il grande compositore francese, convinto della freschezza inventiva della sua creazione, sicuro che avrebbe meritato una sorte migliore, nel 1844 decise di rilanciare l'opera raccogliendo in una seconda Ouverture le migliori intuizioni melodiche: nacque così “Il carnevale romano”, pagine di grande effetto strumentale, con orchestrazioni originali e cariche di una sensualità rimasta immutata nel tempo. Berlioz descrive musicalmente tutti gli elementi fondamentali del Carnevale e cioè le danze, i canti, la gioia, la confusione e la spensieratezza. Questa composizione è tuttora considerata un capolavoro ed è eseguita frequentemente nelle sale da concerto. Anche Johann Strauss figlio, autore dei più celebri valzer mai scritti, non fu immune dal fascino del Carnevale romano. Nel 1873 scrisse l’operetta “Il Carnevale di Roma”, nella quale il compositore austriaco riproduce l’atmosfera festosa del Carnevale, abbinandola ad una contrastata trama amorosa che vede come protagonisti il pittore Arthur Brick e la dolce Marie. Strauss ha composto una musica frenetica e veloce, ispirata ai canti gioiosi e alle danze tipiche del Carnevale. Forse la più celebre composizione che evoca i festeggiamenti carnevaleschi è “Il Carnevale di Venezia”, che Niccolò Paganini compose nel 1829. Il brano si basa su un semplice tema di canzonetta popolareggiante lagunare “O mamma, mamma cara”, che venne elaborato dal grande compositore e violinista genovese secondo la tradizione del virtuosismo del primo Ottocento: il tema leggero della canzone veneziana si presta alla perfezione per essere riletto, rielaborato e vivacizzato in ben venti variazioni di grande effetto che vogliono ricordare i momenti di allegria e di spensieratezza del Carnevale, e che costituiscono una sorta di compendio di tutti gli aspetti più ardui della tecnica violinistica paganiniana. Come spesso accade per la musica di Paganini non c’è molto da aggiungere alla suggestione dell’ascolto stesso. Su questo stesso tema il polacco Chopin scrisse variazioni pianistiche di innegabile fascino. Robert Schumann rimase stregato dal carnevale viennese: l’eco dei fasti e dei festeggiamenti della capitale imperiale si ritrovano tutti nei Quadri Fantastici sul Carnevale di Vienna, op.26. L’opera è divisa in quattro movimenti. Risalta il brillantissimo Allegro d’esordio che da solo occupa

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Continuando nell’ideale viaggio attorno a questa festa, troviamo nella letteratura musicale l’imponente e brillante Rapsodia ungherese n° 9 di Franz Listz intitolata “Il Carnevale di Pest”. Come indica il titolo, il brano è una grande rappresentazione di un carnevale a Pest, con danze e balli in maschera tipici di questa festività. Listz si ispirò alle tradizioni folkloristiche dell’Ungheria e creò un brano virtuosistico e trascinante.

Infine vorrei ricordare Il Carnevale degli Animali del compositore francese Camille Saint­Saens, che venne eseguito per la prima volta nel 1887 in occasione del martedì grasso: questa raccolta di brani adotta l’idea dello zoo fantastico e fantasioso per descrivere i vizi e le cattiverie degli umani. Ogni brano si riferisce ciascuno ad un animale (galli e galline, leoni, tartarughe, cigni, elefanti, canguri e altri) e presenta una musica dai toni umoristici e canzonatori. Splendido e celeberrimo il brano dedicato al cigno, nel quale, sugli arpeggi dei due pianoforti, il violoncello espone il dolcissimo tema. L’ultimo dei 14 brevi brani che compongono quest’opera termina con una serie di ragli dell’asino, a significare che è l’asino ad avere l’ultima parola e l’ultima risata.

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UNITRE ­ Mogliano Veneto

quasi metà della composizione. Tra i movimenti è senza dubbio quello più propriamente carnevalesco, dove il compositore mantiene il giusto equilibrio tra virtuosismo ed estro creativo. Nell’ultimo e quarto movimento, dopo le varie parentesi liriche e romantiche dei movimenti precedenti, l’ascoltatore viene rilanciato senza preavviso nell’atmosfera caotica del Finale, che con il suo virtuosistico saliscendi e un brusco alternarsi di ritmi rievoca alla perfezione quella stessa atmosfera carnevalesca festosa e di sfrenata allegria che aveva permeato l’Allegro iniziale. Schumann scrisse anche Carnaval, una delle composizioni più belle e ironiche della sua produzione musicale, 22 pezzi per pianoforte uniti da un motivo ricorrente, ricchi di slanci ardenti e di improvvisi ripiegamenti, di impeti e di tenerezze, di introspezioni psicologiche e di sogni fantastici, contrassegnati da un idealismo di pura marca romantica. Un mondo poetico, punteggiato da stati d'animo diversi e più volte contrapposti, espressi sempre con straordinaria freschezza melodica. Alcuni pezzi prendono nome da diverse maschere italiane (Arlecchino, Pantalone, Colombina) e francesi (il malinconico Pierrot).


Il piacere della lettura Francesco Vidotto ­ OCEANO ­ Minerva Edizioni, Bologna 2014 Francesco Vidotto ha abbandonato gli agi della città e un lavoro sicuro da consulente, per ritirarsi a Tai di Cadore, in una casa avuta in eredità, e dedicarsi a ciò che ama fare: camminare in montagna e scrivere. In questo libro ha raccolto, giorno dopo giorno, chiacchierata dopo chiacchierata, la storia di Oceano, un montanaro di quasi cento anni. Una storia che inizia nel 1915, attraversa le due guerre e arriva ai giorni nostri, una storia molto dura, commovente e simile a quelle di tanti altri montanari di quell'epoca in cui la fame, la miseria e le privazioni erano di casa. Scritto in maniera tanto semplice quanto toccante, è un libro da leggere senz'altro.

L'albero della vita ­ Febbraio ­ Marzo 2020

Catherine Dunne ­ TUTTO PER AMORE ­ Guanda, Parma 2010 Julia, medico irlandese di circa sessanta anni, una figlia, due nipotini, una vita perfetta, improvvisamente decide di lasciare tutto e tutti e scappa. Lascia però degli indizi al compagno, scrittore di thriller, che non smette di cercarla e alla fine la trova, scoprendo le vere ragioni del suo gesto, per niente egoista, ma dettato dall'amore. È uno di quei romanzi da cui, una volta iniziati, non riesci più a staccarti. Scritto con un alternarsi dei protagonisti nella narrazione e con continui intrecci tra passato e presente, questo libro della Dunne, famosa scrittrice irlandese, è scritto in modo magistrale e conferma anche stavolta la bravura dell'autrice.

Donatella Grespi Isabel Allende – LUNGO PETALO DI MARE ­ Feltrinelli, Milano 2019 Siamo in Spagna nel 1939 quando, a seguito della sanguinosa guerra civile, Victor e la sua amica Roser, come molti altri, sono costretti per sopravvivere ad attraversare i Pirenei, raggiungendo la Francia e da qui il Cile, il “lungo petalo di mare” come lo ha definito Pablo Neruda. Il libro narra il lungo processo di integrazione in Cile dei due giovani, costellato di ricordi, nostalgie, dolore per aver dovuto abbandonare la terra natale, ma anche di nuove speranze, gioie, progetti di vita, che hanno consentito loro di conquistare una nuova appartenenza in quel Paese. Ma quando, nel 1973, avviene il golpe militare che fa cadere il Presidente Salvador Allende, la coppia è costretta nuovamente a fuggire verso il Venezuela, dove rimarrà, da esule, fino al definitivo rientro in Cile. Ancora una volta Isabella Allende, attraverso una scrittura emozionante e coinvolgente, fornisce uno struggente ritratto della società cilena distrutta dal colpo di Stato, ma al tempo stesso ella, attraverso le vicende umane dei due protagonisti, non manca di rappresentare la fiducia, la speranza, la possibilità di un futuro di pace e democrazia.

Alba Compagnone

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Nuovo incontro con l'autore, anzi con l 'autrice. L'evento si è svolto nella sede della biblioteca della Favorita, una piccola biblioteca di quartiere autogestita da un gruppo di volontari. A fare gli onori di casa, Sofia Gobbo e Maria Rosa Zomaro che hanno ospitato la presentazione del libro di Wilma Ambrosio "Il filo rosso" edito da Ladolfi. La scrittrice ha esordito spiegando il motivo della scelta del titolo, " Il filo rosso": esso allude al colore dei sentimenti come la passione, l’amore e il coraggio, che guidano le protagoniste nelle loro vicende e nel loro ruolo nella società con conformismo e anticonformismo nel divenire delle loro vite. I quattro racconti che costituiscono l’opera, hanno come sottotitoli quattro nomi di donna: Carlotta, Nora, Giovanna e Marta, ognuno con una valenza simbolica. Il primo ha un vago sapore ottocentesco e la storia è tenera e omantica. Nora evoca la protagonista di " Casa di bambola" di lbsen e dovrà, come nel dramma dello scrittore norvegese, scegliere se abbandonare o meno un nido sicuro per una esperienza certo difficile ma più libera. La storia di Giovanna, con riferimento a Giovanna la Pazza, racconta di un momento in cui una donna deve decidere se restare nella folle dimenticanza o scoprire una dolorosa realtà. Infine Marta, dai Vangeli, è colei che opera, in contrapposizione a Maria, colei che prega. Marta, nata femmina, dovrà scegliere se e come diventare" donna". I personaggi tutti sono portatori di messaggi legati ai sentimenti che l'autrice ritiene fondamentali per la vita di ciascuno. Tra questi il più vibrante è l'amore, con tutte le sue sfaccettature e problematiche. La scrittrice ha intercalato la sua esposizione con la lettura di brevi brani dei singoli racconti. Il pubblico ha risposto con partecipazione ed interesse, ponendo numerose domande, spaziando su piu versanti ,dalla contrapposizione o meno dei due sessi, alla figura della donna nella famiglia fino ad esperienze personali, quando l'autrice ha parlato del suo lavoro quale insegnante per molti anni nelle scuole superiori. E’ stato un pomeriggio interessante e piacevole, soprattutto per me, poichè è stata occasione per rivedere mia sorella e farla conoscere ed apprezzare da tanti altri.

Il mio pensiero… Enzo Prete Il mio pensiero va a Lei Presidente e a tutti suoi collaboratori. Abbeverare l’Albero della Vita senza chiedere nulla in cambio è un gesto di grande altruismo. Io, come associato, non ho parole per quanto ci donate. Io posso solo regalarvi il mio pensiero, poca cosa. Io da voi ho ricevuto serenità, memoria, curiosità, per sapere sempre di più. Anche per potere aiutare i meno fortunati, io ci provo. Un grazie sincero, augurando un anno di salute e serenità.

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UNITRE ­ Mogliano Veneto

Un incontro letterario Rita Ambrosio


La Televisione degli anni ’60: Belfagor, il fantasma del Louvre

Giuseppe Ragusa

L'albero della vita ­ Febbraio ­ Marzo 2020

Quando la RAI, nel 1966, trasmise Belfagor ovvero Il fantasma del Louvre, un fenomeno collettivo di paura e di inquietudine coinvolse con crescente diffusione gli allora ingenui telespettatori italiani (e, l’anno prima, quelli francesi).

Una storia misteriosa e ossessionante. Parigi è scossa dalla presenza di un misterioso personaggio, forse un fantasma, che si aggirerebbe di notte tra le sale del Louvre: il suo nome è Belfagor e si manifesta nel cuore della notte, vestito di nero da capo a piedi, con una maschera di cuoio sul volto e preceduto da un misterioso bambino in calzoni corti. La storia si dipanerà tra inquietanti apparizioni del fantasma, oscure aggressioni ai protagonisti, presenze di strani personaggi e sarà resa ancora più complessa dalla scoperta di una vecchia pergamena dei Rosacroce (leggendario ordine segreto cristiano) nella quale si rivela che un tesoro è nascosto all'intero del museo parigino. Nel mezzo, una velata storia di amore fra André, un tipico studente universitario ante '68, brillante e colto, e la dolce Colette, figlia del commissario di polizia incaricato delle indagini. Molti i protagonisti del racconto. Primo fra tutti, lo stesso Museo del Louvre, non più spazio d’arte ma luogo tenebroso e oscuro, le sue sale spoglie e scarne, rare statue di dèi egizi poco illuminate, in un chiaroscuro quasi spettrale, ad evidenziare la drammaticità di tutta la storia.

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Lady Hodwin, una vecchissima, ricca ed eccentrica nobildonna inglese, che passa gran parte del tempo ad ascoltare vecchi dischi, che dichiarerà di essere una sorta di protettrice di Belfagor e si adopererà a depistare abilmente le indagini. Williams, facoltoso uomo d'affari, una bieca figura che teorizza una società in cui pochi eletti dominano sulle masse e che ricerca nelle scienze occulte le basi per affermare questo potere. Williams ucciderà l’anziana Lady nonostante sappia che era sua madre. Ma fra tutti spicca Luciana Borel, interpretata da una splendida Juliette Gréco: donna affascinante e misteriosa, dalla personalità contraddittoria, a volte dura e sicura di sè, in altre occasioni fragile e oppressa dall'angoscia. Cercherà inutilmente di sedurre il giovane André, del quale si era innamorata. Alla fine si scoprirà che è proprio Luciana a nascondersi dietro la maschera di Belfagor, ma a sua discolpa si saprà che ha agito in maniera non cosciente, per l’effetto di droghe somministratele dal “cattivo” Williams. Nelle concitate fasi finali della storia Luciana, sconvolta dalla rivelazione di essere il Fantasma del Louvre, morirà suicida, lanciandosi nel vuoto. Con la fine dello sceneggiato, la paura per i telespettatori svanì nel nulla, tutto ritornò “normale”, e chi desiderava provare il “brivido del thriller” poteva optare per il Carosello (a quei tempi beati unico scrigno della pubblicità), dove ­ assieme a Ernesto Calindri che beveva il suo amaro ai carciofi seduto al tavolino in mezzo al traffico o al pulcino Calimero che attribuiva le proprie sfortune al fatto di essere piccolo e nero (blando razzismo di quei tempi, in realtà era solo sporco) – si poteva vedere recitare il grande attore veneziano Cesare Polacco nel ruolo dell’infallibile ispettore di polizia Rock, che, alla fine del giallo prontamente risolto, toglieva il cappello e mostrava una calvizie avanzata, attribuendosi l’unico errore di non aver mai usato una notissima brillantina.


La simpatica e riuscita Festa di Carnevale della nostra Unitre volgeva ormai al termine, in quel pomeriggio del 13 febbraio del 1999. Improvvisamente, ecco l'idea luminosa, forse incoraggiata anche da qualche calice di frizzante prosecco... "Perché non filiamo su, in Val di Fassa, dove domani c'è la sfilata delle maschere ladine e noi andiamo a rappresentare, ufficiosamente, le maschere veneziane?" I nostri costumi infatti, per quanto semplici e artigianali, erano quelli classici dei nobili veneziani ed erano completi di tricorno, mascherina e bauta, mantello nero, corpetto e camicia in pizzo e giù giù fino ai calzettoni bianchi ricamati. Mia moglie Carla ci aveva dato dentro negli ultimi giorni per raggiungere un risultato di notevole livello, considerando il fatto che era la prima volta che si impegnava nella realizzazione di una maschera di quel tipo. Due minuti di discussione sulla proposta, quindi la decisione di partire! Chiusa la casa, prelevato l'indispensabile per il viaggio, ci dirigemmo con una coppia di amici ugualmente mascherati alla volta del Passo San Pellegrino in notturna invernale. A quel tempo si era ancora sufficientemente giovani per affrontare e realizzare idee del genere... Ed eccoci freschi e pimpanti, il giorno dopo, al Carnascer de Fascia (la festa di Carnevale della Val di Fassa), modestamente orgogliosi e compresi nel nostro ruolo di rappresentanti della gloriosa Repubblica di San Marco con i nostri eleganti e classici costumi. Nella piazza, dove si svolgeva la festa, si alternavano in sfilata le fantasiose, legnose e pelose maschere ladine quali i Lachè, i Marascons, i Bufons ed altri, compresi alcuni fotogenici ed amichevoli Krampus (vedere per credere) provenienti dalle vicine vallate. Un succedersi di colori, di fantasia e di vitalità ad annunciare il prossimo atteso arrivo della primavera e della vita dopo il lungo inverno. Noi, in effetti, ci distinguevano con i nostri costumi, nel senso che eravamo diversi. Senza che ci rendessimo conto, però, pian piano eravamo stati isolati e distanziati dalle numerosissime famiglie con bambini presenti. Avevamo pensato, con malcelato orgoglio di ambasciatori delle Glorie del nostro Leon, che fosse per poterci fotografare da soli... Ma non era così. Niente di più sbagliato. Una cruda ed inaspettata verità ci travolse pochi istanti dopo, quando sentimmo alcuni papà sussurrare ai figli che stavano loro appresso timorosi "No, non sono ladri, non sono banditi! Sono solo maschere strane che vengono da lontano..." Altro che ambasciatori di Venezia... Eravamo stati scambiati per ladri e banditi ! Questo impatto con la nuda realtà ci obbligò ad un immediato ridimensionamento. Subito ci togliemmo la bauta per farci vedere col nostro viso, dato che la bauta stessa sembrava essere considerata non troppo amichevole come invece risultavano essere i gentili Krampus o simili! Morale della breve esperienza vissuta: Paese che vai, maschere che trovi !!!

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UNITRE ­ Mogliano Veneto

Paese che vai, maschere che trovi Gianni Soleni



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