L'albero della vita
L'albero della vita L'albero della vita Anno 4 numero 4°
1A Natale 4A Quadro a olio di Vittorino De Pieri
Dicembre Gennaio 2020 COORDINATRICE EDITORIALE
Gabriella Madeyski REDATTORE CAPO
L'albero della vita Dicembre Gennaio
Giuseppe Ragusa REDAZIONE Cecilia Barbato Albachiara Gasparella Donatella Grespi Dino Santarossa GRAFICA e versione on line Dino Santarossa
HANNO COLLABORATO: Paolo Baldan Mauro Cicero Alba Compagnone Giorgio De Conti Renzo De Zottis Alessandro Giordano
3a Editoriale 4a L'inaugurazione del nuovo anno accademico 5a Il volto rosa della luna 6a Poesie 7a Un terribile scherzo 8a La Tangoterapia 9a Galeotto fu il tango 10a Treviso urbs picta 11a Venezia: La mostra di AntonellaMason 12a Il piacere della lettura 14a Ifigenìa 16a San Servolo 17a Sinfonia n°4 di F. MendelsshonBartholdy 18a Ernesto Scoffone, un moglianese da non dimenticare 19a La Televisione degli anni ’60: Il tenente Ezzy Sheridan 22a Tre piccole Italie a New York 4A di copertina: Vittorino De Pieri 21a Storie delle tradizioni natalizie 22a Il Natale di quando ero bambina 22a Natività, di Mario Tozzi
Edo Guarneri Vittorio Pellizzari
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Alfio Portale Maria Caterina Ragusa Michela Trabucco
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Editoriale La conquista dello spazio, dai satelliti artificiali allo sbarco sulla Luna fino all’esplorazione con navicelle automatiche dell’intero sistema solare, è storicamente uno degli eventi più importanti del xx secolo. Ma, come spesso succede quando sono in gioco tecnologie molto avanzate, la conquista dello spazio non è stata soltanto un’impresa scientifica: ha sempre avuto anche un aspetto politico e militare, tanto da influire profondamente sui rapporti tra le due superpotenze della seconda metà del secolo scorso, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica: prima perché lo spazio fu una specie di arena ideale dove questi due Paesi misurarono la loro forza e svilupparono la loro propaganda, poi perché le attività spaziali divennero, al contrario, un campo nel quale sperimentare la distensione e infine persino la cooperazione. Possiamo infatti dividere la storia della conquista dello spazio in quattro periodi: i primi sviluppi nella Germania nazista, tutti all’insegna delle applicazioni belliche; gli anni dal 1950 al 1974, quando l’astronautica diventa un terreno di sfida e di rivalità tra USA e URSS; il quindicennio 19751990, durante il quale, dopo la prima missione spaziale congiunta USA e URSS, le attività spaziali si trasformarono in un’occasione di dialogo; infine il periodo dopo il 1990 nel quale, con la dissoluzione dell’impero sovietico e le difficoltà economiche non soltanto della Russia ma anche dell’Occidente, lo spazio diventa un settore di inevitabile collaborazione internazionale. All’inizio, quindi, il mondo ha esultato perché sembrava che ci si avviasse a vivere la più lunga, stabile e promettente èra di pace, a partire dall’inizio della storia tramandata per mezzo della scrittura. Il percorso seguito per la conquista dello spazio, però, non ha portato ad una reale collaborazione fra gli Stati del mondo perché, purtroppo, pace fra le nazioni non vuol dire pace fra gli esseri umani. Speriamo che, come l’avventura nello spazio si è trasformata in realtà grazie a degli obiettivi comuni, diventi un traguardo possibile anche il creare delle società al cui interno possano vivere e convivere, nel rispetto reciproco, genti di colore, lingua, religione e idee diverse.
La Presidente, il Direttivo e la Redazione del Giornale augurano a tutti gli iscritti
Buon Natale e Felice Anno Nuovo 3
UNITRE Mogliano Veneto
Gabriella Madeyski
L’inaugurazione del nuovo anno accademico
L'albero della vita Dicembre Gennaio
Giuseppe Ragusa Abbiamo ancora dentro di noi la gioia (e le fatiche…) del trentennale della nostra Università, ed è già ora di iniziare il nuovo anno accademico! Ci siamo rivisti in tantissimi l’11 Ottobre, soci vecchi (non in senso anagrafico, naturalmente…) e nuovi, al Teatro Astori, nostra abituale sede per le cerimonie di apertura e chiusura dell’anno accademico. Ad accoglierci con il suo sorriso è la nostra Presidente Elsa Caggiani, padrona di casa sempre più forza trainante ed “anima” della nostra Associazione. Le sue parole di benvenuto trasmettono l’orgoglio di quanto l’Unitre rappresenta per la città di Mogliano, ma anche per noi tutti, docenti e iscritti (al momento dell’inaugurazione siamo 690!); esse rimarcano l’impegno dei volontari per la Segreteria, per i Corsi e le Conferenze, per la Biblioteca comunale, per le Pigotte, per gli iscritti al Corso di Lettura interpretata (veramente molto lodevole la creazione di un Team che sta creando una collana di audiolibri per gli ipovedenti!), per il Coro, per gli organizzatori del Gruppo Viaggi, per la nostra Rivista definita un fiore all’occhiello dell’Unitre, e per tutte le altre attività che fanno della nostra Unitre un polo di cultura e di socializzazione. Anche il Sindaco Davide Bortolato, per la prima volta ospite d’onore alla nostra inaugurazione, è rimasto favorevolmente colpito dalla varietà e dalla qualità delle attività proposte, e fa risaltare nel suo intervento, breve ma sentito, la notevole opera di promozione sociale della nostra Associazione, che mira a vincere l’isolazionismo in cui molte persone, non più giovani ma ricche di esperienza del vissuto della loro vita, possono fatalmente rifugiarsi, disperdendo un preziosissimo patrimonio di umanità. La nostra Presidente ha chiesto al Sindaco una Sede più idonea e più attrezzata rispetto a quella in cui attualmente operiamo per Corsi e Laboratori: l’Unitre la merita! Mogliano attualmente – questa la risposta del Sindaco non ha una struttura idonea, ma il programma di questa Amministrazione è quella di convertire qualche struttura inutilizzata per darci quello spazio che da anni chiediamo. Abbiamo una fede incrollabile, speriamo arrivi il momento sognato! Ha preso quindi la parola il vicesindaco Giorgio Copparoni che spende graditissime parole di elogio per la nostra Unitre (“Repetita iuvant”…) e promette il suo personale impegno nella realizzazione della nuova Sede scolastica dell’Unitre. Annuncia che riaprirà il Fotogramma Piovesan Broletto, spazio espositivo per le mostre degli artisti di Mogliano, ed invita noi tutti a visitare il Brolo, spazio culturale d’eccellenza della nostra Città. E’ il momento adesso dello spettacolo che ogni anno l’Unitre offre ai suoi iscritti. La scelta quest’anno è caduta sull’ensemble musicale “Laboratorio musicale italiano”, diretto dall’artista moglianese Giuseppe Cadamuro, un gruppo che lavora su un progetto musicaleculturale attorno alla canzone d'autore italiana. Da Dalla a De Gregori, da Conte a Battiato, da Vecchioni a Guccini, da De André a Ivano Fossati e Zucchero, il viaggio musicale che ci hanno offerto si è snodato in un continuo intreccio di parole e musica dalle intense emozioni artistiche, che ha coinvolto tutti noi che abbiamo amato (e amiamo) questa musica indelebilmente incisa nei nostri cuori evergreen. Ha chiuso la serata uno splendido e affollatissimo buffet.
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Fotogramma Piovesan
Il volto rosa della luna In occasione del 50° Anniversario dello sbarco dell’uomo sulla Luna, la nostra Unitre ha celebrato l’evento offrendoci due eccellenti conferenze condotte rispettivamente dal prof. Piergiorgio Pozzobon che ci ha portati sulla Luna con la “poesia” e dal prof. Renzo De Zottis che invece ci ha fatto viaggiare nello Spazio con i missili immaginati da Jules Verne e con quelli reali messi a punto dalla NASA. Dalla straordinaria fantasia di Verne allo straordinario lavoro di tanti uomini di scienza e tecnologia! Non solo uomini però in questa affascinante e ardua impresa! Anche qualche donna come Katherine Johnson di cui sono venuta a sapere recentemente dopo la visione di un film trasmesso da Rai1. Il film “Il diritto di contare”, diretto da Theodore Melfi ed uscito nelle sale nel 2017, racconta la storia vera di tre giovani donne afroamericane che, impiegate all’Ente Spaziale Americano (la NACA poi NASA), collaborarono in campi diversi alla programmazione spaziale combattendo però una dura lotta contro i pregiudizi dell’epoca in quanto donne e contro il segregazionismo in quanto di colore (siamo negli anni ’50 e primi ’60 ). Katherine Johnson, che è tuttora vivente ed ha compiuto 101 anni quest’anno, ha avuto fin da bambina il pallino per la matematica. Contava tutto ciò che potesse essere numerabile: le stelle, i passi che la separavano dalla sua casa alla chiesa, i gradini, i piatti che lavava… etc…etc… Nonostante le prevedibili difficoltà legate all’apartheid, la ragazza si laureò con lode in matematica e francese nel 1937 a soli 19 anni. Impensabile sarebbe stato un meritato impiego nella ricerca, perciò la Johnson, che credeva fortemente nell’educazione dei giovani, cominciò ad insegnare in una scuola per neri. Nel frattempo, unica donna e per lo più nera, fu ammessa al dottorato presso una Università per soli bianchi ma non proseguì preferendo occuparsi della famiglia che stava formando. Tornò quindi all’insegnamento. Solo nel 1952 fu assunta alla NASA che cercava matematiche, anche nere, per effettuare calcoli e controlli. Ancora non esistevano gli elaboratori elettronici! Da quella condizione di “calcolatrice umana”, col tempo, passò a coadiuvare un team di ricercatori rigorosamente maschi e bianchi grazie alle sue grandi ed indiscutibili capacità soprattutto in geometria. Ottenne così una posizione migliore ed un aumento di stipendio; le fu concesso inoltre di poter firmare col suo nome e cognome i rapporti dei risultati delle sue personali elaborazioni. C’è da sottolineare comunque che la Russia era già più avanti nell’esplorazione spaziale e che l’America doveva impegnarsi di più se voleva stare al passo e riuscire a farne qualcuno in più. Per questo avrebbe dovuto fare qualche “strappo alla regola” fidandosi anche della mente di una donna di colore… Tante sono state comunque le umiliazioni che Katherine ha dovuto subire a cominciare dal fatto che, solo per andare al bagno riservato ai neri, doveva recarsi in un altro edificio piuttosto lontano dalla sua postazione di lavoro. La Johnson nel 1961 calcolò l’orbita di Alan Shepard, primo americano nello Spazio dopo il russo Gagarin e fu lei a rifare tutti i calcoli già elaborati dal primo computer IBM 7090 quando toccò a John Glenn nel 1962. Si dice che l’astronauta stesso, prima di imbarcarsi, abbia preteso che fosse proprio Katherine a verificare! Collaborò a calcolare l’orbita dell’Apollo 11, predispose manuali con orbite lunari diverse in caso di problemi (Apollo 13) e continuò a lavorare alla NASA fino al 1980, anno in cui andò in pensione. Nel 2015 ottenne da Barack Obama la Medaglia Presidenziale della Libertà, la massima decorazione degli Stati Uniti. Ancora una volta devo dire grazie al regista Theodore Melphi per aver toccato con molta delicatezza i temi della emancipazione razziale e femminile e soprattutto per avermi fatto conoscere donne straordinarie come Katherine Johnson che, tra l’altro, è riuscita a tingere un po’ di rosa la faccia bianca della Luna.
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UNITRE Mogliano Veneto
Albachiara Gasparella
Poesie TRAMONTO Una lisca di nubi a tramontana, un cielo teso pelle di medusa tra binari di luce da cui gocciano stelle. Brividi sulla pelle quando il tuono lontano evoca piogge.
L'albero della vita Dicembre Gennaio
Sotto il graffio d’argento della luna nell’ombra mi dissolvo: il mio nodo scompare dall’arazzo del mondo.
Cecilia Barbato
LUNA Guarda nel cielo ancora chiaro la grossa luna appena sorta opaca e gialla di soave acquerello sfumata. Quasi palpabile dono da toccare trattenere baciare immutata e bella lì. Una fiaba sempre nuova ci accomuna ora ancor di più.
Michela Trabucco 6
Un terribile scherzo “Giacomo Casanova fu sicuramente un personaggio controverso, versatile, abile nel districarsi sia come uomo di lettere sia come assiduo corteggiatore di dame e d’avventure. Figlio di attori in un’epoca in cui una simile origine non costituiva certo un vantaggio, incarnò una straordinaria figura di sperimentatore, pronto a lasciarsi coinvolgere in situazioni insolite e rocambolesche, come ad esercitare incarichi disparati e talvolta prestigiosi errando attraverso l’Europa già percorsa dai fremiti illuministi.” Così Elio Bertolini, uno dei suoi maggiori biografi, ci presenta la figura del grande libertino, capace di lasciare un segno indelebile in un’epoca estremamente complessa come il Settecento dove pure spiccano nomi di grandezza assoluta come ad esempio Voltaire. Con il filosofo francese vi furono peraltro sempre rapporti piuttosto freddi: “un tipo divertente” lo definì altezzosamente Voltaire e Casanova non fu da meno giudicandolo “un chiacchierone indiscreto che preferisce gli applausi della moltitudine ignorante all’ammirazione dei sapienti”. Ma nella vita di Casanova, raccontata da lui stesso nella "Histoire de ma vie", non vi sono state solo le grandi imprese amatorie, le frequentazioni con i grandi del tempo, le vicende giudiziarie culminate nella celeberrima fuga dai Piombi ma anche piccoli episodi altrettanto rivelatori della sua personalità. Uno di questi avvenne poco lontano da noi, a Zero Branco, dove Giacomo si trovava in villeggiatura. L’elegante libertino stava passeggiando (possiamo immaginare in piacevole compagnia) quando a causa di uno scherzo beffardo cadde in un torrente fangoso dove i suoi begli abiti si inzaccherarono in modo irreparabile. Riuscito ad identificare l’autore dell’oltraggio, un greco cinquantenne di nome Demetrio, ecco come Casanova si vendica: va nottetempo al cimitero dove un cadavere era stato seppellito di fresco, gli taglia un braccio “non senza grande fatica”, aspetta che il greco sia a letto e con la mano del morto gli tira le coperte. Quando l’altro afferra la mano e l’intero braccio gli cade sulle lenzuola, lo spavento è tale che resta instupidito. “Passò in questo stato il resto della sua vita” commenta serafico Casanova che, seccato dalle polemiche scatenate dal caso, se ne torna a Venezia soddisfatto di aver vendicato il suo onore. Il grande veneziano, autonominatosi Cavaliere di Seingalt per far dimenticare le proprie modeste origini (in realtà era figlio illegittimo del nobiluomo Michele Grimani) morirà a settantatrè anni nel castello di Dux in Boemia dove si era ritirato a fare il bibliotecario del conte di Waldstein, sbeffeggiato dalla servitù e considerato un relitto di un’epoca ormai finita per sempre con la rivoluzione francese. Era il 4 giugno del 1798 e solo l’anno prima a Campoformido Napoleone aveva messo fine alla millenaria storia della Serenissima Repubblica di Venezia.
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Renzo De Zottis
La Tangoterapia
L'albero della vita Dicembre Gennaio
Alfio Portale La definizione di tangoterapia nasce dal sempre più largo utilizzo ai fini terapeutici del tango, un ballo ormai diffuso in tutto il mondo, riconosciuto tra l’altro patrimonio mondiale dell’umanità dalla sezione dell’Unesco, che attribuisce anche a beni “intangibili” l’importanza per la salvaguardia della conoscenza e dell’espressione. La parola tango ha significati non univoci: alcuni la fanno derivare dal latino tangere, nel senso di toccare, pizzicare strumenti musicali, altri dal nome del tamburo usato dagli schiavi neri afrocubani, altri ancora dal nome dei luoghi in cui questi schiavi venivano rinchiusi dai negrieri. L’origine storica del tango è da ricercare in quell’immenso movimento migratorio che, a partire dalla seconda metà dell’’800, andò a cercare fortuna nel Paese che al tango ha dato i natali, cioè l’Argentina, più specificatamente Buenos Aires, riconosciuta universalmente la culla del tango. Ma cos’ha di particolare il tango, e di diverso, rispetto a tutti gli altri balli? Nessuna danza raggiunge lo stesso livello di comunicazione tra i corpi: emozione, energia, abbraccio, palpitazione. Si può affermare con certezza che esso smuove il cuore e i sentimenti e conduce ad esprimere con il corpo le emozioni percepite nella sua musica. La coppia che balla il tango avverte trasporto emozionale, a partire dallo sguardo e dall’abbraccio e l’essere tanguero (cioè ballerino di tango) diviene quasi una filosofia di vita. Il tango prende, cattura, emoziona ed una volta che si è compenetrati in esso, diventa difficile, quasi impossibile, abbandonarlo. Proprio in riferimento ai movimenti che i tangueri compiono ballando ed ai sentimenti che con tale ballo si esprimono, è nata – ufficialmente nel 2008 la Tangoterapia, un metodo terapeutico ormai https://pixabay.com autorevole e consolidato (anche se recente) che ha portato alla nascita di vere e proprie scuole mediche dapprima a Buenos Aires e poi in tutta l’Argentina. È possibile praticare la Tangoterapia sia in percorsi di gruppo che in coppia o in sessioni individuali. Due sono le branche in cui si suddivide tale disciplina. La prima è la branca fisiatricoortopedica, che si occupa delle correzioni posturali sia congenite che acquisite: il tango infatti richiede tecnicamente dei precisi schemi posturali che tendono a correggere numerose patologie osteoarticolari, quali la scoliosi, le dismetrie degli arti inferiori, l’artrite reumatoide, le sindromi osteoarticolari secondarie ad osteoporosi postmenopausale. Per tutte queste patologie il lavoro di coppia è un fattore fondamentale (l’uno aiuta l’altra e viceversa). Il tango prevede un costante appoggio al suolo con uno dei due piedi e ciò impedisce al soggetto di saltare e dunque di subire stress muscolare o tendinei. Ulteriore punto da non trascurare è il miglioramento dell’equilibrio e del coordinamento dell’apparato osteoarticolare. Il tango è considerato un’attività aerobica a basso impatto: esso infatti è caratterizzato da un movimento fisico prolungato di modesta intensità (se non eseguito in modalità acrobatica) ed in grado di mantenere costanti le pulsazioni cardiache. Questa sua caratteristica non comporta pertanto problematiche cardiorespiratorie, anzi svolge un’azione preventiva su di esse. La seconda branca della Tangoterapia è quella neurologicopsicologica. Il ballo del tango, la sua musica, l’abbraccio dei ballerini, migliorano la percezione del benessere. E’ stato scientificamente provato che ballando il tango si producono maggiori quantità di endorfine (sostanze chimiche prodotte dal cervello e dotate di una potente attività analgesica ed eccitante), ma anche di dopamina e serotonina, gli ormoni deputati a regolare lo stato di benessere psicofisico. Questa danza quindi influenza positivamente le facoltà neurocognitive e migliora la capacità di
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Galeotto fu il tango Donatella Grespi Concetta aspettò che il marito uscisse, si precipitò in bagno da cui emerse, circa un'ora dopo, profumata e truccata con cura. Si diresse in camera da letto dove estrasse, da sotto un cappotto che non usava da anni, un vestito rosso vermiglio, scollatissimo e molto aderente. Rimirandosi allo specchio lo indossò, poi infilò un paio di scarpe di raso dello stesso colore, tacco dodici. Scarpe da peccato mortale...Un giubbino di finta pelle nera completava l'abbigliamento. Lasciò la casa di soppiatto, guardandosi in giro. Guidò piano finché giunse nei pressi di un edificio vecchiotto e malandato in cui entrò svelta, dopo aver parcheggiato accanto al marciapiede. Riapparve circa due ore dopo, un po' spettinata, con uno sguardo sognante, perso. Così la vide il marito nascosto dietro a un albero. Insospettito da comportamenti strani e da palesi bugie, l'aveva pedinata. "Santo Iddio!" aveva pensato furente "Concetta mi tradisce... vado a casa e faccio il finimondo..." Ma prima volle vedere in faccia il suo rivale. L'atrio era buio e puzzava di pipì di gatto, le scale dai muri scalcinati. Al primo uscio a cui bussò venne ad aprire una vecchia sdentata che calzava ciabatte informi e lo scrutò con aria interrogativa prima di chiudergli la porta in faccia. Non fu fortunato neppure con gli altri inquilini, per un motivo o per l'altro, al di sopra di ogni sospetto. Stava per andarsene quando udì arrivare, dall'ultimo appartamento che mancava, il suono di una fisarmonica. Doveva sapere... Gli aprì una specie di gitana corpulenta, dal trucco pesante. "Vieni caro. Accomodati pure". Si sentì svenire mentre mille idee in quel momento gli passavano per la testa, supposizioni... Concetta la mite, scialba donna che era accanto a lui da sempre, che non aveva nè vizi nè doti particolari, cosa aveva in comune con questa tizia dall'aria decisamente equivoca? Che ci era venuta a fare in questa casa? Ma fu un attimo perché il donnone lo spinse a forza verso una porta chiusa da cui proveniva la musica. Come ipnotizzato lui entrò... Nella stanza completamente vuota e col pavimento di legno volteggiava una coppia, sullo sfondo, accanto a un giradischi, un ometto segaligno che non appena lo vide gli si fece incontro "Benvenuto sono Manuelito" disse con una voce in falsetto e poi aggiunse "È la prima lezione di tango questa per lei?"
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UNITRE Mogliano Veneto
concentrazione: è pertanto utile come coadiuvante nelle terapie per gli stati depressivi, nelle sindromi ansiose, negli stati di stress in generale. Nell’ambito delle patologie neurologiche la Tangoterapia si sta affermando anche come terapia riabilitativa neuromotoria nel morbo di Parkinson, nella sclerosi multipla e negli esiti di ictus, naturalmente come supporto coadiuvante alle necessarie terapie farmacologiche. Recenti studi hanno riscontrato un beneficio significativo anche nei pazienti affetti da demenze come ad esempio il morbo di Alzheimer. Concludendo, gli elementi tecnici di questo ballo (esercizi di cambio di peso, giri, cambi di direzione, dissociazioni tra busto ed arti, improvvisazioni di figure seguendo il ritmo musicale) e le sue valenze espressive e relazionali risultano essere un percorso terapeutico http://www.reteartemedicina.com gradevole e sicuramente positivo, realizzando una migliore risposta motoria e contribuendo al benessere cognitivo delle persone che lo praticano. Controindicazioni? Fortunatamente nessuna!
Treviso urbs picta
L'albero della vita Dicembre Gennaio
Giorgio De Conti Passeggiare tra i vicoli acciottolati o sotto i portici di Treviso, oggi, è una esperienza sorprendente ed emozionante che la bellezza del Palazzo dei Trecento, con la suggestiva chiesa di Santa Lucia e l'elegante Loggia dei Cavalieri, rafforza. Un'emozione che il serpeggiare silenzioso delle acque del Sile e dei suoi "cagnani" vivifica. Convogliate in canali (cagnani) dal Ponte de Pria le acque scompaiono dietro il cortile di una antica villa, riappaiono da una bocca nella parete di una casa per essere poi accolte dalle placide acque del Sile: "dove Sil e cagnan s'accompagna" recita Dante. Ma c'è un inedito itinerario per visitare Treviso, è tratteggiato dalle facciate e dai portici affrescati della città. Passeggiando per il corso centrale, il Calmaggiore, si possono ammirare bellissimi volti di Madonne, alcune recentemente restaurate, accompagnate dai santi più popolari, san Sebastiano, san Rocco e san Girolamo in una sorta di percorso religioso che accoglieva i pellegrini. Sotto il nobile Palazzo dei Trecento ci appaiono affreschi particolarissimi con disegni a "tappezzeria". Nei portici di via Manzoni si scorgono dame del Duecento, ritratte mentre amoreggiano o passeggiano a cavallo esibendo al braccio un rapace considerato all'epoca un gioiello vivente. Poco più avanti in via Sant'Agostino un paesaggio si apre sulla facciata di una casa e fa da sfondo alla scena famosa del giudizio di Paride, quando il bellissimo troiano consegna il pomo della discordia ad Afrodite, immagine che più di tutte esplicita il tema della bellezza femminile. E che dire dell'incantevole affresco rinascimentale, attribuito a Pomponio Amalteo, che ritrae Enea in fuga con il padre Anchise sulle spalle e il piccolo Ascanio per mano in via Stangade. In quasi tutte le vie di Treviso, guidati e, per così dire, sorvegliati dal Sole di san Bernardino, un "logo" ante litteram del Santo molto amato e venerato dai trevigiani, se alziamo lo sguardo, ci appaiono, in particolare protette dai cornicioni dei tetti, raffigurazioni e scene mitologiche e di carattere religioso. Ma non vogliamo svelare oltre perché la città di Treviso merita un'attenta visita con un occhio rivolto in basso per perdersi nei mille rivoli delle sue acque e con un occhio rivolto in alto per scoprire immagini affascinanti.
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Venezia: la mostra di Antonella Mason “Un’opera straordinaria, un polittico delle icone del giorno…”: così il prof. Ernesto L. Francalanci, docente universitario di Estetica e Storia dell’Arte Moderna e Contemporanea, ha definito l’installazione di Antonella Mason durante la presentazione della sua recente mostra intitolata “Diario della Terza Dimensione. Relazione tra Conscio e Inconscio 364 giorni + 1.” Un pubblico numeroso ascoltava le sue parole mentra ammirava il grande pannello dell’artista moglianese esposto in una sala al piano terra del Palazzo RotaIvancich, lo scorso 4 ottobre, nella città lagunare. Un pannello di notevoli dimensioni (cm 189,9 per cm 576,8) formato da 364 piccoli dipinti, più uno, (il 365°, che indica il giorno della nascita di Antonella), composto da 24 minidipinti. Essi sono il frutto del lavoro di un intero anno, il 2017, e rappresentano “la sua esistenzialità tra conscio e inconscio”, passo fondamentale del suo percorso di ricerca personale e artistica. Ogni dipinto esprime, simbolicamente, il vissuto di un giorno nelle variegate forme di un’anima in continua evoluzione. Nello straordinario dinamismo di segni e forme dominati dai blu e dai rossi che simbolizzano, rispettivamente, il conscio e l’inconscio, i colori sembrano respingersi, sfiorarsi, fondersi, esprimendo il ritratto interiore dell’artista. “Non c’è sfondo né profondità, ma il puro oro… e sull’oro c’è l’indicibile…” afferma lo storico dell’arte riferendosi alle tonalità luminose, dorate, che avvolgono ciascun dipinto. Certo non fanno pensare all’oro bizantino, simbolo di sacralità, ma alla luce dell’intelligenza creativa, a una luce interiore che ha proiettato Antonella Mason verso la “Terza Dimensione”, un territorio dominato dall’introspezione dove, come lei dice, “il cuore e la mente sono in sintonia e non necessitano di consultarsi l’un l’altra”. L’esposizione continua con due opere tra le più intense dell’artista: “Incertezza” e “Origine”, collocate nel vestibolo della porta d’acqua dalla bellissima cancellata di ferro: un magico cambio di scena con l’installazione di un gioco di luci fluttuanti, quasi oniriche, dalle tonalità verdi e azzurre che mutano fino al rosso e all’arancio. Indubbiamente una mostra coinvolgente, frutto di una ricerca interiore lunga e sofferta (come spiegare altrimenti quei graffi, quei precipizi, quelle solitudini del colore che rivelano molti suoi dipinti?), cui ci si accosta con ammirazione e stupore.
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Cecilia Barbato
Il piacere della lettura Alice Cappagli NIENTE CAFFÈ PER SPINOZA Einaudi 2019 Maria Vittoria ha un matrimonio al capolinea ed è senza lavoro, così, quando le si presenta l'occasione di fare da badantelettrice ad un professore cieco, accetta di buon grado. Entra nella sua casa di luce e di vento, una casa dove arrivano parenti, amici, vicini di casa, ex colleghi ed ex alunni. Fra i due si instaura un rapporto fatto di stima reciproca complicità e tanto affetto. È un romanzo tenero, commovente, arguto che mi ha fatto sorridere e anche piangere. Brava, brava, brava Alice Cappagli, finalista del premio Berto e mi chiedo: "Perché non hai vinto tu?"
L'albero della vita Dicembre Gennaio
Donatella Grespi
Goliarda Sapienza L’ARTE DELLA GIOIA Einaudi, Torino 2008 L’autrice, scrittrice e attrice di teatro e di cinema, è nata a Catania nel 1924 ed è scomparsa nel 1996, questo suo ultimo romanzo è stato quindi pubblicato postumo. In questa opera Goliarda Sapienza dipinge un affresco dell’Italia, e della Sicilia in particolare, dai primi del 1900 all’avvento del fascismo fino a giungere alla seconda guerra mondiale. La storia è imperniata sulla vita di Modesta, nata in una famiglia povera ed in una terra ancor più povera, la quale, mandata in convento ancora bambina e successivamente accolta in una famiglia di nobili, grazie alla sua intelligenza, al suo talento ed alle sue potenti capacità strategiche, riscatta la propria condizione ed assurge al rango di aristocratica, amata e rispettata da tutti. In questo romanzo viene descritta una figura di donna rivoluzionaria per l’epoca: madre affettuosa ma anche donna sensuale e immorale per l’etica comune, creatura vitale e scomoda incastonata nella sua Sicilia della quale sono esaltate le bellezze, i profumi e le mille contraddizioni.
Alba Compagnone
Viola Ardone – IL TRENO DEI BAMBINI – Einaudi, Torino 2019 A parlare in prima persona è Amerigo, uno scugnizzo di sette anni che ci racconta una storia vera che comincia a Napoli all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, si sviluppa in Emilia Romagna e ritorna a Napoli. Qui finalmente il protagonista farà chiarezza sulle oscure contingenze verificatesi nell’arco di quasi cinquant’anni e farà pace con i suoi sentimenti e con le sue perplessità. “ I piedi sono tutti diversi, ognuno tiene la sua forma, bisogna saperla assecondare. Sennò è una sofferenza continua.” Viola Ardone con una magnifica prosa lineare, diretta e spesso poetica, ci fa subito innamorare di Amerigo che fin dalla prima pagina, ti afferra stretta la mano e non te la lascia più.
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Il piacere della lettura Eliana Liotta PROVE DI FELICITÀ – La nave di Teseo, Milano 2019 Si dice che siamo nati per soffrire, ma gli studi provano che la storia dell’uomo avanza alla ricerca di gioia, il nostro principio vitale. Lo testimoniano l’arte, la musica, l’innamoramento. Il sorriso pieno è l’espressione meglio identificabile sul volto, forse perché chi sa riconoscerlo trova un amico, e gli amici allenano il buonumore. Un abbraccio seda lo stress, pranzare in compagnia stimola la produzione di endorfine. Con la vicinanza degli altri, a cascata, calano i rischi di depressione, di malattie del cuore, di ipertensione. Eliana Liotta suggerisce 25 idee per cercare di vivere con gioia: sono Prove di felicità, con le evidenze scientifiche rilevanti sul tema, i riscontri che provengono dai laboratori e dalle indagini sulle popolazioni. E per la prima volta medici e ricercatori di un grande istituto scientifico e ospedale universitario, il San Raffaele di Milano, collaborano a un progetto che esplora un ingrediente non quantificabile, eppure essenziale, nella salute di una persona.
Il professor Costantini è esattamente il tipo di uomo che si ha in mente quando si pensa a un professore. Jacopo ne apprezza le lezioni di letteratura al liceo – “parlando di eroi, d’amore, di donne, di morte, si diceva tutt’altro, si diceva di noi” – ma in fondo nutre per lui quel misto di sfiducia e curiosità che molti ragazzi nutrono nei confronti degli insegnanti. Poi a Costantini muore improvvisamente la moglie, si ritira dall’insegnamento e si rifugia nella sua casa sull’isola di Sant’Erasmo. Jacopo lo dimentica presto, ma dopo alcuni anni lo ritrova, proprio mentre sta attraversando un momento delicato: ha da poco rotto con Alice e sta per finire gli studi di Economia senza sapere cosa fare dopo. Il professore lo invita ad andare a trovarlo e Sant’Erasmo lo accoglie con i suoi canali e i suoi silenzi, i carciofi e le biciclette, e una brezza calda, salata: “Venezia era distante, e anche l’Adriatico. C’erano rondini e gabbiani. C’era profumo, di salso e di alberi, di caldo. Pareva di stare lontano, ai Tropici, in qualche mondo inesistente, selvaggio”. Jacopo ha bisogno di quel rifugio, e ha bisogno di Costantini. All’ombra di un grande albero di mimosa, scrive una tesi che non era riuscito neanche a cominciare. Da lì, troverà il suo destino. L’autore racconta l’età difficile delle ultime lezioni, in cui si diventa adulti grazie anche ai maestri imprevedibili che la vita ci fa incontrare. Lorenzo Moretto UNA VOLTA LADRO, SEMPRE LADRO – Minimum Fax (Finalista Premio Berto 2019) Una storia privata che assume un valore collettivo: potrebbe essere questa la definizione del romanzo di Lorenzo Moretto. L’io narrante è un giovane milanese che vive in prima persona, e con risvolti dolorosi, l’esperienza della giustizia e del giustizialismo, in un momento delicato per la vita nazionale: la primavera in cui scoppia il caso Tangentopoli e Milano si scopre una città di corrotti e corruttori. Protagonista di questa storia è la famiglia del giovane, in particolare il padre che viene arrestato. Lorenzo Moretto, con questo libro d’esordio, tenta la strada di una narrativa dalle finalità etiche, secondo una tradizione che era stata di Manzoni e di Sciascia. Ci restituisce una pagina coraggiosa e complicata di una nazione che, sul finire del secolo scorso, ha smarrito se stessa, ha confuso la ricerca del bene con l’abuso del potere. E’ anche un romanzo di formazione in cui due generazioni a confronto, i padri e i figli, spesso vittime dell’incapacità di comprendersi.
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Giovanni Montanaro LE ULTIME LEZIONI – Feltrinelli, Milano 2019
Ifigenìa
L'albero della vita Dicembre Gennaio
Maria Caterina Ragusa Per la sua ultima opera, rappresentata nel 403 a. C. dopo la sua morte, Euripide sceglie come protagonista un personaggio tra i meno noti della mitologia classica: Ifigenìa, la giovanissima figlia di Agamennone, re di Micene. La storia inizia quando i Greci, guidati da Agamennone e Menelao, pronti a partire per partecipare alla guerra di Troia, si trovano nel porto di Aulide, in Beozia, trattenuti da una calma di mare voluta dalla dea Artemide, adirata con i Greci perché Agamennone ha ucciso una cerva a lei cara. Interpretando la volontà della dea, l'indovino Calcante convince Agamennone della necessità di offrire Ifigenìa in sacrificio ad Artemide. Il re, turbato dalle parole del sacerdote, ma insieme convinto della necessità di rispettare la volontà della dea, invia un messaggio alla moglie chiedendole di far venire al campo la figlia con un pretesto: sarà data in moglie ad Achille. Ma subito si pente e fa pervenire alla moglie un altro messaggio con un contrordine. La lettera viene però intercettata da Menelao, il più interessato alla spedizione contro Troia: egli affronta il fratello accusandolo di tradimento e di viltà, ma poi, vedendolo piangere e disperarsi, riconosce l'ingiustizia che stava per essere compiuta, si impietosisce per la sorte di Ifigenìa e si dichiara pronto a rinunciare alla partenza (“Per prendermi Elena devo forse rovinare te, mio fratello? ...E poi mi ha preso una grande pietà di quella povera ragazza che per le mie nozze dovrebbe andare al macello”). Agamennone, pur apprezzando le parole del fratello, sostiene che tornare indietro nella decisione scatenerebbe la violenza degli uomini dell'esercito: dunque è necessario compiere il sacrificio. Giunge al campo Ifigenìa: i preparativi per il sacrificio, la gestualità dell'accompagnamento agli altari vengono interpretati dall'ingenua fanciulla come elementi tipici del rito matrimoniale: il corteo nuziale, i canti intonati dal coro la portano ad illudersi e a gioire. Ma presto si accorge dell'errore in cui è caduta e capisce ciò che l'aspetta quando sul capo le viene posta la benda sacrificale, quando vede che il padre se ne sta triste presso l'altare, quando i sacerdoti tentano di nascondere il coltello con cui la colpiranno a morte, quando si rende conto che i presenti non riescono a nascondere le lacrime. Capisce e si mostra terrorizzata: si getta a terra tentando disperatamente di intenerire l'animo di tutti e di allontanare da sé il destino che incombe; abbracciandogli le ginocchia chiede al padre di non farla morire prima del tempo, gli ricorda che lei è la sua primogenita (“Fui la prima a dirti 'padre', la prima che tu chiamasti 'figlia' … E quando tu sarai vecchio ti farò in casa un'accoglienza amorosa, per ricambiare tutte le tue fatiche spese per farmi crescere”). Ma terribili sono le parole di Agamennone che, pur dichiarandosi consapevole del dramma che sta per compiersi, dice che DEVE farlo perché la Grecia sia libera e non subisca la violenza dei barbari (“Vedete quante truppe armate, quanti capi dei Greci che a Troia non arriveranno mai se non ti uccido, figlia, come vuole Calcante... L'esercito greco vuole salpare senza indugio verso il paese dei barbari … E' la Grecia cui debbo, volente o nolente, sacrificarti.”). Queste parole provocano il colpo di scena. Ifigenìa compie un atto di puro e sublime eroismo: da creatura debole e timorosa, posta di fronte alla ineluttabilità e alla convenienza morale della morte, si trasforma improvvisamente ed acquista in pochi istanti quella fermezza e consapevolezza che sembrava estranea alla sua età e al suo carattere. Ella è ormai fermamente convinta di morire, motivata dalla ricerca della gloria che raggiungerà con il proprio sacrificio: rifiuterà quell'eccessivo
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attaccamento alla vita, considerando che sono pochi coloro che vogliono salvarla rispetto agli innumerevoli Greci che sono trasportati dalla passione per la guerra, anche se ciò comporta la morte di una fanciulla innocente. E infine sa che un mortale non può e non deve opporsi alla volontà divina. Ifigenia esce di scena evocando l'immagine lieta delle corone, delle acque purificatrici e dei cori per Artemide che accompagneranno il suo sacrificio e facendo capire che si avvierà fiduciosa verso un destino diverso da quello che prospettava per sé. Vince dunque la ragion di Stato, cioè “l'insieme delle priorità riguardanti la sopravvivenza dello Stato che possono indurre chi gestisce il potere a giustificare un'azione illecita in nome del diritto”. Si comprendono così le parole di Ifigenia rivolte alla madre: “E' naturale che i Greci comandino sui barbari e non che i barbari comandino sui Greci: quelli infatti sono schiavi, i Greci invece sono liberi”: se la sua morte garantirà la supremazia greca, tutto si compia come vuole la divinità. L'ultima parte della tragedia, che riporta le parole di un messo che riferisce a Clitemuestra come si sia svolto il sacrificio, secondo la tradizione non è opera di Euripide, morto nel 406 a. C., ma del figlio che completò il testo per la rappresentazione: nel finale autentico, appare Artemide a consolare la donna e a rivelare che Ifigenìa è stata salvata dalla stessa dea che all'ultimo momento ha sostituito alla fanciulla una cerva. Il dramma di Ifigenìa viene ripreso nella letteratura latina da Lucrezio, vissuto nel I secolo a. C. e autore del “De rerum natura” (= “La natura”), in cui, riprendendo i grandi modelli tragici greci, dà del mito una diversa interpretazione. Il suo intento è quello di attaccare la “religio”, la superstizione popolare. Bisogna precisare che ai tempi di Lucrezio con il termine latino “religio” si intendevano sia il sentimento religioso sia l'insieme dei culti tradizionali più antichi, sia ancora tutti i riti popolari che ricorrevano alla magia e alla superstizione. Lucrezio attacca la superstizione popolare, su cui si fondava la religione di Stato che incombeva sui mortali (basti pensare a Giove e ai suoi fulmini). Per sostenere le proprie ragioni egli ricorda l'esempio a suo parere più significativo, quello di Ifigenìa. Il suo racconto ricco di pathos vede una sua partecipazione emotiva che non traspariva nel testo euripideo. Lucrezio affianca al sentimento di pietà per la fanciulla il profondo sdegno per la superstizione che acceca Agamennone e gli fa compiere l'orrendo delitto, sdegno che si riassume nella frase conclusiva “Tantum religio potuit suadere malorum” (“A così grandi mali potè indurre la religione”). La storia antica è costellata di sacrifici praticati per placare l'ira degli dei: uno dei più noti olocausti riguarda fanciulli e fanciulle ateniesi offerti in pasto, ogni anno, nell'isola di Creta, al Minotauro, mostro per metà uomo e per metà toro, quale tributo di guerra imposto al popolo dal re Minosse. La tradizione greca ricorda un altro sacrificio mitico, per fortuna evitato: Esione, figlia del fondatore di Troia, Laomedonte, che stava per essere data in pasto ad un mostro marino inviato da Poseidone, adirato con il re per una sua grave colpa: legata ad uno scoglio in attesa che si compia il suo destino, Esione viene salvata fortunosamente dagli Argonauti che passavano di lì per compiere la loro impresa e che si precipitano in suo soccorso. L'elenco di casi simili potrebbe allungarsi, ma tutti servirebbero a confermare come in nome della ragion di Stato si siano compiuti gravi delitti: basti ricordare come gli Ateniesi, nel pieno del loro potere, procedessero alla sottomissione degli abitanti dell'isola di Melo, solo per la volontà di chi esercita il potere di affermare la superiorità del suo popolo. E ancora oggi, tanti atti politici nel mondo possono essere letti nella stessa ottica, anche se nessuno apertamente dichiari le vere motivazioni che ne sono alla base: non si ricorre più alla volontà degli dei, ma tante altre ragioni vengono messe in campo, poco giustificabili se solo le analizzassimo obiettivamente.
San Servolo
L'albero della vita Dicembre Gennaio
Vittorio Pellizzari Sono nato a Venezia a Sant’Elena, l’ultima isola prima del Lido. Un’infanzia felice con la mia allegra mamma grassa e una marea di bambini che sciamavano in campo Vittorio Emanuele, in via Montegrappa, in Riviera. Case nuove, coppie giovani, verdi terreni liberi, poi occupati dai cantieri Celli, Acnil e dal collegio Morosini, oltre che dal campo sportivo Pier Luigi Penzo che però ricordo già costruito. In quest’isola felice giravano le solite leggende nere: gli zingari che rubavano i bambini (gli zingari rubavano, un po’ di tutto, ma non bambini), i lupi mannari (impossibile incontrarli, la sera non mi lasciavano uscire) e il neurologomattologo, che faceva sparire i bambini difficili (e chi non lo era?) nella bellissima isola bianca, che splendeva nella laguna , azzurra con il sole, verde con la bora. L’isola sorgeva proprio di fronte alla Riviera, teatro di molti giochi, per la vasta estensione alberata e la strada asfaltata, che permetteva l’uso di pattini e biciclette (oggetti che molti, ma non io, amavano). Ma cosa avveniva lì dentro? Non si sapeva se qualcuno era andato e non era tornato; si parlava di docce fredde, camicie di forza, letti di contenzione (qualcosa di orribile che non riuscivamo a capire) e del gioiello della psichiatria fascista imperiale: l’elettroshock. Come si fosse potuto pensare di dare scariche di qualche decina di volt a un cervello è comprensibile solo nel clima di violenza fisica e ideologica di quei tempi. Se pensiamo all’inesperienza dei primi operatori con fratture multiple o urla belluine di terrore dei poveri malati, la fama di luogo di terrore e magia nera che circolava fra noi bambini è comprensibile. L’aiutante dell’idraulico che installò il termosifone (le case non erano predisposte per simili raffinatezze), un ex marinaio, finito a fare il fuochista all’impianto di riscaldamento di quell’ospedale, mi raccontò di aver accettato quel lavoro per smetterla con i duri viaggi che lo allontanavano dalla famiglia. Avrebbe però abbandonato anche quel lavoro perché un matto lo aveva preso di mira. Quando arrivava, scavava un piccolo buco per terra e, indicandolo: “Qua ti ga da vegnir!”, con un sorriso soddisfatto, che non prometteva nulla di buono. Ora San Servolo non è più un luogo di reclusione e tormento. Non è più un incubo per i bambini del posto (se ce ne sono, dati i tempi) ma un Resort, un luogo di delizie, forse di studio. Spero che i suoi nuovi abitanti possano avere tanta felicità quanta infelicità ebbero gli altri. Ma per me bambino e poi adolescente che parlava agli alberi, San Servolo era un luogo bello e mortale come un mamba verde.
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Sinfonia n° 4 “Italiana” di Felix MendelsshonBartholdy
Felix MendelsshonBartholdy nacque ad Amburgo da genitori agiati e di elevata estrazione sociale, ma di origine ebrea, il che, a causa dell’antisemitismo diffuso in Germania intorno agli inizi del 1800, portò tutta la famiglia ad una triste condizione di emarginazione sociale. Nonostante gli fosse vietato frequentare le scuole pubbliche a causa della sua fede religiosa, Mendelssohn ricevette un’eccellente educazione umanistica e musicale, e fu così precoce che già all’età di dodici anni iniziò la sua carriera di compositore, raggiungendo in breve tempo rinomanza mondiale. Riuscì anche a realizzare pienamente quella che era la sua più grande ambizione: richiamare l'attenzione dell'ambiente musicale sulle opere, da troppo tempo cadute nell'oblio, di Johann Sebastian Bach, che da allora godette della meritata fama che compete ad uno dei più grandi compositori di musica classica. Mendelsshon appartiene musicalmente al periodo del Romanticismo, e la sua musica rispecchia ed esprime a meraviglia il carattere affabile e la sensibilità raffinata del suo Autore. Il «Romanticismo felice», come fu definito quello di Mendelssohn, trova una delle sue più perfette espressioni nella Sinfonia n. 4 in la maggiore op. 90, detta “Italiana” perché abbozzata durante il soggiorno dell'autore nel nostro Paese: una sinfonia dal carattere vagamente popolaresco, contraddistinta da ritmi di sapore chiaramente mediterraneo. Ascoltando questa sinfonia possiamo affermare che essa, soprattutto nel primo e nell’ultimo movimento, ci appare irradiata di luce solare e animata da una esuberante gioia di vivere: «La musica più gaia che io abbia composto», ebbe a dire, del resto, lui stesso. Quella gioia che esplode sin nella “partenza” festosissima e luminosa del 1° movimento, Allegro vivace. Il tempo più caratteristico ed emblematico di tutta la sinfonia, tale da riassumere e giustificare il significato del titolo, è il Saltarello finale, una tarantella autentico banco di prova per il virtuosismo di orchestre e direttori che riproduce e rievoca liberamente le atmosfere e le cadenze della popolare danza romana. Il tema è vivacissimo e brillante e scorre su un ritmo a note ripetute in un clima di briosa, spigliata e incandescente animazione. La sinfonia fu eseguita nel maggio del 1833 dalla London Symphony Orchestra diretta dallo stesso autore, ricevendo da subito una calorosa accoglienza, e da allora è nel repertorio delle migliori orchestre in tutto il mondo. Vi consiglio di ascoltare questa Sinfonia nell’interpretazione proprio della London Symphony Orchestra diretta magistralmente dal Maestro Claudio Abbado (CD Deutsche Grammophon); altrettanto eccezionale, e incisione di riferimento, l’interpretazione dell’indimenticabile direttore austriaco Herbert von Karajan con i Berliner Philharmoniker (sempre per la D.G.).
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Edo Guarneri
Ernesto Scoffone, un moglianese da non dimenticare
L'albero della vita Dicembre Gennaio
Alessandro Giordano La storia inizia in un caldo mattino del 25 luglio u.s. e termina in un fresco pomeriggio di fine agosto. appena trascorso. Racconterò di un Quadrato Bianco, di un Luogo (la Biblioteca) e di un Uomo (Ernesto Scoffone). Quadrato Bianco: è collocato alla destra dell’ingresso dell’immobile di via De Gasperi n° 8 con la scritta Biblioteca Comunale. I caratteri sono ben visibili anche da chi percorre la strada. Fino a qualche mese fa il Quadrato era posizionato all’interno del locale Biblioteca, visibile solo ai frequentatori entranti al piano terra della struttura. Il luogo: la Biblioteca, luogo già ben nascosto ai più e soprattutto anonimo, o meglio conosciuto (erroneamente come è emerso dalla ricerca) con il nome Biblioteca Piranesi; il bassorilievo sulla destra della parete esterna, raffigurante il profilo di un uomo con “Piranesi” come epigrafe, può aver contribuito all’errore. L’Uomo La scoperta: Correva l’anno 1981. Il 28 novembre Luigi Scandolin, in un articolo sulla pagina Treviso comprensorio Oderzo Città di Mogliano Veneto dal titolo “Si inaugura oggi a Mogliano la Biblioteca nuova intitolata al chimico Ernesto Scoffone: un archivio in ogni paese” scriveva: […] si inaugura oggi alle 16.00 la nuova biblioteca comunale di Mogliano Veneto intitolata ad Ernesto Scoffone, chimico moglianese di fama internazionale, al quale la cittadinanza ha voluto rendere omaggio ad otto anni dalla scomparsa. L’inaugurazione è stata fatta opportunamente coincidere con l’apertura della prima mostra sull’archivio municipale di Mogliano, allestita negli stessi locali della biblioteca: nata dalla necessità di salvaguardare il patrimonio archivistico moglianese (a disposizione di storici e ricercatori) è una rassegna, minuziosamente curata, di editti, lettere, ordinanze, atti e mappe che spaziano dal 1806 al 1848 […]”. L’articolista cita i nomi dei due artefici della mostra: Renzo de Zottis ed il maestro Otello Bison, e conclude con l’annunzio che “la mostra troverà una sua degna conclusione venerdì 4 dicembre alle ore 21 presso il centro sociale dove si terrà una tavola rotonda sul periodo storico in questione” Quel 28 novembre 1981, di Ernesto Scoffone vennero magistralmente raccontate, dal professore Mario Mammì, la vita, le opere e la storia. Mi piace pensare che fu una serata speciale per chi, avendolo conosciuto, partecipò all’evento: familiari, parenti, allievi, colleghi, amici. Ho avuto la fortuna di leggere in Biblioteca il testo della commemorazione tenuta il 30 giugno 1975. Quattro paginette da leggere in un fiato: per me (moderatamente similgiovane 74enne) è stato un nuovo insegnamento, una lezione magistrale che lascia il segno. Eccone l’incipit: “Quando uno studioso eccezionale è colpito dal male in ancor giovane età il dolerci della sua morte acquista un significato particolare. Egli fu un leader nel suo campo e portò grande onore a Padova”. Con queste parole Stanford Moore, premio Nobel per la chimica nel 1972, scrisse il suo dolore per la scomparsa di Ernesto Scoffone: “Ci ha lasciati il 29 dicembre 1973, diciotto mesi or sono pare quasi ieri vinto da un male crudele e inesorabile al quale aveva lungamente resistito. […] La sua vita è stata stroncata a soli 50 anni […]”. Del Professor Ernesto Scoffone, si era persa la memoria. Ora spero la si possa recuperare: la Città e la nostra gente lo meritano ed il Professore voglio pensare sorriderà sornione e ne sarà lieto.
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La Televisione degli anni ’60: Il tenente Ezzy Sheridan Siamo all’inizio degli anni ’60. L’Italia, ancora ricca di analfabeti, trovò nella televisione, attraverso i primi sceneggiati cioè gli adattamenti per la tv di opere letterarie di grandi autori, resi ancor più preziosi dalla partecipazione dei migliori attori italiani di prosa quella prima culturizzazione di massa che tanto merito ebbe nell’evoluzione della società del nostro Paese. Anche il romanzo poliziesco (o giallo) ebbe un grande seguito in televisione, favorito dal coinvolgimento emotivo che questo tipo di storie ha sempre suscitato nello spettatore. La prima serie poliziesca televisiva fu Giallo Club, in cui ogni puntata iniziava con una storia delittuosa che però s'interrompeva prima dell'epilogo; ad alcuni ospiti in studio veniva quindi chiesto di risolvere il mistero, tenendo conto che la storia appena narrata conteneva tutti gli elementi necessari per scoprire l'assassino. La storia quindi riprendeva con la soluzione del mistero. Il personaggio chiave di questa serie era il tenente Ezechiele «Ezzy» Sheridan della Squadra Omicidi di San Francisco, interpretato dall’attore Ubaldo Lay. Impermeabile chiaro color ghiaccio alla Humphrey Bogart, fondina con pistola ben visibile, tono duro e sbrigativo, molto “americano” nei gesti e nei colloqui, sguardo penetrante, immancabile sigaretta, la figura del tenente Sheridan divenne immediatamente popolarissima, a tal punto che sparì il confine tra finzione e realtà, e l’(allora) ingenuo spettatore si convinse che il tenente Sheridan fosse un vero poliziotto. Si creò addirittura una completa identificazione fra personaggio e attore, tanto che Ubaldo Lay rimase imprigionato nel proprio ruolo, e quando fece (pochi) altri lavori la reazione dello spettatore fu di sconcerto, non comprendendo come "il tenente Sheridan" potesse avere a che fare con situazioni ottocentesche o che comunque non c'entravano con delitti e misteri. Ubaldo Lay seguì quindi lo stesso destino di Raymond Burr (Perry Mason), Angela Lansbury (Jessica Fletcher) e altri ancora. Le trame delle vicende erano ben congegnate e facevano passare in secondo piano l'ambientazione abbastanza improbabile, il ritmo poco incalzante, i colpi d'arma da fuoco troppo simili a quelli delle pistole giocattolo e l'evidente sobrietà in scenografie ed effetti, anche se il bianco e nero era consono al clima delle storie: un serio brivido era però provocato dal suono gelido della sigla prodotto da una tromba jazz, alla Miles Davis. La serie televisiva terminò nel 1972. Nell’ultimo episodio della Donna di picche, Sheridan, durante un inseguimento, viene colpito al cuore da una pallottola, ed il suo corpo esanime portato via in ambulanza. Ferita mortale? Non si saprà mai, con grande scoramento di tutti i telespettatori che consideravano immortale il loro mito poliziesco.
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Giuseppe Ragusa
Tre piccole Italie a New York
L'albero della vita Dicembre Gennaio
Mauro Cicero "New York, New York..." cantava anni fa Liza Minnelli. Chi non ha mai desiderato visitare almeno una volta la grande metropoli americana capitale della finanza mondiale? Broadway, con tutte le sue perenni luci multicolori che inneggiano al teatro musicale come, per esempio, King Lion; le grandi immagini pubblicitarie con personaggi celebri del cinema, dello spettacolo e della musica. Camminare per le strade affollate è inebriante quanto gli acquazzoni estivi serali. Negozi ovunque, profumi di anglosassone frittura di pollo e patatine si mescolano con quelli piccanti del cibo messicano, e le sirene della polizia e dei vigili del fuoco squarciano continuamente l'aria dando la sensazione di vivere in un permanente film poliziesco girato a Hollywood. Nella Grande Mela esistono teoricamente tre Little Italy, tre Piccole Italie. Nella Quinta Avenue, vicino al Flatiron Building che per la sua forma architettonica è chiamato "ferro da stiro ", troviamo Eatitaly, un ristorante che serve solo specialità italiane con prodotti importati dall 'Italia. La storica Little Italy di Manhattan, famosa per essere il quartiere delle migrazioni di italiani alla fine del XIX secolo sta perdendo la sua peculiarità a vantaggio dell'espansione della comunità cinese. Se si vuole scoprire la storia e la tradizione degli italiani d'America occorre trasferirsi nel Bronx, Arthur Avenue: laggiù è come immergersi all'improvviso in un remoto paese del sud d' Italia. Si possono acquistare l'ottimo pane casereccio, croccante come quello pugliese, le grosse olive verdi annegate in botti di salamoia e i salumi di Calabria; al bar il caffè è buono quanto a Napoli. Insomma, un angolo d'America nel quale noi italiani possiamo sentirci a casa davvero, anche perché gli abitanti di quel quartiere parlano ancora il dialetto dei loro avi.
Quarta di copertina: Vittorino De Pieri La Redazione La quarta di copertina di questo numero è dedicata a Vittorino De Pieri (1938 2004), artista moglianese di spiccata sensibilità, dal carattere riservato e lontano dalle luci della mondanità. E’ stata una delle firme più importanti del Circolo Piranesi. Una certa amarezza ed una sensazione di insofferente solitudine percorrono gran parte delle sue tele. Il rifiuto delle contraddizioni della società moderna, la ricerca del successo, la fragilità del vivere quotidiano segnano la sua arte: ecco le dure immagini di cumuli di rifiuti, o di rottami di macchine dalle lamiere contorte da urti terribili, tutti simboli del dramma di una società che distrugge se stessa. In questi quadri i tratti del disegno sono violenti e brutali, le macchie di colore sono minacciose e talora informi. Per contro in altre tele emerge la necessità di descrivere una esistenza ricondotta a dimensioni umane: viene raffigurata la vita semplice ed apparentemente ingenua degli zingari, o dei circensi accampati nelle periferie, o degli anziani o dei matti... simboli lontani e silenziosi di esistenze condotte quasi sempre in silenzio o ai margini, ma sempre e comunque non prive del senso della vita. Qui le pennellate si distendono, il colore si fa più morbido, anche se comunque sono spesso presenti una velata malinconia e una mesta tristezza.
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Storia delle tradizioni natalizie Nel corso dei secoli la festa del Natale ha assunto, accanto al suo aspetto religioso, anche aspetti pagani. Così sono comparse la figura di Babbo Natale, quella dell'albero e del presepe. Babbo Natale è l'omone simpatico che porta i doni ai bambini. Tradizionalmente, questo protagonista natalizio, un po' grasso, gioviale e con una lunga barba bianca, arriva durante la notte di Natale su una slitta trainata dalle renne, scende per il camino, lascia i doni ai bambini, e mangia il cibo che gli hanno lasciato. Il resto dell'anno lo passa fabbricando giocattoli e ricevendo lettere sul comportamento dei bambini. Questa figura trae origine da San Nicola di Myra (più noto in Italia come San Nicola di Bari, perché in questa città, intorno all’anno 1000, furono traslate le sue reliquie), vescovo vissuto nel IV secolo, noto per le sue grandi elargizioni a favore dei poveri e, soprattutto, per aver fornito la dote alle tre figlie di un cristiano povero ma devoto, evitando così che fossero obbligate alla prostituzione. La dimora tradizionale di Babbo Natale cambia a seconda delle tradizioni: negli Stati Uniti si sostiene che abiti al Polo Nord, in Alaska; in Europa è invece più diffusa la versione finlandese, che lo vuole residente nel villaggio di Rovaniemi, in Lapponia. Altre tradizioni parlano del paesino di Dalecarlia, in Svezia, oppure di Nuuk, in Groenlandia. L’origine dell'albero di Natale è, invece, incerta. L'immagine dell'albero come simbolo del rinnovarsi della vita è un popolare tema pagano, presente sia nel mondo antico che medioevale. La derivazione dell'uso moderno della tradizione dell'albero di Natale, tuttavia, non è stata provata con chiarezza. Esiste, però, una leggenda che risale a molti secoli prima. Una storia, infatti, lega l'albero di Natale a San Bonifacio, il santo nato in Inghilterra intorno al 680 e che evangelizzò le popolazioni germaniche. Si narra che Bonifacio affrontò i pagani riuniti presso la "Sacra Quercia del Tuono di Geismar" per adorare il dio Thor. Il Santo, con un gruppo di discepoli, arrivò nella radura dov'era la "Sacra Quercia" e, mentre si stava per compiere un rito sacrificale umano, gridò:«Questa è la vostra Quercia del Tuono e questa è la croce di Cristo che spezzerà il martello del falso dio Thor». Presa una scure cominciò a colpire l'albero sacro. Un forte vento si levò all'improvviso, l'albero cadde e si spezzò in quattro parti. Dietro l'imponente quercia stava un giovane abete verde. San Bonifacio si rivolse nuovamente ai pagani: «Questo piccolo albero, un giovane figlio della foresta, sarà il vostro sacro albero questa notte. È il legno della pace, poiché le vostre case sono costruite di abete. È il segno di una vita senza fine, poiché le sue foglie sono sempre verdi. Osservate come punta diritto verso il cielo. Che questo sia chiamato l'albero di Cristo bambino; riunitevi intorno ad esso, non nella selva, ma nelle vostre case; là non si compiranno riti di sangue, ma doni d'amore e riti di bontà.» Bonifacio riuscì a convertire i pagani e il capo del villaggio https://pixabay.com mise un abete nella sua casa, ponendo sopra ai rami delle candele.
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Il Natale di quando ero bambina
L'albero della vita Dicembre Gennaio
Donatella Grespi Ogni anno nel salottino che poi, in seguito, sarebbe diventato la mia cameretta, veniva allestito l'albero di Natale, addobbato con palle colorate e candele di cera. Era un abete vero e mi sembra di sentirne ancora l'odore pungente. La sera della Vigilia radunavamo i parenti attorno al grande tavolo di marmo della cucina per la cena tutta a base di pesce che mamma era andata a comperare la mattina presto, al mercato di Rialto. Mi ricordo che tornava carica di borse che svuotava con cura. La guardavo estrarre la frutta, la verdura, le vongole per il risotto, le seppioline, i branzini e le anguille, serpenti argentei e ancora guizzanti. Li stavo ad osservare affascinata mentre si muovevano sinuosi creando delle grandi esse sul fondo dell'acquaio. Incuriosita, tendevo la manina per toccarli, salvo poi ritirarla, impaurita e schifata, al contatto della loro pelle viscida. La giornata trascorreva velocemente fino all'arrivo degli ospiti e poi iniziava la cena. Ma non era questo il momento che io attendevo con ansia, quello veniva dopo, quando la mamma pronunciava sempre le stesse identiche parole “Chissà se Babbo Natale è arrivato?... Vado a controllare”. Spariva per un tempo che a me sembrava lunghissimo, poi, quando tornava tutta sorridente, mi prendeva per mano “Mi sa di sì. Vieni...vieni...”. Percorrevamo assieme il corridoio buio, mentre il cuore mi batteva fortissimo nel petto per l'emozione. Di lontano scorgevo un bagliore. Il salottino era illuminato soltanto dalle fiammelle tremule delle candeline che Babbo Natale aveva acceso. Sotto l'albero mi aspettavano decine di pacchetti colorati. Di solito erano giocattoli o libri. Ricordo che una volta ero rimasta molto delusa quando, assieme a tutto ciò che avevo desiderato, avevo trovato un'orribile gonna di Terital blu, a pieghe, che mai avrei voluto indossare. Avevo pensato che Babbo Natale avesse sbagliato bambina, ma non avevo manifestato a nessuno il mio disappunto. Una delusione grandissima l'avrei provata tempo dopo, quando, sfogliando una rivista della mamma, (avevo da poco imparato a leggere), un titolo aveva attirato la mia attenzione "SE I BAMBINI SCOPRONO CHE BABBO NATALE NON ESISTE". Avevo letto l'articolo avidamente, da cima a fondo, mentre un nodo mi serrava la gola, lo avevo letto e riletto...Non c'era alcun dubbio. Ero diventata grande.
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Natività, di Mario Tozzi L’opera, del 1943, è una tempera su tela di cm. 198x298 e si trova presso la Galleria d’arte moderna della Pro Civitate Christiana di Assisi. Stilisticamente l’opera appartiene al periodo del “Novecento”, una corrente pittorica sulla quale vale la pena fare una breve sintesi. Con la fine della prima guerra mondiale si tornò alla tradizione e ad un recupero del classico, ad un realismo che sembrava andare indietro nei secoli e superare così tutti quei movimenti d’avanguardia sorti dagli impressionisti in poi. Questo “ritorno all’ordine” così fu chiamato durò circa un ventennio dal 1920 al 1940. Mario Tozzi fu uno dei fautori di questa nuova ricerca. La sua opera della Natività riflette quella rigorosa ricerca di solidità plastica edonistica che si rifaceva a Giotto, a Piero della Francesca e al Rinascimento Italiano. San Giuseppe, seduto su un tronco d’albero (o una balla di fieno) è ripreso di tre quarti. E’ defilato rispetto al resto della composizione. Dalla postura e dai suoi lineamenti, che si possono appena percepire, traspare tutta la sua modestia ed interpreta con estrema coerenza il ruolo di padre putativo. La Madonna, coricata di lato su un povero giaciglio, mostra con infinita tenerezza e consapevole orgoglio il Bambino, adagiato su un bianco telo, ai tre Re Magi, i quali, spesso raffigurati con qualche caduta nel folklore, sono qui invece rappresentati inginocchiati e privi di orpelli. Dai loro volti traspare una profonda e consapevole fede: è il vero dono che portano a Gesù Bambino. Il cane dipinto in primo piano sta, forse, a suggellare la loro fedeltà. Con abile gioco prospettico la capanna è come proiettata verso chi guarda l’opera: contribuisce a ciò la travatura del soffitto e la parete di destra che raffigura una parte di volta. E’ soprattutto quest’ultimo particolare aggettante nello spazio a suggerire una dimensione che travalica lo spazio temporale. Nella parte superiore della capanna tre angeli festanti annunciano la nascita del Figlio di Dio. Questi ultimi e la stella cometa attirano l’attenzione di tre pastori e fanno capire che essi sono giunti alla meta. L’angelo di destra, rivolto verso i pastori, oltre che assumere un atteggiamento di accoglienza, indica con il braccio un albero spoglio, un tronco che sembra morto: è il legno della Croce ed il germoglio che spunta, indica la Resurrezione: con la “Natività” è rappresentato, quindi, anche il percorso terreno della vita del Bambino.
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UNITRE Mogliano Veneto
Paolo Baldan