L'Albero della vita n°2 -2022

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L'albero della vita


L'albero della vita L'albero della vita

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Anno 7 numero 2

4A Pala di Palma il Vecchio

Maggio 2022 COORDINATRICE EDITORIALE Gabriella Madeyski REDATTORE CAPO Giuseppe Ragusa REDAZIONE Albachiara Gasparella Renzo De Zottis Dino Santarossa GRAFICA e versione on line Dino Santarossa HANNO COLLABORATO: Cecilia Barbato ­ Riccardo Beggio Attilio Bonsignori ­ Davide Bortolato

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Sakura, il ciliegio giapponese

Il coraggio di una donna Immagini di due anni diversi Il nuovo Direttivo Il giorno delle memoria D’Annunzio e l’ultima poesia La mia valle Toni dei vovi Il garibaldino Il piacere della lettura Un gregge di papaveri – Cupole d’oro Penelope Maria Judina, la donna che sfidò Stalin Scene infantili, di Robert Schumann Verba volant, scripta anche Un villaggio speciale egizio ­ La 4° di copertina La cittadella Chissa chi lo sa La mostra di Goya al Brolo I papaveri, di Claude Monet

Elsa Caggiani ­ Alba Compagnone Edo Guarneri ­ Barbara Guerra Mariavittoria Maddaloni ­ Giovanna Menetti Lilli Paternò Castello ­ Maria Caterina Ragusa

L'albero della vita ­ Maggio 2022

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Distribuzione gratuita 2

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Il coraggio di una donna

Tutti noi, increduli e affranti, stiamo seguendo avvenimenti che mai avremmo pensato potessero riproporsi nel 2022. Molti esperti, attraverso i vari canali televisivi e sulla carta stampata, stanno cercando di spiegare le ragioni di ciò che accade in Ucraina e quindi io non mi permetterei mai di intervenire in questo dibattito. Da come si svolgono gli eventi in Ucraina, sembra che il Presidente della Russia non abbia messo in debito conto la resistenza Ucraina, che pare invece determinata e presente in tutto il territorio. Gli Ucraini non fuggono dal Paese, salvo donne e bambini, accolti fraternamente in Polonia e Romania, ma anche in altri Paesi europei. Ciò che dà forza agli Ucraini è l’amore di Patria che porta alla difesa del territorio, delle famiglie, delle case, dei campi, delle attività economiche, delle scuole, delle chiese, delle tradizioni. Tutto ciò è compreso nel vocabolo Patria. Etimologicamente deriva dall’aggettivo latino maschile “patrius” cioè paterno, ereditato dal padre. Portato al femminile, Patria diventa il sostantivo che muove i cuori e le menti degli Ucraini. Cicerone infatti spiegava che per i Latini, Patria è dove c’è il bene collettivo, originariamente del padre ­ il pater familias ­ che era padrone di tutto, anche delle persone che ne facevano parte. “Chi per la patria muor, vissuto è assai”, così cantavano i patrioti fratelli Bandiera Attilio ed Emilio, mentre venivano portati al plotone di esecuzione nel vallone di Rovito vicino a Cosenza dalla polizia borbonica il 25 luglio 1844. Cento anni più tardi tanti partigiani hanno eroicamente taciuto i nomi dei compagni di lotta e sono stati uccisi dalle torture dai nazifascisti dopo l’8 settembre 1943. Tanto coraggio oggi si ripropone nella popolazione ucraina. Fra i tanti eventi che i media ci ripropongono ogni giorno, uno mi ha colpito particolarmente, quello compiuto da Marina Ovsyannikova, la giornalista russa arrestata per aver mostrato un cartello contro la guerra in Ucraina durante la diretta televisiva sul canale Russia 1. Lunedì 14 marzo, infatti, durante il telegiornale della sera, la Ovsyannikova ha interrotto la trasmissione entrando in studio con un cartello che in russo e inglese recitava: “No alla guerra, stop alla guerra. Non credete alla propaganda, vi stanno mentendo”. Sul suo profilo Facebook ha poi rilasciato un video, registrato prima di fare irruzione, per spiegare meglio le ragioni del gesto. “Quello che sta succedendo in Ucraina è un crimine. La Russia è l’aggressore in questo caso. E la responsabilità dell’aggressione è riconducibile alla coscienza di un singolo uomo: Vladimir Putin”, dice la giornalista, aggiungendo di vergognarsi di aver supportato con il proprio lavoro la propaganda di stato. Marina Ovsyannikova, 43 anni, definita da tutti la donna più coraggiosa della televisione, ha dichiarato di non sentirsi assolutamente un’eroina e che l'ha fatto per "aprire gli occhi alla gente", inclusa sua madre che secondo lei è stata "zombificata" dalla propaganda di stato. Marina, madre di due figli, ha rivelato che non era sicura di riuscire a portare a termine la protesta perché a Channel One, il principale programma di notizie del Paese, ci sono diversi livelli di sicurezza e non è così facile entrare in studio, c'è perfino un membro delle forze dell'ordine seduto proprio di fronte all’ingresso che si assicura che questo tipo di incidenti non possano accadere. Ha aggiunto che la protesta aveva due obiettivi: mostrare al mondo intero che i Russi sono contrari alla guerra e suggerire al popolo russo di non ascoltare la propaganda ma di imparare ad analizzare le informazioni cercando altre fonti, non solo la televisione di Stato russa. L'eccezionale atto di sfida è diventato rapidamente virale, ottenendo elogi dai leader mondiali ma anche da parte di tanti semplici cittadini che hanno visto in lei una donna coraggiosa che ha anteposto la sua coscienza all’interesse personale; proprio per questo motivo sono state avanzate richieste per la sua nomina al Premio Nobel per la pace.

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Editoriale

di Gabriella Madeyski


Immagini di due anni diversi

L'albero della vita ­ Maggio 2022

di Elsa Caggiani Noi tutti avevamo creduto­sperato che il flagello dell’epidemia si esaurisse nell’arco di un semestre, poi di un anno, poi di due inverni, ed invece ci rendiamo conto che il Covid persiste e ci accompagna nella nostra quotidianità. La paura è minore, ma non è scomparsa. Dal febbraio 2020 fino allo scorso ottobre 2021 abbiamo dovuto annullare tutte le nostre attività in presenza; solo una decina di docenti, a cui va la nostra gratitudine e ammirazione, sono riusciti ad organizzare dei corsi on line. Da marzo 2021 abbiamo cercato di riprendere la nostra vita associativa trasmettendo sul nostro canale Youtube alcune conferenze, ma è mancata (e ci siamo accorti che è essenziale!) la bella abitudine di incontrarci in Unitre. Per mostrare la nostra volontà di esistere e resistere, vi abbiamo chiesto di iscrivervi. Abbiamo avuto ben 350 adesioni. Grazie! Ad ottobre 2021, con molta prudenza e molta attenzione, abbiamo ricominciato l’attività in presenza: l’assemblea (che l’anno prima non si era svolta), la festa dell’inaugurazione con un bell’omaggio al mondo e alla musica di Piazzolla, i corsi liberi, e poi a novembre quelli a numero chiuso. Per venire incontro a chi per vari motivi non poteva o voleva frequentare, abbiamo anche trasmesso su Youtube le nostre conferenze (ma dobbiamo migliorarne la qualità!). Come Unitre, abbiamo collaborato con le mostre di incisioni di Dorè e di Goya che Angelo Zennaro ha organizzato al Brolo e abbiamo donato i cataloghi ai nostri docenti e a tutti gli iscritti. Ora siamo arrivati a 486, lontani dai 751 iscritti del 2020­2021, ma molti se ci confrontiamo con altre associazioni (io avevo previsto 500…). C’è stato uno stillicidio in inverno: un susseguirsi di malattia, contagio, isolamento, auto sorveglianza. Paura e desiderio di socialità si sono alternati; eppure abbiamo continuato l’attività, anche se a dicembre non è stato festeggiato come di consueto il Natale, e gli incontri sono ripresi solo verso la fine di gennaio.

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A marzo abbiamo ripreso anche le visite culturali, alla mostra di Doré, ai colli Euganei, ai Castelli Modenesi, visite che hanno avuto successo. I viaggi invece creano ancora timore e non raccolgono sufficienti adesioni. In questo precario equilibrio abbiamo ritenuto opportuno rimandare da novembre a marzo le elezioni triennali per il rinnovo del Consiglio Direttivo, che perciò si sono svolte il 29 marzo. Non è stato un passaggio facile o di routine, perché da tempo molti di noi consiglieri avevano espresso la volontà di ritirarsi. Abbiamo riflettuto insieme: un rinnovamento pressoché totale sarebbe stato traumatico in questo periodo. Perciò alcuni siamo rimasti, mentre altri non si sono più candidati: tra loro due figure storiche, la Direttrice dei Corsi Milena Quadro e il Tesoriere Riccardo Beggio. Milena, associata fondatrice, con grande passione e dedizione quotidiana per 34 anni è stata l’anima della Didattica Unitre, il punto di riferimento di tutti i docenti. Riccardo per 21 anni ha guidato con mano sapiente e grande discrezione la nostra amministrazione, trovando il giusto equilibrio tra entrate e uscite. La sua attività è stata sempre approvata e lodata dai nostri Revisori dei Conti. A loro e agli altri consiglieri uscenti va tutta la nostra gratitudine. Abbiamo però la gioia di accogliere nel Direttivo delle forze nuove, più giovani, ricche di esperienze nel mondo della cultura, del lavoro, del sociale, che apporteranno freschezza ed energia nella vita dell’Unitre. Il prof. Giorgio De Conti sarà il nuovo Direttore dei Corsi e Gabriella Barbisan la nuova Tesoriera. Scrivo, a nome di tutto il Consiglio Direttivo, queste righe all’inizio di aprile. Siamo quasi in porto: rimane solo un mese alla fine dell’anno accademico, che si concluderà con lo spettacolo del nostro gruppo teatrale il 6 maggio. Ma ci stiamo già preparando per salpare le ancore: il primo incontro a ottobre sarà la Festa in onore degli iscritti da 30, 25, 20 e 10 anni! Con affetto.


Il nuovo Direttivo L’Assemblea degli Associati dell’Unitre ha eletto il 29 marzo 2022 gli undici componenti del Consiglio Direttivo. Nella riunione del 5 aprile i consiglieri eletti nel Direttivo hanno attribuito le seguenti cariche: Presidente Elsa Caggiani Vicepresidente Giuseppe Ragusa Direttore dei corsi Giorgio De Conti Segretaria Mirella Poretto Tesoriera Gabriella Barbisan Membri Diego Bottacin ­ Renzo De Zottis ­ Francesco Favero ­ Raffaella Girardi Maria Caterina Ragusa ­ Giovanni Zambon Revisori:

Dott. Enrico Dolce ­ Dott. Giantonio Ena ­ Ing. Roberto Franz

E’ nato il nuovo coro dell’Unitre

La Redazione Tra le poche novità positive che questa prima parte dell’anno ha portato dobbiamo registrare la nascita del coro dell’Unitre di Mogliano Veneto. In realtà si dovrebbe parlare di ri­nascita in quanto per diversi anni é esistita una formazione coristica Unitre che si é esibita diverse volte in occasione delle festività natalizie, in Case di riposo e presso le parrocchie del territorio. Purtroppo il maestro Serafino Falcon che ne costituiva l’anima è venuto a mancare alla fine dello scorso anno. Sembrava che tutto dovesse finire ma la voglia di cantare e stare assieme però era rimasta ed è bastato far circolare la notizia che si stava per formare un nuovo coro per ottenere un successo clamoroso di partecipazione. Almeno 25 persone si sono iscritte e ora stanno da qualche mese seguendo in modo entusiasta le lezioni impartite il sabato mattina dal giovane maestro Enrico De Zottis. Attualmente responsabile HR in una azienda multinazionale, Enrico ha al suo attivo due album (2009 e 2010) scritti ed eseguiti da lui e colonne sonore per smartphone. Nel 2012 ha inoltre vinto un concorso internazionale per la creazione della prima opera realizzata completamente su piattaforma Internet con altri musicisti europei la cui prima esecuzione mondiale lo ha visto ospite d’onore all’Opera Festival di Savonlinna in Finlandia. Lo scorso anno ha inoltre composto un brano musicale che è stato inserito nella soundtrack di un film girato e prodotto a Seattle, negli USA. Insomma i nostri coristi sono in buone mani. Per partecipare al coro non serve avere una impostazione musicale o la conoscenza del pentagramma: basta aver voglia di cantare con gli altri con continuità e disciplina. Non ci resta che attendere trepidanti la prima esibizione pubblica della nuova compagine, sicuri che sarà un successo.

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Il giorno della memoria Sono passati settantasette anni dalla liberazione del campo di sterminio di Auschwitz. Il 27 gennaio 1945 infatti, la 60esima armata dell’esercito sovietico, che stava avanzando verso la Germania, aprì i cancelli del più grande e tristemente efficiente campo di sterminio nazista. E’ poco noto che in realtà le SS, già da metà gennaio, avevano capito che sarebbe stato necessario abbandonare il campo a causa dell’avvicinarsi dell’Armata Rossa. E così, intorno al 15 gennaio, le SS iniziarono ad evacuare il complesso: circa 60.000 prigionieri vennero fatti uscire dal campo e fatti marciare verso la Germania. Di questi prigionieri, si stima che tra i 9.000 e i 15.000 siano morti durante il tragitto, in gran parte uccisi dai nazisti perché non riuscivano a reggere il ritmo incessante del viaggio. Altri prigionieri, circa 9.000, erano stati lasciati nel complesso di Auschwitz perché malati o esausti: le SS intendevano eliminarli ma non ebbero il tempo per farlo prima dell’arrivo dei sovietici. Prima di abbandonare Auschwitz i nazisti si impegnarono ad eliminare quante più prove possibile dei crimini che avevano commesso. I lager, infatti, erano diventati pericolosi per la Germania, perché costituivano la prova reale del più grave crimine nella storia dell’umanità. Quando la 60esima armata dell’esercito sovietico arrivò al campo principale di Auschwitz, si trovò davanti agli occhi uno scenario desolante. Trovarono pile di cadaveri, che i Nazisti non erano riusciti a far sparire, e nei 6 magazzini su 35 non incendiati, rinvennero 44 mila paia di scarpe e migliaia di abiti. Ma soprattutto montagne di cenere che solo successivamente capiranno essere i resti di migliaia e migliaia di corpi cremati nei famigerati forni. Oggi, nonostante il tanto tempo trascorso, l’orrore indicibile che si palesò davanti agli occhi dei testimoni è tuttora presente davanti a noi, con il suo terribile impatto. Ci interroga e ci sgomenta. Perché Auschwitz non è soltanto lo sbocco

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inesorabile di un’ideologia folle e criminale ma anche di un sistema di governo ad essa ispirato. Auschwitz rimane, oltre la storia e il tempo, simbolo del male assoluto. Una società senza diversi: ecco, in sintesi estrema, il mito fondante e l’obiettivo perseguito dai nazisti. Diversi, innanzitutto, gli ebrei. Colpevoli e condannati come popolo, come gruppo, come “razza” a parte. Gli ebrei. Portatori di una cultura antichissima, base della civiltà europea, vittime da sempre di pregiudizi e di discriminazioni, agli occhi dei nazisti diventano il problema, il nemico numero uno, l’ostacolo principale da rimuovere, con la violenza, per realizzare una società perfetta, a misura della loro folle ideologia. Nell’ordine nuovo, farneticato da Hitler, non c’era posto per la diversità, la tolleranza, l’accettazione ed il dialogo. La macchina della propaganda, becera quanto efficace, si era messa in moto a tutti i livelli per fabbricare minacce improbabili e nemici inesistenti. Dove la propaganda non bastava, arrivavano il terrore e la violenza, infatti per sterminarli si fece ricorso agli strumenti tecnici più avanzati. La nostra Costituzione ha voluto consapevolmente bandire e contrastare questo abominio e lo fa ancora oggi, con il riconoscimento di eguali diritti e dignità ad ogni persona e con l’obiettivo e il metodo della cooperazione internazionale per una convivenza pacifica tra i popoli e gli Stati. Il governo italiano nel 2000 ha stabilito il 27 gennaio proprio come Giorno della Memoria. Lo stesso ha fatto a livello internazionale l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2005, stabilendo che ogni anno, il 27 gennaio, tutti gli stati membri dell’ONU hanno il dovere di insegnare alle generazioni future le “lezioni dell’Olocausto”. Ma il Giorno della Memoria non deve essere soltanto una ricorrenza, in cui si medita sopra una delle più grandi tragedie della storia, ma deve essere un invito, costante e stringente, all’impegno e alla salvaguardia dei valori di uguaglianza.


Anche noi, che abbiamo subito l’onta incancellabile delle leggi razziali e della conseguente persecuzione degli ebrei, abbiamo un dovere morale, verso la storia e verso l’umanità intera. Il dovere di ricordare, ma soprattutto di combattere, senza remore, ogni focolaio di odio, di antisemitismo, di razzismo, di negazionismo, ovunque esso si annidi. Auschwitz e tutti gli altri campi di concentramento, con le grida, il sangue, il fumo acre, i pianti e la disperazione, sono stati

spesso definiti come l’inferno sulla terra. Ma furono, di questo inferno, solo l’ultimo girone, il più brutale e perverso. Un sistema infernale che ha potuto distruggere milioni di vite umane innocenti nel cuore della civiltà europea. Come diceva Primo Levi, scrittore italiano sopravvissuto ad Auschwitz: "Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre.”

di Davide Bortolato sindaco di Mogliano Vto

Poesie sulla Shoah Un paio di scarpette rosse Aprile

Prova anche tu, una volta che ti senti solo o infelice o triste, a guardare fuori dalla soffitta quando il tempo è così bello. Non le case o i tetti, ma il cielo. Finché potrai guardare il cielo senza timori, sarai sicuro di essere puro dentro e tornerai ad essere Felice.

Anna Frank

Joyce Lussu

C’è un paio di scarpette numero ventiquattro quasi nuove: sulla suola interna si vede ancora la marca di fabbrica ‘Schulze Monaco’. C’è un paio di scarpette rosse in cima a un mucchio di scarpette infantili a Buckenwald erano di un bambino di tre anni e mezzo chi sa di che colore erano gli occhi bruciati nei forni ma il suo pianto lo possiamo immaginare si sa come piangono i bambini anche i suoi piedini li possiamo immaginare scarpa numero ventiquattro per l’eternità perché i piedini dei bambini morti non crescono. C’è un paio di scarpette rosse a Buckenwald quasi nuove perché i piedini dei bambini morti non consumano le suole.

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D’Annunzio e l’ultima poesia

di Mariavittoria Maddaloni Le opere di Gabriele D’Annunzio sono senza dubbio un patrimonio della letteratura italiana su cui tanto è stato scritto ma, ancor di più, sotto la lente di ingrandimento è stata la sua vita privata, le sue biografie sono ricche di dettagli che scandagliano i suoi vizi, le sue passioni, le sue avventurose imprese. “L’Imaginifico” (epiteto che egli stesso si attribuiva) non ebbe certo una vita riservata, era un raffinato dandy, amante della vita mondana, un narcisista sempre sotto le luci della ribalta: erotomane, cocainomane, amante del bello, si circondò di opere d’arte e di oggetti raffinati e costosi tanto da ridursi sempre pieno di debiti: “i debiti striduli” , contrarli per lui era quasi un vanto. Leggendaria fu la sua passione per le donne, libertino impenitente, ebbe numerose relazioni spesso tormentate, alcune delle sue fiamme per lui finirono in manicomio, qualcuna arrivò a togliersi la vita.

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Famoso fu anche il suo amore per gli animali, il poeta preferiva soprattutto i cani e in special modo i levrieri i “lunghi musi” come lui li chiamava; di questa sua passione ne abbiamo testimonianza sia per le numerose foto che lo ritraggono insieme ai suoi amati levrieri, sia dai sui scritti: “Ho vissuto con loro così tanto che mi sembra di aver capito le loro conversazioni e le loro piccole astuzie”.

In tutte le dimore in cui D’annunzio soggiornò fece costruire un canile dotato di tutti i confort e nell’ultima dimora, il Vittoriale, fece allestire in una parte del giardino della villa un cimitero per i suoi amati cani dove ci sono piccole lapidi che ne ricordano i nomi piuttosto bizzarri: Krissa, ZanZan, Danzetta ecc. Ed è proprio ai suoi amati cani che il poeta dedica uno dei suoi ultimi componimenti, la sua quasi certamente ultima poesia. Fu scritta nel 1935, due anni dopo il poeta morirà (fu ritrovato esanime seduto al suo tavolo da lavoro). La poesia è uno dei componimenti meno conosciuti di D’Annunzio, anche perché venne pubblicato postumo soltanto nel 1982 e sarebbe rimasta sepolta nella biblioteca del poeta e non ne saremmo venuti mai a conoscenza, se non fosse stato per un allora giovane critico letterario, Pietro Gibellini, che ritrovò per caso nel 1979

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questi versi scritti a matita sul foglio di guardia di un volume francese di viaggi appartenuto a D’Annunzio.

Nella poesia egli mostra il cimitero dedicato ai suoi amati cani e immagina che essi anche sottoterra stiano rosicchiando le loro stesse ossa (il cane che si morde la coda (le ossa della coda), ricorda il serpente che si morde la coda: l’Ouroboros della mitologia egizia, simbolo della ciclicità del tempo, dell’eternità); con le ossa cave il poeta vorrebbe costruire ­ come usavano gli antichi Greci ­ un flauto di Pan (Pan, il dio del panico meridiano) ma, in greco, Pan significa Tutto, e la morte, destino che accomuna tutte le creature, è il Tutto. La similitudine del neonato che nella culla si succhia il dito, che è come l’osso succhiato dai cani morti, condurrà all’ineluttabile verso finale……

Qui giacciono i miei cani gli inutili miei cani, stupidi ed impudichi, novi sempre et antichi, fedeli et infedeli all’Ozio lor signore, non a me uom da nulla. Rosicchiano sotterra nel buio senza fine rodon gli ossi i lor ossi, non cessano di rodere i lor ossi vuotati di medulla et io potrei farne la fistola di Pan come di sette canne i’ potrei senza cera e senza lino farne il flauto di Pan se Pan è il tutto e se la morte è il tutto. Ogni uomo nella culla succia e sbava il suo dito, ogni uomo seppellito è il cane del suo nulla.

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Angolo della Letteratura

La poesia non ha titolo, ne fa le veci l’incipit del verso “Qui giacciono i miei cani”, è considerata da molti critici un piccolo capolavoro, sia per la struttura metrica (è scritta per la maggior parte in settenari), sia per i numerosi rimandi a immagini mitologiche ed esoteriche che si susseguono inanellandosi una nell’altra. I versi sono piuttosto cupi e angoscianti, a volte macabri, risentono dell’ultimo periodo di vita del poeta, che, ormai spenti gli ardori e gli entusiasmi di una vita vissuta come un’estensione della sua creatività, si piega rassegnato alla “turpe vecchiezza” e a pensieri di morte. Tutto si ribalta, il Vate, l’Imaginifico, il Sacro Poeta diventa “Uom da nulla”.


Addio mia valle

di Giovanna Menetti

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In sottofondo il rumore ritmico dei giunti del ponte scandisce il tempo che passa, i1 mutare di cio che mi circonda. So che sei cambiata perchè gli anni sono passati... e non solo per te. Addio ai prati verdi della prirna erba primaverile umida come un bambino ancora bagnato dal liquido amniotico. Ai fiori, quelli profumati che la falce non ha ancora tagliato. Alla cascata che biancheggia nascosta. Scoperta da me bambina quando mi immergevo fino alle ginocchia nella pozza meno profonda, fredda, ma non troppo perchè scaldata dal sole di rnezzogiorno, mentre i lievi spruzzi, mi arricciavano i capelli. Al fiume, sul fondo, cintura oggi verdognola, domani color miele per la voglia di cambiarsi d'abito. Ai ciottoli piatti e bianchissimi che si depositavano negli anfratti dei suoi argini. Era una gara con mio padre lanciarli nelle tue acque, ma era sempre lui che vinceva. Il suo sasso scelto con cura, da esperto, rimbalzava anche dodici volte prima di immergersi sul fondo. Ma io, ostinata, non volevo arrendermi e di nascosto mi allenavo. Inutilmente. Agli alberi, carichi di mele che al sole mostravano la loro guancia rossa per ricevere

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un bacio. Cosi carichi che le lunghe forcelle, ricavate dai vecchi tronchi faticavano a sorreggeme i rami... e il treno che vi correva in mezzo...e la mia mano che cercava di prendere, come Eva, il frutto proibit0... e la voce impaurita di mia madre. Alle tante erbe medicamentose che la nonna Schonweger custodiva nel suo grernbiulone, mentre con passo stanco andava per sentieri. E mai ti confidava dove aveva raccolto i suoi preziosi profumi che, a casa, divideva facendone mazzetti e, appena essiccati, richiudeva nei vasi, in attesa, con il nome scritto in bella calligrafia nelle etichette. Ai monti, alti argini dalle cime intervallate da altipiani di un verde più scuro, quello degli abeti che nelle notti di vento si raccontavano antiche leggende. Ai masi, biancheggianti di calce, lontani gli uni dagli altri, ma ognuno era un paese. Alla musica dell'acqua dei piccoli fossati con le minuscole dighe che, di notte, i contadini azionavano per abbeverare i campi assetati. Al muto parlare dei cimiteri che circondavano le chiese. Aiuole di mille colori d'estate e d'inverno coperte di erica e spesso di neve. Addio mia valle, addio.


Toni dei vovi Ogni matina el partiva da Campalto e col só sandoléto vogando ala valesana el traversava sora palugo (no gèra gnacora sta scavà el Canal Marco Polo per andar a l’aeroporto) el tòco de laguna fin a Venessia. Na volta rivà Sant’Alvise el imbrocava el Rio dei Mati (Rio Zecchini) ciamà cussì per via de un ospissio per malai de mente che, có passavimo in barca, i ne saludava o i se meteva a sigàr tacài ale sbare de le finestre. El traversava el Rio de la Madona de l’Orto, el girava a destra per Rio dei Trasti, el traversava el Rio de la Sensa, el impirava el Rio dei lustraferi e dopo aver traversà el Rio de la Misericordia el ciapava el Rio de San Marcuola, fermandose a un squereto, un fià prima del Ponte de la Anconeta. Qua el lassava el sandolèto e el smontava portandose drìo na sésta de vóvi che el andava a vender al mercà. Parlo del mercà in Terà de San Leonardo (che no ga gnente a che vedar có quelo de adesso: ghe gera solo frutariòi e pescaóri tuti venessiani: desso i xe quasi tuti marochini o singalesi) El se sentava sul só scagnelo tra le porte de le boteghe de Tito el biavarol e de Toni el bechèr e po’ el cominciava a vender i so vóvi che el incartava su carta de giornal, prima de dargheli ai só clienti. Se qualchedun trovava un vóvo marso o póco fresco bastava portarghelo indrìo e el te lo cambiava có un altro, anca se gèra el giorno dopo.

Ogni mattina partiva da Campalto e con il suo sandoletto, vogando alla valligiana, attraversava “sopra palude” (non era ancora stato scavato il Canale “Marco Polo” per andare all’aeroporto) il tratto di laguna fino a Venezia. Una volta giunto a Sant’Alvise imboccava il Rio dei Matti (Rio Zecchini), così chiamato per via di un ospizio per malati di mente che, quando passavamo in barca, ci salutavano o si mettevano a gridare attaccati alle sbarre delle finestre. Attraversava il Rio della Madonna dell’Orto, girava a destra per Rio dei Trasti, attraversava il Rio della Sensa, infilava il Rio dei Lustraferi e dopo aver attraversato il Rio della Misericordia entrava nel Rio di San Marcuola, fermandosi ad un piccolo squero, un po’ prima del Ponte dell’Anconeta. Qui lasciava il sandoletto e sbarcava portandosi appresso un cesto di uova, che andava a vendere al mercato (parlo del mercato in Rio Terrà San Leonardo, che non ha nulla a che vedere con quello odierno: c’erano solo fruttivendoli o pescivendoli tutti veneziani: adesso sono quasi tutti marocchini o cingalesi). Si sedeva sul suo sgabellino tra le porte dei negozi di Tito il biadaiolo e Toni il macellaio e poi cominciava a vendere le sue uova, che incartava su carta di giornale prima di consegnarle ai suoi clienti. Se qualcuno trovava un uovo marcio o poco fresco, era sufficiente che glielo restituisse e lui te lo sostituiva con un altro, anche se glielo portava indietro il giorno dopo.

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Angolo della Letteratura

di Riccardo Beggio


Il garibaldino

di Attilio Bonsignori

L'albero della vita ­ Maggio 2022

Totuccio Mancuso, quando seppe che Garibaldi con le Camicie rosse stava passando per la Sicilia a portare la libertà, lasciò nottetempo la casa dei suoi genitori a Ramacca e si diresse verso Palermo, seguendo solo mulattiere e trazzere poco frequentate. Non sapeva esattamente dove fosse la capitale del regno, ma secondo i discorsi degli anziani doveva trovarsi oltre il paese di Calascibetta. Altro non sapeva; per lui orientarsi però era facile come mangiare, più difficile combattere a 17 anni la fame, dopo che le due forme di pane, sottratte dalla cassapanca della madre, furono ingurgitate, accompagnate dai lumaconi arrostiti alla meglio sulle pietre, insieme col vino della fiaschetta. A luglio tuttavia, frutti sugli alberi se ne trovavano in abbondanza, ma

anche fichi e qualche anguria abbandonata per le terre coltivate, benché un pezzo di pane, accompagnato magari dalla cipollina fresca, era diventato il suo unico sogno. Lungo il cammino, tuttavia, fortuna volle di incontrare, di mattina presto, uno stazzo dove un pecoraio si accingeva a preparare il caglio per il formaggio e la ricotta. Lo salutò e subito dichiarò il motivo di quella visita: la fame. «Tagliati una pala di ficodindia ben concava che te la riempio di ricotta calda calda». Totuccio uscì dall’ovile e in meno di un secondo ritornò con tre pale ben concave a cui col coltello intanto raschiava le spine. La schiumarola del pastore, con poche immersioni nella caldera, le riempì fino al colmo e Totuccio Mancuso, aiutandosi con le dita callose, in poco più di qualche secondo si

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ripresentò con le pale vuote. Allora il pecoraio, presa la roncola, gli tagliò un pezzo di formaggio da una forma dentro cui brulicavano vermi tutti bianchi: «Nell’ultimo periodo le pecore si sono nutrite di stoppie di frumento e il formaggio figlia vermi. Ma così mangi anche carne», disse l’anfitrione con una risata generosa. Ormai sazio, Totuccio chiese: «Dove si troverà Garibaldi a quest’ora?» Il pastore lo guardò con sospetto e poi gli suggerì di raggiungere il vicino paese di Mussomeli e informarsi col sindaco, «Lui lo saprà di sicuro». Allora il giovane salutò, ringraziò e, mentre stava per rimettersi in cammino, il pastore gli regalò il pezzo di formaggio rimasto, che lui mise dentro la bisaccia accanto alla fiaschetta ormai piena solo d’acqua. Passò invece lontano dal paese, per paura di incontrare gente strana, puntando sempre su Palermo. Camminò ancora un giorno, dormendo, come mai prima aveva fatto, sopra i rami robusti di certi alberi o dentro qualche pagliaio disabitato dagli uomini ma affollato di zecche e di pidocchi. Il formaggio, che cercava di lesinare il più possibile, gli metteva una sete irrefrenabile che cercava di spegnere dovunque trovasse un ruscello, una saia per irrigare i giardini, un fontanile per le bestie, una gebbia. Poi, dopo essersi dissetato, riempiva la fiaschetta e procedeva per raggiungere Garibaldi e i suoi picciotti con le camicie rosse. E finalmente un pomeriggio scorse da una collina una distesa infinita brulicante di luce e di scintille, dentro cui il sole stava per immergersi. Non lo aveva mai visto, ma sapeva che Palermo era sul mare e dunque quella superficie sconfinata, tutta piatta e rilucente, che rifletteva il cielo, era proprio il mare. Puntò allora in quella direzione, correndo ora e stringendosi al petto l’ultimo pezzo di formaggio nella bisaccia. Arrivò nei pressi del mare di Bagheria che già faceva buio. Raggiunta la spiaggia, si tolse gli scarponi e la bisaccia e immerse i piedi, piagati dalla lunga camminata, dentro l’acqua che gli diede un insperato refrigerio. Rimase così per


quello strano berretto sulla testa e si guardò intorno alla ricerca di qualche straccio per proteggersi i piedi, quando improvvisamente davanti a lui, comparve, simile ad uno spettro, un uomo con la camicia rossa, che gli puntava il moschetto sulla fronte. «Siete voi Garibaldi?», gridò Totuccio con tutta la felicità che la debolezza gli aveva lasciato. Ma quello, invece di rispondere, credendolo un disertore dei Borboni, prese la rincorsa per piantargli in petto la baionetta che sporgeva dalla canna del fucile. Totuccio si buttò a terra come un fulmine e, presa una manata di sabbia, gliela lanciò sugli occhi. Confuso e accecato, il garibaldino fece partire l’unico colpo a disposizione che però sorvolò il mare per perdersi dentro i suoi abissi. Raccogliendo tutte le forze, Totuccio gli strappò il moschetto e quando stava per immergerglielo nel petto, si ricordò, seppur nell’ira, delle preghiere cristiane di sua madre. E allora, con una sana sapienza contadina, invece di colpire il petto si accanì con la baionetta sulle pelle della gola, mentre l’altro urlava di terrore. «Ora ti sistemo io, infame!» Col fiatone in gola, Totuccio gli sfilò prima la camicia, poi il berretto e in ultimo gli stivali che odoravano di cuoio appena ingrassato. Li indossò in tutta fretta e quindi, con la camicia rossa e col moschetto in spalla, si abbassò di nuovo su di lui e gli tolse pure il tascapane coi proiettili e la polvere da sparo, la borraccia e le quattro onze che aveva in tasca: «Così impari chi è Totuccio Mancuso, cane rognoso!». L’uomo scappò in mutande, seminudo. A Totuccio era passata ogni voglia di combattere per la libertà. Senza voltarsi indietro, s’aggiustò il berretto rosso, si lisciò la camicia vermiglia e, fiero della sua divisa, corse in direzione del Mongibello, a sud, verso quella collina oltre la quale aveva incontrato il ricottaro. A casa, avrebbe fanfaronato a tutti di aver combattuto con Garibaldi e di avere ucciso almeno cento nemici! Un eroe garibaldino di Ramacca!

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Angolo della Letteratura

un bel po’. Poi vide salire all’orizzonte la luna che dipingeva nell’acqua un viottolo d’argento che si fermava fremendo sotto ai suoi piedi. Era incantato Totuccio, ma anche stanchissimo. Allora si girò e come un sacco di patate si buttò sulla rena, lasciando che il sonno lo rapisse. Quando la mattina il calore del sole lo svegliò, dovette constatare che qualcuno gli aveva rubato scarpe e bisaccia, mentre dal mare arrivava una sorta di fruscio leggero che sembrava lo beffasse. Il ragazzo però non si perse d’animo. Scalzo si mise in cammino verso le case in lontananza. Non fece molta strada sulla battigia che incontrò un pescatore con la barca già sulle onde impercettibili. Prima che potesse allontanarsi troppo, gli gridò: «Cumpari, dove si trova a quest’ora Garibaldi?». «E come, non lo sai? Si è diretto con i suoi verso Milazzo!» «E dov’è Milazzo?», gli gridò ancora Totuccio. «Dal lato opposto di Palermo. A levante devi andare, a levante! Verso Messina.» Smarrito, affamato, scalzo e dolorante, non ebbe neanche il tempo di replicare che già il pescatore era lontano. «E quanto è distante ‘sta Milazzo?», si ripeteva. Si fermò perché dal vicino canneto spuntava un berretto in feltro nero a tre punte. Allora lo raccolse e l’indossò per proteggersi dal sole; poi fece un fagotto dei pantaloni di velluto e della camicia, già logora e strappata, e con circospezione si immerse dentro il mare, dove cercò di ripulirsi e di lavarsi tutto, immergendosi e risalendo, fino a quando non fu del tutto soddisfatto. «A Ramacca», pensava nel frattempo, «nessuno potrà mai credere che ho fatto il bagno a mare e soprattutto nel mare dove è passato Garibaldi.» Già, Garibaldi! Ma dov’era? Dov’era Milazzo e quanta strada c’era da percorrere ancora per raggiungere i picciotti con le camicie rosse? E poi, senza scarpe, né fiaschetta, né altro da mangiare, se non i frutti che era costretto a rubare dalle campagne, come gli sarebbe finita? Tuttavia non aveva altra scelta, doveva proseguire. Si rimise i pantaloni, si aggiustò


Il piacere della lettura Andrea Camilleri ­ Ora dimmi di te (Lettera a Matilda) ­ Bompiani. Milano, 2018 Matilda è la pronipote di Andrea Camilleri che all’epoca della pubblicazione del libro aveva solo quattro anni. Questa lettera può essere considerata un pretesto di Camilleri per raccontare al mondo aspetti sconosciuti della sua biografia dai quali, però, si ricava la sua visione delle cose. Il lettore, (e Matilda quando sarà più grande), si farà l’idea di un mondo essenzialmente violento e sbagliato e di un Andrea Camilleri che nella sua vita ha compiuto molte azioni deplorevoli ma troverà anche modo di apprezzare in lui il convinto senso di solidarietà umana e di uguaglianza sociale. Dagli avvenimenti narrati si evince la generosità nei confronti soprattutto dei giovani in carriera, la propensione all’ascolto, l’amore e la fedeltà coniugali, l’attaccamento alla famiglia e alla casa. Un ritratto quindi non solo del grande studioso ma anche di un grande uomo. L’ateo Camilleri, che non crede nell’Aldilà, si fa portavoce di una religione laica sostenuta dal credo nell’umanità.

Gabriella Madeyski

Albert Camus ­ La Peste – Bompiani. Milano, 2017 Quanto mai attuale e vivo questo romanzo del grande scrittore francese del secolo scorso, affronta e descrive, con graduale ma inarrestabile incalzare, l’esplosione di un’epidemia di peste che colpisce la cittadina algerina di Orano, intorno agli anni ’40. Epidemia che costringe i vari diversi personaggi a confrontarsi con le proprie paure, con la separazione dei propri cari, con la solitudine, con la malattia e la morte. L’Autore esprime con grande efficacia le passioni umane attraverso i protagonisti della vicenda che si incontrano e condividono l’isolamento e lo sconquasso della propria vita quotidiana. Ma per fortuna, ora come allora, ci sono la speranza e l’amore, sentimenti che permettono di pensare al futuro con più ottimismo, nella consapevolezza che solo agendo collettivamente e per il bene comune si può fronteggiare qualsiasi difficoltà.

L'albero della vita ­ Maggio 2022

Alba Compagnone

Marilù Oliva ­ L’Odissea raccontata da Penelope, Circe, Calipso e le altre ­ Solferino Milano 2020 Marilù Oliva insegna lettere alle superiori, ed è anche scrittrice, critica letteraria e saggista. Già dal titolo del libro si comprende che a narrare di Ulisse sono le donne. Le donne di famiglia, come la nutrice Euriclea e la sposa Penelope e tutte quelle incontrate nelle varie tappe del suo avventuroso viaggio di ritorno a Itaca, come Calipso, Nausicaa, Circe e le Sirene. Al di sopra di queste voci, si eleva quella divina di Minerva, la dea più saggia, colta ed avveduta. L’ autrice, nelle note finali, ci dice che la riscrittura della sua Odissea è stata “il frutto di anni di amore per i miti e la storia greca, di studio e di condivisione in classe con i miei ragazzi…” e aggiunge di aver cercato di “ realizzare un lavoro fedele al testo originale che desse voce alle diverse e corpose figure femminili…il cui ruolo è rivoluzionario rispetto all’altro poema omerico” e di aver sintetizzato o leggermente modificato solo alcune parti per esigenze narrative. Da una prospettiva tutta al femminile, un’interessante lettura di un testo noto!

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Albachiara Gasparella


L'angolo della Poesia Cupole d'oro

Un gregge di papaveri

(Ucraina ­ marzo 2022)

Sontuose le sale dei congressi: poltroncine ordinate, cartelline. E parole angosciosamente inerti.

Cecilia Barbato

Oltre la mia casa un campo spettinato fedele a maggio d’accesi papaveri un gregge veniva a stazionare. Incanto per gli occhi della rossa transumanza il lento ondeggiare e di più dopo lo sfarfallio di petali nuova magia scoprire.

Poesia

Cupole d’oro brillano incredibilmente tra fumi grigi d’incendi. La barbarie trionfa nei trofei di palazzi indecentemente sventrati. Trasparenti su strade che il cuore più non conosce.

Tinto di rosso è a me caro dell’infanzia un luogo non in una tela ma nella memoria impresso.

I polposi e stellati stimmi di nero inchiostro intrisi in equilibrio sui magri piedistalli smascherarsi! Ai radiosi sigilli si offriva la pelle da mostrare e del libro più amato la prima pagina da stampare. Vero balsamo per il cuore ora quel rosso ricordo trattenuto!

Albachiara Gasparella

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Penelope, modello di donna ed esempio di fedeltà coniugale

di Maria Caterina Ragusa

L'albero della vita ­ Maggio 2022

Donna bellissima; saggia; sposa fedele; prudente; chiara (= splendente) tra le donne; dalla pelle candida: sono questi gli appellativi, gli epiteti riferiti a Penèlope nell' “Odissea” di Omero. E' la saggia moglie di Ulisse, raffigurazione viva, reale, profondamente umana dell'amore e della fedeltà coniugale. Non viene presentata dal narratore né da un altro personaggio: i tratti fisici e morali che la connotano si ricavano dal suo agire e dagli interventi che la vedono protagonista. Per questo spesso bisogna leggere tra le righe per cogliere le ragioni dei suoi comportamenti. Figlia di Icàrio e di Peribèa, Penelope è educata

John William Waterhouse ­ Penelopee i Pretendenti 1912

secondo la tradizione greca e si occupa delle attività femminili (il suo nome significativamente equivale a “Filatrice”). Curioso è il modo in cui viene data in moglie ad Ulisse: questi aveva suggerito ad Icario di darla in sposa al vincitore di una gara di corsa, di cui l'eroe sa di poter essere il vincitore. Penelope resta colpita dall'aspetto fisico di Ulisse, che, benchè di modesta statura, ha muscoli potenti e lo sguardo attento e perspicace. L'eroe è rimasto affascinato da lei, non più bella di altre donne

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ma con qualcosa di speciale nei movimenti e nella lucentezza del viso, nello sguardo da cui traspariscono virtù e intelligenza, nella riservatezza che le fa dire solo poche parole accorte. Insieme vanno a vivere a Itaca, l'isola di cui egli è re. Ma presto Ulisse parte per la conquista di Troia insieme ad altri principi greci, lasciando Penelope e il figlio Telemaco, ancora in fasce. Finita la guerra, gli altri principi tornano ciascuno nella propria patria. Solo Ulisse non torna ancora, ostacolato da dèi ostili e trattenuto in terre lontane prima dalla maga Circe, poi dalla ninfa Calipso e infine dalla giovanissima Nausicaa: sono tutte donne bellissime, dee che gli promettono addirittura l'eterna giovinezza. In Ulisse però è ancora forte l'amore per la moglie, di cui crede persino di sentire la voce in una conchiglia: rinuncia dunque ai benefici promessi per riprendere il suo viaggio verso casa. Intanto a Itaca Penelope vive un doppio dramma, quello di donna assediata dai Proci e quello di madre tenerissima che teme per il figlio. I Proci (spesso accompagnati dagli epiteti 'superbi', 'arroganti') sono principi che, approfittando dell'assenza di Ulisse, vogliono impossessarsi del trono e per questo si sono stabiliti nella reggia, vivendo tra banchetti e sperperando i beni del re, in attesa che Penelope sposi uno di loro. Intanto il figlio Telemaco decide di partire per cercare notizie del padre e conoscerne il destino: i Proci non lo ostacolano e progettano di ucciderlo al suo ritorno. Penelope, quando scopre le loro macchinazioni, reagisce sprofondando in uno stato di profonda angoscia: invoca l'intervento della dea Atena (“Salvami il figlio caro, disperdi i pretendenti malamente superbi”) e insieme ricorre all'astuzia per differire le nozze: deve prima assolvere al suo compito, tessere il lenzuolo funebre in cui sarà avvolto il corpo di Laerte, padre di Ulisse, quando sarà morto. Comincia così il lungo lavoro di Penelope che di giorno tesse la tela e di notte la disfa, riprendendo il lavoro la mattina seguente: è una


l'ennesima dimostrazione della sua astuzia perché sa bene che il letto non può essere spostato: Ulisse l'aveva creato con le proprie mani lavorando un grosso tronco di olivo ben radicato nella terra, ornandolo con oro, argento, avorio e porpora e costruendogli intorno muri che formavano una stanza. Ulisse reagisce adirandosi e dimostrando di conoscere il segreto del talamo: svela così la propria identità. Si arriva dunque allo scioglimento della vicenda: a Penelope “si sciolgono le ginocchia e il cuore, perché riconosce il segno sicuro” che le prova che proprio Ulisse le sta davanti: gli getta le braccia al collo e lo bacia piangendo e dice: “Non ti adirare con me, Ulisse, tu che su tutto sei il più saggio degli uomini... Non ti adirare con me. Sempre l'animo dentro il mio petto tremava che qualcuno venisse a ingannarmi con chiacchiere perché molti miravano a turpi guadagni”; accusa gli dei che, invidiosi, si opponevano che “uniti godessimo la giovinezza e giungessimo alla soglia della vecchiaia”. La conclusione vede l'intervento di Atena che rende ancora più bello Ulisse, ma non solo: la dea ferma la notte e ritarda l'arrivo dell'Aurora perché ai due sposi sia lasciato spazio per i sentimenti umani che li legano.

Francesco Primaticcio ­ Ulisse e Penelope 1560

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Le donne nella storia

tela bellissima, lavorata con arte, piena di colori, in cui sono raffigurati uccelli, pesci, piante vere e immaginarie, guerrieri armati. Ma un'ancella infedele svela l'inganno ai Proci che si oppongono allora ad ogni dilazione e vogliono accelerare le nozze. Quando finalmente Ulisse ritorna, stermina i Proci, aiutato dal figlio e da pochi servi rimasti fedeli al loro re, e soprattutto dalla dea Atena. E' ancora Penelope a suggerire al marito di ricorrere alla prova dell'arco, che solo Ulisse sa maneggiare. Ma se eliminare i nemici gli è stato relativamente facile, più difficile risulta all'eroe farsi riconoscere dalla moglie. Egli si è presentato nei panni di un mendicante di cui pochi hanno riconosciuto la vera identità: il vecchio cane Argo, la nutrice Euriclea grazie ad una vecchia ferita, il porcaro Eumeo, ma non Penelope, che si mostra sospettosa. La sua diffidenza è una forma di difesa dalle disillusioni. Scende nella grande sala in cui si è svolta la strage e si siede silenziosa, lontano dall'uomo nel quale, a tratti, riconosce il marito. Quindi lo sottopone alla prova definitiva: chiede ad Euriclea di portare il letto nuziale fuori dalla camera da letto e di prepararlo per l'ospite. E'


Maria Judina la donna che sfidò Stalin

L'albero della vita ­ Maggio 2022

di Lilli Paternò Castello La pianista sovietica Maria Veniaminovna Judina nacque nel 1899 a Nevel, una cittadina della Russia occidentale, situata a breve distanza dalla frontiera con la Bielorussia, da una famiglia di origini ebraiche. A dodici anni è già una grande virtuosa del pianoforte: «Le sue dita sono artigli d’aquila», esclamò un ammirato Shostakovich. «Suonare per me è un avvenimento interiore», testimonia la giovane Judina, donna inquieta, inappagata, sempre in ricerca del nuovo. «Non m’interessano la fama o la tranquillità. Al centro della mia vita c’è la ricerca della verità. Devo inoltrarmi nella mia vocazione, alla ricerca di un’illuminazione che mi sorprenderà», riassume. Legge avidamente Platone, Agostino, Tommaso d’Aquino, si appassiona ai poeti simbolisti, studia arti figurative, architettura, teatro, filologia, storia. Questa sua tormentosa ricerca approderà alla fine alla fede cristiana ortodossa. Convertitasi all’età di vent’anni, non volle sposarsi per dare tutto il suo impegno alla musica ed alla difesa dei valori religiosi: considerava la sua musica un'espressione di fede. Sfidò l'ateismo imposto dallo Stato e le scelte antireligiose del regime, e coraggiosamente indossava una croce mentre si esibiva.

dal Conservatorio di Leningrado. Maria dovette trasferirsi a Mosca, dove riusciva a malapena a noleggiare un pianoforte e faticava perfino a pagarsi l’affitto. Ciononostante cercava di aiutare tutti coloro che avevano bisogno, pagava visite mediche agli amici indigenti, difendeva i perseguitati dal regime. Shostakovich racconta la storia che ella dava tutti i suoi soldi alla Chiesa, perché aiutasse i poveri, rinunciando anche al riscaldamento nel suo appartamento durante il rigido inverno russo. Quando teneva concerti, affiggeva avvisi di questo tipo: «Suonerò nella tale città. Posso portare pacchi di un chilo massimo l’uno». Poi recapitava i vari pacchi agli sconosciuti destinatari, fino all’ultimo. Sempre fiera avversaria delle censure del regime, volle nei suoi ultimi concerti negli anni Sessanta, come solidarietà verso il proscritto Boris Pasternak, recitarne delle poesie. Neri capelli lisci, occhi che mandavano bagliori, lunghi abiti scuri un po’ trasandati, così si presentava ai suoi affollatissimi concerti: aveva un enorme seguito di pubblico perché ascoltarla dal vivo pare fosse sempre un’esperienza. Il pubblico l’amava profondamente, non voleva andarsene nemmeno dopo l’ennesimo bis. Alla

Per la sua appartenenza all’avanguardia musicale (fieramente condannata dal regime) e per le sue convinzioni religiose venne espulsa

fine Maria rientrava in scena e recitava, tra uragani di applausi, le poesie dei “suoi” autori proibiti.

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registrazione venne completata, il disco confezionato in pochi esemplari e recapitato all’illustre ammiratore. Fortunatamente per tutti gli interessati, Stalin non fu in grado di distinguerlo dalla trasmissione che aveva sentito. Si narra che il dittatore russo sarebbe scoppiato in lacrime, commosso, fin dalle prime note dell'ascolto dell'esecuzione. Dopo breve tempo la Judina si vide premiata con il premio Stalin e con 20.000 rubli. Rispose al premio scrivendo questa lettera, citata a memoria da Shostakovich: «Vi ringrazio, Josip Visarionovich, per il vostro aiuto. Pregherò per voi giorno e notte, chiedendo al Signore di perdonare i grandi peccati che avete commesso nei confronti del popolo e del paese. Il Signore è misericordioso e vi perdonerà. Il denaro l’ho dato alla chiesa che frequento.» Stalin lesse la lettera, non disse nulla e la mise da parte. Se si considera che al tempo la Chiesa era un'istituzione fuorilegge e che la donna si stava rivolgendo direttamente alla massima autorità sovietica, appare straordinario, inspiegabile e in qualche modo miracoloso che la Judina non abbia avuto conseguenze negative per la sua persona. Il disco con il concerto mozartiano suonato dalla Judina era sul giradischi di Stalin quando fu trovato morto nella sua dacia. Era stata l’ultima musica che Stalin aveva ascoltato. Maria Judina è morta a Mosca nel 1970 all'età di 71 anni, sopravvivendo al dittatore per 17 anni. Da allora la sua tomba a Mosca è continua meta di pellegrinaggio.

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Le donne nella storia

Questo atteggiamento però contrastava con le disposizioni della dittatura russa, che – nonostante la pianista avesse raggiunto fama mondiale e ricevesse inviti da tutta Europa ­ la osteggiò e non l’autorizzò mai a lasciare il Paese: la sua unica tournée all’estero si tenne in Polonia con una puntata nella DDR. «Ostenta la sua religione», questa era l’accusa. In letteratura la sua figura è stata vittima di una calunnia: venne dipinta come persona deviata, cinica e promiscua, l'ambito è quello di un romanzo autobiografico del filosofo russo Aleksei Losev. La sola colpa della donna è stata quella di aver rifiutato le avances dello scrittore. Della Judina è noto un famoso episodio che coinvolse la sua arte e Stalin. Una sera Stalin ascoltò alla radio il concerto per pianoforte n° 23 di Mozart, dal secondo tempo doloroso e meraviglioso, suonato proprio dalla Judina. Al leader piacque così tanto che immediatamente telefonò alla direzione della stazione radio per avere una copia dello spettacolo. Gli dissero che glielo mandavano, ma, sfortunatamente per la stazione radio, era stata una trasmissione in diretta e non c'era stata nessuna registrazione. Ma nessuno osò dirlo a Joseph Stalin. Maria Judina venne convocata d’urgenza nel cuore della notte, l’orchestra venne subito approntata, due direttori, terrorizzati dall’idea che la registrazione non soddisfacesse Stalin e che questi si accorgesse che non era il concerto che aveva ascoltato alla radio, declinarono l’invito, solo un terzo accettò. Judina rimase serenamente calma. In una notte la


Kinderszenen (“Scene infantili”) op. 15, di Robert Schumann

L'albero della vita ­ Maggio 2022

Musica

Edo Guarneri Ecco un’opera paradigmatica del repertorio romantico, che fa dei più piccoli un ritratto immortale di poesia e tenerezza. Le “Kinderszenen”, composte da Robert Schumann nel 1838 alla vigilia del suo matrimonio con Clara, si snodano come un’amabile suite in tredici brevi brani scritti “per i piccoli fanciulli da un fanciullo grande”. Schumann cerca di rendere l’emotività, meglio, le emozioni che emergono nell’adulto osservando il mondo dei bambini, e trascrive quello che prova davanti al dinamismo e al pulsare delle loro vite, dove tutto è ancora perfetto e puro. Schumann, come tutti i romantici, scorgeva nella sensibilità del bambino una posizione privilegiata, capace di spingere l’osservazione della realtà verso orizzonti lontani, nei territori della fantasia. Egli annotò nel suo diario: «C’è in ogni bimbo una profondità meravigliosa: il fanciullo guarda tranquillamente verso l’alto quello splendore che forse accecherebbe l’adulto» La semplicità è la chiave di lettura dir questo capolavoro: semplici e immediati i temi, elementari anche se mai scontate le modulazioni armoniche. Ciò che domina dalla prima “scena” all’ultima è un’oasi di pace, un focolare familiare scaldato dalla delicatezza dell’invenzione melodica. Il virtuosismo, altrove presente nella musica di Schumann, invece è del tutto assente da questi fogli d’album, romanticissimi proprio perché ispirati dal candore della fanciullezza. Il musicista si fa osservatore e narratore: il mistero dell’infanzia, la meraviglia per i mondi poco conosciuti è fissata con pochi tratti nel brano d’apertura. La raccolta inizia infatti con un tema dolcissimo, “Da genti e paesi lontani”, il “c’era una volta” delle fiabe, al quale fa seguito il piccolo rondò di “Storia curiosa”, nel quale si alternano due temi melodici di carattere opposto: il primo energico, il secondo più delicato. Poi, nelle successive scene, seguono il momento del “gioco capriccioso” e la richiesta ingenua di qualcosa di piccolo e di immenso allo stesso tempo. Nel cuore del ciclo pianistico troviamo l’immortale “Träumerei”, il sogno inesprimibile, se non con gli occhi un bimbo, di un’età che non tramonta mai: e qui, in questa celeberrima composizione, ognuno trova quello che sente, oppure ciò che vuol sentire: gioia, gioco, malinconia, nostalgia, dolore, poesia, incanto. Segue “Am Camin”, simbolo di una musica domestica celebrata vicino al focolare. Poi il grande fanciullo condivide ancora la giornata del suo piccolo amico seguendolo su un cavallo a dondolo, accompagnandolo nei racconti che fanno paura, giungendo sino al confine dei sogni. Alla fine il musicista esce dal mondo dell’infanzia e racconta solo di sé: è la voce di Schumann (“Parla il poeta”), e le sue parole arrivano come da un ricordo lontano, sbiadito e proprio per questo più delicato e commovente. Questi tredici brani non sono per nulla difficili dal punto di vista tecnico, ma lo sono ovviamente (e molto) dal punto di vista interpretativo: a chi volesse ascoltare questa bellissima raccolta consiglio le interpretazioni di Vladimir Horowitz o di Martha Argerich, inarrivabili per tecnica e profondità di espressione, due veri preziosi gioielli della musica romantica pianistica.

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Verba volant, Scripta anche Nella continua e anche un po’ maniacale ricerca di cause di insoddisfazione quotidiana vorrei soffermarmi questa volta sul degrado visivo provocato dalla cosiddetta “affissione selvaggia”. Mi riferisco alla vasta gamma di lacerti cartacei appiccicati e/o penzolanti dagli edifici, dai pali della luce, dalle inferriate delle scuole, insomma un po’ dovunque. L’esigenza di comunicare qualcosa a quante più persone possibili è certamente indicativa di una comunità vivace e bisogna riconoscere che le affiches sono sempre state la forma più immediata ed economica per pubblicizzare prodotti, manifestazioni, riunioni e quant’altro. Non a caso ogni amministrazione pubblica ha provveduto a predisporre (pochi) spazi adeguati, le cosiddette affissioni pubbliche, proprio per disciplinare il fenomeno. Purtroppo la meravigliosa possibilità fornitaci dalla moderna tecnologia di stampare in casa qualsiasi cosa ha reso quasi ingovernabile il proliferare di fogli, foglietti e manifesti. Il primo freno a questa pericolosa tendenza dovrebbe essere l’obbligo di pagare la tassa all’ufficio affissioni comunale ma la cosa non sempre viene rispettata, confidando a ragione nella cronica mancanza di controlli. Non a caso almeno il cinquanta per cento di quanto troviamo appiccicato in giro non riporta nessun timbro, controllare per credere. Il danno per le casse comunali è evidente ma non è questo il vero problema. Avete mai verificato le date riportate sui messaggi cartacei appesi un po’ dovunque? Provate. Scoprirete che quei fogli penzolanti e scoloriti risalgono a mesi se non a stagioni prima. Ecco dunque qual é il dramma di noi poveri cittadini anelanti un certo decoro urbano: nessuno si cura più di togliere dai muri quello che ha incollato, più o meno legalmente, tempo prima! Così corsi di yoga, sagre del radicchio, raduni cicloturistici, rassegne cinematografiche o altri eventi ormai dimenticati sopravvivono svolazzando, perché lo scotch dopo un po’ cede, in attesa che qualche colpo di vento o un po’ di pioggia li strappi

definitivamente dai loro supporti. Finiscono così dovunque, nei giardini, nei tombini o nelle fontane ma la fine peggiore spetta alle famigerate buste di polietilene indistruttibile che spesso contengono i messaggi e che resteranno a vagare sul pianeta molto tempo dopo la scomparsa dell’essere umano che le ha utilizzate. Esempio emblematico a questo proposito é la simpatica abitudine di disseminare di queste buste contenenti messaggi deliranti e battute pseudo divertenti (… sei ancora in tempo, scappa!) il percorso che i futuri sposi faranno fino alla chiesa o al municipio. Questo fulgido esempio di sottocultura prevede ore di lavoro degli amici della coppia che selezionano e collocano sui pali della luce le foto più intriganti dei due sventurati, ciascuna diligentemente rinchiusa in una busta che le conserva al riparo dagli elementi. Peccato che poi, a nozze concluse, regolarmente tutti se ne dimentichino. Come si dice: passata la festa, gabbato lo santo, anzi… il decoro urbano.

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Costume e società

di Renzo De Zottis


Un antico villaggio egizio

L'albero della vita ­ Maggio 2022

Archeologia

di Cecilia Barbato Ho avuto l’occasione, qualche hanno fa, di visitare una mostra sull’Antico Egitto che presentava, tra l’altro, l’eccezionale ricostruzione della camera sepolcrale di Pashedu, un caposquadra degli artigiani impegnati nella costruzione delle tombe dei faraoni. Era in grandezza naturale, con la riproduzione perfetta di figure e geroglifici dava la sensazione al visitatore di trovarsi all’interno della vera tomba, la quale fu scoperta nella necropoli di Deir el Medina, villaggio portato alla luce dalla Missione Archeologica Italiana, guidata da Ernesto Schiaparelli (1905­1909) e successivamente dalla Missione Francese guidata da Bernard Bruyére (1922­1951). Il sito permise di individuare una straordinaria quantità di materiali e documenti di grande interesse che hanno consentito agli studiosi di capire come funzionava il villaggio con i suoi abitanti: artigiani e artisti con un solo importante compito, la costruzione e la decorazione delle tombe regali scavate nella vicina valle rocciosa, a quel tempo chiamata “Grande luogo del Faraone”, oggi “Valle dei Re”. Essi costituivano una forza lavoro con alto livello di specializzazione e avevano una percentuale di alfabetizzazione elevata. “Servitori del luogo della Verità” era il loro titolo e, come una moderna impresa di costruzioni, tutti svolgevano le loro mansioni (scalpellini, muratori, disegnatori, pittori, scultori… ), rispettando regole e orari precisi. Pa Demi, questo l’antico nome del villaggio, era stato edificato a partire dalla 18^ dinastia, per volere di Thutmosi I, ai piedi della Montagna Tebana, a ovest del Nilo e dell’antica Tebe (Luxor). Era cinto da un alto muro di mattoni e provvisto di due porte, una a nord e una a sud, sempre sorvegliate da guardiani e chiuse nelle ore notturne. La struttura dell’abitato consisteva in due quartieri con case composte da tre o quattro stanze e provviste di cantina, divise da una strada centrale: il quartiere di destra ospitava, con le relative famiglie, la squadra di uomini impegnati nella costruzione del lato destro della tomba, quello di sinistra la squadra assegnata al lato opposto. Vi abitavano anche persone di servizio come portatori d’acqua, fabbricanti di gesso, di torce, addetti alla preparazione del pane e della birra, oltre ad alcune guardie. Ognuna delle due squadre aveva un caposquadra nominato dal Visir (Primo Ministro) o dal Faraone stesso. Pashedu era uno di loro. Quando giungeva l’ordine di costruire una nuova tomba, cosa che richiedeva molti anni di lavoro, il Visir in persona, accompagnato da alcuni dignitari, dai due capisquadra e dallo “scriba della necropoli”, iniziava la ricerca del luogo più idoneo, quindi veniva disegnata la pianta del sepolcro su fogli di papiro. Allorché iniziavano i lavori di scavo, ogni uomo riceveva gli arnesi necessari che venivano registrati scrupolosamente dallo scriba, responsabile di fronte al Visir di tutte le attività e dei materiali distribuiti, come martelli di legno, zappe di bronzo, scalpelli di rame, torce, olio…, compresa l’erogazione dei salari corrisposti in natura. Gli scalpellini iniziavano per primi con i loro scalpelli e martelli, penetrando nel vivo della roccia calcarea dove si sarebbero aperti via via corridoi, scale, stanze, fino alla camera del sovrano, approntando le varie pareti dove altri avrebbero levigato, lisciato, decorato con dipinti e geroglifici tali da rendere superba la dimora eterna del loro Signore, assicurando la sua sopravvivenza nell’Aldilà. Nel tempo, il villaggio crebbe fino ad ospitare circa 120 uomini, dato che nuove tecniche lavorative

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richiedevano un sempre maggior numero di artigiani e artisti. All’esterno erano sorte due necropoli con cappelle e camere funerarie sotterranee che gli scavi hanno fatto emergere con i loro manufatti e documenti preziosi. Un po’ discosti erano stati edificati diversi piccoli santuari per le divinità locali, delle abitazioni per il personale di supporto e recinti per gli animali. I materiali ritrovati nel sito di Deir el Medina, tra cui migliaia di frammenti di papiri e ostraka (pezzi di calcare con una superficie abbastanza liscia utilizzati per scrivere e disegnare), si sono rivelati un ricco archivio di informazioni, non solo sulle attività lavorative, ma anche sulla vita privata degli abitanti. Essi infatti riportano contratti d’affitto, di vendita, lettere tra padri e figli, denunce, preghiere alle divinità, perfino le molte liti per gli asini… e poi processi che registrano fedelmente le parole pronunciate dai protagonisti, dai testimoni, dalla Corte che era formata dagli uomini più considerati del villaggio. La scrittura usata era lo ieratico, molto più semplice del geroglifico. C’era la vedova che reclamava i suoi diritti ereditari, l’operaio che denunciava il furto di un piccone, il caposquadra accusato di molestie sessuali, lo scriba della necropoli che annotava dettagliatamente gli scioperi avvenuti durante il regno di Ramses III… vivaci squarci sulla vita sociale di una comunità che ebbe una sua evoluzione nei circa 400 anni di storia del villaggio. E che ci fanno capire come, in realtà, essa fosse formata da uomini e donne non molto diversi da noi.

La 4a di copertina: Madonna con il Bambino in trono e quattro santi Palma il Vecchio (1480 circa ­ 1528)

di Renzo De Zottis

Oltre alle numerose ville, il territorio di Mogliano Veneto può vantare altre preziose perle artistiche spesso poco conosciute. Una di queste è senz’altro la pala che troneggia sull’altare maggiore della chiesa parrocchiale di S.Elena a Zerman. Ne è autore il bergamasco Jacopo Negretti, passato alla storia dell’arte come Palma il Vecchio per distinguerlo dal pronipote Jacopo Negretti Palma il Giovane, pittore altrettanto valente. L’opera venne commissionata tra il 1518 e il 1520 in occasione dei lavori di ricostruzione dell’edificio, non è certo se dalla fabbriceria della chiesa o dalla nobile famiglia veneziana dei Da Riva, proprietaria della vicina villa sulla cui facciata si possono ancora scorgere resti di affreschi attribuiti alla scuola del Veronese. La pala raffigura la Vergine col Bambino circondata, da sinistra a destra, da Elena patrona della chiesa, Pietro, Paolo e Giovanni Battista. Ai piedi del trono un angelo musicante. L’opera si inserisce nel filone delle sacre conversazioni, tipica della tradizione pittorica veneziana, dove la parola conversazione deve essere intesa come riunione di un gruppo di santi attorno alla Madonna. Ne sono splendidi esempi nel nostro territorio la pala di Lorenzo Lotto a Santa Cristina del Tiveron e quella di Vittore Belliniano nella parrocchiale di Zero Branco. Anche a Zerman il pittore segue fedelmente l’impostazione compositiva inaugurata dal padre della pittura rinascimentale veneziana, Giovanni Bellini, dando alla raffigurazione un senso di serena solennità grazie a una certa imponenza delle figure, in primis quella della santa patrona. Dietro la Vergine fa da sfondo il cosiddetto drappo d’onore sormontato da una ghirlanda d’alloro oltre al quale si stende un sereno paesaggio veneto e qualcuno ha voluto riconoscere nella torre cilindrica, sullo sfondo a destra, quella eretta dai carraresi tuttora esistente nella vicina Casale sul Sile.

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La 4a di copertina

Tela, riportata da una tavola, 230x150 cm Zerman, Chiesa parrocchiale di Sant'Elena


La TV degli anni ’60: “La cittadella”

L'albero della vita ­ Maggio 2022

Amarcord

di Giuseppe Ragusa Quando il 9 febbraio 1964 il nostro (allora unico) Programma Nazionale cominciò a trasmettere “La Cittadella”, l’Italia venne conquistata dalle storie del dottor Andrew Manson (interpretato da un coinvolgente Alberto Lupo), un medico pervaso da buoni sentimenti e di grande dirittura morale, strenuo combattente per le cause giuste e, insieme, capace di miracoli medici: salva la vita ai neonati, guarisce i pazzi e combatte con successo un male terribile come la tubercolosi. Tratto dall’omonimo romanzo di Archibald Cronin e adattato per il piccolo schermo dal maestro del genere Anton Giulio Majano, il teleromanzo inizia con un anziano dottor Manson ­ divenuto ormai un illustre clinico ­ che riceve nel suo club la visita del giovane medico Grenfell, il quale gli chiede consiglio su

cosa fare trovandosi di fronte a un bivio decisivo per la propria vita: non sa se scegliere la professione medica come missione verso la società umana o gettarsi su una carriera brillante e redditizia. Andrew accoglie il giovane molto benevolmente, non gli indica una scelta precisa ma, essendosi trovato lui stesso, da giovane, tormentato dai medesimi dubbi, inizia a raccontargli la propria vita passata.

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Racconta che quando era un giovane medico, animato da appassionati ideali umanitari, aveva iniziato la sua carriera professionale a Blaenelly, un piccolo villaggio minerario del Galles, un impatto con un ambiente molto duro e insidioso. Lì conosce Cristina Barlon, un'affascinante maestrina di cui s'innamora e che diviene la sua sposa. Andrew gradualmente si rende conto che la sua nobile professione può diventare un mezzo disinvolto per fare soldi nella grande città; basta mettere da parte gli scrupoli e adattarsi a compromessi poco degni. Nonostante l’opposizione della moglie, inizia a tradire i suoi ideali, finché, disgustato dal cinico comportamento di alcuni suoi colleghi, abbandona tutto e ritorna alla vita di prima. Un destino crudele è però in agguato: Cristina muore in un incidente lasciandolo in una desolata amarezza. Manson viene attaccato da alcuni colleghi per alcune sue scelte terapeutiche non autorizzate ma efficaci e finisce davanti ad una severa commissione dell’Ordine dei medici; alla fine trionferà e continuerà ad essere un medico coscienzioso e onesto. Commosso da questa storia, il giovane Grenfell deciderà infine di andare a lavorare con Manson. Lo sceneggiato conobbe un grande successo televisivo, grazie anche alla bravura degli altri attori del cast, tra i quali Anna Maria Guarnieri (nel ruolo di Cristina), Carlo Hintermann, Eleonora Rossi Drago, Laura Efrikian. Il Manson di Alberto Lupo – che paradossalmente veniva fermato per strada per avere una ricetta, un consulto, un consiglio terapeutico – divenne il paradigma del “bravo medico” interessato esclusivamente alla salute dei propri pazienti, redento dopo avere rischiato di cedere alla tentazione del denaro.


Chissà chi lo sa?

di Albachiara Gasparella

Amarcord

E’ bastato il nome di una località sul mare tra Agrigento e Mazara del Vallo: Sciacca. Non sono mai stata in quella cittadina e nemmeno ho conosciuto qualcuno di quelle parti, eppure quel nome mi è suonato familiare. Come capita in questi casi, la memoria si è messa in moto ed ha iniziato a rovistare tra le carte dei ricordi finché non ha pescato quella giusta. Sciacca mi ha condotto ad un programma televisivo per ragazzi del quale era stata protagonista per numerose puntate una classe delle scuole medie proprio di quella città. La squadra era caduta soltanto nello scontro finale con una classe della Lombardia. Questo gioco a quiz era CHISSA’ CHI LO SA? ed andava in onda il sabato pomeriggio. Iniziato nel Luglio del 1961, ha avuto ben tredici edizioni ed ha chiuso i battenti definitivamrnte nel 1972. L’ideatore era stato Cino Tortorella, meglio noto come “ Il mago Zurlì “e la conduzione era affidata a Febo Conti che, al grido di “ Squillino le trombe, entrino le squadre”, dava inizio alla competizione. Il conduttore teneva in mano una cartellina sul cui frontespizio era stampato un evidente ed eloquente punto interrogativo e infatti, il suo interno custodiva le domande di cultura elementare a cui gli sfidanti dovevano rispondere, nonché semplici indovinelli e una serie di indizi utili a scoprire personaggi misteriosi.

Una Enciclopedia, destinata alla scuola di appartenenza, era il premio per la squadra vincente e curiosamente faceva il suo ingresso sulla scena sopra un carrello spinto a mano da un addetto. Ma la tensione della gara veniva stemperata dall’esibizione di artisti del mondo dello spettacolo come Fabrizio De André, Enzo Jannacci, Gino Bramieri, Paolo Villaggio… e dagli incontri con personaggi del mondo del lavoro e della politica disposti a dialogare con i ragazzi per soddisfare le loro curiosità ed anche per dispensare consigli per le loro future scelte professionali. Purtroppo, di CHISSA’ CHI LO SA? non c’è più traccia negli archivi della Rai, tuttavia penso che sia rimasta nella memoria di tanti ragazzi della mia generazione come una trasmissione istruttiva ed educativa, coinvolgente e indimenticabile. Walter Veltroni la ricorda con queste parole:”Noi che abbiamo visto quei ragazzi giocare siamo, in fondo, l’unica testimonianza che c’è stato davvero un giorno per tanti anni, un meraviglioso programma per milioni di ragazzi del sabato pomeriggio.”

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La mostra de “I Capricci” di Goya al Brolo

L'albero della vita ­ Maggio 2022

Arte

di Giuseppe Ragusa Nella bella e assolata mattina del 26 Marzo, alla presenza del Sindaco, dell’Assessore alla cultura e di un attento pubblico si è inaugurata al Brolo di Mogliano la mostra dedicata ai “Los caprichos” (I Capricci) di Francisco Goya. E’ il secondo appuntamento della rassegna artistica “Inferno Paradiso – La nascita della sensibilità moderna”, iniziata nell’Ottobre dello scorso anno con la mostra “Gustave Dorè illustra il Poema Dante” e che continuerà, sempre quest’anno, con una terza mostra “Los Desastres de la Guerra”, un altro ciclo di 82 incisioni dello stesso Goya, che denunciano atrocità, crudeltà, terrore, ingiustizia, miseria e conseguenze fatali della guerra. I Capricci, la cui preparazione impegnò Goya dal 1793 al 1798 (il periodo della sua massima maturità artistica), sono 80 incisioni che mettono in luce, con taglio crudo e diretto, i vizi e le miserie umane della società contemporanea del Maestro spagnolo. Sono immagini, che in chiave allegorica, umoristica e satirica si propongono come una critica morale di ogni classe sociale, una critica pungente verso la società, le donne, il matrimonio, la stupidità, la stregoneria e le sue pratiche funeste, e infine contro i monaci e tutte le forze oscure dell’intolleranza. Tra le incisioni presenti nella mostra troviamo la celeberrima acquaforte n° 43 intitolata “Il sonno della ragione genera mostri”. La scena raffigura un uomo sprofondato nel sonno, con la testa appoggiata di lato su un tavolo (verosimilmente lo stesso Goya) e, alle sue spalle, una folla di animali notturni che sono solo il frutto della sua immaginazione. Lo stesso Goya, simpatizzante illuminista, ci ha tramandato la spiegazione: «La fantasia abbandonata dalla ragione genera mostri impossibili: unita a lei è madre delle arti e origine delle meraviglie» . Secondo Goya, dunque, la fantasia che è alla base di tutte le creazioni, crea mostri quando le manca il supporto della ragione; ma quando fantasia e ragione collaborano, in un intimo connubio tra regola e genio, essi danno vita a uno strumento dalla potenza inesauribile. Ad affiancare le opere di Goya, nella mostra sono presenti altre prestigiose incisioni di Hogarth, Rembrandt, Tiepolo e Piranesi. Dobbiamo la realizzazione delle tre mostre in programma al Brolo all’opera infaticabile e meritoria del professore Angelo Zennaro, Presidente del Centro Artistico Culturale G.B. Piranesi, che si è avvalso della collaborazione di insigni studiosi, quali il Professor Giandomenico Romanelli e il dottor Giovanni Bianchi, e di alcuni giovani ed entusiasti volontari. Un plauso va anche alla nostra Associazione che ha contribuito a finanziare la realizzazione dei cataloghi completi delle tre mostre, una preziosa opera editoriale di alta qualità e di grande valore bibliografico, che conferma il ruolo indiscusso del libro come insostituibile veicolo di sapere. Aderendo da subito e con entusiasmo a questo evento, l’Unitre di Mogliano Veneto continua ancora una volta a svolgere il suo ultratrentennale ruolo di volano culturale della comunità moglianese al di là delle oggettive difficoltà che questi tempi tristi comportano.

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“I papaveri” è una delle tele più celebri di Claude Monet e dell'Impressionismo pittorico in generale, la si può ammirare al Musée d’Orsay di Parigi. La scena è ambientata in campagna durante un giorno d’estate. L’artista ha voluto concentrare la sua attenzione sugli effetti della luce e del colore: la luce assume il ruolo di protagonista, impadronendosi ed esaltando ogni elemento raffigurato. Il dipinto è diviso in due parti: in alto vediamo un cielo azzurro quasi completamente velato da grandi nuvole bianche sfilacciate dalla brezza leggera, in basso il cromatismo è più accentuato, a sinistra domina il colore rosso dei papaveri che sono sparsi qui e là, mentre a destra invece domina il prato senza particolare vegetazione, realizzato con un colore che è miscelato tra il verde ed un tocco di blu. La linea di demarcazione è scandita dagli alberi che danno ritmo ed equilibrio alla scena. La tecnica per la realizzazione dei papaveri è molto interessante: Monet per prima cosa ha realizzato con una spolverata di colore la base per i fiori e successivamente ha perfezionato le forme utilizzando delle macchie di colore, per mettere in risalto il gran numero di questi fiori e per non renderli tutti uguali, ma belli da vedere e non ripetitivi. I papaveri che sono in primo piano sono leggermente più grandi rispetto a quelli che si trovano in fondo, e questo dà un senso di profondità al dipinto. Ne “I papaveri”, Monet ha rappresentato due figure umane, la moglie Camille e il figlio Jean, immersi tra la moltitudine dei papaveri. Sono raffigurati due volte nel quadro, in primo piano e sullo sfondo, sulla sommità della collina: la loro presenza crea un senso di movimento lungo il sentiero in discesa, ravvivata anche dalla leggera brezza di vento. I lineamenti delle figure non sono definiti, perché all’artista non interessa caratterizzarli psicologicamente. La presenza umana è solo un accessorio, quasi un elemento di contorno rispetto al suo vero interesse, rappresentato dalla natura rigogliosa, dallo splendore della giornata d’estate, dal cielo azzurro solcato dalle nubi. Va ricordato comunque che i lineamenti non nitidi delle persone sono uno dei caposaldi tipici del movimento impressionista.

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Arte

“I papaveri”, di Claude Monet di Barbara Guerra



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