Umbria in voce magazine numero quattro

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di Daniele Sannipoli

Vive di corpi che sanguinano e palpitano questa riscrittura di “Antigone”, corpi di tombe vuote, corpi troppo fragili per sostenere il cielo smaltato e muto che incombe indifferente su Tebe. Apparentemente, nulla è cambiato dalla celebre opera di Sofocle: Polinice è ancora insepolto, preda della pioggia e dei cani; Creonte, re di Tebe, è ancora furente e indomito nella sua ostinazione; Antigone ancora non recede di un passo di fronte a un potere che vuole privarla di quello che la legge del sangue impone. Eppure già dalle parole di apertura, che qui sono affidate all’indovino Tiresia, il tempo trascorso ci si spalanca di fronte con il peso del suo inappellabile incedere: è il tempo di un mondo frantumato, quello della “povertà estrema”, il tempo della solitudine esistenziale di personaggi troppo umani per essere eroi, ma troppo simili a noi per non essere tragici. Se lo strappo nel cielo di carta ha fatto di Oreste Amleto, allora la cifra di questo teatro è il dubbio: non un dubbio filosofico o razionale, ma un dilemma talmente primitivo e radicato nell’uomo da farlo titubare di se stesso e del suo istinto di auto-conservazione. Prima ancora della politica, prima ancora dei tronfi discorsi pubblici, nelle stanze segrete del palazzo e dell’io, di fronte a uno specchio, è Creonte a manifestare su di sé i segni di un’anima frantumata, il dolore di un uomo che ha perduto l’amore e con esso le leggi della vita. Gli fa da contrappunto il figlio Emone, promesso sposo di Antigone, che sgrana il tempo della fine per non affrontare il suo amore destinato a morire: la sua voce cristallina e trasparente illumina per qualche istante il cieco rotolare degli eventi e prova a recuperare il fondo sdrucciolevole di anime alla deriva. Pure Euridice, sua madre e moglie di Creonte, fallisce il ritorno alla vita, stretta da un Orfeo che ha rinunciato alla forza dell’arte di fronte al peso di una esistenza che non ha scelto. Amore, vita, morte, dolore e solitudine vibrano nelle voci di personaggi alla fine scrostati dalla patina talora algida che si accompagna alle opere classiche. Il fatto è che tra Creonte, Antigone ed Emone il lettore non sempre sa scegliere: ognuno ha le sue ragioni, ognuno porta con sé le stigmate del suo dolore, ognuno in fondo merita la nostra comprensione. E solo ora in fondo scopriamo che il tragico è tutto qui: in una vita in cui ogni scelta si strugge nelle contraddizioni delle sue conseguenze. La casa editrice abruzzese “Daimon Edizioni” e la sua direttrice, Alessandra Prospero, hanno deciso di pubblicare questo libro in un anno difficile, un anno di teatri chiusi, di cadaveri trasportati in convogli militari, di famiglie separate, di affetti sospesi e solitudini impreviste, riconoscendo in “Antigone” la capacità di essere sempre contemporanea al suo tempo. Perché ognuno di voi si è posto, almeno una volta, le domande eterne che emanano dalle voci di questi personaggi e ognuno di voi le ha già riconosciute come sue.

Le Shaggs,meglio dei Beatles

Tra il cielo muto e un corpo insepolto: Antigone ancora ci somiglia

Avrò avuto circa 8 anni, mia nonna mi regalò una pianola Bontempi anni ‘80 che, una volta accesa, faceva suppergiù lo stesso rumore di un aereo della RAF in volo sopra Dresda. Le flebili note che ne uscivano erano però per me motivo di grande orgoglio. Quelle composizioni totalmente spontanee mi sembravano non dico capolavori, ma oh, c’era qualcosa. Anche le sorelle Wiggin, di Freemont, nel New Hampshire, avevano una nonna che ha segnato il loro rapporto con la musica. La differenza sta nel fatto che la loro, nel tempo libero, si occupava di Chiromanzia. La leggenda vuole che leggendo la mano al figlio, la signora predisse che avrebbe sposato una donna “strawberry blonde”, che avrebbe avuto tre figlie e che queste avrebbero formato una band di fama mondiale. Passano gli anni e Austin, questo il suo nome, si sposa con una donna come quella della profezia; nascono poi Dorothy, Betty e Helen, che per i meno poliglotti sono tre nomi femminili. Avveratisi quindi due punti su tre, il padre decide di andare incontro al destino e, appena le ragazze raggiungono un’età adeguata, le ritira da scuola, compra due chitarre, una batteria e le mette in cantina a suonare. Nascono così le Shaggs e il 15 giugno 1969 (un giorno prima di Trout Mask Replica) esce “Philosophy of the world”. Il disco è semplicemente allucinante, scordato, scoordinato, stonato; 12 tracce composte e suonate senza la minima nozione tecnica. Esattamente come me con la pianola Bontempi: la creatività più pura e incondizionata. Tra le intenzioni delle Shaggs, però, non c’era certo quella di diventare di culto nella scena alternativa. Loro stavano soltanto tentando di imitare la musica di successo all’epoca, di raggiungere la fama il prima possibile. Per fare questo non hanno utilizzato però delle progressioni apprese durante qualche lezione. Non sapendo né cantare né suonare, si sono inventate il loro modo di farlo. I testi bambineschi accentuano, per contrasto, la tristezza e la cupezza della storia delle Shaggs, aiutando a rendere tutta questa storia ancor più epica e surreale. “My Pal Foot Foot” è perfetta come filastrocca di un film horror. Con un po’ di coraggio si può dire che il loro suono sta involontariamente alla base di quello che sono Garage Rock, Low-fi e, grazie alla loro storia e alla loro persona, il concetto di Outsider Music. Kurt Cobain aveva “Philosophy of the world” nella lista dei suoi 50 dischi preferiti, mentre per Frank Zappa erano “better than the Beatles”. Ma sapete che cos’è che mi fa davvero impazzire delle Shaggs? Siamo nel 2021, non hanno fatto tour internazionali, non hanno fatto i milioni con le loro canzoni, ma io sono qui e ve ne sto parlando. Quella pazza della nonna aveva azzeccato pure questa.

di Sebastiano Ramacci

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