LA CITTA' , SPECCHIO DELLA SOCIETA'

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LA CITTÀ, SPECCHIO DELLA SOCIETÀ 1


In copertina: vetri specchianti geometrici sulla facciata di un edificio di Bilbao riflettono l’immagine frammentata degli edifici circostanti. Quasi una metafora della città contemporanea. Foto di Laura Facchinelli.


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Rivista quadrimestrale gennaio-aprile 2018 anno XVIII, numero 50

83 UN CAMION CHE PASSA É MUSICA? dI Ricciarda Belgiojoso

Direttore responsabile Laura Facchinelli

5 LA CITTÀ, SPECCHIO DELLA SOCIETÀ

Direzione e redazione Cannaregio 1980 – 30121 Venezia

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e-mail: info@trasportiecultura.net laura.facchinelli@alice.it

di Laura Facchinelli di Laura Facchinelli

13 BREVI NOTE SULLA CONDIZIONE ATTUALE DELLA CITTÀ di Franco Purini

Comitato Scientifico Oliviero Baccelli CERTeT, Università Bocconi, Milano Paolo Costa già Presidente Commissione Trasporti Parlamento Europeo Giuseppe Goisis Università Ca’ Foscari, Venezia Massimo Guarascio Università La Sapienza, Roma Giuseppe Mazzeo Consiglio Nazionale delle Ricerche, Napoli Cristiana Mazzoni Ecole Nationale Supérieure d’Architecture, Strasburg Marco Pasetto Università di Padova Franco Purini Università La Sapienza, Roma Enzo Siviero Università Iuav, Venezia Zeila Tesoriere Università di Palermo - LIAT ENSAP-Malaquais Maria Cristina Treu Politecnico di Milano La rivista è sottoposta a double-blind peer review Traduzioni in lingua inglese di Olga Barmine La rivista è pubblicata on-line nel sito www.trasportiecultura.net 2018 © Laura Facchinelli Norme per il copyright: v. ultima pagina Editore: Laura Facchinelli C.F. FCC LRA 50P66 L736S Pubblicato a Venezia nel mese di aprile 2018

Autorizzazione del Tribunale di Verona n. 1443 del 11/5/2001 ISSN 2280-3998 / ISSN 1971-6524

19 TRASFORMAZIONI IN CORSO, DELLA CITTÀ E DELLA SUA GENTE di Giandomenico Amendola

25 CITTÀ: MEMORIA, INNOVAZIONE, IDENTITÀ Intervista ad Alberto Ferlenga a cura di Laura Facchinelli e Oriana Giovinazzi

31 IL PAESAGGIO URBANO COME INTERPRETE DELLE SFIDE DELLE CITTÀ DI OGGI E DOMANI di Andreas Kipar

39 CONDIZIONI DELL’ABITARE E POLITICHE URBANE IN ALCUNE ESPERIENZE EUROPEE: NUOVE SFIDE PER IL PROGETTO DELLA CITTÀ

89 DALLE NUOVE PRATICHE DI MOBILITÀ AL PROGETTO: LETTURE SENSIBILI DI SHANGHAI di Cristiana Mazzoni e Irene Sartoretti

97 BRIDGING WORLDWIDE. APPUNTI DI VIAGGIO di Enzo Siviero

103 LISBONA. TRASFORMAZIONI DI UNA CITTÀ EUROPEA di Giuseppe Mazzeo

111 NUOVI SCENARI URBANI PER LA MILANO DEL 2050 di Maria Cristina Treu

119 VENEZIA SOPRAVVIVRÀ AL TURISMO 4.0? di Paolo Costa

125 TEMA JOURNAL OF LAND USE, MOBILITY AND ENVIRONMENT: L’ESPERIENZA DEL PRIMO DECENNIO di Rocco Papa e Anna La Rocca

di Chiara Mazzoleni

47 DALLA RACCOMANDAZIONE UNESCO ALLA CITTÀ CREATIVA: QUALE FUTURO? di Viviana Martini

51 LA CITTÀ, I CITTADINI E LA MOBILITÀ SOSTENIBILE. NOTE DI STORIA RECENTE di Stefano Maggi

59 L’ENERGIA DELLA CITTÀ. ABBIAMO VISSUTO 150 ANNI IN UNA BOLLA ENERGETICA di Emanuele Saurwein

67 ARCHITETTURE DEL CORPO URBANO. PERCHÈ LA CITTÀ DI OGGI NON É RAPPRESENTATIVA di Zeila Tesoriere

75 MUSEI, SPECCHIO DELLA SOCIETÀ. I CAMBIAMENTI IN AMBITO ESPOSITIVO E MUSEALE NELL’OTTICA DEL-

LA PSICOLOGIA ARCHITETTONICA di Leonardo Tizi e Francesca Pazzaglia

131 DALLA POLIS ALLA COSMOPOLIS: CONSIDERAZIONI SUL CON-VIVERE E LE SUE METAFORE di Giuseppe Goisis

137 CARATTERI PERCETTIVO-ESPRESSIVI DELLA FORMA ARCHITETTONICA CONTEMPORANEA NELLA VALORIZZAZIONE DELLE IDENTITÀ PARTICOLARI di Michele Sinico

143 LA CITTÀ NEL DIBATTITO CONTEMPORANEO, FRA TRADIZIONALI QUESTIONI E NUOVE SFIDE. CONVEGNO INU A NAPOLI di Marichela Sepe

149 BIENNALE ARCHITETTURA, ALLA RICERCA DELLA LIBERTÀ di Laura Facchinelli


TRASPORTI & CULTURA N.50

The city, a mirror of society by Laura Facchinelli

The theme of this issue of the magazine – number 50, an important milestone in our history – springs from the experiences we have matured over the years, covering the themes of building in the landscape. First and foremost, building infrastructural works (railways, roads, viaducts...) that have significant impact given their size and their life cycles. Building condominiums, warehouses, and a growing number of shopping malls, which transform the suburbs. Building inside urban areas, and in particular in metropolises, where skyscrapers are proliferating. The questions we raise regard the present and the future of our cities. The crucial theme of our magazine is in fact the built landscape. We address it fully aware of the needs of the modern age, of the understandable drive towards development, where building a new railway line, for example, means progress in terms of a more rapid transportation system open to everyone, fundamental when it improves the connection between nations, and with utmost consideration of the need to preserve the territories they run through, a protection that requires an effective and respectful project, with citizen participation. In the case of the city, which we now deal with, the quality of the project determines the beauty or lack of harmony of a place, positively or negatively influencing the living environment and staking an often-irreversible claim on the future. We have often highlighted how rich in history our city squares are, with immortal works by the giants of architecture, and even the more modest buildings of centuries past now appear precious to us, when compared to certain buildings from recent decades. We used to build with solid materials, which would ideally last “forever”, while in more recent times – out of lack of judgement, or small-minded calculation – we just build. So much for the comparison between past and present in Italy. But the scope of our questions is a wider one. Wider in geographic terms, as we observe that metropolises in various continents are growing immeasurably and often look the same, they have no identity. But our horizon is wider in terms of time too, as we review the latest trends in architecture which, while capable of soaring innovation, sometimes disrupt our visual horizons with arrogant and sterile scenographic constructions, ill-suited to advance the language of architecture, and doomed, sooner or later, to be replaced by newer trends. At the same time, new demands are making way, founded on the participation of citizens, who have become active in shaping places in the manner most suited for their own existence. There is a growing dissemination of technical research and personal awareness aimed at a more sensible forward-looking use of our energy resources. And these needs are already orienting some designers. Over the past decades, the world has changed radically. We are the ones who have changed it. Disoriented as we are by the general collapse of values, dazed by rampant technology, fearful of the threats amplified in the shapeless sea of the web – even in the construction of buildings and city squares we project our contingent choices, our uncertainties. The places that change, in terms of physical attributes, are therefore a mirror that reflects the image of who we are. And that is the theme of this issue which analyses the changes to the mirrorcity, merging the different interpretations of Architecture, Philosophy, Sociology, Psychology, History and the Arts. To build this scenario made of many voices, we have called upon the authors who have collaborated with our magazine throughout its eighteen years of existence. Many have answered the call. The result is a highlyarticulated overview, ranging between the complexity of academic essays and the light-hearted tone of travel notes. There are stories of two Italian cities committed on two different fronts: one is oriented towards innovative ambitious architectural projects, the other is besieged by a growing number of tourists, and risks being overwhelmed. We duly address the theme of sustainable mobility, and there is valuable testimony of a joint effort between two continents. Some articles are surprising, such as the one that links architecture and music. And there is an article from the editors of a university magazine that addresses issues very close to our own. In the pages that follow, we present a sweeping overview of the city that helps us to reflect on our own way of being.

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TRASPORTI & CULTURA N.50

La città, specchio della società di Laura Facchinelli

Il tema di questo numero della rivista – il numero 50, un traguardo per noi importante – nasce dalle esperienze maturate in questi anni, lungo il filo conduttore delle modalità del costruire nel paesaggio. Costruire le infrastrutture innanzitutto (ferrovie, strade, viadotti…), che hanno un grande impatto per le loro dimensioni e la durata nel tempo. Costruire condomini, capannoni, sempre più spesso centri commerciali, che trasformano le periferie delle città. Costruire all’interno delle aree urbane, e in particolare nelle metropoli, dove si moltiplicano i grattacieli. Ci poniamo interrogativi sul presente e sul futuro delle nostre città. Il nodo cruciale della nostra rivista è infatti quello dell’ambiente costruito. Lo affrontiamo tenendo ben presenti le esigenze della modernità, il doveroso impulso allo sviluppo, là dove il costruire – per esempio – una nuova linea ferroviaria costituisce un progresso in termini di un servizio di trasporto più veloce a disposizione di tutti, fondamentale quando si possono migliorare i collegamenti fra le nazioni. Con la massima considerazione per le istanze di tutela dei territori attraversati, tutela che presuppone un progetto efficace e rispettoso, condiviso con le popolazioni. Anche nel caso della città, della quale ora ci occupiamo, la qualità del progetto determina la bellezza o disarmonia di un luogo, influenzando in modo positivo o negativo l’ambiente vita e ipotecando il futuro, spesso in modo irreversibile. Abbiamo sottolineato più volte che le piazze delle nostre città sono ricche di storia, con testimonianze immortali dei grandi dell’architettura, e anche gli edifici più modesti dei secoli passati ci appaiono preziosi, se confrontati con certe costruzioni degli ultimi decenni. Prima si costruiva con materiali solidi, idealmente “per sempre”, mentre in seguito – per incapacità di giudizio, o per gretto calcolo di utilità – si è costruito e basta. Fin qui il confronto fra passato e presente nel nostro paese. Ma ci poniamo interrogativi anche in un orizzonte più ampio. Più ampio in termini geografici, per constatare che le metropoli nei diversi continenti crescono a dismisura e sono ormai, spesso, omologate e prive di identità. Ma l’orizzonte può essere più ampio anche in termini temporali, per cogliere le nuove tendenze dell’architettura, la quale, se è capace di slanci innovativi straordinari, talvolta stravolge il nostro orizzonte visivo con scenografie arroganti quanto sterili, inadatte ad evolvere il proprio linguaggio, tanto che saranno sostituite, presto o tardi, da altre mode. Contemporaneamente, però, si affermano istanze opposte, che vogliono i cittadini protagonisti, e anzi li vedono attivi nel modellare i luoghi nei modi adatti alla propria esistenza. Sempre più si diffondono ricerche tecniche e sensibilità personali volte a un uso sensato e lungimirante delle risorse energetiche. E queste esigenze già orientano alcuni progettisti. Da alcuni decenni il mondo sta cambiando, radicalmente. A cambiarlo siamo noi. Noi che - disorientati nel generale crollo dei valori, storditi dalla tecnologia galoppante, timorosi per le minacce amplificate nell’oceano informe del web – anche nel costruire edifici e piazze proiettiamo le nostre scelte condizionate, le nostre incertezze. Pertanto i luoghi che cambiano, nella loro fisicità, costituiscono uno specchio che ci rimanda l’immagine di quello che siamo. Ed ecco il tema di questo numero che analizza i cambiamenti della città-specchio, accostando le modalità interpretative dell’Architettura, della Filosofia, della Sociologia, della Psicologia, della Storia, delle Arti. Per costruire questo scenario a più voci, abbiamo interpellato gli autori che hanno collaborato con la rivista nei 18 anni della sua esistenza. Hanno risposto in tanti. Ne risulta un panorama molto articolato, dalla complessità delle trattazioni accademiche alla leggerezza degli appunti di viaggio. Si parla di due città italiane impegnate su versanti differenti: una è orientata su progetti architettonici ambiziosi e innovativi, l’altra è assediata da un numero di turisti sempre crescente, rischiando di restarne travolta. Si affronta, doverosamente, il tema della mobilità sostenibile, ed è preziosa la testimonianza di un lavoro comune fra due continenti. Alcuni articoli sono sorprendenti, come quello che intreccia l’architettura con la musica. Hanno scritto anche i responsabili di una rivista universitaria che affronta argomenti a noi molto vicini. Nelle pagine che seguono presentiamo pertanto un affresco sulla città che ci aiuta a riflettere sul nostro modo di essere.

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I PRIMI DIECI ANNI 35

rivista di architettura delle infrastrutture nel paesaggio

STRADE E PAESAGGIO

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RIPROGETTARE L’ESISTENTE

ALTA VELOCITÀ, INGEGNERIA E PAESAGGIO

STAZIONI E CITTÀ

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TRASPORTI & CULTURA N.50

50 numeri di Laura Facchinelli

Una bellissima esperienza. Questa è la definizione che mi viene spontanea pensando alla sfida che, dall’ormai lontano 2001, ci ha accompagnato nell’impegno dei vari numeri della rivista Trasporti & Cultura fino a questo numero 50.

Una rivista libera La rivista nasce da una convinzione: il mondo dei trasporti è straordinariamente ricco, richiede approcci differenti sul piano tecnico-specialistico, ma è anche legato alle discipline umanistiche ed è una chiave di lettura interessante, potrei dire imprescindibile, delle trasformazioni del territorio e della società. Nella mia vita professionale (legata, per quanto riguarda i trasporti, alle ferrovie) ho constatato che erano tenute in considerazione soltanto le prescrizioni, legittimamente rigorose, dell’ingegneria e le programmazioni economiche, indubbiamente necessarie. In senso più ampio, quando ho fondato la rivista non c’era interesse per le infrastrutture di trasporto come tema culturale: strade, ferrovie, aeroporti ecc. erano considerati realtà puramente tecnico-funzionali. Riguardavano l’ingegneria. Erano considerate necessarie. Sul piano paesaggistico, semplicemente “c’erano”, dovevano essere “sopportate”. Ben pochi progettisti o docenti nelle Facoltà di Architettura si ponevano il problema del “come progettarle”. Perché le infrastrutture non erano considerate un tema interessante. Noi della rivista siamo stati, in certo senso, dei pionieri. I primi ad avere l’idea di mettere insieme i “Trasporti” (e le relative infrastrutture) con la “Cultura”. La storia dei trasporti - in gran parte ancora da esplorare nelle sue molteplici diramazioni - è legata intimamente alla grande storia delle nazioni. E la forma, i materiali, gli spazi delle stazioni ferroviarie e degli autogrill, dei porti e degli aeroporti, di ponti, viadotti e gallerie segnano un’evoluzione – sul piano architettonico e urbanistico - che ha avuto effetti rilevanti sulle città e sul territorio. Inoltre le modalità e i luoghi dei trasporti influenzano la vita quotidiana di ciascuno, con implicazioni psicologhe e importanti elementi per un’analisi dei mutamenti sociali, e motivi di ispirazione per le narrazioni degli scrittori e le creazioni degli artisti, dei registi cinematografici, dei musicisti: insomma di tutti coloro che colgono la realtà non per analisi razionalmente concepite ma per intuizione, per connessioni culturali, per lettura delle emozioni, schiudendo altre dimensioni...

50 issues by Laura Facchinelli The opening article illustrates the aims behind the foundation of the magazine Trasporti & Cultura, which has now reached the important milestone of 50 issues. It is an independent magazine, founded on the awareness that transport is not merely a specialist technical matter, but is closely related to the humanistic disciplines, and furthermore provides an interesting key to understanding the transformations of the territory and of society. Hence the name of the magazine. Many are the initiatives launched by the magazine. First and foremost, the Premio Trasporti & Cultura, an award for essays on the subject, the 12th edition of which was held this year. Then the Paesaggi Futuri study group, which gathers engineers, architects, psychologists, lawmakers, professors of philosophy and literature, and experts in the arts to engage in dialogue. The Paesaggi Futuri Literary Award highlights narrative works that show awareness towards the environment that surrounds us. Many conferences have also been organised to focus on specific issues.

Nella pagina a fianco, le copertine di alcuni numeri della rivista, in sequenza.

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LOGISTICA, SVILUPPO E AMBIENTE

CITTÀ SOTTERRANEA CITTÀ SMART

PORTI E CITTÀ

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INGEGNERIA E PAESAGGIO PROGETTI INTEGRATI PER IL TERRITORIO

GRANDI ATTRAVERSAMENTI

PERIFERIE, LUOGHI DELLE TRASFORMAZIONI

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1 - Continua la serie delle copertine, fino a quella del n. 45.

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È stata la constatazione di questi vuoti di conoscenza, di queste assenze, a ispirarmi la creazione di questa rivista. Per affermare, fin dal titolo, che i trasporti sono cultura. Il tema centrale è stato da sempre quello della qualità del costruire nel paesaggio. Ci siamo messi in relazione con le Facoltà di Architettura. Il Manifesto Paesaggi Futuri, che abbiamo lanciato nel 2004, affermava il diritto della collettività, e il corrispondente dovere degli amministratori della cosa pubblica, di tutelare il paesaggio e, in senso ampio, la cultura del nostro paese, da un lato conservando le ricchezze ereditate dal passato, dall’altro promuovendo uno sviluppo della progettazione che valga a proseguire, in forme rinnovate, la splendida storia dell’Italia nel campo delle arti e dell’armonia fra paesaggio naturale e spazi costruiti, anche a beneficio delle generazioni future. La rivista – che segue una cadenza quadrimestra-

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le ed è impostata sulla modalità del numero monografico, affidato alla cura di uno specialista – da sempre segue criteri rigorosi sul piano dell’approfondimento scientifico, tanto che ha ottenuto il riconoscimento dell’ANVUR. Pur muovendosi prevalentemente nell’ambito delle Università, tuttavia Trasporti & Cultura non nasce in ambito accademico: per questo è stato per noi possibile scegliere di non attenerci a rigidi vincoli specialistici, concedendoci la libertà di spaziare, di numero in numero, fra varie discipline - dall’ingegneria all’economia, dalla psicologia alle arti - sempre seguendo il filo conduttore delle infrastrutture nel paesaggio ed affidandoci, di volta in volta, ad autori esperti. Ciascun esperto porta un contributo approfondito per la propria area di appartenenza. Tutti insieme, un numero dopo l’altro, i differenti contributi tendono a costruire una conoscenza multidisciplinare: l’unica che, secondo noi, può rappresentare la complessità.


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PAESAGGIO E PSICHE

MOBILITÀ INNOVATIVE IN AMBITI URBANI

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Anche il linguaggio rispecchia la libertà di impostazione originaria, tenendo ben presente l’esigenza di chiarezza che è propria della comunicazione giornalistica e della divulgazione di qualità. Trasporti & Cultura è un’esperienza molto particolare, fondamentalmente perché non deve rispondere a nessuno (né impresa economica, né corrente politica, né logica di carriera universitaria). Questo ci dà un piacere impagabile di lavorare - con un piccolo gruppo di persone - solo per la ricerca, portando avanti dei princìpi per un’esigenza, potremmo dire, di impegno civile. La rivista viene pubblicata free access nel sito internet www.trasportiecultura.net, mentre le copie a stampa vengono distribuite in occasione di presentazioni e convegni.

I temi, i convegni, il premio di saggistica I temi affrontati nei numeri della rivista partono dalle infrastrutture per cercare aggiornamenti o agganciare punti di vista insoliti, seguendo idealmente il filo conduttore del paesaggio. Per esempio, sul tema della strada, abbiamo parlato di Strade e città (n. 5), La strada come architettura (n. 6), I bordi della strada, da limite a risorsa (n. 19), La strada come mezzo di comunicazione (n. 23-24), Strade e paesaggio (n. 35). L’abbinamento infrastrutture-sviluppo-paesaggio, nostro filo conduttore, è stato affrontato con riguardo all’ambiente familiare della montagna, Infrastrutture nel paesaggio alpino (n. 18), o spaziando fra opere di proporzioni maestose, realizzate, in programma, o solo pensate in uno slancio visionario: Grandi attraversamenti (n. 41). Abbiamo parlato più volte di trasporti ferroviari: L’Europa delle ferrovie ad alta velocità (n. 13), Alta velocità e contesti regionali (n. 29-30), Alta velocità, ingegneria e paesaggio (n. 37), Ferrovie transalpine: collegamenti internazionale e mobilità locale (n. 48-49). Non meno rilevante il tema stazioni: La stazione ferroviaria dalla storia al progetto (n. 11), Stazioni e città (n. 38). Abbiamo parlato di porti: Il porto come struttura

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urbana (n. 8), Porti e città (n. 41). Di aeroporti: Aeroporti nel territorio (n. 14), Aerometropoli (n. 32). E di intermodalità: Trasporti intermodali, sostenibilità e territorio (n. 21) Grande attenzioni meritava il tema delle trasformazioni urbane: Grandi eventi e sviluppo delle città (n. 27-28), Paesaggi urbani, la storia e il nuovo (n. 33-34), Periferie, luoghi delle trasformazioni (n. 45). Tema che è strettamente legato alla questione mobilità: Binari in città (n. 7), Trasporti per le metropoli del futuro (n. 31), Mobilità innovative in ambiti urbani (n. 47). Ci interessano molto le trasformazioni in corso a livello globale, che si riflettono immediatamente sui luoghi e sulle modalità di vita, proiettandosi sul futuro. L’abbiamo affrontata, questa questione, nel n. 20, Sviluppo economico, paesaggio e identità. L’abbiamo sottintesa in un numero dedicato alla relazione Paesaggio e Psiche (n. 46). La riproponiamo, con convinzione, in questo n. 50, La città, specchio della società. Il mondo cambia e ci cambia. Noi cambiamo il paesaggio che ci circonda. Il paesaggio, e in particolare la città, diventa lo specchio di quello che siamo.

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2 - Altre tre copertine, fino al n. 48-49.

Fin dall’inizio, abbiamo organizzato iniziative di approfondimento dei temi via via affrontati nei vari numeri della rivista. Ed ecco, già nel 2001, tre convegni, in sedi universitarie, con approccio molto libero: uno sui ponti (I ponti. Storia della tecnica e delle forme tra otto e novecento), due sull’automobile (L’automobile. Storia, tecnologia, forma, simbolo e L’automobile nel Veneto. Dalle invenzioni di Enrico Bernardi alle trasformazioni del territorio e della società). Da ricordare anche il convegno del 2002, L’architettura nei trasporti: una netta dichiarazione di intenti (quando, come già detto, la relazione fra architettura e trasporti non era così scontata). Questa la linea d’azione che poi abbiamo seguito negli anni successivi, in collegamento con i temi affrontati nella rivista. Fino al recente convegno di presentazione del numero 48-49 Ferrovie transalpine: collegamenti internazionali e mobilità locale, curato dal prof. Marco Pasetto dell’Università di Padova. Seguirà un incontro a Bolzano, mentre già stiamo organizzando le iniziative in varie sedi per raccontare il numero 50. 9


TRASPORTI & CULTURA N.50 Fin dal 2002 ha preso avvio anche il Premio Trasporti & Cultura di saggistica, del quale si è svolta quest’anno la 12^ edizione. La finalità del Premio - come si legge nel Bando - è quella di “sottolineare la grande importanza delle infrastrutture di trasporto secondo molteplici punti di vista; la consapevolezza dell’influenza che esercitano oggi più che mai - in particolare sul paesaggio e dunque, in senso ampio, sulla nostra vita; l’urgenza che siano ispirate a criteri di qualità architettonica e di corretto inserimento nel contesto. Quest’anno hanno partecipato al concorso 23 libri, fra i quali la giuria – costituita da Paolo Costa (presidente), Mariolina Besio, Agostino Cappelli, Laura Facchinelli, Oriana Giovinazzi, Michelangelo Savino, Enzo Siviero – ha scelto i libri vincitori, uno per ogni sezione. La proclamazione dei vincitori si è svolta il 14 maggio scorso nel corso di un convegno organizzato a Padova, Aula Magna di Ingegneria, dal Dipartimento Ingegneria Civile Edile Ambientale-DICEA per la presentazione del n. 48-49 della rivista, curato dal prof. Marco Pasetto. Per la prima sezione il premio è stato assegnato al libro Ordinamenti spaziali e infrastrutture. Ripensare le reti per riqualificare il paese, di Sandro Fabbro e Piero Pedrocco (Aracne editrice), per la seconda sezione è stato scelto il libro Quando nacque l’Italia dei trasporti di Umberto Cutolo (Marsilio). Sandro Fabbro e Umberto Cutolo sono intervenuti alla cerimonia.

Il gruppo di studio Paesaggi Futuri e il premio letterario

3 - Copertina del n. 1 di Trasporti & Cultura, settembredicembre 2001. 4 - Un momento del convegno Mestre, scenari di una possibile trasformazione, organizzato dal gruppo di studio Paesaggi Futuri presso il Campus universitario di Mestre.

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Nel 2010, proseguendo sulla linea ideale del citato Manifesto Paesaggi Futuri, abbiamo scelto il nome “Paesaggi Futuri” per un gruppo di studio che mette insieme ingegneri, architetti, psicologi, giuristi, docenti di filosofia e letteratura, esperti delle arti. Il gruppo si riunisce Venezia, ispirandosi un poco ai salotti nei quali, in passato, si incontravano intellettuali, artisti, professionisti di vari settori per discutere sui grandi temi generali, ma anche sui problemi concreti della città, con uno sguardo attento (e, all’occorrenza, critico), sulle trasformazioni in corso. Il nostro gruppo discute, approfondisce, cerca nuove esperienze, organiz-

za iniziative pubbliche. Con la libertà di mettere insieme, per esempio, Ingegneria, paesaggio, musica (è il titolo di un convegno del 2012) e Paesaggio e Psiche (cinque convegni dal 2013 al 2015), Paesaggio-specchio (2016, anticipando il tema di questo numero 50 di Trasporti & Cultura). E sperimentando l’impegno sui temi locali, con i quattro convegni su Venezia, Mestre e Marghera organizzati fra il 2016 e il 2018. Il Premio Letterario Paesaggi Futuri, del quale si sono svolte finora due edizioni, ha la finalità – come si legge nel Bando - di “ricercare, nelle opere di narrativa, l’attenzione al paesaggio come percezione sensoriale ed emozionale dell’ambiente circostante e come testimonianza delle sue trasformazioni”. Due i nodi cruciali, che rispecchiano l’impegno della rivista e del gruppo di studio. Primo: difendere il benessere psicofisico, che è legato alla vivibilità e bellezza dei luoghi. Secondo: realizzare l’equilibrio fra tutela e modernizzazione, anche nel rispetto del patrimonio straordinario, fra natura e cultura, che costituisce l’identità del nostro Paese. Le iniziative organizzate dalla rivista e dal gruppo di studio sono tutte presenti nel sito internet www.trasportiecultura.net. © Riproduzione riservata


TRASPORTI & CULTURA N.50

Il Premio Trasporti & Cultura 12^ edizione Sezione A - Opere che siano frutto di ricerche specialistiche, anche in collegamento con le Università.

Sezione B - Pubblicazioni che sappiano coniugare il rigore scientifico con l’orientamento alla divulgazione.

Libro vincitore: Sandro Fabbro e Piero Pedrocco, Ordinamenti spaziali e infrastrutture. Ripensare le reti per riqualificare il paese, Aracne, Roma, 2016 .

Libro vincitore: Umberto Cutolo, Quando nacque l’Italia dei trasporti, Marsilio, Venezia 2016.

Le motivazioni:

Le motivazioni:

I contributi raccolti in questo volume collettaneo – che riprendono ed ampliano i contenuti di una Giornata INU del 2014 – sostengono in modo deciso che il rilancio del Paese passa per la riqualificazione e rigenerazione di città e territori e, quale condizione necessaria - per una nuova politica di potenziamento dei trasporti e dei sistemi infrastrutturali. A fronte della gestione, fin qui fallimentare, registrata nel nostro Paese, soprattutto per assenza di cultura della programmazione, sia tecnica che politica, con coerenza i saggi del volume affermano l’urgenza di un ripensamento delle competenze. Se lo Stato non sembra assicurare con la sua azione risultati soddisfacenti e le sue politiche risultano poco efficaci perché spesso fondate sulla base di idee “astratte”, sul fronte opposto l’esito riscontrato laddove si sia fatto ricorso al mercato, risulta comunque insoddisfacente, perché questo privilegia interventi remunerativi e di basso impatto sociale. Si propone allora – e questa è la tesi degli autori – che assieme alle valutazioni di impatto economico-finanziario ed ambientale, l’infrastruttura sia valutata anche per gli effetti potenziali sui sistemi urbani e regionali interessati. Si tratta – spiegano i curatori – di attuare un cambio di paradigma: dalla concezione “a-spaziale”, verticistica, ad una “spaziale”, interattiva, basata su un “progetto di territorio”. Quest’ultimo, collocandosi in posizione intermedia tra decisione politica e studi di fattibilità, dovrebbe rendere la decisione in materia di infrastrutture più trasparente e democratica. La proposta viene sostenuta attraverso la presentazione di caso studio concreti, esperienze e buone pratiche in atto. Sottolineando che gli effetti di una mancata riforma delle politiche infrastrutturali “non si riverberano solo sulla legalità e sull’economia del Paese, ma anche sulla sicurezza e la qualità del territorio e sulla bellezza del paesaggio italiano”.

Il libro ricostruisce ragioni, interventi, contesto politico e vicende parlamentari che portarono, nel 1986, all’approvazione del Piano Generale Trasporti. Nell’ambito della compagine socialista al governo matura la convinzione di una necessaria e profonda riforma di un settore che appare vitale e strategico per l’economia del paese, ma anche strettamente legato alla vita quotidiana della popolazione. I lavori per il PGT risulteranno presto un’impresa complessa e senza precedenti, capace di impegnare una commissione, espressione dell’élite della cultura trasportistica, nazionale ed internazionale. Il primo atto di grande rilievo fu l’elaborazione di una mole enorme di dati ed informazioni, prima non disponibili, che restituirono un quadro di frammentazione segnato da vistose contraddizioni. Particolare ammirazione merita il sostanziale accordo di tutte le forze parlamentari e delle diverse parti in causa (dalle amministrazioni alle rappresentanze sindacali) sugli obiettivi da raggiungere; altrettanto sorprendente la celerità con cui si riuscì a giungere alla redazione del documento finale. Il primo Piano generale dei trasporti, partendo da una somma di modalità (ferrovia, strade, porti, aeroporti) separate e in concorrenza tra loro, progettava un sistema unitario, integrato, funzionale, collegato all’Europa. Quel documento ha cambiato completamente l’approccio ai problemi del settore, costituendo uno strumento imprescindibile per la pianificazione degli anni successivi. Per quanto, trent’anni dopo, si debba rilevare il mancato conseguimento di molti obiettivi prefissati e non si sia raggiunto l’auspicato riequilibrio fra il traffico su gomma, in crescita esponenziale, e quello su ferro, con l’integrazione tra modalità diverse di trasporto, il PGT resta indubbiamente una delle poche esperienze di programmazione tentate nel nostro paese. Eppure su questo Piano – come sottolinea l’autore – sembra essere sceso un preoccupante silenzio.

5 - Il presidente della giuria Paolo Costa con la direttrice della rivista Laura Facchinelli e Piero Pedrocco, durante la consegna dei premi. 6 e 7 - Le copertine dei due libri vincitori della 12^ edizione del Premio Trasporti & Cultura.

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Brevi note sulla condizione attuale della città di Franco Purini

Le città dell’età globale, da quelle di medie dimensioni come Milano alle megalopoli ormai numerose tra le quali San Paolo, Città del Messico, Pechino o Shanghai, che sembrano ormai altrettante realtà geografiche in grado di produrre fenomeni climatici importanti più che essere il risultato di interventi umani, sono l’esito in gran parte di una nuova condizione urbana. Questa situazione, che ha una straordinaria evidenza, consiste nel fatto che la vita di queste realtà è costantemente al limite di un possibile collasso, che le distruggerebbe del tutto. Ciò produce una pressione adrenalinica che sottopone a una percettibile e crescente tensione qualsiasi struttura della città. Le questioni ambientali, compreso lo smaltimento dei rifiuti, quella dei trasporti, il problema delle fonti energetiche non esauribili né inquinanti, l’affollamento in alcune circostanze degli spazi pubblici che genera ansie, la minaccia del terrorismo e il suo dispiegarsi troppo spesso improvviso, costituiscono così rischi potenziali e a volte stragi che - e non suoni come un paradosso - contribuiscono a fare della città un insieme di momenti eroici che trovano nei racconti di James Ballard1 la loro motivazione teorica e poetica. Si tratta di una pressione calcolata, attentamente dosata nella sua intensità, che rovescia la ricerca del bene a favore di un’incombenza del male, che si traduce anche in qualcosa di vitale. Ne è prova ad esempio l’abbattimento delle Twin Towers, una tragedia che ha rivelato la fragilità di ogni città, soprattutto delle megalopoli, e al contempo la loro capacità resiliente, come si usa dire oggi con un certo compiacimento. Una resilienza che si sostiene su una promessa di felicità, si potrebbe dire come potente antidoto ad ogni eventuale catastrofe. Prima di esporre alcune ulteriori considerazioni sulla città occorre chiarire che la conoscenza che si può avere di essa è sempre parziale, provvisoria e tendenziosa. È parziale perché, anche se è possibile pensarla come una totalità, la cui espressione simbolica è la forma urbis intesa in tutte le sue espressioni, comprese quelle che segnano il declino di questa nozione, la sua conoscenza, data la vastità e la complessità di ogni insediamento urbano, non può che configurarsi come un insieme di frammenti riguardanti dati storici, aspetti strutturali, valori relativi all’ambiente e al patrimonio architettonico. Tale conoscenza è poi provvisoria perché i processi vitali della città si susseguono con una sempre maggiore velocità. Ciò fa sì che i saperi concernenti gli insediamenti urbani assu1 James Graham Ballard, Cocaine Nights, Baldini e Castoldi, 1997.

Short notes on the current condition of the city by Franco Purini Cities in the global era, rather than the consequence of human design, seem largely to be the result of a new urban condition. This situation, which is remarkably evident, consists in the fact that the life of these realities is constantly on the verge of a possible collapse, which would destroy them totally. The ensuing pressure leads to a growing and perceptible tension that is felt in every structure of the city. Environmental issues, including waste disposal, problems of transportation, inexhaustible nonpolluting energy sources, the crowding in certain circumstances of public spaces that generates anxiety, the threat of terrorism that may strike at any time, constitute potential risks. In recent years, these phenomena and orientations have made it extremely difficult for the design culture to develop incisive and advanced strategies for the future of urban settlements.

Nella pagina a fianco, in alto: veduta di Shanghai, foto di Laura Facchinelli. In basso: traffico a San Paolo del Brasile. Foto: Zé Carlos Barretta/Folhapress Foto, https:// it.wikipedia.org/wiki/ San_Paolo_(Brasile)#/media/File:By_Carlos_Barretta_ stk_001957_(11015688045). jpg

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TRASPORTI & CULTURA N.50 celerazioni o rallentamenti nella rappresentazione delle varie fasi evolutive che essa ha vissuto. Tutto ciò modifica il senso stesso della narrazione storiografica. Infine la conoscenza della città non può non essere di parte perché l’oggettività non esiste e, se esistesse, non sarebbe operante. Senza una visione orientata del mondo non può infatti darsi alcuna interpretazione significativa della realtà, compresa quella della città. È forse superfluo chiarire che quanto esposto finora intende contrastare l’idea, molto diffusa da sempre tra gli architetti e gli urbanisti, che, attraverso analisi sofisticate sulla formazione dei tracciati e dei tessuti, sulla stratificazione edilizia, sulla mobilità e su altri suoi aspetti primari sia possibile, anche con l’aiuto della sociologia, dell’antropologia, dell’economia, delle discipline giuridiche, possedere la città in tutti i suoi ambiti conoscitivi. Occorre pertanto convincersi che i saperi relativi, transitori e orientati di cui si può disporre, raramente possono comunque aprire spazi teorici e operativi sulla città non marginali e duraturi. La “fine del sociale”, di cui ha parlato Alain Touraine2 - il quale ha anche affermato che l’età attuale è quella di un paradossale “individualismo di massa”, ovvero uno “spazio totale dei diritti” ai quali non sembrano però corrispondere i necessari meccanismi compensatori, ovvero momenti necessari di ricomposizione di classi e ceti, al contrario sempre più frammentati e isolati - fa oggi della metropoli, assieme ad altri fattori, l’ambito di una molteplicità di fenomeni, a volte contraddittori. Fenomeni inseriti, oltre che nella “liquidità” baumaniana3, in un consumo sempre più pervasivo e velocizzato come conseguenza di uno sviluppo che si vuole in perenne crescita e in una sfera progressivamente crescente di segnali mediatici che non è più possibile controllare. Parallelamente si fanno più determinati sia la tendenza opposta verso la “decrescita” teorizzata da Serge Latouche4, nella quale un anticapitalismo di fondo si affianca a volontà riformistiche nei confronti dello stesso capitalismo, sia l’ipotesi di Jeremy Rifkin5 di una gestione dal basso e non più centralizzata dell’energia, un’idea che cambierebbe notevolmente la struttura fisica della città. Il tutto in quella vera e propria riduzione al presente che finisce con l’azzerare completamente il passato e il futuro. Questa cancellazione del tempo, a meno della più ristretta contemporaneità, si traduce anche in una diminuzione, se non proprio in una abolizione dello spazio, un’entità ridotta a un mero simulacro privo di qualsiasi potenzialità che non sia meramente utilitaria. Per contro questo stesso spazio, che Rem Koolhaas considera uno “spazio-spazzatura”6, è oggetto di una vera e propria mitologia dell’attraversamento, ovvero una enfasi relativa al modello del nomadismo, nel quale la linea baudelairiano-benjaminiana si incontra con le suggestioni che emanano dalle derive di matrice situazionista. I fenomeni e gli orientamenti descritti hanno reso 1 e 2 - Franco Purini, due disegni del Progetto Milano Verde, 1990.

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mano un carattere temporaneo, in quanto le dinamiche evolutive della città non consentono la formazione di un sistema di conoscenze stabili. La stessa storia degli insediamenti urbani è costantemente oggetto di riformulazioni. Cambiando costantemente le condizioni della città nel presente, ma anche l’idea del suo passato e il pensiero del suo futuro, ogni ricostruzione delle sue vicende subisce una serie di torsioni tematiche oltre ad ac-

2 Alain Touraine, La globalizzazione e la fine del sociale. Per comprendere il mondo contemporaneo, Il saggiatore, 2012. 3 Zygmunt Bauman, Modernità liquida, Roma-Bari, Laterza, 2002. 4 Serge Latouche, La scommessa della decrescita, Milano, Feltrinelli, 2007. 5 Jeremy Rifkin, La terza rivoluzione industriale. Come il “potere laterale” sta trasformando l’energia, l’economia e il mondo, Milano, Mondadori, 2011. 6 Rem Koolhaas, Junkspace. Per un ripensamento radicale dello spazio urbano, Macerata, Quodlibet 2006.


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negli ultimi anni quanto mai difficile alla cultura del progetto individuare strategie incisive e avanzate per il futuro degli insediamenti urbani, nel momento stesso in cui hanno messo in crisi questa stessa cultura, obbligandola a rifondarsi e a rimotivarsi dalle sue basi. La molteplicità, di fatto ingestibile, che risulta dall’interazione tra di essi si rende evidente elencando alcune definizioni o alcune aggettivazioni programmatiche che si possono proporre per la città degli ultimi anni. Esse sono la città del consumo, la città dell’immagine, la città creativa, la città generica, la città dei flussi e delle reti, la città delle infrastrutture, la città mondo, la città rimossa, la città analoga, la città collage, la città distratta, la città di frontiera, la città come proiezione del digitale, la città multiculturale, la città dell’arte, la città partecipata, la città rigenerata, la città giusta, la città pubblica, la città-campagna, la città di frammenti, la città per parti, la città intelligente o smart city. Si tratta in realtà della presenza di una serie di caratteri contraddittori compresenti in un’unica città, che per questo motivo sarebbe meglio pensare come tante città in una. In questa città vive peraltro, da qualche tempo, una divisione sempre più forte tra la democrazia rappresentativa, che si era formata tra il Settecento e l’Ottocento, e la democrazia diretta come espressione della rete. Si tratta di un’opposizione che sta rinominando lo spazio pubblico sottraendolo alla sua più recente espressione, quella che lo ha visto come un prolungamento dello spazio del consumo. Ciò che è avvenuto qualche anno fa al Cairo o a Istanbul è una conseguenza di questa condizione, che produce nuove forme di conflitto. In effetti per un verso Internet ha come esito una nuova socialità che si riconosce nell’immaterialità digitale, quasi replicando la città fisica nel dominio della virtualità, per l’altro tale astrazione si rovescia nello spazio

reale risignificandolo attraverso contenuti nuovi e, almeno per adesso, fortemente ambigui. La sovrabbondanza di senso o, se si preferisce, l’eccesso di interpretazioni e di intenzioni modificatrici che questo elenco di definizioni tematiche mostra con una indiscutibile evidenza, si pone come un ostacolo ulteriore alla comprensione della città. Una comprensione, occorre ricordare, fortemente limitata per le ragioni esposte nella premessa. Questa difficoltà si fa ancora più consistente per un altro motivo. È diffusa tra gli architetti e gli urbanisti, ma anche tra i non addetti ai lavori, che sia possibile comprendere i tempi della città in una loro lettura simultanea. In altre parole si ritiene che i ritmi vitali di un insediamento urbano siano avvertiti e decifrati mentre sono in atto. Bisogna invece rendersi conto che tra la vita della città e la presa d’atto di tale vita esiste uno scarto temporale, un differimento diacronico il quale fa si che tra la processualità urbana e la sua consapevole acquisizione si interponga una fase analitica. Si tratta di un intervallo critico il quale, mentre consente di leggere in modo relativamente attendibile i tempi della città, li distanzia rendendoli al contempo più generali e astratti. C’è poi da tenere presente la complessa intersezione tra il tempo individuale di chi vive la città e il tempo della città stessa, un tempo collettivo ma anche espresso autonomamente dalla struttura urbana. Ciò vale anche per il rapporto tra la memoria del singolo abitante della città e quella che l’insediamento urbano possiede di sé. La situazione attuale della città è il frutto dell’interazione di tre paradigmi. Il primo è il paradigma paesaggistico. L’idea di paesaggio si è configurata negli ultimi anni come una nozione totalizzante che si è sovrapposta a quella di territorio, di città e di architettura. Le ragioni di questa assolutizzazione sono molte e molto diverse tra

3 - Veduta della Piazza Gae Aulenti a Milano, foto di Laura Facchinelli.

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4 - Grattacieli e viadotti a Shanghai, foto di Laura Facchinelli.

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di loro. È impossibile in questa sede riassumerle e argomentarle. Si può solo dire che l’idea di paesaggio finisce con il produrre una sorta di derealizzazione dei contesti fisici a favore di una loro idealizzazione sovrastorica e apolitica. Il paesaggio trascende infatti ogni conflitto ponendosi come un’entità astratta, esito di un sostanziale tentativo di evitare le contraddizioni tra località e globalità. La Convenzione Europea del Paesaggio è da questo punto di vista il possibile esito di un vuoto nell’architettura istituzionale dell’Unione Europea la quale, per essere veramente tale, non riuscendo a superare la sua articolazione negli stati nazionali che la compongono e la sua determinante essenza economica, più che politica, si è data una sorta di un ipotetico terreno comune ideale e idealizzato, una rappresentazione sostitutiva di un’unità non ancora veramente realizzata. Il secondo paradigma è quello ecologico. La città rifiuta la sua iniziale contrapposizione alla natura, la sua essenza artificiale, cercando di proporsi come una conseguenza della natura stessa. Su questo cambiamento di mentalità, nel quale giocano fortemente posizioni sostanzialmente antiumanistiche, si innesta sia la problematica della sostenibilità, ormai divenuta più un luogo comune e uno stile che una dimensione veramente operante, sia la volontà di considerare la città come uno strumento gratificante, interattivo e salutista, nel quale l’individuo di massa può trovare risposte di matrice sostanzialmente narcisistica alle sue esigenze funzionali e rappresentative. Risposte basate su un culto autoreferenziale del corpo, su pratiche performative e su un uso del tempo libero apparentemente socializzante, in realtà polarizzato sull’appartenenza a un circuito ritenuto

elitario, come quello che si è formato negli ultimi due decenni attorno all’arte. Al contempo, come si è detto all’inizio di tale scritto, la città è ormai un fenomeno naturale che produce conseguenze anche esse naturali. Il terzo paradigma è quello dell’esistente. Dalla teorizzazione gregottiana della “modificazione” al “costruire nel costruito”7, dalla densificazione al contenimento del consumo di suolo il primato dell’esistente è divenuto incontestabile. In qualche modo il nuovo può darsi oggi solo come effetto di un intervento su ciò che è già presente nel territorio e nella città. Questo orientamento finisce con il produrre una sorta di determinismo urbano e architettonico, per il quale si costruisce solo dove c’è già qualcosa. Questa strategia non produce sempre scelte conformi alle esigenze della città, la quale non può evolvere esclusivamente sulle proprie tracce, in una sorta di costante ricalco della sua storia insediativa, ma rispetto a tale storia deve trovare momenti di discontinuità che ne accrescano la complessità e la stratificazione. Come conclusione parziale di queste brevi note si può affermare con un certo grado di attendibilità che la città attuale non possiede più né uno statuto prevalente né una vera e riconoscibile dimensione collettiva. È una città che agisce in modo tribale, specializzandosi per rispondere a esigenze di gruppi ristretti o per erogare servizi di natura utilitaria. Il suo essere un testo complesso, insondabile nei suoi significati come un romanzo, il suo dovere essere bella non sono più ritenuti valori 7 Vittorio Gregotti, Dentro l’architettura, Bollati Boringhieri, 1991.


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consustanziali alla sua realtà, ma qualcosa che forse le apparteneva una volta, ma che oggi non ha più alcun senso. La città come luogo di quelle infinite narrazioni, alcune delle quali, nel caso di Londra, sono state poeticamente, ma anche teoricamente, ripercorse in tutte le loro risonanze da Iain Sinclair nel suo London Orbital8, è oggi di fatto negata. Quella attuale è inoltre una città divisa, che occulta i conflitti che la coinvolgono in una specializzazione neofunzionalista nella quale il mistero, il “meraviglioso urbano”, di cui quattro decenni addietro ha parlato Renato Nicolini9, il tendere a organizzazioni spaziali per loro natura aperte e mutevoli, rivolte a incrementare la libertà dei cittadini, rimangono come ambiti senz’altro esistenti ma impliciti, sospesi, di fatto sempre più lontani. Solo le visioni dischiuse da un progetto urbano consapevole della sua aleatorietà, ma anche del suo essere l’esito di quella conoscenza parziale, provvisoria e tendenziosa di cui si è detto all’inizio di queste note, un progetto capace di raccogliere, nonostante i limiti con i quali si confronta, la sfida dell’utopia come forma avanzata della realtà, può restituire alla città la sua essenza più profonda. Essa consiste in una coincidenza spesso avventurosa, nella quale la “sostanza di cose sperate” si fa realtà, tra le aspettative individuali e quelle collettive, una coincidenza la quale, anche se sempre temporanea, esprime volta per volta il senso e la 8 Iain Sinclair, London Orbital, A piedi intorno alla metropoli, Il Saggiatore, 2002. 9 Renato Nicolini, Franco Purini, L’effimero teatrale. Parco centrale. Meraviglioso urbano, La casa Usher, Firenze, 1981 Renato Nicolini, Il meraviglioso urbano, in «Lotus» n. 25, Gruppo Editoriale Electa spa, Milano, aprile 1979.

finalità della città. In tutto ciò la moltitudine di Toni Negri e Michael Hardt10, che ha da tempo preso il posto della comunità insediata, è positivamente sospesa tra le probabilità di un collasso dell’intera struttura urbana e una salvezza che si rinnova giorno per giorno. In questo contesto instabile, che produce un’etica e un’estetica nuove, come nel Museo dell’altro e dell’altrove a Roma, il sistema dei trasporti divenne centrale perché metaforicamente collegato all’idea della libertà individuale di fare propria, muovendosi, l’imponderabile totalità urbana. Quest’idea è una illusione, ma senz’altro capace di generare una mitologia nella quale vale a pena immergersi che ciascun abitante della città contemporanea si immerga.

5 - Edifici a Messico City. Foto di Alejandro Islas Photograph AC. https://www.flickr. com/photos/99299995@ N02/9355469268/, CC BY 2.0, https://commons.wikimedia. org/w/index.

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10 Michael Hardt, Antonio Negri, Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, Rizzoli, 2004.

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Trasformazioni in corso, della città e della sua gente di Giandomenico Amendola

Scrive Calvino in Gli dei della città: “Crediamo di continuare a guardare la stessa città, e ne abbiamo davanti un’altra, ancora inedita, ancora da definire, per la quale valgono istruzioni per l’uso diverse e contraddittorie, eppure applicate, coscientemente o meno, da gruppi sociali di centinaia di migliaia di persone”. La città contemporanea – comunque la si voglia chiamare: postmoderna, soft, neobarocca, narciso, dei flussi o altro – si sta trasformando sotto i nostri occhi con rapidità e profondità straordinarie. Persino superiori a quelle che crearono nell’800 la città moderno-industriale che sconvolse non solo e non tanto le forme urbane quanto le vite di milioni di persone e la stessa cultura di un’epoca. Oggi, in poco più di trent’anni, le nostre città si sono trasformate: le ciminiere della vecchia Coke Town di Dickens sono quasi ovunque scomparse portando via con sé una larga parte della classe operaia, i confini che costituivano parte indispensabile della tradizionale città compatta sono rimasti solo in qualche norma amministrativa, prossimità e distanza si intrecciano in un nuovo mondo fatto di flussi e di luoghi. La maggiore trasformazione riguarda però il rapporto della città con la sua gente. Scrive ancora Calvino, questa volta ne Le città invisibili: “Di una città non godi le sette o le settantasette meraviglie ma la risposta che dà alla tua domanda”. La città moderno-industriale era data, toccava alla sua gente adattarsi, oggi al contrario è la città che cerca di rispondere non solo ai bisogni ma anche ai desideri delle persone. La città moderno-industriale era sino a pochi decenni fa considerata e vissuta come data e non modificabile che marginalmente. Essa era analizzata e progettata come un sistema dotato di leggi proprie a cui era necessario adeguarsi. Il principio era quello veterotestamentario “ Tu non avrai altra città al di fuori di me”. La letteratura scientifica a cavallo tra l’800 ed il ‘900 parlava, perciò, delle trasformazioni psicologiche dell’uomo metropolitano alle prese con il sovraccarico di stimoli della grande città. Per vivere la nuova metropoli era necessario cambiare. Per Simmel il cittadino diventava corticale e blasè proprio per resistere all’eccesso di stimoli che la nuova città gli rovesciava addosso. Dello stesso avviso erano i sociologi come Park, i filosofi come Benjamin e Kracauer solo per citarne alcuni. Anche la città, ovviamente, cambiava, ma seguendo la logica che il suo essere sistema le imponeva. Le trasformazioni della città erano dovute all’esigenza di meglio adempiere alla funzioni fondamentali che il movimento moderno avrebbe poi rigorosamente identificato. Tra queste c’era quella di rispondere ai bisogni della popolazione, anch’essi scientificamente identificabili: l’abitare, il lavorare, il tempo libero.

Ongoing transformations of the city and its people by Giandomenico Amendola The contemporary city is changing rapidly and profoundly. Traditional names and categories we have used to describe it seem inappropriate to the new scenario. Ongoing changes are even greater than those that created the modern industrial city in the nineteenth century, which changed not only urban and architectural forms, but millions of people’s lives and the culture of the time. Today, in just a few decades, our cities have changed deeply: the factory chimneys of old Dickensian coke towns have disappeared almost everywhere, taking with them a large part of the working class, city limits of the compact city have dissolved in the sprawl. Distance and proximity are tightly related and intertwined in a world made of flows and places. The most important change lies in the relationship between the city and its people. In his Invisible cities, Italo Calvino writes about cities that “you take delight not in a city’s seven or seventy wonders, but in the answer it gives to a question of yours”. The modern industrial city was considered a system ruled by rigid laws that citizens could not change; people could only adapt. On the contrary, because of globalization and deindustrialization, the contemporary city can live and develop only if it can find the answers to people’s needs and desires.

Nella pagina a fianco, in alto: Pieter Bruegel il Vecchio, La torre di Babele; in basso: interno della stazione di Sapporo.

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1 - Interno di un mall americano.

Poi, globalizzazione e deindustrializzazione hanno cambiato lo scenario. Le fabbriche hanno abbandonato le loro sedi storiche e sono andate dove i salari erano più bassi e le leggi più permissive. Le grandi città industriali hanno cambiato volto: Pittsburgh, Detroit, Torino, Glasgow solo per fare alcuni esempi si sono trovate ad affrontare una sfida difficile e decisiva. Era necessario reinventarsi perché il futuro non era più la prosecuzione di una traiettoria scritta nel passato; il futuro era tutto da inventare. Una frase di larga circolazione in Europa riassume il nuovo scenario “Le città che hanno un futuro sono solo quelle che lo hanno già scelto”. Tutto questo perché, è stato scritto più volte, l’offerta di città è diventata superiore alla domanda o, meglio, perché imprese, famiglie e visitatori hanno potuto scegliere la città dove investire, abitare o andare come turisti. Con le fabbriche lontane nei paesi del terzo o del quarto mondo le imprese possono portare i propri quartieri generali – dove si accumula e distribuisce il profitto – ovunque vogliano. Per poterlo fare, però, devono scegliere città dove dirigenti e tecnici, di valore, siano disposti ad andare. La città deve essere di loro gradimento. I sistemi di comunicazione per trasferire cose, persone e informazioni faranno il resto. Anche le famiglie e le persone si spostano seguendo non solo occasioni di lavoro ma anche e soprattutto qualità della vita, caratteristiche del sistema scolastico per i figli, servizi alla persona. Tutto ciò comporta il ribaltamento del vecchio rapporto tra la città e la gente: non è più la gente che deve adattarsi alla città, come avveniva per la metropoli moderno-industriale, ma è questa che deve adattarsi ai bisogni ed ai desideri delle persone. La grandezza di una città e la quali20

tà della sua vita derivano non più da principi del sistema ma dall’esperienza della gente. È questa che invoca De Certeau quando mette in guarda sulla sindrome di Icaro il quale, racconta il mito, mise le ali per volare alto come gli dei ma che sciolta la cera crollò ingloriosamente al suolo. Gli urbanisti sono affetti da questa sindrome, nota l’antropologo francese, perché si illudono di poter capire e controllare la città guardandola dall’alto, a volo di uccello. Senza però, proprio per questo, riuscire a capirla. De Certeau propone invece il mito di Dedalo, che di Icaro era figlio, il quale si avventurava nel labirinto proprio come fanno gli abitanti della metropoli nelle loro strade. Icaro, esplorando e capendo, sfidava e vinceva il labirinto, noi la città. Oggi, dell’esperienza della gente non se ne può più fare a meno perché la competizione tra le città per attrarre imprese, famiglie e visitatori è sempre più intensa. Le storiche città delle ciminiere da Essen a Bilbao, da Oporto a Sesto San Giovanni – considerata la Stalingrado d’Italia – hanno avviato un processo di profonda trasformazione per non piombare nel Rust Belt, la disperata e povera cintura di ruggine, dove sono precipitate ricche regioni industriali come l’Ohio e la Pennsylvania negli USA. Anche le grandi metropoli europee come Parigi e Londra, simultaneamente capitali politiche, culturali e industriali, mutano profondamente. Le storiche aree delle fabbriche, dei magazzini e delle centrali elettriche – come i Docks e la centrali elettriche (la Tate Modern) a Londra – vengono ridestinate ad accogliere condomini eleganti o, sempre più spesso, i musei ormai considerati le cattedrali del XXI secolo. Per affrontare una competizione sempre più dura, in cui per la prima volta le gran-


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di città competono con le capitali una volta giudicate inavvicinabili, l’immagine diventa decisiva. Questa, una volta costruita in secoli grazie a scrittori e grandi viaggiatori, è oggi nelle mani degli esperti del marketing alla ricerca dell’idea chiave che possa portare una città sul palcoscenico dei media e quindi trovare un posto utile nell’immaginario collettivo. I grandi eventi come le Olimpiadi o le Esposizioni universali, le designazioni a Capitali europee della cultura, le mostre d’arte epocali, tutto serve – se ben organizzato e soprattutto raccontato – a lanciare o rafforzare una città. Persino l’effimero, una volta poco considerato, se diventa una costante della quotidianità ed è ben pubblicizzato può servire a creare una immagine vendibile. Insostituibili sono soprattutto gli architetti. All’inizio del secolo scorso era possibile parlare dell’architettura come di “un’opera d’arte fruita in condizioni di distrazione”, oggi il grande architetto – l’archistar – e le sue opere sono un fattore d’attrazione: spesso sono famose, e rendono famosa la città, prima ancora di essere realizzate. L’esperienza di Bilbao, portata fuori dalla profonda crisi della deindustrializzazione proprio grazie alle grandi firme progettuali, è diventata oggetto di studio e di emulazione da parte di centinaio di amministratori locali. Gehry con il museo Guggenheim, Foster con le stazioni della metropolitana, Calatrava con ponti ed aeroporto, ecc. sono diventati i fattori di attrazione di una città tutta firmata dando vita alla cosiddetta “ricetta Bilbao” a cui ormai ricorrono, con alterni successi, comuni grandi e piccoli. La competizione urbana e la rincorsa in un mondo sempre più culturalmente omologato ha porta-

to Rem Koolhaas a parlare della nascita e dell’affermazione di una “città generica” in cui le forme urbane ed architettoniche tendono a somigliarsi rendendo simili Singapore ed Oporto, Rotterdam e Shanghai. I grandi shopping mall, gli aeroporti – autentici luoghi per milioni di persone e non luoghi come sostiene Marc Augé – le stazioni ferroviarie, i condomini di lusso e i grandi alberghi, ospedali ed università sembrano smentire la specificità e la storia dei luoghi che spesso si può ritrovare solo nei centri storici quando, talvolta, anche questi non vengo snaturati e ridotti a parchi a tema per turisti. Le azioni e le politiche di reinvenzione della città, essendo proiettate nel futuro, richiedono rilevanti quote aggiuntive di consenso oltre a quelle già normalmente necessarie. La società è un concetto per i più astratto, mentre è nella città che la gente incontra la società. La città può, quindi, creare e distruggere consenso non solo per se stessa ma per l’intera società. Per questo oggi il governo di una città proiettata nel futuro è particolarmente difficile. Chi governa ha a sua disposizione tre risorse: denaro, tempo e consenso. Queste sono tra loro relativamente scambiabili. Per esempio, in mancanza di sufficiente denaro si ricorre spesso alla risorsa tempo: i progetti vengono differiti o diluiti. Espediente largamente praticato ma oggi rischioso perché, in una fase di forte competizione urbana, se una città non fa per tempo qualcosa di importante, sarà un’altra città a farla, rendendo la prima inutile o quantomeno di minore visibilità. Il tempo è, perciò, ormai una risorsa sempre più scarsa. Il denaro – e le azioni che questo consente – servono a creare consenso ma, per contro, sen-

2 - Trasformazioni a Bilbao, foto di Laura Facchinelli.

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3 - La Tate Modern Gallery di Londra.

za di questo è difficile trovare fiscalmente i capitali che servono. Per superare l’incombente crisi di consenso, aumenta in maniera esponenziale il ricorso alla retorica nei discorsi sulla e per la città. La strettoia del consenso è resa ulteriormente e pesantemente più difficile dal fatto che le azioni e le politiche di reincantamento della città, generalmente riconosciute come indispensabili, non sono esenti da critiche anche pesanti concernenti le loro ricadute sociali. Le distanze sociali nella città stanno aumentando in maniera impressionante. Ai vecchi poveri si aggiungono sempre più numerosi i nuovi poveri e tra questi ci sono anche larghe fette del ceto medio impoverito. Delle azioni di reinvenzione della città non tutti beneficiano alla stessa maniera. Spesso, anzi, un set di azioni positivo per alcuni si risolve in una perdita secca per altri. Se una luce diventa più brillante, c’è una zona della città che diventa più scura, viene spesso detto a proposito, per esempio, delle politiche di gentrificazione. Queste, immettendo in quartieri popolari – considerati appetibili per le qualità storiche, ubicazionali o paesaggistiche - quote di popolazione dotate di alto potere d’acquisto e modelli di consumo conseguenti, tendono inevitabilmente ad espellere i vecchi abitanti rompendo le reti di vicinato, spesso preziose per compensare gli scarsi livelli di reddito. Non c’è grande città italiana da Roma a Firenze, da Torino e Milano a Bologna o Padova dove ciò non sia avvenuto. Per non parlare ovviamente di Glasgow e Bilbao considerate le “capitali” del reincantamento urbano. Un nuovo problema si presenta oggi alle città e soprattutto a quelle italiane che si sono ritrovate assolutamente impreparate ad accogliere una improvvisa, rapida e massiccia immigrazione. Assumendo forme fisiche e sociali affatto particolari, anche quella italiana sta diventando una città meticcia, per usare l’efficace definizione di Leonie Sandercock. Tutte le nostre città, soprattutto quelle medie e grandi del centro e del nord hanno cambiato aspetto. Mancano però, diversamente da Londra, Berlino o Parigi, i grandi quartieri etnici, fatta eccezione per alcune affollate enclave cinesi. 22

Nella grande metropoli diffusa soprattutto nordamericana, lo sprawl, nascono gli ethnoburbs, le microcittà etnicamente omogenee – per esempio nella grande Los Angeles sono numerose le grandi comunità vietnamite o coreane – che non hanno nulla del vecchio ghetto. Anzi. Gli abitanti, emigrati di prima o seconda generazione, lavorano e fanno affari nella grande metropoli diffusa ma scelgono di vivere la quotidianità in un ambiente culturalmente e socialmente omogeneo. La situazione in Italia è diversa perché il nostro è stato sempre e tradizionalmente un paese di emigrazione, senza neppure una vera esperienza coloniale, e l’incontro con l’altro, diverso per lingua, cultura e colore della pelle, è sempre stato difficile come dimostravano negli anni ’50 ed nei primi ’60 i cartelli che a Torino avvertivano che le case non sarebbero state date in affitto ai meridionali. Oggi, l’Italia deve fare i conti con una immigrazione massiccia: nel 2017 gli stranieri presenti sono quasi sei milioni, quasi il 9% della popolazione totale. La presenza degli immigrati ha accentuato il carattere poroso della città italiana contemporanea e pone di conseguenza il problema di una difficile prossimità multietnica. Vecchie e nuove povertà si incontrano intrecciandosi con le varietà etniche creando i cosiddetti quartieri meticci. I nuovi arrivi e le operazioni di rinnovo urbano, a partire da quelle di gentrificazione, rompono gli equilibri dei vecchi quartieri popolari facendo incontrare persone e gruppi sociali che la tradizionale metropoli teneva distanti rendendoli reciprocamente invisibili. Dall’800, infatti, un principio fondante della città moderno-industriale è stato quello di creare una distanza fisica proporzionale a quella sociale. Lentamente a Londra, rapidamente a Parigi con gli sventramenti di Haussmann, il vecchio e nuovo proletariato è stato spinto ai margini lontani ed invisibili della città. L’invisibilità, però, resiste anche nella città porosa; essa, però, è presentata in maniera politicamente corretta come tolleranza che, spesso, non è altro che una cortese indifferenza verso l’altro che, in quanto diverso ed indesiderato, scompare agli occhi dei più. La perdurante crisi economica e le tensioni politiche accentuano e strutturano le frizioni


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4 - L’interno del “104” di Parigi, foto di Laura Facchinelli.

che sfociano in alcuni casi – come in alcuni comuni delle province di Roma e Torino – in conflitti aperti o in manifestazioni contro l’arrivo di immigrati. La tensione è anche alimentata dal populismo ansiogeno di alcune formazioni politiche che fa della paura il principale strumento di acquisizione di voti. Si fa spesso riferimento, in molti di questi discorsi, ad una forma ideale di stato e di democrazia, alla polis greca. Dimenticando, però, che questa è la città dei liberi ma dei pochi: tutti, infatti, sono cittadini, e come tali fruiscono degli stessi diritti a partire da quelli politici. Sono pochi perché fuori dai recinti preziosi della cittadinanza sono tenute le donne, gli immigrati, gli schiavi ed i servi. Ben diversa è la Civitas romana, dove la cittadinanza appartiene a tutti coloro che, a partire dall’editto di Caracalla del III secolo, sono nati nell’impero. È la città a cui ci auguriamo che la nostra prossima ventura somigli, e che come tale sia una civitas augescens, una città che cresce autorevole grazie alla sua capacità di accogliere e mantenere hostes, peregrinos et victos, i nemici, i pellegrini e gli sconfitti.

Italo Calvino, Le città invisibili, Mondadori 1972. Italo Calvino, “Gli dei della città”, in Com’è bella città, Stampatori 1977. Michel de Certeau, L’invention du quotidien, Gallimard 1990, tr.it. L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro 2009. Rem Koolhaas, Generic City, Sikkens Foundation 1995. Leonie Sandercock, Towards Cosmopolis: Planning for Multicultural Cities, Academy Press 1997, tr.it. Verso Cosmopolis. Città multiculturali e pianificazione urbana, Dedalo 2004.

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Bibliografia Giandomenico Amendola, Tra Dedalo e Icaro. La nuova domanda di città, Laterza 2010. Giandomenico Amendola, Le retoriche della città, tra politica, marketing e diritti, Dedalo 2016. Marc Auge, Non-lieux. Introduction à un anthropologie de la surmodernité, Seuil 1992, tr.it. Non Luoghi, introduzione a una antropologia della surmodernità, Eleuthera 2009.

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Città: memoria, innovazione, identità Intervista ad Alberto Ferlenga a cura di Laura Facchinelli e Oriana Giovinazzi

Le città si trasformano sempre più rapidamente, secondo parametri ormai globalizzati, spesso senza tener conto della propria storia. Così rischiano di affievolire la propria identità e di provocare negli abitanti un senso di straniamento. Su questi e altri temi abbiamo sentito il parere del prof. Alberto Ferlenga, Rettore dell’Università Iuav di Venezia, partendo dal suo libro Città e memoria come strumenti del progetto (Marinotti editore, 2015). T&C – Le città sono caratterizzate da una crescita rapida, potenzialmente illimitata. Come stanno affrontando, gli architetti, i molteplici problemi che si stanno generando? Quali possono essere le strategie per coniugare lo sviluppo di una grande città con il mantenimento della scala umana? Ferlenga – I processi che stanno portando le città ad una continua crescita sono conosciuti da tempo. I termini sprawl, metropoli, megalopoli, che si riferiscono a una città che si è espansa fuori dai suo storici confini, sono ormai vecchi considerando che le prime percezioni del fenomeno risalgono agli anni ‘50 del Novecento. Nei confronti di questi fenomeni la cultura degli architetti, e in particolare degli architetti italiani, è stata storicamente meno attenta: l’interesse, almeno fino ad un certo punto, si è concentrato sulla città storica, poi anche su quella non si è più indagato. Bisogna anche dire che i primi studi seri sulle megalopoli non provengono dagli architetti ma dai geografi o dagli antropologi. Solo più tardi la cultura architettonica ha incominciato a ritenere degni di attenzione i fenomeni urbani contemporanei appassionandosi, per esempio, alle parti poco stabili delle città: i primi slum, le favelas, più come fenomeno di costume, direi, con la convinzione che si trattasse di fasi temporanee da risolvere realizzando città più formali, più pianificate, meglio attrezzate. Ma questo, come sappiamo, non è avvenuto: la realtà è stata più veloce della pianificazione, slum, favelas, città informali si sono sempre più ampliate e stabilizzate, e gli architetti hanno confinato il loro lavoro quasi esclusivamente nelle aree più rappresentative delle città moltiplicando i segni iconici ma rinunciando ad affrontare i problemi veri di estensioni sempre più incontrollabili. Oggi le dimensioni di questi fenomeni sono tali da non poter essere ignorate e non vi è una cultura architettonica attrezzata per affrontarli. Al massimo, possiamo disporre di frammenti teorici, tentativi sporadici di comprensione, ma poco di più. Sempre più rari sono i tentativi di leggere la città per quello che è. Come se gli architetti, e non solo loro, non avessero ancora superato il trauma di fenomeni come quelli urbani dati per morti solo pochi decenni fa

The City: memory, innovation, identity An interview with prof. Alberto Ferlenga, by Laura Facchinelli and Oriana Giovinazzi The Rector of the Università Iuav di Venezia answers our questions with reference to the issues he addressed in his book Città e Memoria come strumenti del progetto. Cities are characterized by rapid and potentially unlimited growth: how are architects addressing the many problems they generate? What strategies might be adopted to maintain a human scale in their development? Are we finally getting over the archi-star phenomenon, to pay greater attention to the place and the wellbeing of its residents? The key point in the interview lies in the observation that, given the widespread homogenization of building models in the so-called evolved world (in which taller and taller skyscrapers are an expression of power), some cities, especially those in the south of the world, are approaching development with an effort to maintain their identity through their bond with place. Another significant theme is that of infrastructure, the only element that can exercise some control over the urban development of contemporary metropolises. An advanced choice is that of re-use, which has always been the basis for every urban transformation, and requires innovation and creativity to regenerate the many abandoned brownfields.

Nella pagina a fianco, in alto: grattacieli di Tokyo (foto di Laura Facchinelli); in basso: strada di un hutong a Pechino (foto Jorge Láscar, https:// commons.wikimedia.org/ wiki/File:A_Beijing_Street. jpg).

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TRASPORTI & CULTURA N.50 e nei quali oggi, invece, vive più della metà della popolazione del mondo. T&C – Negli anni recenti si è evidenziato il protagonismo dei grandi nomi internazionali, con la ricerca di effetti spettacolari. C’è chi dice che il fenomeno delle archistar è in via di esaurimento, che si va verso una maggiore attenzione al luogo e al benessere degli abitanti. Condivide l’urgenza di questo cambiamento? Le pare che sia già in corso? Ferlenga – Mi sembra difficile poter dire che un cambiamento di questo tipo sia in corso in modo univoco. Certo, ci sono dei segnali di inversione della tendenza ma in un mondo le cui economie sono molto difformi, il fenomeno della produzione di architetture dal forte valore rappresentativo, e dall’alto costo, non può che presentarsi con un andamento discontinuo. Se nelle nazioni ricche collezionare opere di “archistar” è ancora un’attività praticata - simbolo di emancipazione o conferma del proprio ruolo - la maggior parte degli altri paesi non ha conosciuto questa fase, e in altri ancora si possono in effetti intravedere i primi sintomi di declino di questa tendenza a favore di una maggiore attenzione a questioni ambientali o sociali. Ma al di là delle manifestazioni più evidenti che continueranno ancora a lungo, è la cultura che ha prodotto il fenomeno delle “archistar” ad essere in crisi. Un tipo di cultura, variamente declinata sul modello Manhattan, legata ad un’idea di sviluppo illimitato, energia illimitata, ricchezza illimitata. Personalmente non credo che verrà mai meno la necessità, sempre manifestatasi, di rappresentare il potere economico e politico attraverso l’architettura, ma cambieranno i modi, e una nuova generazione di architetti porterà alla ribalta altri temi. Una cosa rimarrà di certo legata a questa fase di grande esposizione dell’architettura, ed è una nuova evidenza della figura dell’architetto, anche se limitata a pochi personaggi nel mondo globalizzato. Tutto ciò non significa però che la visibilità di alcuni architetti corrisponda alle esigenze della parte più cospicua del mondo. Le risposte delle “archistar” sono misurate sulle necessità e sulle risorse delle parti più ricche delle città e dei ceti che le frequentano. Sono downtown sempre più simili tra loro il campo preferito d’azione, ma attorno ad esse si estendono centinaia di chilometri - anch’essi città - in cui vivono milioni di abitanti per i quali nessuno sembra avere soluzioni convincenti. Rispetto a questo, un pugno di grattacieli nel centro di Giacarta o di Mexico City, fosse anche splendido, rappresenterebbe solo un punto microscopico in una città sterminata. Insomma, se quel tipo di risposta incarnata dalle “archistar” di questi anni continuerà ad esserci, fornirà sempre meno soluzioni utili alla maggioranza degli abitanti del mondo. T&C – Nel suo libro lei scrive che se nel mondo cosiddetto “evoluto” (Stati Uniti, Europa, Giappone) l’architettura procede per effetti spettacolari e modelli ormai omologati, cancellando progressivamente le differenze, al contrario le città del sud del mondo (in sud America, in Africa, perfino negli slum e nelle favelas), si costruisce secondo necessità e concretezza. Lei dice – e questo è molto interessante - che proprio nella marginalità si mantiene una varietà altrove scomparsa. Come vede gli sviluppi futuri? Davvero siamo condannati a un mondo “tutto uguale”? Ferlenga – Per quanto riguarda i modelli omologati, anche in questo caso, se consideriamo il pas26

sato, forse dobbiamo riconoscere che è sempre stato così. I modelli neoclassici, ad esempio, sono stati adottati, per secoli, nel mondo, come simbolo di poteri di vario tipo. Da questo punto di vista nulla è cambiato: oggi sono i grattacieli a rappresentare il potere, in passato erano le ville neo-palladiane o i palazzi neoclassici. Stiamo però sempre discutendo di una parte minima dell’architettura. Se infatti estendiamo l’osservazione alle città attuali lo scenario cambia. Qui due fenomeni sono evidenti. Il primo è che l’architettura più esposta rappresenta tendenzialmente solo se stessa e il potere che la genera, il secondo è che, al contrario, quella più “ordinaria” permeando i luoghi come una coltre continua, ne riflette meglio le differenze, pur in assenza di qualità. Risponde per necessità al clima e al suo variare, sfrutta i materiali a portata di mano, evoca ingenuamente la storia da cui proviene. Si può dire, dunque, che, paradossalmente, le costruzioni delle parti meno fortunate delle città esprimano differenze e attaccamento ai luoghi molto più di quanto facciano i grattacieli del centro nel loro sforzo spesso grottesco di differenziarsi. E ai valori che queste parti esprimono inizia a guardare anche chi per decenni li ha negati. La Cina, per esempio, che, mano a mano che cresce, si accorge della necessità di esprimere se stessa recuperando le sue tradizioni e quelle differenze storiche e geografiche che le città nuove certo non riescono ad esprimere. E così guarda con interesse ai suoi villaggi, alla sua architettura minore, ai suoi monumenti, comprendendone il valore economico potenziale e il peso identitario. Ma tornare ad attribuire valore alle differenze significa anche attribuire nuova necessità a chi è in grado di individuarle, studiarle, interpretarle. E questo è qualcosa di nuovo per l’architettura contemporanea che per decenni ha intrapreso la strada opposta avendo l’obiettivo di rendere il mondo egualmente moderno, dare a tutti lo stesso comfort, con le stesse modalità e pratiche. Se oggi molti luoghi del mondo cominciano a riflettere su come, in uno scenario globale, l’essere diversi diventi un valore raro significa che si aprono anche nuovi scenari di studio e di lavoro. Ma chi è in grado di lavorare oggi su questo? Chi ha mantenuto viva la cultura dell’attenzione e dello studio dei fenomeni urbani dal punto di vista dell’architettura? Chi ha saputo rinnovare lo sguardo interpretando anche i fenomeni più recenti? Indubbiamente pochi! D’altra parte, non si tratta di resuscitare vecchi modi di vedere ma piuttosto di incrociare nuovi temi con vecchie tradizioni di studio. Saper interpretare, ad esempio, quella densità che non è più necessariamente un dramma, oppure tornare a riflettere sulla dimensione umana nelle città, sul senso di comunità, sulla sicurezza. Nelle favelas di Rio, ad esempio, dove la popolazione è ormai radicata e sta trasformando il senso di aree urbane che in un recente passato erano solo simbolo di miseria, gli abitanti migliorano le proprie case, conquistano frammenti di spazio pubblico, cambiano il ruolo delle infrastrutture. Danno soluzioni e risposte che però è necessario cogliere sotto la superficie della bassa qualità e del degrado sociale ancora forti. T&C – Ci chiediamo, visitando alcuni paesi di grande e antica civiltà, per quali motivi non siano riusciti ad elaborare, in fase di progresso, forme proprie, ma si siano trovati a copiare l’architettura occidentale…


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2 - Rocinha favela, Rio de Janeiro (Chensiyuan, https:// en.wikipedia.org/wiki/Favela#/media/File:1_rocinha_favela_closeup.JPG).

Ferlenga – Fino al punto in cui c’è stata coincidenza fra identità storica, cultura ecc., questi paesi sono riusciti a mantenere la propria identità, poi il Colonialismo, ha influito moltissimo nella scomparsa delle specificità e più tardi la globalizzazione ci ha messo del suo. In alcune parti del mondo era la cultura originaria ad essere meno interessata della nostra alle forme fisiche del proprio passato, la cultura Zen, ad esempio, è in questo molto diversa da quella occidentale. Ci sono, dunque, anche ragioni culturali che spiegano la perdita di memoria del passato. Come già dicevo parlando della Cina ci sono, però, interessanti segnali nel mondo che testimoniano una ripresa di interesse. Anche in questo ambito le novità più interessanti non provengono dall’Europa che ha ormai messo sotto controllo il proprio patrimonio storico, ma piuttosto dall’Africa, dal Sud America, dall’Asia. La strada in questa direzione è lunga e complessa ed è difficile avere una cultura delle città in situazioni in cui le città non hanno avuto una storia millenaria come quella europea. Ma le città, come si è detto, crescono e si moltiplicano sempre più, e chi quella cultura l’ha avuta e ancora la possiede, si trova teoricamente in una posizione avvantaggiata rispetto al suggerire modelli d’azione in questo campo. Modelli che possono appoggiarsi a situazioni reali non più solo visibili nei libri ma praticabili dal vivo grazie al turismo dilagante. Non sempre chi, come noi, possiede questo patrimonio è consapevole di ciò che ha, ma in una situazione in cui le città crescono senza modelli di riferimento e il tema delle identità culturali e storiche torna ad essere importante avere in dote un patrimonio inestimabile di esempi vivi, come borghi e città piccole e medie, e una tradizione di studi che ne ha analizzato le caratteristiche, potrebbe diventare centrale non solo per una valorizzazione nazionale, ma come offerta esclusiva in un mondo alla ricerca disperata di esempi da seguire e di conoscenze da acquisire anche in questo campo. T&C – Le infrastrutture, disegnate dagli ingegneri, hanno avuto un ruolo importante nello sviluppo

della città. Da tempo si è compreso che è importante prestare attenzione alla qualità del progetto per migliorarne la funzionalità, pensare all’estetica per rendere gradevoli alla vista e diminuirne l’impatto sul paesaggio. All’architetto si richiede di creare infrastrutture leggere, ecologiche e multifunzionali. Su questi temi si dibatte però, soprattutto, in ambito accademico e fra i professionisti più evoluti, mentre i committenti (soprattutto amministratori pubblici) e i progettisti (spesso chiamati a semplice iterazione di modelli standard, che consentano appalti col massimo ribasso) non prestano la dovuta attenzione. E la collettività, da parte sua, non sa affermare il proprio diritto a un buon progetto. Gli esiti li conosciamo. Come vede la situazione attuale e i possibili sviluppi a breve? Ferlenga – Si può affermare senza timore di smentita che, nelle metropoli contemporanee l’unico elemento in grado di esercitare un controllo sullo sviluppo urbano siano le infrastrutture. In certo senso, esse hanno, oggi, una funzione analoga a quella che, nel passato, avevano i monumenti. Le ragioni di questa centralità sono facili da intuire, in primo luogo esse soddisfano le esigenze di base, legate al movimento e allo scambio di merci, di migliaia di persone che popolano le città, in secondo luogo la loro dimensione le mette in grado, uniche tra tutte le componenti urbane, di misurarsi con la dimensione straordinaria della città odierna. Queste due caratteristiche fanno sì che le infrastrutture possano aspirare a svolgere un ruolo ordinatore quando l’ordine sembra essere del tutto perduto nel mondo urbano. Ma al di là di questo, la loro natura le rende disponibili a ruoli aggiuntivi, di tipo pubblico, o sociale. Un caso esemplare è la citatissima High Line di New York, una forma di recupero in cui un’infrastruttura obsoleta anziché essere abbattuta, acquisisce, grazie ai suoi abitanti, e all’architettura contemporanea, un valore aggiunto (osservatorio dall’alto, parco, spazio pubblico ecc.). Ma si potrebbero citare i casi di ponti, viadotti, funicolari, progettati per coniugare funzione primaria e suppletiva e 27


TRASPORTI & CULTURA N.50 divenuti punti di riferimento per città ritenute incontrollabili. Gli esempi sono tanti e rimandano alla messa in campo di una progettualità diversa. Come premessa esemplare possiamo citare il piano di Le Corbusier per Algeri che organizza la città attraverso un grande viadotto, in cui trovano posto, case, servizi, spazi pubblici: un’idea visionaria e ante litteram di infrastruttura che diventa città. T&C - La storia urbana – soprattutto nel nostro continente, così ricco di passato - è sempre stata caratterizzata dal riuso: di materiali, edifici e parti di città. La dismissioni delle aree produttive, in particolare, è un tema importante nella nostra era post-industriale. Altrettanto rilevante è la questione delle infrastrutture, che vengono rinnovate, con abbandono di vecchi manufatti. Si tratta di progettare e attuare un riuso che, da un lato, conservi la memoria, dall’altro soddisfi le esigenze funzionali, ma anche culturali di una comunità. Lei nel suo libro dice che occorre superare i limiti costituiti dalle idee di salvaguardia e conservazione paesaggistica. Ma che comunque, in una città, passato, presente e futuro devono convivere. Come procedere? Ferlenga – È vero, il riuso è sempre stato alla base di ogni trasformazione urbana, le modalità lente di crescita della città, l’economia e il buon senso portano a utilizzare questa pratica. Tutto ciò è stato vero e evidente fino ad un certo punto ma oggi è più difficile riconoscere questo processo per quanto riguarda l’esaurimento dei cicli produttivi e urbani più recenti. In primo luogo perché i materiali da costruzione della modernità hanno reso un po’ più difficile il riuso. Mentre nel passato è stato relativamente facile riutilizzare pietre tagliate ad arte o colonne, reimpiegare oggi i pezzi di un fabbricato di cemento armato è sicuramente più complicato. Anche per questo il nostro tempo ha generato un grande parco di elementi esauriti che rimangono in attesa che venga chiarito il loro destino: troppo costosi da demolire e troppo difficili da riutilizzare. Penso a sistemi infrastrutturali dismessi come le prime dighe, le prime infrastrutture per lo sport, le ferrovie in disuso, le strade obsolete, le gallerie abbandonate. Tutte costruzioni relativamente in buono stato e spesso in stretta relazione con paesaggi di pregio (le ferrovie abbandonate, per esempio, si snodano frequentemente in luoghi turisticamente interessanti e a volte straordinari, come avviene in Liguria). Riusare questo patrimonio più che un’occasione, è una necessità, ma si tratta di concepirne il riuso non più in termini solo conservativi (in passato si parlava di “archeologia industriale”) ma come parte non secondaria di una strategia contemporanea di intervento virtuoso sul territorio. L’architettura contemporanea, in questo, può avere un grande ruolo come completamento e interpretazione innovativa di ciò che già esiste, in stretto rapporto con le specificità di ogni luogo. Consideriamo ad esempio un recinto industriale in abbandono: una volta abbattuto il muro di cinta che lo isola dal contesto, può rivelare una ricchezza spaziale che, ormai, la città non possiede più. Pertanto il riuso di quegli spazi può costituire una grandissima occasione di rinnovamento urbano purché venga considerato come eccezione e non se ne perda una specificità che solo con l’accostamento di interventi di buona qualità architettonica può essere fatta scaturire dagli spazi abbandonati e dai ferri erosi. Per questo è anche necessario far crescere nuovi punti di vista che sappiano applicare all’esistente innovazione e creatività. 28

T&C – Per progettare, rinnovare, riusare è necessario avere una visione del futuro. Lei dice che c’è un affievolimento nella capacità di pensare al futuro in architettura (mentre c’è ancora nel cinema e nella letteratura). Effettivamente la nostra società appare ripiegata sul presente, con aspettative future che sembrano concentrate su uno sviluppo delle tecnologie fine a se stesso. Quali sono, secondo lei, le cause di questa paralisi? Può farci un esempio, invece, di capacità di proiettarsi nel futuro? Ferlenga – Nelle varie epoche, il futuro è stato interpretato in modi diversi. Per molto tempo, ad esempio, l’architettura moderna si presentava come ritorno al passato, ripresa dell’architettura classica. Quindi, in primo luogo, non sempre è detto che un’idea di futuro coincida con l’affermarsi di forme prima inesistenti: almeno per l’architettura, non è così. L’architettura procede per ritorni, intrecci, sovrapposizioni. Alcune cose cambiano, altre si ripresentano. Lo stesso Le Corbusier, simbolo novecentesco della modernità, fondava le sue visoni su realtà già “in atto” e da lui reinterpretate. Si potrebbe definirlo, in questo, un grande “visionario di quello che c’è” per riprendere una definizione di Daniele Del Giudice coniata per Wim Wenders. Anche nelle raffigurazioni della Città Nuova di Antonio Sant’Elia, oltre al futuro si riconosceva il peso dell’eclettismo espresso dalle centrali o dalle ville al lago. In sostanza per quanto riguarda l’architettura, sono rari i momenti di innovazione totale, e tanto meno ciò avviene se parliamo di città dove i modelli del passato sempre contano anche nell’invenzione di città nuove. Per molti motivi, non ultimo la velocità dei cambiamenti, anche oggi per gli architetti è difficile immaginare il futuro in termini di cambio drastico di scenario. Il nostro sembra essere piuttosto il tempo in cui il futuro deve essere immaginato in ciò che già esiste. Ma per questo occorre saper vedere, per mettere a punto nuove modalità di trasformazione che abbiano in ciò che si vede, e si comprende, il materiale primario da cui partire. E intendo con questo tutto quanto abbiamo prodotto in termini di quantità piuttosto che di qualità, tutto quanto conosce un livello sempre più esteso di degrado. La vera sfida è dunque, io credo, attribuire a questa enorme riserva di architetture e spazi esauriti quella qualità che non ha mai saputo produrre e quell’attenzione che non ha mai saputo destare. T&C – Ci chiediamo: se la città rappresenta la cultura di un popolo, cosa dicono di noi, oggi, le nostre città? Nel mondo della comunicazione totale e degli spostamenti fisici per viaggi e migrazioni, possiamo dire di avere ancora un’identità ben definita? Oppure facciamo parte di un tutto indistinto e globalizzato? Ferlenga – Credo che le parti più estese delle città riflettano la media di ciò che noi siamo. Se la città antica si segnalava per una forte presenza di luoghi di culto o di potere spesso prevalente, almeno come immagine, rispetto al resto, oggi accade il contrario: le parti rappresentative sono concentrate e ridotte nelle dimensioni mentre le altre sono sterminate e prive di qualità. In questo senso, in un’epoca di globalizzazione in cui le differenze umane tendono ad attenuarsi anche per le città è lo stesso, oppure, e questa è la mia impressione, sembra essere lo stesso a meno che non si sappia vedere, anche sotto i rifiuti, anche nelle ripetizioni


TRASPORTI & CULTURA N.50 senza fine, quel permanere di differenze sostanziali di cui abbiamo già parlato e che dobbiamo imparare a riconoscere. T&C – C’è l’idea che la città si debba evolvere incessantemente: è avvenuto in passato e dobbiamo pensare che avverrà anche in futuro. Ma se pensiamo ad alcune città speciali che sembrano aver raggiunto il culmine della loro armonia e bellezza, avvertiamo il desiderio di “fermarle”. Può, per esempio, una città come Venezia andare oltre se stessa? Ferlenga – Venezia ha la fortuna di avere dei limiti fisici, lo stesso vale per Mantova, la mia città, e per poche altre in cui barriere più o meno naturali (sia la laguna veneziana che i laghi mantovani sono in realtà il frutto di colossali opere di controllo umano della natura) hanno determinato l’impossibilità di far crescere, in contiguità al centro, una periferia. E tuttavia sarebbe sbagliato affermare che in queste città non ci sia stato cambiamento nel tempo, Venezia, ad esempio, si è molto trasformata ed è molto più dinamica di quello che normalmente si pensi. Nell’Ottocento è totalmente cambiata, anche se spesso ha deciso di dotarsi di maschere che simulano epoche precedenti. La questione è che noi fatichiamo a percepire il cambiamento sotto la superficie di facciate apparentemente immutate. In realtà Venezia si è trasformata come tutti i centri storici italiani, e non poteva che essere così visto il peso odierno del turismo. Si è trasformata pesantemente e il non accorgersene rende difficile qualunque politica di trasformazione. Anche in questo dovremmo affinare il nostro sguardo di architetti e la capacità di osservare in profondità. T&C – Certo è che in passato si costruiva in modo coerente con l’esistente, mentre se a una delle attuali archistar si consentisse di costruire a Venezia, questa vorrebbe sicuramente lasciare la sua impronta ben visibile. Ferlenga – La cosa non mi entusiasmerebbe, sicuramente, ma dobbiamo anche pensare all’effetto che deve aver fatto sui fiorentini la cupola del Brunelleschi, non essendosi visto in precedenza nulla di simile. Spesso l’architettura viene giudicata a posteriori e spesso, al momento della sua nascita, appare dirompente, salvo poi venire accettata coralmente. Difficile anche intenderci su cosa voglia dire essere coerenti con una città che evolve nel tempo; coerenti con quale parte di essa ? con quale epoca? A Venezia, in realtà, si è sempre costruito molto: rifacimenti, aggiunte, inserti testimoniano di una particolare dinamicità difficile da riconoscere anche a causa della condanna a riprodurre per sempre se stessa che sembra affliggere la città. Ma Venezia, come tutte le città, cambia, dentro di lei ci sono molte Venezie e accanto a lei ci sono veri e propri simboli di modernità come Mestre e Marghera. Quindi anche il nuovo a Venezia può avere spazio, come per altro ha avuto, e, come sempre, è la qualità e la sensibilità di chi lo progetta a fare la differenza. T&C - Lei nel suo libro cita i testi che sono stati fondamentali per la sua formazione, e dice che oggi c’è una carenza di cultura e che forse altre discipline, come arte e letteratura, sono andate più avanti, comprendendo quello che gli architetti non hanno potuto vedere coi loro strumenti. Come vede la situazione dell’architettura d’oggi nel senso della capacità di rapportarsi a questi ambiti culturali differenti, ma soprattutto nel senso di crescere culturalmente?

Ferlenga – Non è un momento felice dal punto di vista della sua forza culturale, ma ci sono stati già altri momenti di questo tipo e in quei casi l’architettura, per capire se stessa e per crescere, ha dovuto appoggiarsi ad altre culture: alla pittura, o alla scultura. Più recentemente gli architetti si sono rivolti alla fotografia o alla geografia per comprendere meglio i territori in cui la loro opera si svolgeva, per vedere cose che magari avevano davanti agli occhi, ma non vedevano. Oggi ad esempio è indubbio che l’arte sappia riflettere sulla città contemporanea meglio dell’architettura, e così è per il cinema, magari indirizzando l’attenzione su luoghi diversi da quelli canonici oppure sui luoghi canonici, come i centri storici, visti con sguardi diversi. Ci sono molti artisti che su questi temi hanno posto un’attenzione particolare riflettendo per esempio sull’ in between, su ciò che sta fra le cose piuttosto che sulle cose stesse e questo dimostra una capacità dell’arte contemporanea di misurarsi con i fenomeni urbani e sulle relazioni che in essi si instaurano che l’architettura ha perduto a favore della produzione di singoli oggetti architettonici. Se, però, guardiamo ancora una volta dietro a noi, vediamo che in alcuni momenti, come alla fine degli anni ’60 del Novecento, l’insoddisfazione per la cultura vigente e la necessità di guardarsi attorno hanno generato la nascita di una cultura rinnovata anche per gli architetti. Mi riferisco all’esperienza della Casabella di Rogers, ai contribuiti di Gregotti, Rossi, Tafuri. Oggi di tutto questo non si vede traccia e il guardarsi attorno genera, piuttosto, la perdita del proprio punto di vista. Nel caso citato c’era un’idea di rinnovamento generale alla quale gli architetti pensavano di poter dare il proprio contributo rivedendo la propria cultura e adeguandola ai tempi mutati. Anche oggi questa necessità esiste ma le risposte stentano ad arrivare. Se infatti l’impegno è progressivamente venuto meno i problemi, per contro, si sono progressivamente accentuati. Ciò che, personalmente, mi sembra di vedere è una condizione di fondo che renderebbe possibile la ripresa di forza e ruolo di una disciplina che, tranne pochi casi globali, rischia la marginalizzazione. Certo, gli esiti che abbiamo conosciuto negli anni ’60 non erano separabili dal fermento culturale e politico che caratterizzava quell’epoca. Ma se oggi quelle particolari spinte esterne sono meno forti, ce ne sono altre ugualmente espresse dalla maggioranza della popolazione del mondo, come l’attenzione all’ambiente, vera priorità della nostra epoca. Ebbene, questa è una buona premessa perché l’architettura riceva dalla società quella spinta senza la quale esisterebbero solo risposte personali ma non cambiamenti generalizzati. Nasceranno sempre, per fortuna, i Renzo Piano o i Frank Gehry, così come sempre sono esistiti i Michelangelo o i Brunelleschi. Ma oggi la maggior parte degli abitanti delle città del mondo vuole risposte semplici e praticabili, vuole condividere le decisioni che li riguardano, riconoscersi negli interventi di trasformazione e attraverso questi riconoscere i luoghi in cui vive. Vuole essere difesa dai disastri che sempre più affliggono i territori, e che le ricostruzioni non siano solo episodiche o emergenziali ma contribuiscano a dare nuove prospettive di futuro. Ecco, per me, i temi più rilevanti ai quali l’architettura deve dare una risposta. E se ciò non avvenisse avremmo, forse, qualche grattacielo in più, ma il rischio del collasso per tutto il resto del mondo abitato. © Riproduzione riservata

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Il paesaggio urbano come interprete delle sfide delle città di oggi e domani di Andreas Kipar

Mai come in questo secolo le città sono state protagoniste della vita dell’uomo. Se in Europa, continente urbano per eccellenza, circa il 70% dei cittadini vive oggi nelle città e nei prossimi decenni continuerà a farlo con previsioni di crescita1, nel resto del mondo si assiste allo stesso trend, sia in Paesi già industrializzati, sia, in maniera ancora più rapida e impattante, nei Paesi africani e asiatici, oggi principalmente agricoli2. Qualche decennio fa è stato coniato il termine Antropocene3 per descrivere questa nuova era geologica in cui viviamo, plasmata a tal punto dall’azione umana che la natura viene controllata, modificata e riprodotta nelle città con gradi di concentrazione ecologica maggiori che allo stato selvatico.

Sfide delle città contemporanee Le città non soltanto crescono a livello demografico e dimensionale, ma assumono sempre maggiore peso in campo politico, culturale ed economico: in Europa, per esempio, secondo l’ultimo report sulla situazione delle città della Commissione, se da un lato esse costituiscono poli di crescita economica e attrattività sul mercato del lavoro, dall’altro hanno rafforzato la loro posizione anche come centri dello svago e dell’educazione, dell’innovazione e della produzione4. Proprio per questo loro ruolo preponderante nella determinazione di dinamiche a scala sovraordinata, esse sono il palcoscenico dell’attuale fase di trasformazione della società. Nelle aree metropolitane la logica deterministica degli ultimi 150 anni di industrializzazione, spesso poco lungimirante e senza scrupoli, ha portato non soltanto a un degrado ambientale, ma anche ad una frattura nella dimensione sociale. Oggi altre contingenze esacerbano le criticità lasciate da questo lungo processo di meccanizzazione e sfruttamento: il cambiamento climatico, la stagnazione economica e le incertezze geopolitiche, producono gli effetti più rilevanti proprio negli ambiti urbanizzati, data la loro rilevanza a livello economico e demografico.

Il paesaggio nello specchio della società Questa crisi della città odierna si riflette inevitabilmente nel suo paesaggio. Nel 1984 il geografo 1 UN 2014 [http://esa.un.org/unpd/wup/Highlights/WUP2014 -Highlights.pdf ]. 2 ibidem. 3 E.Stoermer, P.Crutzen (2005). 4 EU, The State of European Cities Report 2016.

The urban landscape as an interpretation of the challenges of cities of today and tomorrow by Andreas Kipar The world has never been as urbanized as in our century. In Europe, where almost 70% of citizens live in urban settlements, the phenomenon is increasing. Cities expand and grow in population, as they gain increasing relevance on the political, cultural and economic scene. In 1984, French geographer Georges Bertrand stated that “landscape is the mirror of society”. If our society is essentially living in cities, then urban landscapes become the main reference in our relation to the world. Landscape architects take the responsibility to understand, mediate and act on the urban landscape. After decades of substantial recovery from past legacies of urban regeneration, digitization is deeply influencing this process, because it is global and accessible, creates new spaces, connects goods and people. European cities are developing new models of urban development to face increasing societal challenges: shared spaces, resilient infrastructures and smart communities lie at the core of this transformation. The mission of landscape architects strives to re-establish a human scale in this shifting context by reconnecting people with nature. Urban nature fills the gap between the uncertain fragmentation of technology and the continuity of our everyday life. Landscape is the story of the people who live in it, as writer Italo Calvino used to say; after centuries of brutal industrialization, today’s renaturation process embodies people’s desire for health, escape and relationship with nature. The landscape becomes a political resource: within urban development and regeneration, landscape fosters democratic debate and social negotiation.

Nella pagina a fianco, in alto: masterplan Koeln Muehlheim, ©LAND; vista per il concorso ParkStadt Sued, Colonia, ©LAND.

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1 - KruppPark, Essen, ph. Johannes Kassenberg.

2 - KruppPark, Essen, ph. Oberhauser.

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francese Georges Bertrand affermava: “Il paesaggio è certamente ciò che si vede, non lo si vede mai direttamente, non lo si vede mai isolatamente e per la prima volta. Il paesaggio è nello specchio della società. I geografi, tra gli altri, devono rifletterlo”5. Come i geografi, i paesaggisti hanno la responsabilità di assumere il ruolo di mediatori, di percepire, comprendere e agire sul paesaggio. Nella sua accezione sviluppata dalla scuola

francese dagli anni ’80 e riconfermata nella Convenzione Europea del Paesaggio (2000), esso è inteso come sguardo della cultura rivolto al territorio, che quindi diviene esso stesso paesaggio solo in funzione delle proiezioni delle aspettative che una comunità vi ripone. Secondo Bertrand il paesaggio, in quanto sintesi tra natura e cultura, “non si spiega direttamente e principalmente con ciò che si vede, bensì con i fattori di civiltà” 6.

5 C. Bertrand, G. Bertrand, Une géographie traversière, 2002

6 Ibidem.


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3 - Porta Nuova Varesine, Milano. Foto di Giovanni Nardi.

A partire dagli anni ’80, tuttavia, il processo di deindustrializzazione porta a ripensamenti profondi del concetto di paesaggio, peraltro martoriato da decenni di sfruttamento produttivo, e soprattutto ad una sua estensione al contesto urbano. La maggiore attenzione alla qualità della vita nelle città, porta architetti, urbanisti e paesaggisti a concepire i paesaggi urbani come forme di pari rango rispetto a quelli rurali o naturalistici, così come poi ribadita nella Convenzione stessa. Leon Battista Alberti riconosceva già a suo tempo che la strut-

tura della città corrisponde alla struttura sociale e politica7 ; il paesaggio urbano è dunque più che mai luogo dell’azione di una comunità e specchio delle sue trasformazioni. La città contemporanea diviene il nuovo orizzonte di riferimento, il nostro Bezugslandschaft, sia come cittadini che la vivono, sia come professionisti coinvolti nel suo processo di trasformazione. 7 C.G. Argan, La città nel pensiero di Leon Battista Alberti, 1991.

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4 - Porta Nuova Varesine, ©LAND.

L’attuale concetto di paesaggio urbano va letto anche attraverso il palinsesto che forma le nostre città, in un continuo sovrapporsi di strutture programmate e incursioni di una natura antropizzata, “forma plasmata” che, come diceva Goethe, “solo vivendo evolve” 8.

Evoluzione dello spazio nella città moderna europea: passato e nuovi sviluppi In quest’ottica, la città europea moderna ha affrontato differenti fasi di riassetto della propria struttura, e conseguentemente di trasformazione del proprio paesaggio urbano attraverso un processo più o meno spontaneo di adattamento e riconversione. A partire da metà Ottocento, nel fiorire della stagione borghese e industriale, le cerchie murarie difensive sono state progressivamente demolite per lasciare il posto a boulevard alberati, giardini e, naturalmente, all’espansione edilizia. La società aveva bisogno di spazi di rappresentanza sociale per affermare il suo nuovo status, ma necessitava anche di nuovi spazi per decongestionare la struttura malsana di alcuni vecchi quartieri. Per esempio a Colonia questa trasformazione è stata particolarmente significativa con l’esperienza delle cinture verdi urbane, tanto più che è ancora in corso attraverso il lor completamento e ripensamento; sorte negli anni ’20 sul sedime delle mura prussiane dalla lungimirante idea dell’urbanista Fritz Schumacher, oggi le cinture verdi della città costituiscono due importanti polmoni verdi integrati con il tessuto metropolitano, tanto più perché sono state sviluppate come contenitori 8 J.W. Goethe, Dio e mondo, trad. it. di Mario Specchio: Tutte le poesie, Mondadori, Milano, 1989, Vol. I, pp. 1017-19.

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di un’ampia offerta ricreativa integrata. Dal 2014 la cintura interna (Innerer Grüngürtel) è stata interessata da un nuovo masterplan urbanistico e da un processo progettuale innovativo, il concorso Parkstadt Süd. Anche per il nostro studio esso non ha rappresentato soltanto l’occasione per ripensare e ricucire una parte di città con i relativi spazi aperti (a completamento del ring verde mai terminato), ma ha costituito un modello sperimentale di progettazione partecipata che mira a realizzare un nuovo mix funzionale, a densificare la città offrendo al contempo spazi aperti di qualità come nuove centralità urbane. La densificazione diviene generatrice di plusvalore nel momento in cui crea spazi pubblici di qualità.

From grey to green Oltre al palinsesto urbanistico storico, una complessa eredità del passato nelle nostre città è costituita dalle aree produttive abbandonate, prodotte dalla dismissione post-industriale. A partire dagli anni ’80, è iniziato un processo di riconversione dei cosiddetti brownfields in greenfields: dai recinti industriali alla permeabilità dello spazio aperto. Questa transizione ha prodotto risultati di successo quando legata all’attivazione di una cultura del paesaggio, a conferma del fatto che esso non può prescindere dalla società che lo ha generato e lo utilizza. È il caso, per esempio, di città come Liverpool e Amburgo, così come di Milano e della conurbazione della Ruhr, dove abbiamo sviluppato una lunga esperienza di progettualità rispettivamente con i vari Programmi di Recupero Urbano e Piani Integrati di Intervento9 e con la IBA Emscher9 I Piani di Recupero Urbano (PRU) e i Piani Integrati di Intervento (PII) sono strumenti urbanistici sviluppati dalla prima metà degli anni ’90 per riqualificare il tessuto urbano edilizio e ambientale. Trag li altri siamo stati coinvolti sui PRU Pompeo


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park. La Ruhr, in particolare, sfruttando la capacità di fare sistema degli stakeholder del territorio e gli impulsi di format territoriali vocati alla coesione e interdisciplinarietà (tra cui la IBA Emscherpark nel decennio 1989-1999), ha cominciato una trasformazione irrefrenabile da capitale dell’acciaio e del carbone a capitale della cultura e del verde10 . L’area industriale della Krupp a Essen è stata trasformata in un parco multifunzionale connesso alla nuova sede aziendale, un vero e proprio campus nel paesaggio. La città, con questa e altre progettualità e politiche sostenibili, ha ottenuto il titolo di Capitale Verde Europea 2017 e guida il percorso virtuoso di tutta le regione attraverso la cosiddetta Decade Verde11 .

Dallo spazio fisico allo spazio delle connessioni e del digitale Oggi siamo entrati in una nuova fase dell’urbanesimo: le infrastrutture e la digitalizzazione stanno stravolgendo le dinamiche di flussi, usi e rapporti urbani e generando nuove esigenze da parte dei cittadini: in città sempre più estese e dense di attività, il desiderio di natura diventa una prerogativa fondamentale per migliorare la qualità della vita. Il fenomeno della digitalizzazione, in particolare, sta rivoluzionando il concetto di città partendo da un processo del tutto nuovo: essa è globale, Leoni-ex FIAT OEM e Rubattino-ex Maserati e sul PII Bicocca-ex Pirelli. 10 La Ruhr è stata Capitale Europea della Cultura nel 2010, Essen invece Capitale Verde Europea nel 2017. 11 La Grüne Dekade (2017-2027) è il periodo inaugurato da Essen Capitale Verde Europea e proiettato alla IGA (esposizione internazionale di giardini) che si terrà tra dieci anni nella Ruhr. L’intero periodo è costellato da eventi e traguardi “verdi”, dall’implementazione a scala regionale della strategia delle green infrastructures pubblicata nel 2016 alla KlimaExpo del 2022.

accessibile da tutti e da ovunque, comprime la spazialità e la temporalità del paesaggio quotidiano, libera spazi, stimola la condivisione e connette cose e persone. L’immagine statica di città mineralizzata, gerarchizzata e consolidata, tramandata attraverso secoli di storia urbana occidentale, viene sovvertita nell’era digitale dai luoghi della sharing society, in cui non vi sono più confini rigidi e definiti, lo spazio pubblico diventa fluido, multifunzionale, informale e adattabile. Internet, e ancor di più la sua mobilizzazione su innumerevoli apparecchi portatili personalizzati, hanno causato la frammentazione dello spazio pubblico in una miriade di sottogruppi, interconnessi ma apparentemente inconciliabili, e mutato profondamente la nostra relazione con esso. I social networks rendono ambigui i confini della cosiddetta sfera pubblica, portando al conflitto tra la sconfinata libertà di scelta e di abbinamenti della rete, e l’inevitabile confronto con il diverso nella fisicità dello spazio pubblico. Questo divario ha portato alla creazione di luoghi in cui le persone, come mai era successo in passato, si incontrano pur non conoscendosi, e in questo ambiente creano comunità temporanee: basti pensare a un evento sportivo organizzato in un parco, un flash mob in una piazza o un flusso di vacanzieri in un’area balneare. Abitante e turista sono i nuovi percettori del paesaggio: il turista, in particolare, è un soggetto mobile, quindi ideale portavoce della cultura digitale. Secondo Rem Koolhaas, il mondo si appresta a diventare tutto un unico spazio pubblico indistinto12 , mentre c’è chi, come Rauterberg, afferma che c’è ancora un forte sentimento di autodeterminazione che i cittadini hanno esigenza di esprimere, anche se sotto le mutevoli sembianze delle comunità temporanee del mondo digitale, che ha fatto della sfera pubblica la loro nuova casa13 .

5 - International Financial Center, Mosca, ASTOC Architects and Planners con HPP Architects, LAND Germany GmbH, Drees & Sommer. Illustration by Playtime.

12 R. Koohlaas, Junkspace, 2001. 13 H. Rauterberg, Wir sind die Stadt!, 2013

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6 - Progetto Expo 2020 Dubai, © Expo 2020 Dubai.

Franco Farinelli, geografo, sostiene che non abbiamo ancora modelli adeguati per capire la realtà contemporanea, dove non c’è più una distinzione tra sintattico e semantico nella dialettica sul paesaggio. Il mondo non è più un insieme di tavole ma un sistema globale e globalizzato: oggi i cambiamenti non hanno più bisogno di tempo e spazio.

Nuovi modelli di paesaggi urbani Nelle agende urbane e nelle visioni dei vari stakeholder coinvolti emergono nuovi modelli di città che interpretano i bisogni di questo mondo digitalizzato. Le maggiori città europee stanno creando nuovi quartieri in cui lo spazio pubblico ha un ruolo centrale e declinano i princìpi di modelli condivisi (smart city, resilient city, green city, ecc.) con l’obiettivo comune di creare città più vivibili per una società di condivisione. Così Vienna sta costruendo Aspern Seestadt, mentre Monaco il quartiere di Freiham, sviluppi per circa 20.000 abitanti in cui lo spazio pubblico diventa elemento strutturante e catalizzatore di valore economico e sociale, e dove i temi della digitalizzazione (start up, spazi condivisi, accessibilità, mix funzionale, temporaneità, mobilità sostenibile, servizi smart) trovano una dimensione concreta. A Mosca abbiamo avuto modo di lavorare su un altro modello di città, la Balanced City, la città a misura d’uomo. Sulle rive del fiume Moskva, nella periferia nord della capitale, sorgerà un nuovo quartiere di oltre 400 ettari la cui struttura urbana sarà ordinata proprio dal paesaggio: il “paesaggio fluido” del fiume si estende attraverso corridoi verdi, continuando nella forma di viali, piazze e corti accessibili fino al cuore del quartiere. Il paesaggio porta così la scala umana della natura nell’urbanizzato. Anche Milano sta sperimentando questa nuova dimensione: la piazza della digitalizzazione è soprattutto una cerniera tra i flussi, come testimoniano gli spazi pubblici di Porta Nuova, in cui abbiamo lavorato, o le nuove piazze di City Life, luoghi che non sono più statici, univoci o monumentali ma piattaforme multifunzionali e aperte.

Landscape first! Anche al di fuori dell’Europa, una nuova stagione

urbana sta producendo nuovi modelli di paesaggio urbano, legati sia alle crescenti esigenze di efficienza energetica e rendimento economico, sia al 36

desiderio dei cittadini di spazi inclusivi e naturalità diffusa. A Dubai stiamo sviluppando gli spazi aperti di Expo 2020 declinando tre temi del futuro nel disegno del paesaggio e delle sue funzioni: Sustainability, Mobility e Opportunity. Il modello di città globale trova qui un laboratorio di sperimentazione già a partire dalle fasi progettuali, gestite con il sistema BIM14 per garantire la massima efficienza dei processi e l’integrazione delle discipline coinvolte. In Canada, a Montreal, stiamo applicando la strategia delle green infrastructures nel masterplan per la riqualificazione del quartiere Saint-Laurent, portando negli spazi frammentati e anonimi del corridoio Cavendish-Laurin-Liesse la natura urbana come fattore di qualità spaziale e fruitiva, e quindi di risorsa economica. L’innovazione e interdisciplinarietà alla base di un nuovo disegno dello spazio pubblico urbano sono riconoscibili anche in iniziative internazionali bottom-up, quali il programma Reinventing cities lanciato dalla città di Parigi nel 2015 nell’ambito del network di città C40. Questo programma si pone come obiettivo la riqualificazione di aree pubbliche della città con un processo nuovo, aperto e partecipativo che promuova l’innovazione e la sostenibilità; l’approccio olistico al paesaggio, anche in ambito urbano, conferisce ad esso il ruolo di mediatore tra le discipline, interprete della trasformazione della città su scala globale e indicatore del cambiamento della società15 .

Natura urbana e scala umana Riconnettere le persone alla natura garantisce una continuità percettiva e temporale in antitesi con la frammentazione e l’incertezza che i progressi tecnologici stanno introducendo nella nostra vita quotidiana. “Il paesaggio più che uno stato è una storia”, in cui “il complesso rapporto tra uomo e natura, tra natura e cultura va articolato, anche a livello di paesaggio, nelle sue dimensioni di passato, presente e futuro”16. È un processo di umanizzazione della città in quanto storia, o meglio in quanto racconto delle persone che lo vivono, come amava dire Calvino17. La natura urbana esprime proprio il desiderio umano primigenio di confronto con la natura, di evasione e continuità, soffocato da decenni di industrializzazione forzata e ora lentamente riscoperto tra le variabili maglie del mondo cibernetico.

Il paesaggio come accordo e come standard In questo senso il paesaggio costituisce una risorsa politica di grande potenzialità, perché gli stakeholder stessi ne decretano il valore, a prescindere dalle sue caratteristiche estetiche e funzionali. Il paesaggio è un accordo tra gli stakeholder18, un vero e proprio strumento democratico di autodeterminazione dei cittadini, o degli utenti, se pensato in termini digitali. È lo strumento del compro14 Il Building Information Modeling (BIM) consiste in un metodo per l’ottimizzazione della pianificazione, realizzazione e gestione di costruzioni tramite aiuto di un software. 15 Toublanc, 2004 in Landscape and Sustainable Development: The French Perspective, 2015. 16 R.Salerno, C. Casonato, 2008. 17 I. Calvino, “Il sentiero dei nidi di ragno”, prefazione del 1964 18 Yves Michelin.


TRASPORTI & CULTURA N.50 messo politico, della mediazione interdisciplinare e della cooperazione inter-istituzionale. Questo status del paesaggio è stato confermato anche dalla recente normativa internazionale, dalla Convenzione di Aarhus (1998) alla Convenzione Europea del Paesaggio (2000) fino alla Carta di Lipsia (2007) sulle città europee sostenibili. Quest’ultima individua nel paesaggio urbano un determinante fondamentale per le condizioni di vita delle popolazioni urbane e mira a raggiungere uno standard minimo, una Baukultur (o cultura del progetto) orientata allo sviluppo di una visione comune: città forti e vivibili. Più recentemente, a chiusura dell’anno di Capitale Verde Europea 2017, la città di Essen ha elaborato una dichiarazione che riprende questi princìpi nell’ambito della creazione di una piattaforma integrata come strumento applicativo attraverso la condivisione, la partecipazione e la diffusione dell’esperienza dei format di pianificazione territoriale, di cui la regione della Ruhr si fa portavoce. Nel 1961 il cancelliere tedesco Willy Brandt proclamava che “il cielo sopra la Ruhr deve tornare blu”, avviando con quella promessa la trasformazione epocale dell’intera regione. Ancora una volta, oggi l’obiettivo comune è guidare la trasformazione delle città in luoghi vivibili e sempre più orientati al futuro.

Verso un nuovo approccio al paesaggio urbano La necessità di cooperazione tra istituzioni, città e regioni (sempre più spesso transnazionali), la spinta verso la digitalizzazione globale che con rapidità inaudita sta cambiando il nostro modo di vivere la quotidianità, l’urgenza delle agende urbane di rispondere alle sfide che determineranno la qualità urbana delle città del futuro, sembrano avere come possibile denominatore comune la gestione e il progetto di paesaggio. La lezione di Bruno Zevi ben sintetizza le varie posizioni che emergono dal dibattito sul paesaggio della città contemporanea: “La paesaggistica insegna qualcosa di fondamentale agli architetti: è perverso anchilosare la crescita, le strutture vitali non possono essere ibernate. Per questo verso le indagini nei territori e nei paesaggi sono liberatori anche in chiave architettonica (…) gli ideali non riguardano più la stabilità, l’armonia, l’equilibrio, il necrofilo distacco, ma la gestione della conflittualità, e di un rigenerato nomadismo” 19. La gestione delle conflittualità e il “nomadismo”, interpretabile come scardinamento della staticità urbanistica del passato ad opera della cultura digitale, divengono prerogative nel campo di azione dei progetti dello spazio aperto: essi non costituiscono più soltanto lo spazio rappresentativo o d’evasione, ma diventano parte di un sistema di infrastrutturazione verde delle nostre città, capace di fornire servizi (i cosiddetti servizi ecosistemici20) per il benessere dei cittadini e per l’efficienza della gestione di clima e ambiente urbani, ma anche di diventare driver di sviluppo economico e sociale attraverso l’introduzione di

una nuova natura antropizzata, ovvero pianificata quale organismo in evoluzione.

Bibliografia AA.VV., Grüne Infrastruktur / Green Infrastructure: Deutscher Landschaftsarchitekturpreis 2015, Birkhäuser, Basel, 2015 C. Bertrand, G. Bertrand, Une géographie traversière: L’environnement à travers territoires et temporalités, Paris, 2002. I.Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Einaudi, Torino, 1964 C. Crutzen, Benvenuti nell’Antropocene. L’uomo ha cambiato il clima, la Terra entra in una nuova era, Mondadori, Milano, 2005 European Commission-Directorate General for Regional Policy, Cities of tomorrow - Challenges, visions, ways forward, Luxembourg: Publications Office of the European Union, 2011.[http://ec.europa.eu/regional_policy/ sources/docgener/studies/pdf/citiesof tomorrow/citiesoftomorrow_final.pdf], ultimo accesso: 02/01/2018 A. Kipar, Architetture del Paesaggio – Ideen und Wettbewerbe, Il Verde Editoriale, Milano, 2003 R. Koolhaas, Junkspace, Quodlibet, Macerata, 2006 Y. Luginbühl, P. Howard, Landscape and Sustainable Development: The French Perspective, Routledge, Londra, 2015 T. Mastrobuoni, Il cielo sopra Essen, in «La Repubblica», 9 febbraio 2018 H. Rauterberg, Wir sind die Stadt! Urbanes Leben in der Digitalmoderne, Edition Suhrkamp, Berlin, 2013 R.Salerno, C. Casonato, Paesaggi culturali. Rappresentazioni esperienze prospettive, Gangemi Editore, Roma, 2008 United Nations, Sustainable Development Goals [https://sustainabledevelopment.un.org/sdgs], ultimo accesso: 02/01/2018 European Union, United Nations Human Settlements Programme (UN-Habitat), The State of European Cities Report, 2016 - Cities leading the way to a better future, [http://ec.europa.eu/ regional_policy/en/policy/themes/urban-development/cities-report], ultimo accesso 02/01/2018 United Nations, World Urbanization Prospects, The 2014 Revision Highlights [http://www.un.org/en/development/desa/news/ population/world-urbanization-prospects-2014.html],ultimo accesso 02/01/2018 B. Zevi, Paesaggistica e grado zero della scrittura architettonica: Paesaggistica e linguaggio grado zero dell’architettura - consultazione internazionale e convegno, Modena, settembre 1997

19 B. Zevi, Paesaggistica e grado zero della scrittura architettonica: Paesaggistica e linguaggio grado zero dell’architettura consultazione internazionale e convegno, Modena, settembre 1997. 20 I servizi ecosistemici sono “i benefici multipli forniti dagli ecosistemi al genere umano”, così come definiti nella Valutazione degli ecosistemi del millennio (Millennium Ecosystem Assessment, 2005).

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Condizioni dell’abitare e politiche urbane in alcune esperienze europee: nuove sfide per il progetto della città di Chiara Mazzoleni

Nell’esplorare alcuni aspetti del fenomeno urbano contemporaneo, Carlo Donolo ha anteposto due condizioni che designano le città che, più di altre, possono aiutare a comprendere le nuove configurazioni del rapporto tra spazio e società e, più specificamente, la nuova centralità della città nel costituirsi delle disuguaglianze sociali. Secondo Donolo, la città è l’ambito nel quale si determina “la sola connessione razionale tra la sfera privata e quella pubblica, tra nuda vita e sfera sociale”, dove le due dimensioni fisica e sociale si compenetrano e si creano le condizioni evolutive dei rapporti tra le persone. Essa è anche l’ambito dove si formano “opportunità asimmetriche” e “che genera – oltre a ospitarlo – il diseguale in tutte le sue forme” (Donolo, 2011). La città è il contesto in cui storicamente si è formata la compresenza di popolazioni plurime, dalla quale hanno origine problemi di adattamento e integrazione (Ranci, 2010). Da alcuni decenni essa è diventata il luogo dove questi problemi hanno prodotto forti tensioni. Ovvero il luogo dove si sono manifestati in modo particolare e si sono esacerbati gli esiti dei mutamenti economici e delle relazioni sociali indotti dalla rivoluzione neoliberale, dalla globalizzazione e dai fenomeni migratori. La distribuzione delle opportunità tra gli individui e i gruppi sociali – in termini di risorse, servizi e accessibilità, intesi come diritti umani fondamentali (Soja, 2010) – è diventata ancor più asimmetrica. Le disuguaglianze sociali sono state per lungo tempo accettate come differenze tra classi nella misura in cui era riconosciuto lo status di cittadinanza, con il suo corollario di diritti prima civili e politici, quindi anche sociali, ed era riposta fiducia nelle capacità regolative dello Stato sociale (Marshall, 2002). Con la progressiva contrazione delle prestazioni di quest’ultimo, la cronica crisi fiscale e l’intensificarsi dei flussi migratori globali, esse si sono tradotte in fenomeni inediti di disgregazione, segregazione spaziale, crescita della vulnerabilità ed esclusione sociale, contestualmente alla trasformazione della cittadinanza in paradigma escludente. Questi fenomeni sono la manifestazione più evidente del consistente mutamento in atto nelle città ed evidenziano come le condizioni dell’abitare siano al centro di questo mutamento. Prendendo come riferimento la città europea, segnatamente alcune tra le città di simile grado più inserite nella competizione internazionale che si differenziano per tradizione amministrativa e capacità di governo, con un orientamento dell’attenzione soprattutto sulle questioni insorgenti dell’aggravarsi delle disuguaglianze e dell’accentuarsi delle dinamiche di polarizzazione sociale

Conditions for living and urban policies in some European experiences: new challenges for the design of cities by Chiara Mazzoleni The city is the context in which the coexistence of different populations has formed historically, leading to problems of adaptation and integration. In recent decades, it has become the place where these problems have produced strong tensions and been exacerbated by the economic changes and social relations induced by the neoliberal revolution, globalization and migratory phenomena. This article, with reference to the European city, focuses on issues arising from the aggravation of inequalities and the accentuation of the dynamics of social polarization in the processes of producing space, and examines them as one of the spatial implications of public housing policies. In the cases considered, the projects developed in the second half of the twentieth century have contributed to the fragmentation of the city into many separate and disconnected parts, through the application of a simplified functional formula. The main challenge that the contemporary city poses to urban planning and to public policies, concerns the social, as well as environmental, sustainability of transformations, i.e. the mitigation of the growing asymmetry of the opportunities offered by the city as a living environment to its increasingly heterogeneous populations, as well as the reconstitution of its connective capacity. In this direction, Sennett’s contribution concerning the open city is considered very fertile, and the paper indicates the main suggestions that can derive from it for contemporary urban planning.

Nella pagina a fianco, in alto: Amsterdam, Plan Zuid, parte (1920-40); in basso: Amburgo, Weltquartier dopo l’intervento di riqualificazione attuato attraverso il programma dell’IBA-Hamburg.

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1 - Barcellona, trasformazione di un tratto della strada di circonvallazione interna (Ronda del Mig) a trincea, nella Rambla de Brasil, attraverso la copertura della strada.

2 - Nella pagina a fianco, in alto: Barcellona, il grande spazio pubblico lineare della Rambla de Brasil, ottenuta attraverso la copertura della strada di circonvallazione interna a trincea (Ronda del Mig). 3 - Nella pagina a fianco, al centro: Milano, condizioni di degrado di parte degli immobili del quartiere San Siro (fonte: the submarine, servizio di informazione online). 4 - Nella pagina a fianco, in basso: Milano, quartiere Gratosoglio (1963-71).

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nei processi di produzione dello spazio, è possibile rilevare come il manifestarsi di questi fenomeni e la misura del loro impatto varino in relazione a diversi fattori. Tra questi, uno in particolare è tornato a imporsi nella riflessione urbanistica e attiene all’eredità della città funzionale, considerata in primo luogo dal punto di vista delle implicazioni spaziali delle politiche abitative pubbliche. Esse si differenziano, nei diversi casi, relativamente al ruolo svolto dalle politiche urbane, alla qualità delle istituzioni, delle regolazioni e delle culture di governo, così come alle pratiche di democrazia partecipativa, attraverso le quali si forma senso civico e viene legittimata la sfera pubblica (Donolo, 2012).

Esperienze di edilizia sociale nella prima metà del Novecento Se si segue il percorso della formazione e dell’evoluzione della città funzionale, si possono distinguere sostanzialmente due fasi, tra loro separate dall’avvento della seconda guerra mondiale: una caratterizzata dalla ricerca di soluzioni insediative alternative alla città tradizionale, l’altra segnata

dall’affermazione, dal dispiegamento e al tempo stesso dall’applicazione convenzionale e riduttiva del programma del movimento moderno. Nel corso della prima metà del Novecento, in particolare nel periodo tra le due guerre, si è tentato di dare forma a idee di città attraverso le quali sono state veicolate nuove visioni della società e della modernità. Si tratta di proposte che da un lato hanno ricercato un rapporto di continuità con la città tradizionale, mentre dall’altro ne hanno prefigurato un’alternativa. Nelle esperienze più significative di Amsterdam, Vienna e Amburgo, una serie di quartieri, costituiti da grandi isolati residenziali, attrezzature collettive e ampi spazi pubblici, ha riflesso la sua forza ordinatrice sulla città di espansione (oggi parte consistente dell’area centrale). Il progetto di questa parte urbana, basato su una visione della costruzione della città orientata verso nuovi fini sociali, a partire da una concezione dell’abitazione come bene collettivo, restituisce il senso della rilevante sperimentazione delle riforme di struttura di matrice socialdemocratica, tra loro correlate, negli ambiti della produzione edilizia, dell’organizzazione del lavoro, delle professioni e della gestione della città, avviate dalle avanguardie nord-europee, in una fase dirompente dei processi di urbanizzazione. Impegnata in questo sforzo - come ho già avuto modo di precisare - è stata una élite tecnico-professionale che ha sostenuto “la necessità di spostare il dibattito sulla riforma dell’architettura nel campo dell’urbanistica” e ha identificato “quale ambito in cui esercitare il nuovo ruolo professionale la gestione della produzione edilizia e del suolo urbano”, entro una prospettiva nella quale all’amministrazione pubblica era stato assegnato “un ruolo determinante nella regia dei processi di costruzione della città e nell’attuazione di un programma di interventi pubblici di considerevole impegno” (Mazzoleni, 2013a). In particolare a Vienna, dove l’attività edilizia era passata sostanzialmente nelle mani dell’amministrazione pubblica, in questo periodo sono stati realizzati circa 70 mila alloggi (il 70% di tutta la produzione tra le due guerre), nella corona immediatamente adiacente al centro, in superblocchi (Hof) di alta densità, con elevate condizioni igieniche e ricchezza di servizi sociali. Edificati su aree acquisite dall’amministrazione e finanziate dal gettito assicurato dalla tassazione applicata sulla costruzione di nuovi alloggi, per colpire i ceti parassitari detentori di rendite immobiliari e attuare una nuova giustizia distributiva, questi monumenti dell’edilizia di massa si sono distinti per una gestione collettiva basata su un “fourierismo domestico, teso a esaltare i valori autonomi di una democrazia residenziale” (Tafuri, 1976). Anche nel contesto italiano, nonostante il differente clima politico e culturale, significative sono alcune esperienze che hanno cercato di proporre forme di organizzazione urbana per quartieri, ispirate al “nuovo spirito” modernista d’oltralpe, come nel caso di Milano, città con maggiori legami culturali con l’Europa. Qui, sia pure marginali rispetto all’intenzionalità di rafforzare la centralità urbana e di realizzare strutture pubbliche rappresentative, i principali interventi di edilizia popolare progettati negli anni Trenta hanno cercato di superare la concezione dell’architettura come gesto individuale, soggettivo, riconducendola alla logica e alla razionalità, attraverso l’applicazione del principio dell’edilizia aperta – che sarebbe diventato presto uno schema di routine – e denunciano la loro alterità rispetto al tessuto edilizio consolidato.


TRASPORTI & CULTURA N.50 Nei casi di Amsterdam e di Amburgo la realizzazione di questi quartieri di rilevante valore civile e urbano, consentirà a queste città di dotarsi di un consistente patrimonio pubblico di alloggi in locazione e di affermare una nuova concezione del governo urbano, che si consoliderà nel corso del Novecento. Diversamente, nel caso di Milano, per deficit cumulativi e intrecciati di azioni di governo e di performance delle istituzioni, si procederà alla progressiva alienazione dell’edilizia residenziale pubblica e all’abbandono in uno stato di forte degrado, sia fisico sia sociale, di queste parti urbane.

Caratteri dell’edilizia sociale nel dopoguerra Una sostanziale discontinuità con la città consolidata si è manifestata soprattutto dal dopoguerra, per tre decenni, e si è espressa attraverso il formulario funzionalista più semplificato. All’acuirsi della questione abitativa si è cercato di rispondere soprattutto in termini quantitativi, con metodi di costruzione industrializzati e la realizzazione di grandi insediamenti di iniziativa pubblica, edificati su aree per lo più esterne e applicando i principi dell’architettura e dell’urbanistica moderne. Principi basati su una concezione specializzata dell’abitare, che hanno dato origine a parti urbane di carattere unitario, con elevata densità di popolazione, omogenee e rigide nella loro concezione. Nei casi di Amsterdam, Amburgo e Lione, essi si sono tradotti in ambiziosi esperimenti di città modello, con trame del costruito dilatate e tipologie edilizie seriali (a redents), o di grandi quartieri costituiti dalle più diffuse tipologie dell’edilizia aperta (torri, barre, schiere) o da isolati nelle loro diverse versioni. Si tratta per lo più di insediamenti concepiti come parti urbane autonome – o nuclei satellite – dotati di ampi spazi aperti, prevalentemente destinati a verde, delle principali attrezzature collettive, di aree a parcheggio e di strutture commerciali. In altri casi – come Milano e Barcellona (nel corso del periodo franchista) – alla realizzazione di queste parti di città, per lo più marginali e segregate ai confini dell’area urbana, non ha corrisposto né la costruzione di infrastrutture per la mobilità adeguate, né la dotazione dei servizi e delle attrezzature collettive essenziali. Qui il degrado sociale si è saldato con quello ambientale, per cui a questi particolari luoghi di scarto, diventati una concentrazione di disagio, vulnerabilità e devianza sociali, è stato associato un forte stigma negativo. Nei casi esaminati, scelti come esempi delle differenti modalità attraverso le quali si sono configurati i luoghi destinati ai ceti meno abbienti, interessati da insediamenti di edilizia sociale, alla frammentazione e separazione della città in unità tra loro sconnesse, incoerenti e spesso socialmente segregate hanno contribuito in modo significativo gli interventi realizzati soprattutto in questa fase. A rafforzare le fratture nel tessuto urbano, sempre in questa fase, si sono aggiunte le infrastrutture della mobilità, dai viadotti, alle autostrade urbane (a trincea o a raso), alle circonvallazioni, il cui forte impatto ambientale ha diffuso condizioni di degrado nella parti urbane interessate. Inoltre, nel corso del tempo, in questi insediamenti si è registrata una significativa mobilità della popolazione residente e si è assistito a una progressiva sostituzione degli abitanti verso i li41


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5 - Parigi, Plan Voisin di Le Corbusier (maquette, 1925), figura iconica della sostituzione della città tradizionale, intesa come sistema aperto, con la città progettata come sistema chiuso.

velli più bassi della stratificazione sociale e a una significativa crescita di immigrati stranieri, per cui gli stessi sono diventati epitomi della città multietnica e della questione delle periferie. Contestualmente le aree urbane centrali sono state interessate da un movimento opposto, di sostituzione della popolazione, precedentemente costituita in prevalenza da un ampio ceto medio, con una élite urbana con elevato tenore di vita. Questi fenomeni sono uno degli aspetti delle profonde trasformazioni economiche e sociali indotte dalla transizione post-industriale e dalla globalizzazione. Trasformazioni che hanno inciso sulla capacità delle città di coniugare le esigenze dello sviluppo economico e della competitività con quelle della coesione sociale e ne hanno sconvolto le condizioni di equilibrio e coerenza interna che le ha distinte per lungo tempo (Ranci, 2010). La capacità di mitigare le disuguaglianze spaziali e di arginare lo sfaldamento interno della città o di contro di acuirlo, si riflette – differenziando notevolmente tra loro i casi di città richiamati – sulle condizioni dell’abitare, la qualità della vita, la consistenza e i requisiti dei beni pubblici, quindi sui rapporti sociali.

L’evoluzione recente Ad Amsterdam, Amburgo, Vienna, Monaco e Lione, soprattutto a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, quando si sono dispiegati gli effetti del mutamento economico e della crisi del welfare, si è operato un importante rilancio degli strumenti di governo urbano e la rilevanza dell’abitare è stata assunta come centrale nell’agenda politica. Interventi di riqualificazione dei quartieri di edilizia sociale e di rigenerazione della città esistente sono stati progressivamente inglobati in una vera e propria politica 42

pubblica del territorio. Al tempo stesso una sostanziale revisione – sia pure attuata in modi differenti nei vari casi – dei principi sottesi alla gestione delle trasformazioni urbane ha consentito di dirigere gli interventi sulla città in chiave redistributiva e di legittimare socialmente le azioni di governo attraverso il rafforzamento del ruolo della partecipazione della popolazione. Gli esiti dell’accrescimento delle utilità pubbliche usualmente conseguibili nei processi di trasformazione sono stati molto rilevanti in termini di investimenti nella rigenerazione dello spazio pubblico e nell’edilizia sociale, sia nei nuovi interventi o nei progetti di rifunzionalizzazione di aree dismesse, sia in operazioni di riqualificazione dello stock esistente. Un’acutizzazione delle disuguaglianze spaziali, un deperimento dei beni pubblici e una sempre più difficile integrazione tra le differenti parti urbane sono invece aspetti che contraddistinguono la condizione urbana di Milano. La quale è interpretata da alcuni studiosi come esito di una “modernizzazione mancata” – dove l’azione di governo, soprattutto nei decenni a cavallo del nuovo secolo, si è contraddistinta per l’evidente inadeguatezza delle classi dirigenti della città (Sapelli, 2005) – della profonda debolezza dei dispositivi di regolazione e del loro sostanziale asservimento alla logica del mercato e alle strategie dei grandi operatori finanziari. Limitandoci a considerare gli interventi sui quartieri più svantaggiati, Milano si imporrà alle cronache per l’emergenza casa e la gestione fallimentare del patrimonio di edilizia pubblica (di proprietà del Comune e dell’Agenzia regionale per l’edilizia residenziale). Pur essendo il più consistente in termini quantitativi tra le città italiane, questo patrimonio attualmente si è ridotto a circa 41 mila alloggi dell’Agenzia regionale, in seguito ai piani straordinari di vendita, e 28 mila alloggi del Comune e, nel complesso, richiede interventi straordi-


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6 - Amsterdam, quartiere Bijlmermeer, modello dell’urbanistica e dell’architettura moderne (anni 1966 e seguenti).

7 - Amsterdam, quartiere Bijlmermeer dopo gli interventi di riqualificazione.

nari di manutenzione per più del 33% dello stock. Le condizioni di abbandono e di degrado di questi quartieri, diventati isole di malessere, “spazi-contenitori delle tensioni fra istanze globali e locali” (Corna Pellegrini, 2007) hanno comportato sia la formazione di frontiere interne allo spazio urbano, sia lo sfaldamento progressivo dei legami sociali che precedentemente li caratterizzavano. Di contro, tra i casi di città considerati – che si sono distinti per il recupero e la riqualificazione edilizia e ambientale dei quartieri popolari

– Amburgo raggiungerà caratteri di esemplarità con il progetto “Global Neighbourhood”, relativo all’insediamento di edilizia pubblica Weltquartier di Wilhelmsburg (una tra le parti urbane storicamente più marginali), con forte presenza di immigrati stranieri, inserito nel programma dell’IBA Hamburg e gestito dalla società municipalizzata di edilizia sociale (SAGA/GWG), azienda istituita nel 1922, che attualmente amministra uno stock di oltre 130 mila alloggi. Qui, come a Monaco, in tutti gli interventi di rigenerazione urbana, verrà 43


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8 - Amsterdam, HafenCity, Magellan Terrassen, usi dello spazio pubblico (foto: Elbe&Flut).

assicurata, da dispositivi di redistribuzione del plusvalore da questi generato a favore della formazione di beni pubblici, la realizzazione di uno stock di edilizia sociale non inferiore al 30%, oltre a infrastrutture, attrezzature collettive e aree verdi (Mazzoleni, 2013b). Nelle esperienze europee che si distinguono per la capacità di regia pubblica dei processi di trasformazione urbana, in termini di investimenti, regolazioni, di governo della produzione di beni pubblici e privati e per un più elevato “spessore istituzionale”, la riqualificazione della città esistente è quindi servita sia a rilanciare il ruolo del progetto di lungo periodo e del piano più in generale, sia ad accrescere le utilità collettive finalizzate ad affrontare il riemergere di forti tensioni abitative e a contenere le disuguaglianze sociali e spaziali.

La prospettiva della “città aperta” e le sue implicazioni per il progetto della città La principale sfida che la città contemporanea pone al progetto urbanistico, e alle politiche pubbliche, se da un lato attiene alla sostenibilità sociale, oltre che ambientale, delle trasformazioni, ossia alla mitigazione della crescente asimmetria delle opportunità offerte dalla città come ambiente di vita alle sue sempre più eterogenee popolazioni, dall’altro concerne anche la ricostituzione della sua capacità connettiva. Se attraverso ingenti programmi di riqualificazione e rigenerazione urbana in alcune città europee, come si è accennato, si è cercato di facilitare l’accesso all’abitazione a fasce sociali con reddito medio-basso, ciò è stato conseguito prevalentemente attraverso misure volte a creare nuove “centralità”, con azioni di rinnovamento di ambiti urbani degradati e investimenti sullo spazio pubblico e sulle attrezzature collettive che hanno però spesso comportato un’estensione del divario di rendita (rent gap) nell’area urbana, quindi processi di sostituzione di popolazione in 44

zone che presentavano una bassa attrattività e dove ancora significativo era il comparto dell’affitto a prezzi contenuti. Si può quindi dire che la difficile conciliazione tra capacità attrattiva e capacità connettiva della città contemporanea, affrontabile solo in parte con politiche di sostegno della popolazione economicamente più vulnerabile – che è destinata a crescere anche per l’aumento dei flussi di migranti e per l’incipiente processo di polarizzazione sociale – richiede un nuovo orientamento del progetto della città. Un orientamento che sappia misurarsi con il persistere, anche in situazioni di consolidate capacità di governo, delle disuguaglianze sociali e spaziali, ossia con le opportunità asimmetriche della condizione urbana. In questa direzione, una riflessione fuori dagli schemi che, prendendo le mosse da queste ultime, indaga i modi possibili di ricomposizione della matrice relazionale della città e offre originali suggestioni per il progetto urbanistico, è quella restituita dalla visione della “città aperta”, proposta da Richard Sennett nel suo lavoro più recente (Sennett, 2018). Procedendo dalla distinzione tra sistema chiuso, in equilibrio e integrato, dove ogni parte ha un posto in un sistema generale, e sistema aperto, in evoluzione instabile, l’autore spiega come concepire la città nei termini dell’uno o dell’altro sistema abbia delle importanti implicazioni sia sul modo in cui si pensa alla sfera pubblica (public realm), in particolare per quanto attiene allo spazio fisico, sia sul modo di progettare e delineare il futuro della città, così come di agire sulle condizioni esistenti, determinate da logiche che in larga parte esulano dalla capacità di controllo locale. Almeno a partire dalla metà del ventesimo secolo, l’urbanistica e l’architettura, attraverso l’applicazione dei principi della città funzionalista, propugnata dal movimento moderno e ancora riconoscibile in numerosi progetti recenti di trasformazione delle aree urbane, hanno reso le città sistemi chiusi. Sistemi costituiti da uno spazio frammentato e asintattico, nei quali tanto la forma quanto le funzioni sociali sono sovradeterminate,


TRASPORTI & CULTURA N.50 per cui l’ambiente urbano è risultato destinato a decadere rapidamente e le strutture edilizie non hanno potuto adattarsi (o essere adattate) a condizioni mutevoli, se non attraverso il loro abbandono o la loro sostituzione, anche radicale. Ciò è quanto è accaduto nella riqualificazione di numerose parti di città, sia che si tratti di grandi quartieri direzionali e commerciali costruiti in aree centrali (come nel caso del quartiere Part-Dieu, a Lione, realizzato negli anni ‘70 e oggi oggetto di estese sostituzioni edilizie), sia che si tratti di grandi quartieri di edilizia sociale realizzati a cavallo degli anni ’60 e ’70, oggetto di recente di profonde ristrutturazioni per trasformarli in ambienti socialmente misti (come nei casi più significativi di Bijlmer, ad Amsterdam, o di Minguettes e La Duchere, a Lione). In particolare in Francia, dalla metà degli anni ’50 fino all’inizio degli anni ’70, nelle banlieu delle città – ambito delle zones à urbaniser en priorité – sono stati realizzati 1.8 milioni di alloggi HLM, dei quali più di 800 mila in edifici prefabbricati con tipologie a barra o a torre, costituenti grands ensemble di 20 o 30 mila abitanti. I programmi nazionali di rinnovo urbano approvati all’inizio degli anni 2000, finalizzati alla riqualificazione di questi grandi agglomerati, hanno previsto la demolizione di 250 mila unità abitative e nell’arco di circa dieci anni ne sono state rase al suolo più di 110 mila. La città concepita come sistema chiuso si è quindi trasformata in una città fragile, in un ambiente particolarmente suscettibile al decadimento e al tempo stesso, con un’eccessiva specificazione di forma e funzione, è diventata escludente, ossia ha prodotto molte frontiere al suo interno che recingono e separano spazi fisici e sociali (gate community) e ostacolano l’integrazione. L’arte di progettare e costruire la città, come ribadisce anche Sennett, è diminuita quindi drasticamente nel corso del ventesimo secolo. Se si esaminano le mappe della città europea dei secoli diciottesimo e diciannovesimo, esse mostrano chiaramente come il tessuto edificato e gli edifici fossero porosi. Restituiscono l’immagine di uno spazio urbano nel quale si poteva transitare tra edifici e isolati, usandoli come passaggi, uno spazio flessibile, indeterminato, che poteva dare luogo a nuove esperienze così come essere interessato da trasformazioni fisiche e funzionali senza perdere il suo significato. L’idea della città aperta invita a ripensare al valore di quello spazio e orienta l’attenzione sugli aspetti trascurati dal progetto urbanistico contemporaneo che appare maggiormente interessato, oltre che alla creazione di nuove centralità negli ambiti urbani oggetto di riqualificazione o rigenerazione, alla realizzazione di nuove parti urbane funzionalmente e socialmente miste, nelle quali l’integrazione è predeterminata e ciò diminuisce il valore degli elementi che non si adattano e può costituire un freno all’innovazione. La critica di Sennett investe anche la nuova retorica della smart city, diventata pervasiva, verso la quale da alcuni anni sono orientati programmi, progetti e risorse. Quest’idea deriva ancora dall’applicazione di una forte semplificazione e ripropone un sistema chiuso, per la maggior parte determinato, con funzioni, forme e usi definiti dall’impiego di nuove tecnologie. Per approfittare delle numerose opportunità che la città può offrire con le sue dissonanze, la sua apertura all’imprevisto, essa necessita di un costante esercizio di apprendimento. Il ricorso alle nuove tecnologie, che sposta l’attenzione sull’elaborazione delle informazioni, discrimina la popolazione meno abbiente ed espone

al rischio di ridurre le stimolazioni cognitive necessarie alle persone per dare un senso alle condizioni complesse in cui vivono. Pensare in termini di città aperta, come indica l’autore, significa comprendere il valore del bordo, del confine e orientare l’attenzione sulle frontiere che delimitano condizioni di vita differenti all’interno dello spazio urbano trasformandoli in margini permeabili e porosi – come le membrane delle cellule – ossia in luoghi nei quali l’interazione è maggiore. Significa realizzare negli spazi che delimitano differenti comunità, servizi, attrezzature collettive e spazi pubblici integrati nel tessuto urbano, e più in generale strutture flessibili, forme incompiute, modificabili in modo evolutivo secondo i bisogni degli abitanti, nelle quali forma e funzione siano in qualche modo disgiunte. Significa realizzare spazi “ambigui”, nei quali sia possibile apprendere come usare produttivamente le diversità. La prospettiva delineata con la “città aperta” per l’azione di piano implica capacità di assimilazione del valore della contingenza e della differenza nel progetto di trasformazione delle strutture fisiche. Essa invita a concepire lo sviluppo urbano in forma narrativa, ossia secondo un approccio che consente di dare forma a un processo di esplorazioni. Richiede, quindi, una costante capacità di interpretazione, perché fa propria la condizione della modificazione.

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Bibliografia G. Corna Pellegrini (2007), “Generazioni a confronto al cambiare del mondo”, in M. Bergaglio (a cura di), Popolazioni che cambiano. Studi di geografia della popolazione, FrancoAngeli, Milano. C. Donolo (2011), “Verso ordinamenti spaziali virtuali”, Crios, n. 1. C. Donolo (2012), L’arte di governare. Processi e transizioni, Donzelli, Roma. T.H. Marshall (2002), Cittadinanza e classe sociale, Laterza, Roma-Bari. C. Mazzoleni (2013a), “Amburgo, HafenCity. Rinnovamento della città e governo urbano”, Imprese&Città, n. 2. C. Mazzoleni (2013b), “Politiche di contenimento del consumo di suolo: l’esperienza di Monaco di Baviera”, Trasporti&Cultura, n. 36. C. Ranci, a cura di (2010), Città nella rete globale. Competitività e disuguaglianze in sei città europee, Bruno Mondadori, Milano. G. Sapelli (2005), “La trasformazione dei rapporti tra economia e politica a Milano: sussurri e grida”, in Aa.Vv., Milano nodo della rete globale: un itinerario di analisi e proposte, Bruno Mondadori, Milano. R. Sennett (2018), Costruire e abitare. Etica per la città, Feltrinelli, Milano. E.W. Soja (2010), Seeking Spatial Justice, University of Minnesota Press, Minneapolis. M. Tafuri (1976), “I tentativi di riforma urbana in Europa tra le due guerre”, in M. Tafuri, F. Dal Co, Architettura contemporanea, Electa, Milano.

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Dalla Raccomandazione UNESCO alla Città Creativa: quale futuro? di Viviana Martini

Negli ultimi decenni, le trasformazioni sociali ed economiche in corso nella città storica hanno mutato profondamente il rapporto tra il vecchio e il nuovo: lo sviluppo spesso incontrollato delle aree urbane, la costruzione di edifici moderni e la realizzazione di nuove infrastrutture sembrano aver messo in crisi gli strumenti di gestione esistenti, che si rivelano molto spesso inadeguati o insufficienti a coniugare tutela e sviluppo e a guidare in modo coerente l’ espansione nei territori storici preservandone i “valori”.

Nascita del concetto di paesaggio storico urbano Il concetto di paesaggio storico urbano (Historic Urban Landscape, HUL), quale nuovo approccio che affronta il tema del conflitto tra conservazione e sviluppo nelle città storiche, nasce ufficialmente a Vienna nel 2005, in occasione della Conferenza internazionale “World Heritage and Contemporary Architecture - Managing the Historic Urban Landscape” che ha visto la partecipazione, oltre che di professionisti da tutto il mondo, anche di esperti dell’UNESCO e dell’ICOMOS. In tale occasione, il progetto del Wien Mitte Station a Vienna ha scatenato l’interesse internazionale in relazione all’inserimento del nuovo progetto nel centro storico di Vienna (dal 2017 nella Lista del Patrimonio Mondiale in pericolo), poco tempo dopo che lo stesso era stato incluso nella Lista del Patrimonio Mondiale, ed ha costituito il pretesto per la discussione del tema. A questo primo momento di confronto ha fatto seguito la pubblicazione del Vienna Memorandum, che per la prima volta ha affrontato in modo sistematico il tema dell’inserimento degli edifici contemporanei (in particolare edifici alti) nelle città inserite nella World Heritage List ed ha proposto la definizione di Historic Urban Landscape: “La sfida centrale dell’architettura contemporanea nel paesaggio storico urbano è quella di rispondere alle dinamiche di sviluppo al fine di facilitare da un lato i cambiamenti socio-economici e la crescita, e allo stesso tempo rispettare l’assetto della città ereditata e l’impostazione del suo paesaggio, dall’altra le città storiche viventi, in particolare le città iscritte nella lista, richiedono una politica di pianificazione urbanistica e di gestione che assume la conservazione come punto chiave. In questo processo, l’autenticità e l’integrità della città storica, che sono determinate da vari fattori, non devono essere compromesse”. Dopo il Vienna Memorandum, fra il 2006 ed il 2010,

From the UNESCO Recommendation to the Creative City: what does the future hold? by Viviana Martini The concept of Historic Urban Landscape was officially created with the Vienna Memorandum in 2005, in connection with the need to protect and safeguard the historic city as a whole, beyond its historic centre, which must today be reinterpreted with a view to ensuring sustainable development. In this sense, the new Recommendation on the Historic Urban Landscape, which UNESCO issued at the end of 2011, lays down some general guidelines that each individual State is asked to incorporate in order to define the sustainable development of the historic city in respect of its meaning. Italy is very familiar with this concept, thanks to a profound cultural matrix of which we should be proud and sometimes seek to rediscover. Since the Middle Ages, our cities have been exemplary in proposing urban solutions in complete harmony with their territory: examples include Assisi, Bologna, Urbino and Ferrara, which have always upheld, respected and encompassed the landscape into the city, and their Town Plans - even in the past - have been the forerunners of the concept of HUL. But there is more: UNESCO recognises creativity as an essential element fostering cultural diversity and sustainable urban development, in line with the spirit of the Recommendation, and this is why in 2004 it chose to promote the Creative Cities Network (UCCN).

Nella pagina a fianco, in alto e al centro-sx: due vedute di Bologna (fonte: https:// en.unesco.org/creative-cities/bologna). Al centro-dx: immagine simbolo di Torino (https://en.unesco.org/ creative-cities//node/2). In basso: immagine che richiama Roma (https://www.archivioluce.com/).

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Storia e modernità nella città storica

1 - Marmi di Carrara (http:// www.visitacarrara.it/index. php?id_sezione=2372&id_ doc=1917). 2 - Immagine che richiama la vita nella Capitale (https:// www.archivioluce.com/).

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l’intenso dibattito a livello internazionale volto alla revisione degli strumenti esistenti relativi alla conservazione delle città storiche, primo fra tutti la Raccomandazione del 1976, è sfociato fra l’altro nelle Conferenze di San Pietroburgo, di Olinda, di Vilnius, con lo spirito di affrontare il tema del crescente numero di conflitti che oppongono le ragioni della conservazione a quelle dello sviluppo e di discutere le problematiche dell’inserimento di nuova architettura in un contesto consolidato. Nel 2006, erano oltre 70 i casi critici relativi all’inserimento di nuove architetture in città iscritte nella Lista del Patrimonio Mondiale, e se l’intenso impegno diplomatico ha portato alla revisione del progetto della Wien Mitte railway station di Vienna, nel 2009 Dresda ha proseguito nella costruzione del Waldschlösschen Bridge, finendo così tolta dalla World Heritage List, e molte altre sono oggi le città storiche che si apprestano a inaugurare progetti di forte impatto in cui la costruzione di edifici alti minaccia di modificare lo skyline della città, e quindi l’integrità visiva che è uno dei requisiti fondamentali che accompagnano l’iscrizione. La “UNESCO Reccomendation on the Historic Urban Landscape”, approvata nel novembre 2011, rappresenta l’esito di questo lungo lavoro di revisione. Pur essendo un documento di indirizzo, costituirà in futuro un riferimento essenziale per la definizione di un nuovo approccio alla gestione delle città storiche, nel quale i temi della conservazione e dello sviluppo sostenibile sono posti quali obiettivi fondamentali, sottolineando il ruolo strategico che la corretta gestione del patrimonio può ricoprire promuovendo lo sviluppo del territorio nell’ottica della conservazione e del rispetto delle qualità e soprattutto delle risorse del luogo.

La Recommendation on HUL propone un “Action Plan” che, in 6 punti essenziali, elenca le possibili fasi che dovrebbero costituire l’approccio a HUL per la gestione della città. Tali fasi comprendono lo studio dell’importanza delle risorse del paesaggio storico urbano, la definizione della loro vulnerabilità e la determinazione delle più importanti azioni di conservazione e sviluppo nelle diverse aree della città storica. Il documento sottolinea il ruolo della pianificazione e della gestione, che deve integrare le strategie di conservazione del patrimonio e le decisioni che riguardano lo sviluppo, inclusi gli interventi di nuova edificazione, di trasformazione urbana e di infrastrutturazione. Accanto agli strumenti di carattere normativo, tecnico e finanziario, rivestono una importanza essenziale anche tutti gli strumenti gestionali tesi a favorire la partecipazione della comunità locale che deve essere educata e informata - al processo di conoscenza e di decisione. All’interno di questo processo, la cultura e la creatività assumono un ruolo fondamentale quale catalizzatori e volano della città. Historic Urban Landscape si configura quindi come un approccio manageriale che comprende tutti gli aspetti pianificatori-sociologici-gestionaliculturali che caratterizzano il territorio identificato come paesaggio storico urbano. Come ha affermato il prof. Jukka Jokilehto, “Il successo della gestione futura dei paesaggi storici urbani dipenderà dalla comprensione reciproca e dalla collaborazione di tutti i soggetti interessati, amministratori, tecnici e popolazione. Obiettivo di HUL è quello di riconoscere la qualità del paesaggio urbano più vasto, non solo quello costituito dalle città iscritte nella lista ma anche tutte le città storiche. Ciò significa che la questione non riguarda solo gli edifici ma, come già affermato nella Raccomandazione del 1976, “tutti gli elementi validi, tra cui le attività umane, per quanto modeste, che hanno un significato in relazione al tutto e che non devono essere ignorate”. La questione chiave è sicuramente la capacità di gestione e di pianificazione che riconosca HUL nella sua “diversità e integrità”. Obiettivo è quello di riconoscere la natura dinamica della città storica, di favorirne lo sviluppo senza con ciò perdere il suo significato”. La Raccomandazione riconosce il ruolo di volano racchiuso nelle risorse del luogo, e quindi nel patrimonio intangibile che ne rappresenta il substrato. Citando ancora le parole del Prof. Jukka Jokilehto, “Culture in itself involves both continuity and change, and due to the intrinsic human nature expressed in creativity, traditional handing down of know-how and skills would often mean some change while at the same time building up and keeping its cultural identity... We can see that such creativity cannot simply be a question of meeting certain practical purposes, but that there is human creative spirit that inspires one to be innovative in re-interpreting and re-representing certain universal themes while responding to specific needs...This is clearly also indicated in the UNESCO Declaration of the cultural diversity where heritage is again seen as a result of the human creative process. ‘Culture takes diverse forms across time and space. This diversity is embodied in the uniqueness and plurality of the identities of the groups and


TRASPORTI & CULTURA N.50 societies making up humankind.’ (art. 1) … ‘Creation draws on the roots of cultural tradition, but flourishes in contact with other cultures. For this reason, heritage in all its forms must be preserved, enhanced and handed on to future generations as a record of human experience and aspirations, so as to foster creativity in all its diversity and to inspire genuine dialogue among cultures.’ (art. 7) The “intangible cultural heritage” means the practices, representations, expressions, knowledge, skills – as well as the instruments, objects, artefacts and cultural spaces associated therewith – that communities, groups and, in some cases, individuals recognize as part of their cultural heritage. This intangible cultural heritage, transmitted from generation to generation, is constantly recreated by communities and groups in response to their environment, their interaction with nature and their history, and provides them with a sense of identity and continuity, thus promoting respect for cultural diversity and human creativity. “The requirement of outstanding universal value characterising cultural and natural heritage should be interpreted as an outstanding response to issues of universal nature common to or addressed by all human cultures. In relation to natural heritage, such issues are seen in bio-geographical diversity; in relation to culture in human creativity and resulting cultural diversity” (art. 1).

Il network delle Città Creative (UCCN) Il network delle Città Creative (UCCN) è stato promosso dall’UNESCO nel 2004 per favorire la diversità culturale e lo sviluppo urbano sostenibile, con l’obiettivo di creare un legame tra città che riconoscono la creatività come elemento essenziale per mantenere la propria identità e sviluppare il futuro. Il network delle Città Creative offre agli operatori locali una piattaforma internazionale su cui convogliare l’energia creativa delle proprie città, consentendo di proiettare esperienze locali in un contesto globale e favorire lo sviluppo dell’export culturale e delle industrie creative. Il network è suddiviso in 7 aree tematiche, che comprendono Arti Digitali, Artigianato e Arte popolare, Design, Film, Gastronomia, Letteratura, Musica, e che consentono alle città di condividere progetti e valorizzare il proprio tessuto creativo. Le 180 città, in 72 paesi, che attualmente fanno parte della rete collaborano per un obiettivo comune: fare della creatività e dell’industria culturale il centro dei loro piani di sviluppo a livello locale e collaborare attivamente a livello internazionale. Attualmente in Italia le città creative sono Bologna (musica), Fabriano (artigianato e arte popolare), Roma (cinema), Parma (gastronomia), Torino (design), Milano (letteratura), Pesaro (musica), Carrara (artigianato e arte popolare), Alba (gastronomia). Tutte le Città Creative sono impegnate nello sviluppo e nello scambio di buone pratiche innovative per rafforzare la partecipazione alla vita culturale e per integrare la cultura nelle politiche di sviluppo urbano sostenibile. Inoltre, la Rete sostiene gli scambi artistici e il partenariato della ricerca sia con le città della rete che con il settore pubblico e il settore privato. In tutto questo processo, il patrimonio intangibile e l’identità del luogo rivestono un ruolo principe.

L’obiettivo è di ridefinire l’immagine della città, di costruire una sua nuova identità nella quale cultura, creatività e innovazione trovano un radicamento sempre più profondo all’interno del flusso delle attività economiche e turistico-commerciali. Sin dai primi progetti di rigenerazione urbana, negli anni ‘80, il ruolo della cultura è emerso infatti come fattore determinante e spesso addirittura trainante. L’attenzione verso la cultura come fattore di trasformazione territoriale si è particolarmente allargata nel tempo come risposta alle esigenze di competitività delle città, ma anche ai bisogni di sostenibilità del settore culturale, che richiedevano un più deciso orientamento verso il mercato e un allargamento della base di domanda pagante. Uno dei metodi più usati per stimolare la vitalità dei centri urbani è stato quello di dare spazio a grandi progetti culturali. Essi sono solitamente progetti su larga scala, e richiedono investimenti elevati come la creazione di nuovi grandi musei, gallerie d’arte, teatri o centri polifunzionali. Fra tutti i progetti internazionali realizzati sulla base di queste premesse, l’esempio più emblematico è quello del Guggenheim di Bilbao. I grandi progetti culturali attirano spesso critiche violente relativamente all’impatto culturale prodotto sul territorio, e anche relativamente alle dinamiche di specializzazione economiche e turistiche, i cui effetti sono a volte meno lineari ed unilateralmente benefici di quanto comunemente si suppone. I processi di rigenerazione urbana si legano spesso solo ai grandi eventi (come nel caso delle Città Europea della Cultura) che non permettono di creare le basi per uno sviluppo sostenibile della programmazione culturale; questo tipo di eventi funzionano come meccanismo per attrarre l’attenzione dei media e dei visitatori esterni in un arco temporale limitato ma non riescono ad essere un mezzo per la rappresentazione della comunità locale e per il suo sviluppo. Ebbene, l’obiettivo è quello di superare la temporaneità dello sviluppo creativo immediato per attivare una programmazione a lungo termine, che coinvolga tutti i settori del management e che consenta alla città di svilupparsi e di creare cultura, benessere, economia, gestione sfruttando appieno le sue risorse e il suo intangible heritage. In linea con lo spirito racchiuso nella 2011 Unesco Recommendation on HUL. © Riproduzione riservata

Bibliografia 2011, Report and revised text of the draft Recommendation on the Historic Urban Landscape Jokilehto J. 2006, Considerations on authenticity and integrity in world heritage context. City & Time 2 (1): 1. [online] URL:http:// www.ct.ceci-br.org Viviana Martini, The conservation of Historic Urban Landscapes: an approach. Tesi di Dottorato, Università di Nova Gorica, Aprile 2013. Francesco Bandarin and Ron Van Oers, Reconnecting the city: the historic urban landscape approach and the future of urban heritage. John Wiley & Sons Inc., 2014. Jokilehto J. Evolution of normative framework, pag. 205.

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La città, i cittadini e la mobilità sostenibile. Note di storia recente di Stefano Maggi

La storia dei trasporti ha a lungo privilegiato un’ottica modale, studiando la navigazione, le ferrovie, le automobili, gli aerei, senza indagare in profondità gli spostamenti di persone e merci nei vari ambiti territoriali. Soltanto di recente si è cominciato a impiegare il termine “mobilità” – già in ampio uso con altre accezioni – per il significato di movimento con qualsiasi mezzo effettuato, comprese la pedonalità e la ciclabilità. Allo stesso tempo, si è iniziato a valutare gli impatti ambientali della mobilità1. Il rapporto intitolato Our Common Future, presentato nel 1987 dalla World Commission on Environment and Development, introduceva per la prima volta il concetto di “sviluppo sostenibile”, inteso come uno sviluppo in grado di soddisfare i bisogni del presente senza compromettere le stesse possibilità per le generazioni future2. Da allora, tale concetto è stato applicato ai diversi settori che operano nell’ambiente, tra i quali la mobilità con i veicoli e le infratrutture rappresentano un elemento decisivo, per i suoi influssi sull’emissione di “gas serra” e di altri inquinanti nell’atmosfera, per l’occupazione di spazio e il deturpamento di paesaggi, per il consumo di energia. Negli ultimi decenni, si è infatti arrivati a un modello di “ipermobilità”, che ha ricevuto numerose critiche ambientali, portando a riflettere sul bisogno di avere una “mobilità sostenibile”. Un bisogno ormai compreso dalle istituzioni di settore, ma non dalla gran parte della popolazione, che pretende troppo spesso di circolare ovunque e gratis con il proprio mezzo privato. Questo articolo affronta la storia recente della mobilità cittadina, con un’analisi dei dati statistici, della pianificazione adottata o auspicata, delle abitudini di mobilità fra XX e XXI secolo. Lo scopo è quello di far riflettere sul tema degli spostamenti, soprattutto in città, rendendo consapevoli delle problematiche che una circolazione eccessiva di mezzi a motore determina nella vita quotidiana.

Mobilità sostenibile: definizioni e tematiche “Razionalizzazione

del traffico veicolare: programmazione e incentivazione dell’uso dei mezzi pubblici di trasporto, per un’efficace salvaguardia delle condizioni atmosferiche e ambientali, so-

1 Le novità storiografiche a livello internazionale si trovano sul sito dell’International Association for the History of Transport, Traffic and Mobility (T2M), https://t2m.org/ 2 Report of the World Commission on Environment and Development: Our Common Future, http://www.un-documents. net/our-common-future.pdf.

The city, citizens and sustainable mobility. Notes on recent history by Stefano Maggi The concept of Sustainable Development has been applied to the many different sectors operating in the environment, among which mobility is a determining factor, due to its influence on the emission of “greenhouse gases” and other pollutants into the atmosphere, on the occupation of space and the disfigurement of landscapes, and on energy consumption. In recent decades, we have in fact achieved a model of “hypermobility” that has received much criticism from an environmental standpoint, leading to reflect on the need to ensure “sustainable mobility”. A need now understood by the institutions, but not by the majority of the population. Citizens too often demand to use their own vehicles to go anywhere and for free. Sustainable mobility has suffered a sort of mismatch between intentions and reality. With the continuous growth in the number of motor vehicles on the roads, the problem began to emerge in the 1990s, especially in cities, where road congestion and polluting emissions are concentrated. The road, where citizens meet and children play, has become the domain of motorized vehicles. But it has also generated fear and concern in parents, whose children are prevented from becoming autonomous, for example when going to school, because of the invasion of automobiles circulating everywhere. This article addresses the recent history of urban mobility, with an analysis of statistical data, policies that have been adopted or considered, mobility habits between the 20th and 21st centuries. Nella pagina a fianco, in alto: treni nella stazione di Cividale del Friuili; in basso: Ape taxi a Matera.

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1 - Postazione per bike sharing a Siena.

prattutto nei centri urbani”3. Questa la definizione del vocabolario Treccani, che registra la “mobilità sostenibile” come neologismo nel 2008. Una volta accettata nella letteratura, la mobilità sostenibile ha sofferto a lungo una mancata conoscenza da parte della gente. Si è dunque verificato uno sfasamento tra le intenzioni e la realtà: mentre si ragionava sul bisogno di “scendere” dall’auto per fini ambientali, al tempo stesso finivano le “vecchie” generazioni cresciute prima della motorizzazione di massa, quelle che non guidavano o guidavano poco, mentre i giovani prendevano la patente per l’auto a 18 anni e si muovevano di continuo con mezzi a motore individuali. Gran parte delle problematiche sono concentrate nelle città, e sono queste le prime a doversi misurare con i bisogni della mobilità sostenibile, visti i danni causati dall’ipermobilità. Per ridurre tali danni, alcune azioni innovative si stanno diffondendo negli ultimi anni: - sviluppo della mobilità pedonale; - sviluppo della mobilità ciclabile, anche con esperienze di bike sharing; - politiche di tariffazione e pedaggi per l’accesso ai centri storici; - pianificazione della mobilità aziendale con la figura del mobility manager; - gestione della domanda con limitazioni della circolazione veicolare con introduzione di servizi di car sharing, cioè automobili a proprietà condivisa con promozione del car pooling, cioè la condivisione dell’auto fra persone che fanno lo stesso percorso, in modo da viaggiare a pieno carico e dunque ridurre il numero dei veicoli in circolazione. 3 Il vocabolario Treccani registra questa espressione come neologismo dal 2008, con la prima presenza rilevata in un articolo su “Repubblica” del 7 ottobre 1994, a nome di Enzo Cirillo, dal titolo Ferrovie, nuovo esodo per 15 mila lavoratori, riguardante le ferrovie tedesche. L’espressione deriva dall’inglese sustainable mobility. http://www.treccani.it/ vocabolario/mobilita-sostenibile_%28Neologismi%29/

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Gli esempi più riusciti sono quelli nei quali i vari interventi sono stati realizzati in maniera coordinata, rafforzandosi a vicenda. Oltre a questi interventi, occorre incrementare l’uso dei mezzi pubblici, con politiche adeguate di comunicazione e di incentivo. Il concetto da applicare è quello della “demotorizzazione”, che non consiste certo nell’abbandonare l’auto per tornare a un mondo privo di motori, ma semplicemente nel ridurne l’uso allo stretto necessario. Ognuno di noi deve compiere alcuni spostamenti che senza mezzi a motore non si possono realizzare. Tuttavia, se ogni volta che è possibile ci si spostasse senza auto, le fastidiose code delle ore di punta sarebbero ridimensionate o annullate, l’ambiente ne avrebbe un grande giovamento e il consumo di spazio sarebbe ridotto. Le analisi sui trasporti hanno tuttavia concentrato l’attenzione sugli aspetti strutturali, come quelli ingegneristici e quelli economici riguardanti i costi del trasporto stesso, trascurando i caratteri socioculturali che pure giocano un ruolo determinante nelle abitudini di spostamento. Per spingere all’utilizzo dei mezzi pubblici di trasporto sono indispensabili tanti accorgimenti, dalla regolarità, velocità e intensità del servizio, alla promozione economica, all’educazione verso una mobilità sostenibile. Se non si fa uso dei mezzi pubblici, è spesso per cattiva abitudine, mancata conoscenza di percorsi e orari, pigrizia fisica e mentale.

La pianificazione dei trasporti La difficoltà di una sinergia tra le istituzioni, la scarsa competenza diffusa sulle questioni della mobilità, e soprattutto la mentalità individualista, che porta ciascuno a pretendere di spostarsi con il proprio veicolo, andando ovunque e gratis, hanno frenato gran parte degli interventi sulla mobilità sostenibile, riguardo alla quale si parla tanto e si realizza poco. Il nuovo Codice della strada del 19924, ha previsto all’articolo 36 l’obbligo di redazione del Piano urbano del traffico (Put) nei comuni con popolazione residente superiore ai 30.000 abitanti, o con rilevanti problemi di circolazione, ad esempio stagionale. Ai sensi dell’articolo 22 della legge 340/2000, è poi stato introdotto il Piano urbano della mobilità, strumento di programmazione decennale, con i seguenti scopi: “Al fine di soddisfare i fabbisogni di mobilità della popolazione, assicurare l’abbattimento dei livelli di inquinamento atmosferico ed acustico, la riduzione dei consumi energetici, l’aumento dei livelli di sicurezza del trasporto e della circolazione stradale, la minimizzazione dell’uso individuale dell’automobile privata e la moderazione del traffico, l’incremento della capacità di trasporto, l’aumento della percentuale di cittadini trasportati dai sistemi collettivi anche con soluzioni di car pooling e car sharing e la riduzione dei fenomeni di congestione nelle aree urbane, sono istituiti appositi Piani urbani di mobilità (Pum) intesi come progetti del sistema della mobilità comprendenti l’insieme organico degli interventi sulle infrastrutture di trasporto pubblico e stradali, sui parcheggi di interscambio, sulle tecnologie, sul parco veicoli, sul governo della domanda di trasporto attraverso la struttura dei mobility manager, i sistemi di controllo e regolazione del traffico, l’informazione all’utenza, la logistica e le tecnologie destinate alla riorganizzazione della distribuzione delle merci nelle città…”5. 4 Decreto legislativo 30 aprile 1992 n. 285, “Nuovo codice della strada”. 5 Legge 24 novembre 2000 n. 340, “Disposizioni per la delegificazione di norme e per la semplificazione di procedimenti amministrativi - Legge di semplificazione 1999”.


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2 - Infomobilità a Siena. 3 - Marciapiedi e tutela dei pedoni a Rimini.

Più di recente, si è passati al Piani urbani della mobilità sostenibile (Pums)6, di cui sono state emanate le linee guida con il decreto del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti del 4 agosto 2017. Secondo tali linee guida, il Pums è uno strumento di pianificazione strategica, che in un orizzonte temporale di 10 anni deve sviluppare una visione di sistema della mobilità urbana, con azioni destinate a migliorare efficacia, efficienza e integrazione dei sistemi di mobilità e degli assetti urbanistici7. Un percorso di pianificazione “a salti”, partito con buone intenzioni negli anni ’90, poi tralasciato, poi ripreso, mentre i problemi della mobilità crescevano sotto gli occhi di tutti. Intanto, più che programmare e applicare soluzioni di sostenibilità – a parte alcuni esempi virtuosi di grandi città dove arrivavano tram e metropolitane8 – si continuavano a costruire strade, incentivando ancora la mobilità su auto privata, cioè proprio quella che sarebbe indispensabile diminuire al fine di aumentare la sostenibilità. I miglioramenti della viabilità, infatti, hanno spesso l’effetto perverso di saturare rapidamente le nuove infrastrutture, spingendo 6 Il Pums, dopo essere stato avviato in alcuni Comuni, è stato normato dal decreto legislativo 16 dicembre 2016 n. 257 (art. 3 comma 7), “Disciplina di attuazione della direttiva 2014/94/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 ottobre 2014, sulla realizzazione di una infrastruttura per i combustibili alternativi”, prevedendo le linee guida approvate con apposito decreto ministeriale. 7 La base di riferimento è il documento Guidelines. Developing and Implementing a Sustainable Urban Mobility Plan (linee guida Eltis), approvato nel 2014 dalla Direzione generale per la mobilità e i trasporti dell’Unione Europea. Esiste un sito http://www.osservatoriopums.it/ che segue l’evoluzione dell’elaborazione dei Pums in Italia, indicando anche i dati per le principali città. Consultazione del 25 febbraio 2018. 8 Gli ultimi esempi di infrastrutture su ferro sono riportati in S. Maggi, Le ferrovie, Bologna, Il Mulino, 2017, p. 202-203; cfr. inoltre A. Donat, F.Petracchini, Muoversi in città. Esperienze e idee per la mobilità nuova in Italia, Milano, Ambiente, 2015. Il libro di Anna Donati e Francesco Petracchini fa il punto su tutta la questione della mobilità sostenibile nelle città, declinata attraverso le principali esperienze e novità.

più gente a passarci. Ad esempio, «la costruzione o l’ampliamento di una nuova tangenziale induce in genere un numero crescente di cittadini a cercare lavoro o a frequentare servizi in cintura, poiché “tanto c’è la nuova tangenziale”; ma questo aumento di utenti creerà in breve tempo una nuova saturazione da traffico»9. Per usare una metafora, è come se il getto d’acqua troppo elevato in un lavandino fosse risolto non chiudendo parzialmente il rubinetto, ma allargando il tubo di scarico. La costruzione di strade ha assorbito gran parte degli investimenti pubblici a partire dagli anni del “miracolo economico” (1955-1965), e tuttora si continua così. Le strade più ramificate e i parcheggi più diffusi hanno fatto sempre più posto agli autoveicoli, ma oggi scoraggiano la mobilità sostenibile. Nel XXI secolo dovrebbero essere completati i “corridoi”, cioè i grandi itinerari di passaggio, dedicandosi per il resto alle manutenzioni e all’adeguamento tecnologico delle strade, incentivando la demotorizzazione e la conversione verso i veicoli elettrici a zero emissioni. Secondo i dati dell’Osservatorio Isfort Audimob, il tempo medio giornaliero trascorso viaggiando da parte di chi si sposta era nel 2000 di 59,8 minuti; nel 2015 di 58,7 minuti, praticamente stabile. La distanza media percorsa era di 30,2 km nel 2000, arrivati a 36 km nel 2015. Le persone in movimento in un giorno feriale medio erano l’85% nel 2000, il 79,2% nel 2015, con un numero medio pro-capite di spostamenti di 3,12 nel 2000 e 2,68% nel 201510. In tre lustri, è rimasto stabile il tempo 9 L. Davivo-L.Staricco, Trasporti e società, Roma, Carocci, 2006, pp. 46-47. 10 Audimob. Osservatorio sui comportamenti di mobilità degli italiani, La domanda di mobilità degli italiani. Rapporto congiunturale di fine anno. Dati campionari 2015, in www. isfort.it. Il metodo di indagine è basato su un campione di 15.000 intervistati nella fascia di età 14-80 anni, con rilevazioni trimestrali.

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4 - Locomotiva a vapore e locomotori diesel a Siena.

5 - Vecchio tram a Milano. Foto di Laura Facchinelli.

medio trascorso in viaggio, mentre è aumentata la distanza media percorsa e – complice la crisi economica – sono scese sia le persone in movimento che il numero pro-capite di spostamenti. Come si vede nella tabella 1, fra i due censimenti del 2001 e del 2011, sono aumentati gli spostamenti in treno, tram e metropolitana, sono calati di poco i bus, è salita l’auto, è sceso il motociclo, è rimasta stabile la bicicletta, è scesa la pedonalità. La grande maggioranza degli spostamenti sistematici rimane realizzata con l’automobile propria, che nelle città rappresenta un problema enorme da risolvere, per le emissioni di polveri sottili e per l’occupazione di spazio.

Il dominio dei veicoli privati e gli errori urbanistici L’automobile ha progressivamente invaso tutto il mondo sviluppato e il trasporto pubblico ha subito un declino, più o meno accentuato a seconda 54

degli investimenti e degli interventi di sostegno adottati per favorire la mobilità collettiva. Nel 2017 le auto nel mondo erano circa 1 miliardo e 200 milioni, e la previsione è di arrivare a 2 miliardi nel 2035. In Italia la situazione è aggravata dalla presenza di tanti centri storici inadeguati a ospitare le macchine. Tuttavia il tasso di motorizzazione italiano, fra i grandi Paesi del mondo, è il più alto dopo gli Stati Uniti, che hanno un reddito pro-capite più elevato e moderne città realizzate con grandi spazi a misura dei veicoli motorizzati11. La tabella 2 mostra la crescita del numero di autoveicoli in Italia fra il 1950 e il 2015. In 65 anni, il numero di autoveicoli si è moltiplicato per 74,2, mentre le automobili si sono moltiplicate per 110,7. È un Paese e sono città, quelle italiane, 11 Hanno un tasso di motorizzazione più alto quello italiano, che era nel 2015 di 706 veicoli ogni 1.000 abitanti, oltre agli Stati Uniti (821), anche Porto Rico (901), Islanda (796), Malta (775), Lussemburgo (745), Nuova Zelanda (719), Australia (718), Brunei (711). Cfr. www.oica.net/category/vehicles-in-use/


TRASPORTI & CULTURA N.50 oggettivamente diverse dalle città di due-tre generazioni prima. Il traffico automobilistico è stato a lungo considerato un corollario indispensabile della modernità, visto che l’automobile, principale status symbol della seconda metà del XX secolo, ha bisogno di libertà di movimento e di spazio. Sacrificando tutto il resto al “culto della macchina”, le città e i cittadini hanno così rinunciato al silenzio, alla vita civile nelle strade e in gran parte delle piazze. Questa situazione di assoluto predominio dell’auto individuale si è accompagnata nella mentalità comune a una sorta di assuefazione alla sua presenza. Ormai nessuno più si meraviglia se strade e piazze pubbliche sono diventate posteggi di auto private, e la domanda più frequente che i cittadini pongono agli amministratori comunali è: “dove devo mettere la macchina”? Il danno di questa mentalità diffusa si ripercuote sulla vita di tutti, a partire da quelli che non guidano l’auto. A questo proposito è da leggere con attenzione un passo del libro intitolato La città dei bambini, del 1996: “Consideriamo alcune macchine in sosta ai due lati di una stra-

da e poniamo che la macchina A sia parcheggiata a sinistra in seconda fila, mentre la macchina B sia parcheggiata a destra, di traverso, salendo sul marciapiedi, fino a rendere difficile o impossibile il passaggio dei pedoni. Se arriva l’autogrù della polizia municipale la probabilità di gran lunga più alta è che si porti via la macchina A e non è escluso che la macchina B possa cavarsela senza neppure una multa. Cosa significa questo? Che si interviene con decisione e mano pesante se la sosta disturba il movimento delle auto, che si è tolleranti se ad essere danneggiati sono i pedoni, quindi i più deboli. Eppure una persona disabile che si muove in carrozzella o una mamma che spinge la carrozzina, potrebbero non poter proseguire il loro percorso; un bambino o un anziano potrebbero essere costretti a scendere dal marciapiedi correndo inutili pericoli. Le auto sono di fatto le nuove padrone della città, è per loro che si studiano rimedi e facilitazioni, in loro favore si effettuano gli interventi più radicali e più costosi. Si pensi ai piani di nuovi parcheggi nelle grandi città. È a loro che i vigili urbani dedicano la gran parte del loro tempo e delle loro energie”12.

L’invasione degli autoveicoli con le connesse problematiche, è stata causata anche dagli errori urbanistici. Mentre nel corso dell’Ottocento e del primo Novecento i nuovi insediamenti residenziali e industriali andavano di solito a collocarsi lungo le direttrici ferroviarie o stradali, nell’ultimo mezzo secolo la costruzione dei quartieri urbani e suburbani quasi mai è stata progettata con attenzione ai problemi di spostamento, generando così una grande quantità di nuovi flussi, in particolare dalle zone periferiche ai centri delle grandi città, ma talvolta anche fra una periferia e l’altra. Pochissimi avevano previsto, negli anni del secondo Novecento, quando si è registrato il maggiore boom edilizio della storia italiana, in quale misura si sarebbe accresciuto il numero di automobili e quali sarebbero state le conseguenze nefaste in termini di vivibilità dei centri urbani e di salute per i cittadini. Soltanto negli ultimi due decenni, si è cominciato a pensare che l’espansione urbana deve tenere conto delle esigenze dinamiche degli agglomerati e di conseguenza si stanno attuando strumenti di pianificazione territoriale coordinati fra mobilità e urbanistica, considerando anche sosta e movimento negli standard di costruzione dei nuovi edifici. Ciò nonostante, nella situazione di insediamenti ormai dispersi e spesso senza una logica di sistema, porre rimedi è assai difficile e il processo di cambiamento risulta lungo e pieno di ostacoli. 12 F. Tonucci, La città dei bambini, Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. 61-62.

La domanda di mobilità Il ritardo nell’adottare soluzioni di contrasto all’eccessivo uso dei mezzi di trasporto privati è stato causato dallo scarso monitoraggio delle evoluzioni nella domanda di mobilità, come se non si fosse percepito in pieno quanto la mobilità sia complessa e quanto sia necessario tentarne una pur minima razionalizzazione, da parte degli enti preposti al governo della mobilità, dallo Stato ai Comuni. Se si raccolgono spesso i dati dei passeggeri saliti/discesi sui bus e sui treni, quasi mai si sono realizzate elaborazioni in grado di fare una fotografia più adeguata delle esigenze nei vari territori. È chiaro, infatti, che le rilevazioni sui mezzi pubblici sono utili soltanto per comprendere le esigenze di chi usa i mezzi stessi, ma non valgono in genere per captare nuova utenza. E anche le rilevazioni dei passeggeri sono state a lungo trascurate o comunque effettuate in maniera poco “scientifica”: per esempio, soltanto recentemente ci si è resi conto che risulta ormai superata la tradizionale percezione che vedeva un’ora di punta al mattino negli spostamenti per motivi di lavoro e di studio, seguita da un periodo di morbida fino all’ora di pranzo, poi da un altro periodo di punta fino all’uscita delle scuole, e un ulteriore periodo di morbida fino all’ora di punta del tardo pomeriggio.

6 - Tabella 1, Utilizzo dei mezzi di trasporto nella mobilità pendolare per studio e lavoro. Valori percentuali secondo i censimenti 2001 e 2011. (Fonte: elaborazione da Gli spostamenti quotidiani e periodici. Censimento 2001. Dati definitivi, Istat, 9 giugno 2005, p. 11; Gli spostamenti quotidiani per motivi di studio o lavoro, 4 agosto 2014, Istat, p. 14). 7 - Tabella 2, Autoveicoli in Italia (1950-2016). (Fonte: Anfia, Automobile in cifre. Dati annuali. Sono esclusi i motocicli, i rimorchi e i veicoli speciali). 8 - Tram a Mestre. Foto di Laura Facchinelli.

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TRASPORTI & CULTURA N.50 Soprattutto occorre far sapere che è sbagliato muoversi in auto nelle ore di punta e usare la macchina per tratti anche brevi, perché la maggior parte della gente non lo sa e non ci ha mai pensato. Anzi, quando vengono imposte limitazioni della circolazione o della sosta, si incattiviscono, ritenendo di essere privati di una libertà.

Educazione alla mobilità e consumo consapevole

9 - Tabella 3, Frequenza della mobilità (spostamenti per frequenza dello stesso spostamento). Valori percentuali. (Fonte: Audimob. Osservatorio sui comportamenti di mobilità degli Italiani. Rapporto congiunturale di fine anno. Dati campionari 2015, Isfort, p. 12). 10 - Tabella 4, Spesa media mensile delle famiglie nel 2016. Percentuali per singole voci. (Fonte: Elaborazione da: Istat, Report. Spese per consumi delle famiglie, anno 2016, p. 3). 11 - Minimetrò di Perugia. Foto di Laura Facchinelli.

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Le profonde modificazioni della struttura demografica, sociale e lavorativa del nostro Paese hanno infatti determinato una più complicata curva giornaliera della mobilità. Il periodo di punta del mattino è oggi più lungo, mentre la mobilità pendolare di tutti i giorni, che rappresentava negli anni ’90 più del 60% degli spostamenti motorizzati, oggi raggiunge appena il 44%, come mostra la tabella 3. In sostanza, è diminuito il peso della domanda sistematica ed è cresciuta la domanda occasionale di trasporto per esigenze di servizio, di consumo, d’informazione e di tempo libero. La domanda di trasporto riguardante gli spostamenti saltuari è poco studiata perché mancano rilevazioni approfondite. È da ricordare, infatti, che i censimenti della popolazione raccolgono i dati degli spostamenti quotidiani e dal 2001 anche gli spostamenti periodici, ma non quelli occasionali. Lo studio della mobilità è necessario per assumere decisioni adeguate, ma allo stesso tempo è opportuno e urgente “formare” l’utente al maggiore impiego dei mezzi pubblici, anche promuovendo specifiche campagne informative. Campagne con le quali far sapere che gli enti pubblici spendono molto per far circolare i mezzi collettivi, poiché gli introiti delle imprese di trasporto vengono in gran parte (65-70% in media) dal finanziamento pubblico di Regioni ed enti locali.

È del tutto trascurata la comunicazione ai cittadini di quanto importanti siano i propri comportamenti di mobilità, non solo per la collettività, ma pure per se stessi, dato che le spese di trasporto incidono in media per 200-300 € al mese sui consumi di ciascuna famiglia, assorbendo una quota di reddito intorno al 10%. Come uscita, è la terza dopo l’abitazione con le sue imposte e bollette e dopo i prodotti alimentari, come evidenzia la tabella 4. Occorre dunque avviare progetti di educazione alla mobilità per rendere edotti i cittadini e far comprendere come muoversi meglio, anche ai fini di tutela della salute dalle emissioni nocive, che stanno venendo sempre più alla ribalta13. Occorrono politiche concrete di sostegno alla mobilità pubblica: se una famiglia, composta di due genitori e due ragazzi, salendo sul bus urbano paga per un viaggio da un quartiere di periferia al centro oltre 6 euro per andare e altrettanti per tornare, evidentemente sarà spinta a utilizzare l’auto propria, che garantisce una maggiore libertà di spostamento e un migliore comfort. Inoltre, come costo dell’auto viene in genere percepito soltanto quello relativo al carburante e non anche all’acquisto o ai costi accessori come l’assicurazione e le riparazioni. La diffusione della mobilità sostenibile passa necessariamente per l’incremento e miglioramento del trasporto pubblico, per l’uso della bicicletta, per la tutela e l’incentivo della pedonalità, nonché per la restrizione di circolazione e sosta di autoveicoli e moto. Vi è una dimensione ideale da diffondere: la cultura del “muoversi bene” va vista come la cultura del cibo sano, cioè qualcosa che va oltre la semplice soddisfazione di un bisogno primario14.

Conclusioni Uno sguardo alla storia recente, dal secondo dopoguerra ai giorni nostri, mostra una serie di problematiche, venute alla luce man mano che scorrevano i decenni: intanto si può notare che le politiche dei trasporti sono state poco incisive sia a livello nazionale, sia a livello di Comunità Europea. Il mercato ha fatto da padrone, orientando le scelte individuali, volte a possedere e circolare sempre di più a bordo dell’automobile propria, o in sella al proprio motoveicolo. Nel luglio 2017, il numero delle patenti di guida valide in Italia era di 38.731.06915, rispetto a un numero di veicoli

13 A livello internazionale, è stato persino messo in piedi un sito per il calcolo delle emissioni, sulle varie tratte di viaggio: www.ecopassenger.it 14 L. Montanari - A. Zara - S. Gragnani, Salvarsi dal traffico, Milano, Il Sole 24 Ore, 2005. 15 http://www.mit.gov.it/comunicazione/newspatenti-dataset -online


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12 - Napoli, Piazza Garibaldi, accesso alla metropolitana. Foto di Laura Facchinelli.

circolanti di 51.011.347 al 31 dicembre 201716. Ciò significa che ci sono molti più veicoli che guidatori. Con la continua crescita del numero di autoveicoli e di motoveicoli, si è cominciato dagli anni 1990 a percepire il problema soprattutto nelle città, dove si concentrano la congestione stradale e le emissioni inquinanti. La strada, da luogo di ritrovo per i cittadini e di gioco per i bambini, è diventata appannaggio dei veicoli motorizzati, ma è diventata anche il terrore dei genitori riguardo ai figli, che non si rendono autonomi, per esempio nell’andare a scuola, proprio per l’invasione di auto che circolano dappertutto, non di rado ad alta velocità. Nel 2016, in Italia, si sono registrati 175.791 incidenti stradali, di cui 131.107, il 75%, su strade urbane. È quindi la città il luogo nel quale bisogna agire con urgenza, inducendo una “demotorizzazione” che deve – a tutela della salute di tutti – caratterizzare il XXI secolo, come la “motorizzazione” ha caratterizzato il XX. Non significa rinunciare all’automobile, ma usarla con parsimonia e con un criterio razionale. © Riproduzione riservata

L. Davivo - L.Staricco, Trasporti e società, Roma, Carocci, 2006. A. Donati - F. Petracchini, Muoversi in città. Esperienze e idee per la mobilità nuova in Italia, Milano, Edizioni Ambiente, 2015. S. Maggi, Le ferrovie, Bologna, Il Mulino, 2017.

Sitografia www.anfia.it - Associazione nazionale filiera industria automobilistica www.aci.it - Automobile club d’Italia www.ecopassenger.com - Compare the energy consumption, the CO2 emissions and other environmental impacts for planes, cars and trains in passenger transport www.eltis.org/it/ - The urban mobility observatory www.isfort.it - Istituto superiore di formazione e ricerca per i trasporti www.istat.it - Istituto nazionale di statistica

Bibliografia

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https://t2m.org/ - International Association for the History of Transport, Traffic & Mobility

Verso una strategia europea per una mobilità sostenibile. Linee d’azione per gli enti locali, a cura di Osservatorio Città Sostenibili, Milano, Angeli, 2004. L. Montanari - A. Zara - S. Gragnani, Salvarsi dal traffico, Milano, Il Sole 24 Ore, 2005. 16 http://www.aci.it/fileadmin/documenti/studi_e_ricerche/ dati_statistiche/autoritratto2017/

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L’energia della città. Abbiamo vissuto 150 anni in una bolla energetica di Emanuele Saurwein

Lo scopo di questo articolo è avere uno sguardo rivolto alla città, alla sua energia. Ma quale città? Come già sosteneva Italo Calvino1, non esiste la città, ma esistono le città. Tutte uniche, diverse, plurali. Almeno così era. Ho scelto un caso che conosco, poiché ci abito: Lugano, in Svizzera. Ho poi analizzato tre generazioni di cittadini in rapporto all’utilizzo dell’energia, al modo di vivere e alla forma della città. Per semplificare l’analisi ho preso a modello la mia esperienza di vita e in particolare la mia famiglia. Ho quindi analizzato come viveva mia madre, come viviamo io e mia moglie e come vivranno i miei figli (nell’analisi uno solo…). La classica famiglia svizzera, ma comparabile alla maggior parte dei cittadini europei. Circa 150 anni di vita della città occidentale. Per l’elaborazione dei dati mi sono basato sui rapporti dell’Ufficio Federale di Statistica svizzero (USTAT), sulla strategia del Consiglio Federale svizzero, sulla Società a 2000 Watt–Modello Svizzera e, infine, sulle discussioni avute con gli amici e ricercatori dell’Istituto sostenibilità applicata all’ambiente costruito (ISAAC) del Dipartimento Ambiente Costruzione e Design (DACD) della Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (SUPSI) di Lugano.

Introduzione Da quando l’uomo ha iniziato a stare in piedi - e guardare la Terra da una nuova prospettiva - ha iniziato a modificare il mondo. Inizialmente incerto, ora l’uomo ha la sicurezza completa e domina ogni specie. L’uomo ha reso artificiale la sua esistenza e il suo ambiente. La città, in tutte le sue forme, è lo strumento con il quale l’uomo ha plasmato il mondo e al tempo stesso è l’ambiente – artificiale - che ne ha condizionato le scelte di vita. È un processo reciproco. La città nasce dal cittadino che è portatore di civiltà e ne forma a sua volta i valori. La forma della città è lo spazio di vita dell’uomo e ogni epoca storica ha generato la sua forma di città. Anche oggi, ma soprattutto domani. La globalizzazione ha portato alle città globali, indifferenziate ed omogenee, in uno spazio isotropo, unico che è l’intero pianeta. I grafici che seguono rappresentano tre distinte città nel tempo: passato, presente e futuro. 1 Italo Calvino, Le città invisibili, Einaudi, Torino, 1972, ma anche il finale, bellissimo di La giornata di uno scrutatore, Mondadori, Milano, 1994.

The Energy of the City. We have been living in an energy bubble for 150 years by Emanuele Saurwein Is it possible to recount the history of the western city from 1940 to 2100 through the lens of energy use and man’s personal life? This short article tries to do just that, identifying three different ways of inhabiting the city across three generations. The first model: the Fat City is the one we inherited from our forefathers. It is a city based on a model of economic growth and quantity. The second model, the Fragmented City, is today’s metropolitan city. It is a city of indifference, comprised of fragments scattered throughout the territory, managed by bureaucracy and technocracy, but one that is reconsidering and starting to forge a new vision – of a sustainable dwelling in relation to the real needs of man. The city rethinks itself, just as man reconsiders his habitat and his body. The third model is that of the Hybrid City, the city of the future. We do not know much about this city on the horizon, but we do know that its energy consumption will be very limited. It will be a city of quality. The data of reference for this article has been extracted from an example in Switzerland: Lugano. On May 21st 2017, the Swiss voted to introduce a new energy law that limits fossil fuels and nuclear energy. The article begins with data from the Swiss energy policy as a way of considering the city as a mirror of society.

Nella pagina a fianco, in alto: Lugano, cartolina del monte Brè, circa 1950; in basso: Lugano, vista del monte Brè, 2015.

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1 - Grafico 1: fabbisogno di energia primaria, generazione 1940.

2 - Grafico 2: fabbisogno di energia primaria, generazione 1970

Grafico 1: The Fat City È la città dei miei genitori, di mia madre. Il passato. La generazione che ancora oggi governa il mondo. La città delle cattive abitudini che ha differenti denominazioni in relazioni al luogo, alla sua forma e dimensione: città, metropoli, agglomerato urbano, area metropolitana, megalopoli, supercity, … la città della smisurata quantità. Proprio la quantità è la sua essenza, il suo DNA, che ha generato un cambiamento qualitativo della vita nella città. Il denaro è la risorsa principale per abitarla. La vita intera gravita intorno al denaro. Inizio e fine della vita. Vite comprabili, come ogni altra cosa. Mia madre nasce nel 1942, in piena Seconda Guerra Mondiale, con un fabbisogno di energia primaria e di potenza continua di circa 1.000 Watt a persona (W/P). Oggi, 2018, abita in Svizzera e il suo fabbisogno di energia è di circa 5.500 W/P (dati 2016). Un livello di crescita pari a 5.5 volte. Non solo. Nei suoi 76 anni ha visto il suo spazio di vita crescere con lei. La città si è espansa, ha consumato il territorio ed è esplosa nelle forme di conurbazione e di città estesa che oggi viviamo. La generazione di mia madre ha avuto i benefici della crescita economica, guarda caso anch’essa pari a circa 5 volte. Tutto cresce. Benessere, ricchezza, spazio di vita, consumo di energia, aumento della quantità di cibo, estrazione delle risorse, … è un paradiso in Terra e sembra non fermarsi mai. È 60

la città (la cultura) dei bisogni e dei consumi, ben descritto da un allora giovane Jean Baudrillard, nel 19682, dove sostiene che non vi sia limite al consumo in quanto modello ideale di “ragione di vita”. Quella società ha poi prodotto la globalizzazione e il mercato globale. Fenomeno tanto positivo, per alcuni, quanto devastante per altri. A fianco del continuo aumento del fabbisogno energetico, con i consumi generati, le città iniziano un processo di identificazione. Iniziano ad assomigliarsi nella loro forma. L’analisi di Rem Koolhaas su New York3, seguita dai recenti lavori su Singapore4 o Lagos, esterna un modello che è ripetibile ovunque: è la proliferazione dello spazio e dello shopping. La bigness quale matrice della crescita, della città e dell’uomo. Atteggiamenti compulsivi che portano a credere in una eterna, costante e prevedibile crescita. Dubai, Shanghai, Tokyo, New York, Hong Kong, Singapore, ma anche Milano, Londra, Berlino, Parigi, e nel suo piccolo provincialismo Lugano, si espandono a macchia d’olio. In lungo, in largo e in alto. 2 Jean Baudrillard, Il sistema degli oggetti, Bompiani (RCS), Milano, 2009, 1a edizione francese, éditions Gallimard, Parigi, 1968. In particolare rimando al capitolo “Conclusione: verso una definizione del consumo”. 3 Rem Koolhaas, Delirious New York, A retroactive Manifesto for Manhattan, Oxford University Press, New York City, 1978. Edizione italiana a cura di Marco Biraghi, Electa, Milano, 2001. 4 Rem Koolhass, Singapore Songlines: Ritratto di una metropoli Potemkin… O trent’anni di tabula rasa, Quodlibet, Macerata, 2010.


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3 - Grafico 3: fabbisogno di energia primaria, generazione 2000.

4 - Grafico 4: fabbisogno di energia primaria, curva 1940 - 2100. Fonte dei quattro grafici: dati USTAT - SUPSI ARE. © LANDS 151112.

Dal 1950 a oggi, secondo i dati dell’ONU, la popolazione mondiale è cresciuta da circa 2 miliardi a circa 7,5 miliardi di individui. Il dato straordinario è però rappresentato dal fatto che sempre nel 1950 circa il 90% della popolazione mondiale era residente nei villaggi contro un 10% degli abitanti in zone urbane. Poi, la parità: attorno al 2007 il mondo si divideva al 50% tra cittadini e abitanti delle zone rurali. Si stima che nel 2050 (UN World Urbanization Prospects) il 75% della popolazione mondiale vivrà nelle città, contro un 25% di abitanti extra urbani. Facile immaginare il seguito. Un solo pianeta completamente urbanizzato. Da questo non si può sfuggire. Fat City è la città che colloca i bisogni, pubblici e privati, prima di ogni altra cosa. Grandi progetti, enormi infrastrutture, grandi mezzi tecnici. La crescita ovunque. L’abitare diventa un’estensione del proprio corpo. Tutto si espande. Tutto ingrassa. Il proprio spazio vitale cresce con la città. Quella di mia madre è un’intera generazione impegnata, consapevolmente o meno, a ri-fare sempre la città, farla per consumarla e poi rifarla ancora e buttarla via: a costruire la metropoli (non a caso da mater, madre). Una colonizzazione territoriale, dove il territorio è visto come risorsa a disposizione, da usare e consumare a piacere. Poi lo scarto, il rifiuto, il gettato via. Il fine della città è quantitativo. La quantità è la legge: più spazio, più soldi, più oggetti. Wall Street è il Paradiso. La finanza lo strumento che lo sorregge. Il mercato è dominante. Gli indici di borsa diven-

tano la sola realtà alla quale ci si deve rivolgere. Uno sguardo al passato mostra la straordinarietà di questo momento storico. Il grafico mostra con precisione il fabbisogno energetico per realizzare tutto questo. Fat City è la città dell’individualismo, delle abitudini personali che dominano tutto e tutti. Nel suo crescere continuo, la città ha cancellato i luoghi della memoria per diventare solo spazio urbano. Ha rimpiazzato la vita della città con i musei. Ogni cosa viene conservata, catalogata, archiviata; ogni cosa può essere merda d’artista, alla Piero Manzoni. E più si archivia, più il valore aumenta. Una città fagocitata da se stessa. Abitiamo in città egocentriche, tanto quanto le multinazionali che le hanno generate e gli architetti - archistar - che ne hanno disegnato il volto. Questo fenomeno è capitato ovunque, non solo nella provinciale Lugano, con intensità variabile nell’arco degli anni. La prosperità economica ha permesso un’abbondanza di risorse e una stabilità delle abitudini. Inizialmente un grande vantaggio, ma con il tempo i corpi degli esseri umani seguono la stessa curva di crescita della città: diventano obesi. Grasso ovunque. MORE and MORE. Tutto è grande e fuori misura, i carrelli della spesa, le dimensioni della casa, dell’automobile, delle imprese e della burocrazia, al punto tale che nel 2008 - anno della grande crisi – la frase più usata per tentare di salvare proprio il gigantesco motore del sistema del mondo, la finanza, era Too Big to Fail. Ma il grasso cola e il sistema si inceppa sotto il suo stesso peso. 61


TRASPORTI & CULTURA N.50 dopo l’uomo è sbarcato sulla luna. In Svizzera le donne non potevano ancora votare, ma la prima centrale atomica svizzera, Beznau (la più vecchia centrale al mondo in esercizio) è stata messa in funzione. Quattro università americane si sono collegate in internet. Il mio fabbisogno di energia primaria era di 3.800 W/P. Ero ignaro del mondo attorno a me. Nel 1987 ho compiuto i 18 anni: l’esercizio dei miei diritti civili. Il mondo ha vissuto la crisi delle borse europee. Ho acceso il mio primo computer. L’anno prima Chernobyl esplodeva - in famiglia non abbiamo potuto mangiare quell’anno i prodotti del nostro orto - e due anni dopo ho assistito alla televisione al crollo del muro di Berlino e ai cruenti fatti di piazza Tienanmen. La caduta di un intero mondo. Il mio fabbisogno di energia primaria era di 5.800 W/P. Diversi anni sono trascorsi, tra lo studio, la spensieratezza giovanile, l’amore e un inconsapevole spreco di risorse. Nel 2004 ho aperto il mio laboratorio di architettura a Lugano, LANDS, mentre il mio fabbisogno di energia primaria era di circa 6.300 W/P ed emettevo circa 8,5 t di CO2. Il picco del grafico, 6.500 W/P, è stato raggiunto tra gli anni 2005 e 2008. Iniziano le mie preoccupazioni e riflessioni sull’utilizzo dell’energia legate all’architettura. Nel 2011 io e mia moglie acquistiamo una casa e la risaniamo nel 2012. È il primo risanamento energetico svizzero certificato Minergie A (bilancio energetico positivo, ossia la casa deve produrre l’energia che noi consumiamo, calcolata in 35 kWh/m2*a). Mentre scrivo, 2018, le connessioni internet nel mondo sono di circa 4 miliardi (le SIM hanno addirittura superato il numero di abitanti) e il mio fabbisogno di energia primaria è di circa 5.500 W/P e di 6,5 t le emissioni di CO2. La curva del fabbisogno di energia primaria scende (per correttezza: ha iniziato la discesa nel 2008). Nel 2017 il popolo svizzero, attraverso un referendum, ha deciso di dismettere le proprie centrali atomiche e di non costruirne altre, passando alle energie rinnovabili entro il 2050.

5 - Lugano, vista aerea da sud, circa 1940.

Grafico 2: The Fragmented City

6 - Lugano, vista da sud, circa 2010.

È la città nella quale vivo e lavoro. Il presente. La città in crisi. Potrei dire la mia città se l’avessi fatta io, ma non è così. È la città ereditata e che ora iniziamo a fatica a modificare. Dobbiamo rileggere la città. Non rinnegarla, certo, ma ripensarla, aggiustarla, migliorarla e, soprattutto, ripulirla. La megalopoli, fatta di periferie connesse, è un sistema filamentoso, nebuloso, senza fine, caotico. La città panico, secondo Paul Virilio5. La città dell’indifferenza: culturale, economica e sociale. Tutto è gestito a distanza dall’amministrazione, dalla burocrazia e dalla tecnocrazia. Un mondo esploso in frammenti e dentro quei frammenti noi abitiamo. Eppure è il momento di svolta della curva. Un momento storico unico al quale guardare con estremo interesse. Capita raramente che una società debba ripensarsi interamente per sopravvivere. Io sono nato nel 1969 a Lugano e pochi giorni 5 Paul Virilio, La città panico, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2004. “…la più grande catastrofe del ventesimo secolo è stata la città, …”, pagina 84.

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Mi spingo nel futuro. Nel 2035 dovrei andare in pensione (saremo il 31% della popolazione svizzera sopra i 65 anni, mentre quando sono nato solo il 10% della popolazione era sopra i 65 anni…) e con me l’ultima centrale atomica svizzera (Beznau II). L’uomo dovrebbe atterrare sul pianeta Marte e la Cina sarà la prima economia mondiale (Goldman Sachs Report). Il dato più importante è il mio fabbisogno di energia primaria, che la Confederazione Svizzera ha fissato in 4.000 W/P e in 4,2 t le emissioni di CO2. Il 2050, circa e spero anche più tardi, è il mio orizzonte temporale di vita, secondo le tabelle di alcune assicurazioni svizzere. Un dato è certo: il mio fabbisogno di energia primaria è stabilito in 3.500 W/P, di cui al massimo 2.000 W/P di energia non rinnovabile e in 2,0 t le emissioni di CO2. Ossia la stessa quantità, circa, di quando sono nato! Si chiude un ciclo di vita, che è stato un riflesso sbiadito nella storia della civiltà. Un cambiamento radicale nel modo di vivere e abitare la città. La città sarà tecnologica dalle fondamenta al tetto. La città che inizia a ragionare sulla sostenibilità. Totalmente connessa al sistema del mondo. Non sarà più la città dei nostri genitori, quella ereditata, ma sarà una città completamente nuova, sconvolta dalla rivoluzione digitale in cor-


TRASPORTI & CULTURA N.50 so. I sistemi di progettazione e di costruzione sono già in fermento e genereranno un modo di abitare a noi, oggi, ancora sconosciuto. In quella piega della curva energetica è racchiusa una nuova forma di civiltà di cui non vediamo ancora il germoglio, ma che ha già messo radici e queste si rinforzano. È un dato di fatto. Alla crisi economica del 2008 non potrà seguire una ripresa come gli economisti si aspettano, con un fabbisogno energetico che riprende il suo corso in crescita. La svolta è in atto e la ripresa economica, quindi sociale e urbana, sarà impostata sulle nuove tecnologie di adattamento energetico, non di spreco. Una nuova civilizzazione è in atto, una nuova relazione tra specie viventi che è un nuovo rapporto con la Terra.

Grafico 3: The Hybrid City Sarà la città della nuova generazione. La città aperta. Quella dei nostri figli, nati con l’iphone: gli iGen (definizione di Jean M. Twenge6). Non possiamo nascondere il fatto che l’eredità lasciata loro è scomoda. Una città da ripulire, rimettere a posto. Ma come farlo? Anzitutto, smontiamo il mito che questa generazione non sia in grado di cambiare le cose. Anzi. Proprio questa generazione possiede lo strumento principale per la trasformazione delle città: la necessità (Ananke, per gli antichi greci). La più importante trasformazione sarà il passaggio radicale da un modo di vivere quantitativo a uno qualitativo. Lo specchio della curva della generazione di mia madre. Questa necessità è facilmente visibile dal grafico: la curva decresce, si assiste quindi a un radicale cambiamento di stato. Nel 2001 mi sono sposato, è nato il primo dei miei tre figli e qualche settimana dopo vedo in diretta televisiva il crollo del World Trade Center di New York. Le immagini più devastanti che ricordo. Oltre alle torri, in quel giorno sono crollati anche i supporti del mondo, come lo avevamo immaginato. Sono crollati i puntelli con i quali la società occidentale era stata costruita. Il più duro attacco alle nostre abitudini di vita. Tre mesi dopo l’attentato, esattamente l’11 dicembre, la Cina diventa membro del World Trade Organization. Wikipedia appare sul WEB e il fabbisogno di energia primaria di mio figlio era di 6.200 W/P e lui non lo sapeva. Nel 2019, io compirò 50 anni, mio figlio 18, mia madre 77. Secondo le stime della Confederazione Svizzera, ognuno di noi avrà un fabbisogno di energia primaria di circa 5.400 W/P. Salto il 2035 e il 2050, già analizzati, per arrivare direttamente al 2100 (auguro a mio figlio una lunga vita…). La Confederazione Svizzera ha stabilito che nel 2100 il suo fabbisogno di energia primaria sarà di 2.000 W/P - di cui al massimo 500 W/P di energia non rinnovabile - e in 1,0 t le emissioni di CO2. Ho riportato dati statistici, previsioni e obiettivi per avere un’idea di quanto succede. Alla domanda precedente, “ma come?”, possiamo iniziare a tratteggiare una prima, parziale e incompleta, risposta. Un frammento. La Terra è diventata un manufatto umano. La Natura, come spiegata nel 6 Interessante articolo di Gilberto Corbellini sul Sole 24 Ore, pagina 41, dell’11 febbraio 2018. L’articolo è una recensione all’ultimo libro della psicologa Jean Twenge.

passato, non esiste più. Esiste un’ingerenza umana diretta sulle condizioni di natura, il che significa che dobbiamo prendercene cura. Le città si sono unite formando, quasi, una sola città planetaria. Sono sparite quasi del tutto le differenze. Questa generazione avrà una nuova relazione anzitutto con la Terra, per necessità.

7 - Lugano, vista aerea da nord, circa 1950. 8 - Lugano, vista aerea da nord, circa 2010.

Come fare il grande passo? La nuova relazione è già visibile ai nostri occhi, oggi, ma lo sarà maggiormente tra pochi anni. Alcuni esempi: (1) la digitalizzazione del mondo. Questa genera uno specchio digitale, dentro il quale ci sentiamo proiettati e attraverso il quale proiettiamo il mondo digitale nel mondo reale. Una ibridazione di mondi. Il confine, virtuale–reale è estremamente labile; (2) i robot e ancor di più l’intelligenza artificiale. La sostituzione degli uomini o parti di uomini, sia come forza lavoro che come interlocutori. La forza lavoro robotizzata permette già ora la costruzione di opere complesse e arriva là dove la capacità 63


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9 - Hong Kong, the Harbour, circa 1930.

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umana non arriva. La progettazione e costruzione delle città sarà completamente diversa, così come il modo di abitarla; (3) la riscoperta della biodiversità. In un contesto di ecosistema devastato, si inizia la ricostruzione del nuovo habitat artificiale. I parchi, le riserve naturali, i boschi, l’acqua … iniziano a ri-connettersi, tanto quanto la città. Si hanno già sistemi di parchi a corridoio che permettono il controllo delle specie e la loro sopravvivenza. Parchi biotecnologici al servizio dell’umanità e del sistema Terra; (4) il ri-uso delle risorse. L’estrazione di nuove risorse, per un semplice effetto domino ed economico, sarà più costosa del riutilizzo di quanto è stato finora estratto dalla Terra. Una nuova stagione di industrializzazione è già impostata per la progettazione, la costruzione, lo smaltimento e il recupero in un’ottica di “ciclo di vita degli elementi”. Non più “buttare”, ma “recuperare”. In questo, l’industria automobilistica è all’avanguardia e lo stesso modello si ripeterà nel costruire le città e nel modo di viverle; (5) edifici produttori di energia. Nuovi materiali, modi diversi di progettare (in team e non in solitaria), ingegnerizzazione del processo creativo, … sono tutti fattori che permettono la costruzione di edifici a valore energetico positivo. È un fenomeno in atto; (6) un programma politico per la salvaguardia della Terra. È la prima volta che si assiste a una condivisione globale di un programma politico. L’ONU ha stabilito 17 obiettivi di sviluppo sostenibile che concretamente possono essere realizzati nei prossimi anni (Sustainable development goals, Sdg). I 17 obiettivi raccolgono l’insieme delle necessità per gli esseri umani;

(7) L’accordo sul clima di Parigi (Cop21). Atto firmato il 12.12.2015 e ratificato il 03.09.2016 ad Hangzhou (Cina) da U.S.A. e Cina. La Cina, nel risanare il mondo, gioca un ruolo fondamentale. Il 18.10.2017, Xi Jinping nel discorso al Congresso nazionale del Partito Comunista Cinese individua nell’ecologia un pilastro attorno al quale impostare il nuovo “sogno cinese” che sostituisce quello americano: “una civilizzazione ecologica”. Segnale di grande speranza; (8) l’insegnamento. Oggi, in diverse parti del mondo si fa strada un tipo di insegnamento molto più attento ai valori della Terra. La sostenibilità è diventata materia didattica e l’aggettivo sostenibile accompagna molte materie di studio. La nuova generazione è molto più attenta agli sprechi e insegna, dato estremamente positivo, ai propri genitori; (9) la gestione degli edifici. Sensori, rilevatori, domotica, … tutto il corredo di gestione tecnologica degli ambienti è oggi dominante rispetto alla struttura stessa dell’edificio. La parte tecnica di installazioni e di servizio diverrà vitale per gli edifici; (10) l’adattabilità. Gli edifici, e quindi di riflesso la città e i suoi abitanti, devono essere adattabili ai cambiamenti. Questo aspetto è di estrema importanza per la sopravvivenza stessa di un manufatto. Adattabile nel tempo e nel suo uso, senza spreco di risorse. Sono solo alcuni esempi, non esaustivi, ma utili per ragionare attorno al problema della città. Non affrontiamo in questa sede il problema del surriscaldamento climatico e spreco alimentare che sono le dirette conseguenze della curva del grafico 1.


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Conclusioni I tre grafici sul fabbisogno energetico delle tre generazioni a confronto mostrano un cambiamento di stato riguardo all’idea che sorregge il modello sociale di convivenza sul pianeta Terra: la città, che ci accompagna nella nostra vita e condiziona le scelte individuali, di comportamento. Ecco le tre curve che corrispondono a tre forme di città. Da un mondo prettamente quantitativo, grafico 1, a un mondo principalmente qualitativo, grafico 3. Il grafico 2, la svolta, rappresenta il mondo contemporaneo. Non si tratta, infatti, di ridurre unicamente i consumi e basta, troppo facile, si tratta di cambiare il modo di abitare la Terra, di vedere il pianeta e il nostro modo di abitarlo, assumersi le dirette responsabilità per il futuro, per le generazioni non ancora nate, e non per il presente. La difficoltà da affrontare e da risolvere è quella di stabilire il nuovo modello di vita, che non può essere quello ereditato. Oggi stiamo vivendo un momento particolare e irripetibile della storia dell’uomo sulla Terra. Si decide, ora consapevolmente, se il grafico 1 debba continuare a crescere (pensiero economico, modello U.S.A.) oppure se debba svoltare, grafico 3 (pensiero cinese, modello della “civilizzazione ecologica”). Dovrebbe essere chiaro che cambia radicalmente il modello di città di riferimento. La scelta appartiene alla mia/nostra generazione che deve responsabilmente affrontare il problema della città e della vita urbana e offrire una risposta che sia positiva.

Bibliografia

10 - Hong Kong, the Harbour, 2014. Foto di Laura Facchinelli.

Ayesha Khanna, Parag Khanna, L’età ibrida, Codice edizioni, Torino, 2013. Vaclav Smil, Storia dell’energia, Il Mulino, Bologna, 2000. ARE, Strategia per uno sviluppo sostenibile, 2016 – 2019, Edizione del Consiglio Federale svizzero, Berna, 2015. AAVV, Sviluppo Sostenibile in Svizzera, ARE, Berna, 2007. ARE, Vivere più leggermente, Novatlantis, Berna, 2003.

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Architetture del corpo urbano. Perchè la città di oggi non è rappresentativa di Zeila Tesoriere

“Bisogna cioè capire se il Capitale si pone ancora oggi, come un secolo fa, il problema della gestione della propria immagine e del proprio funzionamento al livello della forma urbana, o se piuttosto le trasformazioni avvenute ed in atto non hanno trasferito la sua realtà su un’altra scala, trasformando il concetto stesso di città.” Archizoom associati, “No-stop city. Residential parkings. Climatic universal system” in Domus 496 maggio 1971, p. 46-53.

The architecture of the urban body. Why today’s city is not representative

La città, o meglio la metropoli, non è più un luogo o un sistema di fatti costruiti in relazione: è una condizione. Il saggio breve di Archizoom Associati che rilevava per la prima volta questo nuovo stato - insieme sociale, politico e fisico - ha quasi cinquant’anni, ma sembra scritto ieri. Quest’impressione di attualità è dovuta solo in parte all’irrobustimento crescente degli studi neo-marxisti, che cercano nella fusione fra strutturalismo e decostruzionismo una sintesi capace di descrivere alcuni fenomeni salienti della nostra contemporaneità e che sono in consonanza rispetto al testo di Archizoom1. L’interesse del testo è anche nella sua capacità di rivelare l’impossibilità che la città sia ancora intesa come rappresentazione della società che l’ha costruita, divenendo piuttosto condizione attuativa obbligata di alcuni dei sistemi che utilizzano la sua comunità per svolgersi. L’ipotesi posta da Archizoom è, cioè, che la predominanza dei fattori economici e degli interessi finanziari, rispetto alle altre forze che in passato hanno conformato la città, introduca una frattura nei modi di produzione degli spazi e nella loro significazione. Quando si afferma che la città pre-moderna può essere intesa come rappresentativa, si fa riferimento a un processo che si appropria a posteriori delle sue forme e le inserisce fra le rappresentazioni di istanze compatibili con una visione allora generale e condivisa del rapporto fra l’uomo e il suo intorno. A componenti diverse di questa città è usuale attribuire la capacità di significare per esempio l’equilibrio e la gerarchia fra i poteri, l’arte e l’uso politico del corpo urbano, il rapporto fra l’uomo e la natura, il ruolo della tecnica e della scienza. È una rappresentazione codificata attraverso i dispositivi classici che nei secoli sono stati segni al tempo stesso della coerenza interna e della concomitanza dei diversi sistemi di significato per la costruzio-

This article proposes to focus on the contemporary relationship between architecture and the city from a nonrepresentational point of view. This interpretation addresses the impossibility of contemporary architecture to merely construct the locus for the evocation or re-emergence of collectives and shared social values. The term performance is introduced in order to address the more relevant capacity of architecture as disconnected from its mimetic function and visual quality, and considered rather as a complex interplay of relations: a situated, effective practice intentionally oriented to modify the urban landscape in which it is conceived and the social values that it permeates. To focus on this shift, the article roots the terms of debate as initially assessed in the seminal essay by Archizoom that accompanies the presentation of NoStop city. That meta-project, stating that the city was “no longer a place but a condition”, clearly referred to a political horizon where the entire urban realm was collapsed into a new boundless neutral surface, absorbing consumption, living and production in a single urban mode. Within this framework, the article attempts to identify certain forms of contemporary architecture that aspire to re-establish the sense of the city as the site of a political transformation of places, morphologies and habits, whose concern is an effective contribution to the urban culture at large.

1 È senz’altro Postmodernism or the cultural logic of late capitalism, opera del 1991 di Frederic Jameson, il principale riferimento per una lettura neomarxista (estesa quanto un inventario onnicomprensivo) dei rapporti fra fattori economici, interessi finanziari e produzioni culturali, incluse le forme architettoniche e urbane (tr. it: Postmodernismo ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Roma, Fazi 2007).

by Zeila Tesoriere

Nella pagina a fianco: Archizoom Associati, “No-stop city Residential parkings Climatic Universal System”, copertina dell’articolo in Domus n. 496, marzo 1971.

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1 - Renzo Piano, Richard Rogers, Centro Pompidou. Sezione trasversale sul sistema di ingresso in cui trovano continuità Forum e piazza esterna. Elaborato di concorso, 1971. 2 - Archizoom Associati, esempio di piano abitativo continuo, una superficie neutra attrezzata per il consumo, in Domus n. 496, marzo 1971.

3 - Nella pagina seguente, in alto: luglio 2017, manifestazione nella piazza coperta dal Museo de Arte de Sao Paulo (MASP, Lina Bo Bardi, 1968). 4 - Nella pagina seguente, al centro: concerto nello spazio pubblico esterno alla casa da Musica di Oporto (Rem Koolhaas e OMA, 2005). 5 - Nella pagina seguente, in basso: Memorial rebirth, 2008, installazione dell’artista Shinji Ohmaki negli spazi esterni del terminal marittimo di Yokohama, (FOA, 19952002).

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ne di valori urbani complessivi: la strada, la piazza, l’edificio di tessuto, le mura, la cattedrale, il Palazzo di città, e in seguito il teatro, il museo, l’ospedale, il boulevard, la stazione, il parco. Se allora ci si chiede in che modo dal secondo Novecento in poi si possa considerare la città come architettura, operando un passaggio al limite della tesi molto più lungamente e diversamente argomentata da Aldo Rossi nel suo testo fondativo di dieci anni precedente2, Archizoom 2 Si tratta ovviamente di: Rossi, Aldo, L’architettura della città, Padova, Città Studi, 1961.

pone la questione che ci si trovi ormai in un sistema performativo più che rappresentativo. Un sistema che cioè produce spazi immediatamente derivati dall’apparato di cui sono attuazione e piena espressione funzionale, che secondo il gruppo fiorentino è quello della produzione e del consumo. Un numero crescente di ricerche ha adottato nel corso degli ultimi vent’anni questa prospettiva3, 3 Fra i primi a riprendere quest’approccio è Rem Koolhaas, prima in alcuni scritti confluiti in SMLXL, (Bigness; Junkspace), poi nelle due ricerche svolte nel dottorato di Harvard, che


TRASPORTI & CULTURA N.50 che si è aggiornata includendo gli aspetti legati alle competizioni urbane di scala planetaria, al ruolo geopolitico dei fattori ambientali e climatici, alla tensione cui i fenomeni migratori sottopongono gli operatori spaziali moderni della frontiera e dell’appartenenza al suolo nazionale, acquisendo la statura di un approccio teorico capace di rispondere alle questioni poste da chi ritiene che l’architettura sia una produzione culturale situata, oltre che un insieme di fatti concreti dipendenti dalle occasioni del progetto e della sua (non sempre certa) costruzione. Quest’ottica riconduce gli atti trasformativi in cui l’architettura consiste alla loro dimensione politica. È necessario qui anche solo un inciso relativo allo sfondo su cui si collocano questi atti, che oggi in molti casi europei è quello di una città in cui la parte antica e quella successiva, extra mœnia o contemporanea, sono in opposizione. L’idea dell’omogeneità funzionale che lo zoning ha permesso di applicare con molti eccessi nel secondo Novecento, ha costruito spazi urbani ad una sola dimensione d’uso e sociale. Introversi, autoreferenziali, questi luoghi agiscono potentemente nella conformazione di quelle significazioni dell’immaginario attribuite socialmente che sono le identità. Niente conforma, rappresenta o riflette meglio della città la costruzione identitaria che il singolo fa di sé e del suo gruppo. Nessuno di noi è però solo l’abitante del suo quartiere, il consumatore dei suoi oggetti, lo studente delle sue lezioni, il lavoratore del suo impiego. La nostra vita quotidiana è fatta dalla sovrapposizione di momenti in cui doveri, obblighi, aspirazioni, imprevisti, piaceri, consumo, produzione, ricordi, pratiche, tradizioni si incrociano e hanno bisogno di spazi per avere luogo. Quando alla città in cui cittadini di diverse estrazioni economiche e sociali vivono variamente e pienamente insieme si sostituisce una frammentazione di luoghi monofunzionali ed omogenei, in cui non puoi far altro che svolgere una sola funzione insieme ad altri che lo fanno come te replicando a migliaia atteggiamenti e pratiche, si scardina alla base uno dei principi più importanti della città come luogo dinamico della diversità sociale, ed essa si trova dissolta in un cortocircuito di luoghi segreganti, autoescludenti. Questa è la ragione principale per cui le parti più marcatamente monofunzionali delle nostre città sono le meno attive nelle costruzioni identitarie. I quartieri residenziali monofunzionali del secondo Novecento, le aree infrastrutturali, industriali, gli spazi uniformemente destinati al consumo, non supportano processi di rappresentazione sociale perché in realtà le identità sono sempre plurali, e in embrione o in riflesso si indirizzano sempre ad un riscontro molteplice. I dispositivi attraverso cui l’architettura oggi fa la città, sono quindi elementi di interrelazioni complesse e in trasformazione, piuttosto che locus in cui celebrare o rinvenire l’espressione di valori. La compenetrazione delle materie architettoniche e della varietà dei loro significati si afferma così come la risposta al problema della rappresentatività delle componenti urbane, intesa come questione relazionale piuttosto che tradizionale o normativa. hanno dato luogo ai volumi Project on the city I: Great leap forward (2001) e Project on the city II: The Harvard guide to shopping (2001). Ultimamente cfr. almeno Alejandro ZaeraPolo, “The politics of the envelope”, Log, 17, 2008.

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6 - Rem Koolhaas e OMA, progetto di concorso per una biblioteca universitaria al campus di Jussieu, Parigi (1992, non realizzato) , pagina 129 di OMA Rem Koolhaas 1992-1996, “El Croquis 79”.

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Spie: pubblico/privato, interno/esterno Da questo punto di vista, la città è specchio della società nella misura residua in cui permette di individuare dispositivi di un’architettura urbana con rapporti di significato rispetto alla società che li produce. Essi saranno spie dell’aggiornamento di quella rottura alla cui origine abbiamo posto le riflessioni di Archizoom. La posizione espressa nel 1971 individuava già forme del progetto corrispondenti alle riflessioni espresse: la generica variazione della superficie neutra attrezzata per il consumo, coincidente con il supermercato o con il parcheggio. Essa appare effettivamente precorritrice di un insieme più vasto e articolato di materie di questa città diversamente rappresentativa. Dal museo all’aeroporto sono molti gli impianti che si sono progressivamente assimilati al bosco residenziale. L’ipotesi va ancora interrogata, rivedendola in relazione alla globalizzazione della produzione di merci, informazioni e valori dei nostri tempi. Si tratta di elementi, dicevamo, performativi e non più o solo rappresentativi. Componenti architet-

toniche di uno spazio urbano progettate per operare un cambiamento, esprimere un indirizzo al di là della loro capacità meramente denotativa. È un paradigma ormai largamente operante, i cui segni risiedono nei punti in cui il progetto esprime temi oggi in profonda revisione. La suddivisione netta operata dai perimetri esclusivi della città consolidata, per esempio, che individuava tutto il privato all’interno e tutto il pubblico all’esterno, si confronta da anni con una condizione concreta che ha bisogno invece di crescente compresenza e convergenza dei due soggetti. In un contesto in cui lo spazio pubblico è sempre più spesso costruito e gestito dal privato, questo mutamento esercita senz’altro una tensione che trasforma alcuni caratteri principali degli edifici. A questo si riconduce la crescente autonomia progettuale degli elementi di interfaccia fra l’edificio e il suolo, che si differenziano sempre più rispetto alle componenti ordinarie del piano di calpestio della città classica: la strada (nel tempo suddivisa in carreggiata e marciapiedi), la piazza, il parvis, le rampe, le scale, i basamenti e gli altri dispositivi necessari per il raccordo di quote diverse. Il Forum, sistema di ingresso al Centro Pompidou4 progettato nel 1971, è un piano inclinato in parte esterno e in parte interno all’edificio. Fra i primi segnali europei di questo profondo cambiamento nel Novecento, ha una sua denominazione specifica, perché non si tratta né di piazza, né di piano terra in senso canonico. La continuità fra interno ed esterno è indipendente dai soggetti proprietari, dal perimetro che separa dentro e fuori e anche dagli usi, che all’interno si articolano ulteriormente fra quelli della ricezione del pubblico, quelli del commercio e attività libere, rispettivamente ripartiti sui due lati opposti del Forum (libreria e boutique) e al centro (spazio con sedute a disposizione dei fruitori, indipendentemente dal pagamento del biglietto e dalla visita del museo). Solo tre anni prima, nel 1968, Lina Bo Bardi aveva in parte incastrato e in parte sollevato dal suolo il MASP a San Paolo, articolando attraverso i volumi dell’edificio una nuova idea di piazza belvedere fra la quota più alta dell’Avenida Paulista e quella del tunnel che più in basso introduce all’Avenida 9 de Julho. Il suolo dell’edificio pubblico nel secondo Novecento si precisa come nuovo condensatore di pratiche e produzioni spaziali attraverso molti edifici significativi, che sperimentano anche su dimensioni più contenute dispositivi intermedi fra strada ed edificio come strumenti di integrazione urbana. Nel 1992, il progetto di concorso per la biblioteca di OMA a Jussieu prolunga il suolo urbano dentro l’edificio, trasformandolo in un unico piano inclinato che si ripiega su se stesso come una strada, percorrendo l’intero edificio. La casa da Musica di Rem Koolhaas e OMA a Oporto, nel 2005, si incastra su un nuovo suolo bombato che incardina i diversi ingressi in uno spazio interno a sua volta articolato su più livelli dalle scale che percorrono in altezza l’edificio al di sopra e al di sotto della quota di calpestio esterna. Il terminal marittimo di Yokohama, opera dei FOA5 fra il 1995 e il 2002, è fra i risultati più emblematici del modo in cui la com4 Più correttamente Centre Georges Pompidou (Centre de Création Industrielle_CCI), in genere attribuito ai soli Renzo Piano e Richard Rogers è, quantomeno per l’elaborato vincitore del concorso del 1971, anche opera di Gianfranco Franchini. 5 Foreign Office Architecture, allora formato da Farshid Moussavi e Alejandro Zaera-Polo. Il duo si è sciolto nel 2011.


7 - Oscar Niemeyer, edificio del Congreso Nacional, Brasilia, 1960.

penetrazione dell’edificio con lo spazio pubblico mette in discussione non solo l’attacco a terra dell’edificio, ma anche la copertura, dando luogo ad una topografia artificiale che è al tempo stesso parte dell’edificio e nuova figura di suolo urbano. Questi casi mostrano che le capacità performative dell’edificio non si limitano alle nuove pratiche che il loro spazio pubblico permette. In parte esterno e in parte interno all’edificio, discontinuo, disponibile ad essere utilizzato indipendentemente dagli altri luoghi del manufatto, questo spazio che sconfina sino alla copertura accentua le capacità topologiche, relazionali, dell’architettura con i luoghi e gli abitanti. Esso sostiene nuove modalità di gestione dell’opera pubblica, mentre la inserisce in città introiettandone le forme e associando alla disponibilità di un servizio la produzione di nuove morfologie. Nella nostra epoca, la trasformazione del rapporto fra pubblico e privato ha lasciato altre tracce sulla composizione dell’edificio. La migrazione verso l’esterno dei sistemi di connessione verticale è fra i più salienti rispetto alla relazione dell’architettura con la città. Nel 1960 a Brasilia Oscar Niemeyer collega direttamente la piazza dei tre poteri alla copertura del Palazzo del Congresso Nazionale attraverso una rampa ortogonale alla facciata6. Ancora complementare alla dimensione astratta della composizione volumetrica, la rampa collega qui un esterno ad un esterno. Dieci anni dopo, le scale mobili del Centro Pompidou appese parallele alla facciata sul Forum, sono completamente esterne ma raggiungibili solo dalla prima elevazione dell’edificio. Lanciate libere verso la città, queste scale meccaniche portano il visitatore verso l’alto senza che ci sia bisogno di guardare mai i gradini, permettendo una nuova conquista visuale e progressiva della città in altezza. Edifici come il Fun Palace7 avevano già progettato la trasformazione delle scale dell’edi6 Il secondo braccio della stessa rampa diverge, scendendo dalla piazza verso il piano inferiore dell’edificio. 7 Progetto mai realizzato che Cedric Price sviluppò a partire dal 1961 in collaborazione con Joan Littlewood.

ficio pubblico in un sistema esterno. Quelle scale mobili, con la loro sola presenza, davano compimento all’assimilazione definitiva della produzione culturale a quella delle merci di consumo di massa, ai cui spazi sono in genere associate scale di questo tipo. Ma in quell’edificio il tema era l’annullamento della distinzione complessiva fra interno ed esterno, piuttosto che la sola distinzione dei corpi scala8. Nel Pompidou non si tratta più di scale che marcano il ruolo di interfaccia dell’architettura fra la città e il territorio, come la città italiana ed europea costruiva da secoli9. Non sono neanche scale perimetrali, che servono a dare contenuti al topos architettonico del muro attrezzato o abitato, con l’inserimento di spazi funzionali e di servizio - come le scale fra due pareti - per la creazione di una soglia spessa in dimensioni e attività. Sono invece scale che inglobano lo spazio della città all’interno dell’edificio, che rendono la conquista progressiva in elevazione del panorama urbano parte dei paesaggi dell’arte che il museo consente di sperimentare. È un tema analogo all’idea di museo come istituzione che produce la collezione che espone, edificio pubblico incubatore di azioni urbane. Un’architettura pienamente performativa, come si trova chiaramente espresso dal Fresnoy di Bernard Tschumi, che fra il 1991 e il 1997 trasforma un preesistente centro per l’intrattenimento popolare a Tourcoing, vicino Lille, attraverso un progetto riso8 Rispetto all’estrazione delle scale mobili dagli shopping mall che ne costituivano ad allora l’ambientazione esclusiva, la prima saliente apparizione architettonica è del 1957, quando Alison e Peter Smithson avevano organizzato la complessa mobilità del progetto per Hauptstadt Berlin attraverso gigantesche scale mobili per lo spostamento dei pedoni fra i diversi livelli artificiali dei nuovi suoli della città. 9 Già Federigo da Montefeltro a Urbino aveva trasformato il primo castello in una piccola polis, con la corte d’onore utilizzata come piazza pubblica. Le opere successive di Luciano Laurana e Francesco di Giorgio Martini completeranno il Palazzo Ducale, di cui in particolare va ricordata qui la facciata con i due torrini delle scale a fare da mediazione fra l’edificio e la campagna. Interfaccia con il precipizio, pur dando luogo a una figura architettonica della geografica, queste scale sono ancora dispositivi di controllo territoriale interni all’edificio.

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8 - Le scale mobili appese alla facciata del Centro Pompidou, Parigi (R.Piano, R. Rogers, 1971).

9- Cedric Price, Fun Palace, 1960-1965. Prospettiva interna. Immagine disponibile al link: https://cdn-images-1.medium.com/max/1200/1*6ZuG Yu00wvucLQvzFUzHQA.png

lutamente orientato all’espressione delle relazioni fra le nuove parti inserite e i manufatti precedenti. La scala è qui il cuore di un intervento che consiste nella disposizione di nuovi collegamenti e percorsi fra gli edifici preesistenti, parzialmente delimitati da un nuovo volume. La rampa principale parte dalla strada per raggiungere una quota sopraelevata da cui si dirama il nuovo sistema di percorsi fra i padiglioni senza mai interrompersi nella fruibilità o nel ritmo In seguito, il padiglione olandese di MVRDV all’esposizione universale di Hannover del 2000 riporterà le scale esterne al piano terreno, a collegare l’impilamento di paesaggi olandesi sin dalla strada. 72

All’estremità di queste due sequenze si trovano edifici come quello per il quartiere Coolsingel a Rotterdam, di OMA (non realizzato) o il Technology, Entertainment and Knowledge Center di Taipei (TEK), edificio vincitore del concorso del 2011 progettato da Big. I due temi della situazione dello spazio pubblico interno all’edificio e della migrazione verso l’esterno dei corpi scala vengono svolti dalla successione di lamelle in cemento modellate a formare un vuoto al centro di un cubo di 57 m. di lato. Sistema strutturale, scale e dispositivo per rischiarare gli interni, queste lamelle sovrapposte e sfalsate consentono di percorrere dall’interno il volume in continuità con la strada, sino ad arrivare alla copertura.


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Architettura di commentari La città entra sempre più dentro l’edificio. L’edificio si slancia sempre più verso la città. Una città dall’anima sempre più polimorfa e polisemica, in cui le architetture scambiano reciprocamente con l’intorno. E quindi, in questa città, l’architettura rappresenta o opera l’urbano? C’è ancora la capacità dell’architettura di farsi paesaggio urbano, come succedeva nel Quattrocento, quando l’idealizzazione della città si attuava contemporaneamente alla sua costruzione, oscillando nell’istante fra realtà costruita e realtà picta10? Adesso che si tratta di comprendere e significare processi che si compiono continuamente, cumulativamente, in modo sempre più accelerato, l’architettura non rappresenta una sola idea di città. Si impegna di certo nella sua decriptazione, fornendo a posteriori valori urbani a condizioni già costruite. È un’architettura di commentari. Pur se solo in parte percorse, le due piste introdotte mostrano il ruolo sempre più ridotto della visibilità delle materie architettoniche per la determinazione della loro rappresentatività. La costruzione della dimensione rappresentativa della città intesa come capacità trasformativa delle azioni progettuali è sempre di più funzione dei soggetti che la costruiscono. Oggi essi consistono in cordate multinazionali legate agli attori della finanza mondiale che investono per costruire grandi sistemi integrati di edifici. Non solo, essi gestiscono in seguito questi edifici per anni, dal bilancio fra redditi e spese, alla manutenzione, sino al piano energetico e di dismissione dei rifiuti, provvedendo alla loro infrastrutturazione primaria. Questo accade in città di ogni peso e dimensione, e i valori incarnati ed espressi da queste operazioni sono funzione dell’educazione civica e politica del contesto che le attira, secondo un magnetismo implacabile, per cui ad un tessuto incancrenito dalla cattiva politica e dalle sue contiguità speculativo-criminali non potrà che corrispondere un risultato impregnato solo superficialmente dei contenuti innovativi che pure spesso queste operazioni introducono nelle città. Le città competono per l’attrazione di capitali necessari a loro volta a incanalare ulteriori flussi di finanziamenti, e per il richiamo di cittadini sempre meglio educati alla vita che è possibile svolgere in questi nuovi luoghi urbani. È sempre più evidente che non esiste una soluzione rapida alla questione della rappresentatività sociale della città, che è poi la questione dei valori collettivi e superiori espressi dalle sue componenti. Esiste invece una strada più difficile, perché composta da un reticolo di diramazioni convergenti, che consiste in uno sforzo quotidiano e continuo di tutti i soggetti che contribuiscono direttamente o indirettamente alla sua costruzione, affinché ai capitali corrispondano progetti, e prima ancora si individuino le occasioni di intervento cui indirizzare gli sforzi. È necessaria una diffusione sempre più ampia della consapevolezza che ogni azione trasformativa sullo spazio costruito ha un significato politico perché essa sarà rappresentativa, simbolica, metaforica del valore che attraverso quell’azione si attribuisce a quel luogo e ai suoi cittadini. Ciò dovrà investire e dotare di significato anche

l’amministrazione e l’attuazione, spesso zona grigia di un tecnicismo introverso, costruendo l’impalcato di governance oggi indispensabile, e sollecitando la coscienza del ruolo culturale che i soggetti di queste fasi di fatto esercitano, spesso senza neanche immaginarlo. Legalità, formazione, confronto aperto, studio, ricerca, sono le parole chiave di questa strada che potrebbe, con decisione ferma da parte dei soggetti apicali di queste lunghe catene, determinare inaspettati e straordinari cambiamenti.

10 - Bernard Tschumi, Le Fresnoy, Tourcoing (Lille), 1991 - 1997. 11 - Big, Technology, Entertainment and Knowledge Center (TEK), Taipei, progetto vincitore del concorso, 2011.

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10 Basti ricordare la simultaneità di creazione a cavallo fra architettura costruita e dipinta per Bramante e Raffaello.

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Musei, specchio della società. I cambiamenti in ambito espositivo e museale nell’ottica della psicologia architettonica di Leonardo Tizi e Francesca Pazzaglia

La psicologia ambientale, come studio della dinamica persona-ambiente, costituisce una cornice teorica per comprendere l’interazione tra ambienti museali e stili di vita, interessi e motivazioni dei loro visitatori. Molta ricerca sui visitatori dei musei (indicata nella letteratura internazionale con il settore di Visitor Studies), pur non identificandosi esplicitamente con la psicologia ambientale, usa tuttavia approcci e tecniche simili. Le analisi effettuate in entrambi gli ambiti possono essere di aiuto per interpretare i cambiamenti che hanno contrassegnato i musei a partire dalla fine dell’Ottocento. Tali cambiamenti hanno portato recentemente a valorizzare l’esperienza dei visitatori, che è stata messa al centro e teorizzata in termini più ampi, riconoscendo l’importanza delle dimensioni affettive, oltre a quelle comportamentali e cognitive, e del modo in cui i visitatori si appropriano dello spazio museale per soddisfare obiettivi personali e di apprendimento. Il museo costituisce uno degli elementi dell’infrastruttura culturale di una città e sempre di più i musei sono diventati mete turistiche, in risposta a una crescente esigenza di valorizzazione delle risorse artistiche, storiche e culturali, a un modo diverso di intendere l’arte come bene di consumo e fonte di esperienze personali significative. Ciò ha avuto un impatto profondo sul modo in cui i musei concettualizzano e progettano i loro spazi espositivi. Nel corso degli ultimi 150 anni, il design espositivo si è spostato da modalità visive non mediate tecnologicamente a forme interpretative ed esperienziali, e, parallelamente al riconoscimento del ruolo del design, le architetture e gli allestimenti museali sono diventati uno specchio del nuovo modo di intendere la fruizione artistica: fenomeno di massa, non più limitato a obiettivi solo conoscitivi, ma motivo di esperienza e condivisione di emozioni.

Il variare nel tempo del ruolo socio-culturale dei musei L’International Council of Museums definisce i musei come “un’istituzione permanente no profit a servizio della società e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che acquisisce, ricerca, comunica ed espone il patrimonio tangibile e intangibile dell’umanità e il suo ambiente ai fini dell’educazione, dello studio e del divertimento” (ICOM, 2007). Se storicamente i musei sono stati organizzati attorno a una collezione, più recentemente si sono affermati musei che hanno posto minore enfasi

Museums, the mirror of society. Changes in the exhibition and museum environment from the perspective of architectural psychology by Leonardo Tizi and Francesca Pazzaglia Environmental psychology, as a study of the dynamics between person and environment, is a theoretical framework for understanding the interaction between museum environments and the lifestyles, interests and motivations of their visitors. The museum, in its evolution from a device focused primarily on educating the public to a device meant to attract it, as in the emblematic case of Bilbao, can become a vehicle for urban regeneration. The evolution of museums since the late nineteenth century has recently led to the enhancement of the visitor experience, recognizing the importance of the affective, as well as the behavioural and cognitive dimensions, and the way in which visitors take possession of the museum space to meet personal and learning goals. The museum is one of the elements in a city’s cultural infrastructure, and more and more museums have become tourist destinations, in response to a growing need to enhance artistic, historical and cultural resources, to a different way of understanding art as a consumer good and a source of significant personal experiences. This has had a profound impact on the way museums conceptualize and design their exhibition spaces.

Nella pagina a fianco, in alto: il Guggenheim Museum di Bilbao, architettura iconica che ha catalizzato la trasformazione economica e culturale di un’intera regione. Al centro e in basso: esempi di architetture contemporanee sulla scia dell’effetto Bilbao: le foto rappresentano, rispettivamente, il Museum of Old and New Art di Hobart, Tasmania e il Louvre-Lens Museum, Francia.

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1 e 2 - Architetture museali del ‘900 che si sono affermate come segno urbano dal forte impatto visivo ed emotivo. Le foto rappresentano il Solomon R. Guggenheim Museum di New York (in alto) e la Piramide del Louvre a Parigi (in basso).

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sulle collezioni materiali, valorizzando idee culturali e fenomeni scientifici. Negli anni ‘90, in tutto il mondo sono stati costruiti nuovi musei ad un ritmo sorprendente, con una crescita dei capitali investiti del 483% (Tilden, 2004). I musei, in particolare i musei più grandi nelle città principali, costituiscono importanti mete turistiche e si sono affermati come rappresentazioni monumentali del senso del luogo e dell’identità culturale di una destinazione (Stylianou-Lambert, 2011), al punto che, in alcuni casi, città fino a pochi anni prima ignorate dai flussi turistici sono diventate conosciute e mete ambite a seguito della costruzione di musei, che ne sono diventati il centro e un vero e proprio simbolo nell’immaginario collettivo. In ambito internazionale, l’esempio più significativo è rappresentato dal Guggenheim Museum di Bilbao, museo di arte contemporanea inaugurato nel 1997 e progettato dall’architetto Frank O. Gehry, ingaggiato con la richiesta di realizzare un segno urbano trasformativo come l’Opera House di Sidney. L’edificio scultoreo, considerato da su-

bito una delle architetture più influenti dei tempi moderni, ha dato il nome al “Bilbao effect”, un fenomeno per il quale gli investimenti culturali materializzati in un’opera iconica sarebbero in grado di risollevare l’economia di centri e regioni (Plaza, 2006). Spesso, i musei costruiti dopo quello di Bilbao sostituiscono a una collezione importante un’architettura sorprendente, sperando che l’edificio diventi un’opera d’arte di per sé capace di attrarre numerosi visitatori, strategia che sembrerebbe non aver funzionato in altre città che hanno investito nelle istituzioni culturali per innescare un processo di trasformazione economica. Acclamato come l’evento culturale più importante dall’apertura dell’Opera House di Sidney, il Museum of Old and New Art (Mona), in Tasmania, ha generato una significativa fioritura culturale a Hobart, raggiungendo un livello di rigenerazione urbana e regionale, guidata dal turismo, al pari del Museo Guggenheim di Bilbao (Franklin & Papastegiadis, 2017). Il Louvre-Lens Museum, inaugurato nel 2012 come sede distaccata del Louvre, e costruito sul sito di una vecchia miniera di carbone anche con l’obiettivo di sviluppare l’attrattività turistica e culturale della città, può essere considerato un ulteriore banco di prova dell’effetto Bilbao. Il Solomon R. Guggenheim Museum di New York, opera di Frank Lloyd Wright del 1943, tra le più importanti architetture del XX secolo, e la Piramide del Louvre a Parigi, ideata da Ieoh Ming Pei e inaugurata tra polemiche e resistenze nel 1988, costituiscono due opere che rapidamente si sono affermate come segni urbani distintivi dal grande impatto visivo ed emotivo. Nel contesto italiano, ricordiamo, a Roma, il Museo nazionale delle arti del XXI secolo (MAXXI), inaugurato nel 2010 su progetto di Zaha Hadid; la nuova sede, a Rovereto, del Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto (MART), progettata da Mario Botta e aperta nel 2002; la Fondazione Prada a Milano, istituzione dedicata all’arte contemporanea e alla cultura, i cui nuovi spazi sono stati progettati dallo studio di architettura OMA, guidato da Rem Koolhaas, e inaugurati nel 2015 come trasformazione di una distilleria risalente ai primi anni del Novecento. Queste dinamiche evidenziano come stia emergendo un nuovo tipo di museo, dove l’edificio si configura come fulcro di un nuovo modo di una città di rappresentarsi al mondo, emblema talvolta di un luogo e di una comunità, e come strumento per la raccolta di fondi e di pubblicità, non solo per il museo ma anche per la città. Questo, naturalmente, non toglie importanza a ciò che all’interno dei musei viene ospitato: il vettore primario per l’esperienza dei visitatori è la mostra, un mezzo di comunicazione unico che crea una narrativa attraverso il movimento nello spazio e nel tempo (Lord, 2001; Wineman & Peponis, 2009). Come è cambiato dalla seconda metà dell’Ottocento a oggi il modo di interpretare il ruolo dei musei? Dagli edifici storici a quelli contemporanei, l’architettura dei musei si muove dal mostrare al raccontare e dalla classificazione alla narrazione (Hillier & Tzortzi, 2011). In questo processo di trasformazione, i cambiamenti fisici relativi alla spazialità dei musei determinano modi diversi di esporre le opere, non più semplicemente installate su muri bianchi squadrati; pertanto, sono richieste nuove strategie e tecniche espositive, che potrebbero cambiare la comprensione da parte del pubblico di cosa sia un museo (Lindsay, 2013).


TRASPORTI & CULTURA N.50 Architettura museale e design espositivo sono chiaramente collegati, così come il design degli allestimenti è inevitabilmente influenzato dall’involucro architettonico. È indicativo che lo spazio dei musei pubblici del passato venisse organizzato in sequenze di grandi sale e fosse prestata poca attenzione al layout delle mostre. Come vedremo, notevoli sono stati i cambiamenti in questo senso nelle esposizioni recenti. Il termine museo deriva dal greco mouseion, che designa il “luogo sacro alle Muse”, all’interno del quale erano ospitate raccolte di libri e di opere d’arte. Col passare dei secoli, il museo muta progressivamente la sua natura, diventando luogo privato e aristocratico, finché, alla fine del XVIII secolo, inizia a sviluppare alcune delle caratteristiche che mantiene tuttora. Nell’Ottocento, riprendendo moduli greco-romani ed ergendosi a simbolo dello Stato e della sua identità culturale, l’architettura dei musei connotava questi palazzi come templi moderni che donavano sacralità alle opere custodite, rispondendo così a una funzione di tipo celebrativo (Gilli & Rozzi, 2013). Agli inizi del XX secolo, la nascita del modernismo – sia nell’arte sia nell’architettura – ha avuto una considerevole influenza sul design espositivo. È nella Germania dei primi anni Trenta del secolo scorso che, con i progetti del Bauhaus, si inizia a porre attenzione al flusso dei visitatori, all’organizzazione sequenziale degli spazi, al design grafico. Un altro innovatore è stato Otto Neurath, che nel 1925 fondò a Vienna il Museo Sociale ed Economico, riconoscendo il potenziale di educazione pubblica delle mostre e l’importanza del pubblico in questo processo. Negli Stati Uniti, la cultura del consumo di massa del ventesimo secolo ha esercitato una significativa influenza sul design espositivo. La mostra Arts of the South Seas, realizzata da Rene D’Harnoncourt nel 1946 presso il Museum of Modern Art di New York, utilizzò schemi di illuminazione ad effetto e colori evocativi in un modo che trasformò il design espositivo in una forma di arte e di interpretazione (Foster, 2012). In parallelo a questi cambiamenti nelle pratiche espositive, le mostre sono diventate il mezzo attraverso il quale l’arte viene sperimentata piuttosto che semplicemente il luogo in cui è catalogata. È in questi anni e con queste finalità che si afferma il design minimalista del white cube, che diviene l’archetipo dell’ambiente della galleria d’arte, con l’intenzione di lasciare le opere come unico focus facendo svanire lo spazio sullo sfondo (Giebelhausen, 2011). Per contrasto, i musei pratici (per es. i musei di storia naturale e della scienza) si sono sviluppati all’interno del paradigma della black box, oscurando intenzionalmente il mondo esterno e ponendo il visitatore in uno spazio artificiale, progettato con particolare attenzione agli aspetti scenografici degli allestimenti (Dernie, 2006). In entrambi i casi è l’esperienza dei visitatori che viene messa al centro.

Esposizioni museali ed esperienza dei visitatori Nel ventunesimo secolo le economie delle società industrializzate hanno riconosciuto in maniera crescente il bisogno di andare oltre le caratteristiche dei prodotti, verso dimensioni più esperienziali del consumo. Coerentemente con questa tendenza, i

musei (ri)considerano il proprio ruolo nei termini dell’esperienza che possono offrire ai visitatori, divenendo produttori attivi di cultura piuttosto che depositari passivi di essa (Smith, 2011). Nel contesto espositivo e museale, il termine esperienza può essere considerato come processo di mutua interazione tra il visitatore e gli allestimenti. Il coinvolgimento dei visitatori in un’esperienza museale personalizzata, con particolare attenzione agli aspetti emotivi piuttosto che pedagogici, appare mediato dall’uso di nuove tecnologie interattive digitali, nuove forme curatoriali, e grandi dichiarazioni architettoniche. Le esposizioni costituiscono una parte fondamentale dell’immagine pubblica dei musei e i mezzi principali con cui questi si interfacciano con il loro pubblico, e gli allestimenti possono essere considerati strumenti per comunicare e persuadere, affermandosi come componente importante delle politiche museali per coinvolgere il pubblico. Il design espositivo come modalità di organizzare intenzionalmente l’esperienza dei visitatori del museo ha iniziato a ricevere un’attenzione specifica a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso. La distinzione tra il design delle mostre interpretative (nei musei o nei contesti educativi per il tempo libero con scopi educativi, sociali o estetici) e quello relativo alle esposizioni commerciali, appare sempre più sfocata, dal momento che esposizioni commerciali, musei e ambienti di vendita condividono caratteristiche comuni e influenze reciproche. Nelle mostre interpretative, forma e contenuto sono sempre più integrati in modo tale che il design si configuri come un mediatore del messaggio desiderato quanto il contenuto. Dernie (2006) categorizza le esposizioni come spazio narrativo, in cui allestimento e oggetti, insieme ai movimenti dei visitatori, rivelano una stratificazione di storie; spazio performativo, in cui l’enfasi è sull’azione da parte dei visitatori piuttosto che sull’osservazione, per esempio nelle mostre interattive, e, infine, esperienza simulata con scenari multimediali immersivi e ricostruzioni che costituiscono un’evoluzione dei tradizionali diorama. Queste dinamiche rappresentano un cambiamento nel modo di concepire le esposizioni, da collezioni di oggetti esposti isolati a esperienze integrate. Il design pensato per suscitare esperienze costruisce un contesto al di fuori degli oggetti da mostrare con l’obiettivo di coinvolgere il visitatore a livello emotivo e, così facendo, genera un ricordo

3 - Museo nazionale delle arti del XXI secolo–MAXXI a Roma.

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4 e 5 - Esempi di musei italiani la cui architettura diventa emblema di un luogo e della sua identità culturale. Nelle foto: il Museo nazionale delle arti del XXI secolo–MAXXI a Roma, la nuova sede, a Rovereto, del Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto–MART (in questa pagina, in alto) e la Fondazione Prada a Milano (in basso).

personale legato all’esperienza di visita; essenziale per creare un’esperienza che si associ ad un ricordo ricco è il carattere dello spazio fisico.

Atmospherics, ambienti di vendita e ruolo dell’ambiente nei contesti museali Il concetto di atmospherics, usato per la prima volta per descrivere il design degli ambienti di vendita e definito come il modo conscio di progettare lo spazio per creare certi effetti sugli acquirenti (Kotler, 1974), evidenzia come la ricerca in questo settore possa essere applicata anche al contesto museale (Forrest, 2013). L’influenza di questo “lin78

guaggio silenzioso” avviene attraverso meccanismi sensoriali ed emotivi, con esiti comportamentali che spesso si verificano a livelli subconsci. Il modello Stimolo-Organismo-Risposta (S-O-R), derivato dalla psicologia ambientale, ha costituito la cornice teorica di maggiore influenza per qualificare le risposte dei clienti all’ambiente (Mehrabian & Russell, 1974). Il modello S-O-R sostiene che gli input sensoriali provenienti dall’ambiente si combinano con i fattori individuali e di personalità, provocando una reazione interna fondamentalmente emotiva, a cui farà seguito un comportamento. In modo analogo a quanto avviene negli ambienti di vendita, all’interno di uno spazio espositivo l’atmosfera percepita costituisce una dimensione importante dell’esperienza di visita di una mostra e, complessivamente, può essere considerata un


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6 - Il design minimalista del “white cube”, archetipo dell’ambiente della galleria d’arte.

mezzo comunicativo supplementare e una forma di interpretazione (Forrest, 2014). Anche in ambito museale si è notato che le decisioni relative al design, come la posizione della segnaletica di orientamento, la presenza di elementi scenografici, la dislocazione di punti di scelta, influenzano l’orientamento dei visitatori e il numero degli oggetti esposti osservati (Bitgood, 2011; Goulding, 2000). I risultati di numerose ricerche supportano l’evidenza che le dimensioni atmosferiche di un’esperienza museale – al pari di aspetti più specifici e tangibili come i contenuti – sono importanti per una porzione significativa di visitatori (Bonn et al., 2007; Kottasz; 2006; Packer, 2008; Schorch, 2013).

Design espositivo ed esperienza dei visitatori Il design espositivo ha un impatto sull’esperienza di visita e può influenzare il flusso dei visitatori (Klein, 1993; Peponis et al., 2004), il livello e la qualità delle interazioni sociali (Choi, 1999; Hillier & Tzortzi, 2011), l’attenzione (Bitgood & Patterson, 1993), e le risposte affettive (Packer, 2006; 2008). Inoltre, il design è importante per creare una segnaletica narrativa, interpretativa e di orientamento, la cui assenza può essere sconcertante. Bitgood (2003) ha notato che difficoltà rispetto alla navigabilità in diversi musei sono una conseguenza imprevista della progettazione, che può determinare nei visitatori l’esaurimento delle risorse cognitive nell’orientamento piuttosto che nel coinvolgimento rispetto ai contenuti museali. La valutazione di come gli indizi spaziali possano influenzare il modo in cui i visitatori costruiscono i significati è importante per evitare problemi di comunicazione a livello curatoriale. Il design può influenzare positivamente anche l’affettività, che gioca un ruolo significativo nei processi cognitivi e sociali, quindi anche nell’esperienza di visita a una mostra, favorendo un assetto mentale tendente alla scoperta, all’esplorazione e all’apprendimento, e dirigendo l’attenzione selettiva verso l’informazione (Forrest, 2014; Roppola, 2012). Una ricerca condotta dagli autori presso La Triennale di Milano – istituzione culturale di interesse nazionale che ha il compito di produrre una costante opera di informazione e di ricerca in tutti i

campi della cultura progettuale contemporanea – ha realizzato l’adattamento in lingua italiana di uno strumento che valuta la percezione dell’atmosfera da parte dei visitatori nella loro esperienza di visita di una mostra. Il Perceived Atmosphere Instrument (Forrest, 2014), costituisce un valido strumento per valutare l’efficacia di un allestimento in fase progettuale e/o di verifica. La ricerca di Forrest, sviluppata presso il South Australian Museum di Adelaide (Australia), ha esplorato il rapporto tra atmosfera percepita e risposte dei visitatori, considerando aspetti cognitivi, affettivi, e comportamentali, confermando che i visitatori utilizzano i segnali presenti nell’ambiente espositivo come strumenti per la navigazione e la creazione di significato. L’Atmosfera Percepita comprende quattro dimensioni: Vivacità, Spazialità, Ordine, e Teatralità, delle quali le prime tre sono predittori del coinvolgimento affettivo, del coinvolgimento cognitivo, e del senso di relax dei visitatori. In fase di progettazione, possono essere mappati diversi tipi di allestimento in relazione alla combinazione desiderata di Vivacità, Spazialità, e Ordine, in base al tipo di esperienza che si intende proporre al pubblico (per es. coinvolgimento attivo, esperienza rilassante, tensione/effetti drammatici). I risultati della ricerca di Forrest, corroborati dalla validazione italiana dello strumento, suggeriscono alcune implicazioni per il design espositivo. La segnaletica e altri indizi visivi contribuiscono a rendere leggibile uno spazio, in modo tale che i visitatori possano valutare da lontano quali sono le diverse aree di una mostra, come queste sono concettualmente collegate, ed effettuare delle scelte, senza sentire di aver perso qualcosa da vedere. Visuali ampie e continue aiutano a navigare l’ambiente e a rimanere in contatto visivo con i propri accompagnatori. Gli oggetti dovrebbero essere etichettati in modo chiaro, logico, e facilmente individuabile, per evitare che l’attenzione e l’interesse dell’osservatore si perdano, qualora l’etichetta fosse assente o difficile da trovare. Le transizioni tra spazi luminosi e spazi bui dovrebbero essere progettate con attenzione, e gli allestimenti adeguatamente illuminati indipendentemente dall’illuminazione generale dello spazio. Il colore può essere utilizzato per segnalare l’organizzazione di una mostra e per rinforzarne il contenuto interpretativo. Gestire l’attenzione dei visitatori costituisce una sfida centrale nel campo del design espositivo 79


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7 - Foto dell’allestimento, dall’impostazione tradizionale, della mostra Ettore Sottsass. There is a Planet, presso La Triennale di Milano.

8 - Foto degli allestimenti della recente mostra Giro Giro Tondo. Design for Children, presso La Triennale di Milano.

ed è importante progettare spazi che ottimizzino il comfort e il coinvolgimento affettivo/cognitivo. Tendenzialmente, gli ambienti espositivi preferiti sono quelli che vengono percepiti come vivaci, cioè ricchi di stimoli sensoriali, tridimensionali, colorati e dinamici, caratteristiche che devono essere bilanciate da un senso di ordine globale. È probabile che ambienti caratterizzati da valori bassi di Spazialità e alti di Vivacità siano percepiti come spazi tesi e drammatici, condizione desiderabile in determinate circostanze, per esempio quando si intende creare un effetto teatrale. Al contrario, ambienti caratterizzati da bassa Vivacità e alta Spazialità possono essere più adatti quando si vuole offrire uno spazio rigenerante, come per esempio nelle lobby dei musei o nelle aree in cui si riuniscono molte persone. Ambienti caratterizzati da bassa Vivacità e bassa Spazialità possono risultare poco attraenti, ma questa configurazione può costituire una strategia intenzionale per scoraggiare i visitatori a fermarsi in certe aree, come i corridoi di accesso.

Conclusioni In una società in continua trasformazione, anche i musei diventano espressione di istanze culturali più generali. L’enfasi sui consumi e sulle esperienze individuali, nei suoi fattori eminentemente emotivi, ha modificato il volto dei musei e progressivamente valorizzato il ruolo dell’ambiente espositivo, non più considerato semplicemente un fondale, un contenitore o una decorazione rispetto al contenuto della mostra. Inoltre il museo, nella sua evoluzione da dispositivo con scopi prevalentemente educativi a dispositivo con finalità attrattive, come nel caso emblematico di Bilbao, può diventare veicolo di rigenerazione urbana. Nel passato, le ricerche sugli ambienti espositivi si sono concentrate soprattutto sul comportamento dei visitatori o sul loro apprendimento, in relazione alla capacità dei musei di soddisfare obiettivi educativi predefiniti. Il cambiamento del modo di intendere i musei ha sempre più riconosciuto il valore dell’esperienza dei visitatori e, di conseguenza, accordato maggiore importanza allo studio dell’allestimento e all’esigenza di “quantificare” l’esperienza, anche nei termini di atmosfera percepita, in relazione al ruolo del design espositivo nel modulare, accrescere o inibire tali esperienze. La psicologia ambientale può contribuire a rendere la visita un’esperienza positiva che permetta il massimo apprendimento, spostamenti razionali e coinvolgimento. © Riproduzione riservata

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Un camion che passa è musica? di Ricciarda Belgiojoso

Un camion che passa è musica?1 Sempre più spesso si discute della necessità di sviluppare modelli per meglio governare le nostre città dal punto di vista dell’inquinamento acustico. La tendenza pare essere quella di superare le normative che definiscono valori di massima intensità possibile per i rumori prodotti da veicoli, aerei e macchine a seconda delle zone, e preferire piuttosto un approccio più complesso, capace di considerare la diversità dei suoni e valutarne gli effetti sui nostri comportamenti. Pare più efficace ragionare in termini di gestione, piuttosto che di riduzione, del rumore, perché i rumori sono segni di vita utili e necessari che possono qualificare, oltre che squalificare, l’ambiente costruito. Se un approccio basato sulla mitigazione dei rumori si rivolge ai suoni sgradevoli e opera pianificando la riduzione dei loro livelli, si può invece intendere il suono come una risorsa sviluppando un approccio basato sul concetto di paesaggio sonoro, dove obiettivo non è ottenere silenzio ma individuare i suoni appropriati per ciascun luogo. Un paesaggio sonoro è costituito dall’insieme dei suoni percepiti in un ambiente dato, e ne riflette le condizioni naturali, sociali, politiche, culturali e tecnologiche. I suoni contribuiscono in maniera determinante a influenzare le caratteristiche di un luogo e di quel che vi può accadere, generando significati ed emozioni. Per imparare a progettare paesaggi sonori e indagare i processi con cui si potrebbero elaborare suoni e rumori, può essere utile guardare alle sperimentazioni condotte nel mondo dell’arte e della musica che hanno esplorato la relazione tra suoni e ambiente urbano. Ricordiamo alcuni casi eclatanti, cominciando da quelle musiche che hanno voluto appropriarsi dei rumori delle città.

Is a truck passing by music? by Ricciarda Belgiojoso Noise policies generally require protective actions and noise reduction measures, indicating the maximum levels of intensity for noise that may be produced by road and air traffic, and requiring areas of silence. But in recent decades, a more complex approach has been developed, which considers the nature of noises rather than their intensity, evaluating the effects of noises on our lives and preferring to think about managing noises instead of simply reducing them. While in noise control, sound is seen as a cause for human discomfort, the soundscape approach considers the acoustic environment as a resource. Rather than focusing on unwanted sounds, it examines sounds people desire. In a pleasant acoustic environment, preferred sounds will be dominant. In terms of acoustic design, instead of specifying the level that sounds should not exceed, we should ensure that the sounds we want are not masked by those we don’t want. The paper examines significant case studies of works of music and public art, in order to infer processes that may be applied to architecture. The objective is to learn to build and enrich space with sound.

Attraversiamo una grande capitale moderna, con le orecchie più attente che gli occhi, e godremo nel distinguere i risucchi d’acqua, d’aria o di gas nei tubi metallici, il borbottio dei motori che fiatano e pulsano con una indiscutibile animalità, il palpitare delle valvole, l’andirivieni degli stantuffi, gli stridori delle seghe meccaniche, i balzi dei tram sulle rotaie, lo schioccar delle fruste, il garrire delle tende e delle bandiere. Ci divertiremo ad orchestrare idealmente insieme il fragore delle saracinesche dei negozi, le porte sbatacchianti, il brusio e lo scalpiccìo delle folle, i diversi frastuoni delle stazioni, delle ferriere, delle filande, delle tipografie, delle centrali elettriche e delle ferrovie sotterranee (…). Beethoven e Wagner ci hanno squassato i nervi e il cuore per molti anni. Ora ne siamo sazi e godiamo molto più nel combinare idealmente dei rumori di 1 “Questa è una delle trentadue domande che John Cage si pone in Communication, conferenza tenuta nel 1958 alla Rutgers University del New Jersey. John Cage (1961), “The Future of Music: Credo”, in Silence. Lectures and Writings, Wesleyan University Press, Middletown (Conn.).

Nella pagina a fianco, manifesto di Entfernte Zuge, Berlino 1984 (courtesy Bill Fontana).

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TRASPORTI & CULTURA N.50 tram, di motori a scoppio, di carrozze e di folle vocianti, che nel riudire, per esempio, l’“Eroica” o la “Pastorale”.2

Così tuonava Luigi Russolo in L’Arte dei rumori, manifesto futurista apparso nel 1913. Nello stesso anno componeva Risveglio di una città, di cui conosciamo le prime sette battute, riprodotte dalla storica rivista fiorentina Lacerba, espressione di pensieri, manifesti e proclami futuristi. La partitura mostra dodici pentagrammi per curiosi strumenti intonarumori, due righi per ogni gruppo di ululatori, rombatori, crepitatori e stropicciatori, un rigo per ogni gruppo di scoppiatori, ronzatori, gorgogliatori e sibilatori. Ascoltando il pezzo si riconoscono rumori tipicamente urbani, di macchine che in quegli anni del primo Novecento cominciavano a essere presenti in città: sentiamo lo sferragliare dei tram, l’accelerare e il decelerare di movimenti di ingranaggi e così via. L’autore doveva aver immaginato una sorta di poema sinfonico per descrivere la realtà metropolitana di inizio secolo. Negli stessi anni, e più precisamente in un’intervista pubblicata dal New York Telegraph nel marzo del 1916, anche Edgard Varèse dichiarava che principio fondamentale del suo pensiero compositivo era di voler arricchire l’alfabeto musicale attraverso l’uso di nuovi strumenti. Successivamente avrebbe introdotto negli organici delle sue opere svariati strumenti non convenzionali, ponendosi all’avanguardia nella scena internazionale, fino ad usare ad esempio in Ionisation (1929-31) vere e proprie sirene, che dovette chiedere in prestito ai pompieri della città di New York garantendo che l’uso in concerto non ne avrebbe in alcun modo compromesso la funzionalità. Ogni suono è ormai adoperabile in musica, ma se in Varèse suoni e rumori, considerati alla pari, sono ancora organizzati dal compositore, in John Cage si arriva anche oltre, fino a far dipendere le composizioni da principi di indeterminazione. In una conferenza tenuta nel 1958 alla Rutgers University del New Jersey, Cage si pone trentadue domande intorno al tema della comunicazione; in una di queste si chiede se il rumore di un camion che passa non possa essere considerato musica. Anni prima, nel 1937, in un incontro a Seattle, aveva espresso un suo Credo intitolato “Il Futuro della musica”, in cui sosteneva che fosse possibile comporre ed eseguire un quartetto per un motore esplosivo, il vento, un battito cardiaco e una frana.3 Ancora decenni dopo avrebbe ricordato il piacere di ascoltare il traffico della sua amata New York: La mia musica: i suoni di sottofondo dell’ambiente. Abito nella Sesta Avenue; il traffico vi batte un suono pieno. Risultato: ogni istante, una profusione di suoni.4

Cage ha dedicato una vita intera ad ampliare il campo d’azione della musica, con l’intenzione di appropriarsi dei suoni della realtà circostante, operando una vera e propria rivoluzione nel mondo della composizione e dell’ascolto. Si interessava all’ambiente esterno per ascoltare situazioni in cui le relazioni tra gli elementi non erano prestabilite: dalle filosofie orientali, di cui si era interessato fin dagli anni quaranta, aveva appreso ad accetta2 Luigi Russolo, L’Arte dei Rumori. Manifesto futurista, Direzione del Movimento Futurista, Milano 11 marzo 1913. 3 John Cage, ibid. 4 John Cage (2002), Je n’ai jamais écouté aucun son sans l’aimer: le seul problème avec les sons, c’est la musique, La main courante, La Souterraine (France).

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re il risultato delle operazioni casuali. Vale la pena ricordare due opere di Cage rivolte in particolare ai rumori delle città: The City Wears a Slouch Hat (1941), una partitura di 250 pagine di effetti sonori che imitano i rumori reali di una città, da realizzarsi con oggetti e strumenti a percussione di ogni genere, realizzata per un programma radiofonico, e Fontana Mix (1958), realizzato quando era stato invitato da Luciano Berio allo Studio di Fonologia della Rai di Milano: su nastro magnetico, è un pezzo ispirato a Milano, composto con suoni registrati in giro per la città, sulla linea del tram numero 1 ma anche allo zoo, alla Rinascente, in chiese, per strada, in alcuni cantieri edili. Altro brano dedicato alla città di Milano, pensato per la diffusione radiofonica e realizzato con materiali sonori registrati, affiancati ad altri elaborati sinteticamente e ad una voce recitante, è Ritratto di città, realizzato a Milano da Luciano Berio e Bruno Maderna nel 1954. È il ritratto acustico di una metropoli, uno spaccato sonoro di Milano considerata nelle ventiquattro ore di un’intera giornata; si sentono le vie deserte all’alba, i canali, i cortili, le osterie, la nebbia, gli uffici, i divertimenti notturni, il fracasso dei tram, i rumori della stazione centrale, il traffico, i miagolii dei gatti sui tetti, ecc. Parallelamente, a Parigi si stava sviluppando la musica concreta, fatta con suoni e rumori derivati dalla realtà quotidiana e montati secondo processi di costruzione diretta, come in un collage. Nel 1948 Pierre Schaeffer, ingegnere musicale della radio televisione francese, componeva uno studio sulle ferrovie, primo di cinque studi sul rumore trasmessi in prima assoluta la sera del 5 ottobre dello stesso anno da Radio Paris-Inter. L’Étude aux chemins de fer consiste in poco più di tre minuti di suoni ferroviari: fischi di locomotive a vapore, cigolii delle ruote sulle rotaie, accelerando, rallentando, arresto della locomotiva e così via. È il risultato delle prime importanti sperimentazioni di tecniche di registrazione, trasformazione e composizione di musica concreta. Il materiale sonoro utilizzato è registrato alla stazione di Batignolles di Parigi, e nel brano musicale il fischio di locomotiva a vapore è ricorrente. È il primo brano di musica concreta, definizione coniata in quell’anno dallo stesso Schaeffer per indicare una musica fatta di elementi preesistenti, suoni prodotti dalla natura o da macchine, poi manipolati. Le prime composizioni di musica concreta sono sequenze di evidenza descrittiva più o meno scoperta, ma la vera innovazione della scuola francese consiste nell’astrarre i rumori dal loro contesto utilizzando materiali e tecniche di trasformazione dei suoni a scopo compositivo: i rumori non sono più mero commento a voci recitanti, inseriti in punti topici dello svolgimenti di radiodrammi, ma diventano veri e propri elementi musicali, alla pari degli altri suoni. Anche nell’ambito dell’arte, più specificatamente della Sound Art, ci si interessa al rapporto tra suoni e spazi urbani. Uno degli artisti più significativi in questo settore è stato Max Neuhaus, la cui opera era basata sulla costruzione di esperienze sonore. Nelle sue opere Passages una struttura sonora veniva messa in moto dallo spostamento dell’ascoltatore: Drive In Music (1967) venne presentata dalla galleria d’arte Albright-Knox fornendo mappe della città che indicavano come raggiungere il luogo dell’installazione. L’opera era costituita da una serie di sette radiotrasmittenti situate lungo Lincoln Parkway di Buffalo (New York), su una lun-


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ghezza di circa mezzo miglio dalla Albright-Knox Gallery in direzione sud, lungo il grande viale alberato. Ogni trasmittente diffondeva un suono e ogni suono era associato a un settore di strada. Chi passava in automobile (il mezzo di trasporto più utilizzato in città) e si sintonizzava sulla stazione radio predisposta sentiva quei suoni. Altro artista molto attivo nell’ambito dell’arte sonora negli spazi pubblici è Bill Fontana. In occasione di una mostra a Berlino del 1984 dedicata all’arte negli spazi pubblici, su commissione dell’agenzia di sviluppo International Building Exhibition di Berlino Ovest, Fontana ha realizzato un intervento intitolato Entfernte Zuge, treni distanti, sulle rovine di una importante stazione dei treni della città andata distrutta durante la seconda guerra mondiale, su un ampio campo libero dove rimangono tracce dell’ingresso della stazione. Con l’obiettivo di rievocare il significato storico del luogo, Fontana registrò i suoni della Hauptbahnhof di Colonia, la stazione oggi più frequentata di tutta Europa, con il susseguirsi ininterrotto degli annunci, i rumori e i segnali dei treni, le voci e i passi dei viaggiatori, per poi riprodurli nel luogo dell’intervento. Gli altoparlanti vennero sistemati sottoterra, in modo da non essere visibili, in due file parallele, come a riprendere i binari. L’impatto psicologico sul pubblico era rafforzato dal fatto che le sorgenti sonore erano invisibili. Fontana riuscì a ricostruire lo spazio architettonico di una stazione dei treni utilizzando esclusivamente suoni, creando una spazialità interamente uditiva. Artisti come Bruce Odland e Sam Auinger, noti in

duo come O+A, per anni si sono dedicati a riprendere i rumori comuni delle città come quelli legati al traffico, per alterarli e trasformarli in musica. Progettano strumenti che trasformano i rumori in tempo reale e ne fanno emergere suoni armonici. Ad esempio, nel 1992, a Salisburgo, realizzarono Tor. Rifacendosi a Doppler, fisico austriaco nativo di Salisburgo che aveva analizzato l’effetto secondo cui l’altezza percepita di un suono dipende dal movimento nello spazio della sorgente sonora, dell’ascoltatore o di entrambi, Odland e Auinger stabilirono di registrare il traffico che passava nell’ora di punta nella Sigmund Tor, la galleria del XVII secolo che attraversa il Monchsberg. I suoni registrati in galleria vennero poi filtrati con processi al computer dai rumori delle automobili e dei camion in modo da isolare la risonanza del tunnel e la melodia dell’effetto Doppler. Nell’operare trasformando i rumori in musica, Odland e Auinger si rifanno alle ricerche sulla percezione dei suoni condotte da Oliver Sacks.5 Secondo Sacks rumore e armonia sono decodificati da differenti parti del cervello: i suoni armonici ottenuti dalla trasformazione del rumore del traffico potrebbero quindi essere percepiti da una parte del cervello diversa da quella che decifra l’amalgama dissonante di rumore non trattato con tubi risonatori o altri strumenti, e il nostro comportamento sarebbe influenzato diversamente da l’una e dall’altra situazione sonora.

1 - Luigi Russolo, Risveglio di una città (Luigi Russolo 1975).

5 Oliver Sacks (2008), Musicofilia. Racconti sulla musica e il cervello, Adelphi, Milano.

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Citerei anche un caso più strettamente architettonico, legato alla risistemazione di un molo rispetto alle esigenze delle grandi navi da crociera. Si tratta della soluzione progettuale pensata nel 2005 per l’area portuale della città di Zara, in Croazia, da Nikola Bašić. Tra gli obiettivi del progetto vi era quello di creare una nuova passeggiata lungo la costa che conducesse dal mare al centro storico. Bašić propose una scalinata in pietra locale con affaccio sul mare, con l’intenzione di renderla elemento di attrazione per cittadini e turisti valorizzando le qualità naturali del sito. Pensò di sfruttare le onde del mare e coinvolse il compositore Ivan Stamać per realizzare un vero e proprio organo marino, che risuonasse secondo il ritmo del mare. Le trentacinque canne dell’organo, che nell’insieme ha una larghezza di settanta metri, sono inserite nella scalinata in modo da risonare al battere delle onde sul fronte: l’acqua spinge le colonne d’aria attraverso le aperture che si affacciano sul mare e il suono fuoriesce dalla fila di fori disposta lungo la pavimentazione, riproducendo le armonie tipiche della tradizione musicale locale dei cori 86

klapa. Uno spazio urbano marginale è diventato luogo di aggregazione e comunicazione, meta di turismo e luogo chiave per l’identità urbana, accolto con entusiasmo dai cittadini, che possono ora riappropriarsi di un’area che era degradata e rivivere la forte relazione del centro urbano di Zara con l’Adriatico. Questa consapevolezza del suono applicata all’architettura pare essere preziosa per poter affrontare i problemi legati all’inquinamento acustico. Si tratta di saper controllare i micro-eventi sonori che concorrono a dare l’effetto di insieme di un ambiente, valutando sorgenti sonore, timbro e intensità dei suoni, direzione e modalità di propagazione, fattori psico-acustici che influenzano la nostra ricezione dei suoni e dunque la nostra percezione dello spazio. Con una corretta manipolazione dei suoni e una lavorazione dello spazio, è possibile alterare il paesaggio sonoro e progettarlo secondo le nostre esigenze. © Riproduzione riservata


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4 - O + A, Tor (courtesy O + A.)

Bibliografia Jacques Attali (1977), Bruits. Essai sur l’économie politique de la musique, Presses Universitaires de France, Parigi. Ricciarda Belgiojoso (2009), Costruire con i suoni, Franco Angeli, Milano.

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Dalle nuove pratiche di mobilità al progetto: letture sensibili di Shanghai di Cristiana Mazzoni e Irene Sartoretti

In Cina come in Europa, l’immagine della metropoli contemporanea che emerge, anche grazie all’utilizzo delle ITC (Information Communication Technologies), è quella di uno spazio segnato da pratiche, traiettorie di movimento e significati estremamente eterogenei. Le immagini digitali che circolano in rete mostrano con immediatezza come uno stesso luogo pubblico sia traversato e appropriato1 da una miriade di gruppi differenti, le cui pratiche, i cui spostamenti e le cui aspettative sono diversificati, a volte conflittuali2. Lo spazio urbano si presenta infatti sempre più come il campo di espressione e di visibilità dell’individualizzazione di pratiche e di percezioni nella società contemporanea. Il contesto shangaiese e, in particolare, le sue infrastrutture e i suoi luoghi della mobilità ci hanno fornito un interessante terreno di studio rispetto al tema della singolarizzazione di usi e vissuti. Ci hanno permesso poi di riflettere su come il tema dell’individualizzazione possa tradursi in progetto architettonico e urbano. Per cogliere ed esprimere questa individualizzazione, a Shanghai abbiamo utilizzato un metodo di lettura soggettivo-emozionale della realtà urbana, già impiegato nei corsi di insegnamento all’Ecole Nationale Supérieure d’Architecture di Strasburgo e nelle ricerche svolte sulla città renana3. Si tratta di un tipo di approccio formalizzato nel campo delle scienze sociali da autori quali Michel Maffesoli, che hanno rivalutato l’idea del ricercatore come homo sentiens o soggetto emozionale4. Leggere uno spazio attraverso l’esperienza soggettiva è particolarmente utile quando ci si trova di fronte a una realtà culturale nuova i cui codici ci sfuggono, i cui spazi e i cui usi ci lasciano perplessi. Attraverso il riferimento a Shanghai e ai suoi luoghi della mobilità, il nostro articolo vuole esplicitare questa modalità di analisi della realtà urbana che tiene conto simultaneamente dello spazio 1 In antropologia dello spazio, per appropriazione, si intende un processo di singolarizzazione e di elaborazione, da un punto di vista morale, psicologico e affettivo, di un ambiente dotato di senso. Nelle correnti microsociologiche, per appropriazione si intende la maniera in cui lo spazio costruito viene trasformato per essere adattato ai propri usi e ai propri bisogni. 2 Mazzoni C. (2016), «De la France à la Chine: mobilités métropolitaines innovantes entre développement du numérique et humanité dans la cité», Pierre d’Angle, giugno, articolo disponibile al sito: http://www.anabf.org/pierredangle/magazine/ europe-et-international/bis 3 Si veda a questo proposito : Mazzoni C., Sartoretti I. (2017), «’Sous la carapace’. Une approche sensible pour experimenter la métropole shanghaïenne», in Mazzoni C., FAN L., Grigorovschi A., LIU Y. (dir.), Shanghai, kaleidoscopic city, La Commune, Paris, 2017, pp. 138-147. 4 Maffesoli M. (1996), Éloge de la raison sensible, La Table Ronde, Paris.

From new practices of mobility to design: sensible readings of Shanghai by Cristiana Mazzoni and Irene Sartoretti The context of Shanghai and, in particular, its facilities for mobility have offered us an interesting field of study on the subject of the individualisation of practices and perceptions. They allowed us to reflect on how the theme of individualisation can be expressed through architectural and urban design. To grasp and express this individualisation, we have refined a subjective-emotional method of reading urban reality in Shanghai, previously employed in part for Paris and Strasbourg. This type of approach has been underlined by authors such as Michel Maffesoli, who have re-evaluated the idea of the researcher as homo sentiens or emotional subject. Through the reference to Shanghai and its places of mobility, our article seeks to make explicit this method of analysing urban reality which simultaneously takes into account both the physical space and the uses and forms of bottom-up appropriation implemented by its inhabitants. It also takes into account sensory readings related to the perception of the different places, to make them a design material. Our mode of analysis wishes to account simultaneously for what is measurable but also for urban atmospheres, which are elusive and intangible, because they are made of faces, behaviours, situations and everything that concerns the sensory and affective universe. The analysis therefore, on the one hand captures the objective spatial structures at the architectural, urban and regional level; on the other hand, it takes into account the human experience, both individual and referable to the collective imagination.

Nella pagina a fianco: A Shanghai, di giorno come di notte, le infrastrutture della mobilità formano una sovrapposizione di luoghi pubblici dalle forme inedite. © La Commune 2017. In basso: biciclette all’esterno della stazione di Strasburgo.

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1 - Vista dell’interno della stazione Hongqiao a Shanghai. © La Commune 2017. © La Commune 2017.

2 - Nella pagina a fianco, in alto: studio e osservazione delle pratiche delle mobilità a Shanghai con i nostri studenti del Master Franco Cinese (ENSA Strasburgo e ENSA Versailles–CAUP/Tongji), 2016. © La Commune 2017. © La Commune 2017. 3 - Nella pagina a fianco, al centro: viaggio in bus a Shanghai. © La Commune 2017. 4 - Nella pagina a fianco, in basso: veduta di uno dei nodi stradali più importanti nel cuore di Shanghai. © La Commune 2017. © La Commune 2017.

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fisico ma anche degli usi e delle forme di appropriazione dal basso messe in atto da parte dei suoi abitanti. Inoltre, la nostra modalità di analisi vuole rendere conto simultaneamente di ciò che è misurabile ma anche delle atmosfere urbane, che sono sfuggenti e impalpabili perché fatte di volti, di comportamenti e di situazioni che sono coglibili solo attraverso una lettura sensoriale dello spazio. Una lettura che si focalizzi sugli aspetti percettivi ed emozionali per farne materia progettuale. Da un lato, l’analisi coglie dunque le strutture spaziali oggettive, sia a livello architettonico che urbano e territoriale, dall’altro tiene conto dell’esperienza vissuta, sia individuale che riferibile a un immaginario collettivo, quest’ultimo indagato attraverso la produzione letteraria e artistica in generale su una certa città. In chiusura affronteremo il tema del passaggio dall’analisi delle pratiche e dei vissuti che riguardano luoghi e infrastrutture della mobilità al loro progetto. Cercheremo di spiegare come questa fase di formalizzazione possa cogliere e sintetizzare la pluralità di sguardi soggettivi e la complessità di pratiche e di rappresentazioni che emergono dall’analisi.

I luoghi della mobilità: impersonali e alienanti? Oggi, specialmente nei contesti metropolitani, ci troviamo costantemente canalizzati in grandi flussi di movimento. Le dimensioni della qualità, del benessere e della condivisione sembrano in questi luoghi della mobilità perse. È stato a lungo dibattuto come, ad esempio nelle stazioni, sembra do-

minante un sentimento di impersonalità che fa di questi luoghi una delle massime espressioni visive di quella che Giddens chiama la società atomizzata5. Una società che, già all’inizio del XX secolo, Georg Simmel, nel suo saggio La metropoli e la vita dello spirito, dedicato alla vita nelle grandi città, descriveva come abitata da individui blasé, la cui sensibilità agli stimoli esterni è ridotta fino all’indifferenza ed è caratterizzata da rapporti fra individui che sono freddi e calcolati razionalmente. Nonostante questa lettura della vita nella grande metropoli sia vera, a Shanghai abbiamo potuto osservare che è vera anche la lettura opposta. L’individuo metropolitano descritto da Simmel ha in effetti anche una grande capacità di adattamento e, più spesso di quello che si pensi, un’attitudine creativa rispetto al suo quotidiano più banale e ordinario, che lo spinge incessantemente a inventare e reinventare gli spazi che pratica, perfino quelli all’apparenza più impersonali e anodini della mobilità. L’individuo metropolitano è capace di rendere abitabili nel pieno senso del termine anche quelle situazioni che a uno sguardo superficiale potrebbero apparire alienanti, è capace di creare trasformando l’ordinario nello straordinario, come ben messo in luce per la prima volta da Michel de Certeau negli anni Ottanta6. La pratica dell’osservazione situata, condotta da noi insegnanti e dagli studenti del quinto anno dell’Ecole Nationale Supérieure d’Architecture di Strasburgo nei luoghi della mobilità di Shanghai – stazioni, fermate di metropolitana, viadotti, pas5 Giddens A. (1991), Modernity and Self-Identity. Self and Society in the Late Modern Age. Cambridge, Polity. 6 De Certeau M. (1980), L’Invention du quotidien. Vol. 1, Arts de Faire, Gallimard, Paris.


TRASPORTI & CULTURA N.50 serelle pedonali sopraelevate -, ci ha permesso di esplorare pratiche, percezioni e rappresentazioni legate ai luoghi di passaggio. Quei luoghi che, traversati da grandi flussi di individui, sono tradizionalmente visti come impersonali. In questi luoghi è vero che si ha la percezione di uno spazio fagico7 e di un tempo appiattito nell’immediatezza. È anche vero che si avverte la sensazione di dissociazione rispetto al contesto urbano di inserimento, come se questo tipo di luoghi esistesse solo in rapporto alle interconnessioni, alle reti, ai circuiti e ai flussi a grande velocità. Tuttavia questi luoghi lasciano emergere anche forme di resistenza all’accelerazione e al movimento continuo. Non possono essere semplicemente considerati come spazi di passaggio. Sono infatti spazi pubblici appropriati e vissuti in modo intenso da una molteplicità di individui, le cui traiettorie di movimento e i cui modi di vita sono altamente individualizzati. Le contraddizioni e i paradossi inerenti a questi luoghi di mobilità e di flusso stimolano riflessioni su una loro possibile evoluzione e, quasi, un dovere d’invenzione. Questi luoghi ci dicono per esempio che le nuove forme individualizzate di organizzazione dello spazio-tempo impongono orizzonti diversi rispetto alla visione iper-funzionalista dei decenni passati. Per meglio comprendere le nuove forme di organizzazione dello spazio e del tempo, abbiamo costantemente spostato l’attenzione sulla Cina che, riguardo al tema degli spazi della mobilità nella grande metropoli, si è rivelato un terreno di analisi particolarmente ricco e interessante. Ciò che si trova in questo altrove ci è servito come forma di spaesamento del nostro modo di pensare. Attraverso lo spaesamento dell’osservazione, abbiamo potuto problematizzare ciò che nel nostro contesto abituale europeo diamo per scontato e, in definitiva, riaccendere la riflessione e il dovere di invenzione.

Il superamento della visione iper-funzionalista Se ci spostiamo dal campo della percezione individuale e delle logiche di appropriazione a quello della progettazione, osserviamo che, in Cina come in Europa, un’inedita sensibilità caratterizza il progetto dei luoghi della mobilità. Nei due contesti geografici, le nuove grandi stazioni e gli altri luoghi della mobilità sono progettati con l’obiettivo di avere un forte impatto immaginifico e di diventare un momento centrale nella vita e nella rappresentazione della città. Da qui deriva il loro carattere monumentale, che si esprime in architetture dai toni celebrativi e in soluzioni architettoniche altamente tecnologiche fatte per meravigliare. Da un punto di vista delle funzioni, le nuove stazioni e i nuovi luoghi della mobilità si caratterizzano, oltre che per una forte vocazione commerciale, anche per l’ospitare ambienti fra loro eterogenei, sempre più pensati per il rallentamento e per la sosta. Questi luoghi, dunque, non si fondano più su una separazione netta fra la mobilità e gli altri ambiti di vita, ma sono luoghi a metà strada fra piazze pubbliche, centri commerciali e spazi di intrattenimento. Le attività che vi si incontrano non sono 7 Sulla definizione di stazioni, aeroporti e altri luoghi della mobilità come luoghi fagici si veda il capitolo su Spazione Tempo in: Bauman, Z. (2000), Liquid Modernity, Cambridge, Polity.

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5 e 6 - Esterno della stazione centrale di Strasburgo . © La Commune 2017. © La Commune 2017.

quelle fruite dal viaggiatore o dal pendolare frettoloso in cerca di acquisti dell’ultimo minuto, di un giornale o di un panino da mangiare velocemente. Sono attività commerciali sofisticate dove andare è piacevole a prescindere dal dover partire. Al pari delle stazioni ottocentesche, le nuove stazioni e i nuovi luoghi della mobilità non rispondono più a una visione strettamente funzionalista, che vede la mobilità come una pratica da distinguere e da isolare dalle altre pratiche. I nuovi luoghi della mobilità sono, al contrario, concepiti per diventare spazi pubblici a 360 gradi, che accolgono tante diverse funzioni e abbracciano nuove logiche. Queste nuove funzioni vogliono fare dei luoghi della mobilità luoghi tanto complessi quanto attrattivi. Pensati come importanti luoghi di interscambio, oltre che di flusso, dove si può cambiare mezzo di trasporto (marcia a piedi, parcheggio biciclette, fermata del tram, stazione dei bus, parcheggio macchine), le nuove stazioni e gli altri luoghi della mobilità ospitano dunque una molteplicità di funzioni diverse, che li rendono qualcosa di ben più ricco e che va ben al di là della funzione primaria per la quale sono stati pensati. Il carattere altamente polifunzionale di questi luoghi e la loro vocazione a diventare quasi un salotto della città ridefiniscono il concetto stesso di mobilità, unendolo a quello di piacere e di benessere. Ridefiniscono anche l’interazione tra architettura delle stazioni e della mobilità in genere e città, togliendo a questi luoghi la loro aura sinistra per trasformarli in spazi desiderabili, pienamente integrati nella vita della città e investiti da un immaginario positivo. L’analisi delle forme di della nuova sensibilità progettuale che caratterizza i luoghi della mobilità studiati in Europa si è unita all’analisi delle specificità che riguardano le infrastrutture della mobilità a Shanghai. Questo doppio sguardo, posato qui e altrove, ci ha permesso di comprendere come potrebbe declinarsi un approccio post-funzionalista 92

alla mobilità, che includa il progetto delle stazioni e degli altri luoghi della mobilità ma anche quello delle infrastrutture viarie, giocando su più metriche spaziali alla volta.

Non solo logiche globalizzanti. La specificità di Shanghai e delle sue infrastrutture della mobilità Negli anni Novanta, con il progressivo ingresso della Cina nell’economia di mercato, la città di Shanghai è uscita da un lungo periodo di stallo e di oblio da parte del potere centrale, un periodo iniziato nel ‘49 con l’avvento del Comunismo. In breve tempo, la città ha acquisito un ruolo di primo piano nello scacchiere mondiale ed è diventata il centro di forti interessi economici che ne hanno profondamente trasformato lo spazio urbano. Il processo di repentina urbanizzazione, modernizzazione e crescita della città segue dinamiche e tendenze globalizzanti. Le caratteristiche delle nuove architetture e la conformazione degli spazi urbani rispondono a una koinè internazionale e a logiche di produzione capitalistica dello spazio che si ritrovano dappertutto. È però anche vero che, a dispetto di una urbanizzazione e di una modernizzazione dai caratteri globalizzanti che fa di Shanghai una città dall‘aspetto e dalle dinamiche sempre più simili a quelli di altre grandi metropoli, la megalopoli cinese continua a produrre molte specificità, frutto di valori fortemente radicati nella cultura urbana locale8. L’osservazione e l’analisi di que8 Sulla dialettica fra dinamiche globalizzanti, da un lato, produzione e riproduzione di dinamiche fortemente locali, dall’altro, si vedano: Gandelsonas M. (2002) Shanghai Reflections. Architecture Urbanism and the Search for an Alternative Modernity, Princeton Architectural Press, New York; Sha Y., Wu J.


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ste specificità, per quanto riguarda i luoghi e, soprattutto, le infrastrutture della mobilità, ci hanno permesso di aprire nuovi spazi teorici di riflessione sull’urbanizzazione futura, utili anche per le nostre città. Va premesso che queste specificità sono sia di tipo fisico-materiale sia di tipo immateriale, ossia legate a modi particolari di vivere e di intendere lo spazio urbano. Perciò, per coglierle, abbiamo fatto ricorso, oltre che ai tradizionali strumenti di disegno e cartografia impiegati in urbanistica, alla nostra osservazione sensibile, raccontata attraverso un ricco lavoro fotografico e attraverso carte mentali9 effettuate con gli studenti sul modello di quelle fatte per la prima volta negli anni Settanta da Kevin Lynch10. Ciò che rende singolare Shanghai è l’accostamento, la coesistenza e l’ibridazione di diverse tipologie di spazi e di funzioni che, nelle città europee, sono spesso considerati incompatibili fra loro11. Per quanto riguarda la mobilità, un esempio interessante è la capacità di integrazione, nello spazio urbano e nella vita della città, delle enormi infrastrutture viarie che attraversano lo spazio urbano in lungo e in largo. Giganteschi viadotti, che si incrociano su più livelli sopraelevati (fino a 4), diventano parte integrante della fabbrica urbana, grazie agli spazi pubblici finemente trattati e densamente frequentati che li circondano, insinuandosi fin sotto di essi. Giardini minuziosamente curati, brulicanti attraversamenti pedonali, variegate attività commerciali e vivaci aree di mercato fiancheggiano le grandi infrastrutture aeree e penetrano fin et al. (2014), Shanghai Urbanism at the Medium Scale, SpringerVerlag, Berlin Heidelberg. 9 Per ragioni di spazio, inseriamo qui solo qualche estratto del lavoro fotografico svolto con gli studenti. 10 Lynch, K. (1960), The image of the city, Cambridge, Boston, MIT Press. 11 Gandelsonas M. (2002) Shanghai Reflections. Architecture Urbanism and the Search for an Alternative Modernity, Princeton Architectural Press, New York.

sotto di esse, facendo dimenticare al pedone di trovarsi immerso fra arterie intensamente trafficate e regalandogli sensazioni piacevoli associate a un sentimento di urbanità. Questa profonda e quasi intima integrazione dell’infrastruttura della mobilità al resto degli spazi e della vita della città è qualcosa di assolutamente inedito e perciò interessante, se si pensa che, in Europa, la grande infrastruttura viaria genera intorno a sé dei terrains vagues, delle no man’s land impossibili da vivere e perfino difficili da attraversare. L’infrastruttura viaria viene cioè percepita e progettata come qualcosa di estraneo alla fabbrica urbana. La specificità di Shanghai ci spinge invece a riflettere su come il progetto di un’infrastruttura della mobilità non escluda a priori caratteri di urbanità di ciò che si trova intorno come al di sotto. E oltre a essere abbracciate da spazi pubblici aperti o semicoperti, a Shanghai, le grandi infrastrutture aeree si appoggiano a resti di architetture tradizionali o a nuove architetture high tech che proliferano tutt’intorno alla struttura come fossero superfetazioni della struttura stessa. Questa particolarità dello spazio shanghaiese si lega a una visione diversa rispetto a quella funzionalista occidentale, che si fonda su separazioni rigide fra luoghi dello scorrimento e luoghi dello stare. Si lega anche alla straordinaria capacità dei suoi abitanti di dare a qualunque tipo di spazio dei caratteri di urbanità. Una capacità che ancora fatica a perdersi, nonostante i nuovi regolamenti urbani sull’uso dello spazio emanati con l’Expo del 2010 allo scopo di occidentalizzare usi e costumi degli abitanti12. In particolare, Shanghai si caratterizza per essere una città dove i momenti di soglia, fra un tipo di spazio e un altro, fra un tipo di funzione e l’altra, fra pubblico e privato, sono vissuti in modo intenso e vivace. Tutti gli spazi di in-between sono percepiti come momenti di transizione fluida da una situazione all’altra, i cui codici comportamentali differiscono impercettibilmente. Gli in-between non rappresentano un confine, ma un luogo esso stesso. Shanghai è una città interessante da leggere negli interstizi e, in generale, in tutti quegli spazi generati da diverse forme di riappropriazione da parte degli abitanti, a volte anche improvvisate e, comunque, continuamente reinventate in qualsiasi momento. La contaminazione tra formale e informale è marcata, come attestano i panni stesi dagli abitanti lungo i marciapiedi e gli spartitraffico. Le configurazioni spaziali generate dai grandi progetti urbani calati sulla città dall’alto verso il basso dal potere istituzionale incontrano le infinite tattiche di riappropriazione messe in atto dagli individui. Questo incontro è anche un incontro tra il bisogno di regolazione dall’alto e la capacità individuale di trasformare lo spazio dal basso, tra i grandi e spettacolari progetti urbani e di mobilità e la capacità di adattamento, di reinvenzione e di trasformazione messa in campo dai singoli. La città di Shanghai si caratterizza anche per lo sviluppo in verticale dello spazio pubblico che vede incrociarsi numerose passerelle pedonali soprelevate a terrazze, uffici, torri residenziali, tratti di metropolitana sospesi e strade ad alto scorrimento. Le passerelle danno origine a vaste passeggiate sopraelevate, collegate con i piani intermedi degli edifici e, da lì, attraverso ascensori e scale mobili, 12 Bracken G. (dir. 2012), Aspects of Urbanization in China. Shanghai, Hong Kong, Guangzhou, Amsterdam University Press, Amsterdam.

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7 - Una prima mostra dei lavori di ricerca e progetto è stata organizzata all’Università di Tongji nel 2015. Nella fotografia, FAN Lang, dottore di ricerca nell’ambito della IMM Chair.

con i piedistalli delle torri di uffici e di edifici residenziali e, infine, con gli spazi sotterranei della metropolitana. Si sviluppano così percorsi soprelevati aperti, semiaperti e coperti che si snodano fra e negli edifici, sopra e sotto le infrastrutture viarie e che permettono una transizione fluida fra la marcia e i sistemi meccanizzati di trasporto e, ancora, fra un sistema di trasporto meccanizzato e l’altro. Questi compositi paesaggi infrastrutturali, oltre a essere intensamente vissuti, godono anche di un’alta considerazione estetica. Basti pensare che sono teatro di foto, come per esempio quelle di matrimonio. L’infrastruttura della mobilità è quindi un momento estetico importante della città al pari di tanti altri. Senza cedere al fascino dell’esotico e di ciò che è diverso, lo sguardo sull’altrove di Shanghai ci ha permesso di rileggere con nuovi occhi i luoghi e le infrastrutture della mobilità delle nostre città europee e di mettere in questione diverse idee che su questi spazi erano per noi consolidate e date per scontate, come quella della separazione netta fra grande infrastruttura della mobilità e resto della fabbrica urbana. Le specificità urbane di Shanghai hanno aperto nuovi scenari di riflessione sui metodi e sugli obiettivi dell’esercizio progettuale.

Tra sintesi e visione

8 - Una seconda mostra dei lavori di ricerca e progetto è stata organizzata all’Università di Tongji nel 2017.

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Le specificità che abbiamo osservato a Shanghai aprono l’orizzonte della pratica progettuale postfunzionalista a nuove riflessioni e nuove visioni. Secondo queste nuove visioni, la mobilità, i suoi luoghi e le sue infrastrutture incontrano, abbracciano e si confondono con altre funzioni e altri luoghi pubblici dalle spiccate caratteristiche di urbanità, ossia di inter-accessibilità, di co-presenza di diversi tipi di morfologie spaziali e di attività e di coesistenza di numerose polarità ravvicinate. Queste funzioni sono articolate, più che in modo gerarchico, in modo paratattico, secondo una sintassi spaziale e funzionale del tipo “e, e” piuttosto che del tipo “o, o”. In secondo luogo le specificità del contesto urbano di Shanghai ci hanno permesso di affinare le nostre riflessioni sulla multi-scalarità, perché mostrano maniere inedite di tenere simultaneamente insieme, in modo del tutto fluido, la dimensione architettonica con quella urbana e con quella metropolitana. Ci offrono inoltre nuove prospettive di riflessione su come poter mettere al centro del progetto urbano la mobilità, attraverso il disegno di luoghi e di infrastrutture che non siano una ferita nella fabbrica urbana ma un’occasione per creare urbanità e, soprattutto, per sperimentare inedite forme di spazio pubblico. Adeguatamente rilette e reinterpretate, certe specificità dello spazio urbano di Shanghai ci sembrano interessanti anche in relazione alle forme contemporanee altamente individualizzate di organizzazione dello spazio e del tempo. In particolare, ci sembrano adatte ad accogliere traiettorie di movimento sempre più complesse, individualizzate e de-sincronizzate, che implicano una varietà di metriche spaziali che vanno da quelle enormi alla scala globale e regionale, che sono quella dell’alta velocità e degli spostamenti rapidi, a quelle che si dispiegano alla scala metropolitana, fino a quelle che interessano la metrica infra-locale, che è quella del movimento lento, delle biciclette e dei pedoni. La forte interconnessione dei luoghi e delle infrastrutture della mobilità e la ricchezza degli

spazi e degli usi che vi si incontrano si prestano ad accogliere traiettorie di movimento altamente singolari e difformi, sia nello spazio che nel tempo, che disegnano sulla superficie urbana tracciati che sembrano quasi dei moti browniani. Inoltre, la percezione che gli abitanti di Shanghai hanno delle infrastrutture della mobilità come di qualcosa che ha valore estetico, ci ha permesso di riflettere su un possibile, radicale cambiamento di prospettiva. Secondo questa prospettiva, la questione, in ambito progettuale, non è più quella di come poter incorporare elementi infrastrutturali percepiti come estranei all’interno del paesaggio urbano. Diventa piuttosto quella di come poter produrre un nuovo paesaggio culturale, che vede nell’infrastruttura della mobilità una parte integrante ed esteticamente legittima del paesaggio urbano. Infine, l’uso intenso, imprevisto e transitorio degli spazi immediatamente circostanti e sottostanti le infrastrutture della mobilità a Shanghai ci insegna


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molto sull’importanza di progettare spazi non determinati nell’uso, ma lasciati come spazi di possibilità, dove per spazio di possibilità si intende qualcosa di diverso dal terrain-vague, vuoto e difficilmente appropriabile. E allora, la sfida diventa quella di come poter tener conto nella pratica progettuale di nuance e contraddizioni, di come poter negoziare, attraverso il progetto, senza negarle, le eterogeneità, e di come far convivere gli interessi altamente individuali di ciascuno. La questione diventa, in definitiva, come poter creare spazi non normativizzati che si prestino a forme alternative, marginali e non ortodosse di appropriazione. Se nell’immaginario collettivo persiste un’immagine distopica di grandi megalopoli come Shanghai, l’analisi dei luoghi e delle infrastrutture della mobilità di questa immensa città ci ha mostrato come, dietro lo “scudo metallico” dei nuovi edifici, c’è una città che si inventa e si reinventa costantemente attraverso lo sguardo e le pratiche dei suoi molteplici autori, da quelli istituzionali fino agli storici abitanti, dai turisti fino ai nuovi arrivati. In più l’esperienza shanghaiese ci ha mostrato come, attraverso lo sguardo sull’altrove, senza cedere a forme di mitizzazione né di fascino dell’esotico, sia possibile rivedere alcune categorie ormai naturalizzate e date per scontato che riguardano la nostra pratica progettuale.

9 e 10 - Mazzoni C., FAN L., Grigorovschi A., LIU Y. (dir.), Shanghai, kaleidoscopic city, La Commune, Paris, 2017. Mazzoni C., Borghi R. (dir.), La ville-énergie, futurs possibles, La Commune, Paris, 2017. I libri presentano i lavori di ricerca e di progetto svolti nell’ambito della Cattedra franco-cinese delle Mobilità Metropolitane Innovanti (IMM Chair) e del Master franco-cinese in Architettura e Urbanistica (ENSAS-CAUP/ Tongji), in associazione con gli urbanisti dell’Eurométropole di Strasburgo.

Mazzoni C., Sartoretti I. (2017), «Formes et lieux de la mobilité holistique : scenarii pour la gare centrale de Strasbourg», in Mazzoni C., Borghi R. (dir.), La ville-énergie, futurs possibles, La Commune, Paris, 2017, pp. 289-301. Sha Y., Wu J. et al. (2014), Shanghai Urbanism at the Medium Scale, Springer-Verlag, Berlin Heidelberg. Xiang Ning L., Danfeng L., Jiaiwei J. (2014), Made in Shanghai, Tongji University Press, Shanghai.

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Bridging worldwide. Appunti di viaggio di Enzo Siviero

Bridging Worldwide. Il termine Bridging è intraducibile in italiano ma racchiude in sé mille significati: forse il più vicino è connettere o meglio ancora collegare. Così come Worldwide, che bene interpreta l’universalità del nostro essere ormai cittadini del mondo. Il loro accostamento è ben descritto nel fondamentale libro di Parag Khanna Connectography1. Su sollecitazione della sempre vulcanica Laura mi sono cimentato in una lettura dei luoghi nei quali ho vissuto particolari emozioni. Ne è sortito un piccolo zibaldone il cui filo conduttore può, a ben vedere, definirsi richiamando una mia piccola raccolta di scritti, come Il ponte umano2. Li propongo come modo di interpretare luoghi da me visitati, riportandone le sensazioni che ho provato. Ancor oggi rileggo e rivivo quei momenti come fossero avvenuti ora. Ed è questo, forse, il bello del vivere e viversi: un altrove e allora, così come un qui e adesso. Ed è questo il messaggio che mi sento di lanciare: questo Bridging Worldwide che non finisce mai di stupire perché ha sempre qualcosa da narrare, solo che si abbia la voglia e la pazienza di saper ascoltare. Le voci dei luoghi come dialoghi intimi per conoscere e capire quindi amare e farsi amare…

Miami, una via “Mediterranea” per affrontare la globalizzazione Gulliver Schools è una delle più prestigiose scuole private americane. Situata a Miami, dispone di numerosi Campus ove all’insegnamento classico si accompagnano attività di vario genere: seminariali, culturali, artistiche, sportive, manuali, ricreative, individuali e di gruppo, spesso orientate anche da un comitato di genitori che vigila con molta attenzione su tutto l’insieme. Ispiratrice, fondatrice e ora Direttore Emerito di questa efficientissima “macchina pensante” i cui esiti sono di assoluta eccellenza, è una straordinaria signora d’altri tempi: Marian Krutulis, che ancor oggi, tramite il figlio John, ne è attenta amministratrice, ma soprattutto incredibile animatrice. Ogni anno vengono promosse iniziative volte far conoscere agli studenti, di ogni ordine e grado, il pensiero di non americani: viene così fornita loro una visione del mondo 1 Parag Khanna, Connectography: Mapping the Future of Global Civilization, Penguin Random House, April 2016, ediz. Italiana: Connectography. Le mappe del futuro ordine mondiale, Fazi, 2016. 2 Il ponte umano. Pensieri e ricordi in libertà di Enzo Siviero. A cura di Roberto Morese, Libreria Cluva editrice, Venezia 2014.

Bridging worldwide. Travel notes by Enzo Siviero The author uses the form of travel notes to offer an emotional reading of the places he has known while lecturing on the university circuit. In Miami, where he addressed the students of the Gulliver Schools about the Italian university system: a “Mediterranean” approach to address globalization, a plea to open up to new areas of knowledge. An afternoon on the Campus of the Fujian Agriculture and Forestry University in Fuzhou, China, to illustrate how and why a “bridge” must first and foremost be a work of architecture in the landscape. In India, at Jalandhar Punjab, a lecture to inspire the civil engineering students by illustrating several large bridges built in Italy and around the world. His experience at Port Harcourt, in Nigeria, was a very special one, discussing the theme of bridges on the margins of a convention of the Nigerian Society of Engineers, wellaware that Africa is launched towards the future with an ambitious project of transportation corridors. The episode the author discussed next took place in Cairo, along the banks of the Nile River, a place from which it appears urgent to pursue the idea of building a bridge to connect Europe and Africa. And finally, Jerusalem, where the three monotheistic religions come together, a place long devastated by conflict. Hence the exhortation to set hate aside and build bridges, nothing but bridges.

Nella pagina a fianco:, in alto :muro occidentale di Gerusalemme (autore: Wayne McLean-jgritz, https://commons.wikimedia.org/wiki/ File:Western_wall_jerusalem_night.jpg. In basso: veduta di Fushou.

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1 - Skyline di Miami (foto Miamitom, https://it.wikipedia. org/wik i/Miami#/media/ File:Miami-skyline-for-wikipedia-07-11-2007-by-tomschaefer-miamitom.jpg).

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inusuale nelle scuole americane, spesso troppo autoreferenziali. Proprio nell’ambito di una di queste iniziative, nel mese di aprile 2017 sono stato invitato, per “raccontare” il sistema universitario italiano evidenziando come, dal nostro punto di vista, può essere affrontata la sfida della globalizzazione per il futuro degli studenti americani. Dei vari incontri con studenti e docenti, un evento mi ha particolarmente impressionato: il Coral Gables Chamber Breakfast del 19 aprile. Alle 7.30 del mattino, sono stato accolto con una sontuosa american breakfast. All’Hotel Biltmore, splendido esempio di un’architettura “alta”. Immersi nel verde ameno di un curatissimo campo da golf. Circondati da “rii” di veneziana memoria, ancor oggi percorsi da una vera gondola. Con un pubblico di 350 persone in rappresentanza delle varie istituzioni locali. Con il Console Generale Italiano a Miami e le massime autorità della Florida. Mi sono cimentato in una conversazione così riassumibile: per affrontare al meglio la globalizzazione, gli studenti americani (ma direi anche i cittadini e i dirigenti come soggetti decisori) dovrebbero conoscere più a fondo la storia e la geografia, tra loro non disgiunte. Un concetto, questo, che riporta in modo inequivocabile alla centralità dell’Uomo, richiamando le forti tradizioni delle varie Civiltà che si sono via via succedute e sviluppate in un paio di millenni. Ciò, soprattutto, attorno al Mare Mediterraneo. Senza scomodare Braudel, ma richiamandone il pensiero3: per poter comprendere le ragioni degli altri, la storia dovrebbe essere letta non dal proprio punto di vista (usualmente quello dei “vincitori”), ma con un’ottica ben più ampia, capace di abbracciare l’intero insieme, nella sua non marginale complessità. È così che dalle stratificazioni millenarie delle varie culture del Mediterraneo emergono chiavi di lettura desuete e solo apparentemente nuove. Dalla Bibbia, ai Vangeli, al Corano, e via via... un susseguirsi di filosofie e di religioni che abbraccia Egizi, Fenici, Greci, Romani, Arabi, Normanni, Ottomani, Venezia e le Repubbliche Marinare, Spagnoli, Francesi, Austriaci, per non dire del Papato..., l’Italia Unita, e via via... l’Europa finalmente “una” (ma lo è già davvero?), senza dimenticare la Palestina e Israele, la Turchia, Cipro, Malta e (perché no?) la nostra Italianissima Sicilia... che, pur gelosa custode della propria autonomia, resta un vero e proprio “punto di accumulazione” di un Umanesimo alla continua ricerca del “Mediterraneo perduto”. “Mare Nostrum”, per antonomasia, Nostro proprio perché di tutti! Un crogiolo di molteplici meticciamenti etnici e culturali ove usi e costumi s’intrecciano di continuo, seppure in tempi secolari e non immediatamente percepibili ad una lettura superficiale. È, questo, un sistema oserei dire quasi “caleidoscopico” ove modificando, anche di poco, l’angolo visuale, si ridefinisce continuamente l’insieme dando tangibile risalto alla ricchezza cromatica di una “geometria fisica” emotivamente vissuta quasi come quella, assai affascinante, nota tra gli addetti come “geometria frattale”. Del resto, la stessa Miami è, pur nella sua breve esistenza organizzata (poco più di un paio di secoli), un luogo di incontri plurimi. L’idioma spagnolo è ben più diffuso dell’inglese. La confluenza latinoamericana è ormai consolidata anche negli usi e nei costumi. L’influenza caraibica è tutt’altro che 3 Fernand Braudel, Il Mediterraneo. Lo spazio, la storia, gli uomini, le tradizioni. Ediz. Italiana Milano, Bompiani 1987.

marginale (e non solo quella, ormai storicamente acclarata, derivante dagli esuli cubani). Tra le molte realtà che fanno da corona ad un “centro” forse non così rappresentativo come si tende a credere, mi hanno colpito tre cittadine tra loro contigue e con un nome quasi bucolico: Coral Gables, Pinecrest e Coconut Grove. Le prime due, invero, anche ben governate. Sindaco di Coral Gables è infatti Jim Cason, di origine italiana, forsanche veneta, con il suo porsi in modo semplice e raffinato, colto ed efficiente. Sindaco di Pinecrest è invece Cindy Lerner donna interessante, dotata di grande fascino, capace di suscitare una simpatia istintiva, decisa nelle sue azioni nell’interesse dei cittadini. Entrambi personaggi veri, intellettualmente assai vivaci e umanamente molto aperti. Queste tre cittadine, assieme ad alcune altre del circondario, sono esempi di come l’Uomo sia stato capace, anche nel recente passato, di operare in modo straordinario, denso, colto e sano. La trasformazione di una palude inospitale e malsana in un luogo ameno, quasi un “paradiso terrestre”. Ciò richiama alla mente di noi Italiani, sia pur in modo assai differente, tra i molti e diversi paesaggi che danno un carattere al nostro Paese, uno per tutti: il “Delta del Po’” ancor oggi secolare miracolo dell’incessante operosità della Serenissima Repubblica di Venezia. Tornando alla Florida, in questo lembo della penisola, Miami si offre dunque come luogo magico in cui la natura mantiene intatto il suo fascino a dimensione e immagine dell’Uomo che, anche nell’edificazione, per così dire, domestica, ha saputo mantenere i canoni della sobrietà, quasi in contrapposizione alla vicina Miami down-town con il suo ben noto skyline, ormai quasi banale. In definitiva, un “luogo”, o meglio più “luoghi”, vista la loro ampiezza, estensione e varietà, ove si respira un’aria quasi mediterranea, almeno all’apparenza, e in particolare quella degli spensierati e irripetibili anni ’20 e ’30. E, anche se la crisi odierna si percepisce in modo evidente, resta un’atmosfera positiva che sa ancora guardare lontano. È noto infatti che gli Americani usualmente poco si curano degli “altri”, siano essi luoghi o persone. Per molti di loro l’Europa e gli Europei sembrano lontani nel tempo e nello spazio. Ne hanno ricordi sfumati, quasi sfocati, certamente distorti o quantomeno male orientati. Ecco dunque


TRASPORTI & CULTURA N.50 la necessità per tutti di una conoscenza non episodica, anche e soprattutto storico-politica, dell’area mediterranea. Ho avuto così l’opportunità di ribadire con enfasi che l’Italia è, nonostante tutto e tutti, per storia, tradizioni, natura e vita, nella sua interezza materiale e immateriale, il più importante esempio di Outstanding Universal Value e Patrimonio dell’Umanità! Ancor oggi l’Italiano è una delle lingue più studiate e diffuse in ambito culturale e non solo... La nostra Fantasia, il Design, la Moda, la Creatività, l’Ingegno, in poche parole il Genio Italico di cui siamo storicamente dotati, non temono confronti. I temi della Storia, della Conservazione e del Restauro, così come l’attenzione per il Paesaggio Culturale, fanno parte del nostro DNA anche se non sempre ce ne rendiamo conto... anzi, purtroppo tendiamo invece a dimenticarlo. E qui il mio affondo finale, tentando di trasmettere la necessità di credere in una diversa filosofia di vita da perseguire ad ogni costo. Il concetto, vero e proprio atteggiamento mentale, di bridging cultures, sharing hearts visto come diffusa connessione di pensiero, un meticciamento culturale, ineludibile per affrontare con successo la globalizzazione. Una tensione ideale verso una conoscenza “altra”, quella non scontata. Quella che vede nelle terre di confine i luoghi potenzialmente più fecondi. Non limitando il proprio sguardo alle sole apparenze, ma sapendo andare al di là di noi stessi, per sentire, intuire e capire gli altri da sé.

Un pomeriggio nel Fujian tra Italia e Cina Nell’immaginario collettivo il paesaggio agrario rappresenta uno dei momenti più suggestivi del rapporto tra l’Uomo e la Natura. L’esplosione di colori nel variegato dispiegarsi dei fiori a perdita d’occhio. Il respiro delle piante che tracciano percorsi ideali del vivere se stessi. La teoria di alberi con il loro disegno che perimetra ambiti ameni quanto intensi. Il profumo della natura che inonda inebriandoci di sé. L’acqua che sgorga da una sorgente di montagna per formare laghi e laghetti tra loro connessi da graziosi ponticelli che ne misurano la piena intimità specchiandosi nell’acqua. Percorsi pedonali che si intersecano avvolgendo

l’insieme dei luoghi, sancendone una inattesa coerenza naturale pur nella interpretazione che ne ha voluto dare l’Uomo nel suo gesto progettuale. Questo e molto altro ancora è il Campus della Fujian Agriculture and Forestry University a Fuzhou. Ma se questa è la lettura immediata del visitatore “straniero”, ben altra sorpresa riserva la terrazza dell’edificio principale, posto nella parte centrale del complesso. La panoramica a tutto campo ti sorprende non poco. Da un giardino pensile di tranquillo disegno orientale, la vista spazia a volo d’uccello nell’intorno del “luogo” dandone una diversa e più ampia lettura emotiva. Si notano ora i contorni dei laghi. Si coglie l’intimità dell’isoletta centrale. Si vedono nitidamente i ponticelli quasi danzanti, che mimano la cultura del passato nell’arte del costruire per vivere il futuro. Lo sguardo avido si attarda nei dettagli. Poi, sull’onda di queste straordinarie suggestioni, ecco Bridgescape, una lectio magistralis, nel dicembre 2012, davanti a 300 tra studenti e docenti, per raccontare come e perché il “ponte” debba essere in primis opera di architettura del/nel paesaggio. Il susseguirsi di immagini di opere e progetti. Il racconto di storie di genti e luoghi. Il descrivere un ponte che parla di sé e racconta. Il concepimento iniziale, la gestazione progettuale, il suo farsi nella realizzazione. La scelta di percorrerlo per intero, pervicacemente determinati ad unire ciò che era ormai diviso. L’interazione con il paesaggio, il leggerlo dall’esterno con il suo arco dinamicamente teso nella sua straordinaria potenza statica. Il suo riflesso nell’acqua come volesse in essa specchiarsi e disegnare un “occhio” tra reale e virtuale. Il ponte non più considerato per la sua semplice, e certamente riduttiva, fruizione utilitaristica, ma visto nella sua significativa componente umanistica, nella metafora universale dell’unire. Interpretare il ponte come ponte tra le “due culture”.

Bridgescaping in India Una lecture per emozionare gli studenti di ingegneria civile a Jalandhar Punjab, marzo 2016. Un viaggio non semplice: da Roma a Delhi con Air India e poi da Delhi a Jalandhar in treno, totale una ventina di ore. Ancora sotto l’effetto del fuso orario, varco la soglia della Lovely Professional University per “sintonizzarmi” con un centinaio di studenti di Ingegneria Civile. Già il titolo della lecture è inusuale: come leggeranno gli studenti il neologismo bridgescape? I loro sguardi assai curiosi mi danno la carica. Parto con la passerella Pedro e Inès a Coimbra (splendida cittadina a nord di Oporto..), spettacolare opera del mio amico fraterno Antonio Adao da Fonseca. Una reinterpretazione di Romeo e Giulietta materializzata dalle due metà del ponte che “volutamente” non sono allineate tra loro per formare, proprio in mezzo al fiume, una piccola piazza-belvedere. Luogo di incontro ove giovani e meno giovani ritrovano il piacere di stare insieme. Un ponte che unisce, un ponte che ha saputo mutare gli ambiti, invertendo le polarità, il non-luogo diventato luogo. Passo al Ponte di Calatrava a Venezia, opera d’arte assoluta, tanto criticata e financo vilipesa quanto ammirata. Qui il confronto è d’obbligo: non dico con l’inarrivabile Ponte di Rialto, ma certo con il “singolare”, ormai “definitivamente provvisorio”, Ponte dell’Accademia e ancor più con lo splendido Ponte degli Scalzi capolavoro di eleganza e di funzionalità, opere entrambe di Eugenio Mioz99


TRASPORTI & CULTURA N.50 zi. Il colore rosso veneziano del “quarto ponte”, cosi come l’inusuale ribassamento dell’arcata e l’impianto strutturale zoomorfo, fanno passare in seconda linea le tante, troppe polemiche. Il Ponte è lí, percorso quotidianamente da oltre ventimila persone. Uno straordinario successo anche mediatico. E ancora il Ponte del Mare a Pescara che ha unito nord e sud di una città divisa dal fiume omonimo. Altro luogo di incontro per pescaresi e non. Dove ormai è prassi comune farsi fotografare dopo il matrimonio. E quale modo migliore di un ponte per sancire l’amore di una vita? Con questo incipit proseguo via via con i “miei” ponti ognuno con la propria storia vissuta e sofferta ma densa di emozioni. Ma non basta: è il lavoro dei miei studenti che più entusiasma! Un susseguirsi di racconti e di cronache che ormai hanno fatto “scuola”. I premi vinti, nazionali ed internazionali e le soddisfazioni per gli esiti brillantemente raggiunti fanno dei miei allievi un unicum di cui sono fiero ed orgoglioso. Proprio qui in India, percepisco ancora una volta quello spirito di emulazione che fa “crescere” gli studenti e li rende partecipi del bisogno etico, ormai imprescindibile, di “fare bene”.

Port Harcourt, Nigeria: un’esperienza particolare Provate ad immaginare un cielo molto nuvoloso dove all’improvviso uno squarcio di luce ti illumina quasi accecandoti: é il sole! Ecco come leggo i sorrisi bianchissimi incorniciati dal nero ebano dei volti dove brillano gli occhi intensi ed eloquenti che paiono essi stessi sorridere. Persone miti e profonde, amichevoli e aperte, disponibili al dialogo già con l’espressione dei volti. Tra tutte mi colpiscono l’ing. Otis Anjiaely presidente della NSE (Nigerian Society of Engineers) e l’ing Edith Ishidi presidente della sezione women della stessa NSE: il primo desideroso di cambiare un sistema bloccato, e ormai palesemente inefficiente, che caratterizza non solo l’intera Nigeria, ma anche la stessa NSE; la seconda per le sue doti di trascinatrice del genere che nel mondo con tanta fatica riesce ad emergere nei ruoli alti della società. Il colloquio sul tema dei ponti si svolge a margine di una convention a Port Harcourt. Il mio “ponteggiare” contagia il pubblico presente. Il racconto quasi epico dello svolgersi nel mondo dell’ingegneria visionaria, dai trafori alpini dell’Ottocento ai più recenti Suez e Panama ora potenziati con il raddoppio; dai grandi attraversamenti che hanno trasformato genti e luoghi meticciando financo le varie culture, ai grandi ponti che via via superano se stessi rincorrendo record su record, figli di quella “febbre della grande luce” che tra Ottocento e Novecento ha contagiato gli ingegneri di tutto il mondo. Ebbene proprio qui si innesta il mio TUNeIT - Ponte di Messina - GRALBeIT come corridoio ULISSE capace di connettere l’Africa da sud a nord, l’Europa “sbarcando” nel meridione d’Italia grande “molo” nel Mediterraneo, raggiungendo l’Albania e poi Istanbul e l’Asia con le sue molteplici e redivive “Vie della Seta”. Un sogno affascinante che riporta al centro del mondo il Mediterraneo, che è stato per molti secoli anche il “baricentro” multiculturale. Un ritorno al passato dove il grande pontos-mare si trasforma in Tierra Sobre el Agua ovvero in modo ancor più suggestivo Caminos en el Aire, giusto per ricordare due celebri libri rispetti100

vamente di Leonardo Fernandez Troyano e di Juan José Arenas de Pablo4. E dunque perché qui in Nigeria? Ma perché qui é già pronto lo studio dei corridoi verdi panafricani evocati da un ingegnere visionario dal nome evocativo: Newton C. Jibunoh, fatto proprio, quasi metabolizzato proprio da NSE che ne é ora anche straordinario promotore! Così il nostro TUNeIT non é che il naturale prolungamento dei due corridoi da sud a nord verso Tripoli e Algeri per confluire a Tunisi. E tutto questo sotto l’egida di RMEI Réseau Mediterranéen des Écoles d’Ingenieurs, così come di CUM Comunità delle Universitá del Mediterraneo, di PAM Parliamentary Assembly of Mediterranean, ma soprattutto della recentissima EAMC Engineering Associations of Mediterranean Countries fortemente voluta dal CNI Consiglio Nazionale degli Ingegneri, con il suo inarrestabile consigliere Nicola Monda. E dunque, se é vero come é vero che il futuro passa dall’Africa, tutto questo ci proietta dal sogno alla realtà per aprire la via dei nostri giovani ad integrarsi tra loro a beneficio di tutti! Così fu (forzatamente?) nei secoli passati con le guerre e colonizzazioni più o meno recenti, così potrebbe essere e lo sará, con l’incontro pacifico e fraterno tra le genti. Non vane speranze ma precisi impegni, dove gli Ingegneri sapranno parlare la stessa lingua e tutti assieme “costruire il futuro”.

Il Cairo, la storia Maggio 2016. Grand Nile Tower Hotel, 30° piano, il Nilo davanti a me forte e maestoso, intenso ed esuberante, denso di storia, l’essenza dell’Egitto plurimillenario. Una leggera foschia vela, seppur di poco, una visione altrimenti potente. I numerosi ristoranti adagiati sull’acqua brulicano di gente e ti immagini un passato ormai remoto ove questo grande fiume esondava periodicamente rendendo fertili terreni altrimenti ostili. Un intero grande paese disteso lungo le rive di questo fiume, che per millenni ha segnato la vita e la morte di un popolo intero. I racconti biblici. I faraoni. L’esodo. Un intero mondo che, pur affacciandosi al Mediterraneo, quasi ne ignorava l’esistenza, pago del “proprio” vivere il fiume. Straordinaria via d’acqua, linfa vitale venerata come un dio. Al tramonto il colore rosso copre con la sua intensità l’intero orizzonte. Le luci si accendono e gli spazi si trasformano. Sembrano vivere un’altra vita. Forse è un’altra vita.... quella notturna capace di attrarre tanti giovani che vogliono viverla appieno quasi fosse un prolungamento del giorno. La vista mozzafiato cambia la prospettiva. Ora comandano le luci: sparse, addensate, intense, tenui, policrome, filanti, suggestive, emozionanti, sobrie, sfacciate, ammiccanti, attraenti, una esibizione continua di un mutare caleidoscopico che sembra parlare al cuore. Il sonno ti prende. I sogni si affacciano. I ricordi di scuola si materializzano. Torni indietro di millenni e percepisci, vedi, senti, abbracci la storia: le piramidi, la sfinge, i templi, ovvero l’essenza della potenza. Nefertiti ovvero l’essenza della bellezza. Arriva l’alba: dal buio intenso al sole che sorge. An4 Leonardo Fernandez Troyano, Tierra Sobre el Agua. Vision historica Universal de los puentes (2 vols), Canales y Puertos Colegio de Ingenieros de Caminos, 2004. Juan José Arenas de Pablo, Caminos en el Aire: los puentes (2 vols), Canales y Puertos Colegio de Ingenieros de Caminos, 2002.


TRASPORTI & CULTURA N.50 cora il rosso che si affaccia prepotentemente inondandoci di vita. Il risveglio ci porta ad un oggi che sembra subire un gloriosissimo passato, laddove è il presente che comanda. Un traffico caotico quasi impossibile da reggere. Un paese che vuole ritrovare se stesso e a fatica sopravvive alla propria storia. Ma volere è potere: nonostante tutto e tutti, contro una apparente “congiura” internazionale, superando la dannazione di un terrorismo fanatico quanto sterile, il futuro appartiene a chi ama i propri sogni. E l’Egitto sembra ancora capace di sognare e, quel che più conta, di saper realizzare i propri sogni. L’onnipotenza degli antichi faraoni, esibita con le incredibili piramidi, è oggi ripercorsa con il raddoppio del Canale di Suez. Oltre otto miliardi di dollari raccolti tra i cittadini in pochi giorni. Un solo anno per realizzare questo sogno inimmaginabile ma vero. Dopo Negrelli e Lesseps e una intollerabile sudditanza coloniale, con l’orgoglio di tutto un popolo, questa incredibile opera è realtà. Un dono dell’Egitto al mondo: così recita lo slogan promozionale. Vero è che gran parte del Mondo passa da Suez ma, paradosso difficile da comprendere, “usa” il Mediterraneo come semplice transito e va oltre le colonne d’Ercole. E noi italiani? Restiamo a guardare impotenti! Con i bizantinismi di una politica autoreferenziale avulsa dalla realtà di un mondo che cambia con velocità impressionante discutiamo del nulla e subiamo le navi che passano nel Mare Nostrum senza lasciarvi traccia alcuna. Mentre la tragedia dei migranti che si consuma giorno dopo giorno lascia indifferente l’Europa e l’Italia, sola ad accogliere tante speranze! Ecco perché vogliamo e dobbiamo abbattere questo muro d’acqua e costruire un ponte tra Africa ed Europa come simbolo di amicizia di fratellanza e di pace. Questa è la nostra visione del futuro che abbiamo il dovere di costruire o, meglio, ri-costruire per chi verrà dopo di noi e ci giudicherà per quel che abbiamo fatto, ma ancor più, per quello che non abbiamo fatto.

Gerusalemme oggi: pochi ponti, troppi muri Non ero mai stato a Gerusalemme. Ne avevo sentito parlare molto, da chi vi era stato decenni fa, come di un luogo magico dove le tre religioni monoteiste avevano trovato una sintesi non episodica. L’idea della spianata delle moschee aperta a tutti: credenti, non credenti, agnostici, curiosi. Il Muro del Pianto, luogo sacro nei secoli ove tutti potevano pregare, ciascuno a proprio modo, l’unico Dio, quello che vede e giudica nella dimensione dell’infinito, nel tempo e nello spazio. Il tempio del Santo Sepolcro con tutte le interpretazioni che se ne possono dare “a prescindere”; il rito della candela posta per chiedere l’intercessione divina per le nostre miserie terrene. Il tutto tra vicoletti affollati all’inverosimile, intriso di odori di spezie, di profumi intensi, di variopinti banchetti di frutta e verdura, di luoghi modesti ma dignitosi dove prendere un tè o un caffè ovvero cibarsi del poco ma qualitativamente elevato local food che fa parte della tradizione millenaria di queste genti… E la vicina Betlemme con la sua chiesa della Natività che da secoli attira un mondo variegato di ebrei, cristiani, musulmani con tutte le loro differenze interne, spesso incomprensibili ai più, se

non allorché se ne approfondisca la storia. Perché non molti sanno che nel Corano sta anche scritto che un buon musulmano deve amare ebrei e cristiani in quanto “antenati” della “nuova religione” che dalle due precedenti trae origine. Ma il Luogo, questo Luogo, non è più lui! Complice un terrorismo cieco e brutale, ma anche per una esplicita volontà di Israele di prendere definitivo possesso della storia dei popoli, i posti di blocco si sono moltiplicati a dismisura. I muri sono sorti ad indicare quella volontà di separatezza esibita a più non posso! Muri reali e virtuali, ma soprattutto barriere ideologiche che impediscono il dialogo. Luoghi ove l’odio viene coltivato nelle scuole e si riverbera ad ogni piè sospinto nella prevaricazione ostentata del più forte verso il più debole. Sono un pallido ricordo i tempi in cui si viveva in stretta colleganza allorché, il venerdì, ebrei e cristiani si avvicinavano ai musulmani: il sabato era la volta di musulmani e cristiani ad aiutare gli ebrei e la domenica tutti insieme a festeggiare l’amicizia di popoli e credi. Perché tutto questo? È proprio così necessario vivere la diversità nel reciproco disprezzo ormai disumano? Io non credo che non ci sia più nulla da fare! Anzi sono sempre più convinto che dall’educazione scolastica e dalla cultura che unisce possa ripartire il dialogo. E ciò mi è sembrato ancor più vero allorché un professore palestinese, con il quale ho a lungo discusso, mi ha chiesto se ero disponibile a tenere una conferenza in una università israeliana! Mi è sembrato inverosimile, ma in realtà la proposta aveva un fondamento. Parlare ai cuori delle persone significa entrare in contatto con i tuoi simili, significa fare ponti “umani”. È proprio questo che ho sempre voluto fare, nella mia vita: costruire ponti, per poi percorrerli tutti insieme per raggiungere l’altra sponda. Ecco, questo vorrei dire a tutti i giovani: abbandonate l’odio che uccide e abbracciate l’amore che vive e fa vivere. Non più muri! Solo ponti, ponti e ponti…

2 - Veduta del Cairo col fiume Nilo.

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Lisbona. Trasformazioni di una città europea di Giuseppe Mazzeo

La capitale del Portogallo è stata raccontata per lungo tempo come una città dal fascino un po’ demodé, legato soprattutto al suo apparire indolente e fatalista; atteggiamento tradotto in modo eloquente da Fernando Pessoa, che diceva che un portoghese può anche svegliarsi presto ma ha bisogno di molto tempo per prepararsi ad esistere. Un modo di fare intriso di saudade che, per Antonio Tabucchi, “non è una parola, è una categoria dello spirito”. A dispetto di questi cliché, o forse adoperandoli in modo utilitaristico, la città da alcuni anni a questa parte è percorsa da una nuova vitalità e dall’ambizione di divenire una capitale europea più moderna, sia nella qualità della vita urbana, che nell’architettura e nell’efficienza dei servizi. La posizione geografica, all’estremo limite occidentale del continente europeo, ha favorito lo sviluppo urbano e ha posto le basi per la fortuna della città, derivata soprattutto dai traffici marittimi tra il bacino del Mediterraneo e le coste dell’Atlantico, con particolare riguardo alle colonie sudamericane e subsahariane, e a quelli con l’Asia. La storia della città è legata a doppio filo con il paese di cui è capitale e con i possedimenti coloniali che il Portogallo ha conquistato nel corso del tempo. Senza soffermarsi sulle specifiche influenze, è fuor di dubbio che esso ne è stato profondamente condizionato; inoltre, pur essendo un paese europeo, il Portogallo ha mantenuto e continua a mantenere uno stretto legame con le sue ex colonie, anche se non è riuscito a ricavare da esse un evidente vantaggio in termini di progresso tecnologico, di sviluppo industriale e di benessere complessivo. Da ricordare anche, e in negativo, la lunga dittatura di António de Oliveira Salazar, durata dal 1931 al 1968, con le politiche economiche corporativiste messe in atto in questo lungo periodo (Alden, Pires, 1996). Per comprendere quanto sia stata profonda la sua influenza sul paese e come questa fase storica abbia visto il Portogallo ai margini dello sviluppo europeo, basti ricordare che per Salazar i suoi concittadini non avrebbero dovuto pensare ad altro se non alle tre “f” che rappresentano l’anima profonda del paese, ossia il futebol, il fado e la Madonna di Fatima. La storia del Portogallo muta radicalmente negli anni Settanta, quando il paese si lascia alle spalle la dittatura di Salazar e del suo successore, Marcelo Caetano, destituito nel 1974 dalla Rivoluzione dei Garofani, e si pongono le basi per l’attuale moderna democrazia portoghese. Ad accelerare il processo di sviluppo contribuisce anche l’ingresso nell’Unione Europea (1° gennaio

Lisbon. Transformations of a European city by Giuseppe Mazzeo Lisbon is located near the western coast of Portugal, at 38°43’ latitude N and 9°9’ longitude W. The city lies 30 km to the east of the Atlantic shore and right on the bank of the Tagus estuary, which is 15 km wide eastwards from Lisbon. The city covers an area of 84 km2. In the urbanized area, the altitude is lower than 160 m, although the topography is highly differentiated. The population of the metropolitan area in 2011 was 2,821,876, of which 547,733 (19.4%) live in the city of Lisbon, to underline that 26.7% of the total population of Portugal lives in the Lisbon metropolitan area, on an area of 3,015.24 km², which is 3.3% of the total area of Portugal. In recent years, the population of Lisbon has decreased as parts of it have moved towards the suburban centres, due to the high costs of housing. Lisbon is a city that at the same time has a very large and rich historical centre, and a modern and contemporary part in full development. It is a city with very fast connection technologies, in which the economic processes based on the use of the Internet are becoming very interesting.

Nella pagina a fianco, in alto: Area Expo 98. Le pensiline della Stazione Oriente e il centro commerciale Vasco da Gama (foto dell’autore). In basso: Le navate del Convento do Carmo distrutto dal terremoto del 1755 (foto dell’autore).

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1 - Rua Augusta, asse centrale della Baixa (foto dell’autore).

1986), e quello nell’area Euro (1° gennaio 1999), due eventi che hanno avuto un forte impatto sul Paese e che hanno favorito la sua rinascita economica, culturale e sociale. Questo processo subisce una brusca interruzione nel 2008, quando il Portogallo, come tutti i Paesi europei, entra in un lungo periodo di recessione a causa della crisi finanziaria mondiale. Una delle conseguenze principali è il peggioramento del de104

bito pubblico (che arriva al 130,6% nel 2014) e dei livelli di disoccupazione (14,1% sempre nel 2014), al punto che nel 2012 il PIL reale diminuisce del 4% in un solo anno. A causa della debolezza del paese la sua economia pubblica viene sottoposta ad un rigido programma di rientro basato sul controllo dei principali parametri economici. Il risultato è il risanamento e una nuova fase espansiva, con incremento del prodotto interno lordo (+2,6%) e dell’oc-


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2 - La Praça do Comércio e la Baixa dal Castelo de São Jorge (foto dell’autore).

3 - Lisbona, aree significative di trasformazione urbana. (Base: Google Map).

cupazione grazie al contributo delle esportazioni e degli investimenti. Anche per il 2018 e il 2019 gli indicatori sono previsti in crescita, pur se più contenuta, mentre il deficit pubblico si prevede che resti al di sotto dell’1,5% annuo (EC, Ecofin, 2017).

La città contemporanea Lisbona è una città che presenta rilevanti testimonianze del passato, ma è anche una città in cui gli interventi di trasformazione urbana stanno incidendo in modo sempre più deciso, al punto da posizionare la città tra quelle più vivaci ed attrattive nel panorama europeo. Ciò non significa che non siano presenti problemi di rilievo. Uno di questi è quello demografico. I processi in atto negli ultimi decenni hanno inciso

in modo rilevante sul numero di abitanti, in netta diminuzione, e sulla struttura della popolazione. Secondo i dati del Instituto Nacional de Estatistica relativi ai censimenti generali della popolazione nel 1981 la città aveva raggiunto un picco di oltre 807.000 abitanti, che sono diminuiti fino a circa 548.000 abitanti nel 2011. Nell’attuale struttura demografica di Lisbona la popolazione con 65 anni e più è pari al 23% (la media portoghese è del 16%), mentre il 13% ha meno di 15 anni, il 9% ha tra i 15 e i 24 anni e il 53% tra i 25 e i 64 anni. Di contro, l’area metropolitana di Lisbona è in crescita demografica, a causa anche del trasferimento di molti abitanti della città verso i centri di corona. Connesso alla questione demografica vi è la questione urbana che ha visto l’estendersi dei processi di riqualificazione e di sostituzione basati su consistenti investimenti fatti da imprese e socie105


TRASPORTI & CULTURA N.50 tà private, con la realizzazione di operazioni che hanno incrementato il costo della vita nella città spingendo verso l’esterno fasce di popolazione a basso reddito. Dai dati Eurostat relativi alle regioni classificate come NUTS 3, è possibile calcolare al 2016 un prodotto interno lordo pro-capite del Portogallo pari a 17.907 euro che cresce a 23.650 euro nell’area metropolitana di Lisbona. I processi di riqualificazione urbana hanno preso l’avvio nel 1992 con la formulazione del primo Piano Strategico, basato su una visione della città come capitale atlantica dell’Europa (Alden, Pires, 1996), e sono proseguiti nel 1994, con l’approva-

4 - Il parco del Museo Calouste Gulbenkian (foto dell’autore).

5 - L’Oceanario nell’area Expo 98 (foto dell’autore).

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zione del Plano Director Municipal/PDM (Oliveira, Pinho, 2010) e con la successiva scelta di Lisbona come Capitale Europea della Cultura. Per approfondire le trasformazioni in atto si può partire dalla città contemporanea utilizzando due aree simbolo nelle quali sono in fase di completamento interventi di rigenerazione e di trasformazione urbana aventi un rilevante impatto sulla sua struttura fisica e sulla sua immagine. Il polo urbano formatosi a seguito dell’Esposizione Universale del 1998 si trova a nord-est della città. L’area Expo 98, il cui tema è stato il mare e gli ocea-


TRASPORTI & CULTURA N.50 ni come risorsa per il futuro, si estende per circa 50 ettari e si snoda per quasi 2 chilometri lungo la riva del fiume Tago; essa è stata riorganizzata e riconvertita dopo l’evento ed oggi è un contenitore urbano che ospita abitazioni, centri commerciali, uffici, alberghi, ristoranti, attrezzature fieristiche e congressuali ed un grande attrattore turistico come l’Oceanario. Nell’area sono presenti altri edifici di rilievo architettonico, come la stazione ferroviaria di Lisbona Oriente (realizzata su progetto di Santiago Calatrava), la Torre Vasco da Gama, il Padiglione Atlantico. La stazione Oriente è anche nodo della rete metropolitana cittadina, che conta 56 stazioni e 44,1 km di linee (en.wikipedia.org). Nell’area prescelta per l’Expo 98 era localizzato il Doca dos Olivais (Molo Olivais) che negli anni ‘40 era uno dei principali punti di attracco degli idrovolanti che utilizzavano l’Aeroporto Marítimo de Cabo Ruivo. Quando l’evoluzione dell’aviazione ha reso obsoleti gli idrovolanti, l’area ha iniziato ad ospitare in prevalenza impianti industriali che, nel corso degli decenni successivi, hanno subito un costante declino; alla fine degli anni ‘80 il degrado era evidente, con la maggioranza dei capannoni in stato di abbandono e con la sopravvivenza di alcune attività produttive, anche inquinanti. Per far posto alle strutture dell’Expo, sono stati demoliti tutti gli edifici esistenti ad eccezione della torre della raffineria Petrogal, conservata a testimonianza delle funzioni presenti sull’area prima dell’Expo. Come accennato le strutture servite per l’Expo sono state riutilizzate al termine della manifestazione, evitando così il loro abbandono: questo è uno dei motivi per cui si può affermare che l’evento del 1998 ha reso possibile un processo di rigenerazione urbana in un’area centrale per la città, configurandosi, in questo modo, come una operazione di successo, un flagship development project, grazie alla localizzazione di nuove centralità destinate ad incidere sullo sviluppo urbano (Carrière, Demazière, 2002).

Diverso è il caso della zona posta a sud-ovest, sempre lungo la riva del Tago. In quest’area l’intervento più recente e più interessante è stato il recupero e la trasformazione della vecchia centrale idroelettrica del Tejo, alla quale si è aggiunta la realizzazione di uno dei luoghi simbolo della Lisbona contemporanea, il Museum of Art, Architecture and Technology (MAAT), progettato dall’architetto britannico Amanda Levete. Questa operazione si è inserita in un ambito in cui sono presenti altri edifici contemporanei, tra cui il Centro Cultural de Belem, il Museo Berardo, il Museo de Arte Popular e il Museu Nacional dos Coches, a formare un complessivo disegno di sistemazione della linea di costa e una polarità urbana a destinazione prevalentemente culturale. La zona, inoltre, accanto agli edifici della presidenza della repubblica ospita due delle principali architetture storiche della città divenute, nel frattempo, forti attrattori turistici di Lisbona, ossia la Torre di Belem e il Monastero dos Jerónimos. Questi due casi rappresentano solo alcuni degli interventi realizzati nella città e si caratterizzano per l’elevata percentuale di funzioni pubbliche che essi contengono, oltre che per la qualità degli interventi in atto. Altri interventi potrebbero citarsi, altrettanto rilevanti, ma significativamente minori per gli esiti e per gli impatti sulla città pubblica.

La città storica Di grande interesse è anche l’evoluzione della Lisbona antica. Anche in questo caso gli interventi, pur interessando un tessuto tutelato, possono essere suddivisi in due grandi categorie: quelli pubblici, attenti alla qualità degli spazi e delle funzioni, e quelli privati, attenti soprattutto alla massimizzazione degli investimenti verso destinazioni d’uso redditizie, in particolare quelle turistiche. Area simbolo di questa parte della città è il quartiere centrale della Baixa, davanti al quale si esten-

6 - Una strada del quartiere Alfama (foto dell’autore).

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TRASPORTI & CULTURA N.50 portò al disegno e alla realizzazione di una scacchiera regolare, anche se alcune testimonianze della precedente conformazione urbana sono pervenute fino ad oggi come, ad esempio, il Convento do Carmo, distrutto dal terremoto e mai più ricostruito. Ricostruita, come detto, su un disegno a scacchiera regolare, la Baixa presenta edifici di altezza definita, molto uniformi dal punto di vista stilistico, affacciati su assi viari regolari; quelli perpendicolari alla linea di costa, in particolare, hanno una sezione decrescente a partire da Rua Augusta, asse centrale oggi pedonalizzato. La scacchiera sfrutta la parte pianeggiante del centro urbano posizionato tra le due colline di Alfama e Chiado ed è attualmente sottoposto ad un processo di riqualificazione deciso ma non omogeneo, in cui gli edifici ristrutturati si affiancano ad edifici degradati ed in stato di abbandono. Originariamente destinate a specifiche attività (rua dos Duradores, rua dos Sapateiros, rua dos Fanqueiros), tutte le strade della Baixa si stanno trasformando in percorsi a forte concentrazione di attività turistiche (Balsas, 2007). 7 - Il fado in un azulejo murale nel quartiere di Alfama (foto dell’autore).

de la grande Praça do Comércio. Posto tra altri due quartieri storici (quello di Chiado e quello di Alfama, formatisi sulle pendici collinari ad ovest e ad est della Baixa) è il luogo dove si venne a formare il primo insediamento di origine greca, Olisipo, successivamente divenuto Felicitas Julia, municipio romano. Del periodo augusteo sono le mura, il teatro, le terme (sotto l’attuale Rua da Prata), i templi, la necropoli (sotto Praça da Figueira), un grande foro e numerose abitazioni nella zona tra il Castelo de São Jorge e l’attuale centro cittadino. La Baixa è l’emblema delle trasformazioni urbane legate alla ricostruzione della città dopo il disastroso terremoto – e il successivo maremoto – del 1755. A seguito di questi eventi, che provocarono tra i 30.000 e i 40.000 morti, il re José I diede al primo ministro, il marchese di Pombal, pieni poteri per gestire sia la fase dell’emergenza a seguito dell’evento, che la successiva ricostruzione della città. La fase di ricostruzione si avvalse di un piano urbanistico di grande importanza per l’evoluzione delle metodologie di intervento sulla città e per lo sviluppo della stessa urbanistica. Intanto esso rappresentava il risultato di un processo imposto dall’alto che stravolgeva la forma urbana preesistente e si avvaleva di tecniche di intervento moderne, come l’uso di strutture antisismiche nella realizzazione dei nuovi edifici. In secondo luogo la forma della nuova città rappresentava la trasformazione pratica dei valori dell’illuminismo francese: invece di ricostruire la città come era venuta formandosi nelle epoche precedenti, Pombal decise di abbattere ciò che era rimasto in piedi e di ricostruire un centro cittadino in conformità a moderne regole urbanistiche, ossia, come ha scritto Mullin nel 1992, “the city was to reflect a society in which the citizen, the merchant and the bureaucrat took precedence over the crown, church and nobility” (157). Infine il piano fu disegnato da un leader autocratico e da ingegneri militari formatisi sulle idee del marchese di Vauban, i quali avevano a cuore molto più l’utilità del risultato che l’attenzione al dettaglio, anche in relazione ad un controllo efficace della città, come più tardi sarà riproposto nella Parigi di Haussman. La città rinacque quindi sulla base di un progetto di “semplificazione” della struttura urbana che

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Altre aree urbane storiche sono punti di attrazione turistica. Tra di esse vi è il Castelo de São Jorge, posto sulla cima della collina che domina la Baixa, in una posizione dominante sulla città e sul fiume. Del castello non è rimasto che un insieme di mura spoglie e nel piccolo museo annesso sono esposti oggetti di scavo legati alla vita quotidiana nella fortezza. Ai piedi del castello si stende l’Alfama, l’antico quartiere arabo ed ebraico divenuto nel tempo in uno dei più degradati della città. Anch’esso è oggi in fase di strisciante riqualificazione ed è un’altra meta del turismo che interessa Lisbona. Ciò avviene con un certa “insoddisfazione” degli abitanti, in quanto la vecchia anima popolare del quartiere sembra essere a volte infastidita dalle trasformazioni in atto, riproponendo in quest’area le frizioni che hanno luogo quando un’area degradata diviene oggetto di trasformazioni che impattano significativamente sulla realtà locale. Tali operazioni, infatti, definite di “riqualificazione” o di “rigenerazione urbana”, hanno come conseguenza non secondaria un incremento del costo della vita che tende ad incidere sulla composizione e sul livello di reddito dei residenti mediante processi di semplificazione sociale (Balsas, 2007). Questo atteggiamento è alimentato anche dai risultati di altre azioni di rigenerazione urbana che hanno interessato la città e che hanno avuto come conseguenza l’incremento complessivo del costo della vita e una conseguente riduzione della popolazione che dalla città continua a spostarsi verso i suoi sobborghi.

Smartness e resilienza urbana Un fattore di grande interesse nelle trasformazioni che stanno investendo la città risiede nella strategia che essa si è data per incrementare l’attenzione alle esigenze dei cittadini e ai loro bisogni. A testimonianza di questo sforzo sono gli investimenti in atto per renderla non solo più intelligente, ma anche più a misura d’uomo e, nel contempo, più competitiva, più partecipativa, più creativa e più innovativa. La città si è dotata di un programma operativo chiamato Programa Operacional Regional de Li-


TRASPORTI & CULTURA N.50 sboa 2020 (lisboa.portugal2020.pt), ossia di una strategia di sviluppo urbano di lungo termine che prevede investimenti per oltre 300 milioni di euro. Il programma vuole favorire l’incremento della popolazione urbana mediante l’attrazione di soggetti aventi cultura e reddito elevato, da richiamare migliorando la qualità del sistema residenziale, l’offerta di servizi innovativi ed intelligenti connessi a diverse tipologie di attività e di fasce di età, la crescita economica della città incentrata su ricerca e sviluppo, sull’attrazione di attività imprenditoriali e sull’espansione dei livelli di educazione superiore; non ultimo è il miglioramento della qualità della vita con misure indirizzate ad ottimizzare l’efficienza energetica, la mobilità e la coesione sociale. Il programma contiene come priorità anche azioni di rigenerazione locale e prevede una partecipazione attiva dei cittadini. Il sistema di azioni messe in campo vuole favorire, nel suo insieme, la percezione di Lisbona come una città attrattiva. Un settore su cui la città sembra intenzionata a puntare con decisione è quello delle nuove tecnologie dell’informazione. Essa, infatti, si sta proponendo sempre più come polo tecnologico internazionale grazie alla velocità e alla affidabilità delle sue infrastrutture di rete, al punto da essere divenuta sede del Web Summit (ospitato a Dublino fino al 2015), una delle principali fiere internazionali dedicate ad internet ed al suo sviluppo (websummit.com). A Lisbona, inoltre, sono stati fondati marchi di e-commerce noti in tutto il mondo come Uniplaces e Unbabel, mentre nella zona di Beato, tra l’Alfama e il Centro Oceanografico, è stata annunciata la costruzione di HCB–Hub Criativo Beato, che si propone come una delle più grandi talent farm d’Europa (hubcriativobeato.com). Un altro aspetto che la città ha intenzione di curare nei prossimi anni è l’incremento della sua capacità di risposta a fenomeni critici, data l’esistenza di elementi critici che possono incidere sul tipo e sulla qualità della risposta della città ad eventi particolari e che possono mettere a dura prova la sua struttura e la sua efficienza (100resilientcities.org). Uno di questi elementi critici è l’esteso patrimonio edilizio ed infrastrutturale non recente, patrimonio che necessita di una azione di messa in sicurezza, anche in considerazione del rischio sismico che interessa la città. A questo scopo Lisbona dovrà mettere in campo ulteriori progetti di risanamento urbano, finalizzati a ridurre il rischio conseguente ad eventi che potrebbero paralizzare le infrastrutture, le reti ed i servizi presenti (Loforte Ribeiro, 2008). Altre minacce potenziali sono quelle relative alla posizione geografica sull’Oceano Atlantico, con i rischi connessi ai potenziali maremoti e, più in generale, agli eventi conseguenti ai cambiamenti climatici (Alcoforado et al., 2009); anche in questo caso la città dovrà immaginare risposte realmente resilienti, aumentando l’efficienza e l’efficacia della struttura urbana.

Balsas, C.J.L. (2007), “City Centre Revitalization in Portugal: A Study of Lisbon and Porto”, Journal of Urban Design, 12(2), 231259. DOI:10.1080/13574800701306328. Carrière, J.-P., Demazière, C. (2002), “Urban Planning and Flagship Development Projects: Lessons from EXPO 98, Lisbon”. Planning Practice & Research, 17(1), 69-79. DOI:10.1080/02697450220125096. EC, Ecofin (2017), Autumn 2017 Economic Forecast – Portugal. https://ec.europa.eu/info/business-economy-euro/economic-performance-and-forecasts/economic-performancecountry/portugal/economic-forecast-portugal_en. Accesso: 24/01/2018. Loforte Ribeiro, F. (2008), “Urban regeneration economics: The case of Lisbon’s old downtown”. International Journal of Strategic Property Management, 12(3), 203-213. DOI:10.3846/1648715X.2008.12.203-213. Oliveira, V., Pinho, P. (2010), “City profile. Lisbon”, Cities, 27(5), 405-419. DOI:10.1016/j.cities.2009.12.008. Mullin, J.R. (1992), “The reconstruction of Lisbon following the earthquake of 1755: A study in despotic planning”, Planning Perspectives, 7(2), 157-179. DOI:10.1080/02665439208725745.

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Nuovi scenari urbani per la Milano del 2050 di Maria Cristina Treu

Milano è la città italiana che, nell’era della globalizzazione, suscita grandi attese e maggiori speranze di un futuro possibile. D’altra parte, da sempre, le città sono i luoghi che hanno permesso alle comunità di darsi regole di governo e di fare innovazione e che oggi sono al centro di una competizione che le ripropone come luoghi attrattori di speranze indipendentemente, come dice Jacques Veron1, dalle opportunità economiche e dalle condizioni di vita che possono offrire. Più difficile è dimostrare che queste siano opinioni condivise e che Milano sia una di quelle città in cui si inverano le tre T, Tecnologia, Tolleranza e Talenti, di Floridia, e che, riprendendo il concetto di civitas augescens introdotto da Pomponio giureconsulto del II secolo, ricordato da Giandomenico Amendola2, sia una città cresciuta anche in autorevolezza e pertanto sia capace di accogliere hostes, peregrinos e victos. Tuttavia, è indubbio che Milano attraversi un periodo di grandi iniziative che, avviate da alcuni decenni, stanno dando risultati tangibili seppure accompagnati da molte contraddizioni e dalle inevitabili sottovalutazioni, non sempre imputabili solo a chi ha governato e sta governando. Tra queste emergono da un lato, sul versante istituzionale, il ritardo nel dotare la città metropolitana di una governance efficace rispetto ai numerosi comuni3 che la compongono, e dall’altro lato, sul versante degli strumenti urbanistici, una pianificazione urbanistica che, in assenza di una programmazione degli investimenti nelle infrastrutture materiali e informatiche, riesca a governare le “occasioni del mercato edilizio”.

L’innesco del processo di riqualificazione urbana Per entrare nel merito del caso Milano, ritengo opportuno raccontare alcune vicende di riqualificazione urbana e le difficoltà incontrate a causa sia delle viscosità burocratiche e delle incertezze sia dei contrasti tra gli interessi che si sono insinuati nei processi attuativi, rallentando il processo di rinnovamento in atto. 1 Jacques Véron, 2006, L’urbanisation du monde, La Découverte, Parigi, 2006. 2 Giandomenico Amendola, Le retoriche delle città. Tra politica, marketing e diritti, Dedalo, Bari, 2006 3 I comuni dell’area metropolitana, che coincide con l’ex provincia di Milano, sono 184 e tra questi più del 90% hanno meno di 15.000 abitanti. La città di Milano conta circa 1.400.000 residenti, mentre l’area metropolitana, senza la nuova provincia di Monza e Brianza arriva a stento a 3 milioni di residenti.

New urban scenarios for Milan in 2050 by Maria Cristina Treu Milan is experiencing a period of important initiatives many of which began several decades ago, and are now producing results that are tangible, but in many ways contradictory. The story began in the 1990s when the great universities – Politecnico, Università degli Studi, Bocconi, etc. – adopted strategies for expansion, relying on abandoned or under-utilized areas along the tracks of the Passante Ferroviario. In the 1990s, there were many other urban regeneration projects sponsored by public and private entities. They include the Garibaldi-Porta Nuova hub, in the location of the first railway in Milan, and the City-Life hub, on the former lots of the Fiera Campionaria. These two programmes reached their conclusion in the years 2018/2019 with the completion of all the buildings and the landscaping of the urban-garden-park. The results compound those of other projects in areas such as Portello Fiera, the new headquarters of the Regione, the regeneration of other districts around the subway stations. In recent years, the city of Milan has promoted further projects to reorganize urban functions and regenerate under-utilized areas, such as railway yards. The above-mentioned transformations highlight the significant opportunities for new land use, for which quantities, functions yet to be determined and innovations in construction, are not always certain. The future scenarios for Milan in the year 2050 require a clear vision of the transformations in the metropolitan area as a whole.

Nella pagina a fianco, in alto: piazza Gae Aulenti nell’area di Porta Nuova; in basso: veduta della darsena (le foto sono di Laura Facchinelli).

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1 - Scorcio di Via Como, sullo sfondo il grattacielo Unicredit (foto di Laura Facchinelli).

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La storia si può far risalire agli anni ’90 quando, dopo gli anni delle contestazioni e in concomitanza con gli interventi della magistratura, i primi soggetti che agiscono sono le grandi Università di alcune grandi città capoluogo. In quegli anni, il piano Nazionale per il decongestionamento dei grandi Atenei promosso dal ministro Ruberti verrà in aiuto delle maggiori università italiane, messe in crisi dalla rilevante crescita degli studenti iscritti e sollecitate dalla competizione internazionale a rinnovare la formazione, la ricerca e i rapporti con il sistema produttivo e economico. Questi sono i fattori che impongono alle università l’adozione di scelte che, anticipando un programma di riorganizzazione delle proprie strutture potessero, al contempo, sostenere strategie di più lungo periodo attrezzandosi con nuovi laboratori e sedi di ricerca per rispondere, in accordo con le amministrazioni locali e con operatori privati, alle esigenze di una domanda di innovazione crescente e non più eludibile. Nel caso di Milano, si presentò anche l’opportunità di poter disporre di insediamenti abbandonati e sottoutilizzati lungo il tracciato del Passante Ferroviario che, con la costruzione delle prime stazioni, diventano particolarmente accessibili. La realizzazione di questa infrastruttura rende evidente l’attrattività dei nodi di intersezione tra le reti su ferro, nazionali, regionali e metropolitane, che insistono

sia in aree urbane centrali che in zone della periferia urbana. Qui, le opportunità insediative sono date dalla presenza di molte aree ex industriali del censimento del 1980, oltre che dal fatto che alcune di queste aree sono pubbliche, come fu sottolineato da una dichiarazione dell’amministrazione comunale di allora. Con quella dichiarazione viene fatto cadere Il progetto dell’insediamento di una Città delle Scienza a Gorgonzola su aree lungo la Metropolitana Milanese, linea MM1, e viene confermata l’ipotesi di due sedi universitarie: quella, per l’Università degli Studi, nella zona a Sud Est, servita dalla stazione del passante ferroviario di Porta Vittoria e, per il Politecnico, nella zona degli ex gasometri di Bovisa, un’area servita dalle Ferrovie Nord e dalle Ferrovie dello Stato oltre che dal Passante Ferroviario: una zona che risulterà seconda, come accessibilità, solo all’area centrale di Garibaldi- Porta Nuova. Il Politecnico opterà per insediarsi in Bovisa, dove realizzerà entro il 2002 due nuovi Campus dell’Ateneo: il primo con le prime facoltà delle Ingegnerie Industriali e due grandi laboratori di ricerca e il secondo con la Facoltà di Architettura Civile e la Facoltà di Disegno Industriale. L’Università degli Studi opterà, viceversa, per l’area della ex Pirelli Bicocca, un’area a rischio di degrado per la chiusura della Pirelli, una grande azienda storica, dove si insedierà l’Università Bicocca. Due scelte diverse anche dal punto di vista istituzionale: - la prima, orientata all’articolazione in più sedi di un unico Ateneo che avrebbe dovuto ampliarsi, sempre in Bovisa, con l’insediamento dei Dipartimenti Chimici (compreso il centro di ricerca della Mapei, i cui primi nuclei trovarono sistemazione proprio in Bovisa), con la sede dell’Azienda Elettrica Milanese (AEM) e con l’insediamento dei Laboratori per dipartimenti di Progettazione dell’architettura e di Disegno Industriale; - la seconda, orientata a gemmare un nuovo Ateneo, l’università Milano Bicocca, dove confluiranno più Facoltà Umanistiche e Tecnologiche, e che inizialmente sarà accessibile con le Ferrovie dello Stato, fermata Greco, e con un tram urbano e, in seguito, con linea Lilla, la MM5, che raccorderà la sede universitaria alla stazione Garibaldi per poi proseguire fino alla nuova piazza Tre torri di Citylife4: si tratta della linea che utilizza convogli senza la presenza di conducente. - Contestualmente, si mobilitano anche altre sedi universitarie, tra cui la Bocconi e lo IULM, che si ampliano nelle vicinanze delle rispettive sedi, e poi l’Università Cattolica e l’Università di Brera con progetti che solo in parte si realizzeranno nei decenni successivi. I programmi delle sedi universitarie non hanno trovato eccessivi ostacoli, grazie al sistema di interessi molto esteso che esse alimentano e che va dalle attività commerciali e professionali alla domanda di servizi e di alloggi per gli studenti. A Milano, gli studenti arrivano a circa 200.000 iscritti e costituiscono un bacino incomprimibile della domanda di servizi urbani e di stanze sia in affitto da privati sia in collegi convenzionati con gli atenei. Più in gene4 La fermata tre Torri di City Life è di recente realizzazione ed è posizionata al centro del programma di riqualificazione dell’ex area campionaria di Milano in fase di conclusione, connessa anche con la fermata di Piazza Amendola della prima linea della Metropolitana Milanese, la linea rossa.


TRASPORTI & CULTURA N.50 rale, il gran numero di studenti e i crescenti utenti urbani alimentano anche la frequentazione di teatri e di cinema, oggi più decentrati di un tempo, l’utilizzo di attrezzature sportive e una domanda trasporti pubblici per i quali, viceversa, continua a mancare una offerta efficace in termini di frequenze e orari. In questo senso, alcuni effetti positivi si fanno sentire fino alla periferia urbana mettendo in moto più attività artigianali e commerciali, comprese le cooperative di quartiere di un tempo, e promuovendo più eventi culturali come le proiezioni di film (il Cinemino in zona Romana), rappresentazioni teatrali (il teatro in zona Niguarda), iniziative editoriali e di stampa e, soprattutto, i tanti bar-caffè e fast food dotati di collegamenti internet.

La diffusione del processo di riqualificazione e di rigenerazione urbana Negli anni ’90 sono numerosi anche gli interventi di riqualificazione e di rigenerazione urbana promossi da altri soggetti, pubblici e privati. Tra questi, ritengo opportuno evidenziare quelli di maggiore rilevanza, quali: - il polo Garibaldi-Porta Nuova, sull’area che un tempo era il rilevato della prima ferrovia di Milano in partenza da Porta Nuova e sede da anni dei giostrai dell’area delle Varesine. In questo caso, gli interventi poterono essere avviati dopo un lungo contenzioso con le proprietà e assumendo come base, per gli incrementi di volumetrie, il progetto vincitore del concorso internazionale promosso da una precedente amministrazione comunale; - il polo di City-Life sull’area dell’ex sedime della Fiera Campionaria di Milano, costruita un tempo su quello che era il Campo di Marte della città e resosi disponibile in seguito al trasferimento della Fiera Campionaria a Rho-Pero in una nuova sede di livello nazionale e al conferimento della stessa area alla Fondazione Fiera che ha gestito il concorso internazionale e tutto il processo di riqualificazione della zona. L’esito del primo progetto, costruito sull’area più accessibile di tutta la regione, si qualifica oggi come un polo bancario-assicurativo (con circa 6.000 dipendenti) per la presenza del centro direzionale di Unicredit e di AXA, mentre il secondo diventerà il distretto assicurativo-finanziario (con circa 9.000 dipendenti) con le sedi di Allianz, Generali e della società di consulenza Pricewaterhouse Coopers PWC, con cui è stato firmato l’accordo per l’avvio della costruzione. Questi due programmi di riqualificazione arriveranno a conclusione nel corso del 2018/2019 con l’ultimazione di tutte le costruzioni e con la sistemazione del parco-giardino-urbano, mediamente dopo 15 anni dall’ inizio dei lavori. I loro effetti si sommano con altri interventi come quelli sull’area del Portello Fiera, a nord di City-Life, quello della nuova sede della Regione nei d’intorni di Garibaldi-Porta Nuova e di altri interventi nelle zone contigue all’area del centro storico, coincidente oggi con il Minicipio 1. La stazione Garibaldi-Porta Nuova è, infatti, un nodo di collegamento, oltre che con l’università Bicocca e con City-Life, con le stazioni ferroviarie dove fermano Freccia Rossa e Italo, con la stazione del Passante

di Bovisa-Politecnico e con l’aeroporto della Malpensa. Oltre a questi interventi andrebbe ricordata la riqualificazione di molti altri quartieri attorno alle stazioni della rete metropolitana, il sistema dei parcheggi di interscambio e alcuni interventi nei comuni di prima cintura attorno a Milano come quello sulle aree ex Falck di Sesto San Giovanni, e in altre aree in adiacenza a quelle di proprietà della Pirelli Spa.

2 - Grattacielo di City Life progettato da Zaha Hadid (foto di Laura Facchinelli).

Di tutti questi interventi, compresi quelli collegati alla riorganizzazione degli Atenei, si devono tuttavia sottolineare anche i risvolti negativi. Un primo risvolto riguarda il fatto che questi interventi hanno generato, con il rialzo dei valori immobiliari, la sostituzione della popolazione originaria con una popolazione in cui prevalgono, con diverse percentuali, segmenti diversi di utenti urbani e famiglie con alti redditi: in sintesi una comunità stanziale rarefatta, invasa nei giorni di fine settimana e festivi e alla sera da una popolazione proveniente dai comuni del contado, un tempo chiamati i milanes arieous. L’effetto, di questo come di altri grandi interventi di riqualificazione, è lo spostamento di una popolazione anziana e di tanti giovani (Milano è una città in cui i single sono più del 60%) ai margini della città e nei comuni metropolitani, in zone meno dotate di servizi urbani e soprattutto mal collegati dai 113


TRASPORTI & CULTURA N.50 intende inserirsi con determinazione nella competizione internazionale tra le città mondiali, nonostante le difficoltà nel portare a termine interventi che, per la loro dimensione e per la loro relativa qualità ambientale, scontano un mercato poco appetibile ai più diversi segmenti residenziali. D’altra parte, con questi interventi siamo nel primo decennio del 2000, gli anni in cui Milano, dopo lo spostamento della Fiera nazionale a Pero-Rho affronta con successo la sfida dell’Expo 20155. Una sfida che, oltre alla scelta di un sedime in comuni della prima cintura metropolitana come era già avvenuto per la Fiera Nazionale, ha impegnato molte amministrazioni locali in un programma di opere esteso alla riqualificazione del sistema del reticolo idrico del territorio a ovest di Milano. Parliamo di un territorio prevalentemente agricolo che confina con il Parco del Ticino e che è interessato dalla rete di irrigazione che scende dal canale Villoresi e da due navigli, il Naviglio Grande e il Naviglio Pavese. Un programma, quello dell’Expo, con una visione che guarda al di là dei confini comunali e che è riuscito a mobilitare un insieme di interessi diffusi e di diverse fasce di reddito. Per esempio, quelle interessate al completamento della riqualificazione della Darsena e di un tratto dei Navigli6 e quelle per istituire il Parco delle Risaie, posto al confine della città di Milano con il comune di Assago, coinvolgendo alcune aziende agricole e molte associazioni di cittadini: gli abitanti nei quartieri di quel settore urbano, interessati ai prodotti a chilometro zero, ma anche a partecipare alla riqualificazione di tanti luoghi storici pubblici abbandonati.

Milano nel contesto internazionale 3 - Ponte della Sorgente (via Farini). 4 - Veduta del sovrappasso in zona Isola.

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servizi di trasporto pubblico locale e a cui, in assenza anche del servizio car sharing, è imputabile in ricorso all’auto privata e una percentuale di inquinamento dell’aria. Un secondo risvolto sono i Poli lungo il Passante ferroviario non risolti, da quello della Stazione del Passante Ferroviario di Porta Vittoria a quello della Stazione delle FS di Rogoredo. Il primo è rimasto bloccato dalle irregolarità evidenziate dalla magistratura nei confronti della gestione del programma di interventi da parte del costruttore Danilo Coppola e dall’affossamento del progetto della Biblioteca Europea, con l’effetto di acuire i disagi presenti nelle aree limitrofe. Il secondo, un progetto ambizioso su un’area molto estesa e che, sostenuto inizialmente dal richiamo di architetture firmate (quella dell’architetto Foster) e dall’interesse di alcuni soggetti della moda, entra in crisi per le difficoltà finanziarie dell’operatore immobiliare Zunino. L’esito, in questo secondo caso, è la presenza di una grande area abbandonata, nonostante la costruzione da parte della Lega delle cooperative di un consistente quartiere residenziale e il raddoppio del quartier generale della Sky: due interventi contigui al quartiere storico di Rogoredo e serviti, oggi, da una Stazione FS da cui transitano i treni dell’alta velocità e i treni interregionali e regionali Nord-Sud e da più linee di autobus del trasporto pubblico locale. L’insieme di queste e altre iniziative, non citate per questioni di spazio, ci confermano che la città, anche se continua a soffrire di una politica prevalentemente interna ai propri confini amministrativi,

Negli anni più recenti la città di Milano si fa soggetto promotore di ulteriori iniziative di riorganizzazione delle funzioni urbane di rango superiore e di riqualificazione di aree e di immobili sottoutilizzati. Sono quelle che interessano le aree degli scali ferroviari con una dimensione di volumi edificabili da città di qualche milione di abitanti e, soprattutto l’ipotesi dello Human Tecnopole (il centro di ricerca internazionale sulle malattie degenerative e sull’alimentazione) con il trasferimento dell’università di Agraria e, da ultimo, del centro Ospedaliero Galeazzi nel sedime dell’area Expo7. Sono queste le operazioni che proiettano lo scenario di Milano al 2050 e che richiederanno una grande capacità nell’esercitare l’arte della concertazione tra più istituzioni e tra più interessi. Sarà, infatti, necessario far fronte, oltre che alle inevitabili contraddizioni locali, alle pressioni e alle convenienze di cittadini provenienti da altri contesti metropolitani: la vicenda della Autorità Europea del Farmaco (EMA) insegna. In questo senso, si può intravvedere un futuro che, a parte il sistema delle aree lungo i Navigli 5 Uno degli aspetti di maggiore difficoltà per l’Expo rimane, oltre alle solite polemiche sulla loro gestione e sul bilancio tra i costi delle opere e le diverse voci imputabili ai ricavi, un fatto poco noto ma molto importante per i tempi non comprimibili della prima fase di cantiere: quello dei lavori di scavo e delle numerose opere di sotto infrastrutturazione per il controllo delle acque e per le reti energetiche e informatiche dell’intero sedime in un periodo particolarmente piovoso durato più mesi. 6 Oggi, la prospettiva è di riaprire, previo referendum, anche qualche porzione della cinta urbana dei Navigli. 7 L’accordo per la localizzazione del centro ospedaliero Galeazzi è stato firmato nel febbraio 2018.


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5 - Edifici residenziali del tipo “bosco verticale”, progettati da Stefano Boeri (foto di Laura Facchinelli).

e quelle ancora irrisolte a sud della città, proietta le trasformazioni dell’area metropolitana di Milano nel territorio di prima industrializzazione e più densamente costruito del Nord e del Nord Est della regione. Qui, tuttavia, i grandi interventi rischiano di configurarsi come isole di una architettura spettacolare nel bel mezzo di tessuti urbani in cui i quartieri del passato si alternano con zone residenziali miste a piccole industrie e ad attività artigianali, degradate e in via di abbandono e a rischio di marginalizzazione territoriale e sociale. Qui, anche i centri ospedalieri - nuovi e/o di recente ristrutturazione - diventano macchine di una sempre maggiore dimensione e tendono a insediarsi in vicinanza alle uscite delle autostrade e/o delle tangenziali per agevolare l’accessibilità delle autoambulanze. Questi nuovi progetti comportano la chiusura e/o il trasferimento degli insediamenti esistenti in aree urbane centrali, innescando la formazione di nuovi vuoti urbani e, al contempo, più disagi per i cittadini connessi sia ai tempi lunghi dei lavori sia alle difficoltà per accedere ai nuovi ospedali anche in assenza di presidi sanitari di prevenzione. Nel frattempo, la competizione innescata dallo Human Tecnopole si sta giocando ai tavoli delle multinazionali del farmaco, sempre che il nuovo centro internazionale possa contare sui finanziamenti pubblici promessi8. Questo progetto impone inoltre una programmazione con le università interessate a spostarsi nel sito Expo e, al contempo, con il destino dei vuoti che si apriranno nelle rispettive zone di provenienza. Nel caso specifico, l’attenzione si sposta, ancora una volta, su Città Studi. L’area è interessata sia dallo spostamento di 8 E anche sul coordinamento con l’Istituto di Information Tecnology, IIT, degli Enzerilli di Genova.

due ospedali: l’istituto neurologico Besta e l’istituto dei Tumori verso la Città della Salute programmata sulle aree ex Falck di Sesto San Giovanni, sia dallo spostamento dell’intera Facoltà di Agraria che a sua volta coinvolge la sede storica del Politecnico di Piazza Leonardo da Vinci. Ci si riferisce allo spostamento, da un lato, dei corsi di Agraria sui grandi animali a Lodi, in un centro di ricerca già esistente, ma raggiungibile solo in auto e, dall’altro lato, delle restanti attività di Agraria nell’area Expo per le sinergie con le ricerche sull’alimentazione e sulla salute. L’impegno dell’amministrazione comunale di Milano è di mantenere la vocazione universitaria della zona di Città Studi9 con la richiesta al Politecnico e a altre università, oltre che ad altre istituzioni pubbliche come il Demanio, di rendersi disponibili a riutilizzare le aree che si libereranno. Le perplessità del Politecnico, come probabilmente degli altri soggetti pubblici interpellati, riguardano oltre i costi e i tempi dell’intera operazione, la fluidità delle proposte. D’altra parte, ogni Ateneo deve far fronte anche ad altri numerosi impegni e che, nel caso del Politecnico, riguardano la riqualificazione del Campus di Architettura di via Bonardi e la riorganizzazione dei dipartimenti chimici per i quali la prospettiva è un loro consolidamento in Città Studi piuttosto che nell’area degli ex-gasometri di Bovisa. Inoltre, ci sono gli Scali Ferroviari per i quali le ipotesi edificatorie sono state promosse da FS Sistemi Urbani con un grande evento nel dicembre 2016 sollevando, da subito, molte perplessità circa la legittimità giuridica di ricorrere a un accordo di programma tra amministrazione comunale e una 9 Il primo programma di far convergere più università nell’area che diventerà Città studi è del 1875, un programma riformulato nel 1919 e avviato con gli interventi del Politecnico e con quelli di una parte della Statale.

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TRASPORTI & CULTURA N.50 libero10. Rimangono le perplessità su uno strumento come l’accordo di programma che rende edificabili aree che, per gli usi consentiti dal piano (servizi ferroviari), hanno un valore pari a zero e che, immesse sul mercato, acquistano un maggior valore (tecnicamente la rendita urbana), generato dalle volumetrie assegnate con una variante di piano di Giunta. Due sono le obiezioni di merito: da un lato, l’incertezza dei tempi dell’operazione e delle effettive funzioni urbane che saranno insediate, dall’altro lato, la ripartizione del maggior valore generato dagli interventi previsti in variante, per la quale sono previsti per il Comune 50 milioni, senza aver chiarito né la stima del maggior valore dell’operazione né gli oneri da detrarre a parte l’inserimento del 50% dell’area a verde come questa non fosse, a sua volta, una valorizzazione degli stessi interventi. Nei confronti di questi dati ci sono stati molti interventi propositivi11 che hanno denunciato la sottostima dell’importo degli oneri di urbanizzazione, ricordando che la nuova disciplina nazionale12 comporta l’obbligo di un contributo straordinario in aggiunta agli oneri tradizionali pari al 50% del maggior valore generato dagli interventi previsti in variante urbanistica. “Prima che il treno ci travolga” sarebbe allora opportuno capire come ci possono essere utili alcuni casi degli Stati Uniti, certamente non ostili alla proprietà privata e spesso sbandierati come casi esemplari per gli accordi pubblico-privato, ma dove le aree dismesse sono collocate sul mercato a un valore simbolico, e solo con la riuscita del processo di riqualificazione vengono distribuite le quote del maggior valore collegato alla trasformazione, detratti tutti gli oneri e i rischi d’investimento sostenuti dal privato, ma anche dall’operatore pubblico ,che generalmente sostiene i costi delle infrastrutture di rete13 e di parte dei servizi urbani destinati alla popolazione.

La programmazione e la pianificazione di area vasta 6 - Edifici residenziali nell’area City Life (foto di Laura Facchinelli). 7 - Ingresso dal lato Metropolitana della fiera di Rho Milano. Fonte: https:// it.wikipedia.org/wiki/ File:FieraRhoMilano1.jpg).

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delle società di natura privata emanazione delle FS. In seguito, con la mostra delle visioni progettuali organizzata nei pressi della Stazione FS di Porta Genova all’inizio del 2017, è stato avviato un processo di partecipazione con i cittadini, con più associazioni anche professionali, con le commissioni consigliari di urbanistica e dell’ambiente, senza tuttavia poter chiarire né quello che ne sarà dell’attuale barriera ferroviaria, né i tempi degli interventi e i vantaggi per la comunità. La firma dell’accordo è avvenuta sempre nel 2017 e assegna a un unico soggetto, FS Sistemi Urbani, la costruzione, su uno spazio urbano di 1.250.000 mq, di 675.000 mq, di cui il 76% sarà edilizia libera e il 23% edilizia sociale unitamente a opere per la mobilità attorno ai due scali di Porta romana e di Farini e sulla cintura ferroviaria, lungo la quale dovranno comunque continuare a circolare i treni delle Ferrovie dello Stato. Attualmente, in attesa della stesura dei programmi di intervento e degli investitori privati, si stanno predisponendo le convenzioni per indire i concorsi per la progettazione di usi temporanei in due scali: quello di Porta Romana, dove è previsto un mercato agricolo e un’area per attività ludiche collegati con una pista ciclabile, e quello di Farini, dove sono previste attività sportive e per il tempo

Le trasformazioni citate, concluse e ancora in fieri, fanno emergere grandi opportunità insediative, prevalentemente interne alla città di Milano, di cui non sempre sono certe le quantità, le funzioni da insediare e le innovazioni costruttive anche tecnologiche, mentre molto incerti rimangono i tempi di realizzazione e la qualità degli scenari metropolitani a cui potranno contribuire. Ci troviamo di fronte a una difficile fase di transizione per il governo metropolitano (che non c’è) e per un governo regionale, che fino ad ora si è espresso con posizioni spesso concorrenziali rispetto alla città metropolitana. D’altra parte, non possiamo contare su esperienze consolidate e integrate di programmazione economica e di pianificazione territoriale rispetto alle quali è da sem10 L’annuncio della convenzione per l’apertura del concorso per le attività temporanee è del febbraio 2018. 11 Gli interventi di Gabriele Mariani, Roberto Camagni e Michela Barzi del 31 maggio, 20 giugno, il 27 giugno del 2017, riportati sul settimanale on line Arcipelago. 12 Cfr., l’art. 16 comma 4 del T.U. sull’edilizia 13 Cfr., i casi presentati al convegno nazionale, “Rigenerare la rigenerazione”, dalla Associazione Aree Urbane Dismesse (Audis), tenutosi, il 12/2017, presso la sede della Fondazione Riccardo Catella di Milano.


TRASPORTI & CULTURA N.50 pre stata privilegiata la dimensione e l’autonomia di ogni singolo comune, indipendentemente dal suo peso economico e demografico e dalla sua posizione rispetto alla rete delle infrastrutture materiali e immateriali e alle caratteristiche della struttura geografica. Un ostacolo importante è, innanzitutto, la questione istituzionale: l’area metropolitana ha uno statuto ed è governata da un vicesindaco, nominato dal sindaco di Milano, e da sindaci delegati dai comuni metropolitani, ma è ancora priva di risorse proprie. Inoltre, il sindaco dell’area metropolitana è il sindaco di Milano eletto dai cittadini milanesi, e i sindaci dei comuni dell’area metropolitana (ex provincia di Milano) sono eletti dai rispettivi cittadini. Una situazione che, mentre continua ad agevolare la rincorsa di grandi e piccoli interventi di riqualificazione alla scala comunale, dall’altra parte ostacola ogni tentativo finalizzato ad affrontare due questioni strategiche e centrali per l’area metropolitana: - la riorganizzazione del sistema delle relazioni a sostegno di una mobilità metropolitana, che oggi è pari al 60% dell’intera mobilità regionale e che richiede una intermodalità tra la rete su ferro e i servizi automobilistici su gomma, integrata con le aree delle stazioni e dei parcheggi e che devono essere più sicuri e accessibili con un biglietto unico per tutti i mezzi metropolitani e regionali; - il risanamento dell’ambiente urbano di una delle aree che, con la Pianura Padana, è tra le più inquinate d’Europa secondo tutte le graduatorie europee e internazionali14 e che richiede, oltre alla contrazione dell’uso delle auto private, la riqualificazione dalle reti dei sottoservizi, energetiche e sanitarie, l’adeguamento delle infrastrutture informatiche e la continuità delle reti verdi e di mobilità lenta. Due questioni che richiederebbero strumenti da sempre sottovalutati: da un lato, una programmazione dei tempi e delle modalità di spesa degli investimenti nelle infrastrutture e dall’altro lato, una pianificazione che evidenzi le situazioni dove orientare gli investimenti privati e le situazioni da compensare con misure prevalentemente pubbliche: una programmazione e una pianificazione di area vasta a cui adeguare gli strumenti urbanistici comunali compresi gli accordi di programma, fatti salvi i casi di effettiva emergenza e/o di interesse rilevante. Si tratta in sostanza di raccordare le scelte di riqualificazione e di rigenerazione urbana con strumenti di governo territoriale che permettano di contestualizzare le opportunità insediative con la messa a sistema delle infrastrutture di rete e con le operazioni di bonifica e di consolidamento di territori spesso compromessi da diversi tipi di rischi. In questo senso, non si può sottovalutare il fatto che gli interventi ricordati siano, nella maggioranza dei casi, extra Piano. Per la loro attuazione si è ricorsi prevalentemente allo strumento dell‘Accordo di Programma in variante al Piano Regolatore vigente e in assenza di Programmi integrati di Intervento finalizzati alla ripartizione degli oneri e degli onori tra gli operatori pubblici e privati e, soprattutto, in assenza di una programmazione e di una pianificazione di area vasta dotata di efficacia giuridica, cioè con strumenti di incentivo e

disincentivo nei confronti delle scelte dei singoli operatori. D’altra parte, la procedura degli accordi di programma, avviata con l’accordo tra Comune e Pirelli Bicocca SpA, è diventata nel tempo una prassi generalizzata confermando la fine della supremazia pubblica nel campo delle proposte urbanistiche e relegando al ruolo di un documento descrittivo lo strumento del piano di area vasta e a quello di un documento separato la programmazione degli investimenti. Con l’accordo di programma si è teso a privilegiare una prassi che valorizzi i terreni privati di aziende in crisi, che è utilizzata per qualsiasi situazione con una dichiarazione di urgenza e/o di eccezionalità15 che nessuno controlla: un farmaco, rivendicato nei confronti della presunta rigidità dell’urbanistica e che secondo molti non riesce a far fronte alle emergenze della modernità e che, usato impropriamente è già diventato un veleno per la disciplina urbanistica, comunque inefficace rispetto al sovradimensionamento del mercato edilizio. Infine ci sono altre considerazioni che riguardano più direttamente la qualità dell’insieme dei nostri tessuti e dei bisogni della nostra quotidianità e che rinviano alla necessità di una visione generale che orienti, con la pianificazione di area vasta, l’urbanistica dei singoli comuni. Oltre ai grandi interventi, dobbiamo, infatti, ricordare che: - negli ultimi anni c’è stata una diffusione degli interventi su singoli manufatti con significativi incrementi di volumetria nelle zone grigie della città dove, viceversa, i tessuti richiederebbero una preventiva riqualificazione urbanistica, cioè il ridisegno dei percorsi, degli spazi sociali e verdi e la rigenerazione dei quartieri degradati con la partecipazione degli abitanti; - c’è una sottovalutazione della mobilità metropolitana dove l’incremento asistematico dei flussi di spostamento richiede di avere un servizio tramite una maggiore integrazione tra le reti su ferro, il servizio automobilistico su gomma e le stesse reti della mobilità dolce al fine di agevolare, unitamente alla disincentivazione dell’auto, altre opzioni di scelta. Queste considerazioni sono necessarie perché tra i progetti di riqualificazione urbana qui ricordati ho privilegiato quelli che insistono sulle reti della mobilità, i cui effetti ambientali sono stati più efficaci anche nei confronti delle resistenze al cambiamento imputabili ai comportamenti culturali e sociali inevitabilmente più lenti. Gli scenari futuri di Milano al 2050 richiedono una visione caratterizzante le trasformazioni dell’ intera area metropolitana: cioè il progetto di una mappa che preveda un sistema di nuovi luoghi, costituito da nuove porte d’ingresso e da nodi passanti, che, indipendentemente dai confini amministrativi, possano agevolare i flussi di merci, di persone e di relazioni in una società che sarà sempre più multietnica e multiculturale. È il progetto di una mappa futura che si caratterizzi con luoghi abitati riconoscibili e non con le sole immagini spettacolari dei più recenti interventi di riqualificazione urbana

14 Nelle graduatorie europee e internazionali Milano, intesa come area metropolitana e in alta posizione nelle valutazioni dell’innovazione tecnologica, mentre scende di posizione per la qualità ambientale.

15 Gli accordi di programma tra Regione e Comuni si fanno anche per un centro commerciale e/o tra Stato e Regione e anche per modificare precedenti accordi di programma già stipulati con un Comune.

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Venezia civitas sopravvivrà al turismo 4.0? di Paolo Costa

Quando si dice Venezia ci si può riferire - nella “contraddizione” tra civitas, l’insieme dei suoi abitanti, e urbs, la forma assunta nel tempo dal suo ambiente costruito - sia al fenotipo dominante dell’urbs “Venezia storica”, quella protetta come sito Unesco, per sé o nel contesto dell’urbs “Venezia lagunare”, sia a quello della civitas “Venezia funzionale”, il sistema urbano giornaliero risultante dalla proiezione delle relazioni attuali casa-lavoro e casa-servizi, sia al fenotipo urbs-civitas “Venezia metropolitana”. Un fenotipo, quest’ultimo ancora tutto da definire perfino nella sua proiezione territoriale, oggi inchiodata ai confini subottimali della vecchia provincia, ma incerto tra la coincidenza con il sistema urbano giornaliero della “Venezia funzionale” e quello della estensione al nodo urbano di rango europeo comprendente anche i sistemi urbani giornalieri di Padova e Treviso. In questo contesto polimorfico ogni riferimento al solo fenotipo “Venezia storica” rischia di essere fuorviante. Esso consente però di analizzare gli effetti del più rilevante fattore odierno di trasformazione dinamica dell’area: il crescente uso turistico di Venezia storica che ne sta aggredendo anche la residua funzione residenziale contribuendo al calo della sua popolazione.

Lo spopolamento in corso fin dal 1951 Venezia storica, il centro storico di Venezia che tutto il mondo pensa coincida con l’intera città, ha chiuso il 2017 con poco più di 53.000 residenti. Un migliaio di abitanti in meno dell’anno precedente, ma ben 122.000 in meno del 1951, quando aveva fatto registrare il suo massimo in età moderna1. Il calo continuo della popolazione di Venezia storica è fatto noto e ampiamente segnalato, ne è meno sottolineata la regolarità: dal 1951 ad oggi il centro storico di Venezia ha perso ogni anno l’1-2% di popolazione (quasi 4.000 residenti all’anno negli anni cinquanta dello scorso secolo - flusso in diminuzione che farà parlare di “esodo”- fino ai quasi 1.000 degli ultimi anni). Ogni singolo anno, a prescindere, o anche solo nonostante, le politiche della casa esercitate per contrastarlo localmente (offerta di edilizia residenziale pubblica agevolata o convenzionata) o a livello nazionale (equo cano1 Con 175.000 abitanti Venezia storica veniva considerata sovraffollata anche se lontana dal suo massimo storico di 199.000 presenti nel 1422 (Beltrami, D., Storia della popolazione di Venezia dalla fine del secolo XVI alla caduta della Repubblica, Cedam, Padova, 1954).

Will Venice civitas survive tourism 4.0? by Paolo Costa When speaking of Venice – in the “contradiction” between civitas, the totality of its inhabitants, and urbs, the form its built environment has acquired over time – any reference to the exclusive phenotype of “historic Venice” may lead to a misconception, but makes it possible to analyse the effects of the growing use of the city for tourism, which is damaging its residential function and contributing to the decline in population. At the end of 2017, Venice counted less than 53,000 inhabitants. In the 2000s, the housing market was increasingly affected by the needs of tourist supply. If the growing demand makes tourism-related activities increasingly profitable, they will inexorably tend to replace all other activities. If along with buildings that become hotels, and artisan workshops that become restaurants, all houses become potential temporary residences, then the divide between the fate of Venice urbs and Venice civitas has been accomplished. The urbs, Venice’s historic built fabric, will be preserved and passed down by the “bosses” of the tourist supply; the civitas, the Venetian community, will on the other hand be condemned to a diaspora. Unlike Florence or Rome, Venice has underestimated the need to protect its historic city centre with a tertiary executive district. Is it possible to try again? Aiming for a new economic base, with a global vocation, capable of successfully competing for the Venetian building heritage against the tourist industry? Giving the Metropolitan Civitas the role that Europe expects of it? The possibility exists, but it requires a great project. Nella pagina a fianco: fenomeni legati al turismo in città. Le foto che accompagnano questo articolo sono di Laura Facchinelli.

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1 - Veduta del Canal Grande dalla terrazza del Fontego dei Tedeschi.

ne per legge dal 1978 al 1998). Una regolarità impressionante che, così continuando, porterebbe ad un sostanziale azzeramento della popolazione di Venezia storica entro 10 -15 anni. Uno spopolamento continuo, ma che ha avuto nel tempo cause diverse che si sono date tra loro la staffetta2. Così gli anni ’50 si caratterizzano per un “esodo” da sovraffollamento e degrado (chi può se ne va in Terraferma e il Centro storico perde 38 mila residenti), peraltro in coincidenza con la fase di urbanizzazione e suburbanizzazione di Mestre e dei comuni della prima cintura indotta dalla industrializzazione di Porto Marghera3; gli anni ’60 sono quelli dello spopolamento da mancato restauro (non sono ancora state messe in campo le provvidenze finanziarie statali “speciali” che aiuteranno più avanti i privati a coprire i costi del restauro edilizio: non facili da sostenere entro il vincolo di “tecnologie dell’Ottocento a prezzi del 2000”); dagli anni ‘70 i restauri attesi vengono avviati, le condizioni di abitabilità ricostituite, ma nel contempo iniziano grandi operazioni immobiliari che impongono un allontanamento dei residenti attuali: paradossalmente si crea una fase di spopolamento da restauro; il successo dei restauri dell’edilizia minore, accompagnatisi a quelli dell’edilizia 2 La staffetta è documentata per il cinquantennio 1951-2000 in Zanon, G., “ Dal sovraffollamento all’esodo: popolazione ed occupazione a Venezia nel ’900”, Quaderni di Insula, anno II, n. 4, Venezia, 2000. 3 Vedi Costa P., Dolcetta B. e Toniolo G. “The New Scale of the City”, in The Architectural Review, voI. CXLIX, n. 891, 1971, pp. 310-312.

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monumentale, ma anche all’escavo dei rii e al risanamento degli spazi pubblici, fanno ritornare attraente la residenza a Venezia, che però dagli anni ’80 produce una selezione di censo, con la clientela locale spiazzata dal lievitare dei prezzi; si comincia ad affidare parte del patrimonio veneziano alle seconde residenze: siamo allo spopolamento da mercato.

Turismo e spiazzamento produttivo e residenziale Gli anni 2000, meno documentati, sono quelli che vedono sempre più il mercato residenziale veneziano condizionato dalle esigenze dell’offerta turistica. Già fin dagli anni ‘90 dello scorso secolo la pressione turistica su Venezia aveva cominciato a raggiungere livelli prossimi se non superiori alla sua capacità massima di accoglienza4. L’attenzione e le preoccupazioni in quegli anni si rivolgevano soprattutto ai visitatori pendolari, gli escursionisti, che creavano condizioni di congestione negli attrattori turistici culturali - su tutti la Basilica di San Marco - e nei sottosistemi complementari del trasporto pubblico, della ristorazione e degli stessi spazi pedonali - Piazza, calli e campi - dove 4 Vedi Canestrelli E., Costa P. “Tourist Carrying Capacity: A Fuzzy Approach”, Annals of Tourism Research, vol 18 pp 295311, 1991.


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spesso l’uso turistico si mostrava incompatibile con quello delle attività non turistiche: residenziali e produttive. Si ritiene sopportabile il fatto che le presenze annue di turisti pernottanti (in alberghi, pensioni, case private) siano passate dai 2,5 milioni del 1987 ai 6,2 milioni del 20125. Si guarda con preoccupazione, invece, al fatto che gli escursionisti siano passati da 4,9 a 14,5 milioni all’anno6. Sono questi ultimi - si sostiene - che vanno sottoposti al “controllo dei flussi turistici”, mentre i turisti pernottanti vengono visti con maggior favore, anche perché li si ritiene titolari di una maggior spesa, foriera di maggiori redditi ed occupazione. Ma, mentre si discute sul come controllare i flussi di escursionisti, ogni giorno un palazzo diventa un albergo, una bottega artigiana, un negozio di specialità turistiche, e qualche appartamento si trasforma in bed and breakfast. Comune di Venezia e Regione del Veneto emettono provvedimenti, non sempre tra loro coerenti, che dovrebbero frenare le trasformazioni d’uso. Ma la pressione della rendita turistica è troppo forte, tanto che ne approfittano anche Ministeri, Regione, Camera di Commercio e Comune che ad essa ricorrono per 5 I 20,7 milioni di presenze del 2012 sarebbero divenute da 25 a 30 milioni in questi anni; valutazioni che dovrebbero divenire più precise a seguito dell’introduzione di sistemi di controllo dei flussi decisi dal Comune di Venezia. 6 I dati sui turisti pernottanti hanno l’attendibilità delle rilevazioni ufficiali; quelli sugli escursionisti conseguono stime parametrizzate sulle rilevazioni sul campo condotte dal CoSES negli anni ‘80 e ‘90.

valorizzare i propri patrimoni immobiliari entro uno schema classico di delocalizzazione in terraferma finanziata dalla rendita realizzata con la trasformazione d’uso degli immobili ceduti in centro storico. Rendita il cui valore cresce continuamente all’aumentare della domanda turistica a fronte di una offerta che, riguardando un centro storico, usa una dotazione di “spazio” data e, per definizione, non espandibile. Come è intuibile e dimostrabile7 se la domanda crescente di servizi turistici rende le attività turistiche sempre più redditizie esse tenderanno anche, inesorabilmente, a sostituirsi a tutte le altre attività incapaci di pagare alla rendita prezzi comparabili.

2 - Veduta da Piazzale Roma. 3 - L’approdo ACTV di San Marco Vallaresso sovrasta visivamente il campanile.

Turismo 4.0 e disaccoppiamento del destino dell’urbs da quello della civitas Una condizione che a Venezia sembra avvicinarsi rapidamente per l’agitarsi di fenomeni nuovi - che il 2017 ha messo in evidenza - che hanno a che vedere con la globalizzazione dei mercati e la rivoluzione digitale che rende possibile la sharing economy: fenomeni che stanno “rottamando” 7 Si veda Prud’homme R., “Il futuro industriale di Venezia” in OECD Rapporto sulla rigenerazione industriale di Venezia, Parigi, 1985. Si veda anche Costa P., Manente M. Economia del turismo,TCI, Milano, 2000.

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4 - Sposarsi a Venezia, un sogno da realizzare. 5 - Scorcio di un canale.

l’economia e la società di ogni parte del mondo. La globalizzazione del mercato turistico va oggi rendendo pressoché “infinita” la domanda di servizi turistici rivolta a Venezia; ne consegue una sproporzione incolmabile tra la capacità di accoglienza della destinazione Venezia e la domanda illimitata di “vedere Venezia” che si traduce in rendite continuamente crescenti. Una sproporzione che rende conveniente, ancor prima che un aumento succedaneo dell’offerta di strutture complementari (alberghi e altre forme di accoglienza turistica) a Mestre e in mezzo Veneto, la trasformazione di “tutta” Venezia storica – al di fuori del ridotto costruito attorno all’Università, alla Biennale, alle altre fondazioni culturali e artistiche, al porto passeggeri e a un po’ di pubblica amministrazione - in offerta turistica. Tutta Venezia; perché - e qui entra in ballo la novità della sharing economy (l’economia della condivisione) - le piattaforme digitali, come Airbnb, consentono oggi di “condividere” direttamente con singoli residenti temporanei tutto o parte del proprio alloggio od alloggi sottratti ad hoc alla residenza stabile resa per confronto sempre meno redditizia. Le piattaforme alla Airbnb hanno abbattuto anche l’ultimo muro che difendeva almeno la residenza da un più “efficiente” e massiccio uso turistico dell’intero patrimonio edilizio della Venezia storica. Se accanto ai palazzi che diventano alberghi e alle botteghe artigiane che diventano ristoranti, tutte le case diventano potenziali residenze temporanee, il disaccoppiamento del destino di Venezia urbs da quello di Venezia civitas è compiuto. L’urbs, il costruito storico veneziano, verrà conservato e tramandato dai “padroni” dell’offerta turistica; la civitas, la comunità veneziana, sarà invece condannata alla diaspora. Una prospettiva che non può non angosciare i veneziani superstiti, ma che, c’è da scommetterlo, non tur122

berà più di tanto né l’UNESCO né il mondo intero, il cui interesse sta tutto nella “Venezia di ieri da vedere”, che il turismo liberato da ogni altro impiccio è tranquillamente in grado di mantenere senza avere a che fare con la comunità veneziana di oggi e domani. Gli effetti perniciosi alla lunga si faranno probabilmente sentire anche sulla domanda turistica: una collezione di monumenti ospitati da una città fantasma manterranno lo stesso fascino della urbs-civitas di oggi? Ma è una domanda difficile da porre oggi all’industria turistica. È una prospettiva evitabile? È un destino comune anche ai centri storici di Firenze o di Roma, per fare due esempi? La risposta sta proprio nel confronto con queste realtà. Firenze e Roma si salvano, almeno per il momento, dal disaccoppiamento totale urbs-civitas perché incrociano globalizzazione e rivoluzione digitale forti di una base economica non turistica consolidata. Roma per le attività statali che ospita entro le mura aureliane, e quelle direzionali che la capitale attira, e Firenze per la presenza nel centro storico di un distretto degli affari e professionale ancora sufficientemente radicato. E Venezia? Venezia ha sottovalutato la necessità di presidiare il suo Centro storico con un distretto terziario e direzionale. Non ha capito per tempo che l’inaccessibilità relativa prodotta dalla cesura lagunare avrebbe alterato le condizioni di convenienza relativa alla localizzazione di quei servizi. La sola città italiana che ha conservato servizi terziari e direzionali di rango europeo è Milano che, non a caso, è la sola città italiana che dispone di una ferrovia metropolitana degna di questo nome. Venezia la sua battaglia l’ha persa le molte volte, dal 1910 agli anni ’60, agli anni ’90, al primo decennio di questo secolo, nelle quali è stata vicina a dotarsi di una ferrovia metropolitana sublagunare che avrebbe reso vincente anche ai fini della loca-


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lizzazione dei servizi produttivi e direzionali i suoi ineguagliabili ambiente e paesaggio. L’ha persa perché non ha nemmeno tirato le conseguenze delle sue scelte puntando allora decisamente su una base economica compatibile con la procurata “lentezza”: investimenti in istruzione superiore, ricerca, attività creative; ma giocata e resa competitiva a scala globale perché chiamata a competere con una delega globale come quella di “mantenersi domani per farsi vedere come era”.

L’insperata occasione cinese Ci si può riprovare oggi? Puntando su una base economica nuova, di caratura globale, e percepita tale dal mondo intero, capace di contendere con successo nel medio periodo il patrimonio edilizio veneziano all’industria turistica? E dare alla Civitas Metropolitana il ruolo che l’Europa si aspetta da lei? Una possibilità c’è. Materializzatasi insperatamente per una iniziativa che non è né locale, né regionale, né statale. E forse per questo colpevolmente sottovalutata. La più fondata possibilità di vedere tra qualche anno un albergo veneziano riconvertito in uffici o residenze sta nella capacità nel coraggio - di capire e prendere sul serio il messaggio che la Cina di Xi Jinpin lancia ripetutamente da almeno tre anni: Venezia come terminale occidentale della Via della Seta Marittima del 21° secolo8. Un messaggio ribadito anche dopo le risposte en fin de non recevoir finora date dal governo italiano, prigioniero di una lettura della propo-

sta cinese in termini banali di politica portuale da deviare a favore di scali di scarso interesse cinese. Un progetto italo-cinese capace di “rottamare” a favore dell’Italia, dell’Alto Adriatico (e quindi, solo quindi, anche di Venezia) e magari, in tandem, dell’Alto Tirreno (incentrato su Genova) l’intera catena logistica delle relazioni commerciali tra Cina e il resto dell’Estremo Oriente, da una parte, e l’Europa, dall’altra, è progetto di caratura globale capace di cambiare la faccia del nostro Paese. A partire da quella delle terre che attorno a Venezia - da Ravenna a Trieste, dal Brennero a Tarvisio - dal lato adriatico, e attorno a Genova, dal lato tirrenico, servirebbero relazioni privilegiate Cina-Europa. Un progetto di un’enorme ambizione, anche nazionale, perché imporrebbe all’Italia di confrontarsi alla pari con la Cina anche in nome dell’Europa. Troppo ambizioso? Sì, se guardiamo al nostro tran tran attuale. No, se guardiamo a quello che succede nel resto del mondo. Quel mondo con il quale dobbiamo confrontarci sempre più. Poi ricordando, sottovoce, che, nel caso di Venezia, il progetto avrebbe il merito, aggiunto, di consentire alla Repubblica di tener fede all’impegno assunto di fronte al mondo, come recita l’art.1 della legge speciale per Venezia del 1973, di garantire la salvaguardia e la rivitalizzazione di Venezia e della sua laguna, senza farla inesorabilmente sommergere dall’alluvione turistica.

6 - Una Venezia al di fuori dei tipici percorsi turistici.

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8 Vedi Costa P., “Venice and the North Adriatic Port System as the Chinese designated western terminal of the Maritime Silk Road”, EUSAIR Macroregional Strategy for Tourism and Transport: Western Silk Road Opportunities, Venezia, 20 gennaio 2018.

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TeMA JOURNAL of Land Use, Mobility and Environment: l’esperienza del primo decennio di Rocco Papa e Rosa Anna La Rocca

Rispondiamo con entusiasmo all’invito di Laura Facchinelli di raccontare l’esperienza del primo decennio della rivista TeMA in questo numero speciale di Trasporti e Cultura, oltre che per una certa affinità nell’affrontare tematiche che studiano i cambiamenti che stanno interessando le nostre città, anche per accogliere quest’occasione come un concreto esempio di sinergie possibili.

TeMA Journal of Land Use, Mobility and Environment: the experience of the first decade By Rocco Papa and Anna La Rocca

Starting point: integrazioni territorio, mobilità e ambiente TeMA Journal of Land Use, Mobility and Environment nasce nel 2007 da un’idea sviluppata in seno al gruppo di ricerca del Dipartimento di Pianificazione e Scienza del Territorio (oggi Dipartimento di Ingegneria Civile, Edile e Ambientale). Da subito, l’obiettivo è stato chiaro e allo stesso tempo audace: proporre uno spazio editoriale innovativo per accogliere il dibattito e il confronto scientifico su un argomento, a nostro avviso, centrale per chi studia ed opera nel campo delle trasformazioni urbane e territoriali. L’integrazione tra urbanistica e mobilità, infatti, ci sembra un campo di ricerca ancora poco indagato in ambito scientifico, quindi tutto da esplorare attraverso un approccio integrato, capace, cioè, di coniugare le esigenze della mobilità - in quanto attività indispensabile per lo sviluppo - con la necessità di attivare opportuni processi di governo delle trasformazioni del territorio in maniera coerente con i principi della sostenibilità. Territorio-Mobilità-Ambiente, quindi, sono le parole chiave sulle quali l’idea ha preso forma. Attraverso un attento, costante e rigoroso lavoro di équipe, la rivista è stata strutturata e proposta sulla scena degli strumenti scientifici a supporto della ricerca, aprendo la strada ad un innovativo processo di diffusione delle informazioni scientifiche. TeMA, infatti, è stata la prima rivista on-line pubblicata dall’Università degli Studi di Napoli Federico II, prodotta e gestita attraverso il sistema Open Journal System (OJS). Adesso che stiamo attraversando l’era degli Open Data questa scelta sembrerebbe ovvia, quasi scontata, ma se contestualizzata nel periodo in cui la rivista cominciava a concretizzarsi, manifestava una forte volontà di procedere su percorsi innovativi, attraverso l’uso di strumenti non ancora capillarmente diffusi e, quindi, ancora da sperimentare. Si trattava di interrompere la consuetudine all’uso di strumenti tradizionali (l’editoria cartacea, il copyright tradizionale, ecc.). La policy della rivista quindi è stata definita, sin da subito, sulla base di

TeMA Journal of Land Use, Mobility and Environment was founded in 2007, from an idea by the research group of the Town Planning and Territorial Science of the University of Naples Federico II. The ambition was clear and at the same time daring: to provide an innovative editorial space as a place for debate and scientific discussion on a central argument: the integration between urban planning and mobility. A field that has had little attention in terms of scientific research: it has yet to be explored in an integrated approach, capable of uniting the needs of mobility – indispensable for development – with the need to activate appropriate governing processes to transform the territory in a manner coherent with the principles of sustainability. Territory-Mobility-Environment, are therefore the key words around which the idea has taken shape. The authors explain how they developed the editorial project, starting with the decision to publish the magazine online, accessible free of charge. Today the magazine is issued every four months, and is integrated with a Special Issue that compiles the results of international events or focuses on important themes. In 2014, the decision was made to publish the magazine exclusively in English, to ensure international readership.

Nella pagina a fianco, gli ultimi 4 numeri pubblicati.

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1 - Andamento del numero di articoli e delle citazioni su Google Scholar nel decennio 2007-2017. I picchi corrispondono a specifiche scelte edioriali. Nel 2009 è stato pubblicato il primo numero speciale interamente in inglese. Il biennio 2013-2014 è stato dedicato alla tematica della Smart City anche in relazione al cofinanziamento del progetto PON Smart Energy Master. Tra le attività di diffusione, il convegno INPUT tenutosi a Napoli nel giugno del 2014 i cui atti sono stati pubblicati in un numero speciale dedicato all’evento.

2 - Andamento del numero di citazioni mensili nell’ultimo triennio.

scelte coerenti con gli obiettivi di chi opera in ambito accademico: utilizzare le risorse Open Source per la sua gestione; esplorare il settore delle licenze “Creative Commons” per garantire comunque i diritti degli autori; sottoporsi a selezioni per l’iscrizione in banche dati ufficialmente riconosciute; studiare e attuare una procedura di riconoscimento della qualità scientifica degli articoli proposti; attivare un processo di deposito legale digitale, sebbene non obbligatorio. Sono solo alcuni dei passaggi che hanno ritmato questo primo decennio e che ci hanno consentito di acquisire competenze e professionalità, certamente ancora da perfezionare e che non rappresentano un punto di arrivo. Abbiamo voluto dare alla rivista un carattere innovativo, oltre che per l’attualità dei temi, anche nelle scelte delle forme di divulgazione e della sua presentazione grafica, frutto del compromesso tra la necessaria attenzione alle forme della comuni126

cazione scientifica più tradizionale e quelle appetibili anche per un pubblico “meno esperto”. L’impronta innovativa si deve anche alla sinergia tra i componenti del Comitato Scientifico Editoriale, del Comitato di Redazione e dello staff TeMALab che ci ha consentito di tenere insieme il rigore del metodo scientifico con modalità comunicative che potessero essere più direttamente rivolte anche ad un pubblico giovane1. A dicembre 2007, TeMA Journal è ufficialmente entrata nella rete, consultabile su sito dedicato (www. tema.unina.it) in maniera completamente gratuita, senza costi per chiunque (ricercatori, tecnici, pro1 Lo staff TeMalab è composto da giovani ricercatori e da dottorandi di ricerca che collaborano liberamente alle attività della rivista. TeMALab, diretto dal prof. Rocco Papa, è un Laboratorio di ricerca, formazione e consulenza scientifica del DICEA. La rivista TeMA è uno dei prodotti del Laboratorio (http://www.tema_lab.unina.it).


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3 - Provenienze dei visitatori di TeMA Jounal of Land Use Mobility and Environment.

4 - Parole chiave più frequenti negli articoli pubblicati nel periodo 2015-2017.

fessionisti) volesse leggerne i contenuti, consentendo il libero download dei singoli articoli2, per una successiva stampa o per la costruzione di una personale biblioteca digitale. Allo stesso modo, tenendo fede alla policy iniziale, agli autori che rispondono alle “call for publication” lanciate periodicamente, non viene richiesto alcun contributo economico per ciascuna delle fasi del processo di pubblicazione (presentazione della proposta da parte dell’autore, revisione cieca dell’articolo da parte di esperti, accettazione finale da parte del comitato editoriale) curato da un editor, membro del comitato scientifico editoriale. Con la prima uscita, il gruppo di ricerca di TeMA con il Comitato Scientifico Editoriale ha lanciato una prima sfida a se stesso prima ancora che 2 Ogni numero della rivista è pensato come somma dei singoli articoli che sono confezionati in maniera da essere autosufficienti sebbene frutto di un disegno unitario.

alla platea scientifica alla quale ha proposto la rivista: costruire un nuovo corpus di conoscenze teorico-metodologiche che, superando gli steccati che segnano il confine (soltanto apparente) tra urbanistica, mobilità e ambiente, fosse in grado di formulare soluzioni nuove ai problemi che si continuano ad affrontare con “arnesi” della cultura scientifica del secolo scorso. Tale sfida è tuttora in corso, aperta a quanti vorranno misurarsi con tematiche di ricerca in grado di mettere in luce le esigenze che le nostre città dovranno sostenere e fronteggiare nel prossimo futuro.

Riflessioni a metà percorso Dopo quasi cinque anni, diciotto numeri e circa centocinquanta articoli scientifici pubblicati, con l’Editorial Advisory Board e gli Editors si è deciso di fare una riflessione a tutto campo sull’organiz127


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5, 6 e 7 - Il numero zero e i numeri 1 e 2 della rivista.

zazione e sugli indirizzi da imprimere alla rivista. Anche in ragione dei recenti mutamenti che hanno interessato l’organizzazione dell’Università in Italia, delle nuove regole per la valutazione del sistema universitario e della ricerca imposte nell’ultimo decennio3, si è ritenuto opportuno operare una riorganizzazione che potesse dare maggiore consistenza alla rivista quale mezzo di promozione di risultati e temi di ricerca scientifica. Accogliendo le regole con spirito costruttivo e utilizzandole come occasione per un miglioramento, è stato messo in atto una sostanziale trasformazione nella programmazione e nella struttura della rivista. È stata effettuata una riorganizzazione dell’Editorial Advisory Board4, in quanto garante della qualità scientifica della rivista. È stato riorganizzato il processo di revisione delle proposte: la pubblicazione degli articoli avviene solo a seguito di un rigoroso procedimento di referaggio doppio cieco (double blind peer review). 3 Si fa riferimento principalmente alla Legge 240/2010 (Legge Gelmini) come risultato finale di una serie di provvedimenti che nell’ultimo decennio hanno riguardato la riorganizzazione dell’intero sistema dell’istruzione pubblica in Italia (p.e. L. 133/2008; L. 169/2008; L. 1/2009), ma anche alle procedure di valutazione della qualità della ricerca operate dall’Anvur e dal Nucleo di Valutazione di Ateneo. 4 Attualmente è composto da rappresentanti di comunità scientifiche internazionali che, con il Direttore e lo Staff editoriale, contribuiscono alla programmazione e alla scelta dei temi che la rivista intende affrontare. Nel seguito si riporta la composizione ad oggi, rimandano alla consultazione del sito web per qualsiasi approfondimento (http://www.tema. unina.it) Direttore: Rocco Papa, Università degli Studi di Napoli Federico II. Editorial Advisory Board: Mir Ali (USA); Luca Bertolini, (NL); Luuk Boelens (Belgium); Dino Borri (I); Enrique Calderon (SP); Roberto Camagni (Italy); Derrick De Kerckhove (Canada); Mark Deakin (UK); Aharon Kellerman, (IL); Nicos Komninos (GR); David Matthew Levinson (USA); Paolo Malanima (I); Agostino Nuzzolo (I); Rocco Papa (Italy); Serge Salat (F); Mattheos Santamouris (GR); Ali Soltani (IR) Associate Editors: Rosaria Battarra, National Research Council (I); Luigi dell’Olio University of Cantabria (SP); Romano Fistola, University of Sannio, (I); Carmela Gargiulo, University of Naples Federico II, (I); Thomas Hartmann, Utrecht University, (NL); Markus Hesse, University of Luxemburg, Luxemburg;Seda Kundak, Technical University of Istanbul, (TR); Rosa Anna La Rocca, University of Naples Federico II, (I); Houshmand Ebrahimpour Masoumi, Technical University of Berlin, (D) Giuseppe Mazzeo, National Research Council (I); Nicola Morelli, Aalborg University, (DK)Enrica Papa, University of Westminster, (UK); Dorina Pojani, University of Queensland, Australia; Floriana Zucaro, University of Naples Federico II, (I); Editorial Staff: Gennaro Angiello; Gerardo Carpentieri; Stefano Franco; Marco Raimondo; Laura Russo; Maria Rosa Tremiterra; Andrea Tulisi.

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I revisori vengono selezionati all’interno di un ampio panel di esperti invitati ad esprimere un parere che viene comunicato agli autori in forma anonima. Il giudizio dei revisori viene espresso secondo tre modalità: un primo giudizio sintetico qualitativo dei contenuti del contributo riguardo alla vision della rivista; un secondo giudizio, discorsivo, contenente le motivazioni e i suggerimenti per eventuali modifiche e miglioramenti; un terzo conclusivo sintetico parere esprime l’accettazione o meno del contributo. La decisione finale spetta comunque all’Associate Editor che, nell’attuale organizzazione della rivista, rappresenta la figura responsabile dell’intero processo di referaggio e della qualità globale della rivista. Si è proceduto, inoltre, ad una semplificazione del format grafico che, pur nella sua attuale versione sobria, comunque restituisce l’immagine di un’attenta ricerca a modalità innovative di comunicazione iconografica alle quali la redazione è particolarmente sensibile5. Una sostanziale modifica ha riguardato la periodicità della rivista anche per rispondere meglio alla tempistica richiesta da alcuni dei principali verificatori delle banche dati (p. e. Thomson Reuters) nelle quali la rivista doveva necessariamente comparire per essere accreditata come scientifica6. 5 Nella definizione del messaggio comunicativo particolare attenzione è stata posta alla costruzione della veste grafica. La pagina di apertura di ogni articolo ad esempio è stata articolata in livelli orizzontali destinati a contenere informazioni redazionali (article history; doi; modalità di citazione, ecc.); i livelli verticali sono composti per le informazioni di contenuto, sia in formato testuale (abstract, autori, affiliazione, keywords) sia in formato grafico (in un apposito box agli autori viene richiesto di caricare un’immagine esplicativa dei contenuti del contributo presentato). L’aspetto grafico attuale è stato il risultato di una semplificazione del progetto iniziale, che si è resa necessaria anche per consentire il coinvolgimento degli autori nella fase di impaginazione dell’articolo, in maniera da garantire il massimo rispetto della costruzione sequenziale dei contenuti voluta dall’autore. 6 TeMA è presente nelle liste delle riviste scientifiche dell’ANVUR per l’area 08. Nel 2009 ha ottenuto lo Sparc Europe Seal, la certificazione di conformità a standard di qualità, rilasciata alle riviste scientifiche ad accesso aperto dalla Scholarly Publishing and Academic Resources Coalition (SPARC Europe) e dalla Directory of Open Access Journals (DOAJ). Dal 2015 è presente nel data base Web of Science Core Collection. Gli articoli sono sottoposti a procedura volontaria di Deposito Legale per le pubblicazioni digitali presso il CNR SOLAR (Scientific Open-access Literature Archive and Repository), una banca dati di pubblicazioni scientifiche finalizzata a realizzare un archivio dei prodotti italiani della scienza e della ricerca.


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L’osservatorio infoTeMA per il monitoraggio dei risultati

TeMA Journal attualmente ha una periodicità quadrimestrale, integrata dalla pubblicazione di Special Issue che raccolgono risultati di eventi di rilievo internazionale o approfondimenti su argomenti che contribuiscono ad accrescere la riconoscibilità della rivista nell’ambito delle tematiche inerenti lo studio delle relazioni tra territorio, mobilità e ambiente. Il nuovo assetto ha richiesto la ricalibratura dell’articolazione dei contenuti. Attualmente la rivista si struttura in due sezioni: una prima dedicata alla tematica specifica del numero (Focus); una seconda dedicata alle tematiche generali di interesse della rivista (L.U.M.E. acronimo di Land Use Mobility and Environment). La parte conclusiva di Review Pages (RP) viene elaborata da giovani ricercatori di TeMALab e rappresenta un “osservatorio permanente” finalizzato a fornire un quadro aggiornato delle principali tendenze in atto riferite a Risorse Web, Pubblicazioni, Normativa, Pratiche Urbanistiche, Eventi scientifici. A tali radicali cambiamenti, dal 2014 in poi, si è aggiunta la scelta di pubblicare esclusivamente in lingua inglese; tale scelta ha definitivamente aperto la prospettiva di una divulgazione internazionale. I sommari degli articoli pubblicati, inoltre, vengono tradotti anche in lingua cinese, nella convinzione che una apertura verso nuove frontiere della ricerca fosse oltremodo necessaria. Probabilmente è proprio questa impostazione, peraltro fortemente sostenuta dalla vivacità intellettuale e dall’entusiasmo dei membri dello staff editoriale, che ci differenzia dall’appiattimento verso il quale macchinose procedure valutative insieme a farraginosi iter burocratici spingono la ricerca scientifica in Italia. La nostra risposta è stata di raccogliere tali sfide e provare a superare ostacoli ed insidie proponendo sempre nuove prospettive ed impegni. In tal senso, in questi ultimi anni abbiamo messo a punto una piattaforma multiformato, che ci consente di pubblicare in rete, ad accesso aperto, studi e ricerche monografiche sulle tematiche affrontate da TeMA in questo decennio. L’obiettivo è di più ampio spettro e prevede la realizzazione di pubblicazioni scientifiche, integrate e multiformato. TeMAe-book, continuerà ad utilizzare la logica della information sharing adoperando licenze Creative Commons per garantire la pubblicazione dei testi che avranno superato il processo di valutazione da parte di esperti.

L’osservatorio infoTeMA è nato da una duplice esigenza: da un lato, monitorare la rispondenza tra obiettivi fissati e risultati ottenuti nelle attività di ricerca scientifica; dall’altro, seguire le traiettorie di disseminazione on line, consentendo, ove necessario, di intervenire con azioni correttive finalizzate al miglioramento delle performance della rivista. Gli indicatori ritenuti maggiormente significativi per il monitoraggio fanno riferimento al numero di citazioni ottenuto dai singoli articoli, al numero delle visite al sito, alla composizione degli utenti (paesi di provenienza, tempo di permanenza, motori di ricerca utilizzati, ecc.)7, al calcolo dell’indice di Hirsch (h5 index). Ad oggi, TeMA ha pubblicato 571 articoli (249 in italiano, 322 in inglese) raccolti in 10 volumi per un totale di 33 numeri e 5 Special Issue, con circa 1.120 citazioni in Google Scholar. Dal 2015 TeMA è stata inserita nella Core Collection di Web of Science, con una presenza di oltre 100 articoli e 32 citazioni totali negli ultimi due anni. Il numero di citazioni consente il calcolo dell’indice di Hirsch (h5 index) sinora pari a 13, equiparabile a quello di riviste classificate in classe A (Town Planning Review, Urban Research & Practice). Il monitoraggio dei dati consente di considerare margini di miglioramento e di supportare le attività redazionali al momento della programmazione annuale anche in merito alle tematiche da affrontare. Il grafico di figura 2 ci permette, infatti, di valutare il grado di attenzione che si è registrato in occasione della pubblicazione di numeri speciali dedicati alla tematica dei Transit Oriented Development (2016), ai Cambiamenti Climatici (2015 e 2016) e alla relazione tra Città ed Energia (2017). Particolare attenzione si concentra intorno alla tematica dei Cambiamenti Climatici come principale sfida delle attuali città così come per quelle del prossimo millennio. L’analisi degli accessi registrati per singolo articolo (Tab. 1) e per paese di provenienza (figura 3) conferma il dato precedente ma al contempo evidenzia una particolare attenzione dei lettori verso le tematiche della Smart City. Gli articoli che trattano di questo argomento, infatti, registrano una frequenza di rimbalzo compresa tra il 28% e il 36% che può ragionevolmente essere considerato un valore tendenzialmente positivo. L’analisi testuale basata sulle ricorrenze registrate nelle parole chiave indicate negli articoli (figura 4) può essere significativa rispetto ai feedback registrati in merito alle tematiche proposte. Il dato conferma alcuni risultati precedenti, evidenziando un numero maggiore di ricorrenze per la tematica della Innovazione (Smart City, Consumi Energetici) e della Resilienza Urbana, alle quali TeMA Journal ha dedicato specifici approfondimenti. I 200.000 accessi registrati e le oltre 670.000 pagine visitate spingono a credere che alcuni risultati siano stati raggiunti, sebbene altri traguardi siano ancora da prospettare nella volontà di ricercare integrazioni possibili tra differenti know-how ed ulteriori occasioni di confronto. © Riproduzione riservata

7 Per quanto riguarda il numero di citazioni, i dati sono ottenuti dalle banche dati di Google Scholar e Web of Science (2014). Per l’elaborazione delle metriche della rivista viene utilizzata l’applicazione Google Analytics.

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Dalla polis alla cosmopolis: considerazioni sul con-vivere e le sue metafore di Giuseppe Goisis

In un’espansione senza fine, crescono, in ampiezza e complessità, le megalopoli: Tokyo, Delhi, New York, Città del Messico, São Paulo, la super Pechino in via di configurazione, Shangai, Hong-Kong1… Si tratta spesso di vere e proprie “città arcipelago”, con una costellazione di quartieri e siti, spesso di proporzioni imponenti, e si può passare velocemente dall’uno all’altro. Eppure, in un tal quadro, l’umanità sospira, sentendosi prevaricata, sopraffatta, quasi schiacciata da una forza evolutiva più potente di lei; come si è espressa la poesia beat, queste città sono come “trappole” per un’umanità smarrita e prigioniera: Asimov, nei suoi scritti di fantascienza, anticipa spesso questi tessuti urbani mostruosamente dilatati, soffermandosi su alcuni aspetti esteriori, ma esistenzialmente significativi, come la trama di cemento ed acciaio che sostiene i grattacieli, in modo da far sentire il contrasto fra la vulnerabilità della carne umana e l’inflessibile durezza delle armature d’acciaio2. E tuttavia quel che sembra un destino, qualcosa di già detto: un fatum, deve essere rovesciato, defatalizzato; dietro all’aura destinale, può maturare un germe di sfida; se non fosse disposto a sfidare la necessità, l’uomo sarebbe ancora uomo? Sarebbe solo proteso a cullarsi sul comodo guanciale dell’illusione, preda di una specie di nirvanismo, e la sua stessa tragedia, connessa all’inesorabile necessità, si convertirebbe in ridicolo, perdendosi in un pulviscolo di impressioni, e non vi sarebbe neppure gusto a raccontare tale disorientamento collettivo… Vale la pena, merita di essere raccontata l’esperienza urbana se ne si afferra il profondo spirito tragico, che Simmel, forse per primo, ha intuito; solo la consapevolezza dell’implacabile necessità può metter in moto una schietta rivolta, insieme ideale 1 Il termine megalopoli, com’è noto, è stato popolarizzato da J. Gottmann, La megalopoli, Einaudi, Torino 1970, ma è stato coniato qualche anno prima (1961) dallo studioso greco Constantinos Doxiadis, insieme all’altro termine ecumenopoli. Un quadro alternativo, interessante ma soffocato da una certa rigidezza tecnocratica in P. Khanna, La rinascita delle Città-Stato, Fazi Editore, Roma 2017 (cfr. A. Lombardi, Anche gli imperi cadono, il futuro è nella polis, in “la Repubblica”, 21/11/2017, p. 49). 2 Cfr. A. Petrillo, Villaggi, città, megalopoli, Carocci, Firenze 2006. “La nostra generazione è intrappolata (trapped) dentro imperiali/Sataniche città e nazioni, e solo/la profetica sacerdotale consapevolezza/del Bardo-Blake, Whitman/o i nostri stessi nuovi sé- potrà/rendere fermo il nostro sguardo sui/fiammeggianti occhi delle tigri del/Furore che verrà”, in A. Ginsberg, Non finché viva. Poesie inedite, a cura di B. Morgan, il Saggiatore, Milano 2016, p. 51; se il poeta urla ancora, infinitamente, la fantascienza sembra precorrere l’acuto disagio urbano: cfr. I. Asimov, Abissi d’acciaio. La metropoli sotterranea (1954), A. Mondadori, Milano 1995. Nelle visioni dell’Autore domina la dimensione per eccellenza del futuro, quella della robotica trionfante.

From the polis to the cosmopolis: considerations on coexistence and its metaphors by Giuseppe Goisis Megalopolises are growing in size and complexity: Tokyo, Delhi, New York, Mexico City, Sao Paulo, Beijing, Shanghai, Hong Kong... The first part of the article adopts a phenomenological approach to illustrate the expansion of cities which have become configured as “archipelago cities”, characterized by a constellation of districts. The authors of reference are G. Simmel and W.Benjamin, who were the first to perceive and describe major transformations. The process has been an accelerated transition from polis to metropolis, from metropolis to megalopolis. The change is not merely in the urban structure: it has, on the contrary, been embedded into the brain and the nervous system of citizens, profoundly modifying their habits, thinking patterns and lifestyles, to the point of generating new human types characteristic of the various typologies of urban agglomerations. Following the lead of S. Mehta, the “secret life of cities” is being explored, paying strategic attention to the particular languages of various urban subsystems, and concentrating in singular fashion on the metaphors that constellate these languages. In the final pages, based on certain intuitions by Italo Calvino, the remarkable expansion of megalopolises triggers the generous utopias of a new and courageous “humanism of great cities”, that lives up to the overwhelming revolution that was reconstructed in this rapid overview.

Nella pagina a fianco: una strada di Tokyo. Foto di Laura Facchinelli.

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TRASPORTI & CULTURA N.50 e materiale, dunque decisamente reale, una rivolta messa in movimento e vivacizzata dall’insorgenza della libertà, che tuttavia non è vaniloquio solo quando si radica e lavora criticamente entro la dimensione di una necessità consaputa. Sì, perché l’esperienza urbana lavora entro una contraddizione antropologica fra le più profonde, oscillando fra il mito di Hestia e quello di Hermes; Hestia, il focolare identitario che ci richiama come un flauto dolcissimo, evocando le sirene della stabilità, della sicurezza e della familiarità; Hermes, che evoca invece la comunicazione, il commercio e l’innesto fra persone e popoli, nel quadro di una mobilità avventurosa. Sono due miti in contraddizione, due poli che ci parlano l’uno di un radicamento necessario, l’altro di un disancoramento altrettanto, e forse più, salutare3. La verità è che tutta la vita dell’uomo è cambiata, e non solo superficialmente, e nemmeno soltanto quantitativamente; la grande città sfolgora, come uno specchio babelico, di fronte all’umanità contemporanea, ma ciò che riflette sembra, soprattutto, il caos informativo e comunicativo e un assieme impressionante di deviazioni ed errori4. Si consideri questa tesi di P. Valéry, che si caratterizza, a prima vista, per qualcosa di paradossale: “L’avenir est comme le reste: il n’est plus ce qu’il était”5. Valéry, dotato di uno sguardo acutissimo, inserisce questa considerazione, divenuta famosa, entro un complesso ragionamento che vuol mostrare al lettore come le stesse categorie dello spazio e del tempo siano vissute dall’uomo contemporaneo in una maniera singolare e caratteristica, a cagione anche della vita convulsa che anima le grandi città. E così spiega: “Intendo dire che noi non sappiamo più pensare all’avvenire con qualche confidenza nelle nostre induzioni. Noi abbiamo perduto i nostri strumenti tradizionali di pensare e prevedere: proprio in ciò consiste il lato patetico della nostra condizione”6. In breve, occorre cercare assiduamente una libertà che tenti la sua espansione a partire dalla piena consapevolezza dei meccanismi della necessità e, del pari, indagare quelle vie di emancipazione che poggino sul previo riconoscimento dell’alienazione che opprime ogni grande città. È tale alienazione, così sembra, a soffocare la vita urbana e ad imprimervi una certa cupa tristezza… Clima di tristezza assecondato da un eccesso di funzionalismo organizzativo, per niente neutrale: “La burocrazia ha fame di atrocità”, come ripete, con esempi impressionanti, Suketu Mehta, forse il maggior narratore odierno della vita delle grandi città7. Non c’è una sola storia, ma scorrono i rivoli di moltissime storie e biografie intrecciate, e un certo relativismo appare inevitabile (l’invadenza della “non-verità” risulta inesorabile, non riguardando solo le menzogne dei pubblicitari, o le bugie dei politici corrotti, ma proprio l’oblio della verità, intesa secondo la metafora della lama che divide, separando, implacabilmente, il sic dal non). 3 A. Lazzarini, Polis in fabula. Metamorfosi della città contemporanea, Sellerio, Palermo 2011. 4 Ho nella mente un saggio anticipatore: M. Cacciari, Metropolis. Saggi sulla grande città, Officina Edizioni, Roma 1973; Id., La città, Pazzini, Rimini 2009. 5 P. Valéry, Regards sur le monde actuel (1931), in Oeuvres, II, Gallimard-La Pléiade, Paris 2008, p. 1062 (trad. it. in P. Valéry, Opere scelte, a cura di M.T. Giaveri, A. Mondadori, Milano 2014, pp. 924-5). 6 La traduzione è mia. 7 S. Mehta, La vita segreta delle grandi città, trad. it. di N. Gobetti, Einaudi, Torino 2016, p. 23; cfr. Id., Maximum City. Bombay città degli eccessi, Einaudi, Torino 2006.

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C’è una verità “ufficiale”, che dipinge la vita delle grandi città inscrivendola in una specie di ruolino di marcia trionfale, e c’è una narrazione più asciutta e sobria, anche amara, e tanti gradi e sfumature diverse, e l’interprete, riflettendo, fa l’esperienza quotidiana di un inestricabile labirinto, anche emotivo, intrecciandosi continuamente gioia e pena, passione e indifferenza. La plumbea tristezza, la malinconia livida che sembra incombere sulle grandi città può riassumersi nell’espressione alienazione, in un gioco di identità di cui si perde rapidamente il filo: l’io che si fotografa e scopre come l’altro, l’altro che, come in un sussulto, riprende, in modo intermittente, la percezione della propria identità. E l’alienazione sembra manifestare almeno tre volti: il primo, una conflittualità urbana permanente, a volte sorda e strisciante, a volte aperta, che si configura, in modo caotico, come un nuovo tipo di lotta di classe. In secondo luogo, erompe, nella vita quotidiana, una complessità “morale” così acuta da essere vissuta quasi come insostenibile, nel senso che i dilemmi proposti sono a tal punto continui e difficilmente dipanabili da porre in crisi l’intero universo dei valori, che sembra camminare con molta maggior lentezza rispetto ai ritmi, costitutivamente frenetici, della grande città. Da ciò l’impressione che la morale e l’etica siano solo dimensioni stucchevolmente retoriche ed esornative, quasi una nebbia che impedisca di scorgere i “mali” politici e sociali, a volte incorniciandoli perfino, e dunque difendendoli e proteggendoli in una prospettiva enfatica. In terzo luogo, l’incombente tristezza si nutre delle aporie e delle difficoltà dell’amore; amare costituisce, mi pare, un bisogno originario dell’umanità, ma la paura che si addensa ne indebolisce la facoltà, trasformando la vita e la percezione del tempo, nelle grandi città, in una percezione generale d’essere “sotto assedio”; ma anche qui la condizione effettiva è assai più sfumata ed ambivalente, e in maniera incoercibile l’amore rinasce, nei punti più disparati, come spuntassero fili d’erba in una vasta distesa desertica8. E tuttavia, nell’orizzonte che ho delineato, non dobbiamo mai dimenticare che la città non è solo tessuto urbanistico, edifici di cemento e acciaio che sembrano sfidare la forza di gravità; la città è anche, e soprattutto, costituita dalle persone che la abitano, dalle relazioni che intessono, quotidianamente, fra di loro: non solo edifici, ma persone (non solo urbs, ma anche civitas); e il principio etico fondativo, meno retorico, è costituito dal diritto/dovere di ospitalità; l’ospitalità non è soltanto un codicillo, una noterella a margine dell’etica, ma costituisce, io penso, il cuore dell’etica stessa. Accenno qui a tre caratteristiche della grande città che cerca d’includere, non di escludere ed emarginare. La prima caratteristica riguarda la stessa questione abitativa, con la “fuga” ininterrotta delle periferie, e le mille difficoltà frapposte, a volte come ostacoli insuperabili, agli insediamenti umani; occorrerebbe considerare con più attenzione lo status del mercato immobiliare, che destina i pochi ad un centro privilegiato, e condanna i molti alle favelas. La seconda caratteristica: una scelta accurata e un continuo riesame critico che riguarda il linguaggio; se gli architetti e i teorici in genere si esprimono 8 Mehta, La vita segreta delle città, cit., pp. 40-60.


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in un gergo incomprensibile, il resto della popolazione non comprenderà a sufficienza e ciò avrà ricadute pesanti sulla vita quotidiana dei cittadini. Ciascuno di noi dovrà entrare a forza, dormire e vivere nell’àmbito dei sogni concepiti dagli urbanisti e progettatori. In ogni narrazione è dunque necessario selezionare con cura le parole calzanti ed adeguate; pur senza nutrire la diffusa idolatria delle parole, occorre considerare come ogni parola che usiamo sia carica di implicazioni; come mostra Mehta, esaminando la grande città di Mumbai, un conto è dire slum, un conto è dire basti, il nome caratteristico delle periferie di Mumbai. Un basti possiede spazi comunitari, dove si creano fila spontanee di cittadini, con dimensioni corali e comunitarie riservate al gioco, all’acqua, ai piccoli negozi, nel tentativo di soddisfare le più impellenti necessità umane. Dunque, un basti sembra venire incontro a quell’esigenza di personalizzazione entro uno spirito comunitario che costituisce, mi sembra, il centro pulsante di ogni utopia “buona”. La terza caratteristica: non escludere nessuno; oggi, evidentemente, la forbice della diseguaglianza si è estesa in maniera macroscopica e dolorosa; si tratta di assumere un’impostazione radicalmente differente, di educarci all’apertura della mente, evitando quella guerra tra poveri che costituisce uno dei massimi drammi del nostro tempo. Sì, occorre educarci in maniera alternativa, lavorando anche sulle nostre affezioni, in modo, ad esempio, che la nostalgia verso un certo passato perda la sua stretta angosciosa, per divenire molla, invece, tale da spingere alla ricerca di un futuro più umano.

È un po’ come sui treni per pendolari, incredibilmente affollati: lo stretto contatto con tante persone può infastidirci, la calca ti spinge giù, ma il contatto con le persone ti tira anche su, e puoi scoprire il cuore della vera utopia, dell’utopia in senso positivo. Abbandonato ogni sogno narcisista di sovranismo onnipotente, possiamo scoprire, a poco a poco, una nostra vocazione cosmopolita; ecco, la marcia dalla metropoli alla tecnopoli, dalla tecnopoli alla megalopoli e infine all’ecumenopoli sembra interrompersi, o quantomeno prendere un’altra direzione, intravedendosi l’ideale, già in cammino, della cosmopolis, cosmopolis verso cui procedere con slancio, ma anche circospezione, pienamente consapevoli delle difficoltà e dei rischi di tale itinerario. “E così sono tornato a New York, ventitré anni dopo aver messo piede per la prima volta nel terminal dell’aeroporto Kennedy, con la consapevolezza che continuerò per sempre a fare avanti e indietro. Non posso vivere né a New York, né a Bombay, ma posso vivere in un mio personale ibrido. Ho deciso, o la decisione è stata presa per me, che vivrò un’esistenza ripartita. Non sceglierò. Rivendico, con sicurezza, con orgoglio, di non essere radicato in un’unica città. Rifiuto di abitare in un’unica stanza. La mia casa ha tante stanze. La mia casa è un palazzo: è la Terra”9. Questa trasformazione, fino al midollo dei pensieri più segreti e delle abitudini, era già stata intravista da Simmel, illustrando, in particolare, le modificazioni del paesaggio, con i mutamenti che, in una specie di corto circuito, il paesaggio introduce nel-

1 - New York, Times Square. Foto Terabass, https://commons.wikimedia.org/wiki/ File:New_york_times_square-terabass.jpg

9 Mehta, La vita segreta delle città, cit., pp. 84-5.

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2, 3, 4 e 5 - Scene di vita a New Dehli. Foto di Laura Facchinelli.

la mente umana, e la mente umana entro i contorni del paesaggio10. Indice prezioso di tale profonda trasformazione il ruolo nuovo che assume, nell’ambito della grande città, lo straniero; Simmel, in un suo scritto breve ma acuto, mostra come lo straniero, nelle condizioni precedenti a quelle metropolitane, fosse precisamente un estraneo, inviso o anche benvenuto, ma comunque minoritario e ai margini rispetto alla più compatta comunità ospitante; ora, nella grande città, lo straniero non sarebbe più un’eccezione, ma una condizione maggioritaria, perfino comune, vivendo i cittadini gli uni accanto agli altri, sfiorandosi con i loro corpi e le loro vite, ma in una condizione di sostanziale misconoscenza ed estraneità11. Ma a questo punto sfociamo in un problema più ampio: come combattere, entro la grande città, il “male” politico e sociale? Come cercare, sia pur tentativamente e mantenendo il senso vivo del limite, il meglio nelle questioni, tenendo fisso lo sguardo all’ideale, ma insieme tenendo gli occhi ben aperti sulle contraddizioni e le asprezze della realtà? Ci può aiutare un breve testo di Italo Calvino, di valore straordinario, così mi sembra: Le città invisibili12. Dopo aver descritto il rapporto fra la città e il desiderio, con tocchi magistrali, e aver illuminato il nesso fra la città e lo sguardo umano, Calvino 10 G. Simmel, Saggi sul paesaggio (1913), a cura di M. Sassatelli, Armando Editore, Roma 2006. Il rapporto, di azione e reazione, fra la Psiche e il paesaggio è approfondito con efficacia da V. Lingiardi, Mindscapes, Raffaello Cortina Editore, Milano 2017: in codesto scritto, si evoca un paesaggio fiorente nell’anima e nel cervello dell’uomo, in perfetto contrappunto con il landscape, cioè il paesaggio che ci attornia. 11 G. Simmel, Lo straniero (1908), il Segnalibro, Roma 2006. 12 I. Calvino, Le città invisibili (1983), con uno scritto di P.P. Pasolini, A. Mondadori, Milano 2016.

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mette al centro della sua narrazione il Gran Khan, sovrano potentissimo di un impero esteso, trovandosi la “sua” capitale in Cina, ed estendendosi il dominio nelle sconfinate steppe asiatiche. Il Gran Khan Kublai dei Tartari ha come ospite il mercante veneziano Marco Polo, e gli pone continue domande, consultando le mappe del suo vasto impero e considerando ad una ad una le città che fioriscono sul suo territorio, come fossero delle città articolate in una successione continua. Una Sibilla, interrogata, risponde: “Vedo due città: una del Topo e una della Rondine”13. La città dei Topi è fatta di concorrenza spietata, di fame e frenetici movimenti sotterranei: i Topi più minacciosi strappano agli altri gli avanzi caduti. Ma si preannuncia un nuovo secolo, un secolo in cui tutti voleranno come le rondini nel cielo d’estate, chiamandosi come in un gioco, esibendosi in volteggi ad ali ferme… “È tempo che il secolo del Topo abbia termine e cominci quello della Rondine”. La città piena di slancio è quella che può esser grande, ma rimane agile, l’altra è quella di un’età buia, che si spera sepolta. Ma la novità non basta, ammonisce Calvino: “La città è certo cambiata, e forse in meglio. Ma le ali che ho visto in giro sono quelle di ombrelli diffidenti, sotto i quali palpebre pesanti s’abbassano sugli sguardi; gente che crede di volare ce n’è, ma è tanto se si sollevano dal suolo, sventolando palandrane da pipistrello”. A tratti, i compatti muri aprono una breccia, rivelano uno spiraglio e rifulge, improvvisamente, l’immagine di una città diversa, che però, dopo un istante, svanisce. “Forse tutto sta a sapere quali parole pronunciare, quali gesti compiere, e in quale ordine e ritmo, oppure basta lo sguardo, la rispo13 Calvino, Le città invisibili, cit., p. 151.


TRASPORTI & CULTURA N.50 sta, il cenno di qualcuno”, e allora anche un gesto disinteressato, fatto per il solo piacere di farlo, può cambiare le altezze, le distanze, trasfigurando la città, rendendola cristallina e trasparente come una libellula. Qui, volutamente, Calvino radicalizza ed esaspera il suo discorso, seguendo l’inclinazione a valorizzare la magia della parola, il suo carattere performativo e teurgico. Rimane la profezia che si sia giunti al punto che la città della Rondine stia per sprigionarsi da quella del Topo. Ora, in conclusione, il Gran Khan porge le sue mappe a Marco Polo; queste mappe offrono una cartografia non solo delle città da lui dominate, o comunque esistenti, ma anche di quelle fantastiche: Atlantide, Utopia, la Città del sole, Oceana, Armonia ed Icaria14. Kublai incalza Marco Polo: lui che conosce i segni, dica verso quale di questi futuri ci spinge il vento della storia. Marco Polo afferma di non conoscere né la rotta precisa sulla carta, né la data dell’approdo. Le mappe indicano un paesaggio incongruo ed eterogeneo, e la città per gli umani non potrà che formarsi attraverso frammenti combinati e rifusi, raccogliendo e facendo convergere una realtà profondamente discontinua. Quel che Kublai non deve credere è che si possa smetter di cercare una città pienamente umana, che dovrà essere fatta affiorare e ricomporre. Kublai sfoglia il suo atlante, e indica anche le distopie: Enoch, Babel, Brave New World, e dice sconsolato: “Tutto è inutile, se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente”. Tuttavia, la risposta di Marco è di una saggezza memorabile: “L’inferno dei viventi è quello che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme: due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”15. Ecco, attenzione & apprendimento si rivelano le dimensioni decisive, per concretare la testarda volontà del bene, e si può ricordare l’esempio di Socrate che, secondo la tradizione, attendendo la cicuta, avrebbe suonato, sul flauto, una melodia; al discepolo che, goffamente, gli domandava perché, stando lui per morire, Socrate avrebbe risposto, serenamente, che desiderava imparare a suonare il flauto, prima di morire16. In conclusione, Calvino e Simmel hanno una simile idea della città: come trama di memoria, di emozioni e desideri, di parole e ricordi, in uno scambio 14 Ivi, p. 161. 15 Ivi, p. 160. 16 Si tratta di un apologo raccontato in E.M. Cioran, Squartamento (1979), trad. it. di M.A. Rigoni- introd. di G. Ceronetti, Adelphi, Milano 2012, p. 99. In questo suo testo, che ha attirato l’attenzione di una fine critica letteraria: Maria Corti, Cioran ricava il racconto da un quadro più ampio, presente nel Fedone platonico: Platone, Fedone, IV, 60-1, trad. it. di M. Valgimigli, in Id., Opere, I, Laterza, Bari 1966, pp. 104-5. Socrate, guidato da un “sogno demonico”, lascia la filosofia, per provare una melodia al flauto, melodia poggiante sulle favole di Esopo. Lui, da sempre ragionatore, provava allora un impulso veemente, di fronte alla morte, a diventare favoleggiatore, musico e poeta. Nulla sembra a Socrate più adatto del meditare e favoleggiare intorno al viaggio ultimo e alla dimora nel mondo di là. La sobria dichiarazione di Socrate colpisce: “Io me ne vado, pare, quest’oggi”; un’affermazione asciutta ma, così mi sembra, gonfia di rimpianto, di fronte al Dio a cui dedica un inno.

incessante, non solo commerciale, ma comunicativo ed esistenziale. Di una città non godi le sette meraviglie, ma la risposta che viene da essa sembrando scaturire dal profondo e dando soddisfazione alla tua domanda cruciale, più vera17. © Riproduzione riservata

Nota Bibliografica La distinzione fra “massa” e “comunità” è sviluppata in G. Goisis, Dioniso e l’ebbrezza della modernità, Mimesis, Milano-Udine 2016. La questione della grande città s’articola con quella della crisi della democrazia: cfr. Z. Bauman- E. Mauro, Babel, Laterza, Roma-Bari 2015. Cfr. V. Giordano, Immagini e figure della metropoli, Mimesis, Milano-Udine 2013; Id. (a cura di), Linguaggi della metropoli, Liguori, Napoli 2002; Id., La metropoli e oltre: percorsi nel tempo e nello spazio della modernità, Booklet, Milano 2005. Si consideri inoltre M. Augé, Tra i confini. Città, luoghi, interazioni, B. Mondadori, Milano 2007: in questo libro si discute di “metacittà” e della dimensione virtuale; più pessimista la diagnosi di P. Virilio, Città panico, R. Cortina Editore, Milano 2004, che rappresenta la condizione della grande città come pericolosa, più rischiosa di un’esplosione nucleare. Si aggiunga il testo di V. Mele, Metropolis. Georg Simmel, Walter Benjamin e la modernità, Belforte Salomone, Livorno 2011. Occorre non dimenticare un genuino profeta dell’architettura: K.F. Schinkel, su cui v. G.P. Semino (a cura di), Schinkel, Zanichelli, Bologna 1993. Sul nostro Autore, cfr. G. Simmel, Saggi di estetica, a cura di M. Cacciari-L. Perucchi, Liviana, Padova 1970. Cfr. B.M. Mariano- C. M. Pacati, Il mito, la storia, la città, Editore Bulgarini, Firenze 1988 (antologia); M. Annunziata, Il lato oscuro delle metropoli del Golfo Arabo, “Atlante”, Treccani.it: illustra le metropoli di Kuwait City, Dubai e Abu Dhabi, con il fenomeno della Kafala, per cui molti immigrati sono garantiti, ma anche asserviti dal cittadino arabo che ne gestisce il lavoro. Per il modo di affrontare l’assieme delle questioni sollevate o sfiorate, cfr. P. Mezzi- P. Pelizzaro, La città resiliente. Strategie e azioni di resilienza urbana in Italia e nel mondo, Altra Economia, Milano 2016 (resilienza, in origine, è termine tecnico, ricavato dalla metallurgia, indicante un processo di riadattamento dei metalli, al seguito di un urto ricevuto e, in metafora, significante l’attitudine etica alla resistenza ad un male). Infine, l’orizzonte da me delineato manifesta qualche similitudine con quello tracciato da R. Bodei, Scomposizioni. Forme dell’individuo moderno, il Mulino, Bologna 2016. C. Ratti (con M. Claudel), La città del futuro, Einaudi, Torino 2017.

17 Entro la tematica della grande città, si può scorgere la fondamentale aporia antropologica individuata da Leopardi, nel suo Zibaldone: quanto più avanza la potenza dell’intelletto e la pervadenza del dominio su tutte le cose, tanto più affiora la debolezza essenziale dell’uomo, soprattutto la fragilità del suo corpo; più le abitudini si universalizzano e livellano, tanto più si sviluppano anomalie perfino selvagge e mostruose, e l’unico uomo “forte” sarebbe quello che avanza solitario, lungo il cammino dell’esistenza. La ragione può indebolire, mentre il vivere più prossimi alla natura fortifica: G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, II, 3183-5; 3058 (1823), in Tutte le opere di Giacomo Leopardi, a cura di F. Flora, A. Mondadori, Milano 1973, pp. 308311; pp. 244-5.

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Caratteri percettivo-espressivi della forma architettonica contemporanea nella valorizzazione delle identità particolari di Michele Sinico

Per quanto sia difficile e insidioso parlare della contemporaneità, alcuni fenomeni macroscopici in atto rappresentano, vistosamente, una specifica trasformazione sociale. Tra questi, uno dei più pervasivi è il processo della globalizzazione. Il termine “globalizzazione”, largamente trattato in sede sociologica e nelle scienze economico-politiche (cfr. Beck, 1997; Bauman, 1998; Stiglitz, 2002; Lindahl, 2013), conta numerose definizioni e molteplici dimensioni concettuali. Il mio intento qui però è di assumerlo esclusivamente nel suo specifico effetto totalizzante in rapporto alle identità culturali. È stato largamente discusso come l’interdipendenza tra le economie e le società mondiali abbiano prodotto diffusi effetti di uniformizzazione culturale, così come sono state ampiamente analizzate le conseguenze dell’ideologia globalistica, le cause e le conseguenze della perdita delle identità locali, risucchiate dal processo di totalizzazione, e le conseguenti reazioni conservative. Al netto di questa importante letteratura, si può isolare una dimensione propria dei processi comunicativi ed espressivi quali effetti delle modalità universalizzanti. Più precisamente, è un fatto che il processo di globalizzazione culturale si attui anche attraverso la condivisione di modalità comunicative, e che le forme della comunicazione che meglio si prestano alla circolazione transculturale siano forme universali. In seno a questa determinazione, è vantaggioso distinguere due indipendenti modalità della comunicazione visiva, quella semiotica e quella percettiva, per poi cercare di valutare come soprattutto quest’ultima contribuisca a determinare la forma nelle scene urbane contemporanee e, di ritorno, quali principali effetti siano indotti nelle identità culturali.

Perceptive-expressive characteristics of contemporary architectural form in the enhancement of specific identities by Michele Sinico The process of globalisation has a widespread impact on contemporary architecture. Among the negative aspects of globalisation are the diminishing cultural differences. This phenomenon of homogenization is also a consequence of the universal modality of communication. This paper presents an overview of perceptual communication through expressive visual qualities. Contemporary architecture uses this universal modality of communication when the research is oriented towards expressive invariants. If this universal architectural language considers the specific urban context as a sedimentation of particular expressive identities, then it can avoid regressing towards homogenization.

Comunicazione visiva: il piano semiotico e il piano percettivo In riferimento alla mediazione, è possibile a tutta prima distinguere una modalità comunicativa segnica da una modalità comunicativa percettiva (Sinico, 2012). La prima, per definizione, si attua mediante termini, quali sono i simboli, le icone e gli indici, che rimandano a un referente non presente sotto osservazione nel momento comunicativo. Viceversa, la comunicazione percettiva si attua mediante la presenza stessa del termine comunicante. Se, ad esempio, la forma stilizzata di una colonna può rappresentare un albero, un albero che nella percezione della stessa colonna esiste solo come rappresentazione mentale dell’osservatore, l’incli-

Nella pagina a fianco, in alto: particolare del Carson Pirie Scott Building di Chicago (1899) dal disegno di Louis Sullivan; in basso: Crystal Palace di Londra (1851) dal disegno di Joseph Paxton.

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TRASPORTI & CULTURA N.50 1- L’inclinazione è una determinante del peso visivo. 2 - Quale delle due figure geometriche dice: “Esigo che il mio ordine sia subito eseguito!”

nazione di un colonna (vedere esempio in Fig. 1) comunica, nel momento stesso in cui è osservata, il carattere espressivo della leggerezza - non manca una consistente letteratura nell’ambito della fenomenologia sperimentale della percezione che attesta l’influenza di fattori intermodali come l’inclinazione sul peso visivo percepito (cfr. Arnheim, 1954). Nella prima modalità comunicativa, la forma è un segno e, in quanto segno, implica una condivisione culturale del significato, così come una condivisione della conoscenza del referente rispetto a cui mettere in corrispondenza il segno. Diversamente, nel secondo tipo di modalità comunicativa, il carattere della proprietà espressiva – la leggerezza nell’esempio sopra – non richiede alcuna conoscenza condivisa o pregressa, perché si dà appunto sotto osservazione come presenza percettiva. Qualità espressive intermodali - In quest’ultimo esempio risulta evidente che un’informazione visiva ha un’influenza su un altro fattore visivo: il peso. Il peso, in questo caso, è definito come qualità terziario-espressiva, giacché non può essere ridotto a una metrica propria della dimensione

3 - Una vasca del National September 11 Memorial & Museum di New York (2012) dal disegno di Michael Arad e Peter Walker.

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fisico-quantitativa, ovvero misurato in “chilogrammi visivi”. Ciò nonostante non si tratta di percezioni che cambiano da individuo a individuo. Sebbene la valutazione sia “soggettiva”, nella misura in cui non c’è un ancoraggio metrico esterno, una unità di misura indipendente, essa si può dire oggettiva perché rispetta il criterio dell’intersoggettività. Sulla definizione delle qualità terziarie in rapporto alla misurazione, si rimanda a una trattazione specifica (Köhler, 1938; Sinico, 2012). Qui si vuole esclusivamente richiamare l’evidenza che, manipolando una proprietà percettiva, si agisce su un carattere espressivo di ordine superiore (nell’esempio sopra


TRASPORTI & CULTURA N.50 la leggerezza), che è ciò che viene comunicato. Questa modalità comunicativa non si limita alle interazioni tra diversi domini sensoriali, com’è il caso dell’effetto dell’inclinazione sul peso, ma si estende a tutte le singole proprietà percettive (quali sono le cosiddette primarie: forma, grandezza, velocità, eccetera; o secondarie: colore, sapore, timbro, eccetera), in caratteri che possono esprimere isomorfismi emozionali o morali (Sinico, 2015). Qualità espressive relazionali - È vantaggioso considerare un secondo esempio per evidenziare come il carattere espressivo, manipolando anche minime proprietà percettive, possa darsi anche nelle relazioni tra oggetti, per poter così precisare come contesti architettonici (fig. 4) presentino un’espressività intersoggettiva, sulla base di formalizzate leggi percettive. La ricerca di partenza, in questo ambito, è di Marigonda (1968). I suoi soggetti sperimentali avevano il compito di osservare coppie di semplici figure geometriche (vedi fig. 2) e di stabilire quale delle due esclamava la seguente battuta: “Esigo che il mio ordine sia subito eseguito!”. L’analisi dei dati attesta che il comando perentorio è proprio delle figure con determinate caratteristiche percettive: la figura più grande (situazione A), più grossa (situazione B), posta più in alto (situazione C), incombente (situazione D), queste sono percepite con una maggiore autorità nel rapporto interpersonale. L’aspetto rilevante della ricerca di Marigonda è che gli osservatori percepiscono precise qualità terziario-espressive, proprie delle relazioni sociali nel rapporto dominanza-subordinazione, direttamente nella relazione tra figure, non come proiezioni soggettive, ma in dipendenza a leggi percettive. In altri termini, la percezione degli aspetti espressivi è dovuta a determinate condizioni percettive, e si può definire in termini di tensioni finalizzate di campo gestaltico, o necessarietà (sul concetto di Requiredness, vedere Köhler, 1938). Questo tipo di modalità comunicativa ha un portato proprio perché, per l’appunto, le condizioni fenomeniche, sottese alla percezione delle qualità terziario-espressive, sono intersoggettive. Il criterio epistemologico dell’intersoggettività è soddisfacibile con il controllo sperimentale. Cosicché i confini dell’universalità sono, in ultima analisi, i confini stabiliti in modo empirico.

Modalità comunicativa universale nella globalizzazione L’universalità della modalità comunicativa è costitutiva nella comunicazione globalizzante nella misura in cui quest’ultima si esprime attraverso forme transculturali, in cui ci deve essere massima condivisione del “codice” espressivo. Questo vantaggio si alimenta, con tutta evidenza, entro un complesso organizzativo-economico mondiale finalizzato a ottimizzare gli scambi commerciali, la distribuzione di beni e servizi, ma anche la formazione dell’identità del consumatore (a partire dallo stile di vita e dal sé) che diventa esso stesso un termine sinergico, un comportamento coerente con le aspettative funzionali all’equilibrio di sistema. Si pensi alla sinergia funzionale data dall’uniformità di comportamento entro schemi e i contesti architettonici come per esempio gli aeroporti, spazi che hanno, soprattutto negli ultimi decenni, notevolmente ridotto le differenze.

Tuttavia, a prescindere dai motivi che causano e finalizzano i processi conseguenti alla globalizzazione, aspetti di estrema importanza ma che trascendono questa riflessione quantomeno per ragioni di spazio, è un fatto che la modalità universale di comunicazione è nel contempo una causa e un effetto dei fenomeni globalizzanti.

4 - Grattacieli con valore espressivo di dominanza: il Shanghai World Financial Center (2008), disegno di Kohn Pedersen Fox, fronteggia la Shanghai Tower (2014), disegnata da Jun Xia.

Modello percettivo-espressivo nella forma dell’architettura contemporanea - Detto ciò, si può tornare ai due modelli di comunicazione sopra accennati, e registrare come essi diano un diverso contributo nell’euristica progettuale architettonica contemporanea. Il modello “segnico”, per sua natura ancorato a un rimando, e di conseguenza a premesse di tipo culturale, risponde all’istanza dell’universalismo mediante segni culturalmente comuni. Ma questo tipo di condivisione è comunque sempre potenzialmente declinabile diversamente dalle diverse comunità locali. Da qui, il primato teorico, in termini di efficacia comunicativa, del modello percettivo che assume una mediazione transculturale nella sua essenza. Il portato di questo paradigma conduce alla valorizzazione di quel fattore progettuale che Norman (2004) ha 139


TRASPORTI & CULTURA N.50 definito come atteggiamento viscerale, fondato su basi biologiche: Noi umani ci siamo evoluti in modo da coesistere nell’ambiente con altri esseri umani, animali, piante, paesaggi, condizioni atmosferiche e altri fenomeni naturali. Come risultato, siamo squisitamente sintonizzati a recepire forti segnali emotivi dall’ambiente circostante, che vengono automaticamente interpretati al livello viscerale (2004, p. 64).

Tolto il termine “interpretazione”, che implica una discutibile assunzione qual è l’elaborazione inconscia del soggetto-macchina, secondo la parziale prospettiva teorica del noto ex rappresentante dello Human Information Processing, qui si esplicita quel rapporto di complementarietà tra organismo e ambiente che trascende il valore culturale. Nel rapporto con la biologia si deve escludere il ritorno alle forme naturali diffusamente presenti della tradizione architettonica da Aristotele e Vitruvio fino alla modernità di Horatio Greenough, con la proposta di ritrovare una matrice formale negli scheletri, nelle pelli degli animali e degli insetti, o dei motivi floreali di Louis Sullivan, quale elemento simbolico costitutivo della funzione, o di Joseph Paxton, con la nota ispirazione a una foglia della Victoria amazonica per il disegno del Cristal palace, ma anche la visione dell’architettura intrinsecamente organica alla natura di Frank Lloyd Wright, ecc. (vedi Steadman, 1979) quando esse diventino piuttosto metafora, modello, riproduzione e non invece, come quando sono, al tempo della contemporaneità, essenziale finalità comunicativa nella ricerca di invarianze espressive. Comunicazione percettivo-espressiva e il contesto - Tra gli esempi di ricerca nella comunicazione percettivo-espressiva, si possono considerare le vasche del National September 11 Memorial & Museum (fig. 3). La vasca, questa architettura per la memoria, non è infatti una nera, agghiacciante, inesorabile e violenta metafora di morte, ma piuttosto la perfetta invariante espressiva del lutto, del lutto sotto osservazione che traspone in forme e dinamica il risucchio della morte nel crollo

5 - Il World Trade Center Transportation Hub di New York, cosiddetto Oculus, (2016) dal disegno di Santiago Calatrava.

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dei grattacieli e il lento trasportare la vita nel buco nero dell’aldilà. La modalità comunicativa si attua nella presenza percettiva di un vissuto. Non si coglie un significato interpretando i segni oppure attivando una rappresentazione mentale, il coglimento è nell’atto stesso del percepire un invariante emozionale universale. L’universalizzazione della forma espressiva “viscerale” può avere, ciò nonostante, diversi addentellati con il contesto in cui è situata. Lo spazio urbano in cui un struttura architettonica trova collocazione ha infatti un suo proprio carattere espressivo che non è una semplice somma composita di elementi ma un’atmosfera (Böhme, 2006) unitaria e radicata nella tradizione culturale locale perché frutto solitamente di una lenta e dinamica strutturazione vincolata da rigorosi principi gestaltici (Arnheim, 1977). Nelle modalità in cui trovano realizzazione il processo della globalizzazione e riguardano, in certa parte, il processo architettonico, si deve distinguere una modalità comunicativa universale in grado di valorizzare la cultura locale, interagendo sulla dimensione dell’espressività con le strutture delle tradizioni particolari e, per contro, una modalità comunicativa universale, con effetto globalistico che affermi un messaggio espressivo sradicato dal contesto, contribuendo diminuire la forza dell’identità particolarità. Esiti globalistici della comunicazione percettivoespressiva - Un caso di esito globalistico in questo senso è dato dall’Oculus, del World Trade Center (fig. 5), progettato da Santiago Calatrava. Dopo aver precisato che l’analisi sulla dimensione espressiva è considerata al netto di ulteriori fattori progettuali, dati su un piano segnico, estetico, stilistico, ingegneristico, e si considerino qui già solo, nel caso appunto dell’Oculus, i numerosi vincoli dovuti alla molteplicità delle attività e dei servizi presenti nell’area o alle limitazioni dovute alla sicurezza (Dupré, 2016), eccetera, si registra da un punto di vista fenomenologico un immediato impatto “viscerale” della forma espressiva di Calatrava. E non già perché richiama la rappresentazione di un uccello, di facile associazione con il modello


TRASPORTI & CULTURA N.50 da cui è tratta l’ispirazione, ma perché, prima ancora dello schema, la forma, resa astratta dal colore acromatico bianco omogeneo, si articola in una giustapposizione tra una base compatta, visivamente pesante, e una parte sovrastante visivamente leggera composta da appendici allungate, inclinate appuntite, e alleggerite ulteriormente da un profilo ricurvo. La leggerezza visiva delle appendici si struttura in un angolo ottuso con il vertice in basso che conferisce, alle stesse “ali”, una tensione opposta alla gravità e quindi ingenera elevazione, dinamicità, a cui corrisponde l’espressione di apertura, vitalità e animatezza. Tali caratteri espressivi, insieme alle forme arrotondate, entrano in contrasto con il contesto accrescendo un effetto di salienza percettiva (per gli effetti di contrasto e salienza nella plurivocità, vedi Sinico, 2012). A questi elementari aspetti di una analisi fenomenologica, se ne potrebbero aggiungere altri, come l’asimmetria delle appendici, che riduce ciò che il gestaltista Wertheimer (1923) ha definito come il fattore “pregnanza”, e di conseguenza la stabilità visiva dell’oggetto nel suo complesso, rafforzando ancora l’effetto salienza e il contrasto con la regolarità delle forme circostanti. A prescindere da qualsivoglia giudizio di valore estetico, o di paradigma progettuale (innumerevoli esempi potrebbero trovarsi nei diversi episodi dell’architettura contemporanea) il contrasto appena evidenziato, è un contrasto che afferma valori globalistici non già perché mette in luce dissimiglianze rispetto al particolare contesto urbano, caratterizzato da una certa uniformità percettivo-espressiva, ma perché le dissimiglianze sono avulse da una sedimentazione di carattere espressivo che ha un portato identitario. E ciò vale non necessariamente per i contesti con antiche radici storiche – la scelta della scena urbana newyorkese non è stata infatti causale - rispetto ai quali contesti l’effetto qui in discussione potrebbe facilmente essere confuso con la filologia.

Per una valorizzazione delle identità particolari Per concludere, è stato ampiamente detto che, nel progetto architettonico contemporaneo, l’avvento diffuso e irrefrenabile della globalizzazione, ha ribaltato le assunzioni del “modus progettandi”, soppiantando una visione radicata nel territorio in senso geografico e culturale. Eisenman: Il problema è che la globalizzazione ha influito sul nostro modo di pensare l’architettura. Prima di oggi c’era una sorta di architettura regionale che aveva a che fare con cose come il clima, gli usi e i costumi, l’iconografia locali e così via. Tutti questi fatti locali sono stati riassorbiti dai media, e così oggi a Bilbao troviamo un edificio di Frank Gehry che non ha nulla a che fare con i materiali locali. Non c’è più alcuna sostanza nel locale. Perciò l’architettura, che era solita occuparsi del contesto, del significato e dell’estetica, deve davvero ripensare criticamente quale sia il suo ruolo oggi, quale sia il suo posto nello spazio, nel tempo, nella forma. Oggi l’architettura ha molto poco a che fare con il mondo in cui viviamo (Eisenman, 2000).

Una prospettiva progettuale opposta agli effetti globalistici è la modalità comunicativa universalizzante nel rispetto e nella assimilazione delle differenze particolari (con ciò non si afferma una posizione conservatrice, poiché l’innovazione può essere affermata con l’aggiunta di nuovi valori e non solo nella cancellazione di quelli attuali). La modalità comunicativa universale e viscerale può

infatti produrre uniformizzazione, quando - a parte l’idea progettuale, per quanto mirabile - dissocia il fruitore dal contesto e lo isola in un linguaggio unico globale. Viceversa, questa stessa modalità percettivo-espressiva può aprire ed estendere la comunicazione all’universo promuovendo e valorizzando i caratteri identitari differenti che sono propri dei contesti particolari. Una globalizzazione guidata può sfruttare insomma la potenzialità delle forme universali della comunicazione per evitare la neutralizzazione delle differenze, valorizzando la ricchezza delle identità plurime. © Riproduzione riservata

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La città nel dibattito contemporaneo fra tradizionali questioni e nuove sfide. Convegno INU a Napoli di Marichela Sepe

I territori urbani costituiscono da sempre un’importante specchio della società: le trasformazioni, le culture, le frammentazioni, le nuove identità contribuiscono a costruire uno scenario complesso, spesso difficile da analizzare, ma denso di interesse. La decima Giornata di Studio dell’INU-Istituto Nazionale di Urbanistica presieduto da Silvia Viviani – che si è tenuta a Napoli, presso il DiARC dell’Università di Napoli Federico II diretto da Mario Losasso il 15 Dicembre 2017 - ha avuto lo scopo di comprendere le mutazioni odierne della città. Il titolo scelto dai responsabili scientifici - Francesco Domenico Moccia e Marichela Sepe - Crisi e rinascita delle città/Crisis and rebirth of Cities - è stato diviso in sette sessioni che lo hanno specificato: Nuovi confini e limiti delle città; Ricostruzione post-terremoto e post-catastrofe; Resilienza, circolarità, sostenibilità; Rigenerazione urbana, beni culturali, nuovi standard; Città sana, felicità urbana e spazi pubblici; Metabolismi urbani creativi, social network e nuove tecnologie informatiche per il territorio; Infrastrutture verdi, blu e miste. Le sessioni hanno avuto quali discussant per discutere con gli autori dei paper proposti: Francesco Lo Piccolo, Carmelo Torre, Isidoro Fasolino, Sandro Fabbro, Roberto Gerundo, Massimo Sargolini, Giuseppe Mazzeo, Michelangelo Savino, Stefano Stanghellini, Michele Talia, Andrea Arcidiacono, Carolina Giaimo, Pietro Garau, Marichela Sepe, Maurizio Carta, Carlo Gasparrini, Giuseppe De Luca, Roberto Mascarucci. Alle sessioni proposte, si sono aggiunte otto sessioni speciali su argomenti centrali nel dibattito contemporaneo sulle città, che hanno contribuito a declinare ulteriormente il tema della Giornata: La geografia della rinascita urbana tra efficienza statica e dinamica; Challenges, resistances and opportunities for the inclusion of ecosystem services in urban and regional planning; Migliorare la salute migliorando le città: nuovi percorsi per l’urbanistica; Nature-based solutions: new eu topic to renature cities; Metro-conflicts. Rappresentazione e governo dei conflitti di area vasta; Greening the city: challenges and opportunities; Salute e spazio pubblico nella città contemporanea; La ricostruzione come metodo. Cosa insegna la storia recente degli eventi sismici in italia. E cinque tavole rotonde: Metabolismi creativi oltre l’urbanistica. L’ambiente di vita: dal Territorio della Governance Partecipata alla “Città/Paesaggio”, coordinata da G.Pizziolo, R. Micarelli; Workshop sulla rigenerazione urbana nel cratere sismico, prodotto dal Master nazionale annuale “Città e Territorio. Strumenti innovativi e strategie di intervento per la protezione dai rischi in aree in crisi” (UNIVPM, INU, SIU, ISTAO), coordinata da Paolo Colarossi, Giovanni Marinelli, Paolo Pasquini, Luca Domenel-

The city in the contemporary debate between traditional questions and new challenges. The INU Conference in Naples by Marichela Sepe The paper illustrates the 10th Study Day at INU - Italian National Institute of Urban Planning, which was held in Naples on December 15th, 2017 at the Department of Architecture – University of Naples Federico II. The title Crisis and rebirth of cities was developed in the many topics described in the article including: New borders and limits of cities; Post-catastrophe reconstructions; Resilience, circularity and sustainability; Urban regeneration, Cultural heritage and new standards; Sustainable public space, Healthy city and Urban happiness; Creative urban metabolism, social networks and ICT; Green, blue and mixed infrastructures. The scientific directors of the Conference, Francesco Domenico Moccia and Marichela Sepe, organized the event to debate the transformations of contemporary territories from an international point of view, inviting international experts and keynote speakers from all around the world.

Nella pagina a fianco, in alto: infrastrutture a Berlino; in basso: effetti dell’intervento di rigenerazione a Lione. Le foto che accompagnano questo articolo sono di Marichela Sepe.

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2 e 3 - Due momenti del convegno INU che si è svolto a Napoli.

la; ‘Wastescape’ e flussi di rifiuti: materiali innovativi del progetto urbanistico, coordinata da Enrico Formato; L’ecofemminismo in Italia, coordinata da Elena Mazza Niro; Contratti di fiume: quali conoscenze e competenze, coordinata da Francesco Domenico Moccia e Angioletta Voghera. Le sessioni parallele sono state anticipate dalle lectures di keynote speakers internazionali: Peter Ache, Radboud University, con la lezione dal titolo Shaping planetary urbanism, anticipating metropolitan future(s); John Pendlebury, Newcastle University, con la lezione dal titolo Heritage and Brexit; Yodan Rofe, Ben Gurion University of the Negev, con la lezione dal titolo Mobility, accessibility and urban form: technical solutions and political will, e concluse da una tavola rotonda finale con Willem Salet, University of Amsterdam, quale keynote speaker internazionale e gli esperti INU Carlo Alberto Barbieri, Carmela Giannino, Paolo La Greca, Federico Oliva, Piero Properzi invitati a discutere i temi della Conferenza. La Giornata è stata piena di spunti di interesse per il dibattito nazionale e internazionale sui temi di maggiore attualità per l’urbanistica e non solo e ogni argomento esposto nelle sessioni, tavole rotonde e lectures ha contribuito a costruire una parte significativa dell’armatura scientifica della Conferenza. L’interdisciplinarietà che caratterizza gli studi sul territorio è stata declinata dalle numerose competenze e professionalità provenienti dal mondo accademico, della professione e dell’amministrazione che si sono alternate nell’ambito dell’evento, contribuendo a declinare il Progetto Paese dell’INU. Nella sessione sui Nuovi confini e limiti delle città, Lo Piccolo ha dibattuto su come “le trasformazioni socio-spaziali che identificano l’attuale transizione post-metropolitana generano nuove geometrie 144

sociali «de-strutturate» e «disperse», che richiedono nuove categorie interpretative per gli strumenti di governo e pianificazione; e, al tempo stesso su come la pervasività della dimensione urbana, e il ruolo che ricopre per una vasta gamma di istituzioni, di organizzazioni, di soggetti e di gruppi, ne smaterializza e confonde ipertroficamente contorni e confini, diventati confusi in modo inimmaginabile”. “La proliferazione dei confini, il loro prismatico scomporsi e ricomporsi, costituisce «l’altro lato della globalizzazione», sia al livello micro degli spazi urbani «quotidiani», sia al livello macro dei flussi globali intercontinentali, sono confini convenzionali e geografici, astratti e reali, che definiscono (e limitano) spazi e fenomeni sociali: confini che mutano frequentemente nello spazio e nel tempo, includendo ed escludendo – di volta in volta – individui e luoghi, per scelta o per necessità”. Tali argomenti si sono intrecciati con quelli della sessione speciale Metro-conflicts. Rappresentazione e governo dei conflitti di area vasta, coordinata da Matteo Puttilli e Valeria Lingua, che ha “integrato diversi sguardi disciplinari ed esperienze di lavoro rispetto al tema dei conflitti, concentrando l’attenzione sulla questione dei conflitti innescati dalle difficoltà intrinseche al governo dell’area metropolitana e alla ripartizione di esternalità positive e negative in un dato contesto territoriale, legate alla presenza e/o definizione di barriere materiali e immateriali, non solo dal punto di vista delle procedure normative o politico-istituzionali, ma anche delle strategie e delle azioni dei diversi attori – pubblici e privati – che a vario titolo contribuiscono a promuovere forme di coalizione e di aggregazione a livello territoriale; e alla rappresentazione e auto-rappresentazione dell’area metropolitana, come risorsa e strumento per la gestione del conflitto, il governo del territorio di area vasta e la costruzione di una “cultura metropolitana”. In merito alla sessione sulle ricostruzioni postsisma, come afferma Massimo Sargolini, “sono necessari eventi disastrosi che, talora, procurano vittime e gravissimi danni materiali per sensibilizzare i responsabili delle politiche territoriali a dedicare più attenzione e risorse alla conoscenza di fenomeni naturali, molto frequenti nell’intero pianeta come terremoti, uragani, tsunami, eruzioni vulcaniche e frane, e le strette interazioni con i processi decisionali della governance. In particolare, l’elevata vulnerabilità di ogni infinitesima porzione di esso dovrebbe essere ormai acclarata e dovremmo essere pronti a fornire risposte adeguate, da pianificare accuratamente “in tempo di pace”, evitando di piombare in continue emergenze, ogni volta come fosse la prima volta”. Il dibattito è stato poi incentrato con Sandro Fabbro sulle idee per ricercare modalità di ricostruzione “civili”, “ovvero basate su principi democratici nel governo delle decisioni e repubblicani nell’uso delle risorse pubbliche, su garanzie massime di sicurezza per gli abitanti e su modelli urbanistici endogeni e di forte empatia con il territorio e con le sue identità storico-geografiche. Un esempio positivo in tal senso lo possiamo trovare nella ricostruzione del Friuli dopo il terremoto del 1976, che si può definire civile perché completata in tempi accettabili (dieci-dodici anni) con una quantità elevata ma non sproporzionata di risorse e senza scandali macroscopici. Ma civile anche perché democratica (nel senso di discussa e partecipata dal basso); repubblicana (in quanto


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4 - Spazio pubblico “felicemente” risolto a Bordeaux.

orientata da virtù civiche nell’uso delle risorse comuni ai diversi livelli di responsabilità dallo Stato all’ultimo Comune); urbanisticamente sostenibile (perché rispettosa di caratteristiche storiche, geografiche e antropologiche); innovativa nelle tecniche di recupero antisismico e storico-culturale dell’edilizia esistente”. Le tematiche della ricostruzione sono state altresì dibattute nella sessione speciale La ricostruzione come metodo. Cosa insegna la storia recente degli eventi sismici in Italia, coordinata da Andrea Gritti, centrata sul ruolo che può o dovrebbe giocare il mondo della ricerca per informare il processo della ricostruzione, supportando le decisioni politiche in modo che siano coerenti e assumano le conoscenze che in diversi campi si sono accumulate sulla natura dei terremoti, sui modi per rendere manufatti, città e territorio più resistenti e resilienti. D’altro canto la ricerca deve anche lavorare a stretto contatto con le comunità colpite, non tanto per “comunicare”, quanto per costruire insieme una cultura della prevenzione, in modo che i cittadini diventino più consapevoli di quanto la scienza e la tecnica possono offrire ma anche dei limiti e dell’incertezza insiti in ogni intervento, e nel contempo i ricercatori apprendano le specificità del territorio nel quale vogliono operare e per il quale propongono delle soluzioni”. I concetti di resilienza, circolarità e sostenibilità sono stati declinati nella sessione dedicata nei loro aspetti definitori ma anche empirici. Michelangelo Savino comincia il dibattito della sessione con la considerazione che “resilienza” rappresenti oggi il termine più coerente e concreto per descrivere la transizione dalla crisi alla rinascita della città. Perché la resilienza – e non solo evocativamente – richiama la crisi della città: ne ricorda le fragilità e la vulnerabilità davanti ai fenomeni naturali come alle congiunture eco-

nomiche e sociali nei loro momenti di rottura; al contempo, però, la parola – così nuova e apparentemente così avulsa dalla disciplina – contiene in sé già l’indicazione di una reazione, riassumendo in modo efficace presupposti teorici e metodologici innovativi indispensabili nell’attuale contesto per nuove azioni necessarie allo sviluppo. È una prospettiva che in sé contiene non solo il problema, ma anche la soluzione, formula obiettivi ma contestualmente indica soprattutto una strategia. È soprattutto una prospettiva che segna in modo inequivocabile il nuovo corso che la riflessione urbanistica e l’azione di pianificazione devono poter intraprendere non solo per la costruzione del futuro ma soprattutto per rispondere ai nuovi bisogni della società contemporanea che vive, produce e trasforma un territorio in evoluzione e che si trova a dover far fronte ad eventi e condizioni differenti rispetto al passato”. Per Giuseppe Mazzeo “resilienza e circolarità rappresentano due concetti avanzati, inseriti in quello più ampio di sostenibilità. Essi propongono elementi di innovazione che tendono ad incidere sui processi insediativi, sociali ed economici indirizzandoli su nuovi percorsi di crescita. In questo senso le eccezioni più recenti del termine sostenibilità sono meno divisive e più accettate sia dal sistema economico che da quello sociale. Negli ultimi decenni un numero sempre più ampio di settori della conoscenza ha utilizzato ed applicato questo concetto. Ciò ha trasformato il significato originale con il risultato che oggi non esiste una singola definizione, al punto che esso può essere visto come un concetto fluido e di confine. In particolare, la gestione dei disastri e quella dei cambiamenti climatici sono due campi nei quali la nozione di resilienza ha un uso sempre maggiore in quanto indica la capacità del sistema territoriale di rispondere a queste tipologie di pressione adat145


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5 - Particolare del Cretto di Burri a Gibellina.

6 - Particolare degli interventi di rigenerazione attuati a Marsiglia.

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tandosi agli eventi ed evolvendo verso nuovi stati diversi da quelli di partenza”. L’ampio tema della rigenerazione urbana si è arricchito nella sessione che ha avuto come discussant Andrea Arcidiacono, Carolina Giaimo e Michele Talia con quelli attualissimi della protezione dei beni culturali e dell’aggiornamento degli standard. I discussant sottolineano come sia “necessario introdurre nuove accezioni nella nozione di ‘interesse generale’ poiché da tempo è noto che l’approccio del DI 1444 - che vincola sulla carta le aree destinate all’uso pubblico a copertura dei fabbisogni generati dal piano nel rispetto di rapporti minimi obbligatori per legge - non è più perseguibile come approccio e azione esaustiva, aggiornando l’approccio quantitativo degli ‘standard urbanistici’, abbandonando l’idea che la città pubblica sia soprattutto un ‘problema fondiario’ e di quantità legato all’espansione insediativa dei centri urbani in favore di una sua considerazione di tipo prestazionale a cui riferire le modalità di valutazione e controllo dei processi di trasformazione e rigenerazione urbana, ponendo l’accento sugli effetti della distribuzione e dell’interazione dei diversi usi del suolo, letti attraverso la spazializzazione delle qualità dei servizi ecosistemici”. Di fatto “la sfida della rigenerazione non si pone più nella sola dimensione urbana, ma emerge con urgenza alla scala territoriale laddove i fenomeni dell’abbandono e del degrado assumono dimensioni e intensità sempre più pervasive. Non solo nei territori segnati dai fenomeni della grande dismissione dei sistemi produttivi industriali, o sempre più frequentemente della contrazione commerciale; ma soprattutto in quelle aree in cui gli spopolamenti insediativi e occupazionali, di contesti rurali o montani, coincidono con le situazioni della crisi economica e del degrado di luoghi e di paesaggi; in cui scompaiono le forme tradizionali della produzione, della manutenzione e del controllo del territorio e dove le forme invasive della naturalità spontanea non portano valori di biodiversità e di rinnovata ricchezza paesaggistica”. La vivibilità, felicità e salute urbana con particolare attenzione agli spazi pubblici sono stati poi al centro della sessione con Pietro Garau e Marichela Sepe come discussant. I temi di cui si dibattuto hanno riguardato le relazioni che intercorrono tra questi termini nell’ambito della realizzazione di uno spazio pubblico di qualità. Tali questioni, fortemente interrelate, vanno ulteriormente ad intrecciarsi con quelle legate al benessere e alla sostenibilità. L’agenda inglese da oltre vent’anni sta dando notevole attenzione al progetto urbano di qualità, il cui presupposto è che esso provenga direttamente dalle esperienze di luogo della gente. Come afferma la Cabe britannica, “un buon progetto può contribuire a creare luoghi vivaci con un carattere distintivo, strade e spazi pubblici sicuri, accessibili, piacevoli da usare e a scala umana, e dei luoghi che ispirano un’atmosfera positiva, grazie alla fantasia e sensibilità dei progettisti”. Fattore necessario è che le trasformazioni dell’ambiente costruito urbano siano il riflesso non solo dei cambiamenti politici, economici e culturali ma contribuiscano all’esperienza quotidiana che le persone hanno dello spazio urbano. Lo spazio pubblico, in quanto recettore di interazioni di persone, percorsi, ma anche di cambiamenti sociali e attraversamenti di idee, è in grado di riflettere in maniera evidente la felicità, la vivibilità e la salute urbana. Non ultima la connessione con i concetti di identità dei luoghi

e creatività, che, per il loro comprendere aspetti tangibili e intangibili, rimandano ad una più ampia definizione di sostenibilità. Le questioni dibattute in questa sessione sono state ulteriormente specificate in due sessioni speciali: Migliorare la salute migliorando le città: nuovi percorsi per l’urbanistica, coordinata da Rosalba D’Onofrio e Elio Trusiani e Salute e spazio pubblico nella città contemporanea coordinata da Pasquale Miano, dove è emerso che “le politiche urbane finalizzate al miglioramento della salute


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delle attuali e future generazioni comportano quasi sempre ricadute positive di tipo ambientale e socio-economico” e che “l’urbanistica è fortemente in grado di influenzare questi aspetti e nel contribuire a una governance urbana che abbia al centro “l’habitat umano” e la “qualità dell’abitare” quali esiti di un insieme coordinato di azioni integrate di carattere trasversale e transdisciplinare, finalizzate al miglioramento delle condizioni di salute e di benessere nelle città.” Tali argomenti si sono intrecciati altresì con quelli della sessione

speciale Greening the city: challenges and opportunities coordinata da Francesco Orsi, che ha indagato alcuni temi “della progettazione dei grandi spazi aperti urbani, a partire dalle relazioni tra vita sana nella città e struttura degli spazi, in riferimento ad attività pratiche dei cittadini per acquisire e migliorare l’ambiente di vita e il loro benessere. Molteplici sono i layer che si sono sovrapposti in questa impostazione: dagli aspetti ambientali (aree di contrasto allo smog, per esempio) a quelli legati alla socialità e alle attrezzature (aree per lo sport, ad esempio), dalle questioni dell’accessibilità e dei percorsi agli aspetti produttivi (agricoltura, ma anche contenitori dismessi). In questo quadro è emersa l’esigenza di progettare spazi nei quali possano combinarsi temi, programmi ed esigenze sociali diversificati, con il comune obiettivo di dare forma ad un progetto di vita più sana nella città”. Si sono integrati inoltre con i temi della sessione speciale La geografia della rinascita urbana tra efficienza statica e dinamica, coordinata da Stefano de Falco, incentrata sulle città innovatrici in grado di costruire una clima creativo, e ricche di amenities, caratterizzate da una vivacità culturale e artistica. Ed infine si è dibattuto il grande tema delle infrastrutture blu, verdi, miste. Roberto Mascarucci, discussant della sessione, imposta il dibattito sull’idea che “le proposte urbanistiche veramente capaci di attivare nuove strategie di sviluppo devono modificare le convenienze localizzative, operando sostanzialmente su: una nuova accessibilità delle aree all’interno dei rinnovati modi di utilizzare il territorio; una riorganizzazione delle funzioni urbane in ragione della nuova domanda di dotazioni territoriali; un ridisegno urbanistico delle porzioni di territorio da rigenerare; una diversa configurazione spaziale dei luoghi pubblici; una maggiore qualità delle soluzioni funzionali e formali dell’assetto insediativo. Compito della progettazione urbanistica è proprio quello di proporre nuovi modelli di organizzazione dello spazio insediativo che, a partire dalla riorganizzazione dei luoghi di relazione, sappiano reinterpretare le recenti mutazioni della società in chiave innovativa, sostenibile, inclusiva e socialmente giusta”. Anche in questo caso le tematiche si sono intrecciate ed integrate con quelle di alcune sessioni speciali quali Nature-Based Solutions: new EU topic to renature cities, coordinata da Roberto De Lotto, e Challenges, resistances and opportunities for the inclusion of Ecosystem Services in urban and regional planning coordinata da Daniele La Rosa, Antonio Leone, Raffaele Pelorosso, Corrado Zoppi, dove le questioni della sostenibilità e dei servizi ecosistemici hanno guidato il dibattito. A completare la X Giornata Studio dell’INU - che dal 2004 si svolge periodicamente a Napoli - il 16 dicembre, sempre presso il DiARC, si è tenuto il Premio di Letteratura Urbanistica dell’INU giunto alla sua V Edizione, con la premiazione delle sezioni monografia, contributo su volume, articolo su rivista ed inedito. © Riproduzione riservata

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Biennale Architettura, alla ricerca della libertà di Laura Facchinelli

Freespace, questo il tema scelto per la 16^ Mostra Internazionale di Architettura di Venezia dalle curatrici Yvonne Farrell e Shelley McNamara, entrambe docenti all’University College di Dublino e titolari della cattedra di Architettura all’Accademia di Mendrisio. L’esposizione, alla quale partecipano 65 Paesi, è programmata nelle sue sedi dell’Arsenale e dei Giardini, coinvolgendo però anche altri luoghi in città. Come ha ricordato il Presidente Paolo Baratta, nell’ambito della Biennale la prima esposizione autonoma di architettura risale al 1980, ma fu nel 1998 che l’architettura venne confermata nello statuto dell’istituzione culturale veneziana come settore autonomo. Prima limitata, come durata, a un mese, poi ampliata a tre, dal 2014 l’esposizione è stata estesa agli attuali sei mesi. Oltre ad ampliare il sistema delle arti rappresentato dalla Biennale (durante la Mostra di Architettura 2018, com’era avvenuto l’anno scorso durante la Mostra d’Arte, si svolgeranno il Festival internazionale della Danza e quello del Teatro, la Mostra del Cinema e il Festival di Musica Contemporanea), l’inserimento dell’Architettura ha avuto la finalità di fare opera di divulgazione: se le prime esposizioni erano iniziative specializzate per architetti, le edizioni recenti si sono rivolte a un pubblico più ampio, con progetti speciali, convegni, incontri con i progettisti, iniziative didattiche. La precedente edizione del 2016, curata dall’architetto cileno Alejandro Aravena, era dedicata al tema Reporting from the front. Quella di quest’anno ha invece questo titolo molto esplicito, Freespace, spazio libero. Le curatrici hanno lanciato il tema con un Manifesto. Freespace – si legge – “rappresenta la generosità di spirito e il senso di umanità che l’architettura colloca al centro della propria agenda, concentrando l’attenzione sulla qualità stessa dello spazio”. L’architettura può “offrire in dono spazi liberi e supplementari”. Freespace “invita a riesaminare il nostro modo di pensare, stimolando nuovi modi di vedere il mondo e di inventare soluzioni in cui l’architettura provvede al benessere e alla dignità di ogni abitante”. E ancora, “Può essere uno spazio di opportunità, uno spazio democratico, non programmato e libero per utilizzi non ancora definiti”. “Siamo convinti che tutti abbiano il diritto di beneficiare dell’architettura – scrivono ancora le curatrici -. Il suo ruolo, infatti, è di offrire un riparo ai nostri corpi e di elevare i nostri spiriti”. L’obiettivo della mostra è stato pertanto quello di celebrare gli esempi di generosità e sollecitudine dell’architettura, la sua capacità di promuovere il contatto fra le persone e lo spazio.

Architecture Biennale, in search of freedom by Laura Facchinelli Freespace: this is the theme of the 16th International Architecture Exhibition of Venice, curated by Irish architects Yvonne Farrell and Shelley McNamara. Freespace “represents the generosity of spirit and the sense of humanity at the core of architecture’s agenda, focusing attention on the quality of space itself... encouraging new ways of seeing the world, of inventing solutions where architecture provides for the well being and dignity of each citizen”. Of the 71 participating architects, the prizes were awarded to Portuguese architect Souto de Moura for the transformation of a convent; among the young talents to a group of Belgian architects selected for their work on a psychiatric clinic. Among the 65 National Participations, the jury selected the Swiss pavilion with its setting of empty domestic spaces, that provoke a disarming effect. The Exhibition will last six months, with a tight calendar of collateral events, special projects, meetings on architecture and educational initiatives.

Nella pagina a fianco, in alto: allestimento alle Corderie dell’Arsenale; in basso: proiezioni nel padiglione della Germania. Tutte le foto che accompagnano questo articolo, salvo l’ultima, sono dell’autrice. 1 - Nella pagina seguente, in alto: ancora un particolare dell’esposizione nelle Corterie. 2 - Nella pagina seguente, in basso: un particolare della mostra nel padiglione della Danimarca.

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TRASPORTI & CULTURA N.50 A una dichiarazione di intenti così aperta e ottimista hanno aderito 71progettisti. La mostra a tema si sviluppa all’interno delle Corderie dell’Arsenale e nel Padiglione Italia dei Giardini. La giuria ha premiato col Leone d’Oro il portoghese Edouardo Souto de Moura, presente all’Arsenale, e col Leone d’Argento come promettenti giovani partecipanti Jan de Vylder, Inge Vinck, Jo Taillieu di Ghent, nel Belgio, che espongono nel padiglione centrale dei Giardini. Di Souto de Moura vediamo le vedute aeree (prima e dopo) di un intervento compiuto una ventina di anni fa per la trasformazione del convento di Santa Maria do Bouro in albergo. Siamo nella regione dell’Alentejo. Le curatrici hanno apprezzato l’approccio al restauro, “caratterizzato da una vitalità e un’autorità che non si vedevano dal lavoro di Carlo Scarpa a Verona”, con una fattoria che diventa un universo in miniatura di strade, piazze, chiostri. “Se ci spingiamo troppo in là lo roviniamo – scrive l’architetto -; se non facciamo abbastanza, non funziona …l’unico modo per preservare il patrimonio è viverlo e utilizzarlo. Solo la vita quotidiana lo trasforma in qualcos’altro, riconoscendogli lo status di patrimonio”. I giovani progettisti del Belgio hanno presentato il progetto “Caritas” per una clinica psichiatrica, dove in origine ogni reparto era ospitato in un edificio, parte di un complesso accomunato dal medesimo stile architettonico. Dopo che alcuni degli edifici erano stati demoliti, il nuovo direttore ha deciso di fermare la cancellazione dell’esistente e lanciare un concorso di idee. Vylder, Vinck e Taillieu hanno adottato una soluzione intelligente che consisteva nel “mantenere l’edificio nello stato in cui si trovava, assecondando l’azione del tempo”, stabilizzando il tutto con travi di acciaio e completando con nuove, moderne strutture. Una serie di gigantografie documenta l’esito di “progetto sicuro di sé, in cui – come si legge nelle motivazioni - la lentezza e l’attesa permettono all’architettura di essere aperta all’attivazione futura”.

Partecipazioni nazionali Molto ampia la gamma delle possibili declinazioni del tema, com’è dimostrato dalle mostre allestite dai 65 paesi partecipanti. Padiglione Italia - “Arcipelago Italia, l’architettura come strumento di rilancio del territorio”: questo il tema sviluppato nel Padiglione Italia, curato da Mario Cucinella. Sono stati elaborati cinque progetti ibridi per la rinascita del Paese. Punto di partenza: un manifesto per il rilancio dei territori interni, ricchi di potenzialità e di bellezza, tramite l’architettura. Obiettivo: dimostrare che gli architetti, col loro lavoro, possono avere un ruolo di responsabilità sociale, realizzando costruzioni in grado di arricchire il valore del patrimonio. Le operazioni sono state condotte su territori strategici come le foreste casentinesi, l’area di Camerino colpita dal terremoto, il Basento, il Belice, la Barbagia, chiamando sei studi di architettura emergenti, coinvolgendo le università locali, attivando uno studio dei luoghi. È stata messa a punto l’idea di un edificio ibrido, che possa rispondere ai bisogni delle comunità, interpretando i possibili sviluppi futuri. Inoltre, a seguito di una call, sono state selezionate una settantina di opere contemporanee raggruppate in otto itinerari: riguardano borghi storici, paesaggi e parchi naturali. Un’operazione 150


TRASPORTI & CULTURA N.50 importante per promuovere la conoscenza del territorio italiano. Svizzera – Il padiglione svizzero è stato premiato col Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale “per una installazione architettonica piacevole e coinvolgente, ma che al contempo affronta le questioni chiave della scala costruttiva nello spazio domestico”. In scena, spazi interni come cucine e corridoi. Punto di partenza: l’architettura degli spazi domestici è un’espressione diffusa nel mondo ed è rimasta sostanzialmente immutata da tempo, a riprova della sua importanza: eppure è un’architettura che non viene osservata. La visita a un appartamento nuovo e senza arredi è riservata agli ambiti immobiliari. Come documentazione possibile c’è la fotografia, ma è non è adatta a rappresentare dimensioni e profondità. Nel padiglione svizzero si propone un percorso lungo un labirinto di prospettive interne dove, sulle pareti, ci sono le maniglie, i battiscopa, le prese elettriche e gli sportelli delle credenze. Tutto è fuoriscala, per rendere il senso dello straniamento. Gran Bretagna – Ricordiamo questo padiglione per la menzione speciale, con la quale si esprime apprezzamento per “una proposta coraggiosa che utilizza il vuoto per creare uno spazio libero destinato a eventi, performance, installazioni e dibattiti”. Il padiglione è, appunto, vuoto, ma fiancheggiato da una scala che porta in una terrazza panoramica: una specie di piazza, accogliente e aperta. Francia – “Costruire degli edifici o dei luoghi?”: questo il tema nel padiglione della Francia. Luoghi infiniti in Francia: ne sono stati individuati dieci, con le loro potenzialità, disponibili per un progetto visionario. L’hotel Pasteur di Rennes, da facoltà di Scienze a hotel; “Le Centquatre” di Parigi, ex edificio delle pompe funebri trasformato in spazio di incontri e pratiche artistiche, ibrido e in continua trasformazione; altri luoghi ad Avignone, Saint Denis, Marsiglia, Clichy, Nanterre ecc. Una serie di modelli e schede illustrative per conoscere quei luoghi che sono risorti a nuova vita. E poi cento luoghi infiniti nel mondo: i visitatori sono invitati a compilare delle schede per segnalare un luogo che ispira, che può diventare rifugio e luogo d’accoglienza, che coltiva l’inatteso, senza obbligo di consumo, “un luogo al contempo fragile e potente”. Germania – La Germania è unita ormai da 28 anni, lo stesso tempo che la vide divisa dal Muro di Berlino (1961-1989). La mostra Unbuilding Walls esamina gli effetti della divisione e il processo di ricomposizione. Vengono esaminati alcuni progetti architettonici realizzati in questi anni recenti lungo l’ex area di confine, area che era completamente vuota, nel cuore della capitale. L’eterogeneità di approcci e tipologie – spiegano i curatori - stanno a testimoniare l’ampiezza dei dibattiti sui temi dell’architettura. L’area lungo il muro va cancellata o conservata per le generazioni future? Certo è che “la ferita causata dal Muro e dalla sua striscia di morte non deve guarire solo lungo il confine. È stato ed è un processo molto complesso, tanto da un punto di vista sociale, quanto economico e culturale, che è lungi dall’essere completato”. Giappone – Attraverso la ricerca sul campo e l’osservazione diretta, ci si propone di catalogare la vita e la realtà urbana, ponendosi dal punto di vista dei fruitore. La mostra nel Padiglione Giappone 151


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3 - Nella pagina precedente, in alto: esposizione alle Corderie. 4 - Nella pagina precedente, al centro: padiglione dell’Australia. 5 - Nella pagina precedente, in basso: sala d’ingresso del padiglione della Francia. 6, 7, 8 e 9 - In questa pagina e al centro, da sinistra a destra, dall’alto in basso: particolari delle mostre nei padiglioni di Giappone, Russia, Svizzera e Italia.

– scrive il curatore – presenta una raccolta di 42 progetti da tutto il mondo realizzati negli ultimi 20 anni: design dettagliati, rappresentazioni spaziali di attività, mappe di ibridi urbani e ampi studi di edilizia rurale e villaggi di pesca colpiti da disastri naturali, tutti ideati da studi di architettura o di design o d’arte. Si tratta di una sorta di “etnografia architettonica”, che approfondisce il dibattito sulla relazione fra vita e architettura, anche pensando alla società del futuro. Russia – Una mostra di grande interesse, quella presentata nel Padiglione della Russia. Titolo: Stazione Russia. Spiegano i curatori che il tema Freespace ha un’importanza particolare, perché la Russia, 152

col suo territorio sconfinato, è abitabile solo dove passa la ferrovia. La mostra è dedicata alle stazioni ferroviarie, che danno vita alle zone ad esse adiacenti, e hanno un grande potenziale. Dopo una sezione sulla geografia delle strade ferrate del paese, vengono esposti elaborati progettuali sia d’epoca che recenti sulle stazioni. Una terza sala è dedicata alle tre stazioni di Mosca. Suggestiva l’installazione con valigie smarrite. In chiusura 7 giorni in 7 minuti, un film che sintetizza un viaggio attraverso il paese, da Mosca a Vladivostok. Finlandia – Una mostra sulle biblioteche pubbliche, che presenta 17 esempi realizzati lungo 100 anni di storia, in attesa dell’apertura della Biblio-


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teca Centrale di Helsinki. Bibliotecari locali e architetti progettisti delle biblioteche sono mind builder, architetti della mente. L’architettura può rendere uno spazio vivo e accogliente e “la qualità architettonica di un edificio – notano i curatori – non si misura dalla sua maestosità, ma dalla capacità di essere il punto di riferimento per la comunità locale”. Corea – Con la mostra Spectres of the State Avantgarde, la Corea affronta il tema della relazione fra architettura moderna e Stato. Lo fa partendo dagli anni ’60, quando ebbe inizio lo sviluppo urbanistico di Seoul e gli architetti sudcoreani incontrarono lo stato totalitario, che costituiva

l’unico punto di riferimento per poter svolgere la loro attività. La mostra inizia, in assenza di sufficiente materiale d’archivio, una storia mai scritta prima. Lo fa ricostruendo il ruolo svolto, a partire dal 1965, dal KECC, Korea Engineering Consultats Corporation, e ponendo in risalto la divergenza fra potere politico (con la sua pianificazione e il suo paradigma urbanistico) e visione creativa degli architetti. A partire da quell’origine controversa, si esplorano le potenzialità future dell’architettura e ci si interroga sul concetto di identità nazionale coreana. Israele – Al centro del padiglione Israeliano – con la mostra In Statu Quo: Structures of Negotiation

10 - In questa pagina, in alto: il progetto di Jan de Vylder, Inge Vinck, Jo Taillieu di Ghent. 11 e 12 - In questa pagina, in basso: particolare nel Padiglione Italia (a sin.) e nella mostra Freespace ai Giardini (a dx).

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12 - Allestimento nel Padiglione Italia.

13 - Progetto di Edouardo Souto de Moura, presentato nelle Corderie.

- il tema dei Luoghi Santi, che dovrebbero essere aperti, ma sono diventati chiusi, problematici. Dovrebbero esprimere tolleranza e fraternità, ma possono diventare luogo di divisioni e conflitti. L’attenzione è rivolta ai cinque più importanti luoghi sacri della Terrasanta: la chiesa del Santo Sepolcro, il Muro del Pianto, la Tomba di Rachele, la Tomba dei Patriarchi, l’Ascesa dei Mughrabi. Di ciascuno vengono presentati modelli in scala, mappe, foto, videoproiezioni. La mostra utilizza l’architettura come punto di vista per comprendere con quali modalità quei luoghi di conflitto riescono, pur nella situazione instabile, a sopravvivere. Australia - Repair è una mostra che rivendica all’architettura il ruolo di impegno nella riparazione dei danni ambientali, sociali e culturali dei luoghi di 154

cui fa parte. Gli architetti australiani lavorano in paesaggi ecologicamente sensibili, nelle città ci sono soltanto spazi residuali di vegetazione. I curatori della mostra, assieme all’artista Linda Tegg, hanno realizzato Grasslands Repair, che occupa il padiglione con una distesa erbosa, mentre le architetture scorrono in un video. Santa Sede a San Giorgio - Per la prima volta la Santa Sede partecipa alla Mostra di Architettura, e lo fa partendo dal modello della “cappella nel bosco” costruita nel 1920 da Gunnar Asplund nel Cimitero di Stoccolma. In apertura del Padiglione Vatican Chapel – un grande prato con alberi, nell’isola di San Giorgio – si incontra uno spazio espositivo dedicato proprio a quel progetto. Dieci architetti sono stati invitati a costruire, in quell’ambiente


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14, 15, 16 3 17 - Da sinistra a destra, dall’alto in basso, le cappelle progettate per il Padiglione della Santa Sede da Terunobu Fujimori, Sean Godsell Architects, Flores & Prats Architects, Javier Corvalàn Espinola.

18. - Chiostro della chiesa di San Francesco ad Amatrice. Foto di Silvio Sorcini (dal catalogo della mostra).

naturale, altrettante cappelle, intese come luogo di orientamento. Massima libertà per gli architetti, che sono stati scelti in base alla capacità di sperimentare forme nuove e all’appartenenza a diverse generazioni e a diversi continenti (Europa, Australia, Giappone, Stati Uniti, Sud America), in modo da rispecchiare l’università della Chiesa. Il visitatore può raggiungere le cappelle compiendo una sorta di pellegrinaggio spirituale. Fra gli Eventi Speciali, si distingue Borghi of Italy –#No(F)Earthquake, una mostra - organizzata dall’associazione Concilio Europeo dell’Arte e allestita nella Paradiso Art Gallery - che vuole sensibilizzare sul tema della conservazione in sicurezza dei nostri borghi, in modo che gli abitanti possano sentirsi liberi di tornare nei loro luoghi devastati

dal terremoto. Nel percorso espositivo vengono presentati cinque borghi italiani colpiti dal sisma in tempi diversi: Venzone (Friuli, 1976), San Felice sul Panaro (Emilia Romagna, 2012), Auletta (Irpinia, 1980), Amatrice e Civita di Bagnoregio (terremoto nel centro Italia, 2016). Si spiegano le modalità diverse di intervento, sottolineando che non basta ricostruire o ridare sicurezza, ma occorre stimolare la ripresa economica, attuando una “rivitalizzazione sostenibile”. Un impegno di sensibilizzazione apprezzabile per lo slancio ideale e il senso della concretezza. © Riproduzione riservata

Nella pagina seguente, incontro ravvicinato con l’edificio riprodotto in copertina. Bilbao, Offices Osakidetza, Dipartimento della salute basco. Progetto: studio Coll Barreu Arquitectos. Ultimato nel 2008 il complesso, con le sue vetrate sfaccettate, cambia il suo aspetto a seconda del punto di vista, dell’ora e della stagione, introducendo un elemento di forte dinamismo. Foto di Laura Facchinelli.

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Autori Franco Purini - Professore Emerito di Composizione Architettonica e Urbana, Università La Sapienza, Roma Giandomenico Amendola - già Prof. Ordinario di Sociologia Urbana, Università di Firenze Alberto Ferlenga - Rettore Università Iuav, Venezia Oriana Giovinazzi - Architetto, PhD Università Iuav, Venezia Andreas Kipar - Presidente e co-fondatore studio LAND, Milano Chiara Mazzoleni - Professore Associato di Urbanistica, Università Iuav, Venezia Viviana Martini - Architetto, PhD Università di Nova Goriça Stefano Maggi - Prof. Ordinario di Storia Contemporanea, Università di Siena Emanuele Saurwein - Architetto e docente, titolare del laboratorio di architettura LANDS, Lugano. Zeila Tesoriere - Prof. Associato di Composizione architettonica e urbana, Università di Palermo; LIAT ENSAP-Malaquais Leonardo Tizi - Università di Padova Francesca Pazzaglia - Prof. Ordinario di Psicologia ambientale, Università di Padova Ricciarda Belgiojoso - Docente di Architettura e arte negli spazi pubblici, Politecnico di Milano Cristiana Mazzoni - Prof. HDR, Ecole Nationale Supérieure d’Architecture de Paris-Belleville Irene Sartoretti - Ricercatrice, École Nationale Supérieure d’Architecture, Strasburgo Enzo Siviero - già prof. Ordinario di Tecnica delle costruzioni, Università Iuav Venezia; Rettore Università eCampus Giuseppe Mazzeo - Ricercatore, Istituto di Studi sulle Società del Mediterraneo, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Napoli Maria Cristina Treu - già Prof. Ordinario di Urbanistica, Politecnico di Milano Paolo Costa - già Rettore dell’Università Ca’ Foscari di Venezia e Presidente Commissione Trasporti Parlamento Europeo Rocco Papa -Professore Ordinario di Tecnica e pianificazione urbanistica, DICEA, Università di Napoli Federico II Anna La Rocca - Ricercatrice, DICEA, Università di Napoli Federico II Giuseppe Goisis - Filosofo Politico Michele Sinico - Prof. Associato di Psicologia generale, Università Iuav Venezia Marichela Sepe - Ricercatore, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Napoli

Questo numero della rivista è stato curato da Laura Facchinelli, direttrice e fondatrice della rivista, con Oriana Giovinazzi, architetto.

Copyright Questa rivista è open access, in quanto si ritiene importante la libera diffusione delle conoscenze scientifiche e la circolazione di idee ed esperienze. Gli autori sono responsabili dei contenuti dei loro elaborati ed attribuiscono, a titolo gratuito, alla rivista Trasporti & Cultura il diritto di pubblicarli e distribuirli. Non è consentita l’utilizzazione degli elaborati da parte di terzi, per fini commerciali o comunque non autorizzati: qualsiasi riutilizzo, modifica o copia anche parziale dei contenuti senza preavviso è considerata violazione di copyright e perseguibile secondo i termini di legge. Sono consentite le citazioni, purché siano accompagnate dalle corrette indicazioni della fonte e della paternità originale del documento e riportino fedelmente le opinioni espresse dall’autore nel testo originario. Tutto il materiale iconografico presente su Trasporti & Cultura ha il solo scopo di valorizzare, sul piano didattico-scientifico i contributi pubblicati. Il suddetto materiale proviene da diverse fonti, che vengono espressamente citate. Nel caso di violazione del copyright o ove i soggetti e gli autori avessero qualcosa in contrario alla pubblicazione, si prega di darne immediata segnalazione alla redazione della rivista - scrivendo all’indirizzo info@trasportiecultura.net – e questa provvederà prontamente alla rimozione del materiale stesso, previa valutazione della richiesta.

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