ANTICHE STRADE E NUOVI PAESAGGI

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LA CITTÀ DEI PEDONI

ANTICHE STRADE E NUOVI PAESAGGI 1


Comitato d’Onore: Paolo Costa già Presidente Commissione Trasporti Parlamento Europeo Giuseppe Goisis Filosofo Politico, Venezia Franco Purini Università La Sapienza, Roma Enzo Siviero Università telematica E-Campus, Novedrate Maria Cristina Treu Architetto Urbanista, Milano Comitato Scienti co: Oliviero Baccelli CERTeT, Università Bocconi, Milano Alessandra Criconia Università La Sapienza, Roma Alberto Ferlenga Università Iuav, Venezia Anne Grillet-Aubert ENSAPB Paris-Belleville, UMR AUSser Massimo Guarascio Università La Sapienza, Roma Stefano Maggi Università di Siena Giuseppe Mazzeo Consiglio Nazionale delle Ricerche, Napoli Cristiana Mazzoni ENSA Paris-Belleville, UMR AUSser Marco Pasetto Università di Padova Michelangelo Savino Università di Padova Luca Tamini Politecnico di Milano In copertina: la via Appia nei pressi di Pontinia. Foto di C. Pallini.

Zeila Tesoriere Università di Palermo - LIAT ENSAP-Malaquais


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Rivista quadrimestrale gennaio-aprile 2023 anno XXIII, numero 65 Direttore responsabile Laura Facchinelli Direzione e redazione Cannaregio 1980 – 30121 Venezia e-mail: laura.facchinelli@trasportiecultura.net laura.facchinelli@alice.it Comitato Editoriale Marco Pasetto Michelangelo Savino Coordinamento di Redazione Giovanni Giacomello Redazione Giusi Ciotoli Marco Falsetti

5 ANTICHE STRADE E NUOVI PAESAGGI di Laura Facchinelli

7 STRADE, PAESAGGI, ARCHITETTURA. UNA POSSIBILE LINEA DI LAVORO

Traduzioni in lingua inglese di Olga Barmine La rivista è pubblicata on-line nel sito www.trasportiecultura.net 2022 © Laura Facchinelli Norme per il copyright: v. ultima pagina Editore: Laura Facchinelli C.F. FCC LRA 50P66 L736S Pubblicato a Venezia nel mese di aprile 2023

Autorizzazione del Tribunale di Verona n. 1443 del 11/5/2001 ISSN 2280-3998 / ISSN 1971-6524

di Alessandro Raffa

79 EMBEDDING THE MAHMOUDIEH CANAL INTO THE AXIS OF HOPE AT ALEXANDRIA, EGYPT by Eshraq Marey and Cristina Pallini

di Cristina Pallini

13 INGRESSI/”PUNTI SIGNIFICATIVI” A NORD DI ROMA ANTICA. PERMANENZE, EMERGENZE, SEGNALI VISIVI DI ROMA MODERNA E CONTEMPORANEA di Angela Bruni

23 VILLA ADRIANA E LE ALTRE: STRADE, VILLE E COMPLESSI MONUMENTALI DELL’AGER TIBURTINO. VERSO UNA NUOVA IDEA DI PAESAGGIO PER LA UNESCO BUFFER ZONE di Valerio Tolve

La rivista è sottoposta a double-blind peer review

71 PAESAGGI ED ECOLOGIE DI MOBILITÀ LUNGO LA STRADA LITORANEA NELLA COLONIZZAZIONE FASCISTA DELLA LIBIA

33 ATTORNO AD UNA CARTOGRAFIA CONTEMPORANEA DELL’AGRO PONTINO di Alessandro Isastia

41 RISES AND FALLS OF NINFA ALONG VIA PEDEMONTANA by Mevluti Cihan Alkan

51 I TRATTURI, LE INVISIBILI VIE DELLA TRANSUMANZA di Davide Libretti, Houssam Mahi e Francesco Martinazzo

59 LA VIA EGNAZIA A SALONICCO. ARCHITETTURA E PROCESSI INSEDIATIVI di Cristina Pallini

89 SULLE STRADE DEL CINEMA: FUGHE, SPAESAMENTI, ESPLORAZIONI di Fabrizio Violante

97 INFRASTRUTTURE DI TRASPORTO E TERRITORIO: IL QUARTO CICLO DI INCONTRI PRESSO L‘ATENEO VENETO di Giovanni Giacomello


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Ancient roads and new landscapes by Laura Facchinelli

In this issue of the magazine, we wish to look back on, suggest, expand some of our understandings. To review the processes of knowledge about the mobility infrastructure that we have delineated since our very rst issue, beyond all clichés and technical jargon. Demonstrating, for example, that a train station is not a mere infrastructure organized for train circulation, it is also history, architecture, the focal point of an urban area. Similarly, an airport is not merely a complex organism that controls air traffic, it too has evolved over time; it can (and should) be architecture, and it is certainly a critical element in the transformation of a territory. In a nottoo-distant past, multidisciplinary approaches were not commonly accepted: importance was given exclusively to technical and functional aspects. We have often dealt with roads, focusing our attention – as is our vocation – to the aspects of regional planning. We have considered streets and highways as architectural elements seen “from the outside”, in terms of their visual impact and the effects of their physical presence (from their integration into the landscape to pollution). We also studied the elements that constitute a road from the point of view of those who, driving on it, see it “from the inside” (including motorway restaurants, service stations and accessory elements, some of which have a strong impact, such as noise barriers). Based on the understanding that roads have their own history and that, in addition to ensuring connections over long and short distances, they can be a critical factor in the development of a speci c territory or a country. An interesting fact is the endurance of the routes: from the Roman roads (which were established along routes that could be travelled with the vehicles of the times) and the medieval routes (which generally reused existing roads), all the way to today’s connections, with roads that have progressively been perfected on a technical level, the railroad tracks laid in the nineteenth century, and the highways built in the twentieth century. In fact most of today’s routes coincide with those that were traced in Antiquity, with the variations made possible by increasingly bold technologies, such as those used to build tunnels and viaducts. Since their very origins, cities have developed along roads, and that is where they have found their vitality. Today, the cities themselves still contain within them the memory of the ancient routes: in the urban con guration, in the monumental gates, in the walls that for centuries have provided them protection, before being generally torn down to allow the city to expand into new districts. The fragments of the memories that have survived still constitute a powerful factor of identity. The historical considerations that we have explored in various monograph issues of the magazine are integrated in the pages that follow, thanks to the wide-ranging project conceived by the curator, by other speci c aspects (settlements, enduring elements, transformations, etc.) that she herself explains in the opening pages. And that become quite evident in her decision to present them in detail in relation to speci c territories, such as Hadrian’s Villa in the monumental complex of Ager Tiburtino, such as Via Egnazia – with extremely interesting and original keys to their interpretation. And digressions lled with surprises, such as transhumance routes. Or the reading of a strati ed territory using cartographic transcriptions. Historic understanding. And a multidisciplinary reading of the territory. All of which hinges on the functional, symbolic and cultural value of mobility infrastructures that – yesterday like today – shape and give life to the landscape.

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Antiche strade e nuovi paesaggi di Laura Facchinelli

Con questo numero della rivista ci proponiamo di rammentare, suggerire, ampliare alcune nostre consapevolezze. Rammentare i percorsi di conoscenza sulle infrastrutture della mobilità che abbiamo delineato n dal primo numero, al di là dei luoghi comuni e dei tecnicismi aziendali. Testimoniando, per fare qualche esempio, che una stazione ferroviaria non è solo infrastruttura organizzata per la circolazione dei treni, ma è anche storia, architettura, punto focale di un’area urbana. E che, analogamente, un aeroporto non è solo un organismo complesso che gestisce il traffico aereo, ma ha avuto un’evoluzione nel tempo; che può (dovrebbe essere) architettura, che sicuramente è elemento determinante per la trasformazione del territorio. In un passato non troppo lontano, i tentativi di approccio multidisciplinare non erano condivisi: si dava importanza esclusivamente gli aspetti tecnici e funzionali. Delle strade ci siamo occupati spesso, prestando attenzione – secondo la nostra vocazione – agli aspetti della progettazione nel territorio. Abbiamo considerato la strada/autostrada come elemento architettonico visto “dall’esterno”, col suo impatto visivo e gli effetti della sua presenza sica (dall’inserimento paesaggistico all’inquinamento). Abbiamo anche studiato gli elementi che costituiscono la strada dal punto di vista di chi, percorrendola, la vede “dall’interno” (compresi autogrill, stazioni di servizio ed elementi accessori ma di forte impatto come le barriere fonoassorbenti). Questo partendo dalla consapevolezza che l’arteria stradale ha una propria storia e che, oltre a realizzare collegamenti sulle brevi e lunghe distanze, può dare un impulso determinante allo sviluppo di uno speci co territorio e di un Paese. Un dato interessante è la persistenza dei tracciati: dalle strade romane (per le quali si individuavano i percorsi praticabili con i mezzi di allora) a quelle medioevali (che per lo più riutilizzavano le vie esistenti) via via no ai collegamenti moderni, con le strade via via perfezionate sul piano tecnico, coi tracciati ferroviari nell’800, con le autostrade nel ‘900. Di fatto molti dei percorsi attuali coincidono con quelli già individuati nell’antichità, con le varianti rese possibili da tecnologie sempre più audaci, come quelle per costruire gallerie e viadotti. Le città si sono sviluppate, n dalle origini, lungo le strade, e in quelle hanno trovato la propria vitalità. Le città stesse recano ancor oggi, al loro interno, la memoria degli antichi tracciati: nella con gurazione urbana, nelle porte monumentali, nelle mura che, nei secoli, hanno segnato gli apparati di protezione, poi generalmente abbattuti per consentire l’espansione con nuovi quartieri. I brani di quelle memorie che si sono conservati costituiscono ancor oggi un potente fattore identitario. A queste considerazioni di carattere storico che abbiamo maturato nei vari numeri monogra ci della rivista si aggiungono, nelle pagine che seguono, grazie al disegno ampio pensato dalla curatrice, altri aspetti particolari (insediamenti, persistenze, trasformazioni ecc.) che lei stessa spiega in apertura. E che acquistano grande evidenza grazie alla scelta di presentarli nel dettaglio di territori ben precisi - come la Villa Adriana nel complesso monumentale dell’Ager Tiburtino, come la via Egnazia - con chiavi di lettura di grande interesse e originalità. E con digressioni ricche di sorprese come le vie della transumanza. O la lettura di un territorio strati cato attraverso la trascrizione cartogra ca. Consapevolezza storica, quindi. E lettura multidisciplinare del territorio. Il tutto facendo perno sul valore funzionale, simbolico e culturale delle infrastrutture della mobilità che – ieri come oggi – danno forma e vita al paesaggio.

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Strade, paesaggi, architettura. Una possibile linea di lavoro di Cristina Pallini

Le Corbusier, n dalla prima stesura di Vers une architecture (1923), rileva un’identità di sostanza tra strada e architettura. Negli edici-viadotto ideati per Rio de Janeiro, Montevideo, San Paolo e Algeri, palese è il ruolo ordinatore della strada, così come nell’impianto del villaggio cooperativo (1934) che aggrega i magazzini e i servizi delle fattorie radiose lungo una strada raccordata all’infrastruttura di livello superiore1. Nelle conferenze che tiene in Italia nel giugno 19342, Le Corbusier dichiara che la nuova civiltà della strada avrebbe ridimensionato l’importanza della ferrovia, neutralizzando l’antagonismo tra città e campagna: “Urbanizzare le città è ‘urbanizzare’ le campagne! Stabilire delle vere regioni e renderle vitali con il nuovo contatto tra le campagne e la città, contatto che la strada moderna sta per determinare”3. Nel 1936, in occasione della visita a Ivrea con Adriano Olivetti che lo porta nell’area dove sarebbero sorte le abitazioni popolari e l’asilo nido, coglie le potenzialità di quel progetto in divenire, tanto da de nire via Castellamonte “la strada più bella del mondo”4. Molte delle sue 1 Le Corbusier, “La Ferme radieuse. Le village radieuse”, in Réorganisation agraire, numero monogra co di L’Homme Réel a cura di Norbert Bezard, n. 4, novembre 1934, pp. 54-59. Si veda anche Sante Simone, a cura di, La Fattoria Radiosa e il Centro Cooperativo, Armillaria, Roma 2018. 2 Invitato a Roma da Pietro Maria Bardi e Massimo Bontempelli, Le Corbusier sperava che un incontro con gli alti quadri del regime fascista potesse tradursi in un incarico per la progettazione della terza città dell’Agro Pontino. Cfr. Marida Talamona, “Roma 1934”, in Marida Talamona, a cura di, L’Italia di Le Corbusier 1907-1965, Electa, Milano 2012, pp. 241-26; Giorgio Ciucci, “A Roma con Bottai”, in Rassegna, n. 3 1980, pp. 66-71. 3 Le Corbusier, “Misure d’insieme”, in Quadrante n. 13, 1934, pp. 18, 25. 4 Allora via Castellamonte, oggi via Jervis, era caratterizzata dalla fabbrica in mattoni rossi costruita nel 1896 e successivamente ampliata, accanto alla quale Luigi Figini e Gino Pollini avevano da poco realizzato il primo edi cio in cemento armato e vetro (1934-1935). I successivi ampliamenti, e la realizzazione della fascia dei servizi sociali sul lato opposto della strada, radicarono

Roads, landscapes, architecture. A possible line of work

by Cristina Pallini

The concept of the road has played a signi cant role in the architecture of the Modern Movement. Le Corbusier identi ed two “dimensions” of the road: it connects human settlements and functional areas, providing scenic views, and it serves as an ordering element for human activities. After the Second World War, when reconstruction was a priority, the road once again became a catalyst for collective life in many European cities. Ancient roads were an actual founding act, a harbinger of architectural works and new settlements. Long-distance roads have left their mark on cities and geographic spaces, becoming territorial strongholds for the architectures they have seeded. This issue explores several ancient roads and long-distance routes that have either maintained or lost their signi cance, preserving buildings and spaces that complement the dynamics of exchange. By comparing some of these cases, we can generalize the relationship between the historical landscape and its projection towards the future. In this transition, ancient roads have often represented a symbolic resource. Questioning the concept of heritage as a ‘latent order’ awaiting future interpretations transcends the dichotomy between new and old.

Nella pagina a anco, in alto: Luigi Figini e Gino Pollini, Ampliamento delle officine Olivetti lungo la via Jervis a Ivrea, 19391940 (collezione privata). In basso: Giuseppe De Finetti, Strada Lombarda a Milano, 1944-1946. Nella didascalia originale, De Finetti speci ca che i tre piani serviti da percorsi pubblici sono collegati da scale mobili e che la strada sotterranea a quota – 6 è servita da un mezzo di trasporto collettivo (Giovanni Cislaghi, Mara De Benedetti, Piergiorgio Marabelli, a cura di, Giuseppe De Finetti, Milano. Costruzione di una città, Hoepli, Milano 2002, p. 642).

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Senz’altro la strada è stato un tema dirimente nel pensiero architettonico del Movimento Moderno5; tema ripreso nel secondo Dopoguerra, quando, di fronte al problema della ricostruzione, la strada torna a radicarsi nella speci cità dei singoli contesti come scena della vita collettiva. A Rotterdam Johannes van den Broek e Jaap Bakema realizzano la prima strada pedonale d’Europa (Lijnbaan, 1953) che articola nella sezione del basamento le relazioni fra spazio civico, negozi e abitazioni. A Milano Giuseppe De Finetti propone un ampliamento della Galleria Vittorio Emanuele, immaginando una strada in grado di smistare su più livelli il traffico carrabile e quello pedonale, con scale mobili e nastri trasportatori (Strada Lombarda, 1944-1946). La Galleria ottocentesca diventa parte di un nuovo impianto a scala urbana che raccorda il sistema di piazze a nord del Duomo e dialoga con l’orientamento dell’antico decumano6. A Sesto San Giovanni, nel solco di questa ritrovata dimensione pubblica della strada, Piero Bottoni concepisce la Strada Vitale (1962-1963): “In gioco è la qualità dell’abitare e la possibilità di rendere ospitale una città cresciuta sotto il segno della valorizzazione esclusiva delle rendite e dei pro tti industriali”7. Come De Finetti, Bottoni ha in mente la sezione di alcune strade milanesi, e progetta un quartiere di edilizia popolare incardinato su una strada porticata, lungo la quale i negozi si alternano a “tutto quanto si attiene alla vita sociale”. Il quartiere avrebbe potuto essere realizzato per tratte successive con la strada a garantire il rapporto tra residenze, servizi e funzioni di livello urbano. 1 - Lo stabilimento Fiat Lingotto a Torino con la pista di collaudo sul tetto (Le Corbusier, Vers une architecture, Crès et Cie, Parigi 1924, p. 242).

architetture introietteranno la strada, declinata come “linea di movimento” con una propria espressione formale: basta pensare alla rue corridor nell’Unité d’Habitation (1946) o al percorso pedonale che attraversa il Carpenter Center (1961) offrendo una vista simultanea dell’intero funzionamento dell’edi cio. Si potrebbe sostenere, con una certa forzatura, che Le Corbusier centra due diverse “misure” della strada: la strada/condotto/ponte che stabilisce relazioni fra insediamenti umani, fra zone e funzioni diverse della città, offrendo al viandante una visione privilegiata sul paesaggio; la strada come organismo ordinatore delle attività di vita associata. l’architettura della fabbrica nel paesaggio circostante affermando la frontalità tra residenza, spazi collettivi e luoghi del lavoro.

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Nel gennaio 1999, Casabella pubblica il numero monogra co Sulla Strada/About Roads, nel quale Bernardo Secchi sostiene la necessità di restituire alla strada il suo spessore funzionale e semantico8. Dopo circa vent’anni, Éric Alonzo torna sulla questione 5 Marilena Kourniati, “La rue dans la pensée architecturale «moderne»”, Les Cahiers du Centre de Recherches Historiques, 1996. 6 Giuseppe De Finetti si avvale anche di parametri economici per argomentare la sua proposta, che riporta alla mente gli studi di Leonardo da Vinci per la città su più livelli. Cfr. Giovanni Cislaghi, Mara De Benedetti, Piergiorgio Marabelli (a cura di), Giuseppe De Finetti, Milano. Costruzione di una città, Hoepli, Milano 2002, pp. 629-644. 7 Giancarlo Consonni, Ludovico Meneghetti, Graziella Tonon, Piero Bottoni. Opera completa, Fabbri, Milano 1990, pp. 404-405. 8 Bernardo Secchi, “Lo spessore della strada”, in Casabella, n. 553-554, pp. 38-41.


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della strada nel dibattito architettonico9. Ripercorrendo le principali posizioni teoriche, individua un punto di svolta nell’istituzione dell’École des Ponts et Chaussées nella Francia di metà Settecento: nell’epoca d’oro del Grand Tour, le strade diventano un ambito di progettazione speci co, deputato a valorizzare la percezione delle città e del paesaggio. Un’ulteriore svolta si compie nel secondo dopoguerra quando, nonostante il ritrovato ruolo sociale della strada, la città si dissolve nell’ingegneria del traffico. Nel volume L’architettura della strada: Forme Immagini Valori, Roberto Secchi e Leila Bochicchio riportano la strada al suo rapporto siologico con il territorio, le città e gli edi ci10. Le antiche strade, come la Via Appia, erano un vero e proprio atto fondativo, foriero di opere di architettura e nuovi insediamenti. Nel corpo delle città, come negli spazi geogra ci attraversati, le strade di lungo corso hanno sedimentato architetture che dialogano a distanza: non episodi a sé stanti, bensì veri e propri caposaldi territoriali11. Da questo punto di vista, un caso emblematico è quello di Pavia dove, in epoca viscontea e sforzesca, l’impianto romano di fondazione ritrova un nuovo ruolo. Per facilitare i transiti da e per Genova l’antico cardo, ricalibrato e lastricato, catalizza una serie di interventi in rapida successione: il Ponte Coperto sul Ticino a presidio della via navigabile tra la Padania occidentale e l’Adriatico (13511354), il Castello (1360-1370) con la Cittadella, il Parco vecchio e il Parco nuovo, lo Studium (1365), la Certosa (1396) e l’Ospedale San Matteo (1448). Sulla cosiddetta Strada Nuova si alternano così concentrazione, introversione e dilatazione spaziale, tanto da con gurare un nuovo modello insediativo, innestato sulla città ma proteso verso un più ampio respiro territoriale12: “… sono due le questioni: da una parte c’è la città, dall’altra c’è la strada lombarda per Genova che deve trovare a Pavia il suo momento di monumentalizzazione, attraverso la messa in sequenza di 9 Eric Alonzo, L’architecture de la voie. Histoire et theories, Editions Parenthèses-Ecole d’architecture de la ville et des territoires, Marseille-Champs-sur-Marne, 2018. 10 Roberto Secchi, Leila Bochicchio, L’architettura della strada: Forme Immagini Valori, Quodlibet, Roma 2020. 11 Il tema del ruolo territoriale dell’architettura è stato messo a fuoco nella didattica del progetto in” collaborazione con Antonio Acuto presso la Facoltà di Architettura (poi Facoltà di Architettura Civile) del Politecnico di Milano tra il 1991 e il 2004. 12 Antonio Acuto, “Università e territorialità: lo Studium generale a Pavia”, in Zodiac n. 7, 1992, pp. 14-33.

fatti importantissimi”13. Saranno proprio gli architetti BBPR con Ernesto Aleati, Gaetano Ciocca e Maurizio Mazzocchi, a immaginare una moderna Strada Nuova nel progetto per il piano regolatore del 1933. La Pavia del futuro avrebbe avuto un “retti lo” lungo la camionale per Genova, che avrebbe aggregato gli impianti produttivi, il quartiere degli studi e la città balneare sulla riva del Ticino14.

2 - E. Mariani, ricostruzione della planimetria del Parco ducale innestato sul Castello Visconteo alla testata settentrionale di Strada Nuova (Carlo Magenta, I Visconti e gli Sforza nel Castello di Pavia, Milano 1883).

13 Antonio Acuto, “Città Ticino”, in Ricordo di Antonio Acuto, Clup, Milano 2005, pp. 203-204. 14 Gaetano Ciocca, Ernesto Nathan Rogers, “La città corporativa”, in Quadrante n.10, 1934, p. 40; Gaetano Ciocca, “Per la città corporativa”, in Quadrante n.11, 1934, pp. 10-21; Gian Luigi Ban , Ludovico Barbiano di Belgioioso, “Urbanistica anno XII. La città corporativa”, in Quadrante n.13, 1934, pp. 1-2; Gian Luigi Ban , Ludovico Barbiano di Belgioioso, “Urbanistica corporativa”, in Quadrante, n.16-17 1934, p. 40. Si veda anche Maurizio Meriggi, “La città futura della Valle Padana Superiore nei Progetti di Gaetano Ciocca”. In C. Pallini e P. Posocco (a cura di), Città e campagne del Ticino, idee di architettura per costruire nuovo paesaggio, Clup, Milano 2002, pp. 222-231.

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3 - Johannes van den Broek e Jaap Bakema, il Lijnbaan a Rotterdam, 1953. Sezione che mostra le connessioni che caratterizzano il basamento (Dirk van den Heuvel, a cura di, Jaap Bakema and the open society, Archis, 2018, p. 259)

A partire proprio dall’interesse per il caso di Pavia, più di vent’anni fa il “Corridoio Ticino” fu al centro di una ricerca collettiva condotta in ambito universitario che si proponeva di dimostrare il ruolo decisivo del paesaggio storico nel determinare la concreta congurazione della città futura15. La valle del Ticino e il sistema irriguo da esso derivato veniva considerata un “corridoio culturale”: non un inventario di paesaggi e storie locali, bensì l’organizzarsi di una armatura ad un tempo idrogra ca e insediativa che fondava e formava i suoi caratteri originari sui paesaggi delle manifatture, dell’accessibilità e dello scambio. L’ipotesi di lavoro era che alle sue emergenze ambientali e monumentali potesse essere attribuito un ruolo strutturante rispetto ai fenomeni insediativi in atto16. In questa chiave veniva15 Coordinata da Antonio Acuto, la ricerca è stata sviluppata nell’ambito della sezione Architettura della città policentrica presso il Dipartimento di Progettazione dell’Architettura del Politecnico di Milano, trovando momenti di confronto nei seminari di progettazione architettonica e urbana Città e campagne del Ticino idee di architettura per costruire nuovo paesaggio (2000, 200 I, 2002), promossi dalla Facoltà di Architettura Civile del Politecnico di Milano in collaborazione con l’amministrazione Comunale di Vigevano. Cfr. Cristina Pallini e Pisana Posocco (a cura di), Città e campagne del Ticino, cit.; Antonio Acuto, Francesca Bonfante, Vincenzo Donato, Gian Paolo Semino, “Ricerche per l’architettura della Città Ticino”, in Federico Bucci (a cura di), Periferie e nuove urbanità, Electa, Milano 2003, pp. 42-47; Francesca Bonfante, “Il paesaggio dei bacini uviali della Lombardia nel progetto della città futura”, in Giancarlo Motta e Carlo Ravagnati, a cura di, Alvei meandri isole e altre forme urbane, Franco Angeli, Milano, pp. 87-106. 16 La valle del Ticino è stata al centro del dibattito, per la realizzazione della linea ad alta velocità LioneTorino-Milano, la riorganizzazione del sistema logistico e delle connessioni tra valichi e porti, l’accessibilità all’aeroporto di Malpensa.

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no prese in esame le città medie di Pavia, Vigevano, Novara, Abbiategrasso e altre più piccole come Laveno e Arona, all’interno dell’assetto vasto e complesso della direttrice uviale: un’“identità geogra ca” concretamente disvelata nel rapporto tra il carattere dell’architettura e le strategie di governo del territorio storicamente sedimentate e in continuo divenire. L’idea di questo numero nasce da qui, ossia dal provare a storicizzare il problema della “proiezione verso il futuro”, attraverso la ricognizione consapevole delle possibili risorse, siano esse svelate o celate. I contributi che seguono prendono in esame una serie di antiche strade e itinerari di lungo corso che hanno mantenuto, o perduto, la loro importanza, conservando edi ci e spazi complementari alla dinamica degli scambi. Alcuni di questi casi consentono di generalizzare, per confronto, la questione del rapporto tra paesaggio storico e proiezione verso il futuro, una transizione nella quale le strade hanno spesso rappresentato anche una risorsa simbolica. I primi cinque articoli riguardano l’Italia centro-meridionale. Angela Bruni si focalizza sugli innesti della Via Flaminia e della Via Cassia a nord di Roma, sui quali si sono appuntati una serie progetti, sedimentando una sequenza di architetture e fatti urbani monumentali. Valerio Tolve presenta il territorio di Tivoli al crocevia tra la Via Tiburtina e il ume Aniene come caso esemplare del rapporto tra infrastrutture della mobilità e paesaggio classicamente inteso. I due articoli successivi si concentrano sull’Agro Pontino, che Paolo Rumiz ha denito un mondo ancien regime in antitesi


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con l’idea moderna di infrastruttura17. Alla ne del Settecento, questa pianura fu ricondotta a un ordine geometrico dettato dal rettilineo della Via Appia, riportato in funzione con il suo canale, “asse delle boniche” anche prima degli anni Trenta. Alessandro Isastia propone una rappresentazione cartogra ca ad hoc per questo territorio. Nei periodi in cui l’Appia era impraticabile, tra Roma e Napoli ci si spostava lungo la Via Pedemontana dove, prima delle paludi, sorgeva la città di Ninfa. Mevlut Cihan Alkan associa vedute e diari di viaggio per evocare la magia di quel luogo sospeso tra natura e arti cio. Nell’articolo sui tratturi di Davide Libretti, Houssam Mahi e Francesco Martinazzo emerge il tema della migrazione stagionale come veicolo di appartenenza a un determinato orizzonte geogra co e culturale. Quei percorsi erbosi, sassosi o in terra battuta tenevano vivi legami culturali tra luoghi molto distanti dell’Appennino e dell’Adriatico. In Puglia come nell’Agro Pontino, i programmi di colonizzazione interna avviati negli anni Trenta li hanno inglobati nella rete stradale trapuntata da case coloniche, borghi e città nuove. Del resto, agli occhi dell’ingegnere milanese Cesare Albertini, Littoria, Sabaudia e Pontinia erano “città di strade”18. Gli ultimi tre articoli allargano lo sguardo fuori dall’Italia, a partire dal prolungamento dell’Appia nella Via Egnazia. Come la strada per Genova a Pavia, così la Via Egnazia, dopo aver attraversato un’immensa pianura di steppe e paludi, trova a Salonicco il suo momento di monumentalizzazione. Nel 1923, quando Le Corbusier pubblica le foto del Lingotto con la pista di collaudo in copertura, quella pianura è affollata dai greci costretti a lasciare l’Asia Minore. La Via Egnazia si carica di valore simbolico, riportando nella memoria collettiva l’origine ellenistica di quei luoghi. La questione del rapporto tra strada e processi insediativi ritorna nell’articolo di Alessandro Raffa, dedicato alla Litoranea costruita dagli italiani in Libia. Il signi cato contraddittorio della nuova infrastruttura deriva dal suo duplice ruolo: a supporto dello sviluppo turistico e della messa a coltura del territorio attraversato. La strada infatti offriva un osservatorio privilegiato sui nuovi insediamenti rurali costruiti dagli 17 Paolo Rumiz, Appia, Feltrinelli, Milano 2016. 18 Cesare Albertini, “Città di strade”, in Le strade, TCI, 1935, pp. 241-247.

italiani in Cirenaica e Tripolitania tra il 1938 e il 1939. L’ultimo contributo della sezione “Trasporti” ci riporta all’attualità, prendendo le mosse dalla recente copertura del Canale Mahmoudieh che collegava il Nilo al porto di Alessandria d’Egitto. Per affermare un’idea di modernità, il paesaggio storico è stato cancellato. La sezione “Cultura” include l’articolo di Fabrizio Violante sulla strada e il viaggio nell’immaginario cinematogra co, una prospettiva privilegiata per cogliere la dimensione antropologica del paesaggio. Tra le righe, nonché dall’apparato iconograco di alcuni articoli, emerge l’importanza di un approccio interpretativo alla cartogra a, capace di restituire con una certa immediatezza il rapporto tra le forme del luogo e i diversi paesaggi antropici sovrascritti. Se, come sostiene André Corboz19, descrivendo il territorio come risultato di sovrapposizioni e cancellazioni di elementi naturali-arti ciali possiamo superare la dicotomia tra nuovo e vecchio, si tratta di mettere in discussione la nozione stessa di patrimonio, come un “ordine latente” in attesa di future interpretazioni.

4 - Carta interpretativa dell’Agro Pontino che evidenzia il sistema delle Strade Migliare perpendicolari alla Via Appia. Tracciate alla ne del Settecento come argini dei canali di drenaggio, sono state riprese e ampliate nei lavori di boni ca realizzati negli anni Trenta (A. Nurkovic, Y. Su, A. K. Yadav, Mesa inside-out A new life for the logistic centre of the late-18th-century reclamation, Tesi di Laurea, Scuola AUIC, Politecnico di Milano, 2019, relatori C. Pallini, A. Korolija, H. Casal Ribeiro).

© Riproduzione riservata

19 Andre Corboz, “Il territorio come palinsesto”, in Casabella, n.516, 1983, pp. 22-27.

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Ingressi/“punti signi cativi” a nord di Roma antica. Permanenze, emergenze, segnali visivi di Roma moderna e contemporanea di Angela Bruni

Il sistema dei percorsi ha avuto nella storia di Roma un’importanza fondamentale, mettendo in luce attraverso i luoghi e gli edi ci da essi collegati i poli del tessuto urbano e i punti signi cativi della città in ogni momento storico1. Dalle strade consolari radiali, alla rete delle connessioni anulari, i percorsi hanno stabilito il sistema degli accessi della città antica e stabiliscono il sistema di quella moderna e contemporanea.

Introduzione Roma, metropoli contemporanea aperta e senza limiti - Roma da molti anni non è più un’entità unitaria e conclusa, riconoscibile in una forma, ma un insieme di frammenti. Contiene in sé forme urbane succedutesi nel tempo, ognuna con caratteri propri ma avente anche la memoria di quelli precedenti2. Strade, ponti, porte all’incrocio tra le mura, monumenti, segni della sua storia millenaria, prima periferici, oggi sono inglobati nella sua espansione urbana: alcuni hanno perso il loro ruolo, altri lo conservano ancora. Luoghi, oggetto da molti anni di studi, ricerche, progetti, che producono identi cazione. Punti di riferimento che rendono la strada percepibile come forma nella città, che la de niscono nell’intero territorio. Tra gli ingressi di Roma antica il principale è quello del ume Tevere, asse nord-sud, varco nella città, e tra i ponti per oltrepassarlo, Ponte Milvio ha il ruolo di controllo dei ussi. È il ponte più antico di Roma ancora esistente, il secondo costruito in ordine di tempo secondo gli storici. Primo punto di accesso 1 Muntoni A. (1992), “Oltre il Piano Regolatore” in GROMA n.1, ROMA/IL PIANO, Dipartimento di Architettura e Analisi della città dell’Università di Roma La Sapienza, pp.43-48. 2 Angeletti P. (2006), i colori del bianco, Palombi Editori, Roma.

Entrances/”signi cants points” north of ancient Rome. Stays, emergencies, visual signs of modern and contemporary Rome by Angela Bruni

Based on previous studies, this text dwells on two signi cant places in Rome, Ponte Milvio and the via Olimpica yover, tracing out their transformations. Ponte Milvio, the main entrance into ancient Rome from the north de ned the paths of via Flaminia and via Cassia and has become a symbol of collective identity in the contemporary city. The via Olimpica yover on Corso di Francia and Corso di Francia, despite being embedded in the urban fabric, are still the main entrance into Rome from the north. Over time Rome has incorporated limits and access roads, yet the parallel axes of via Flaminia and Corso di Francia continue to structure the entire sector north of Porta/Piazza del Popolo. Urban and architectural elements at different scales follow one another, reference points materializing the roads extending northwards as an integral part of Rome’s townscape.

Nella pagina a anco: Porta del Popolo - XVIII sec. Fonte: ex Archivio X Ripartizione, Sovrintendenza AA. BB. AA. Monumenti Medievali e Moderni, Roma, oggi Sovrintendenza ai Beni Culturali di Roma Capitale.

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1 - Mura, Porta del Popolo, Anonimo, Entrata a Roma dell’ambasciatore veneziano Nicola Duodo, 1743, Olio su tela. Fonte: ex Archivio X Ripartizione, Sovrintendenza AA. BB. AA. Monumenti Medievali e Moderni, Roma, oggi Sovrintendenza ai Beni Culturali di Roma Capitale.

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a Roma dalla Toscana, dall’Umbria e dalle Marche, primo baluardo in caso di invasioni e battaglie. In prosecuzione assiale con il primo tratto della via Flaminia, a sud di esso, lungo 3,5 km sino a Porta Flaminia, poi Porta del Popolo; il ponte è l’opera di costruzione più impegnativa di un percorso, in quanto elemento importante di connessione. All’attraversamento del Tevere con uiscono le due strade consolari che a nord percorrono la penisola nella sua lunghezza: la Via Cassia che percorre il versante tirrenico degli Appennini e la via Flaminia che risale la valle del Tevere, attraversa gli Appennini, e prosegue sul versante adriatico. Ponte Milvio è dunque un luogo importante per Roma, per la de nizione della via Flaminia e della via Cassia rispetto all’intero territorio. Se fosse risultato intransitabile, le due consolari avrebbero cessato di assolvere alla funzione di collegamento di Roma con il resto dell’Italia e dell’Europa. È la porta di accesso a Roma antica, anche se in lontananza dalle mura e da Porta Flaminia. Durante l’occupazione francese di Roma, Giuseppe Valadier sviluppa un’idea per la sistemazione della zona antistante: un piazzale a forma di ovale. Il piazzale di Ponte Milvio e Piazza del Popolo, entrambi progetti di Valadier, sono i nodi urbani su cui si attesta il primo tratto di via Flaminia.

Ponte Milvio ora è all’interno di Roma. Con la realizzazione della Via Olimpica nel 1960 e del Grande Raccordo Anulare nel 1955, lungo 68 km con 33 uscite, progettato da Eugenio Gra per collegare le strade consolari e radiali, il paesaggio si trasforma. La città si apre: i moderni sistemi di accesso, “porte metropolitane”, nodi di scambio tra infrastrutture a quote diverse, sostituiscono quelli antichi. Il paradigma tradizionale strada - piazza - luogo centrale - attrezzature diventa strada veloce - nodo - concentrazioni funzionali. Il GRA voleva rappresentare «il limite della città ma Roma l’ha ignorato»3, inglobandolo nell’edi cazione. Nella Roma contemporanea aperta e senza limiti, metropoli in continua trasformazione che si è espansa, ormai da molto tempo, oltre il GRA, Ponte Flaminio costituisce ancora l’ingresso principale a Roma da nord. I due assi viari paralleli della via Flaminia e di Corso di Francia rimangono le principali direttrici strutturanti l’intero settore nord di Roma. Il reticolo radiale delle strade consolari: impianto generatore di base di Roma - Generatori morfologici di base della Roma antica sono il Tevere ed il sistema di rilievi collinari avente come baricentro il Palatino. Impian3 Nicolini R. (2005), “Una macchina celibe” in GOMORRA territori e culture delle metropoli contemporanea”. Grande Raccordo Anulare, ottobre, n.9, pp.24-26.


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to generatore di base, alla scala urbana e territoriale, è il reticolo radiale delle strade consolari e delle infrastrutture radiali, unitamente all’impianto viario radiocentrico, alla rete delle connessioni anulari. Le strade consolari sono vie di comunicazione che, come anticipa il nome, vengono costruite per volere dei consoli romani, attorno alle quali Roma è cresciuta. La più estesa e dettagliata descrizione dei generatori morfologici e degli impianti generatori di Roma è quella di: Saverio Muratori, Renato Bollati, Sergio Bollati, Guido Marinucci (1963), Studi per una operante storia urbana di Roma, Centro Studi di Storia Urbanistica, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Roma. “La forma storica di Roma ... si può dire basata su due modelli tra loro inestricabilmente connessi: il modello radiocentrico e quello dell’asse rappresentativo e dei grandi servizi nord-sud; entrambi questi modelli sono caratterizzati al loro interno da un ricchissimo policentrismo oltre che da cospicue variazioni altimetriche .... Per riassumere: modello radiocentrico delle vie consolari, (delle basiliche costantiniane, della Roma Sistina, dei monumenti periferici e più tardi delle chiese e dei servizi urbani e metropolitani formatisi nelle varie epoche, ... del sistema dei fornici nelle Mura Aureliane e asse nord-sud del Tevere, della via FlaminiaForo-Appia”4.

Ponte Milvio segnale visivo e ingresso a Roma antica da nord Ponte Milvio, dalla costruzione al Medioevo Ponte Milvio, realizzato nel 543 a.C., al di fuori dell’allora perimetro urbano, è il posto di attraversamento del Tevere che permette l’arrivo da nord alla città. Ha sempre avuto un ruolo importante per i commerci e i traffici di Roma: primo punto di accesso. In prosecuzione assiale con il tratto iniziale della via Flaminia, a sud di esso, sino a Porta Flaminia. La struttura originaria del ponte è romana e precedente a quella degli altri ponti sul Tevere, congiungendo la città repubblicana e imperiale al vasto territorio di cui era capitale. Con le invasioni barbariche e lo sgretolamento dell’Impero, la città viene cinta da mura (270 d.C). Per precludere l’ingresso da nord viene edi cato sul primo pilone di Ponte Mil-

vio un “torraccio quadrato di tu ”, per cui, arrivati alla con uenza tra Cassia e Flaminia, si doveva proseguire lungo l’argine del Tevere prima, e poi in linea retta, percorrendo la “strada di Porta Angelica”, giungendo all’ingresso a Roma forti cato e protetto da Castel Sant’Angelo. Durante “i mille anni oscuri per la storia di Roma” alcune arcate crollano e vengono ricostruite, lasciando le due testate di legno come ponti levatoi. Si costituisce al di là del ponte un nucleo abitato, legato al punto di sbarramento dell’ingresso alla città. Nel Medioevo è l’accesso principale a Roma e viene forti cato e dal 1400 diventa posto di dogana.

4 Muntoni A. (1992), “Oltre il Piano Regolatore” in GROMA n.1, ROMA/IL PIANO, Dipartimento di Architettura e Analisi ella città dell’Università di Roma La Sapienza, 1992, pp.43-48.

Le trasformazioni di Ponte Milvio e via Flaminia ad opera di Giuseppe Valadier - Durante l’occupazione francese, Giuseppe Valadier progetta la sistemazione della zona antistante Ponte Milvio,

2 - Giuseppe Valadier Progetto di sistemazione di ponte Milvio, planimetria, Roma, 1809. Fonte: Angeletti, P., Capolino, P. (a cura di), 2001, Attraverso Ponte Milvio Studi e progetti per una antica periferia di Roma, Università degli Studi di Roma, Gra ca romana, Roma, p. 9, Accademia di San Luca.

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3 - Ponte Milvio (foto di Angela Bruni, 2023).

che aveva restaurato nel 18055. Viene aperto un fornice che accentua la direzionalità del ponte. Il ponte e la torre sono reinterpretati come porta di accesso alla città, anche se lontano dalle mura. Oltre il Ponte Valadier disegna un piazzale a forma- gura di ovale fortemente allungato (due archi di cerchio contrapposti) circondato da una triplice piantata di platani con una colonna trionfale al centro. Una quinta perimetrale come separazione tra gli orti e la piazza. «La forma fortemente allungata accentua la direzionalità della piazza e la relazione all’assialità della via Flaminia. La sua natura di piazza alberata riconferma l’interpretazione della piazza come slargo di un viale anch’esso alberato, rappresentato dalla Via Flaminia»6. Il sistema di snodo stradale tra la Cassia e la Flaminia è incentrato sulla “Casa da ridurre a trattoria”. Valadier redige anche il progetto di “Villa di Napoleone”, parco urbano pubblico, subito dopo il progetto del “Nuovo Campo Marzio”: ambienti urbani per attirare la costruzione della residenza privata borghese non ancora organizzata per grosse quantità edilizie. 5 De Benedetti E. (2019), “Giuseppe Valadier per Napoleone“ in OPUS”, n. 3. 6 Altarelli L. (1984), “Piazzale di Ponte Milvio” in AA.VV. La durata del progetto Proposte per 9 luoghi, Kappa, Roma.

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La sistemazione di Ponte Milvio e del piazzale, sia per la localizzazione tra il Tevere e la Via Flaminia, sia per i processi di trasformazione che la piazza subisce, mantiene nel tempo la memoria della sua forma originale. Su questo aspetto di permanenza e di durata si fondano le caratteristiche singolari di questo luogo. Le trasformazioni successive della piazza di Ponte Milvio: da elemento di pausa a centro di gravitazione - Questo luogo subisce nel tempo una radicale trasformazione: alle vigne e agli orti che circondavano la piazza, si sostituisce, a partire dagli anni ’30, un’edilizia ad alta densità; al muro di quinta si sostituisce l’allineamento dei fronti dei blocchi residenziali. Il nucleo di Ponte Milvio comincia a strutturare quelle caratteristiche siche di insediamento popolare poi rafforzato dagli interventi di edilizia sovvenzionata. Dal punto di vista morfologico il vuoto della piazza e le strutture limitrofe, la conformazione dei colli, le due strade consolari, Cassia e Flaminia, generano dei piccoli agglomerati di costruzioni povere sino agli interventi del periodo moderno. La piazza, da elemento di pausa lungo un asse urbano, diviene centro di gravitazione di un intero quartiere. Cambiano le funzioni, cambia la materia, cambiano i rapporti con l’intorno, rimane la sua forma complessiva di piazza allungata (e in questo risiede la sua qualità). Fa parte delle trasformazioni della


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4 - Modello di Ponte Flaminio, 1938-1951. Fonte: Archivio dell’Osservatorio sul moderno Dipartimento di Architettura e Progetto Sapienza Università di Roma, 2012

5 - Ponte Flaminio (foto di Angela Bruni, 2023).

città in cui è possibile cogliere la permanenza di un elemento formale che ha sollecitato e organizzato le strati cazioni edilizie ed urbane successive. La zona viene a far parte della città in un disegno diverso la cui realizzazione si è prolungata nel tempo7. La trasformazione dell’immagine urbana di Ponte Milvio - Ponte Milvio, ora dentro la città, non è più una porta. Ha perso il suo ruolo di ingresso. Nell’immaginario collettivo è un sim7 Remiddi G. (1975), Roma oggi. Approccio alla comprensione della strati cazione urbana attuale attraverso lo studio di alcuni dati condizionanti: preesistenze ambientali e storico geogra che.(I parte, 1974, II parte 1975, III parte 1976), relazione della ricerca di G. Remiddi, condotta grazio alla Borsa di studio del Consiglio Nazionale delle Ricerche, Archivio Angeletti & Remiddi.

bolo del luogo. In riferimento al ponte come simbolo Martin Heidegger scrive: “il ponte (…) potrebbe esprimere molteplici signi cati tra questi potrebbe diventare (…) un simbolo”8. Passaggio pedonale, luogo di incontro, luogo di sosta per godere del paesaggio sul ume in quel “punto signi cativo”, che “(…) separa e connette allo stesso tempo, sintetizzando in una gura unica il tema del ponte e della porta”9. C’è stato uno scambio di valori e di caratteri tra luogo e ponte. Il ponte ha tratto identità dal luogo e il luogo ha tratto identità dal ponte. È diventato elemento identitario per tutti gli abitanti di questa parte di Roma. 8 Heidegger M., (I ed. 1954), Saggi e discorsi, in Vattimo G. (a cura di) (1976), Mursia, Milano, pag. 102. 9 Simmel G. (1909), “Brücke und Tür”, in Der Tag. Moderne illustrierte Zeitung, n. 216.

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6 - Viadotto di Corso di Francia (1958-60) e Ponte Flaminio (1938-51). Fonte: Archivio dell’Osservatorio sul Moderno, Dipartimento di Architettura e Progetto, Sapienza Università di Roma, 2012.

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Il Cavalcavia della via Olimpica su Corso di Francia: “porta” d’ingresso a Roma moderna e contemporanea I due sistemi urbani appoggiati ai due assi viari paralleli della via Flaminia e di Corso di Francia, l’antica e la nuova entrata a Roma da nord - In asse e in prosecuzione con il Ponte Flaminio di Armando Brasini, ingresso monumentale e scenogra co di Roma (la cui costruzione inizia nel 1938 e nisce, a causa della seconda guerra mondiale, nel 1951) viene realizzato nel 1960 il Viadotto di Corso di Francia. Il Viadotto è legato alla Via Olimpica, realizzata nel 1960 in occasione dei Giochi Olimpici per collegare le attrezzature sportive a nord e a sud di Roma. La via Olimpica è un segno infrastrutturale,

che si misura con l’insieme di elementi anulari intorno a Roma (le mura, il GRA, l’anello ferroviario), con le strade radiali, le consolari, con il Tevere, i parchi, il tessuto, con il mutare continuo dei contesti attraversati. Ad essa viene demandato il ruolo di attraversamento veloce della città nel versante ovest. Roma viene così segnata con dei veri e propri con ni interni scavalcati con ponti e svincoli. Al sistema nord-sud delle consolari, Flaminia, Cassia, Salaria, si sovrappone quello est ovest della via Olimpica, denominato nel primo tratto via del Foro Italico. I nodi di scambio all’intersezione tra l’infrastruttura veloce del tratto nord della Via Olimpica e le strade sottostanti diventano le nuove porte metropolitane, di dimensioni e importanza diversa: il Cavalcavia della via Olimpica su Corso di Francia, il Ponte di Tor di Quinto, lo Svincolo su Via di Tor di Quinto, lo svincolo su Via dei Campi Sportivi, lo Svincolo con via Salaria. “Porte” intese come chiavi di accesso al sistema urbano dinamico di grandezza superiore. Tra i nodi di via del Foro Italico il più importante è quello del Cavalcavia della via Olimpica su Corso di Francia, oggi incorporato nella città. Una lastra dal pro lo spezzato e snello e cavalletti sottili ai margini determinano la sua forma, progettata da Riccardo Morandi. Il Cavalcavia, “porta d’ingresso” al sistema Ponte Flaminio-Viadotto di Corso di Francia, è evidente da lontano sia da nord che da sud su Corso di Francia anche se non sporge molto nello skyline di questa parte di Roma, anzi sembra piuttosto ribassato, data la poca differenza di quota rispetto alla strada che scavalca. Dal lato sud verso il Villaggio Olimpico il paesaggio è ordinato e il cavalcavia in cemento armato precompresso fa da fondale al Ponte Flaminio e il Viadotto di Corso di Francia, e con essi si confronta per diversità di forma e materiali. L’insieme composto dal Cavalcavia della via Olimpica su Corso di Francia, il Ponte Flaminio e il Viadotto di Corso di Francia diventa il sistema di accesso “grande”, carrabile, a Roma da nord, affiancando il sistema “piccolo”, pedonale, costituito da Ponte Milvio, Via Flaminia, Porta del Popolo10. Ancora oggi il sistema urbano in cui spicca il Ponte di Brasini costituisce l’ingresso prin10 Remiddi G. (2001), “Appunti su Ponte Milvio” in Angeletti P., Capolino P. (a cura di), Attraverso Ponte Milvio Studi e progetti per una antica periferia di Roma Università degli Studi di Roma, Gra ca romana, Roma.


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7 - Cavalcavia della via Olimpica su Corso di Francia (1059-59). Fonte: G. Grauso, “Il Cavalcavia a Roma su Corso di Francia per la via Olimpica”, in L’industria italiana del cemento, n. 11, 1961.

8 - Val Melaina, 1932-1943 Fonte: Archivio dell’Osservatorio sul moderno Dipartimento di Architettura e Progetto Sapienza Università di Roma, 2012

cipale a Roma da nord, nonostante la città si sia allargata e gli sia cresciuta intorno. Si tratta di due sistemi urbani appoggiati ai due assi viari paralleli della via Flaminia e di Corso di Francia, l’antica e la nuova entrata a Roma da nord. Le dimensioni dei due sistemi, macroscopicamente diverse, sembrano specchiare le dimensioni della città per la quale sono stati costruiti. Il sistema “grande” di Corso di Francia si snoda in quattro anulari di collegamento: viale

Pilsudski, lungotevere sinistro, lungotevere destro, via Olimpica. Il sistema “piccolo”, al contrario, è costituito da un insieme di strade a sezioni minori che instaura rapporti tra morfologia e tipologia con il costruito, si allarga in piazze, è punteggiato da lari alberati. I due sistemi sono diversi formalmente e nella scala, ma il loro ruolo è lo stesso: raccogliere, convogliare più provenienze nel ponte e riaprire verso le due parti di città, quelle unicate dal ponte.

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Il sistema di accesso urbano si è ulteriormente prolungato nella dimensione contemporanea Ponte Milvio rimane un simbolo, inglobato nella metropoli. Il Cavalcavia della via Olimpica è ancora la porta nord di Roma contemporanea nell’edi cato di palazzine. Subito dopo piazza di Ponte Milvio, le due consolari, Cassia e Flaminia, si separano. La biforcazione esistente a Ponte Milvio tra Cassia e Flaminia si ripete più a nord nei pressi del Parco di Veio e della Stazione di Vigna Clara, snodo interessato dal progetto di ristrutturazione legato al completamento dell’Anello ferroviario. E poi ancora altre biforcazioni si ripetono, più a nord, dove il tessuto di Roma si è diradato ulteriormente. Le biforcazioni, incroci di strade diverse, proseguono quasi ad allontanare sempre di più, a spostare verso nord, i punti di ingresso alla città contemporanea. Saranno questi i luoghi dove progettare nuove “porte contemporanee”, nuove architetture riconoscibili come elementi di ingresso a Roma? L’analogia tra elementi del passato e crescita della città sono argomenti teorici ereditati dal dibattito intorno alla città, dagli anni Sessanta ad oggi. “Le città permangono sui loro assi di sviluppo, mantengono la posizione dei loro tracciati, crescono secondo la direzione e con il signi cato di fatti più antichi, spesso remoti, di quelli attuali. A volte questi fatti permangono essi stessi. La permanenza più signi cativa è data dalle strade”11.

Segni visibili del paesaggio contemporaneo Ancora più a nord, nel paesaggio di Roma contemporanea si riconoscono alcuni landmarks. Dispersi nel territorio, nelle periferie residenziali emergono “i frammenti e i ruderi” del progetto moderno12. Sono segnali contemporanei riconoscibili. I ruderi dell’architettura moderna, affiorano ovunque: quartieri di edilizia pubblica, edi ci isolati, architetture di valore, sommerse dall’edi cazione recente senza qualità. La loro diversità produce re11 Rossi A. (1966), L’architettura della città, Marsilio, Milano. 12 Tafuri M. (1986), Storia dell’architettura italiana: 1944-1985, Giulio Einaudi Editore, Torino.

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lazioni spaziali. Emergenze, riferimenti, elementi alla scala territoriale e paesaggistica, pertanto diversa rispetto alla scala dei ponti, delle porte nelle mura di Roma antica e dei nodi infrastrutturali di Roma moderna. Solo per citarne uno, tra i complessi di case popolari a nord di Roma si distingue per forma nel sistema urbano il complesso di edilizia popolare di Val Melaina, unità riconoscibile nel paesaggio. Ancora più a nord, anche la diga transitabile di Castel Giubileo, progettata da Gaetano Minnucci nel 1948, può essere considerata un’architettura di valore e nello stesso tempo segnale di ingresso a Roma.

Questioni aperte Con l’espansione della città, limiti urbani e sistemi di accesso di Roma antica e moderna sono stati inglobati nell’edi cato. L’insieme Porta/Piazza del Popolo - via Flaminia - Ponte Milvio, anche se non costituisce più l’ingresso da nord, resta uno degli assi storici più signi cativi, a cui si sono appoggiati dapprima i tessuti tardo ottocenteschi e poi, proseguendo verso nord, gli episodi urbani successivi, dalle Olimpiadi di Roma del 1960 ad oggi. L’asse Porta/Piazza del Popolo - via Flaminia Ponte Milvio e l’asse Ponte Flaminio/Corso di Francia costituiscono ancora le due principali direttrici strutturanti l’intero settore nord. Elementi a scala diversa si susseguono dal centro, dalle mura, verso nord: da quelli a piccola scala (Porta del Popolo e Ponte Milvio) a quelli a grande scala (nodi infrastrutturali della Via Olimpica, dell’Anello ferroviario, del GRA). Nell’ambito delle recenti proposte di pianicazione urbana, legate al completamento dell’Anello ferroviario e al Parco di Veio, in corrispondenza del secondo bivio tra Cassia e Flaminia, dopo quello di Ponte Milvio, è previsto il progetto di una Porta al Parco Vigna Clara, accesso dalla città all’area di Veio e dell’Inviolatella. Il progetto di tale porta potrebbe essere l’occasione per un nuovo “punto signi cativo” per Roma. Più a nord, si ripetono i bivi di strade, “fatti urbani”, che hanno in uito sulla crescita della città e i segni alla scala del paesaggio, laddove il margine del sistema urbano si è diradato, ha perso di precisione, è diventato slabbrato, variabile, si è frammentato, andando a confondersi con gli elementi del territorio. È necessario conoscere a fondo le diverse identità della città esistente, i suoi diversi principi insediativi nel tempo e nel contem-


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poraneo per poter continuare ad intervenire con il progetto. I luoghi nascondono i segni del “possibile”. In questa direzione, un ruolo di rilievo spetta ai luoghi signi cativi, dimenticati, e ai nodi infrastrutturali che possono ancora produrre spazi integrati tra città e territorio. Le potenzialità spaziali di questi luoghi, tra infrastrutture, viabilità e parchi, attendono di continuare ad essere esplorate ed espresse. © Riproduzione riservata

Bibliogra a

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Villa Adriana e le altre: strade, ville e complessi monumentali dell’ager tiburtino. Verso una nuova idea di paesaggio per la Unesco Buffer Zone di Valerio Tolve

Quae nunc abibis in loca / Pallidula, rigida, nudula / Nec, ut soles, dabis iocos.1

L’immaginario di Marguerite Yourcenar affida a queste parole l’ultimo congedo dell’imperatore Adriano dalla sua anima sul letto di morte. Non è chiaro a quali ‘svaghi’ si riferisca, pur tuttavia è assai plausibile che il pensiero sia rivolto alla sua Villa costruita alle pendici della collina di Tivoli. Un complesso di delizia certamente, fondato sull’idea di comporre una teoria di visioni scenogra che e perciò profondamente diverso da molte altre ville realizzate dalla nobiltà romana nella stessa campagna di Tibur – legate più alla vocazione agricola e produttiva – così come diverso dagli stessi complessi monumentali di templi e santuari che, benché realizzati anch’essi in più parti, propongono un impianto compositivo unitario. Pur tuttavia Villa Adriana condivide con le altre ville dell’ager tiburtino la collocazione strategica – e per questo affatto casuale – che incarna perfettamente il senso ontologico dell’idea di ‘villa’ nella sua più generale ed astratta concezione di luogo privilegiato per il godimento della natura, nel quale rifuggire dai patimenti e dai turbamenti del quotidiano. Ma diversamente da queste si propone sin da subito per la sua eccezionalità, non tanto (o meglio, non solo) per la qualità delle sue architetture, ma per il fatto di voler essere, sin dalla concezione, una costruzione culturale che trasmuta in forme di architettura un programma materiale e spirituale – soprattutto – coniugando indissolubilmente nel gesto di una sapiente, rigorosa ed esatta costruzione, i caratteri del luogo e l’azione di trasformazione compiuta su di esso dall’uomo per il suo conforto, nell’esercizio della pratica dell’otium.2 “La Vil1 Yourcenar M. (1951), Mémoires d’Hadrien suivi de Carnets de notes de Mémoire d’Adrien, Librairie Plon, Parigi. 2 Cfr. Falsitta M. (2000), Villa Adriana. Una questione di composizione, Skira, Milano; AA.VvV (2018), Ananke,

Villa Adriana and the others: roads, villas, and monumental complexes of the Ager Tiburtino. For a fresh approach to the Unesco Buffer Zone. by Valerio Tolve

With a focus on Villa Adriana, this contribution takes into consideration the territory and the landscape of Tivoli, which Via Tiburtina Valeria Claudia and the Aniene River connected with Rome. Here rural villas and places of worship were to be found long before Villa Adriana was built. They grafted onto the soil in both constructive and architectural terms, exploiting topography to host the agricultural and pastoral activities practiced at the time. The resulting historicaltopographical palimpsest remained almost unchanged over the centuries, eventually subverted by recent urban planning. Mobility infrastructures are an integral part of the de nition of landscape as classically understood, in functional, symbolic, and cultural terms. Along this line of thought, a recent design-oriented research project is here presented, aimed at extolling the sitespeci c relationship between old and new, nature and arti ce, infrastructure and the buildings, which has quali ed the Tivoli area since antiquity.

Nella pagina a anco, in alto: Marialuisa Montanari, La conformazione del suolo dell’agro tiburtino; in basso: Valerio Tolve, Veduta panoramica della Unesco Buffer Zone di Villa Adriana.

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1 - Alessandro Raffa, L’acqua come specchio di memoria nel paesaggio di Villa Adriana.

la era la tomba dei viaggi”3, sempre per dirla alla maniera della Yourcenar, dove sperimentare, raccogliere, collezionare e mostrare il polimorfo campionario dei modi espressivi della costruzione diffusi in tutto l’Impero, con il ne di sostenere un preciso programma di rinnovamento socio-politico, educando al gusto del bello. “Il mio ideale era racchiuso in questa parola: il bello, di così ardua de nizione a onta di tutte le evidenze dei sensi e della vista. Mi sentivo responsabile della bellezza del mondo. Volevo che le città fossero splendide, piene di luce, irrigate d’acque limpide, popolate da esseri umani il cui corpo non fosse deturpato né dal marchio della miseria o della schiavitù, né dal turgore di una ricchezza volgare; volevo che gli alunni recitassero con voce ben intonata lezioni non fatue; che le donne n. 84: “XIX secoli a Villa Adriana. Interferenze e folgorazioni iconiche (118 - 2018)”, agosto-ottobre, Altra Linea edizioni; Caliari P. F. (2012), Tractatus Logico Sintattico. La forma trasparente di Villa Adriana, Quasar edizioni, Roma. 3 Yourcenar M. (1951), op. cit.

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al focolare avessero nei loro gesti una sorta di dignità materna, una calma possente; che i ginnasi fossero frequentati da giovinetti non ignari dei giochi e delle arti; che i frutteti producessero belle frutta, i campi le messi più abbondanti”4. Con tutta probabilità, è anche da questo rinnovato concetto etico e morale che sostiene la costruzione di Villa Adriana che nasce e si mantiene inalterato nei secoli il mito e la fascinazione di questo luogo, progressivamente abbandonato con la morte del suo imperatore sino a divenire rudere, per esser poi riscoperto a partire dal Rinascimento e diventare meta imprescindibile nel Grand Tour di ogni artista e letterato d’Italia e d’Europa. Ma il fascino di Villa Adriana travalica la dimensione pura della visione romantica del rudere: porta in sé una dicotomia irrisolta che risiede proprio nello scarto tra realtà ed invenzione, tra il poco visibile ed il molto immaginabile. È proprio questo stesso scarto che ha permesso a generazioni di architetti ed artisti – oggi come in passato – di imma4 Ibid.


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ginarsi quali fossero gli ‘svaghi’ adrianei, con ricostruzioni più o meno veritiere e speculazioni di pensiero, talvolta esito del mondo ideale perseguito, più che della realtà e dell’evidenza archeologica: teorie (ma anche pratiche) comunque legittimate dalla dimensione virtuale della rovina, che apre al progetto. Lo stesso Piranesi del resto, nella sua Pianta5 immagina il completamento dei resti di grandiosi monumenti in rovina, adottando una doppia gra a: con una campitura nera e certa indica ciò che è riuscito a vedere e rilevare – o a riconoscere dalla pianta del suo predecessore Francesco Contini6 –; al tratto, invece, disegna per logica deduzione sintattica, il proseguimento di queste stesse tracce, mostrando una rara e precoce inventiva archeologica nel volere interrogare la forma immota e sospesa del frammento per ritrovare in essa la forma dell’architettura. All’epoca dell’Imperatore si arrivava a Tivoli dall’urbe via terra o via acqua. Nel primo caso si percorreva l’antica via consolare Tiburtina Valeria Claudia, realizzata a partire 5 Piranesi G. B. (1781), Pianta delle Fabbriche esistenti nella Villa Adriana. 6 Contini F. (1634-1668), Dechiaratione generale della pianta di Villa Adriana. Francesco Contini è generalmente riconosciuto come il primo autore della planimetria di Villa Adriana. Nel titolo delle successive edizioni (la seconda ristampa del 1671 e la terza edizione del 1751) compare però anche il riferimento a Pirro Ligorio, come autore effettivo e originale del disegno, mentre il Contini viene indicato solo nella veste di revisore: “Pianta della Villa Tiburtina di Adriano Cesare già da Pirro Ligorio – rinomatissimo architetto e antiquario – disegnata e descritta dopo da Francesco Contini – architetto – diligentissimamente riveduta, e data alla luce. Ora nuovamente incisa in rame, ed in quella più bella e comoda forma ridotta, coll’aggiunta della sua spiegazione latina, Stamperia Apollo, Roma.”

dal 286 a.C. per collegare il Tirreno con l’Adriatico – Roma a Pescara – proprio sul sedime di precedenti rotte della transumanza praticate dagli Italici per il trasporto dei pascoli dall’alta Valle dell’Aniene sino all’Abruzzo. Nel secondo caso era proprio il corso del ume Aniene l’infrastruttura naturale deputata a collegare Roma e Tivoli, soprattutto in relazione al trasporto delle merci. Giunti a Tivoli ci si lasciava alle spalle la città caotica, inoltrandosi nei campi produttivi, coltivati o popolati da greggi e presidiati da ville dal carattere marcatamente rurale, qui insediatesi insieme a diversi santuari, proprio in relazione all’elevato livello di infrastrutturazione della zona. Qui la costruzione della Villa di Adriano aveva completato una sorta di anticittà sicamente ed idealmente opposta a Roma, pur tuttavia ad essa ben connessa. Si era così compiuto un polo monumentale e autonomo, del quale la Villa dell’imperatore era l’ultimo episodio, preceduto appunto dai santuari e dal complesso delle ville del patriziato romano che, già in età augustea, avevano eletto la collina di Tivoli per insediare le proprie residenze, immerse nella campagna produttiva, sfruttando anche la prossimità dell’antica Via di Pomata e dunque la vicinanza di questa con gli acquedotti per il proprio approvvigionamento idrico, e conformando la costruzione in stretta relazione con i caratteri orogra ci e idrogra ci di questo luogo. Come nota anche Marialuisa Montanari: “i grandi monumenti dell’antichità romana nel contesto territoriale in cui si trova Villa Adriana, l’agro tiburtino, sembrano confermare un’estensione del tema che nel suo insieme appare oggi inedita e inaspettata, con molti riscontri in un sistema monumentale funzionale a un’economia ‘antiurbana’ e rura-

2 - Valerio Tolve et al., Il paesaggio restituito di Tibur. Montaggio sulla vista assonometrica di CharlesLoius Boussois, 1912.

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3 - Valerio Tolve et al., La Grande Villa Adriana. La nuova Unesco Buffer zone.

le, contrapposta alla città consolidata”7. Allo stesso modo un erudito o un pensionnaire in visita a ‘Tivoli vecchio’8 si muoveva in un paesaggio agreste popolato da greggi al pascolo tra ruderi emergenti, in una sorta di arcadia tridimensionale che andava ad alimentare l’immaginario del visitatore e a costruire la dimensione immagini ca di un locus amoenus che aveva proprio in Villa Adriana il suo terminale ideale. La designazione del sito da parte dell’Imperatore non fu dunque casuale: non poteva prescindere da una preventiva e profonda conoscenza dello stesso, attraverso una pre7 Montanari M. (2014), L’invenzione del suolo. I complessi romani del II-I sec. attorno a Villa Adriana, Università Iuav di Venezia, tesi di dottorato di ricerca in Composizione architettonica XXVI ciclo, relatori E. Mantese, L. Monica, relatore esterno A. Torricelli, tutors M. Marzo, G. Rakowitz. 8 Cfr. Cinque G. E. (2016), “A Tivoli vecchio casa d’Adriano”, Romula, Revista del Seminario de Arqueologia de la Universidad Pablo de Olavide de Sevilla, n. 15.

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cisa ricognizione del paesaggio e dei suoi caratteri fondativi, così come delle pre-esistenze. Tivoli era una città con una forte vocazione commerciale e mercantile, oltre che religiosa, sostenuta da un elevato livello di infrastrutturazione e accessibilità che nel tempo aveva ride nito i principi insediativi e la forma stessa del paesaggio. Così la possibilità di un duplice collegamento diretto e rapido con Roma – via terra con la Tiburtina, via acqua attraverso l’Aniene – fu certamente un ottimo incentivo che condusse verso la scelta di quest’area. Per il graeculus Adriano anche il mito della fondazione di Tivoli, de nita insieme a Praeneste ‘città greca’ da Virgilio e da Orazio, costituiva forse una ragione in più per conferire un’alta considerazione di questo luogo. Ma per quanto quest’origine ellenica fosse anche solo supposta, attestati – per lo meno dal II sec. a.C. – erano invece gli scambi commerciali con Delos, sede di un importante


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santuario, dedicato ad Apollo ed Artemide. E come l’isola sacra delle Cicladi anche Tibur e Praeneste erano note per la presenza di due importanti complessi sacri, in seguito associati al culto imperiale: il Santuario di Ercole Vincitore, a mezza costa sulla collina di Tivoli e il Tempio della Fortuna Primigenia a Palestrina, sviluppato su una teoria di terrazze lungo il versante meridionale del colle Ginestro. Anche l’abbondanza di “acque generose”9, attestata sin dall’antichità grazie alla presenza dell’Aniene e di altri alvei naturali, oppure incanalata nei quattro acquedotti diretti verso Roma – Marcio, Claudio, Anio Vetus e Anio Novus – fu certamente motivo di ulteriore interesse per la scelta del luogo, al ne di garantire l’approvvigionamento idrico di un così esteso complesso, connotato da numerosi luoghi d’acqua, fontane, terme e giardini10. La presenza diffusa di altre ville nell’ager tiburtino non rende Villa Adriana un unicum: diviene però tale per il suo programma architettonico, sotteso ad un preciso progetto di restaurazione socio-culturale, che si traduce in un esito formale capace di rinnovare e por9 Orazio, Odi, II, 3 (alla musa Melpomene). 10 Cfr. Raffa A. (2020), L’acqua come specchio di memoria nel paesaggio di Villa Adriana, in F. Novelli (a cura di), Progettare Archeologia. Teorie, questioni e prospettive, vol. II, Accademia Adrianea Edizioni, Roma.

tare all’estremo le potenzialità dell’espressione e della costruzione del suolo riformato, piegando la natura della difficile orogra ca delle forre verso le forme dell’arti cio costruttivo, adeguato all’abitare. Infatti tutte le ville e i santuari tiburtini fanno i conti con la plasticità del suolo dell’ager: Adriano nella sua Villa non fa altro che esaltare una tradizione compositiva e costruttiva antica che incarna perfettamente il genius loci Romae in una perfetta mimesi storico-topogra ca. In seguito anche Pirro Ligorio saprà cogliere e rinnovare questa stessa lezione: la costruzione di Villa d’Este si inserisce infatti nella “continuità topogra ca delle ville antiche intorno al circuito di Tivoli, sorta di cavea entro la quale la sua Villa si apre al paesaggio dei siti arroccati su speroni protesi sulla tortuosa valle dell’Aniene, assumendo come asse la linea ortogonale della facciata, intesa come fondale della scena.”11 Se si considera di ampliare l’orizzonte geogra co attorno a Villa Adriana, sovvertendo la visione sincopata della tradizione iconogra ca classica, si riescono a cogliere tutti gli elementi che compongono il paesaggio dell’ager tiburtino e che sono divenuti determinati formali di tutte queste architetture sviluppate lungo un arco ‘appoggiato’ a

4 - Valerio Tolve et al., Villa Adriana, il ume Aniene e il Parco. Planimetria di progetto.

11 Torricelli A. (2022), Il momento presente del passato. Scritti e progetti di architettura, Franco Angeli, Milano.

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5 - Valerio Tolve et al., Villa Adriana e il Villaggio archeologico. Nuova Pianta degli scavi

mezza costa sul versante occidentale della collina di Tivoli, che per un lungo tratto coincide proprio con l’antica Via di Pomata e con il tragitto degli aquaeducti, dal Santuario di Ercole Vincitore, sino alla villa di Elio Rubrio, passando per la villa di Bruto, la villa di Cassio e la villa degli Arcinelli: il sistema orogra co dei colli; il sistema idrogra co, naturale e arti ciale, con i umi e gli acquedotti; il sistema delle vie consolari che convergono verso Roma, su tutte la Via Tiburtina e la Via di Pomata appunto, realizzata proprio per supporto e manutenzione della stessa rete idrica. I complessi monumentali attorno a Tivoli non si de niscono infatti come elementi discreti, sono piuttosto parti di uno stesso intero nel quale il sostrato connettivo diviene il rapporto che l’architettura istituisce con il suolo e il paesaggio. Ogni architettura declina questo tema in una particolare de nizione compositiva e morfologica: così se templi e santuari sperimentano il tipo della terrazza, le ville lavorano per sostruzioni e piattaforme. 28

Ma cosa resta oggi di quel paesaggio? Cosa resta di quella lezione di attenta trasformazione di un luogo marcatamente naturale? “Mancati i romani, mancavano queste delizie, e restati questi edi ci in mano del tempo, furono consegnati alla scordanza perché rovinati, o sepolti restassero”12. Molto rimane all’interno del recinto della Villa, forzatamente isolata e protetta dalla sua Unesco Buffer Zone; nulla invece resta al di là di esso, dove lo scarto si è spostato dalla dicotomia tra realtà e invenzione alla dicotomia tra luogo e non-luogo. La borgata circostante è infatti cresciuta a dismisura nel tempo, ignorando il complesso sistema di relazioni con il suolo e con l’Aniene: un ampio tratto rettilineo della via Maremmana inferiore è stato infatti eletto quale principio di urbanità per la de nizione di un fronte disomogeneo, relegando 12 Celano C. (1856), Notizie del bello, dell’antico e del curioso della città di Napoli, vol. V, a cura di G.B. Chiarini, Stamperia Floriana, Napoli.


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il tortuoso alveo dell’Aniene sul retro. Oggi questo paesaggio appare frammentato e molto lontano dalla visione ‘originale’ e idilliaca cara ad Adriano, nota ai pensionnaires e richiamata dalla Yourcenar: evidentemente è più densamente costruito ma, soprattutto, diversa è la relazione che intercorre tra le forme della natura e le forme dell’arti cio, non più in un reciproco rapporto. Un palinsesto privo di continuità dove il grande complesso di Villa Adriana, un tempo perfettamente compenetrato nel paesaggio, appare oggi fatalmente ‘altro’, avulso dal contesto dal momento che la borgata moderna ha preso il sopravvento, celando i caratteri speci ci del luogo che, in origine, avevano contribuito ad ispirare l’impresa costruttiva dell’Imperatore. Il fascino e l’atmosfera ‘mitica’ di quel luogo d’origine si ritrovano così – almeno in parte – solo all’interno della Villa stessa. In tal senso il progetto Learning from Villa Adriana ha inteso ricollocare la Villa all’interno del campo che gli è proprio, sottraendola

al non-luogo diffuso per restituirla allo spazio di signi cati che abitano le relazioni tra esseri umani e ambiente naturale, osservati attraverso la lente delle rovine architettoniche. Il progetto è l’esito di un lavoro di ricerca applicata di un gruppo multidisciplinare13

6 - Valerio Tolve et al., Il Giardino di Adriano. Le unità del nuovo paesaggio.

13 Alice Bottelli, Josep Mias, Alessandro Raffa, Valerio Tolve (coordinamento; architettura) con la consulenza di Paolo Carafa, Fabrizio Slavazzi (archeologia); RE/Lab (urbanistica e trasporti) AG&P (paesaggio) e Astrapto (illuminotecnica). Il progetto ha ottenuto la menzione d’onore nella International Call for Design Projects “The Grande Villa Adriana. Designing the Unesco Buffer Zone” (Accademia Adrianea di Architettura e Archeologia, Roma 2018). È stato inoltre selezionato per il City_ Brand&Torusim Landscape Award (Paysage Topscape, Milano 2019) e ha vinto la menzione speciale per la categoria “Verde tecnologico e ricettività” all’EcoTech Green Award 2019, Forum Internazionale e Premio del Paesaggio Architettonico (Paysage Topscape, Padova 2019). Cfr. Tolve V. et al. (2019), La lezione di Villa Adriana, in L. Basso Peressut, P. F. Caliari (a cura di), Piranesi Prix de Rome. Progetti per la Buffer Zone Unesco di Villa Adriana, Aion Edizioni, Firenze; Tolve V. (2019), Piranesi and

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7 - Il ume Aniene al Ponte Lucano, La via d’acqua da Tivoli a Roma, dipinto di Greta Allegretti.

che ha tentato approcci alternativi ai più consolidati modi di fare città e paesaggio. L’occasione ha permesso di sperimentare tali temi su un doppio registro: nello speci co, indagando nuove forme per la risigni cazione della Unesco Buffer Zone di Villa Adriana, e più in generale approfondendo strumenti per la gestione dei paesaggi e dei patrimoni culturali in un’ottica di sviluppo realmente sostenibile. Il progetto ha inteso rileggere le dinamiche insediative originali e le loro modi cazioni nel tempo, reinterpretando la trama infrastrutturale delle vie di terre e delle vie d’acqua, dalla cui rilettura ha preso corpo la proposta. Ne deriva un nuovo locus amoenus – contemporaneo ma di ispirazione squisitamente classica nell’intendere la relazione tra paesaggio e architettura – che indaga il raphis School. The invention of ancient, in AA.VV. (a cura di), Reactive Proactive Architecture, Editorial Universitat Politècnica de València - Escola Tècnica Superior d’Arquitectura; Tolve V. (2020), Piranesi e la sua Scuola. Il Moderno e l’invenzione dell’Antico, in F. Novelli (a cura di), Progettare Archeologia. Teorie, questioni e prospettive, vol. II, Accademia Adrianea Edizioni, Roma; A. Raffa, V. Tolve (a cura di), Progettare archeologia III. Riedi care/ Ricostruire dopo la ne del moderno, Accademia Adrianea Edizioni, Roma; Tolve V. (2022), The lesson of Villa Adriana. Project for the new Unesco Buffer Zone, in Marzo M.; Ferrario V.; Bertini V.(a cura di), Between Sense of Time and Sense of Past, Letteraventidue, Siracusa; Tolve V. (2022), The Grand Villa Adriana. Designing the Unesco Buffer Zone”, in AA.VV. (a cura di), Life within ruins. Essays on architecture restoration theory, Save the Heritage Bene t Corporate, Quarto d’Altino.

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porto tra antico e nuovo senza indugiare in malinconiche nostalgie, immaginandosi un futuro possibile ove passato e presente siano ricomposti in continuità. È questa la più grande lezione che ancora oggi possiamo trarre da Villa Adriana: oltre la qualità formale evocata dalla potenza dei suoi ruderi, la pianta della Villa ci suggerisce che è il principio insediativo dell’architettura (dispositio) a de nire la trasformazione attenta di un luogo, il suo predisporre all’accoglienza. E questa lezione è ancora oggi straordinariamente attuale. Affrontare il progetto de La grande Villa Adriana signi ca infatti ragionare sul tema della ‘grande pianta’ che è tale non (tanto) per estensione territoriale, quanto piuttosto per l’ostinata tensione a voler ritrovare un disegno compositivo di insieme – unitario ma non totalizzante – capace di riunire nuovamente in un equilibrato compendio, natura e arti cio. Due diversi ordini sovrapposti e relazionati governano l’impianto della proposta progettuale, proprio come in Villa Adriana laddove, alla costruzione in elevazione verso il cielo corrisponde un mondo interamente ctonio, funzionale alla Villa sovrastante, articolato in un complesso dedalo di cunicoli e criptoportici.14 Il primo, del ‘sotto-suolo’ è orientato lungo il tracciato della via Maremmana, 14 Cfr. Chiappetta F. (2008), I percorsi antichi di Villa Adriana, Quasar edizioni, Roma.


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interrata e trasformata in una strada di distribuzione interna al comparto. A questo livello trovano posto le strutture commerciali, i parcheggi, e gli spazi di servizio degli hotel. Il secondo, del ‘sopra-suolo’, è de nito a partire dalle giaciture dell’esistente trama delle alberature e di un asse trasversale est-ovest che ha origine nell’esedra del Pantanello all’ingresso della Villa (ripercorrendo il sedime della ‘strada moderna’ qui disegnata da Piranesi) e termina nelle Cave di travertino oltre l’Aniene. Più che un’infrastruttura questo asse si con gura come sequenza di luoghi notevoli che parte dalla Villa stessa, passa per la Domus agricola, la Porta al Parco, l’Hub commerciale e il Polo ricettivo, raggiunge le Cave di travertino, l’Aniene e i rinnovati percorsi sulle sue sponde, che risalendo la collina conducono no a Tivoli e Villa d’Este. I due ordini sono messi in tensione sulla sezione verticale (dalla terra al cielo, sempre per citare la Yourcenar) attraverso corti e cavità che permettono ad aria e luce di diffondersi negli ambienti ipogei, secondo le tradizionali modalità care all’architettura romana e, ovviamente, presenti anche a Villa Adriana. Tutte le architetture proposte sono perciò ispirate ai principi tipologici e compositivi della Villa, rinnovando il tema del recinto. Eleggendo nuovamente l’Aniene come affaccio privilegiato, il progetto si pone in maniera critica rispetto la costruzione moderna e contemporanea che, privilegiando esclusivamente l’allineamento lungo la strada, ha negato ogni relazione con il ume, con nato sul retro. Il progetto ricerca invece un rinnovato rapporto con l’Aniene, infrastruttura naturale già in passato eletta per il collegamento con Roma, oggi scelta per la connessione tra l’ambito di Villa Adriana e quello di Villa d’Este: un percorso ciclopedonale si svolge lungo le sponde e ordina la sequenza di luoghi notevoli, monumentali o paesaggistici, comprese le Cave di Travertino – delle quali si propone la riquali cazione – quale estensione del Parco. Proseguendo nell’incedere attraverso il Parco e gli Orti adrianei lungo l’asse est-ovest verso Villa Adriana, si incontra il complesso della Domus agricola. La lunga promenade termina nell’esedra del Pantanello, dove ha origine un nuovo itinerario di visita interno alla Villa che riattiva una parte dell’antico ingresso monumentale attraverso il Grande Vestibolo: dalla base delle Cento Camerelle si raggiungono il Canopo e l’Antiquarium attraverso la rete di percorsi ipogei esistenti, riaperti al pubblico ed allestiti. Le nuove architetture collocate nell’ambito

della Unesco Buffer Zone e all’interno della Villa perseguono un’articolazione volumetrica ridotta all’essenzialità delle forme pure, ispirate ai ruderi. Sperimentano altresì tecniche costruttive di prefabbricazione leggera, con struttura metallica e rivestimento in pannelli e lastre. I temi della reversibilità (o meglio della transitorietà) dell’architettura e della sostenibilità ambientale sono affrontati realmente nei termini della ricerca della ‘costruzione esatta’ limitando l’uso di materiali e l’esibizione del virtuosismo tecnologico. La semplicità delle forme nuove sottende una complessità di scelte che rispondono ad un preciso processo di costruzione logica dell’architettura, dalla sua concezione ideale no alla de nitiva veri ca attraverso particolari e dettagli, chiamati a dar coerenza a questo stesso pensiero. La costruzione è ancora intesa nel senso classico del termine: un atto fortemente espressivo al quale mutamente concorrono la forma dell’architettura, la forma della costruzione, la natura dei materiali. © Riproduzione riservata

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Attorno ad una cartogra a contemporanea dell’Agro pontino di Alessandro Isastia

La produzione di cartogra e per la piani cazione comunale, unita ad una passione per la rappresentazione del territorio in generale, mi hanno portato all’elaborazione di mappe che, riallacciandosi ad una tradizione pittorica di rappresentazione cartogra ca in scala, potessero dare massimo conto di aspetti spaziali, strutturali e morfologici dei luoghi rappresentati. Un corso di progettazione su aree o edi ci legati alla boni ca pontina e una vacanza estiva a Terracina mi hanno portato a conoscere, studiare e pertanto poter rappresentare con qualche consapevolezza il territorio dell’Agro Pontino e quelli delle antiche città che dai rilievi dei monti Lepini vi affacciano. Una breve introduzione alle possibilità della cartogra a su base satellitare precederà la descrizione della mappa dell’Agro Pontino, che sarà a sua volta seguita da qualche nota conclusiva sulla cartogra a in generale.

L’occasione satellitare Dagli ultimi decenni solerti satelliti compiono puntigliose scansioni della super cie terrestre, donandoci delle nuvole di punti il cui tono di grigio è proporzionale alla loro altitudine. Sono denominati DTM, digital terrain model. Se ne possono cavare immagini di più consueto aspetto geogra co, come le ombreggiature, le pendenze, nanche le ombre riportate, utili alle rappresentazioni territoriali. La precisione di questi dati è arrivata, in quelli liberamente scaricabili dai siti anche a 1m di griglia, ovvero il satellite campiona la super cie terrestre prendendo le altezze secondo una maglia di 1 metro di passo. Parallelamente a questi, in formato raster, vengono forniti dati vettoriali, enormi insiemi di gure geometriche ognuna delle quali individua un singolo oggetto di interesse, nella sua geometria, nel caso di manufatti antropici, o come simbolo o super ce, nella perimetrazione di elementi morfologici.

Re-mapping the Pontine Plain

by Alessandro Isastia

Based on eldwork in the Pontine Plain, this contribution questions conventional cartography, arguing that there is a need to go beyond a standardized representation. The illustrations accompanying the text elaborated by the author show a possible description of the territory aimed at interpreting places. Drawing inspiration from a pictorial tradition of cartographic representation to scale, the aim is to elaborate an “expressive cartography” highlighting the distinguishing features of the Pontine Plain: mountains, plains, areas below sea level, as well as the forms of the territory in their relationship with the anthropic ones. For this purpose, the Pontine Plain is a special case: traced out during the 3rd century B.C., the Via Appia has endured for over two thousand years, although not always in use. Lined by a canal, it was the axis of reclamation also in the past. Since late antiquity, this structure has begun to crumble, to be eventually resumed in the late 18th century. In the 1930s, the plain acquired an entirely and geometrically planned design juxtaposed to the Lepini heights, where continuity of occupation and orographic conditions have preserved the strati cation of structures from antiquity to the present day.

Nella pagina a anco, in alto: veduta dell’Agro Pontino e dei monti Lepini presa da un punto di vista a nord dei colli Albani. Al centro: carta dell’Agro pontino e del versante occidentale dei monti Lepini alla scala 1/60.000 in formato A0. In basso: una sezione delle aree di boni ca all’altezza della città di Pontinia.

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la capacità sintetica del disegno di costruire un’immagine con i soli elementi necessari. Una veduta con una base di grande dettaglio, vista nell’angolazione giusta, e opportunamente trattata quanto a luci, ombre e orientamento delle stesse, riesce a dare conto anche delle discontinuità altimetriche più modeste. Ma non bisogna farsi troppe illusioni sulle vedute ravvicinate; per il momento questi sono strumenti che consentono buoni risultati su dimensioni vaste.

La carta dell’Agro Pontino e dei Lepini occidentali

Alcuni software GIS consentono di ottenere vedute prospettiche, a volo di uccello. Il territorio si presenta così secondo una visuale panoramica che si avvicina a quella di una sua frequentazione da un punto elevato, con

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L’ambizione è stata quella di elaborare una cartogra a che consentisse un solo sguardo di abbracciare un territorio nella sua interezza, ad una scala che permettesse quantomeno di identi care, per quanto piccolo, un singolo corpo edilizio di qualche metro di lato ed entro un formato praticabile: formato A0, scala 1/60.000. È un territorio che richiede una cartogra a che da una parte possa registrare anche minime variazioni altimetriche, anche sotto il livello del mare, nella parte pianeggiante, dall’altra quella montuosa richiede invece una robusta caratterizzazione plastica, completata da un accenno alla sua consistenza materica, che va dalle sabbie della piana ai diversi calcari delle zone montagnose. Questo è stato ottenuto riportando sulla i perimetri della carta geologica d’Italia al 50.000, pubblicata dall’ISPRA. Queste carte sono pensate come documenti locali, con una struttura gra ca che parte dai materiali e dalle forme del luogo e cerca di farne un insieme di immediata interpretazione intuitiva. La resa cromatica e di tutti gli altri segni è stata curata con molta attenzione. Nell’intento di una piena fruizione delle forme si omettono completamente i toponimi; ognuno di noi ha ormai in tasca uno smartphone con il quale potrà individuare il nome di un qualunque luogo sulla mappa. Questo anche per introdurre un altro tema, quello dello statuto gra co o estetico della carta, che necessita di un suo equilibrio compositivo che, se non ha in apparenza niente a che vedere con la comprensione dei suoi contenuti, ne in uenza nondimeno la percezione. Vi si illustrano le forme del territorio, diciamo naturali, nel loro rapporto con quelle antropiche. Danno un’idea di come una struttura urbana siede in un certo luogo, di come una linea infrastrutturale adatta la sua logi-


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ca astratta alla morfologia dei territori che attraversa, della riduzione a geometria agricola di pianure e pendici. E anche qualcosa della struttura geologica, quando si riesce a ridurne la complessità. Volendo descrivere il rapporto tra forme siche e fatti antropici, guardando un dato territorio, alcune cose generali e utili alla sua comprensione si possono dire. - Troveremo una trama storica strettamente legata alle forme siche, ai percorsi storici e al tracciato delle acque, sia che questo sia il loro tracciato originario o invece sia una rete arti ciale, incontreremo dei nuclei insediativi quasi sempre in prossimità di qualche discontinuità territoriale, con forme che possono essere quasi organiche anch’esse, con magari l’eccezione della cascina, della villa e il suo giardino all’italiana o del castello. A partire dal tardo Rinascimento, potremo trovare anche delle linee rette, legate dapprima all’approccio a qualche costruzione importante, per poi diventare assi territoriali, spesso legati a qualche forma eminente nel paesaggio, una cima, un monte. - Troveremo poi, a partire dall’Ottocento, i segni della cultura positivista, della riduzione sico-matematica dei fenomeni naturali. Le linee ferroviarie, l’applicazione forse più chiara di questi principi, con territorio percorso da due linee parallele a pendenze modeste, che si rapportano al territorio con trincee, rilevati, ponti e gallerie, e gli ampliamenti delle città storiche con maglie astratte, poco importa se siano reticolati o merletti, quello che conta è che dichiarano una forte estraneità alle forme del contesto, spesso anche quelle organiche della città cui appartengono. Gli elementi di cui alla fase precedente tendono comunque ad una aggregazione e ad una compattezza che nel corso del Novecento andrà allentandosi no a perdersi del tutto. Questo tipo di segni si aggrega in modo lasco accanto alla viabilità. Il rapporto con il territorio è perso, l’unico legame sembra essere la viabilità, mentre per quanto attiene alla forma prevale una logica interna al lotto. Quello dell’Agro Pontino è un caso particolare: tracciata nel corso del III secolo a.C., la via Appia ha resistito per oltre duemila anni, anche se non sempre è stata percorribile. Afancata da un canale, era anche l’asse del-

le boni che dell’antichità. Questa struttura cominciò a sfaldarsi già nella tarda antichità e non venne riesumata che alla ne del Settecento con i primi tentativi di boni ca su larga scala. In parte falliti, occorrerà aspettare quella degli anni Trenta, che portarono ad un territorio dal disegno interamente e geometricamente piani cato. Chiarissimo nella sua struttura originaria, è andato via via alterandosi a partire dalla seconda metà del Novecento, sotto la spinta di un grande dinamismo economico ed edilizio. Viceversa, ai margini della piana e sulle alture dei Lepini, continuità di occupazione e condizioni orogra che hanno conservato la strati cazione di strutture dall’antichità a oggi.

1 - Nella pagina a anco, in alto: La boni ca comprese anche la fondazione di cinque nuove città. Littoria, oggi Latina, ubicata appena discosta dalla zona più bassa. 2 - Nella pagina a anco, in basso: il contrasto tra sprawl e il paesaggio, pieno di potenziale, delle vallette formate dall’erosione di pozzolane, sempre materiale vulcanico, al con ne con il cordone sabbioso, nella zona di Ardea.

Dettagli della carta Il bianco indica le aree di altimetria inferiore, che vanno scurendosi con l’innalzarsi della quota. Il colore richiama invece la componente geologica oltre alle geometrie degli elementi antropici. In bianco la parte più bassa della piana con le ex-paludi, l’ampio e modesto rilievo sabbioso tra queste e la costa, interrotta dai canali di scolo della boni ca. Nella parte alta della carta le quote prendono a salire verso gli ex coni vulcanici dei colli Albani. Sulla destra, i rilievi dei Lepini con la conca di Priverno, il ripiano di Sezze e oltre i territori del frusinate. La rappresentazione del sostrato geologico e la resa delle altimetrie più modeste consentono di comprendere la conformazione dell’agro e di spiegare anche i motivi dell’impaludamento: tra la parte più bassa della piana e il mare corre dal piede dei rilievi dei colli Albani al Circeo un lungo cordone di sabbia, interrotto solo dal ume Astura e dal Rio Martino. Il Rio Martino prende nome dal Papa Martino V che tra i primi volle promuovere opere di boni ca. Per la sua giacitura, il cordone sabbioso agisce da argine rispetto alla parte più bassa della piana, nella quale con uiscono le acque che scendono copiose dai Lepini e dai colli Albani e che non trovano altro sbocco che quello di Terracina, che si raggiunge quasi senza pendenza a una trentina di chilometri più a sud. Nell’interstizio tra il cordone sabbioso e la duna trovano spazio alcuni laghi costieri. La forma dei rilievi alla base dei colli Albani mostra i modi dell’erosione, i tu verso Cori e le pozzolane verso il litorale. A livello antropico è chiara la struttura della boni ca, con la maglia degli appoderamenti, rigidamente squadrata nelle parti centrali

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3 - Una sezione dei rilievi calcarei dei Lepini, tra Sermoneta e Norma, sulla sinistra, Carpineto Romano, al centro dell’immagine e i due centri di Morollo e Supino sulla destra. Si distingue il crinale interno alla valle dove sorge Carpineto.

4 e 5 - Cori occupa anco e sommità di un colle, legato al sistema dei rilievi circostanti da una sella. Attorno, un an teatro di vallette entro uno dei crinali dei Lepini. Nella seconda immagine, il contrasto tra le forme dell’erosione di tu e pozzolane lungo il versante meridionale dei colli Albani, e i rilievi calcarei dei Lepini. Le due immagini appartengono a due contesti diversi e non si combinano a livello cromatico.

della piana, e a poligoni sul cordone sabbioso e sulle pendici dei colli Albani. La maglia comprende un ttissimo reticolo idrico. I canali principali, quello delle acque alte e quello delle acque medie, tengono lontane dalla piana le acque che vi si riversano dai rilievi circostanti, mentre quello delle acque basse ricalca sul sedime di un canale romano, che correva accanto alla Via Appia, sulla giacitura della quale è stata impostata l’intera boni ca. Corre invece fuori maglia la direttissima Roma-Napoli, inaugurata poco prima della stagione delle boni che, e pertanto discosta dalle aree inondabili: incrociata l’Appia a Cisterna, si addossa ai rilievi dei Lepini. Due parole in ne sugli elementi vegetali, 36

che si distinguono tra i tratteggi dei boschi e i puntinati degli arbusteti, delle alberature da frutto, degli ulivi e delle vigne.

Conclusione Piace alla nostra cultura credere che rappresentazioni del territorio sempre più precise e dettagliate consentano, oltre alla comprensione delle sue forme e alla geogra a della sua antropizzazione, anche la possibilità di una progettazione accurata ed appropriata. Ma non è così. La cartogra a ha una lunga storia legata alle preoccupazioni culturali delle varie civiltà che si sono succedute, dividendosi tra rappresentazione schematica e rappresen-


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tazione in scala. Mentre il mondo antico conosceva ambedue le possibilità, l’occidente medievale praticava una combinazione delle due: la cartogra a serviva infatti alla geogra a dei luoghi del Cristianesimo, rappresentata nei famosi mappamondi a T1; vi guravano, oltre a Roma, Gerusalemme e un Mediterraneo abbastanza preciso, anche il Paradiso, il monte Ararat con l’arca di Noè arenata sulla sua cima e tutto quanto il bagaglio mitico del Cristianesimo. Per la cultura del tempo questa era una mappa verosimile del mondo. D’altro canto, come scrive Giorgio Magnani nella sua Cartogra a morale2 il rapporto della mappa non è storicamente col territorio ma con le narrazioni ad esso connesse. Partite dai portolani e anticipate nel XV secolo con la celebre topogra a di Imola di Leonardo da Vinci, tra il XVII e XVIII secolo emergono le cartogra e “oggettive”, compiutamente misurate, comprese le altimetrie. Come la sorprendente Gyger Karte del cantone di Zurigo3. Sono di qualità gra ca altissima e hanno una resa delle forme del territorio particolarmente efficace4. Questa tradizione, alla quale in qualche modo varrebbe la pena di allacciarsi, è arrivata no al Ventesimo secolo con il grande cartografo svizzero Edward Imhof5. Paradossalmente però, mentre entravano puntigliosamente in scala nelle rappresentazioni cartogra che, le forme del territorio cominciavano lentamente ad uscire dagli immaginari della progettazione del territorio. La misura esatta delle forme prevale infatti sulla natura degli elementi, la loro materia e le forze in essi agenti, che erano state rappresentate innumerevoli volte vividamente nelle carte operative degli ingegneri; ora il piano astratto di matematici e geometri su cui verranno rappresentate è lo spazio della geometria euclidea, le cui proprietà sono l’isotropismo, l’omogeneità e la continuità. L’omogeneità cancella la natura dei territori, la materia che li compone, di quanto sta sotto il piano ideale; la continuità pretende che non 1 Si veda il libro di Alessandro Sca , Il paradiso in terra. Mappe del giardino dell’Eden, Bruno Mondadori, Milano, 2007. 2 Giorgio Magnani, Cartogra a morale, Franco Cosimo Panini, Modena, 2006, p. 17. 3 Hans Conrad Gyger (1599-1674), carta del cantone di Zurigo (1667). La carta di Gyger, straordinariamente precisa ed intuitiva, venne giudicata troppo pericolosa per essere esposta e vincolata al segreto militare. 4 A questo proposito si veda la qualità gra ca delle cartogra e dell’Impero Asburgico qui: https://maps. arcanum.com/en/ 5 Edward Imhof (1895-1986).

ci siano interruzioni, né con ni. L’isotropismo è il fenomeno per cui tutte le parti sono gerarchicamente voltate nella stessa direzione. Mentre le prime due avevano portato alle boni che, la realizzazione di un paesaggio ortogonale-rettilineo, la terza si vedrà nella costruzione dello stato centralizzato imperniato sulla gerarchia dei capoluoghi6. Il problema non è la rappresentazione di un territorio su di un piano astratto ma la pretesa che quanto vi viene rappresentato ne sia la resa oggettiva ed esaustiva. Ed è quindi stata questa contraddizione interna alla cartogra a a minarne prima la portata e, conseguentemente, poi la qualità gra ca. Prendiamo ad esempio il letto di un ume, avendo in mente una straordinaria carta acquarellata del delta del Po a cavallo tra Sette e Ottocento7. Ebbene la sua precisione è legata ai tempi del rilievo e ci si chiede quanto tempo dovette passare prima che certe isole scomparissero o cambiassero forma, o che il ume cambiasse letto, abbandonando rami secondari. Basta una stagione! Il territorio è dinamico nelle sue forme per sua natura e i paesaggi uviali a maggior ragione.

6 - La conca di Priverno, presidiata ai suoi quattro angoli da altrettanti centri, In senso orario, dall’alto a sinistra: Roccagorga, Maenza, Roccasecca dei Volsci e Priverno stessa.

6 Si veda Franco Farinelli, Geogra a, Einaudi, Torino, 2003, §4, p. 13. 7 Carta del dipartimento del Basso Po, 1812-14, in Le città immaginate, Un viaggio in Italia, Catalogo della XVII triennale, Electa, Milano, 1987, p. 123 e segg.

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7 e 8 - Terracina. Il centro storico, su una bassa propaggine dei monti Ausoni, innervato da un tratto rettilineo superstite dell’antica Via Appia. Sotto l’ampliamento della città dell’epoca delle boni che ponti cie, impostato attorno ai canali, e in fregio alla costa, l’espansione turistica del dopoguerra. In alto sulla rupe, sopra il porto, il tempio di Giove Anxur. Nella veduta, l’asse della Via Appia solca l’intera pianura pontina proveniente dai colli Albani. L’abitato di Terracina, con il rettilineo antico che scavalca il basso crinale del centro storico, il sistema dei canali e l’alta rupe con il tempio antico.

Da una piani cazione astratta nascono i territori contemporanei, nei quali, come ha bene detto il geografo Franco Farinelli, la 38

mappa ha sostituito il territorio8. 8 F. Farinelli, Geogra a, cit., §5, p. 14


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Anche a livello di piani cazione, magari paesaggistica, le cartogra e funzionali alla gestione del territorio sono per lo più, come peraltro tutta la cartogra a che abbia a che vedere con la normativa, destinate a rappresentare le perimetrazioni dei diversi regimi dei suoli e dei vincoli che su questi gravano. Gli aspetti paesaggistici sono peraltro trattati appunto attraverso il sistema dei vincoli, che nella cartogra a di piani cazione provinciale, per esempio, diventano una tale messe di segni e campiture da rendere impossibile una lettura del territorio! E purtroppo non si trova, alla base del processo decisionale, nessun elaborato che ne affronti e ne illustri le forme. In un mondo ormai sempre pensato da remoto, per quanto si cerchi giustamente di portare la piani cazione verso il progetto locale9 occorre ricordare che la maggior parte, e molto probabilmente la più ricca paesaggisticamente, dei nostri territori non si è strutturata secondo mappe in scala, ma con altri strumenti. Consuetudine ed esperienza soprattutto. Il procedimento umano di appropriazione di un sito per farne un luogo, con quindi un investimento emotivo, assolutamente prescinde da una rappresentazione in scala. Stesso investimento emotivo che presiederebbe al progetto di un edi cio o di una collettività di edi ci in un dato luogo. In conclusione, siamo in una società che attraverso le grandi piattaforme social pensa al metaverso, un luogo di esistenza virtuale e parallela, già esplorato dalla saga di Matrix ancora alla ne del secolo scorso10, dove pertanto la pregnanza di qualsiasi punto del territorio è modesta, perché l’universo sensoriale in esso non è più assoluto tanto che, grazie alle reti satellitari e ai piccoli terminali nelle nostre tasche, è diventato quasi impossibile perdersi o non sapere dove ci si trova. Il ruolo della mappa come strumento di ubicazione sembra del tutto superato, ma il rapporto con il territorio andrebbe ricostruito secondo descrizioni verbali e gra che che ne evidenzino le forme, le articolazioni, i meccanismi orogenetici, ed eventualmente spazi e orizzonti. Nel Tractatus Logicus Philosophicus, Wittgenstein scrisse che per essere mondo, i fatti devono essere nello spazio logico, ossia essere rappresentati, isolandoli dal continuum vitale: la rappresentazione cartogra ca è uno di questi spazi logici. 9 Alberto Magnaghi, Progetto locale, verso la coscienza di luogo, Bollati e Boringhieri, Torino, 2010 10 Il lm Matrix, scritto e diretto dai fratelli Andy e Larry Wachowski, è uscito nel 1999.

Una grammatica delle forme territoriali in grado di articolare i singoli elementi, riconosciuti nelle loro forme e nella loro pregnanza territoriale, una geogra a dei sensi, dei punti di vista11 che potrebbe anche portare a riabitare i territori in qualche modalità un po’ più nobile della mera, infrastrutturata e connessa, occupazione, modalità commisurate ad un conforto umano interiore, dato dalla rispondenza delle dimensioni intime dello spazio costruito a quelle del paesaggio, riconosciuto come luogo, come signi cativa maggior dimensione, come vastità. La nostra distanza dal mondo fa sì che i luoghi dobbiamo faticosamente ritrovarli e riconoscerli; per questo dobbiamo rilevarli. Che poi il rilievo sia solo mentale, un veloce schizzo, o un corposo numero di disegni, poco importa: quello che conta è la consapevolezza anche e soprattutto istintiva, del sito. La cartogra a è quindi uno strumento come un altro, è solo un altro punto di vista; dipende a chi viene messo in mano. Se l’utente ha conoscenza ed esperienza dei luoghi, una buona cartogra a può fargli comprendere molte cose e consentirgli di pensarne e progettarne altre in conseguenza. Oppure, come potrebbe essere il caso della mappa che andiamo presentando, quella di dare un’idea della forma e della struttura dei luoghi, di sedurre magari per le forme rese con qualche pretesa sensuale, di suscitare curiosità su qualche rapporto, per esempio tra un abitato e l’orogra a in cui siede. Senza mai dimenticare che il rapporto veritiero si dà con la presenza sica. In situ, in loco. © Riproduzione riservata

11 F. Farinelli, Geogra a, cit. §16, p. 37

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Rise(s) and fall(s) of Ninfa along Via Pedemontana By Mevlut Cihan Alkan

At present, Ninfa is both an abandoned medieval town and an early-20th-century landscape park, not far from Latina-Scalo railway station. Ninfa, whose prosperity peaked from 1297 to 1382, may be studied as a compelling case of the relationship between a town and a road, namely Via Pedemontana along the foothills of the Lepini mountains. Pre-dating the Via Appia, this route from Rome to Terracina prevailed when the regina longarum viarum (queen of long-distance roads) was not practicable. Another protagonist in the life of Ninfa was the in uential Caetani family1, who owned the town and most of the land around it, once called Marittima. This contribution explores the relationship between Ninfa and the via Pedemontana with the help travel of literary and visual accounts.

Ninfa through the eyes of travellers English artist and travel writer Edward Lear spent a good part of his life in Italy and visited Ninfa in 1840, producing many ne views of the town and surrounding landscape2. Twenty years later, in 1860, Ferdinand Gregorovius, a German historian dazzled by the beauty of Rome, and a passionate scholar of its medieval history, extolled Ninfa as “the Pompeii of the Middle Ages”3. Another English travel writer, Augustus John Cuthbert Hare, visited Ninfa in 1874. They all found an abandoned town engulfed by an untamed 1 Cfr. Tommaso Agnoni, “The role of the Caetani Family”, unpublished paper presented at the Seminar Mapping the Pontine Plain, AUIC School, Politecnico di Milano, 28 April 2021. 2 Edward Lear, Views in Rome and its environs, Mc Lean, London 1841. 3 During his twenty-two-year stay in Rome (18521874), Gregorovius portrayed the Italian historical landscape, accompanying historical research with a personal interest in the Risorgimento risings.

Ascesa e declino di Ninfa lungo la Via Pedemontana

di Mevlut Cihan Alkan

Ninfa è una città medievale abbandonata a soli 6 km dalla stazione ferroviaria di Latina-Scalo. A partire dagli anni Venti del Novecento, alcuni membri della famiglia Caetani, la cui storia si intreccia a quella della città, hanno trasformato la Pompei del Medioevo in un giardino paesistico, mettendo a dimora specie botaniche provenienti da diversi paesi. Il destino di Ninfa, la cui epoca d’oro culminò tra il 1297 e il 1382, è legato tanto ai Caetani, proprietari di gran parte della cosiddetta Marittima, quanto alla Via Pedemontana che corre alla base dei Monti Lepini. Questa strada, che collegava Roma a Terracina prima che fosse costruito il rettilineo della Via Appia, tornò in auge nei periodi in cui il rettilineo era impraticabile per carenza di manutenzione. Questo contributo si sofferma sul rapporto tra l’antica città e l’itinerario lungo il quale si attestava, associando vedute e descrizioni di viaggio.

On the previous page, at the top: map showing the route of the Via Appia across the Pontine Marshes and that of the Via Pedemontana along the foothills of the Lepini Mountains (source: author’s elaboration 2023). On the previous page, below: view of the Via Appia as a viaduct across the plain with Circeo promontory in the background (source: Lear 1841).

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1 - The Via Pedemontana by the Ninfa Lake. On the left, at the top of the rock face, the town of Norma, whose population moved to Ninfa after its destruction by Lucius Cornelius Silla. The name of modern Norma did not appear in official documents until the 8th century AD, when Ninfa and Norma were donated to Pope Zacharias by the Byzantine emperor Constantine V Copronymus (source: Lear 1841).

nature, yet their visual and written accounts bear tangible witness of a former grandeur and architectural majesty. Lear depicted the Via Appia as an arti cial embankment across a desolate plain, whereas Gregorovius gave a vivid description of the Pontine Marshes as a vibrant ecosystem of owers, lakes, and lush forests, where some vestiges of the past could still be identi ed.

“… the panorama of the Marittima is especial-

ly magni cent ... These watchtowers were built in the ninth century ... A tower gleams on the seashore ... it is the celebrated castle of Astura ... Further on is another tower by a great lake ... These are the Tower and Lake of Fogliano, in ancient times Clostra Romana ... Whoever has not traversed the Pontine marshes by the Via Appia as far as Terracina, has the most erroneous idea of their nature ... In May and June, the Pontine land is a sea of owers ... In summer it is a Tartarus, where pale fever stalks ... The nearer to the sea, the more forest ... From the mouth of the Tiber the forests of Ostia, of Ardea, of Nettuno, Cisterna, and Terracina succeed one another ... In the middle of these woods or on their borders lie single farms... Where the forest leaves off in the interior stretch endless meadows... Near it is Cisterna, the largest place in the marshes, close to which the Three Taverns stood formerly...”4

Hare traveled the Via Appia a few years later, enjoying the elevated perspective on the plain which, to him, resembled the verdant plains of Lombardy. 4 Ferdinand Gregorovius (1860), Latian summers and an excursion in Umbria, Junior Army & Navy stores, London 1902, p. 277-280.

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“Many people imagine that the Pontine Marshes are only marshy ground, a dreary extent of stagnant, slimy water, a melancholy road to travel over: on the contrary, the marshes have more resemblance to the rich plains of Lombardy; yes, they are like them, rich to abundance; grass and herbage grow here with a succulence and luxuriance which the north of Italy cannot exhibit5”.

An “unreal semblance of a town”, whose walls, towers, churches, and convents, half buried in the swamp, were entombed beneath the thickest of ivy6. Gregorovious’s words echo in Hare’s description: seen from outside the walls Ninfa hardly resembles a town, as every building is so encrusted in verdure that “the houses look like green mounds rising out of the plain”7. To their eyes Ninfa was a town that seems almost not to be. Extolling the interplay between architecture and nature, both though of Pompei as an appropriate term of comparison. Yet, according to Gregorovious, Ninfa “has a more charming aspect”8. Just as at Pompeii “the classic age expresses itself decidedly in the bright frescoes, so in Ninfa the Christian epoch of humanity speaks from the paintings on the walls of the ruins”9. Suggesting that the interplay between 5 Augustus J.C. Hare (1875), Days Near Rome, vol. 1, 3rd edition, George Allen, London 1884, p 249. 6 Ferdinand Gregorovius (1860), Latian summers, cit., p. 281. 7 Augustus J.C. Hare, Days Near Rome, cit., p. 237. 8 Ferdinand Gregorovius (1860), Latian summers, cit., p. 281. 9 Augustus J.C. Hare, Days Near Rome, cit., p. 240.


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2 - View of Ninfa with its tower and the churches of S. Maria Maggiore (in the middle) and S. Biagio (on the right); Norma on the hilltop (source: Lear 1841).

3 - The castle and the municipal hall of Ninfa, with Norma in the background (source: Lear 1841).

man-made structures and nature created a site-speci c environment worthy of exploration, this powerful imagery challenges notions of decay and renewal, inviting us to re ect upon the unexpected paths to preservation. Encapsulated by volcanic destruction, Pompeii represents a moment frozen in time, whereas Ninfa emerges as a dynamic entity, where the past intermingles with the present. This distinctive allure of Ninfa, where history and nature converge, echoes in both Gregorovius’s and Hare’s words: “Flowers crowd in through all the streets ... for within dwell elves, fairies, water-nymphs, and a thousand other charming spirits from the world of fable 10”. 10 Ferdinand Gregorovius (1860), Latian summers, cit., p. 282.

If fairies exist anywhere, surely medieval Ninfa is their capital: Ninfa, where Flora holds her court, where the only inhabitants are the roses and lilies, and all the thousands of owers which grow in the deserted streets11.

Flowers and water elements enchantingly dominate Ninfa’s landscape. Gregorovius depicts a melancholic scene of still waters mirroring ruins and the tower, with the water hen’s poignant cry deepening the atmosphere. “The dark tower and other ruins cast their trembling images down upon the still waters of this pool. The reeds rustled sadly. Often, deep within them, came the sobbing cry of the water hen, like the soul of one of the departed living in this Hades and longing for the upper regions12”. 11 Augustus J.C. Hare, Days Near Rome, cit., p. 237. 12 Ferdinand Gregorovius (1860), Latian summers, cit., p. 285.

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4 - Plan of Ninfa (source: Caetani 1927, Vol. I part. 1, p. 308).

Hare instead points out human imprints like the mill built by the Caetani, alluding to Pliny’s islands. In the 1st century AD, in fact, Roman naturalist, and philosopher Pliny the Elder mentioned a temple dedicated to nymphs at the bottom of a lake, also referring a local belief about the presence of two oating islands, known as saltuares13. “An inscription on the mill tells that it was built by one of the Caëtani in 1765... and a little farther on becomes a lake, on which Pliny mentions the oating islands in his time, which were called Saltuares, because they were said to move to the time of dancing feet14”.

13 The Natural History of Pliny, translated with copious notes and illustrations by John Bostock, M.D., F.R.S, and H.T. Riley, B.A., vol. 1 (London: George Bell and Sons, 1893), p. 123. 14 Augustus J.C. Hare (1875), Days Near Rome, cit., p.238.

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A stronghold along Via Pedemontana The Via Pedemontana encompassed the “still waters” of the lake from which the Ninfa River ew across the town, continuing through the plain until the Tyrrhenian Sea. Occurrences and recurrences in the history of Ninfa re ect the shifting role of Via Pedemontana, an archaic shepherd path running along the foothills of the Lepini and Ausoni mountains15 lining up pre-roman towns along its route: Velitrae (Velletri), Cora (Cori), Norba (Norma), Setia (Sezze) and Privernum (Priverno). The plain in between the mountains and the Tyrrhenian Sea was then a vast expanse of forests and marshes, 15 A sublittoral alignment referable to the Apennines, cfr. Guida d’Italia, Lazio, Touring Club Italiano, Milan 1981, p. 685.


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5 - Aerial photo of Ninfa along Via Pedemontana’, 1964 (source: Fondazione Roffredo Caetani).

which the Via Appia crossed on a higher level in a 19-miles straight viaduct parallel to a navigable canal, also heading to the port of Terracina. At its peak, the Via Appia served as a military axis, also bustling with pilgrims and traders, heading to Rome to the southern regions. When its maintenance was left aside, the Via Pedemontana came into play, acting as a trade route across the mountainous regions of central Italy. In 490 AD, when Theodoric undertook reclamation works, the Via Appia was in such a state of neglect that Via Pedemontana had taken over: amidst political instability and banditry, it provided a safer alternative. Around the mid-8th century, Ninfa was a still a small town bene tting from the abundance of water sources and from its strategic location: the last safe stronghold before the swamps, thence an essential stop for travelers and traders along the foothills route.

When Campagna and Marittima - the regions corresponding to southern Latium were uni ed under the temporal power of the papacy, many popes attempted to reclaim the marshes. One of them, Boniface VIII (1294-1303), was a member of the Caetani family. In 1297, he took control over Ninfa and Sermoneta marking the beginning of the Caetani presence in the Pontine territory. At a time, the Via Appia laid in total decline, and the Via Pedemontana connected the Papal States to the Kingdom of Naples passing from the main Caetani estates: Cisterna, Ninfa, Bassiano and Sermoneta.

Rise and fall of Caetani’s Ninfa Formerly, the town was a feud of the Frangipane family where, in 1159, Pope Alexander III was consecrated, provoking the reac-

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tion of Barbarossa, who set re to the city in 117116. Boniface VIII started the acquisition process of Ninfa in June 1297, when local residents bestowed their possessions, rights, and persons to his nephew Pietro Caetani. The acquisition was ultimately formalized in October 1300, with a papal bull granting Pietro Caetani and his descendants perpetual control over Ninfa and its territory in between Rome and Naples; the family was to rule almost uninterruptedly for many centuries17 over this strategic area. At Ninfa, the Caetani family brought about an architectural and cultural renaissance ushering in a period of signi cant development and transformation, which led to construction of many buildings, some of which still exist, re ecting Romanesque and Gothic architectural styles. Seen from the Via Pedemontana, however, Ninfa looked like a fortress. The city walls formed a quadrilateral of approximately 1400 m; the citadel proper, started in the late 12th century, underwent extensive renovations from 1298 to 1303, with the construction of e 32-meter-high tower and an enclosure. The citadel was naturally protected by the lake and by the mountain range. Mountain-roadlake-citadel: this natural/arti cial strategic system also ensured control over transits along Via Pedemontana. Within the citadel, Pietro Caetani built the baronial palace featuring distinctive Gothic biforate windows18. The Town Hall, also featuring a Gothic-style painted vaulted hall and seven biforate windows, held a signi cant place in the city’s history. It was mentioned in records dating back to 1298, when Ninfa Municipality was dissolved19. Further 16 That period corresponds to the Papal Schism of 1159-1178 that led to the election of two popes, the Alexander III from Siena supported by the Frangipanes, and Victor IV from Rome supported by Emperor Frederick Barbarossa. Cfr. Maria Teresa Caciorgna, Ninfa prima dei Caetani (secoli XII e XIII), in Ninfa: una città, un giardino, «Atti del Colloquio della Fondazione Camillo Caetani, Roma-Sermoneta-Ninfa, 7-9 ottobre 1990», a cura di Luigi Fiorani, L’Erma di Bretschneider, Roma 1990, pp. 39-63. 17 With the only exception of the years from 1499 to 1504, when Pope Alexander VI Borgia excommunicated the Caetani and took away all their property. Cfr. Tommaso Agnoni, “The role of the Caetani Family”, cit. 18 The citadel presents subsequent construction phases, with tuff and limestone blocks. 19 Later, in 1747, it suffered a collapse and in 1765 was used as a granary, Cfr. Gelasio Caetani, Domus Caietana, Storia documentata della famiglia Caetani. Volume I parte 1: Medioevo, San Casciano Val di Pesa, 1927, p. 115; 117.

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architectural landmarks were Ninfa’s fourteen churches, among which S. Pietro, S. Maria Maggiore, S. Paolo, S. Giovanni, S. Salvatore, and S. Biagio are better known20. In the earlier churches, such as S. Pietro and S. Biagio, the use of Byzantine feet as a unit of measure, as well as the distinct stylistic elements and the artistic decorations, attest to the strong connections with the Eastern Roman Empire. The church of S. Maria Maggiore, also showing a distinctly Byzantine character, was later expanded into a Romanesque Basilica, suggesting a change in patronage and aesthetic preferences. When the Caetani family took hold of Ninfa, the architecture of churches such as S. Paolo, S. Giovanni, and S. Salvatore began to mirror the Gothic style. These switch — from Byzantine to Romanesque, from Romanesque to Gothic — bear witness to a cultural re-orientation, facilitated by the constant ow of ideas along Via Pedemontana. Under the Caetani, Ninfa developed into a cultural hub. The architectural landmarks, including the citadel, the Town Hall, and the churches, showcase the city’s evolving tastes and the cultural in uences. While concrete historical records supporting direct patronage of the arts, literature, and intellectual pursuits may be scarce, the presence of these structures suggests a ourishing artistic and intellectual environment. The golden age of Ninfa however lasted only 85 years, from 1297 to 1382. Entangled in the struggles following the Papal Schism of 137821, the Caetani family was divided between the Caetani-Palatini of Ninfa, supporting Antipope Clement VII, and the Caetani of Sermoneta, backing Pope Urban VI, a familial and political rift exacerbated by disputes over Ninfa, Sezze, and Sermoneta. In 1381, Onorato Caetani led troops to occupy Ninfa, a con ict escalating into a fullblown attack in 1382 when Onorato’s troops destroyed every single house from the foundations to the roof22 and the town was left in ruins. In the aftermath of the attack, survivors were forced to abandon Ninfa and seek refuge in nearby towns, primarily Sermoneta. The environment also played a crucial role in the city’s decline. The river silted 20 Cfr. Ninfa: una città, un giardino, cit., p. 230. 21 The Papal Schism, also known as Great Western Schism, was a split within the Catholic Church lasting from 1378 to 1417 , during which rival bishops residing in Rome and Avignon both claimed to be the true pope. 22 Gelasio Caetani, Domus Caietana, Storia documentata della famiglia Caetani. Volume I parte 1: Medioevo, San Casciano Val di Pesa, 1927, p. 306.


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up, Ninfa lost part of its strategic advantage as a trade hub. In 1400, Giacomo II bequeathed to his nephew the County of Fondi, the lands subject to the Kingdom of Naples, the Duchy of Sermoneta and the lands subject to the Papacy. These possessions were strategic not only for the “right of way” along Via Pedemontana across the Pontine Marshes, but also because of their income production: timber and coal from the woods, livestock breeding and shing. In 1600, the shing industry alone accounted for 20 % of the family’s income (at the time, people

were fasting more than one hundred days a year). In fact, the Caetani Family had set up a highly efficient transport service to collect and transfer the catch to Cisterna, from where it was trasported to Rome. Two centuries of legal dispute between the Caetani family and the community of Sezze over water derivations testify to the importance of these economic activities23. The Via Appia became usable again in the late 18th century. In 1776, Pope Pius VI en-

6 - Map of Ninfa and its surroundings (source: author’s elaboration 2023).

23 Cf. Tommaso Agnoni, “The role of the Caetani Family”, cit.

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trusted engineer Gaetano Rappini with a reclamation project. The proposal was to excavate a main canal that would collect all the waters from the plain and run parallel to the Via Appian for 21 km. The canal would also be utilized for the transportation of people and goods to and from Terracina, where the ancient port was to be rebuilt and furnished with large warehouses. The trade along Via Pedemontana would be diverted along the Via Appia, with its ancient monuments being unearthed and staging posts being rebuilt 24. Consequently, the transit on the Via Pedemontana lost its value; at the time, thanks to its abundant water resources, Ninfa’s industrial activities remained active and new ones were established: traditional mills, fulling mills, an ironworks, and a tannery all sprung up among the ruins.

Early 20th century Ninfa in the eyes of Gelasio Caetani Ninfa regained momentum before and after the First World War, thanks to Gelasio Caetani25, a member of the family but also a diplomat, and an engineer with a real passion for history, architecture and archaeology. His family ties and personal interests led him to invest substantial effort and attention into preserving and restoring Ninfa. Recognizing its potential, Gelasio embarked on a mission to restore and revive the town. In 1905, he began by stabilizing the double walls with their towers, the few bridges crossing the Ninfa River and the ruined churches. Moreover, Gelasio also conducted excavations and archival research, resulting in a series of scholarly publications26. At a time when the Rome-Naples railway line was nearing completion, Gelasio Caetani promoted an association aimed at reclamation of the Pontine Marshes., his vision hinged on family properties strategically located in the plain, which were to play a pioneering role in the reclamation scheme27. 24 Cf. L. F. Delmas, La Boni ca Pontina di Pio VI (Analisi economica e sociale di un ambizioso progetto nel secolo dei lumi), MA Thesis, Università Commerciale Luigi Bocconi, academic year 1989-90. 25 Pier Giacomo Sottoriva, Gelasio Caetani (18771934). Il realismo dell’utopia. Appunti per una biogra a, Palombi editori, Rome 2015. 26 Gelasio Caetani, Domus Caietana. Storia documentata della famiglia Caetani, Vol. 1, Part 1 and 2; Vol. 2, Part 1 and 2, Fondazione Camillo Caetani, San Casciano Val di Pesa 1927. 27 Silvia Boca, Aleksa Korolija and Cristina Pallini,

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In 1924, as Italian Ambassador to the United States, Gelasio Caetani published an insightful article in The National Geographic Journal about the Pontine region, presenting its legendary past and future prospects28. “I will attempt to tell you something of a generally little-known region, quite close to Rome, called the Pontine Marshes. This strange corner of Italy has been the abode of my family for almost a thousand years and a large part of the land has belonged to us uninterruptedly since the year 1297”.

His text continues evoking the legendary encounter between Odysseus and Circe, clarifying that the whole plain was once densely populated and highly productive, counting twenty-three towns, whose complete disappearance might be explained considering that every abandoned ruin, became a precious quarry for the construction of new buildings, and that malaria drove people from the plain. “The great Appian Road, not a long time after being built, began to sink in places and had to be raised by Trajan and other Roman emperors. During the eighth century it went completely under water and the road from Rome to Naples had to be shifted to the foothills. passing near Ninfa and Sermoneta”

Obviously, Gelasio Caetani also mentioned Ninfa, whose city walls withstood many attacks. “the only building that still is habitable is the municipal hall, which I have transformed into my private dwelling. In front of it ows the crystalline river Ninfa that, a few yards distant, springs out of the rocks at the bottom of a charming little lake and ows through the abandoned city, while branches of ivy, brambles, vines, and roses hang down from the ruins to play in the running water”.

His dedication to Ninfa went beyond restoration, encompassing the gardens and agricultural aspects as well. Drawing from his expertise as a mining and metallurgical engineer, gained during his time in California, Gelasio applied his knowledge to cultivate “Past glories and future challenges: towns, cities and the landscape in the Pontine Plain”, Proceedings of the International Conference Changing Cities IV, Spatial, Design, Landscape & Socio-Economic Dimensions, 24-29 June 2019, Chania, Crete (GR). 28 Gelasio Caetani, “The story and the legends of the Pontine Marshes”, in The National Geographic Magazine, Vol. 45, n. 4, 1924, pp. 357-374.


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7 - Author’s MA project model, “Identifying the missing links: a crosscut through Ninfa between the lake and abandoned town”.

the gardens and orchards of Ninfa. He aimed at creating a place of grandeur and seclusion, which he achieved by planting various trees like pines, cypresses, holm oaks, and other evergreens that provided both shade and a sense of privacy. Additionally, Gelasio introduced a range of crops, including potatoes, artichokes, strawberries, tomatoes, and plums, re ecting his commitment to both beauty and productivity in Ninfa’s landscape. Gelasio Caetani’s remarkable dedication and efforts transformed the ruins of Ninfa into a breathtaking landscape garden, where the beauty of the surroundings harmoniously blends with the preserved medieval heritage. His vision was to showcase the profound sense of beauty, peace, and hope that Ninfa embodies.

Concluding remarks Today, Ninfa stands as a testament to its tumultuous past, with its ruins along Via Pedemontana silently recounting a tale of prosperity, political turmoil, and eventual abandonment. This captivating narrative underscores Ninfa’s enduring signi cance in the annals of Italian history, serving as a poignant reminder of the power of restoration, preservation, and the timeless allure

of nature and heritage intertwined. From its strategic position along the trade route to its cultural vibrancy under the Caetani family, Ninfa left an indelible mark on the historical and architectural landscape of Italy. The restored ruins and picturesque landscape garden now stand as tangible evidence of the city’s past glory, beautifully blending the remnants of human endeavours with the serenity of the natural environment. Ninfa’s journey along the Via Pedemontana serves as a compelling testament to the resilience of heritage. © Riproduzione riservata

NOTE This text is partly based on research undertaken by the author for his MA thesis, cf. Mevlut Cihan, Identifying the missing links: a crosscut through Ninfa in between the lake and the abandoned town, surpervisors C. Pallini and A. Korolija, AUIC School, Politecnico di Milano, April 2023.

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I tratturi: le (in)visibili vie della transumanza di Davide Libretti, Houssam Mahi e Francesco Martinazzo

Sin dall’epoca dei lumi il mondo della pastorizia è entrato in con itto con l’idea di civilization. “Sentir parlare di pecore e di capre, delle cure che occorre dedicare a questi animali, non è cosa che abbia di per sé alcunché di piacevole; quel che piace è l’idea della quiete connessa alla vita di coloro che si prendono cura delle pecore e delle capre. Poiché la vita pastorale è di tutte la più pigra, essa è anche la più adatta a servire di base a tali gradevoli rappresentazioni”. (Fontenelle, 1742, pp. 135-36 e 140).

Se infatti le parole di Fontenelle restituiscono un’immagine del mondo pastorale sbiadita e caricaturale, prodotta dalla concezione illuminista di civilizzazione contrapposta al “melenso” selvaggio; allo stesso modo la scomparsa della “società organica”, avvenuta in Italia intorno agli anni Cinquanta, è stata connotata dalla stessa volontà di “dirozzamento” (Starobinsky, 1990, p. 16). Questo atteggiamento ha così portato alla scomparsa di una “tradizione” fatta di ciclicità rituali, come quelle raccontate dai “lunari”, e delle letture dei segni impliciti ed enigmatici della natura.

Sheep tracks, the (in)visible routes of transhumance.

by Davide Libretti, Houssam Mahi and Francesco Martinazzo That between the pastoral world and the idea of civilization is a long-lasting con ict. Somehow, the bucolic or nostalgic depictions of pastoral life compensate for the loss of traditions and cyclical rituals linked to nature. Exploring the landscapes of transhumance, however, we still nd ruins and layers of signs bearing witness to the rituals of an ‘organic society’. Over time, sheep tracks have fed cultural links between distant towns, allowing them to form a single civitas. These routes lined by humble shelter architectures may be considered a strati ed mythical palimpsest, embedding the ‘original re’ as an intangible heritage infrastructure, whose architectural and cultural interest should be investigated for the possible enhancement of the regions concerned.

“L’umanità, nel corso della sua storia, si allontana sempre più dalle sorgenti del mistero e smarrisce a poco a poco il ricordo di quel che la tradizione le aveva insegnato sul fuoco, sul luogo e la formula — ma di tutto ciò gli uomini possono ancora raccontarsi la storia” (Agamben, 2014, p. 3).

Le transumanze, ad esempio, sono ritmate dai solstizi di autunno e di primavera corrispondenti alle festività dei santi Michele (29 settembre) e Giovanni Battista (24 giugno). Gli echi lontani di questi riti persistono nel paesaggio come rovine e strati cazioni di segni. Infatti, le strade utilizzate durante la transumanza tra Abruzzo e Puglia, chiamate Tratturi — dal latino trahere: trascinare, tirare — hanno origine dal passaggio delle greggi e degli armenti che da millenni plasmano

Nella pagina a anco: Il tratturo Magno. Fonte: Russo, 2015, pp. 186.

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forze in gioco sono tenute insieme da una struttura viaria rami cata (costituita dai così detti tratturelli e bracci), indistinguibile dal paesaggio circostante, lungo cui si articolano umili architetture-rifugio dette riposi. Non deve quindi sorprendere se due città, tra loro distanti e morfologicamente diverse, con lo stesso nome, in realtà ne costituiscano una. Il Castel del Monte dell’Aquila e il Castel del Monte in Puglia rappresentavano il punto di partenza e di arrivo della transumanza: due porti uniti dal Tratturo Magno che dal versante sud del Gran Sasso discende no al Tavoliere delle Puglie. Rivelatore è infatti il modo in cui gli anziani rimasti percepiscano le due urbēs fatte della stessa civitas, tanto da fargli dire: “siamo lo stesso paese”. Proprio perché il paesaggio strati cato che si è tentato di introdurre, fatto di riti e di miti, è portatore del “fuoco originario” di Agamben, ci si chiede se oggi sia necessario rivolgersi all’origine, “la quale preesiste alla storia che successivamente vi si adatta“. “Non sappiamo più accendere il fuoco, non siamo capaci di recitare le preghiere e non conosciamo nemmeno il posto nel bosco: ma di tutto questo possiamo raccontare la storia. E, ancora una volta, questo bastò” (Scholem, 1993, p. 353).

Una ri essione utile ad intuire modalità possibili di riquali cazione e di valorizzazione del territorio.

La gura del pastore

1 - Pastore con i tradizionali pantaloni da lavoro detti paramacchie. Fonte: Russo, 2015, p. 204.

con le loro orme il terreno stabilendo delle direttrici. Gli itinerari utilizzati dai pastori durante le annuali migrazioni si compivano in autunno dalle montagne verso le pianure e, viceversa, in primavera. Non è un caso che questi tracciati, apparentemente avulsi da qualsiasi tipo di “urbanità”, lascino percepire, anche grazie alla loro capacità di sviluppare percorsi alla scala territoriale, dei collegamenti inediti tra gli insediamenti di quella geogra a. Questo invisibile “intermedio che acquisisce forma” (l’in-between di Aldo Van Eyck) non è dissimile dalle forze di un campo elettromagnetico che coinvolge diverse polarità. Le 52

L’idea moderna di “infrastruttura” è senz’altro derivante dalla metabolizzazione di certe idee illuministe (poi si vedrà come queste in uenzeranno le vicende paesaggistiche di cui ci si accinge ad esporre) che dipinsero lo “stato di natura” come un mondo privo di de nizione e dominato da automatismi. Si veda, ad esempio, tutto il lone loso co nato dalle così dette tesi “meccanicistiche”. Secondo tali correnti culturali, l’uomo dei primordi è caotico, inde nito e lo “Stato” avrà il ruolo di addomesticarlo. Contro queste sempli cazioni si scagliò Rousseau che, dopo aver aspramente criticato il sistema assolutista di Hobbes, descrisse l’uomo primitivo come sì una macchina creata dalla natura, ma con l’innata capacità di affinare il proprio intelletto grazie alla forza incontenibile delle passioni e alla sua libertà. “Hobbes pretende che l’uomo sia naturalmente coraggioso e non desideri altro che attaccar briga e combattere. Al contrario un losofo


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2 - Il Tratturo LuceraCastel di Sangro, fra Civitanova del Sannio e Duronia, 1996. Fonte: Petrocelli, p. 6.

illustre pensa, e lo affermano anche Cumberland e Pufendorf che non vi sia niente di più timido dell’uomo nel suo stato di natura, che egli sia sempre tremebondo e pronto a scappare al primo rumore che lo colpisca … Io non scorgo in ogni animale che una macchina complicata a cui la natura ha dato i sensi … con questa differenza: che la natura compie da sola tutte le operazioni della bestia, mentre l’uomo partecipa alle sue qualità in quanto agente libero. Checché ne dicano i moralisti l’intelletto umano deve molto alle passioni … Noi cerchiamo di conoscere solo perché desideriamo di godere “… (Rousseau, 2018, pp. 41-49).

Di qui la critica al prototipo dell’uomo positivista, povero di qualsiasi forza intrinseca: “Lasciate all’uomo civile il tempo di radunare intorno a sé tante macchine, e senza dubbio supererà facilmente il selvaggio; ma se volete una gara in condizioni più diseguali, metteteli l’uno davanti l’altro nudi e disarmati, e riconoscerete il vantaggio d’aver sempre a disposizione le proprie forze” (Rousseau, 2018, p. 41). Chiarire questo importante passaggio, se pur, come poc’anzi si è fatto, in termini prettamente loso ci, dal mondo organico al mondo inorganico è cruciale per comprendere cosa abbiano rappresentato nella storia d’Italia (e non solo) i tratturi. Ricche di storie avvolte sfocianti nella più ardita fantasia, di quelle che si raccontano lungo le vie carovaniere o di pellegrinaggio

(si pensi ai racconti di Canterbury), le vie della transumanza hanno sancito un con ne tra ciò che noi denominiamo “mondo civile e mondo rurale” (arti ciale e organico per l’appunto). Non si tratta però della stessa divisione “città-campagna” attuata da un’autostrada. L’autostrada è un oggetto “calato dal cielo” prima inesistente e al di fuori del paesaggio, mentre invece il tratturo è il paesaggio stesso. “Un altro spettacolo che va scomparendo sotto i nostri occhi, ma in questo caso da poco tempo, è quello della transumanza, realtà plurisecolare grazie alla quale la montagna era legata alla pianura e alle città che vi sorgevano, trovando in questo una fonte di pro tti e di con itti. Oggi molto ridotti di volume, tale movimento esiste ancora, spesso però è sostituito dai trasporti su camion o per mezzo della ferrovia” (Braudel, 2017, p. 22).

Le greggi non viaggiano su una linea retta, ma su una sezione territoriale estremamente variabile che racchiude, in un unico grande sistema, paesaggi diversi difficilmente raggiungibili da persone inesperte. La variazione del suolo è, inaspettatamente, come osserva Braudel, la causa principale che ha determinato non solo alcuni motivi di scissione tra alcuni contesti, ma vere e proprie tensioni sociali che hanno conferito ai luoghi della transumanza accezioni “diaboliche” (diavolo è, nel suo signi cato greco, “colui che divide”).

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3 - Foggia agli inizi del XVIII sec. nell’Atlante Crivelli. ASFG, Dogana delle pecore di Foggia, serie 1, Atlante 19. Fonte: Russo, 2015, p. 6.

“A osservarla retrospettivamente, la transumanza è stata il punto di arrivo di una lunga evoluzione, il probabile risultato di una precoce divisione del lavoro. Alcuni uomini, e solo loro, con aiutanti e cani, sorvegliavano le greggi e le accompagnavano alternativamente nei pascoli di montagna e pianura. Vi era in questo una necessità naturale, ineluttabile: utilizzare successivamente i pascoli posti alle diverse altitudini. … Si costituisce così una categoria di uomini a parte, uomini al di fuori della regola comune, quasi al di fuori della legge. La gente di pianura, gli agricoltori e gli arboricoltori, li vede passare con timore e ostilità. Per loro e gli abitanti della città si tratta di barbari quasi di selvaggi” (Braudel, 2017, p. 23).

I pastori, dunque, sono i navigatori privilegiati di queste terre. Isolati per necessità dal mondo comune, sin dall’antichità furono oggetto, per la loro eccezionalità, di allegorie e di metafore. Irrorati della stessa sacralità delle bestie mitologiche, in questo caso di stampo caprino, e degli appestati tanto amati da Foucault, i pastori racchiudono probabilmente quella misteriosa forza vitale citata da

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Rousseau. Il loro ruolo di “condottieri” e organizzatori sociali di interi eserciti di animali li rese protagonisti di bizzarri poemetti recitati nelle corti dell’alto medioevo. Il Principe della corte, come osservato da Huizinga, è anche “pastore” e i luoghi della pastorizia, già a quell’epoca, erano considerati una sorta di “arcadia ritrovata”. “L’elemento pastorale non mancava mai nelle feste di corte. Si prestava a meraviglia per le mascherate, che, come entremets, conferivano splendore ai banchetti, ed era inoltre singolarmente adatto alle allegorie politiche. Si era già fatta per un altro verso l’abitudine di considerare il principe come pastore e il popolo come il suo gregge: era l’idea della forma originaria dello Stato secondo i Padri della Chiesa” (Huizinga, 2010, p. 173).

Insomma, occorrevano necessariamente delle istituzioni per regolarizzare il mondo pastorale dominato da forze estranee alla “civiltà”, ed è proprio in Italia che si svilupparono provvedimenti atti al controllo dei tratturi.


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Cenni storici Le prime testimonianze di un sistema viario organizzato risalgono al secondo secolo a.C. quando Roma, sottomesse le comunità italiche del centro-sud e con scate loro le terre in quanto sostenitrici di Annibale, espanse l’ager publicus populi romani. Ciò comportò un’abbondanza di terre disponibili per la pastorizia e la transumanza di lungo corso tra i pascoli montani centro italici e la pianura del Tavoliere delle Puglie. La lex epigraphica del 111 a.C. sancì un vero e proprio impianto burocratico che regolamentava i pascoli pubblici assieme alle calles e alle viae publicae. Infatti, è importante sottolineare come il sistema dei tratturi fosse vincolato alla rete viaria romana. Ciò garantiva con facilità il controllo del veicolamento del traffico di bestiame. La legge stabiliva che gli aventi diritto potevano far pascolare solo dieci bovini più un certo numero di capi di bestiame al minuto senza il pagamento della scriptura (la tassa che consentiva la transumanza sulla porzione di ager publicus adibita al pascolo). Sin da tale provvedimento si delineò la

necessità di regolamentare i frequenti episodi di scon namento dei pastori nei terreni dell’ager publicus dedicati all’agricoltura. A testimonianza di ciò riporta l’iscrizione di Polla del II sec. a.C:

4 - Reintegra del tratturo Pescasseroli-Candela, 1810. Fonte: Petrocelli, p. 11.

“… feci la via da Reggio a Capua e in quella via posi tutti i ponti, i miliari, i tabellari. Da questo punto a Nocera 51 miglia, a Capua 84, a Morano 74, a Cosenza 123 … E io stesso, pretore in Sicilia, catturai e riconsegnai gli schiavi fuggitivi degli italici e parimenti per primo fece in modo che sull’agro pubblico i pastori cedessero agli agricoltori …”.

Il regolamento dei tratturi non era quindi solo di tipo economico, ma soprattutto sociale. Non è un caso che il periodo di massimo splendore dei tratturi si ha con i provvedimenti di Alfonso I d’Aragona del 1446 con cui si inaugurò il “Tavoliere delle Puglie”. Venne infatti istituita la “Regia dogana della mena delle pecore di Puglia”. Questa attenzione riservata alle vie della transumanza risiedeva nel loro potenziale intrinseco in quanto l’agricoltura della Puglia forniva il grano per nutrire il Regno delle Due Sicilie, 55


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Il sistema del Tavoliere, visionario per il modo in cui la politica si confrontava con i ritmi della natura, vide il proprio tramonto a partire dal XIX secolo. L’onda rivoluzionaria Napoleonica, portatrice, alle volte, di un giacobinismo esaltato, cancellò la macchina politica precedente in favore di una “chiarezza” paesaggistica: “La censuazione del Tavoliere, introdotta dai Francesi nel 1806, ha rappresentato la prima cesura della storia secolare della pastorizia meridionale: abolita la dogana e sciolte tutte le promiscuità, la legge stabilizzava il possesso fondiario, concedendo in en teusi affrancabile le terre, liberatamente utilizzabili” (Russo, 2015, p. 35).

Nonostante un tentativo di restaurazione avvenuto nella prima metà dell’Ottocento ad opera dei Borbone, ormai lo sbilanciamento verso l’agricoltura era un dato di fatto. Come è naturalmente ovvio i terreni resi coltivabili non sono più utili per la pastorizia. Scrive Antonio Lo Re:

5 - Una foto di ricognizione aerea della United States Army Air Forces scattata il 2 aprile 1944 che mostra l’incrocio di due tratturi post-medievali in Puglia, a ovest di San Severo (ED 1950 5296/46136). Fonte: John Bradford Archive of Aerial Photographs scanned by Mike Seager Thomas for the UCL Institute of Archaeology Tavoliere-Gargano Prehistory Project.

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ma la lana era però importante per il commercio estero. La dogana divenne il punto di arrivo del lungo viaggio pastorale in forma di tipologia architettonica (un esempio è la dogana delle pecore di Foggia). Venne resa obbligatoria la transumanza oltre i venti capi di pecore di “razza gentile”. I tratturi divennero anche le vie predilette per l’entrata delle greggi in dogana. La larghezza di tali percorsi superava i 111m e i quattro principali coprivano oltre 200 km. Partivano dall’Aquila da Celano Sulmona, da Pescasseroli e da Castel di Sangro per arrivare nel Tavoliere attraverso interi itinerari. Per percorrere tali itinerari vi erano delle date obbligatorie. L’ingresso avveniva non oltre al 29 settembre e, dopo la numerazione delle pecore, il proprietario pagava la da. Il pastore doveva condurre gli armenti entro e non oltre l’8 maggio, in occasione della era di Foggia che si teneva a aprile. I tratturi erano suddivisi in aree speci che denominate “locazioni” (Gentile, 2015; Russo, 2015). Oltre all’istituzione della dogana, Alfonso riconfermò il tribunale che sottraeva i locati — e cioè coloro che godevano della pastorizia — alla legge feudale.

“Ogni passo fatto in agricoltura imprime un’orma incancellabile: la zolla sollevata dall’aratro e triturata dal rullo non riprende più la forma e l’aggregazione che avea: le piote erbose dissodate dalla vanga si frantumano, si polverizzano, si trasformano, si consumano e si ricostituiscono: ma quelle di prima non saranno più, mai: il pastore, innalzato al grado di contadino, di colono, di mezzadro, di ttaiuolo, di en teuta, non saprà più che farne dell’uncino odiato, e delle pelli patriarcali che gli coprivano il cuorpo” (Lo Re, 1954, p. 162-163).

Altre considerazioni che si possono trarre dal passaggio dal mondo organico pre-ottocentesco a quello inorganico post-napoleonico e l’aumento dell’importazione di lana estera nel contesto italiano che, grazie all’istituzione medievale del Tavoliere, produceva tre milioni di kg di lana annui, collocandosi al centro delle esportazioni internazionali. Basti pensare, facendo un salto nel passato recente, che dopo il 1960 il valore della lana si era ridotto a meno del 15% della produzione, a fronte di un valore complessivo della produzione che s orava il 50% circa un secolo prima. Senza pensare che, svoltato il ventunesimo secolo, tale percentuale non raggiunge neanche il 2% della produzione lorda vendibile, spesso non riuscendo neanche a ripagare le spese di tosatura. Questi dati lasciano facilmente intendere le ragioni strutturali economico-sociali del declino della transumanza:


TRASPORTI & CULTURA N.65 “Migrano ancora su’ vetusti tratturi, da ottobre a maggio, gli armenti superstiti, rari e poveri avanzi d’una ricca pastorizia scomparsa, invano cercando le distese mezzane …. Il Tavoliere è stato affrancato o, per esser chiari, non esiste più. Ecco un’altra vittima … dell’intransigente giacobinismo politico e del trascendentalismo economico” (Lo Re, 1886, p. 107).

Scenari possibili La coscienza ecologica che si sta imponendo da un decennio nella cultura occidentale (con una sensibilità acuita dalla crisi pandemica e dalle restrizioni derivanti dalla stessa) ha spostato l’attenzione sulla salvaguardia di ecosistemi autoctoni. Di qui, a fronte di una crescita turistica riguardante attività escursionistiche di trekking, molte sono le iniziative e le attenzioni pubbliche incentrate sui tratturi se pur solo per brevi tratti. Ne è un esempio la recente riapertura di una prima tratta che attraversa Abruzzo e Molise, sui tracciati del Regio Tratturo. Per ovviare ad una segnaletica molto vecchia e poco percorribile, due associazioni come Compagnia dei Cammini e Ecotour hanno dato vita alla Via del tratturo, percorribile in sei giorni a piedi: partendo da Pescasseroli (l’Aquila) si sviluppa nel Parco Nazionale di Abruzzo e Molise, no a terminare a Campobasso. Alla luce di quanto detto è improbabile che la transumanza possa riguadagnare un ruolo importante nell’economia abruzzese, molisana e pugliese come in passato.

Bibliogra a Agamben, G. (2014). Il fuoco e il racconto, Edizioni nottetempo, Milano. Braudel, F. (2017). Il Mediterraneo. Lo spazio, la storia, gli uomini, le tradizioni (1987), Bompiani, Milano. Fontenelle, M. de (1742), Discours sur la nature de l’églogue, in Œuvres, Brunet, Parigi. Gentile, P. (2015), La transumanza in antico, in S. Russo (a cura di), Tratturi di Puglia-risorsa per il futuro, Claudio Grenzi Editore, Foggia. Huizinga, J. (2010), Autunno del Medioevo (1919), Feltrinelli, Milano. Lo Re, A. (1886), Capitanata triste, Cerignola. Lo Re, A. (1954), Capitanata: nuovi studi economici, Arti Gra che S. Pescatore, Foggia. Rousseau, J.J. (2018), Origine della disuguaglianza (1755), Feltrinelli, Milano. Russo, S. (2002), Tra Abruzzo e Puglia: La transumanza dopo la Dogana, Franco Angeli, Milano. Russo, S. (2015). Pastorizia e transumanza dal XV secolo ad oggi, in S. Russo (a cura di), Tratturi di Puglia-risorsa per il futuro, Claudio Grenzi Editore, Foggia. Scholem, G. (1993). Le grandi correnti della mistica ebraica, Einaudi, Torino. Starobinsky, J. (1990). Il rimedio nel male, critica e legittimazione dell’arti cio nell’età dei lumi, Einaudi, Torino.

La chiusura, con la prossima riduzione degli aiuti comunitari e delle integrazioni, della lunga fase plurisecolare della cerealizzazione delle pianure potrebbe aprire scenari. Comunque, anche adesso, l’attenzione storiogra ca al tema della transumanza, il vero e proprio mito pastorale, possono essere usati come risorsa simbolica e culturale, se, da questo punto di vista, la ricerca su un aspetto importante della storia abruzzese non si esaurisce nell’autoreferenzialità della pura accademia e nella vacuità del puro mito folklorico (Russo, 2002, p. 73).

Si intravede infatti la possibilità concreta di salvaguardare una tale memoria storica e paesaggistica conferendole un nuovo signicato attraverso un cambio d’uso rappresentato dal turismo, risorsa utile per contrastare lo spopolamento graduale dei piccoli borghi. © Riproduzione riservata

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La Via Egnazia a Salonicco. Architettura e processi insediativi di Cristina Pallini

Percorrendo l’Appia da Roma a Brindisi, Paolo Rumiz ha restituito alla contemporaneità il mito della prima via di Roma, la “diagonale d’Oriente” con ventiquattro secoli di storia”1. Nel suo affresco spazio-temporale i protagonisti di una quotidianità perduta — guardie a cavallo, carrettieri, pastori e lestraioli — si alternano a eventi e personaggi più noti, in un caleidoscopio dove il presente perde la sua fulminea istantaneità e conquista un respiro corale. Prendendo le mosse dal viatico di Rumiz, e sulla base di ripetute escursioni nel corso degli anni2, questo contributo mette in la le tappe di un possibile itinerario lungo l’Appia dell’Est, la Via Egnazia. La prima parte sottolinea il ruolo di questa direttrice territoriale nella sionomia urbanistica e architettonica di Salonicco; la seconda afanca i frammenti di memorie di viaggio che, nella loro successione, restituiscono il mutare della pianura costiera verso la ne dell’Ottocento e nel periodo tra le due guerre. L’itinerario si sofferma in una serie di luoghi che, visti oggi, potrebbero sembrare irrilevanti; qui, invece, le tracce del passato hanno offerto un palinsesto3 alle trasformazioni a venire.

Diagonale d’Oriente Nel 146 a.C. i Romani, dopo aver esteso l’Appia no a Tarentum (Taranto) e Brundisium 1 Cfr. Paolo Rumiz, Appia, Feltrinelli, Milano 2016. 2 I sopralluoghi sono stati possibili grazie al supporto della Greek Scholarships Foundation (IKY) per il completamento della Tesi di Dottorato La composizione nei progetti di ricostruzione per le città scambiatrici del Mediterraneo orientale: Alessandria e Salonicco, relatore prof. Antonio Acuto, IUAV 2001. Più recentemente, la ricerca è stata ripresa nell’ambito del progetto europeo MODSCAPES (Modernist Reinventions of the Rural Landscape, 2016-2019, HERA call Uses of the Past, grant 5087-00420A). 3 Cfr. Andre Corboz, “Il territorio come palinsesto”. Casabella, n.516 1983, pp. 22-27.

The Via Egnatia in Thessaloniki. Architecture and settlement processes by Cristina Pallini

This contribution is made up of two parts: the rst places the Via Egnatia in geo-historical context, whereas the second outlines an itinerary along the Via Egnatia from Thessaloniki to Giannitsa. The Via Egnazia, built as a long-distance extension of the Via Appia, reached the port of Thessaloniki, forming the backbone of its urban structure. After the arrival of refugees from Asia Minor (1923) the coastal plain of Macedonia faced fast-paced resettlement followed by major hydraulic works. In this process, challenged by a difficult balance between resources and time, the Via Egnazia resumed a decisive role, not only for the logistics of refugee settlement and reclamation works but also for reviving the ancient memory of places and fostering a new collective identity.

Nella pagina a anco, in alto: l’itinearario della Via Appia e della Via Egnazia (disegno di A. Korolija). In basso: Salonicco. La struttura della città romana in relazione all’orograa. Legenda: 1. Il primo nucleo caratterizzato da strade parallele alla costa, 316 a.C.; 2. L’addizione anteriore al 95 a.C.; 3. Il complesso del palazzo imperiale affiancato all’ippodromo con l’arco di trionfo e il mausoleo di Galerio, 300 d.C. (carta ricostruttiva di M. Vickers, rielaborata da C. Pallini).

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(Brindisi)4, la prolungarono oltre l’Adriatico Quell’estensione, che partiva dai porti di Apollonia (Valona) e Dyrrhachium (Durazzo), aveva anche un signi cato simbolico perché raggiungeva l’Asia Minore, da dove era partito Enea, nobile antenato di Romolo e Remo5. Più accidentata dell’Appia, la Via Egnazia rimase la migliore strada attraverso l’Illiria, la Macedonia, la Tracia e l’Ellesponto per oltre 2.000 anni6. A circa 30 km da Salonicco, la strada militare intercetta la “grande via dalle pianure del Nord all’Arcipelago”7 trincerata nelle valli della Morava e del Vardar8: un corridoio storico-geogra co percorso da nomadi e orde di invasori, carovane di pellegrini e mercanti, eserciti e ondate di profughi. La stretta valle del Vardar si apre come un imbuto a est di Pella, capitale e porto dell’antica Macedonia, convogliando tutti i suoi ussi nella Via Egnazia. L’Appia dell’Est arrivava a ovest di Salonicco e, lo dimostrano i cippi miliari, da lì ripartiva seguendo l’itinerario percorso da Serse nella sua spedizione contro la Grecia e da Alessandro nella sua marcia verso oriente9. Fu proprio Cassandro, uno dei quattro diadochi, a fondare Salonicco lungo la costa ai piedi del Monte Chortiatis: un luogo sicuro dagli insabbiamenti dove furono trasferiti gli abitanti di ventisei città. Entrambe le tratte della Via Egnazia convergevano dalla stessa parte delle mura: quella orientale entrava nella Porta Litea, mentre quella occidentale si incuneava nella Porta d’Oro, varcava la soglia di un arco di trionfo, e formava il decumano massimo10. Questa strada lastricata in marmo attraversava la città da nord-est a sud-ovest in tangenza del Foro e terminava con l’arco monumentale

4 Tra il 312 e il 207 a.C. la Via Appia fu prolungata no a Capua, poi no a Beneventum e, nel 190 a.C., no a Tarentum e Brundisium. 5 Irene M. Franck, David Brownstone, Le grandi strade del mondo, Edizioni CDE, Milano 1984, p 105. 6 Firmin O’Sullivan, Egnatian Way, Stackpole Books, Harrisburg 1972, p. 11. 7 Victor Bérard, La Macédoine, Calman Lévy, Parigi 1897, pp. 15-16. 8 Chiamato Axios in greco. 9 Charalambos Makaronas, “Studies Presented to D.M. Robinson” (1951), in Thessaloniki Philippou Vassilissan, University Studio Press, Salonicco 1985, pp. 392-401. 10 Per una ricostruzione della sionomia urbanistica di Salonicco romana cfr. Michael Vickers, “Towards a reconstruction of the town planning of Roman Thessaloniki” (1970), in Thessaloniki Philippou Vassilissan, cit., pp. 392-401; Michael Vickers, “Hellenistic Thessaloniki”, in The Journal of Hellenic Studies, XCII (1972), 156-170, ora in Thessaloniki Philippou Vassilissan, cit., pp. 486499.

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a quattro fornici del palazzo imperiale11. La strada, con importanza locale, continuava verso la penisola Calcidica. Nonostante lo splendore delle sue chiese, col tempo Salonicco perse la trama regolare di strade e solo il decumano conservò la pavimentazione in marmo no alla ne del XII secolo. Al momento dell’assedio di Murat II (1430) la città-fortezza degli imperatori bizantini era semideserta e impoverita da anni di guerra12, ma il grande caravanserraglio era la fortezza nella fortezza; la corte porticata che distribuiva le stalle e gli alloggi dei mercanti era protetta da uno spesso muro di pietra foderato da botteghe13. Proprio sul piazzale antistante Murat II fece erigere una moschea (14671468) e il mercato coperto14 sul lato opposto della strada. Poco più oltre era già stato costruito un grande hammam (1444) e, subito dopo la conquista, la maestosa Chiesa della Vergine era stata convertita in moschea15. Il decumano massimo — che i bizantini chiamavano “viale” e i turchi “strada principale”16 — continuava a marcare il con ne tra Kambos e Baïr, la città alta dove si concentrarono i turchi e la città bassa ripartita tra i greci e gli ebrei. A partire dal 1492, gli ebrei arrivarono in massa dalla Spagna, dal Portogallo, dalla Provenza, dalla Sicilia e dall’Italia meridionale portando con sé la propria cultura produttiva17. Con i suoi sedici quartieri ebraici, 11 L’arco celebrava il trionfo di Galerio sui Persiani e raccordava il mausoleo al palazzo imperiale. Cfr. Ernest Hébrard, “Les Travaux du Service Archéologique de l’Armée d’Orient à l’Arc de Triomphe ‘de Galère et à l’église Saint-Georges de Salonique”, Bulletin de Correspondance Hellénique, 44, 1920, pp. 5-40; Lucia Guerrini, “Las Incantadas di Salonicco”, in Archeologia Classica XIII, Roma 1961, pp. 40-60, ora in Thessaloniki Philippou Vassilissan, cit., pp. 413-459. 12 Apostolos Vacalopoulos, A History of Thessaloniki, Institute for Balkan Studies, Thessaloniki 1972, p. 74. 13 Cfr. Charles Texier. Byzantine Architecture illustrated by a series of the earliest Christian edi ces in the East, Day and Son, London 1864. 14 Il mercato coperto per le stoffe, l’oro e i gioielli (bezesten) indicava il rango di una città. Cfr. M. Cezar, Typical commercial buildings of the Ottoman classical period and the Ottoman construction system, Türkiye İş Bankası Cultural Publications, Istanbul 1983. 15 Rimase la moschea principale della città per tutto il periodo ottomano con il nome di Eski Camii (Vecchia Moschea). 16 Cfr. Michael Vickers, “Hellenistic Thessaloniki”, cit., p. 492. 17 Sulla base del primo censimento ottomano (1478), Lowry sostiene che tutti gli ebrei precedentemente insediati a Salonicco fossero stati forzatamente trasferiti a Istanbul. Cfr. Heath W. Lowry, “Portrait of a City: The Population and Topography of Ottoman Selanik (Thessaloniki) in the Year 1478”, in Studies in Defterology: Ottoman Society in the Fifteenth and Sixteenth Centuries.


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la città bassa riproduceva in piccolo la penisola iberica del Quattrocento e si trasformò in una gigantesca latura, dove i cortijos18 pullulavano di telai e le strade grondavano di acque colorate. Come in un gioco di scatole cinesi, la città si Analecta Isisiana IV, The Isis Press, Istanbul 1992, pp. 64-99. Tra il 1493 e il 1536 oltre 20.000 ebrei e marrani (ebrei convertiti forzatamente) arrivarono a Salonicco che, nel 1519 contava 29.000 abitanti, il 54% ebrei. Cfr. A. Nar, “Social Organisation and Activity of the Jewish Community in Thessaloniki”, in Queen of the Worthy. Thessaloniki History and Culture, a cura di Iannis K. Hassiotis, Paratiritis, Salonicco 1997, p. 198. Si veda anche Vassilis Dimitriadis, Topogra a di Salonicco nel periodo della dominazione ottomana 1430-1912, Society for Macedonian Studies, Salonicco 1983 (in greco). 18 Si chiamavano cortijos le corti alberate perimetrate dalle case degli ebrei, cfr. M. Molho, Traditions & Customs of the Sephardi Jews of Salonica (1950), Foundation for the Advancement of Sephardic Studies and Culture, New York 2006, pp. 136-137.

affacciava sull’Olimpo incardinata sul porto di Costantino19; a sua volta il porto si affacciava sul Golfo Termaico, delimitato da due promontori che trattenevano le onde. Tra il porto e “il viale” si concentravano relazioni commerciali di vastissimo raggio, ma intorno si viveva nei quartieri, perché le diverse enclave (per lingua, religione o etnia) gravitavano intorno ai rispettivi edi ci di culto, un segno tangibile della propria identità collettiva. Ci vollero quarant’anni, dal 1869 al 1910, per trasformare Salonicco nel porto ferroviario della provincia ottomana più industrializza-

1 - Salonicco. Il quartiere degli scambi verso la ne del XV secolo. Legenda: 1. Mercato egiziano; 2. Moschea di Hamza Bey; 3. Caravanserraglio; 4. Bezesten; 5. Bey Hammam; 6. Chiesa Cattolica; 7. Chiesa Greco-ortodossa di S. Menas; 8. Moschea (già Chiesa della Vergine, 450-470 d.C.). Nella parte bassa, da sinistra a destra: Caravanserraglio; Bezesten; Moschea di Hamza Bey; Bey Hammam; Eski Camii (carta interpretativa e montaggio di C. Pallini).

19 Il porto di Costantino, costruito nel 322, si interrò in epoca post-bizantina a causa della deforestazione della pianura a ovest della città e dei detriti trasportati dai corsi d’acqua interni alle mura. Sulla topogra a del porto e delle sue mura difensive, cfr. Michael Vickers, “The Byzantine Sea Walls of Thessaloniki”, in Balkan Studies XI (1970), pp. 261-280.

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2 - La mappa predisposta dall’Armata d’Oriente nel 1916 (cfr. Thessalonique. Les autochromes du Musée Albert-Khan, Olkos, Atene 1999, pp. 10-11) e la Umgebungskarte von Saloniki, 1928-1930 (collezione privata Savvas Demerzis, Salonicco). Il confronto evidenzia i nuovi quartieri abitati dai profughi (rielaborazione di C. Pallini).

ta20. Alla ne dell’Ottocento tra i vecchi han21 sorsero le banche, le sedi delle compagnie di assicurazione e i passage à la Français; poi il quartiere del commercio e della nanza si estese sul lungomare. Aspramente contesa durante le Guerre Balcaniche, nel 1912 la città fu annessa alla Grecia. La sua posizione presso la con uenza tra la Via Egnazia e la strada del Vardar risultò strategica anche per i generali dell’Intesa, che vi installarono il loro principale campo di transito. Nell’agosto del 1917 scoppiò l’incendio che distrusse gran parte della città con il suo mosaico di quartieri, Il piano di ricostruzione del francese Ernest Hébrard si basava su un’ipotesi interpretativa della città pre-ottomana: rilanciò il decumano nella sua relazione (geometrica, funzionale e simbolica) con un cardo d’invenzione: un viale 20 In vista dell’apertura del Canale di Suez (1869) e della costruzione della rete ferroviaria dei Balcani il porto di Salonicco fu ricostruito. Cfr. Basil Gounaris, Steam over Macedonia, 1870-1912, Boulder, New York 1993; Alexandra Yerolympos, Tra Oriente e Occidente. L’urbanistica nel periodo delle riforme ottomane. University Studio Press, Athens 1997 (in greco); Vilma Hastaoglou-Martinidis, “The Harbour of Thessaloniki: 18961920”, in Albert Dock, Trade and Technology, a cura di Adrian Jarvis e Kenneth Smith, National Museums & Galleries of Merseyside and the University of Liverpool, 1999, pp. 133-141. 21 Gli han erano strutture rettangolari con un unico ingresso, funzionavano come una locanda dove i mercanti potevano riposare, ristorarsi e commerciare. Cfr. M. Cezar, Typical commercial buildings, cit..

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porticato che avrebbe aggregato le nuove istituzioni civiche22. Mentre il centro perdeva le sue enclave, i nuovi quartieri dei profughi dall’Asia Minore si formavano in periferia23.

La pianura che cambia In origine la grande pianura costiera a ovest di Salonicco era sommersa. I depositi dei umi e dei torrenti formarono un golfo tra le foci dell’Aliacmone e del Vardar che si ridusse a un lago24 al centro di una foresta planiziale ricca di torrenti, frutteti e vigneti25. Il persistere del pascolo intensivo, e cinquant’anni di ripetute incursioni ottomane no al 1430, deteriorarono in modo irreversibile questo ambiente. Le memorie di viaggio ci riportano al tempo in cui la Campania26 si offriva allo sguardo 22 Cfr. Alexandra Yerolympos, La ricostruzione di Salonicco dopo l’incendio del 1917, University Studio Press, Salonicco 1995 (1985) (in greco con riassunti in inglese e in francese). 23 Vilma Hastaoglou-Martinidis, “A Mediterranean city in transition: Thessaloniki”, Facta Universitatis, n. 4, 1997, pp. 493–507. 24 Nicholas G.L. Hammond, A History of Macedonia, vol. 1 (1972), vol. 2 (1979), vol. 3 (1988), Clarendon Press, Oxford. 25 Cfr. John Kaminiates, The Capture of Thessaloniki, a cura di David Frendo e Athanasios Fotiou, Australian Association for Byzantine Studies, 2000. 26 Così denominata da molti autori, tra cui William Martin Leake, Travels in Northern Greece, Rorwell, Lon-


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come un’immensa distesa di steppe e paludi popolata da carovane di cammelli, mandrie e greggi, lepri, pivieri e beccacce. Spuntarono i vivai nani delle prime fattorie, arrivarono gli eserciti e, dopo pochi anni, i profughicoloni. Con loro arrivarono i tecnici della Refugee Settlement Commission della Società delle Nazioni: medici e ingegneri, agronomi e architetti, osservatori internazionali. Due viaggiatori dell’Ottocento - Negli anni precedenti al 1835 William Martin Leake setacciò la pianura incolta in cerca di antichità. Lungo la Via Egnazia incontrò piccole carovane di cammelli dirette a Salonicco. Avendo superato il Vardar, dopo poco più di un’ora, avvistò un tumulo sul lato destro della strada, poi altri cinque quasi allineati, l’ultimo presso Alaklisi (dal turco Allah Kilise, Chiesa di Dio), un villaggio che i greci chiamavano Agii Apostoli e gli slavofoni Postol. I tumuli corrispondevano alle diramazioni delle strade secondarie e Alaklisi alla fortezza di Pella27. Polibio aveva ragione: la cittadella sorgeva come un’isola su un’altura inclinata verso sud-ovest, delimitata da paludi impraticabili che si don 1835, vol. 3, p. 259; Jovan Cvijić, La Péninsule Balkanique, Armand Colin, Parigi 1918, p. 50; Jaques Ancel. La Macédoine, étude de colonisation contemporaine, Delagrave, Parigi 1930, p. 194. 27 William Martin Leake, Travels in Northern Greece, cit., pp. 260-266.

estendevano verso il mare e verso l’Olimpo. Scendendo da Alaklisi, i frammenti di antichi edi ci affioravano dai campi e, a una distanza di circa mezzo miglio, si vedevano le fondazioni di un muro parallelo alla strada. Dopo qualche decennio, lo scrittore francese Victor Bérard riconobbe i segni di un’incipiente modernizzazione. Nel 1892 la società londinese Kinipple & Jaffrey28 aveva elaborato un progetto di boni ca che avrebbe favorito la produzione del cotone, del riso e del tabacco. Bérard individuò le nuove fattorie degli imprenditori di Salonicco che avevano compreso il potenziale commerciale della ferrovia del Vardar e avevano avviato un processo di colonizzazione. Hanno comprato la terra ai bey turchi o albanesi che la possedevano per vecchi privilegi: in mancanza di coloni ebrei vi hanno installato Greci della Calcidica o Valacchi del Pindo. Ma, sulla riva sinistra del ume, la maggior parte dei campi sono ancora nelle mani dei vecchi proprietari musulmani, soprattutto musulmani di razza ebraica, i mammins. Uno di loro, Hamdibey, l’uomo più ricco della Macedonia, possiede ancora metà della piana e, come i suoi conge-

3 - Vecchi e nuovi insediamenti lungo la Via Egnazia (carta interpretativa di C. Pallini ridisegnata da D. Erdim). Legenda: A. Fiume Axios/Vardar; B. Lago di Giannitsa; C. Via Egnatia; D. Canale Loudias (anni Trenta). 1. Fattoria di Jacob Modiano (1906), oggi Museo delle Guerre Balcaniche; 2. Chiesa ortodossa di San Pietro e Paolo (XIX sec.); 3. Sito archeologico di Pella (413-168 a.C.); 4. Villaggio di Pella (profughi e autoctoni). 5. Sito di Iulia Augusta Pella; 6. Nea Pella; 7. Giannitsa (profughi e autoctoni); 8. Axos (profughi); 9. Neos Mylotopos, già Voudrista; 10. Krya Vrysi, già Plasna.

28 La società Kinipple & Jaffrey aveva sede a Londra. Walter Robert Kinipple (1832-1901), di origine danese, era esperto di lavori marittimi e ferroviari, dell’uso del cemento Portland e delle macchine per il dragaggio. Fu consulente del Governo egiziano per le dighe di Damietta e Rosetta e per le chiuse di Shubrah.

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4 - Diverse tipologie di abitazioni per i profughi. Le case prefabbricate prodotte dalla SommerfeldDHTG (I, II, III, IV) e quelle in muratura realizzate dalla RSC (V, VI, VII). Fonte: Società delle Nazioni, RSC, Ventisettesimo rapporto trimestrale, 25 agosto 1930.

neri, ha installato su queste terre i contadini greci della Calcidica, dell’Olimpo, delle Isole. Per loro ha costruito villaggi, con una tolleranza che ha facilitato i suoi affari e, da musulmano, ha costruito per loro chiese ortodosse29 .

Archeologi e pastori - Nel 1915, tre anni dopo l’annessione delle regioni del nord alla Grecia, i pochi insediamenti della zona si concentravano sulle rive del Lago di Giannitsa, lungo Via Egnazia e la valle del Vardar. Quell’anno l’archeologo Georgios Oikonomou, incaricato dalla Società Archeologica di Atene di riportare alla luce l’antica Pella, scatenò inconsapevolmente le ire dei pastori transumanti. Non era stato informato che il terreno dove scavava era stato dato loro in affitto, forse perché nella stagione estiva i greggi pascolavano in alta quota. Quell’anno però erano rimasti bloccati in pianura a causa della dichiarazione della Prima Guerra Mondiale. I pastori valacchi, diversamente dai sarakatzani30, non simpatizzavano 29 Victor Bérard, La Macédoine, cit, pp. 15, 155, 204-205. 30 Venivano chiamati valacchi le popolazioni dei Balcani meridionali che parlavano dialetti vicini al rume-

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affatto per la causa greca pertanto imbrattarono l’ingresso agli scavi e distrussero alcune colonne31. Alla ne della guerra si tornò a parlare di boni ca32 e le tensioni tra lo Stato greco e i pastori transumanti si esacerbarono, soprattutto dopo il 1923, quando si riversarono in Campania centinaia di migliaia di profughi e la necessità di trovare abbastanza terra coltivabile privò i pastori dei pascoli di pianura. In Macedonia, che allora contava 700.000 abitanti, ne arrivarono circa 640.000. La popolazione greco-ortodossa passò dal 42,6% (1912) all’88,8% (1926)33. no. I sarakatsani erano pastori nomadi che praticavano la transumanza. Cfr. Paul Garde, I Balcani, Il Saggiatore, Milano 1996 (1994). 31 Cfr. Georgios Oikonomou, Achaiologiko Imerologio Pellas, Archeological Society at Athens, Atene 1914–1915 (in greco), citato in George L Vlachos, “A Complicated Relationship: The Transhumant Pastoralists of Macedonia and the Greek State, 1913–1936.” Environment & Society Portal, Arcadia (Estate 2020), n. 29. Rachel Carson Center for Environment and Society. https://doi.org/10.5282/rcc/9075. 32 Cfr. Vilma Hastaoglou-Martinidis, Cristina Pallini, “Colonizing New Lands: Rural Settlement of Refugees in Northern Greece (1922–40)”, Clara Architecture/Recerche (in corso di pubblicazione). 33 A.I. Aigidis, Greece without the refugees, Alevropoulos, Atene 1934 (in greco), p. 168; Dimitris Pentzopou-


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5 Le opere idrauliche realizzate per boni care la pianura di Salonicco, 1:250.000. Fonte: Technikà Chronikà, 1 marzo 1932, p. 238.

Un architetto e un geografo nell’occhio del ciclone - L’ungherese Fred Forbát (1897-1972) aveva collaborato con Gropius e Meyer alla messa a punto di alcuni metodi di prefabbricazione. Oltre al Bauhaus, a Berlino aveva frequento Adolf Sommerfeld34, fondatore della ditta che si era aggiudicata l’appalto per la costruzione di 10.000 case rurali prefabbricate in Grecia, nanziate dalla Società delle Nazioni. Nel 1924 Sommerfeld lo aveva incaricato di coordinare gli oltre sessanta cantieri dislocati tra Giannitsa, Goumenissa, Drama e la penisola Calcidica. Durante il viaggio verso Salonicco, Forbát osservava dal nestrino. Passata Nish, i campi erano coltivati con aratri di legno, c’erano molti greggi di pecore bianche e marroni; lungo la valle della Morava i ponti erano saltati e le rocce sfregiate dalle granate. Dopo Vranje c’era una piccola città di case bianche dai tetti piani, a Skopje una splendida moschea e una grande fortezza. La notte giunse los, The Balkan Exchange of Minorities and its Impact upon Greece, Mouton, Parigi 1962, p. 134. 34 Vilma Hastaoglou-Martinidis, Cristina Pallini, “In Grecia prima del CIAM. Emergenza e innovazione nei cantieri della colonizzazione rurale”, FAMagazine, (6263) 2022-2023, pp. 62–82.

quando il treno passava tra le pareti a strapiombo della valle del Vardar. Forbát arrivò a Salonicco di primo mattino. Era il 3 novembre. Si stava ricostruendo la città secondo un piano francese35 ma la gente era ancora accampata nelle baracche, nelle chiese e negli edi ci semidistrutti36. Già il 4 novembre Forbát si mise alla guida lungo la Via Egnazia per raggiungere un cantiere in montagna dove gli operai stavano assemblando 130 case prefabbricate. A parte le tratte costruite dai soldati dell’Intesa, le strade erano pessime e non c’erano ponti. Al ritorno restò rapito dalla vista di Salonicco all’imbrunire, con le navi in rada e i minareti appuntiti. Qualche giorno dopo, ripartì alla volta di Narés, un villaggio lungo le sponde orientali del Fiume Gallikos vicino a un vecchio çhiftlik37; cercò di guadare un corso 35 L’incendio di Salonicco nell’agosto 1917 aprì la strada a una trasformazione radicale della città. Per il piano di ricostruzione fu istituita una commissione internazionale, nell’ambito della quale il francese Ernest Hébrard (1975-1933) acquisì n ruolo di primo piano. Cfr. Alexandria Yerolympos, La ricostruzione di Salonicco dopo l’incendio del 1917, University Studio Press, Salonicco 1995 (in greco). 36 Fred Forbát, Erinnerungen eines Architekten aus vier Ländern. Bauhaus-Archiv, Berlin 2019, pp. 80-82. 37 I çhiftlik erano grandi proprietà fondiarie private.

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d’acqua con l’auto che si fermò improvvisamente in un punto troppo profondo. A nulla valse la forza di un bufalo: fu costretto a rientrare a Salonicco con un autobus-ambulanza della Croce Rossa. Una regione contesa per secoli stava cambiando sionomia: la portata e la rapidità di quei ussi migratori multidirezionali stava producendo un mutamento geogra co senza precedenti. Jaques Ancel, geografo e politico esperto di questioni balcaniche, la perlustrò nei mesi di settembre e ottobre del 1927, 1928 e 1929 per documentare i fatti nel loro stesso dispiegarsi, mentre era ancora in corso la colonizzazione interna nella Jugoslavia del sud, nella Grecia del nord e nel sud-ovest della Bulgaria38. Se, come sosteneva Vidal de la Blanche, le civiltà non sono altro che accumuli di esperienze, quella era un’esperienza veloce e brutale in cui il medico, l’ingegnere e l’architetto avrebbero dovuto fare la loro parte. Ogni villaggio aveva il suo campo sperimentale e la super cie coltivata aumentava con l’aiuto degli esperti del servizio di colonizzazione39. Nel 1928 c’erano già 1.088 colonie agricole: per tre quarti si trattava di quartieri adiacenti a villaggi preesistenti, per il resto di nuovi villaggi il cui impianto ortogonale era trapuntato da abitazioni standardizzate. “Qui si doveva creare tutto: terra fertile e case abitabili. Qui troviamo il tipo di colonizzazione orientale, con la differenza che la popolazione, di origine comune, è più raggruppata e unita. Sebbene anche persone provenienti dall’Asia Minore si siano insediate su questi terreni quasi vergini, specialmente verso ovest, tra Edessa e Giannitsa, tra questa piccola città e Salonicco [lungo la Via Egnazia n.d.a.], furono soprattutto i Traci, mescolati a Greci provenienti dalla Bulgaria, a prendere possesso dei campi e a costruire i villaggi da zero. Nel distretto di Giannitsa, che occupa l’intera Campania centrale, a nord e ad est del lago, l’anno scorso c’erano 7.114 famiglie di rifugiati e solo 1.838 nativi. La metà dei coloni proveniva dalla Tracia (4.187) e dalla Bulgaria (1.283); delle 6.679 case in cui erano ospitati gli immigrati, 4.084 erano state costruite per loro e solo 2.595 appartenevano a turchi scambiabili. Nel distretto di Salonicco, c’erano 11.206 famiglie di rifugiati di fronte a 7.291 nativi: almeno un terzo proveniva dalla Tracia orientale e dalla Bulgaria”. Sull’evoluzione dei çhiftlik cfr. Gilles Veinstein, “Le provincie balcaniche (1606-1774)”, in Storia dell’impero ottomano, a cura di Robert Mantran, Argo, Lecce 1999, pp. 356-361.

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38 Nel 1930 pubblicò un corposo rendiconto illustrato dei viaggi intrapresi, cfr. Jaques Ancel, La Macédoine, cit. 39 Jaques Ancel, La Macédoine, cit., p. 195.


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Da Salonicco a Giannitsa, un possibile itinerario Mentre Ancel avanzava da ovest a est, questo itinerario procede nella direzione opposta. Piazza Vardar, dove c’era la Porta d’Oro no al 1874, segna la frontiera tra due mondi40 perché la Via Egnazia perde tutta la sua urbanità uscendo da Salonicco. Alla ne degli anni Novanta, di fronte all’austera stazione ferroviaria c’era ancora qualche han semidiroccato che precedeva l’’interminabile la di biglietterie delle autolinee KTEL; chiunque cercasse un’occupazione nella Campania si faceva trovare qui al mattino presto. La nuova stazione degli autobus è stata costruita più a ovest, presso l’alveo arti ciale del torrente Dendropotamos che perimetra l’area boni cata dalla Compagnia delle Ferrovie Orientali41 dove sorsero le prime industrie tessili e alimentari, le manifatture del tabacco e le concerie. La Via Egnazia, parallela alla ferrovia, aggregava in sequenza diverse generazioni di comparti produttivi: l’industria pesante degli anni Sessanta e Settanta (rafneria, petrolchimica, acciaierie) e il parco industriale di Sindos. Le carte storiche42 mostrano il campo di transito dell’Intesa, già parzialmente attrezzato, fu occupato dai quartieri dei profughi: Ikonion, Xirocrini, Ampelokipoi, Eptalofos, Neos Vosporos, Nea Menemeni43. La Refugee Settlement Commission raggruppava le famiglie per luogo di provenienza in modo da preservare i legami di solidarietà esistenti, ma nella periferia di Salonicco i profughi furono raggruppati anche in base alla professione. Prima che fosse costruita l’acciaieria, Diavata (già Doudoular) aveva accolto 204 famiglie provenienti dalla Tracia. A Nea Anchialos (l’antica Igglis, di fronte a Sindos) la congestione edilizia non ha cancellato la trama di strade perpendicolari tracciate dai tecnici del servizio di colonizzazione. I primi abitanti erano viticoltori di Anchialos sul Mar Nero, altri arrivarono da Stenimacho, un villaggio dei monti Rodopi a sud di Plodviv, da Pyrgos e da Sozopoli, antica città della costa bulgara del Mar Nero. 40 Cfr. Régis Darques, Salonique au XX siècle, cit., p. 43. 41 Vassilis Colonas, Olga Traganou-Delianni, L’avvento dell’industria a Salonicco (1870-1912), Catalogo della mostra organizzata dalla Banca Ellenica per lo Sviluppo industriale, Salonicco 1987 (in greco), p. 6. 42 La mappa predisposta dall’Armata d’Oriente nel 1916 e la Umgebungskarte von Saloniki, 1928-1930. 43 Poco più oltre lungo la Via Egnazia sorsero Paleon Charmankioi e Kordelio.

Presso Agios Athanasios (già Kavakli), dove i soldati dell’Intesa avevano rinvenuto due tombe macedoni affrescate44, si insediarono i profughi provenienti da venticinque villaggi della Tracia orientale e da sette villaggi dell’Asia Minore, inizialmente alloggiati nei rustici presso la chiesa di San Giorgio, oggi considerata un edi cio di fondazione. Superata l’autostrada nazionale, si raggiunge Gefyra (“ponte”). Quel luogo presso l’imbocco della valle del Vardar era presidiato da una stazione per il cambio dei cavalli già in epoca romana. Anche se la zona era soggetta a inondazioni, nel 1906 Jacob Modiano, uno dei principali imprenditori ebrei di Salonicco, vi costruì una fattoria sperimentale progettata dall’architetto milanese Piero Arrigoni45. Vicino c’era Topsin46: case di canne e terra cruda abitate da famiglie di valacchi, sarakatsani e altre provenienti da Kastaneri (Kilkis). I quartieri dei profughi — 230 famiglie di agricoltori della Tracia orientale e 300 famiglie di viticoltori bulgari — furono costruiti sui terreni di un grande çhiftlik. Oggi la Via Egnatia attraversa il Vardar con un nuovo ponte, ma il vecchio ponte tipo Vierendeel in rovina si vede ancora: poggiava sugli argini arti ciali che inaugurarono i lavori per la protezione dei bassifondi paludosi della pianura. Seguirono opere di arginatura, sbarramento, riallineamento e riparazione dei umi, opere necessarie al drenaggio delle paludi e dei laghi, alla costruzione e alla riparazione di ponti e strade47. Alla ne del 1937 il Lago di Giannitsa, residuo dell’antico golfo, era prosciugato. Sulla destra della strada, prima di Chalkidona (già Iéladjik), c’è una piccola chiesa ad aula con un minareto in rovina. In lontananza una cortina di alberi segnala il cana-

6 - Nella pagina a anco, in alto: la chiesa di San Pietro e Paolo nel cimitero dei Bogomili presso Chalkidona (foto di C. Pallini, 1999). 7 - Nella pagina a anco, al centro: una tomba macedone a tumulo lungo la Via Egnazia (foto di C. Pallini, 1999). 8 - Nella pagina a anco, in basso: la moschea di Evrenosoglu Ahmad Bey a Giannitsa (ca. 1490). Foto di C. Pallini, 1999.

44 Catherine Morgan, “The British Salonika Force, the British School at Athens and the Archaic-Hellenistic Archaeology of Macedonia”, in Andrew Shapland, ‎Evangelia Stefani (a cura di), Archaeology behind the battle lines. The Macedonian Campaign (1915-1919) and its legacy, Routledge, London and New York 2017, p. 149. 45 Nella casa padronale della fattoria che oggi accoglie il Museo delle Guerre Balcaniche fu rmata la resa di Salonicco alla Grecia nel 1912. Cfr. Vassilis Kolonas, Vitaliano Poselli (1838-1918) et Piero Arrigoni (18561940), deux architectes italiens a Thessalonique à la n du 19eme siècle, dattiloscritto. 46 Topsin era un villaggio risalente al XV secolo dove i soldati dell’Armata d’Oriente trovarono delle tombe ellenistiche, cfr. Catherine Morgan, “The British Salonika Force, cit, p. 149. 47 Ioanna Pepelasis Minoglou, “The Greek state and the International nancial community, 1922-1932: Demystifying the foreign factor”. PhD diss., London School of Economics and Political Science, 1993. http:// etheses.lse.ac.uk/2590/

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le Vardarovassi; il prato intorno alla chiesa è disseminato di croci in pietra: il cimitero dei Bogomili48. A Chalkidona c’è anche il bivio della vecchia strada per Atene. In questi paraggi Ancel notò un villaggio turco e il nuovo villaggio di Coufalia con le casette ordinate intorno al mercato, tra orti, vigneti, campi di tabacco, grano, orzo e mais. Un’altra strada secondaria segue l’isoipsa di +10 metri sul livello del mare e, dopo circa due chilometri, raggiunge Paralimni (“lungolago”), uno dei villaggi di pescatori che un tempo circondavano la palude. Il porto dell’antica Pella si trovava in questa zona al centro della pianura. I profughi bulgari del 1918 si insediarono ad Alaklisi che, nel 1926, dopo l’arrivo di nuovi profughi dalla Tracia orientale, fu ribattezzato “Pella”. Tre chilometri più a ovest, il sito della colonia romana di Iulia Augusta Pella (45-30 a.C.) precede un piccolo parco in fregio alla strada presso la cappella di Agia Paraskevi, che custodisce un’icona proveniente da Tsi ikioi, il villaggio della Tracia orientale da cui arrivarono i profughi. A Néa Pella Ancel non vide altro che un villaggio di casette di paglia49, che “l’urbanistica d’emergenza” dei tecnici della Refugee Settlement Commission inquadrò in una griglia di strade perpendicolari e isolati con abitazioni standardizzate, ognuna con il proprio cortile. Risalendo la strada principale (quella più larga) troviamo la chiesa neobizantina degli anni Quaranta, la scuola e, campo tra i campi, lo stadio di calcio. Mancano ancora 9 km per arrivare a Giannitsa, situata ai piedi del monte Paiko. Sono poche le vestigia superstiti di Yenice-i Vardar (“città nuova sul Vardar”) in quello che oggi appare come un centro agricolo di provincia. Fu fondata dagli Ottomani alla ne del XIV secolo come testa di ponte verso i Balcani50, tant’è che Murad II mosse da 48 Una setta cristiana medievale che ebbe una certa in uenza sui movimenti eretici dell’Europa occidentale. Cfr. Dragan Tashkovski, Bogomilism in Macedonia, Macedonian Review Editions, Skopje 1975, p. 8. 49 Jaques Ancel, La Macédoine, cit., p. 152. 50 Nel 1430, il sultano Murad II si mosse da Yenice-i Vardar per conquistare Salonicco. Lo storico Machiel Kiel ha messo in luce il ruolo della città come centro di elaborazione religiosa, letteraria e artigianale, un ruolo testimoniato anche dagli edi ci dell’epoca. Cfr. Machiel Kiel, “Yenice-i Vardar (Vardar Yenicesi – Giannitsa): a Forgotten Turkish Cultural Centre in Macedonia of the 15th and 16th Century”, in Studies on the Ottoman Architecture of the Balkans, Variorum, Aldershot, 1990 (1971), pp. 300-329; Vassilis Demetriades, “I quartieri e le strade di Yannitzà no alla ne del XIX secolo”, in «Makedonika», n. XV, 1975, pp. 160-168 (in greco);

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qui per conquistare Salonicco. Yenice-i Vardar rimase un’enclave turca circondata dalla popolazione turca che viveva nelle fertili campagne circostanti. Durante i secoli di dominio ottomano la Via Egnazia funzionava a tratte, contribuendo al consolidamento dei poteri regionali51. Pochi anni dopo l’arrivo dei profughi Giannitsa era già irriconoscibile. Quella che Ancel ricordava come una città ottomana famosa per il suo bazaar e l’enorme caravanserraglio, era un campo di macerie: Giannitsa era diventata il centro di un distretto di colonizzazione. Restavano alcune vestigia sulla collina e un ultimo minareto. I turchi e i bulgari avevano ceduto il campo ai rifugiati traci, che indossavano ancora i loro calzettoni marroni stretti alle caviglie, una cintura rossa, un gilet e una corta giacca marrone. Erano tutti robusti piantatori di tabacco, mais e viti. Abitavano in un nuovo quartiere dalle case bianche. Su 9.128 abitanti, 5.383 erano profughi, di cui 4.501 agricoltori52. Sparsi lungo la strada da Giannitsa e Edessa, tra i campi di grano e di mais, Ancel vide altri villaggi nuovi di zecca, mentre in lontananza le mandrie di bufali e di buoi pascolavano ancora.

Conclusioni A differenza della Via Emilia, secondo Paolo Rumiz, l’Appia non ha perso contatto col suo mito fondativo e ancora oggi riassume la storia d’Italia ben oltre l’epoca romana53. Anche la Via Egnazia riassume la storia di Salonicco e della sua Campania no alla loro recente ellenizzazione, frutto di una crisi umanitaria in cui la modernizzazione rurale procedette di pari passo alla “riscoperta” del passato, reso disponibile per nuove narrazioni identitarie. L’urbanistica d’emergenza e la standardizzazione architettonica produssero un profondo cambiamento del paesaggio: nella loro nitida geometria i nuovi insediamenti dialogavano a distanza con gli elementi ordinatori del paesaggio naturale e con i siti archeologici che man mano venivano scoperti. Basta pensare alla prossima inaugurazione del metrò costruito lungo “il viale” di SaloMichail E. Nomikos, “Restauro-riuso di un edi cio neoclassico a Yanitzà”, in Monument & environment, n. 1 1993, pp. 26-40 (in greco con riassunto in inglese). 51 Elizabeth Zachariadou, The Via Egnatia under Ottoman Rule (1380-1699), Crete University Press, Retimno 1996. 52 Jaques Ancel, La Macédoine, cit., pp. 193-194. 53 Cfr. Paolo Rumiz, Appia, cit., pp. 35-36.


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9 - L’area archeologica di Pella e il villaggio di Alaklisi con i quartieri dei profughi caratterizzati dall’impianto stradale ortogonale (rielaborazione di C. Pallini).

nicco, o al relativamente recente completamento della Nea Egnatia Odos (2009) che si estende per 670 km dal porto di Igoumenitsa al con ne greco-turco di Kipoi, per convincersi della necessità di tenere viva questa “dimensione profonda”. D’altra parte, quel territorio all’incrocio tra la Via Egnazia e la valle del Vardar resta al centro delle migrazioni lungo la cosiddetta “rotta balcanica. Nel 2002 l’urbanista italiano Gian Franco Di Pietro ha paragonato il paesaggio a un testo letterario in cui le vestigia del passato sono come citazioni nel testo54. Se, come sostiene Di Pietro, in Europa il paesaggio è “quello che

resta della Patria”, allora la capacità di interpretare le tracce del passato in netta opposizione alle ondate di urbanizzazione di massa può diventare decisiva per ogni progettista. © Riproduzione riservata

54 Gian Franco Di Pietro, “Paesaggio o ambiente?”, in Progettare il paesaggio nella crisi della modernità. Casi, ri essioni, studi sul senso del paesaggio contemporaneo, a cura di Daniela Poli, All’Insegna del Giglio, Sesto orentino 2002, pp. 23-36.

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Paesaggi ed ecologie di mobilità lungo la strada Litoranea nella colonizzazione fascista della Libia di Alessandro Raffa

Tra le infrastrutture progettate e realizzate dall’Italia coloniale nei possedimenti d’Oltremare, sicuramente la strada Litoranea libica è quella che è stata maggiormente investita di un valore simbolico (Raffa 2020), tanto da tornare ciclicamente al centro dei rapporti post-coloniali tra Italia e Libia. Realizzata nel 1937 durante la fase fascista di colonizzazione, era infrastruttura militare, di sviluppo agrario, attraverso la boni ca integrale, e turistico ma anche strada dal valore paesaggistico in chiave colonialista. Teatro di molteplici battaglie durante la Seconda Guerra Mondiale, fu profondamente danneggiata e completamente ripavimentata dopo l’indipendenza della Libia nel 1951. Rinominata Libyan Coastal Higway, diventò parte della sezione mediterranea della Cairo-Dakar Highway 1, all’interno del TransAfrican Highway Network, attraverso cui i paesi ex-coloniali, sotto la guida della United Nation Economic Commission for Africa (UNECA) intendevano ride nire l’assetto infrastrutturale del continente africano, potenziando e migliorando i collegamenti tra le infrastrutture esistenti, molte delle quali di matrice coloniale. Sin dagli anni Cinquanta la strada costiera libica rimase al centro delle compensazioni per lo sfruttamento ed i crimini del periodo coloniale. La Libia chiese di costruire una nuova autostrada, parallela alla precedente. Durante il regime di Muammar al-Qadda la strada mantenne il suo ruolo di asse di sviluppo, anche attraverso la costruzione del gasdotto che corre parallelo alla strada tra Bengazi e Mellitah, e che venne integrato nel progetto Greenstream. Con il Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione (2008) tra Italia e Libia, si prevedeva un investimento di cinque miliardi di dollari destinate ad opere infrastrutturali, tra cui il potenziamento della Litoranea. Simbolo di riconciliazione tra i due paesi ma anche di garanzia di sicurezza possibile per il con ne Sud dell’Europa rispetto al tema mi-

Landscapes and mobility along the Littoral road during the fascist colonization of Libya by Alessandro Raffa

Since its construction in 1937 until the outbreak of the Second World War, the Littoral Road along the Libyan coast has contributed to the de nition of asymmetrical mobility ecologies. Mobility was functional to the colonisation of the coastal regions and should be framed accordingly, considering the complexity of relations between colonization strategies, the new infrastructure, mobility ecologies, and their spatial translation. The Littoral Road was meant as an axis for tourist development also supporting land reclamation, thus de ning asymmetrical and con icting logics of mobility that had a profound impact on the transformation of the territory concerned. Considering this ambiguity may be crucial today, not only to rediscover the re-founding role of the long-marginalised Littoral Road but also to understand its spatial intersections with the contemporary landscape and its mobility ecologies.

Nella pagina a anco: la strada Litoranea, l’arco dei Fileni e il teatro di Sabratha nella copertina del primo numero della rivista Libia. (1937), Libia 1(1), copertina.

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1 - Il tracciato della Litoranea libica. © A. Raffa.

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gratorio, ha riconquistato un ruolo centrale nel governo della mobilità (Distretti, 2021). Anche nel 2021, dopo anni di guerra civile, la riapertura della strada Litoranea tra Misurata e Bengazi è stata salutata come speranza di riconciliazione e “di stabilizzazione in Libia e al contempo contribuirebbe al rilancio economico del paese” (Varvelli, 2019). La strada costiera ha avuto ed ha un ruolo cruciale nel ridisegnare le dinamiche socio-ecologiche legate alla mobilità. La strada, quindi, è interpretata come ologramma per comprendere, attraverso lo spazio, come il suo tracciato abbia trasformato i territori attraversati ed abbia de nito - e continui a de nire - ecologie della mobilità, tra coloniale e post-coloniale, tra “colonizzazione demogra ca intensiva” fascista e le restrizioni al diritto alla mobilità del Mediterraneo di oggi. Nell’ambito di una ricerca che guarda alle infrastrutture di matrice coloniale e alle interrelazioni tra le ecologie e i patterns di mobilità presenti e passati, il contributo si concentrerà sul layer coloniale, sulle mobilità asimmetriche che

la strada costiera libica ha sostenuto subito dopo la sua costruzione e l’impatto delle trasformazioni nel paesaggio, tra la libertà dei turisti coloniali che la percorrevano in auto, la mobilità forzata dei coloni e la segregazione delle popolazioni locali, e le loro implicazioni nella rifondazione territoriale e nell’invenzione di un nuovo paesaggio italiano nella fascia costiera libica. Costruita dall’Italia fascista, l’infrastruttura costiera incarnava il paradigma coloniale del controllo e il suo “sforzo di riprodurre costantemente differenze” (Pezzani, 2013, p. 305; trad. dell’autore) tra persone, gruppi, luoghi. attraverso la mobilità. Partendo dal presupposto che studiare la colonizzazione signi ca approfondire (Cooper, 2001, p. 206; trad. dell’autore), il contributo, all’interno degli intrecci molteplici tra colonizzazione, infrastrutture, ed ecologie della mobilità e alle loro implicazioni nello spazio, guarda alla strada Litoranea non semplicemente come una linea infrastrutturale, ma come uno spazio complesso di ri-de nizione della mobilità.


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La strada litoranea Nell’ecologia politica del regime (Armiero et. al. 2022) le infrastrutture diventano simbolo e strumento di conquista e di colonizzazione dell’ambiente. “Opera grandiosa che dirà come l’Italia abbia saputo conquistare, vincere e domare l’inospite deserto sirtico” (Bonardi, 1935, p. 795). La “lotta contro il deserto” (Revay, 1939) e le sue ecologie, di cui la strada era il segno, viene ampiamente richiamata nei documentari, articoli di stampa e pubblicazioni, come il volume di carattere propagandistico La strada litoranea della Libia (1937), che esalta il portato trasformativo e le difficoltà della sua costruzione. Il tracciato stradale sorse in rilevato per proteggere la strada dagli spostamenti delle dune mobili, dalle piogge dai corsi d’acqua a carattere stagionale, ride nendo le ecologie trovate attraverso una maggiore “stabilità”, migliorando la manutenzione della strada ma mutando anche il paesaggio attraverso soluzioni costruite e sistemazioni paesaggistiche che intendevano introdurre una natura altra

rispetto a quella desertica. Inaugurata il 15 marzo 1937, dopo soli tre anni di lavori, la Litoranea collegava per la prima volta i centri urbani della Tripolitania e della Cirenaica ai con ni della Tunisia e dell’Egitto, con 1.882 km di strada asfaltata, di cui circa 800 km di nuova costruzione nella regione desertica della Sirtica “spoglia di vegetazione e quasi disabitata” (La strada Litoranea della Libia, 1937, p. 16). La sua realizzazione fu organizzata per tronchi affidati ad imprese diverse per velocizzare la sua realizzazione (Balbo, 1937, p. 8); si resero necessari 100.000 uomini e 4.150.000 giorni di lavoro, 4.000.000 m3 di materiale movimentato, 1.600.000 m3 di pietra per sottofondi e rilevati, 4.000.000 m3 di asfalto (La strada litoranea della Libia, 1937, pp. 144145), ed un investimento complessivo di 103.000.000 di lire del tempo. Caratterizzata da lunghi retti li e curve dalla pendenza minima (ivi, p. 36), la costruzione della Litoranea, inoltre, determinò una ristrutturazione dell’intera rete stradale la cui riorganizzazione “costituiva uno degli assunti primari dell’opera di Colonizzazione, […] di nuova strutturazione territoriale e […] paesaggistica” (Canali, 2015, p. 143). Favoriva infatti collegamenti più efficienti e sicuri per la fascia costiera, tra i suoi centri urbani, i comprensori agricoli della “boni ca integrale”, i porti, le aree naturali e archeologiche. Raccontata dalla propaganda come segno di efficienza, laboriosità e solidarietà tra i popoli — alla sua realizzazione lavorarono italiani, libici ed eritrei — dell’impero fascista, fu costruita sullo sfruttamento delle popolazioni autoctone e su una rigida segregazione razzista: solo il 10% era italiano, gli stipendi nettamente più bassi per gli autoctoni, così come le razioni di cibo; alloggi temporanei per gli italiani e tende per i nativi. Segno di civiltà e di differenza rispetto ai tracciati percorsi dalle popolazioni nomadi e semi-nomadi della regione: “[…] tagliente lucidità del rettilineo romano al paragone delle dubitose piste carovaniere” (Baldini, 1937, p. 243). Vertebra della rifondazione territoriale coloniale (Raffa, 2019; Raffa, 2020), la Litoranea fu “strada militare, […] economica, […] politica, […] turistica, […] strada della Modernità […] ma anche ‘strada paesaggistica’” (Canali, 2015, p. 114). Oltre a sistemazioni vegetali lungo il suo tracciato furono previsti e realizzati cippi miliari, segnali monumentali (le steli di inizio e ne presso il con ne egiziano e tunisino e l’Arco di trionfo costruito sulla Litoranea nel punto mediano del suo tracciato), le cosiddette

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loro case coloniche e i centri di fondazione, silos granari, archeologie di recente scavo e ricostruzione, si aprivano inedite prospettive sulle bellezze naturali della fascia costiera. Lungo la strada era possibile osservare il paesaggio “in costruzione” della boni ca integrale libica; un paesaggio ambivalente, teso tra Modernità e antico, tra il futuro e il ritorno, tra libertà di movimento per il turista europeo, il controllo delle famiglie coloniche e la segregazione razziale dei libici. Attraverso la strada il regime de nì ecologie di mobilità (Raffa, 2022) coerenti con i suoi obiettivi che contribuirono a conformare questo paesaggio.

La Litoranea strada di mobilità moderna per il turista coloniale Oltre a garantire sicurezza militare e intensità di traffico, la Litoranea era stata immaginata come infrastruttura per lo sviluppo turistico della fascia costiera e dell’intera colonia, offrendo al turista coloniale la possibilità di fare esperienza moderna delle bellezze della fascia costiera e del suo paesaggio “in costruzione”. “Chi aveva fantasia di correre trovava il fatto suo, senza il pensiero di poter sbagliare strada. Pensare: una strada lunga sei volte la via Emilia, con dei retti li che mettevano le ali a qualsiasi macchina [...] La Litoranea libica è per ora solo una strada anticipatrice di futuro; non per niente era con noi Marinetti (Baldini in Canali, 2015 p. 117)”.

“opere d’arte” (La strada litoranea della Libia, 1937, p. 36), cioè i ponti, ma anche manufatti tecnici (contenimenti, massicciate e case cantoniere), tutti progettati dall’architetto Florestano di Fausto (1890-1965) a cui venne affidata la direzione artistica del progetto infrastrutturale. Inoltre, lungo il suo tracciato si susseguivano comprensori agricoli con le 74

La costruzione della Litoranea coincise con la riorganizzazione dell’intera mobilità turistica della colonia, intensi cando i collegamenti navali e aerei con la Madrepatria. Fu sviluppato infatti un sistema turistico coordinato per l’intera colonia che, oltre ai servizi di mobilità, prevedeva il miglioramento dell’offerta ricettiva - attraverso la costruzione di strutture di ospitalità rispondenti agli standard del turista metropolitano ed internazionale - e turistica, attraverso un programma di eventi culturali e attività di intrattenimento. Ed in questo processo la strada aveva un ruolo cruciale non solo in termini di connessione ma anche di esperienza turistica. Basti pensare che il sistema di case cantoniere progettato da Di Fausto contemplava la cosiddetta “casa cantoniera di ristoro”, una variante della casa cantoniera semplice che accoglieva al suo interno spazi per l’ospitalità e servizi come il rifornimento di carburante


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ed una autofficina per offrire un’esperienza turistica in sicurezza, anche negli ambiti desertici e scarsamente popolati. La Litoranea diventa infrastruttura principe per scoprire la colonia e il suo recente paesaggio moderno, attraversando città, comprensori agricoli, archeologie ritrovate, musei, oasi e bellezze naturali, tra il Mediterraneo e il deserto. Il tracciato stesso della strada, con i suoi rettili e le sue curve, rivela infatti l’intenzione di valorizzare le preesistenze naturali e culturali della regione costiera, alternando tratti da attraversare in velocità e tratti in cui rallentare per apprezzare le bellezze circostanti. In un certo qual modo la Litoranea può essere interpretata come asse per una valorizzazione diffusa, in una prospettiva evidentemente coloniale e di regime, in cui vengono messe in mostra le bellezze naturali e le archeologie antiche, greca e romana soprattutto, mentre la cultura indigena viene presentata secondo modalità e pratiche coerenti con gli scopi del regime e le aspettative dei visitatori. Alla mobilità del turista metropolitano e internazionale lungo la Litoranea faceva da contraltare la coercizione della mobilità dei coloni metropolitani e la sedentarizzazione forzata e segregazione delle popolazioni locali all’interno dei comprensori di boni ca agraria.

La Litoranea asse della boni ca agraria tra accessibilità e controllo della mobilità Anche in Libia il regime traspose il concetto di “boni ca integrale”, inteso come insieme coordinato di azioni che intendevano rigenerare territori e società attraverso la boni ca agraria, sociale e culturale (Ben Ghiat, 2011), che si tradussero in pratiche di colonizzazione diffuse dall’Italia ai domini d’Oltremare. In questi contesti, l’azione di boni ca integrale (Raffa, 2023) si caricava anche delle necessità di conquista e presidio di un territorio “altro”. In questa cornice il popolamento della colonia attraverso migrazioni dall’Italia organizzate dal regime intendeva garantire un controllo stabile del territorio attraverso l’insediamento — de nito colonizzazione demogra ca intensiva — di contadini che avrebbero svolto l’azione di boni ca agraria. La costruzione della Litoranea libica coincise con un ampio processo di riorganizzazione della colonia dal punto di vista dello sviluppo agricolo, mettendo in relazione ambiti rurali esistenti ma anche di nuova costruzione, cioè i comprensori agricoli intesi come unità territoriali in sé conclusi, ed interconnessi

dalla strada e dalla sua rete infrastrutturale. A partire dal 1937, la strada Litoranea e il suo reticolo infrastrutturale diventava la vertebra di un sistema coordinato di boni ca agraria territoriale, capace di mettere in relazione gli ambiti già valorizzati (insediamenti e concessioni agricole) e di impostare la struttura dei comprensori di nuova realizzazione in maniera riconoscibile. Relazione che aveva implicazioni nel disegno dei comprensori stessi che frequentemente impostavano il proprio reticolo interpoderale a partire dal tracciato della Litoranea o delle sue diramazioni e a cui erano connessi i centri agricoli di fondazione, che assolvevano alle necessità della comunità di contadini insediata. Alle nuove possibilità di connessione che la Litoranea offriva rispetto allo sviluppo agrario della colonia, si contrapponeva la limitata possibilità di spostamento per le famiglie metropolitane insediate. Una volta raggiunti i porti delle coste libiche e, attraverso la Litoranea, il comprensorio agricolo a cui il regime li aveva destinati, veniva avviato un processo che puntava a legare i coloni alla terra, sedentarizzandoli e rendendo de nitiva la loro permanenza, anche riducendo i loro spostamenti sostanzialmente dal podere al centro agricolo. Sul modello della boni ca dell’Agro Pontino, ogni podere veniva affidato ad una famiglia che su di esso risiedeva e che lo avrebbe riscattato in trent’anni di lavoro; le possibilità di spostamento erano scoraggiate da un meccanismo di controllo che intendeva gestire la vita del colono entro i con ni del proprio podere e del comprensorio. Ciò determinò nuove ecologie con implicazioni sul disegno dei comprensori in cui famiglia colonica e podere era l’unità socio-ecologica base di un sistema chiuso, che doveva essere mantenuto in equilibrio dall’interno anche attraverso l’isolamento della famiglia all’interno del proprio podere e il controllo, anche repressivo, nei confronti della mobilità. In ambiti caratterizzati da una ridotta produttività ed in posizioni più de late, ma comunque collegati alla strada Litoranea, sorsero i comprensori per le popolazioni locali nomadi e seminomadi. Secondo lo sguardo colonialista, questa modalità di abitare il territorio era considerata sintomo di inciviltà e quindi andava repressa attraverso un programma di sedentarizzazione mutuato direttamente dai comprensori per coloni metropolitani, in cui si ritrova la logica insediativa podere-casa colonica-centro di fondazione. La strada, in questo contesto, consentiva di assicurare un controllo rapido delle popolazioni autoctone forzosamente

2 - Nella pagina a anco, in alto: Ponti come ‘opere d’arte’. (1937). La strada Litoranea della Libia, Tavole. Mondadori, Verona, p. 177. 3 - Nella pagina a anco, al centro: un retti lo della Litoranea nella regione della Sirtica. Collezione privata. 4 - Nella pagina a anco, in basso: la Litoranea e l’arco dei Fileni durante la Seconda Guerra Mondiale. Collezione privata.

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5 - Una casa cantoniera lungo la Litoranea. (1937). La strada Litoranea della Libia. Mondadori, Verona, p. 127.

6 - Il centro agricolo, progettato dall’arch. F. Di Fausto, del comprensorio Maddalena con la sua piazza aperta sulla Litoranea. Collezione privata.

insediate e segregate, rispetto alle quali le condizioni di vita erano assimilabili a quelle di un campo di lavoro. L’obiettivo era la progressiva sedentarizzazione della popolazioni indigene nomade e seminomade e la loro segregazione in ambiti speci ci attraverso il lavoro agricolo, e la Litoranea offriva alle autorità una maggiore rapidità di controllo degli ambiti e delle famiglie insediate. Lungo la strada veniva strutturandosi un paesaggio agrario che aveva come referente quello italiano, in cui il tracciato della Litoranea diventa segno ordinatore di un sistema territoriale impostato sulla velocità moderna di collega76

mento tra i comprensori e la segregazione delle popolazioni insediate, anche in chiave razzista nei confronti degli autoctoni.

Conclusioni Tra gli anni Trenta e lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale il regime mise a punto una strategia di controllo della mobilità, che impresse profonde trasformazioni al territorio attraverso la mobilità. Intorno e attraverso la Litoranea si andavano strutturando ecologie asimmetriche di mobilità che plasmarono un paesaggio di colonizzazione


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7 - Vista aerea sul comprensorio agricolo Gioda, il centro e le case coloniche disposte lungo le strade interpoderali ortogonali al tracciato della Litoranea che lo attraversa. Collezione privata.

lungo la fascia costiera. Comprendere le sue ecologie e morfologie oggi signi ca non solo contribuire in maniera innovativa agli studi sull’architettura e le trasformazioni urbane e territoriali di matrice italiana in contesti coloniali ma, rispetto al caso speci co, consente di cogliere l’evoluzione delle dinamiche di mobilità e delle loro implicazioni nello spazio e di guardare alle loro intersezioni molteplici con il presente. © Riproduzione riservata

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Embedding the Mahmoudieh Canal into the Axis of Hope at Alexandria, Egypt by Eshraq Marey and Cristina Pallini

Alexandria, the second-largest city in Egypt with a population of 5.11 million, extends along the Mediterranean for over 125 km. To the east, what was once a mix of indigenous huts, dunes, and villas has become a looming concrete mass overlooking the sea. Meanwhile, to the west, the canal port and grain silos give way to the heavy industrial plants of the 1970s as far as the SuMed pipeline tanks, beyond which lies a never-ending series of tourist villages against the turquoise sea. In 2020, a multi-lane road named Axis of Hope replaced the Mahmoudieh Canal, one of the most signi cant offshoots from the Nile. Avoiding hasty judgments, this paper outlines some considerations around the canal’s territorial role and periodic reinvention. It documents the debate about its future over the recent decades, which turned out to be unheard.

Historical background The Nile never reached Alexandria. Instead, its water arrived through a navigable canal derived from the Rosetta branch about 30 km south. Historical documents reveal that the Mahmoudieh Canal, opened at the behest of Egypt’s Viceroy Mohamed Ali from 1817 to 1821, partially embedded a pre-existing water body. The new canal provided the primary trade route within the country, along with water for drinking and irrigation. Secondary canals furrowed the land southeast of Alexandria, punctuated by rural villages. Blending nostalgia and reality, many literary descriptions of Alexandria include the canal, which Giuseppe Ungaretti remembered fondly from childhood. He recalled the croaking of frogs, the lush gardens, and the fragrant trees that lined the banks, casting a cool shade1. In 1930, Filippo Marinetti retur1 Giuseppe Ungaretti (1931), Chiaro di luna (Quaderno egiziano), in Paola Montefoschi (ed.), Vita di un uomo, Viaggi e Lezioni, Mondadori, Milano 2000, p. 70.

Alessandria d’Egitto: dal Canale Mahmoudieh all’Axis of Hope di Eshraq Marey e Cristina Pallini

Nel 2020 ad Alessandria d’Egitto è stata inaugurata una nuova arteria di grande scorrimento denominata enfaticamente “Axis of Hope”. Questa strada è stata costruita lungo il sedime del Canale Mahmoudieh, aperto per volere di Mohamed Ali tra il 1817 e il 1821 recuperando un antico tracciato. Questo contributo sottolinea l’importanza del canale, non solo per riconnettere Alessandria al resto del Paese e riaffermarne il ruolo portuale, ma anche per lo sviluppo agricolo della regione. Il Canale Mahmoudieh, infatti, era stato concepito per l’uso multiplo delle acque: navigazione, irrigazione e fornitura di acqua potabile. Nel ripercorrere il dibattito degli ultimi decenni sulla sua riquali cazione, è importante contestualizzarne i termini. Nel dopoguerra la trasformazione dei canali arti ciali in nuove strade era una tipologia di intervento abbastanza comune mentre oggi, in molte città, si discute di come invertire il processo. On the previous page, at the top: plan of the Mahmudieh canal, Pascal Coste, 1821. Source: Dominique Jacobi (ed.), Pascal Coste, toutes les Égypte, Éditions Parenthèses-Bibliothèque Municipale de Marseille, 1998, p. 87. On the previous page, below: view of the port along the Mahmoudieh canal around 1918. Source: William H. McLean, City of Alexandria Town Planning Scheme, Imprimerie Nationale, Cairo 1921.

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1 - The Mahmudieh Canal from the Rosetta branch of the Nile to Alexandria. Source: drawing by C. Pallini.

ned to Alexandria and described the bustling boats that carried enormous amounts of cotton along the Mahmoudieh Canal, some half-submerged in the water2. The Mahmoudieh Canal, 1821. In 1817, a young man from Marseille named Pascal Coste (1787-1879) moved to Egypt. Edme François Jomard, a prominent member of the Institut d’Égypte, had recommended him to Mohamed Ali for designing a factory that would produce nitro through evaporation near the ruins of ancient Memphis. The laws of physics dictated the building’s overall dimensions. The cluster of distant pyramids echoed in the cartesian geometry envisaged by Coste. At the start of his career, he faced the challenge of grafting a network of canals, locks, bridges, forti cations, signal towers, and industrial facilities onto Egypt’s timeless landscape. From his memoirs, we learn that Mohamed Ali conceived the idea of a navigable canal that would allow boats carrying crops from Upper, Middle, and Lower Egypt to reach Alexandria, avoiding the treacherous passage of Bogaz at the mouth of the Rosetta Nile. The governors of the seven provinces 2 Filippo Tommaso Marinetti (1933), Il Fascino dell’Egitto, Mondadori, Milano 1981, pp. 77-78.

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in Lower Egypt agreed on the canal project, entrusting the task to a Turkish engineer. The inlet was to be located near Afteh, a village below Fouah. The canal would be thirty meters wide and have an average depth of 3.65. Works stopped due to the lack of levelling operations and the Turkish engineer’s faulty curve. In March of 1919, the Pasha summoned Coste to Alexandria and tasked him with completing the canal without changing its route3. Digging the nal stretch of the canal, Roman, Greek, and Egyptian antiquities had to be destroyed. Coste surveyed them all in his annotated drawings. Used for unloading agricultural products stored in nearby warehouses, the canal outlet revived ancient Kibotos4 and marked the pre-eminence of the harbour of the west over the eastern one. The Mahmoudieh Canal opened in February 1821 and initiated a program of hydraulic works for constant irrigation of the Delta. The freshwater transport infrastructure played a crucial role in the rebirth of Alexandria after centuries of decline. It also paved the way for new architectural works such as the small mosque near the inlet, the dam-bridge connecting Lake Maryut and Lake Aboukir, the bridge near the Rosetta Gate at Alexandria, and the basin for mooring boats in the western harbour. . Anyone landing in Alexandria bound for Cairo was to see the dry dock, the arsenal, and the Pasha’s citadel on the promontory of Ras el-Tin before sailing along the Mahmoudieh Canal with its verdant towpaths, admiring the newly built villas and nineteen telegraph towers transferring messages to Cairo in just 15 minutes. Most travellers saw them as nothing more than a squat minaret, and only a few recognised the reference, albeit vague, to the legendary lighthouse. Undoubtedly, all these technicalities signalled Egypt’s entry into modernity. Embedding the Canal into the Overland Way, 1834. As early as 1828, just seven years after the inauguration of the Mahmoudieh Canal, Thomas Fletcher Waghorn established a business that offered rest houses, boats, horses, and carriages to support the Overland Route to India. On 7 March 1835, the British Government officially authorised his service 3 Pascal-Xavier Coste, Mémoires d’un artiste (18171877), Marseille 1878, pp. 25-27. 4 An arti cial basin cut at a right angle into the mainland. Cf. Fawzi El Fakharani, “The Kibotos of Alexandria” Giornate di Studio in onore di Achille Adriani, Studi Miscellanei, Erma di Bretschneider, Rome 1991, pp. 21–28.


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2 - The central part of the Overland Way. Source: drawing by C. Pallini.

as the fastest and safest method to manage British mail5 and, in 1840, established the Peninsular & Oriental Company as a competitor. Travellers would depart from Southampton on a steamer and reach Malta via Gibraltar within ten days. After another four days, they would arrive at Alexandria. They stayed in a dedicated hotel in Place des Consuls, where Europe had made its mark on arts and architecture6. Travellers could visit Cleopatra’s Needle, the Pasha’s Palace, and Pompey’s Pillar before boarding a boat that would take them up the Mahmoudieh Canal to Atfeh. From there, they would switch to large steamers and ascend the Nile until Bulaq, Cairo’s river hub for international trade, then a manufacturing site whose minarets alternated with smokestacks. Typically, the journey took between 26 and 30 hours. From there, travellers could easily reach Mr Shepheard’s hotel, waiting for the steamer’s arrival at Suez. Horses, camels, or horse-drawn buses covered the last part of the journey on the desert track. Obsolescence and revival 1856-1930 . After years of negotiations, in 1853, the British obtained a concession to build a standard gauge railway from Alexandria to the Rosetta Nile, the rst in Africa and the Middle East. Robert Stephenson oversaw the construction of the 5 Thomas Waghorn, Messrs. Waghhorn & Co. Overland Guide to India, Smith, Elder and co, London 1846. 6 Mohamed F. Awad, “The Metamorphoses of Mansheyah”, in Alexandrie en Égypte, special issue of Méditerranéennes, n. 8-9 1996, pp. 42-58.

line, which reached Kafr el-Zayat in 1854. From there, navigating the Nile could cover the remaining distance to Cairo. Once the railway was extended to Cairo in 1856 and Suez in 1858, all other forms of transportation became obsolete. British engineer Thomas Sopwith observed a bustling waterfront scene along the Mahmoudieh Canal as he departed Alexandria by train. The area was crowded with people bartering over merchandise transported by boats or heavily loaded camels7. Alexandria experienced rapid urban growth and developed port-related infrastructure, becoming a vital commercial centre in the Middle East8. When industry began to develop by the late 19th century, the primary means of transport were already available. The Mahmoudieh Canal, paralleled by the railway and the Agricultural Road, was lined with warehouses for import/export goods, the rst industrial plants and, on the southern bank, a chain of rural villages for farmers working on land reclaimed from lakes Maryut and Aboukir. In 1919, the municipal engineer William Hannah McLean proposed an extension of the city’s boundaries, which a network of roads would support to consolidate the suburban area9. According to his notes, Egypt’s com7 Thomas Sopwith, Notes on a Visit to Egypt by Paris, Lyons, Nimes, Marseilles and Toulon, C. Roworth and Sons, London 1857, pp. 77–78; 87. 8 Hassan El Saaty, Industrialisation in Alexandria. Some ecological and social aspects, Cairo 1957, p. 42. 9 William H. McLean, City of Alexandria Town Planning Scheme, Imprimerie Nationale, Cairo 1921; Mahmud Riad, “Alexandria: Its Town Planning Development”,

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3 - Proposed section of the Mahmoudieh canal along the southern boundary of the city, William H. McLean. 1919. Source: William H. McLean, City of Alexandria Town Planning Scheme, Imprimerie Nationale, Cairo 1921.

mercial capital was home to 444,617 people (19% foreign) and needed better circulation. Public parks and squares. His plan also included a port extension scheme consisting of wharves and landing stages of various types along both banks of the entire stretch of Mahmoudieh Canal, marking the city’s southern boundary. On October 21, 1925, local officials, authorities, and William Hannah McLean himself gathered by the Mahmoudieh Canal to celebrate the drainage of Lake Hadra. The aim was to create a new town in the northeastern suburbs of Alexandria, taking advantage of the Nouzha Gardens and the lush banks of the canal. The competition program for the new town of Sidi Gaber laid emphasis on gardens and open spaces to enhance the beauty of residential districts10. In 1939, a company town was built near Kafr el Dawar. It was constructed along the Mahmoudieh Canal and the Agricultural Road leading to Cairo. The town was named Beida Dyers and was primarily built for textile manufacturing. It was equipped with all the necessary infrastructure to support the workers11. In the aftermath of the Second World War. After the Free Officers’ Revolution of July 1952, and even more so after the Suez crisis of 1956, Alexandria experienced a mass exodus of foreigners and the transfer of the main activities to Cairo. In the meantime, the surrounding countryside was subject to land in The Town Planning Review, vol. 15, n. 4, December 1933. pp. 233-249. 10 Richard Smouha, Cristina Pallini, Marie-Cécile Bruwier, The Smouha City Venture. Alexandria 1923-1958, Createspace, Charleston 2014. 11 Cristina Pallini, Annalisa Scaccabarozzi, “British Planning Schemes for Alexandria and its region”, in Carlos Nunes Silva (ed.), Urban Planning in North Africa, Ashgate, Abingdon, Oxon 2016, pp. 187-204.

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reclamation as part of a plan for national rural development12. The Mahmoudieh Canal still acted as a divider between the urban and rural areas, with industries and villages alternating along its banks. A map from 1958 published by the U.S. Army displays the industrial districts alongside the canal. These began with the rear port of Minet el-Bassal, which had extensive storage facilities for cotton, cereals, tobacco, and timber, as well as factories and cotton-pressing plants. Further east, there were various companies such as Mobil Oil Egypt, the Weaving Company, rice mills, cotton-spinning works, ice factories, a brewery, paper mills, and the Salt and Soda plant. Following the 1965-1975 ve-year plans, new state-owned industries replaced earlier villages along the canal near the Nouzha railway siding: food processing and textile industries, brickworks, the Water Company, and a plant producing electric equipment. Between Lake Maryut and the railway, the Mahmoudieh Canal formed a highly industrialised belt stretching from east to west, including plants for repairing tugs and cars and others for building canal boats. The closure of the canal’s connection to the western harbour in 1952 due to lack of maintenance had already terminated its logistical role and diminished its ecological value13. 12 Land reform was the rst act of radical social change on the political agenda of the new regime. Rural development projects included the new province of Al-Tahrir, partially realized in an area between the Nubariya Canal and the Desert Road, for which work began in 1957 with Soviet assistance. Cf. Stella Margold, “Agrarian Land Reform in Egypt”, in The American Journal of Economics and Sociology, Vol. 17, No. 1, 1957, pp. 9-19; Elio Manzi, “Egitto rurale e urbano tra congestione insediativa e sottosviluppo”, in Rivista geogra ca italiana, Vol. 89, n. 1, 1982, pp. 54-101. 13 Dina Mahmoud Nassar, Shahira Sharaf Eldin, “Towards Adaptive Reuse of the Industrial Heritage in


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4 - Hisham Seoudy, Proposed section of the Mahmoudieh canal, November 2017.

Bridging the Mahmoudieh Canal into the future The Mahmoudieh Canal provided the primary water source for Alexandria and the Behera governorate while also receiving domestic and agricultural wastes14. Waterways management, vital in Egypt, went through several phases, highly impacted by the rapid urban and demographic morphology changes15. Since 1978, due to pollution and Minet El-Bassal district at Alexandria”, in Architecture and Planning Journal, vol. 22, n. 1 2013; Yasser Aref, Alexandria Forgotten Architecture Reintegration of Industrial Heritage of Alexandria in Urban Development Plans, Amicale Alexandrie Hier et Aujourd’hui, Cahier n. 70, February 2013. 14 Drinking water was transferred to the eight water treatment plants for treatment operations. Ali Mahmoud Ahmed Abdullah, Salah El-Dien Hussona, “Water Quality Assessment of Mahmoudia Canal in Northern West of Egypt”, in Journal of Pollution Effects and Control, vol.2, n. 2, 2014. 15 Sara S. Fouad, Essam Heggy, Abotalib Z. Abotalib, Mohamed Ramah, Seifeddine Jomaa, Udo Weilach-

lack of maintenance, the Mahmoudieh Canal has been seen as a problem other than an asset. The increasing presence of slums and pollution triggered the debate about its rehabilitation, so much so that the Governor’s decree n. 29 of 1978 called for an ad hoc technical team16. One of the three proposed projects involved replacing the canal with a subway tunnel, with a road on top. In 1982, the land ll expenses were estimated at 120 million EGP, yet, in the absence of drilling tests, the tunnel of approximately 15 km was challenging to estimate17. Alexandria 2005 Comprehensive Master Plan. er, “Landscape-based regeneration of the Nile Delta’s waterways in support of water conservation and environmental protection”, in Ecological Indicators, vol. 145, December 2022. 16 Abdul-Fattah Al-Mosley, Development and Exploitation of the ‘Al Mahmoudieh’ canal, Ministry of Higher Education, Alexandria University, 1993. 17 Minutes of the joint meeting between the Urban Planning Committees, the Industry Committee, the Committee for Economic Affairs and the Committee on Transport, session of 3 May 1983.

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5 - Axis of Hope, Smouha investment area perspective view (source: Engineering Authority of Egyptian Armed forces).

In 1983, the Alexandria 2005 Comprehensive Master Plan included the land ll of the Mahmoudieh Canal18. In 1989, the competition for rebuilding the Library of Alexandria was instrumental in bringing the city back into the international debate. In the 1990s, the Mahmoudieh Canal transferred about 50,000 tons of raw materials and cargo annually. Nevertheless, the idea of replacing it with a road, supported by the Alexandria Traffic Department and the West Delta Irrigation Projects Administration, regained momentum; many industrial buildings along its banks were pulled down and replaced by residential compounds. This solution, however, had many opponents, including the General Authority for River Transport, the Army, the industrial companies along the canal, the Fire Department (needing water in the event of res), and the Alexandria Water Company (supplying the city with fresh water). Eventually, the decision to maintain the Mahmoudieh Canal prevailed: “a precious resource for the land and the humans”, as the Governor used to say. Environmental Improvement and Communal 18 Comprehensive Plan Alexandria 2005, Final Report, Alexandria Governorate and University of Alexandria, El Shorouk, Alexandria 1984; Gerald Dix, “The Greater Alexandria Comprehensive Master Plan 2005”, in Open House International, vol. 10, n. 3 1985, pp. 39-42; Gerald Dix, “Alexandria 2005: Planning for the Future of an Historical City”, in The Mediterranean - III and IV: Response to problems within the local cultural contexts, special issue of Ekistics, vol. 53, n. 318-319, May/June/July/August 1986, pp. 177-186.

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Development, 2001-2009. In 2001, the Alexandria Governorate decided to close all toxic industrial outlets along the Mahmoudieh Canal, transfer polluting activities to Burg al Arab, and establish pedestrian bridges, services, and security units19. A PhD thesis was conducted in 2002 at the Faculty of Fine Arts in Alexandria University, which aimed to redevelop the Mahmoudieh Canal into a linear park20. The project aimed to improve the canal’s architectural heritage and relocate informal housing to create space for new urban developments. The author’s vision was to transform the canal into a safe and pleasant place for people to walk and children to play and to attract new development along the canal front. In January 2007, the Alexandria Governorate requested the AlexMed Research Centre to conduct a preliminary study to construct a new east-west road along the northern bank of the Mahmoudieh Canal. The study focused on a particular section of the road and examined land use, current issues, and traffic conditions. The recommendations and proposals submitted to the Governorate of Alexandria also identi ed road sections to be widened and areas to be conscated. Based on previous projects, a new study suggested that the Mahmoudieh Canal could be improved by widening its side 19 Amr G El-Adawy, Mohamed Ismail, “Environmental Improvement and communal development project”, paper submitted to the Alexandria Government, 2009. 20 Hebatalla Abouelfadl, Developing the Urban Surroundings of the Mahmoudia Canal, PhD Thesis, Faculty of Fine Arts, Alexandria University 2002.


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roads (25 m and 15 m wide, respectively) and constructing a 14-km corniche to help circulation and restore its former glory. Cleaning up the canal was found to be 42 million EGP, signi cantly less expensive than lling it up. The study also provided data on the population, their behavioural patterns, integrated by information on traffic and public utility networks, educational, health, cultural and recreational services, and existing agricultural land. The legal framework and administrative and nancial aspects were also considered to reclaim the canal from pollution and enhance its architectural heritage.

The “Axis of Hope”, 2017

Sustainable regeneration, 2014. In 2014, a team of experts from the Arab Academy for Science, Technology & Maritime Transport, and from the University of Alexandria21, conducted a study to promote sustainable regeneration of the Mahmoudieh Canal. They aimed to make the most of the existing infrastructure while integrating ecological and economic aspects into a cohesive vision. The authors considered the canal a potential “green belt” that could meet community needs and set a precedent for brown eld rehabilitation. They created a master plan that addressed long-term growth, land use management, transportation, and priority areas of intervention. The Alexandria Governorate took over the canal’s ongoing maintenance and added new landscape features and two playgrounds, while the civil society mobilised to remove over 10,000 m3 of waste. The study suggested turning both towpaths into one-way roads: four lanes along the northern bank and three lanes along the southern bank, opening service roads where possible22.

The “Axis of Hope” project was announced in August 2017. It was scheduled to be launched by President Abdel Fatah Al-Sisi by the end of that year during a Provincial Executive Authority meeting23. To construct a new traffic artery with six to eight lanes in each direction, a 21 km long section of the Mahmoudieh Canal was to be back lled with a width ranging from 80 to 120 meters. The project was to be executed in ve stages, lling and covering the waterway. Three large-diameter pipes were installed for water supply, with water stations placed strategically. The plan was to replace the remaining factories and warehouses with new residential developments and service centres, also in view of providing job opportunities. Both sides of the road were to be redeveloped for this purpose. Additionally, a metro bus system was proposed to serve densely populated neighbourhoods. The project was to be executed with the supervision of the Egyptian Army and eight governmental bodies, including the Alexandria Governorate, the Northern Military Region, the Ministries of Irrigation, Housing, Transport and Planning, the Alexandria Security Directorate, and Alexandria University24. The Governor of Alexandria estimates the value of unused land and industrial facilities adjacent to the canal to be around 43 billion EGP, covering a surface area of 2,117,239 square meters. The “Axis of Hope” project aimed at supporting the economy’s recovery and investment in Alexandria by enhancing internal tourism, resolving traffic congestion, and establishing new industrial communities in low-density areas. The plan also included a lane for public buses25.

21 Abbas Yehia, Abd El-Fattah El-Mosley, Alaa El Din Sarhan, Maye Yehia, Ahmed Abo El Wafa, Fadwa Fawzy, Karim El Tawil, Sustainable Regeneration of Canal Al Mahmoudieh, 2014. 22 Omar El-Sharif, Yousry Azzam, Project of development of the road of Al Mahmoudieh, 2013.

23 Ameera Fouad, “Alexandria: Artery of hope”, in Al Ahram Weekly, 3 September 2020. 24 Sara S. Fouad, Udo Weilacher, “The Artery of Hope”, Topos European Landscape Magazine, n. 116, 1 September 2021, pp. 42-47. 25 Media declaration to the Governor during the Au-

6 - Axis of Hope, Smouha investment area site plan (source: Engineering Authority of Egyptian Armed forces).

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General Strategic Plan for Alexandria 2032. In August 2017, in perfect synchrony with the announcement of the “Artery of Hope”, the General Strategic Plan for Alexandria 203226 was presented to the Egyptian Government. It was meant to achieve a new image of the city and face some crucial challenges, namely supporting the decentralisation of urban communities, improving quality of life and environment, encouraging economic, and social development, supporting cultural and architectural heritage, and implementing planning policies. The Plan for Alexandria 2032 aimed at offering more job opportunities, thereby receiving 2.4 million additional inhabitants in a city which was already facing signi cant problems with informal housing27. The public transportation systems were also targeted due to their lack of modernization and efficiency. The road network and the transport and communication system generally suffer from near-collapse and total shutdown during peak hours. The third (claimed) challenge consists of different pollution sources: air pollution, waste management, and sanitary and industrial drainage, which are well noticed in the Mahmoudieh Canal and Lake Maryut. Discussion. The proposed project in Alexandria sparked a debate among the House of Representatives members. While some remained unsure, one representative believed that the project would positively impact both the macro and micro-economies. Furthermore, they argued that it would help reduce car emissions by making public transportation more accessible28. Despite its deteriorating condition, the Mahmoudieh Canal was a crucial component of Alexandria’s urban structure and a natural outlet for surrounding residents. The decision to cover the canal raised many questions. Firstly, the then-Prime Minister had already chosen the development and conservation of the canal, allocating 250,000 EGP for its cleaning. At the House of Representatives, a member of the Muharram Bey Department expressed the urgent need to gust 23, 2017, Governorate meeting. 26 Carried out the General Authority for Urban Planning of the Arab Republic of Egypt (GOPP) and the Regional Planning Center in Alexandria. 27 According to the statistics, 46% of its inhabitants live in unplanned agricultural land areas, lacking services and infrastructure. 28 The Governor’s declaration during the conference announcing the project on 23/8/2017, in Al Ahram, 17 November 2017.

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maintain the canal by removing waste and all infringements on the road and urban planning. Instead, they requested Alexandria’s comprehensive vision and strategy as soon as possible29. Alternative Plans. Several academics have weighed in on the topic. Dr. Hisham Seoudy, a Professor of Planning and Architecture and former Dean of the Faculty of Fine Arts at the University of Alexandria, stated that there was no valid reason to cover the canal. He suggested that a road or a monorail could be constructed along its course instead of covering the canal, using the available space. Dr. Seoudy proposed that a signi cant portion of the canal could accommodate four lanes in each direction, along with some rotation bridges. He emphasised that road development could be achieved without compromising the canal and that the canal could be transformed into a green space for the city’s residents to enjoy. Some economists, also against the “Axis of Hope”, argued that Gulf cities like Dubai, Qatar, and Bahrain created lakes and industrial parks as urban assets and tourist attractions. Many Alexandrians opposed the project, claiming that the canal would increase the value of the surrounding land and buildings to 80 billion EGP30. In September 2017, Professor Yusri Azzam proposed a high-speed road with ve lanes on each side of the Mahmoudieh Canal. His proposal included a green waterfront of varying width that would conserve bridges and previous constructions while taking advantage of all previous maintenance work. The canal would be buried and linked with sub-axes in areas with severe traffic congestion. The project also aimed to redevelop areas, particularly along the southern bank, such as the Bashayer Al-Khair project in Gheit El-Enab. The plan aimed to preserve over 80% of the canal while opening high-value investment opportunities by relocating industrial activity. According to Dr Hisham Seoudy, preserving the Mahmoudieh Canal deserved cutting-edge solutions31; he proposed an alternative scheme based on a study conducted on the section, including the Hadra fruit and 29 Press release during a televised television interview On-tv, November 2017. 30 Idea about covering the Mahmoudieh canal submitted by the real estate resident eng. Jilan Mansour in 2017. 31 Dr. Hisham Seoudy, Al Mahmoudieh canal between development and restoration, November 2017.


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vegetable wholesale market32. In summary, his project aimed at preserving the historical and urban signi cance of the Mahmoudieh Canal by reframing its role as a traffic artery and implementing signi cant projects along its path.

Conclusion Over the past decades, the lure of 19th and 20th-century cosmopolitan Alexandria has provided a common source of interest for scholars of different disciplines33. Examining historical events can offer valuable insights into present-day challenges. Alexandria is an excellent case in point. Despite undergoing extensive infrastructure upgrades in the 19th and early 20th centuries, the city has managed to periodically restructure its backbone infrastructure, including the two harbours, a road running along the limestone ridge, and a freshwater canal sourced from the Nile. Many questions arise after reviewing the long history of the canal and retracing the recent debate. One might question how a long-distance route’s critical component could be considered a city-level infrastructure. Sara S. Fouad and Udo Weilacher argued that Alexandria is currently facing a steady increase in water needs to service a rapidly growing population. Yet, the city’s main water supply was back lled and replaced with a motorway. Somehow paradoxically, remarked Dr. Hisham Seoudy, this was happening while the Green River Park project was being carried out in the New Administrative Capital of Egypt34. Why did the project go ahead after all the discussion and alternative proposals? It is not enough to blame an authoritarian government; some profound ideological reason 32 According to this study, the main problems of the canal concerned its lousy maintenance of the streets and pavements and the blatant disregard for the watercourse, which was used as a garbage dump. The activities along the canal were classi ed into ve primary sectors; the study also covered the most critical nodes all along the canal axis, considering the average width of the streets and of the canal surface; architectural landmarks; number of pedestrian and car bridges. 33 Key sources include Robert Ilbert, Alexandrie, 18301930: histoire d’une communauté citadine, IFAO, Cairo 1996 and Michel J. Reimer., Colonial Bridgehead. Government and Society in Alexandria 1807-1882. The American University in Cairo Press, 1997. 34 See “The Construction of the 35-Km Green River in the Egyptian New Administrative Capital”, in Egypt Architecture News, 17 June 2019; “Central Park in Egypt’s New Administrative Capital among the largest in the world”, in Egypt Independent, 21 October 2020.

for this infrastructure operation must still exist. A possible precedent for constructing a new arterial road with high-rise apartments can be seen on Sheikh Zayed Road, connecting Dubai and Abu Dhabi. It may be added that, after the Second World War, many European cities replaced arti cial canals with roads to symbolise modernity and functional infrastructure. Recently, however, this trend has reversed. An example for the Dutch: Utrecht’s 900-year-old moat, dating back to the city’s birth in 1122, was turned into a 12-lane motorway in the 1970s. In 2020 though, Catharijnesingel was restored to its original form35. Another example is The Hague, where the architectural rm MVRDV presented a plan to reopen the 17th-century canals lled in during the 20th century36. In Milan, an extraordinary water system developed over centuries, marking signi cant moments in the city’s relationship with its region just like in Alessandria37. In Milan, too, work has been underway for some time on the project to reopen the Navigli, aimed at recovering their late 19th-century routes, thus creating a continuous system consisting of a canal and a cycle path that would homogeneously bring new urban quality from suburb to suburb passing through the centre. Driving through the Axis of Hope and observing its new townscape, everyone can determine if Alexandria has lost something by erasing the variety of its former “canalscape”, which included warehouses, villas, manufacturing plants, residual villages, and visions of the fertile countryside. © Riproduzione riservata NOTE The authors are listed in alphabetic order. Based on a common outline, E. Marey dwelt on the recent debate about the future of the Mahmoudieh Canal and the socalled Axis of Hope, partly based on her MA Thesis Past and future of the Mahmoudieh canal in Alexandria heritage assets & potentials for sustainable urban development, AUIC School, Politecnico di Milano, April 2019. C. Pallini instead wrote the introduction, the paragraphs about the historic role(s) of the Mahmoudieh Canal, and the conclusions.

35 Daniel Boffey, “Utrecht restores historic canal”, in The Guardian, 14 September 2020. 36 https://www.mvrdv.com/projects/407/the-haguecanals. 37 Giovanni Cislaghi, Marco Prusicki, “Milano e le acque: progetto per una nuova darsena”, in Francesca Floridia (ed.), Sud Milano. Storie e prospettive di un territorio, Il Poligrafo, Padova 2014, pp. 287-317.

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Sulle strade del cinema: fughe, spaesamenti, esplorazioni di Fabrizio Violante

“La nube di ri essi sulla lunga strada appare spesso opaca o cinerea nelle stagioni umide, per le nebbie tte di vapori che salgono dal suolo. Invece è quasi sempre iridescente nei mesi più caldi, e ad esempio in estate al mattino un campo di cavoli può presentarsi agli occhi con un verde uorescente, una stazione di servizio e un capannone industriale possono apparire tremolanti come un miraggio, mentre il cielo sereno è tutto perlaceo no allo zenit”.

Così l’immaginario “dipintore d’insegne Emanuele Menini” descrive le Condizioni di luce sulla Via Emilia in una delle Quattro novelle sulle apparenze di Gianni Celati, pubblicate nel 1987. Nella sua prosa ri essiva e affabulante, attenta agli inciampi dell’anima e alle sorprese del mondo, lo scrittore evoca il paesaggio (im)mobile di quell’Emilia che negli stessi anni (1985) veniva de nita paranoica (“Consumami distruggimi è un po’ che non mi annoio”) dal gruppo punk rock dei CCCPFedeli alla linea in uno dei loro brani più noti, dove cantano una generazione senza futuro che si aggira “da Reggio a Parma, da Parma a Reggio, / a Modena, a Carpi” aspettando “un’emozione sempre più inde nibile”. Celati aveva già raccontato temi e gure della lunga e diritta (Guccini dixit) via padana – voluta dal console romano Marco Emilio Lepido nel lontano 189 a.C. per collegare Ariminum (Rimini) con Placentia (Piacenza) – nei due volumi delle Esplorazioni sulla via Emilia, curati nel 1986 insieme al fotografo Luigi Ghirri con l’intento di scrutare permanenze e mutamenti dell’antica arteria “mantenendo vivo il rapporto tra immagini e scrittura”. A distanza di tre decenni da quell’esperienza editoriale – nata come catalogo dell’omonima mostra fotogra ca organizzata presso il Foro Boario di Reggio Emilia –, in cui si esplorava un paesaggio in graduale trasformazione sotto la spinta di una urbanizzazione incontrollata, nell’Almanacco 2016. Esplorazioni sulla via Emilia, raccolta di scritti di venti autori diversi curata da Ermanno Cavazzoni, quella strada sembra in gran parte non esistere più,

On the streets of Cinema: escape, bewilderment, exploration

by Fabrizio Violante

Whether they are the legacy of ancient connecting routes or the sign of trails and transhumances, pilgrimages or trade, roads represent the circulation system of urban and regional organisms, regulate the travels of men and goods, determine vicinity and distance, allow access and abandon, in other words organize the relentless ow of existence. The roads of cinema (and in cinema) run across signi cant places and territories, essential to the stories they tell, and not necessarily corresponding to those stated by the narration, yet they do represent and convey a precise idea of landscape, be it natural or mental, that touches the spectator: a symbolic and not random image that reveals the deepest sense of the bond between man and the territory in which he acts or through which he temporarily travels, and which can become a key to understanding the spatial forms of contemporary social relations, to reorient ourselves amidst their visible and hidden realities. In a lm story, the journey along centuriesold routes established to connect places and communities, to facilitate the movement of people and culture, emerges as an opportunity to seek out new sense and new meanings, to be willing to open our hearts to the closeness of our wounded existences and the ancestral language of nature, to hear its prayer and at the same time to recognize the blasphemy of the wounds in icted upon us by a distracted modernity.

Nella pagina a anco: fotogrammi del lm Basilicata coast to coast (2010), diretto da Rocco Papaleo.

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ridotta ormai all’apparenza di secondario attraversamento di un’anonima città continua. Nello sguardo contemporaneo si rivela allora come un testo consumato, dalla difficile lettura, un mondo fragile, ingombro delle macerie di attività industriali in crisi, circondato da periferie generiche costruite da una società sempre più confusa. Le immagini e le parole che documentano le due esplorazioni dei territori che si dispiegano lungo una delle arterie più antiche e trafcate d’Italia, ci dicono che anche delle strade si può avere nostalgia. Nostalgia di quello che è lontano, cancellato, sacri cato sull’altare dei miti sbagliati di un frainteso senso del progresso. E forse, proprio per ritrovare i segni di quell’universo perduto, per provare a restituire “un ritmo e una logica” riconoscibili ai paesaggi di pianura, Celati dovrà deviare dal tracciato della via Emilia e addentrarsi nei territori del delta del Po, nell’intrico delle sue strade e vie d’acqua, realizzando nel 1991 il lm Strada provinciale delle anime. A metà tra il diario intimo e il documentario, questo suo primo videoracconto è il risultato di un paziente lavoro di esplorazioni e appostamenti nel triangolo di pianura padana da Ferrara alle valli di Comacchio e no alla punta estrema del delta veneto, presentato attraverso il viaggio di un gruppo di trenta persone. A bordo di una corriera azzurra, Celati riunisce infatti parenti e amici, che rappresentano gli eroi quotidiani del suo orizzonte culturale e familiare, portandoli in gita per alcuni giorni e riprendendo ogni fase dell’escursione. Oltre alla troupe, li segue in auto l’amico Ghirri, impegnato nella documentazione fotogra ca di un’idea che andava prendendo forma lentamente, anzi, come confesserà in un’intervista per la rivista Cinema & Cinema lo stesso regista, “un momento di visione è venuto solo quando siamo arrivati al montaggio”. A fare da colonna sonora alle immagini, insieme ai suoni ambientali diegetici ci sono le sottolineature spontanee delle parole dei protagonisti del viaggio, mentre la voce narrante del regista interviene solo in brevi momenti. È evidente che Celati non amasse la ction né le messe in scena che irretiscono lo spettatore, perché nella sua idea di cinema del reale tutto quello che si può chiedere alle immagini è di cogliere le cose e le persone nella loro libera e autentica spazialità, “di farci sentire la loro distanza. [...] Quando perdi questo senso della distanza, le immagini assumono il senso di cose da catturare”, e diventano una questione tecnica e non più uno stato d’animo. Muovendosi lungo strade minori, che spes90

so seguono tracciati antichi o si affiancano semplicemente ai canali che solcano questo lembo estremo della pianura alluvionale più estesa e antropizzata del nostro Paese, lo scrittore regista ritrova le tracce delle narrazioni arcaiche, delle favole popolari dove tutto può essere memorabile per il solo fatto di essere raccontato o di essere còlto dalla macchina da presa. E ritrova così, nel montaggio di sequenze apparentemente casuali, quello che andava cercando senza saperlo, il senso di un paesaggio piatto, né bello né brutto, dove non c’è “nessuna veduta dall’alto, solo spazio diffuso in ogni direzione”. Un paesaggio che “ti fa sentire com’è ristretto l’orizzonte. Ogni orizzonte”. Insieme ai suoi sbombardati – come lo sentiamo più volte apostrofarli – compagni di viaggio, Celati svela dunque allo spettatore la semplice verità che ogni paesaggio non è mai muto, ma anzi restituisce a chi lo attraversa il tempo e le storie delle generazioni che lo hanno abitato (e che ne sono state abitate) e insieme mostra le tracce mutevoli delle vite presenti e i semi di quelle future che ancora lo animeranno. Il delta del Po, con le sue apparenze minime, le sue noie e le sue passioni, diventa per lui il lo di una storia che non ha bisogno di conclusioni né soluzioni. Le strade, siano esse l’eredità di antichi tracciati di collegamento o il segno di cammini e transumanze, pellegrinaggi e commerci, rappresentano il sistema circolatorio degli organismi urbani e territoriali, regolano i percorsi degli uomini e delle merci, determinano vicinanze e lontananze, consentono accessi e abbandoni, organizzano insomma il usso incessante delle esistenze. Lungo i loro percorsi si dipanano i luoghi delle contiguità e delle solitudini, delle relazioni sociali e dell’intimità, gli spazi delle memorie condivise e della cultura collettiva, degli scambi commerciali e delle attività produttive e per questo costituiscono l’ambiente elettivo delle esperienze inaspettate, delle possibilità molteplici, della spontaneità della vita. Come ha scritto Charles Baudelaire ne Il pittore della vita moderna (1863), le strade “forniscono una prospettiva privilegiata da cui osservare il traffico della storia intera”. Alla storia minima di un breve viaggio che segnerà il futuro di un gruppo di studenti bolognesi alla vigilia del primo con itto mondiale, che porterà invece il marchio indelebile di una delle maggiori tragedie della grande storia dell’umanità, è invece dedicato il lm Una gita scolastica, diretto da Pupi Avati nel 1983. Il regista bolognese, con il suo stile intimista e con denziale, affianca-


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to nella sceneggiatura dal fratello Antonio, racconta una vicenda sospesa tra memoria e favola, rievocata dalla ormai ottantaquattrenne Laura in un limbo notturno, in cui si confondono veglia e sogno, preludio alla sua dipartita. La donna si ritrova giovane studentessa nei giorni di una gita premio ottenuta dalla propria classe per aver raggiunto la media dei voti più alta di tutto il liceo Galvani di Bologna. Guidati dal timido professore di lettere, i trenta alunni della III G vivranno l’avventura di una scampagnata di tre giorni che li porterà a piedi dal capoluogo felsineo no a Firenze. La mattina della partenza la scolaresca si raduna in piazza San Domenico e da lì si incammina per attraversare la città, raggiungere Sasso Marconi – dove passano davanti alla casa del “grande inventore” Guglielmo Marconi – e imboccare quindi il sentiero che sale verso le colline. Appena raggiunto il bosco, il professore interrompe il cammino per parlare alla comitiva: “Una volta la gente che doveva attraversare la montagna, prima di farlo si fermava qua. E attendeva... l’incanto. Non so chi ha cominciato a chiamarlo così, ma era considerato come una specie di spirito buono, di protezione, di compagno di strada che stava con i viaggiatori no alla ne dello scavalcamento della montagna. E ora anche noi lo attendiamo”.

Come in risposta a queste parole, un’improvvisa folata di vento li investe, fa vibrare i loro corpi e le loro anime e poi si ritira nei recessi ombrosi della boscaglia: “Eccolo è con noi, possiamo andare”, li esorta quindi la guida. Il lm non dà precise indicazioni topogra che dei luoghi toccati dal gruppo dei gitanti che, per raggiungere il capoluogo toscano, dovrebbe presumibilmente seguire il percorso più breve, ossia quello della via Bolognese, l’attuale strada statale 65 della Futa, che fu voluta da Pietro Leopoldo II dei Lorena per assicurare un collegamento più agevole e sicuro fra la Toscana e l’Austria rispetto al più ripido e tortuoso tracciato del Giogo, che rendeva difficile il transito di carri e carrozze, soprattutto nei mesi invernali. Questa nuova via, completata per il tratto toscano nel 1752, rappresentava la prima strada postale transappenninica, cioè servita da varie poste, le stazioni adibite alla sosta per il cambio dei cavalli e il ristoro dei passeggeri, in tutto simili alle mansiones che punteggiavano le grandi arterie consolari romane. A giudicare dalle immagini, però, il professore e i suoi studenti sembrano scegliere l’itinerario della più bucolica via degli Dèi, chiamata così probabilmente in riferimento ai toponimi di

alcuni dei monti attraversati, che si inerpica tra i boschi appenninici ripercorrendo il tracciato di sentieri più antichi. Tuttavia, l’unica tappa nominata dai protagonisti è quella di Porretta Terme, località che si trova invece sul percorso che da Bologna arriva a Pistoia. Si direbbe quindi che quello che Avati intende mostrare sia piuttosto un paesaggio latente, che non chiede di essere riconosciuto se non come teatro di uno spaesamento e di un riappaesamento che solo il ricordo estremo del tempo perduto consente. Le strade del cinema (e nel cinema), almeno di quel cinema che sappia emanciparsi dall’immaginario patinato degli spot di promozione turistica, attraversano evidentemente luoghi e territori signi cativi, essenziali alle storie narrate, non necessariamente corrispondenti a quelli dichiarati dalla narrazione, ma che comunque rappresentano e muovono una precisa idea di paesaggio, naturale o mentale che sia, che non lasci indifferente lo spettatore: un’immagine simbolica e non casuale che riveli il senso profondo del legame tra l’uomo e il territorio in cui si muove o che attraversa temporaneamente, e che si costituisca come una chiave di lettura delle forme spaziali della socialità contemporanea, per riorientarsi tra le sue realtà visibili e nascoste. È quello che per esempio prova a fare, seguendo la migliore tradizione della commedia (all’)italiana, l’opera prima di Rocco Papaleo Basilicata coast to coast (2010). Lo spunto della pellicola è quello della “cronaca di un anacronismo”, cioè di una traversata a piedi del territorio lucano dalla costa tirrenica di Maratea al versante ionico di Scanzano, dove i quattro stralunati musicisti di “un gruppo piuttosto alternativo” (così si autodeniscono), capeggiati da Nicola, bistrattato e insoddisfatto insegnante di matematica in un liceo artistico – e per molti aspetti alter ego del regista attore e cosceneggiatore –, intendono esibirsi sul palco del Festival Scanzonissima di teatro canzone. Nicola convince i compagni a raggiungere la manifestazione prendendosi il tempo di un viaggio terapeutico di alcuni giorni, soli con un cavallo e un carretto per trasportare lo stretto necessario alla vita randagia e gli strumenti, allungando il percorso per toccare alcune tappe signi cative del paesaggio e dell’immaginario di una regione troppe volte dimenticata. Eppure, come i quattro protagonisti cantano ironicamente sui titoli di coda, “sì la Basilicata esiste [...]: una regione che, sotto l’aspetto della depressione e della disoccupazione giovanile, non ha niente da invidiare a Puglia, Sicilia, Campania e Calabria.

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1 e 2 - Fotogrammi del lm Il sorpasso (1962), diretto da Dino Risi

È solo che non c’è la ma a”. L’idea che sottende il senso dell’avventura picaresca che stanno per intraprendere, è concretamente riassunta dal gruppo – che per l’occasione ha scelto di chiamarsi Le pale eoliche, nome improbabile ma signi cativo per chiunque abbia con denza con queste emergenze che segnano il paesaggio lucano – nel breve comunicato stampa che prova a diffondere: “La vita è un viaggio troppo corto, se non lo si allunga. Con la superstrada, per andare da Maratea a Scanzano Jonico ci vuole un’ora e mezza, invece a piedi, percorrendo strade alternative, abbiamo calcolato di metterci circa dieci giorni. La prima considerazione è che abbiamo tempo da perdere o, meglio, da regalarci. Dunque, mo-

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tivo di questo viaggio è farci un regalo: il senso è vedere se siamo in grado di meritarcelo”.

Il loro sarà quindi un percorso lento che, assecondando “l’andatura del cavallo, che quello lo sa qual è il passo giusto”, li vedrà attraversare borghi interni come Trecchina (nota nella tradizione gastronomica per il suo pane tipico), Lauria (punto di snodo viario lungo l’antica strada romana Capua-Rhegium), Latronico (“paese gaudente, un po’ libertino”), Tramutola (“dove ci sono le più belle ragazze della regione, si dice”), Aliano (dove il regime fascista con nò lo scrittore e pittore Carlo Levi, “un uomo che ci ha spinto a indagare sulla nostra identità”), Viggiano (meta di pellegrinaggi in adorazione dell’effige della


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Madonna Nera, che “rappresenta un anello di congiunzione tra l’Oriente e l’Occidente”), Craco (“abbandonata in seguito a una frana, accentuata dalla costruzione di una nuova rete fognaria: non ha retto la modernità, a me piace pensare che l’ha ri utata”). Rinunciando a percorrere in automobile la statale 653, che raggiunge velocemente la costa ionica attraverso la valle del Sinni, i quattro si ritrovano in quella che in molti scambiano per un’impresa strampalata e che invece si rivelerà un’occasione di crescita e consapevolezza, di fuga da rifugi mentali ed esistenziali diventati troppo stretti. Il piccolo miracolo del lm di Papaleo e del suo eccentrico (nel senso letterale di fuori dal centro dell’attenzione stereotipata dei ussi turistici) itinerario tra passato e presente è insomma quello di accogliere con scanzonata naturalezza i sussurri della storie e delle identità che il paesaggio gli offre e ritrovare la vivace relazione tra aspirazioni personali e spirito di comunità. Certo, premiato da un insperato successo, il lm (che ha ispirato persino un remake sudcoreano) ha nito col diventare la traccia di innumerevoli percorsi turistici, che ne hanno banalizzato lo sguardo su un angolo di provincia meridionale rimasto n lì al riparo da rappresentazioni pittoresche e bidimensionali. Rimane comunque il racconto di una ricerca tra le memorie dei luoghi, che l’autore, pur abbandonandosi, nella lieve armonia delle sue immagini, a un’autoria-

lità bonaria e consolatoria, compie nella consapevolezza che il paesaggio è una struttura identitaria, dove si intrecciano forme materiali e simboliche, testimonianze e assenze, aspirazioni e scon tte, culture e sentimenti individuali e collettivi.

3 - Fotogramma del lm Easy rider (1969), diretto da Dennis Hopper.

Basilicata coast to coast è anche una libera rivisitazione di un genere intramontabile come il road movie, ricorrente soprattutto nel cinema hollywoodiano, che fa del viaggio il condensato mitico dell’avventura e dell’individualismo, il passaggio necessario perché si compia il destino dell’eroe. Un genere praticato comunque da ogni cinematogra a e che nel nostro Paese vede tra le principali opere di riferimento sicuramente Il sorpasso (1962), pellicola cult del periodo più fecondo del cinema nostrano in cui l’Italia si è rappresentata e si è giudicata, tra il riso e il pianto, con inarrivabile approfondimento delle psicologie e delle tipologie sociali e culturali. Scritto da Ettore Scola e Ruggero Maccari insieme al regista Dino Risi, il lm è un diario graffiante e inarrivabile di una lunga giornata (e mezza) di passioni e delusioni in cui Bruno e Roberto, i protagonisti, incontratisi casualmente nella Roma svuotata e meta sica del giorno di ferragosto, si lanciano in un’improvvisata ânerie automobilistica, lasciando la capitale al suo torpore festivo e percorrendo la via Aurelia no al mare della Toscana. I due, gli

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4 - Fotogramma del lm Human Flow (2017), diretto da Ai Weiwei.

diversi e complementari della stessa città, incarnano l’ambiguità del belpaese ebbro del proprio eccezionale miracolo economico: Bruno è il ritratto impietoso dell’italiano tracotante e senza inibizioni, che parla prima di pensare, coglie l’attimo, professa la loso a fatalista dell’immediatezza; Roberto è invece un timido e contratto studente universitario, che si arrampica a fatica sulle sue incertezze, impreparato al clima euforico che lo circonda, dove tutti pensano di avere il proprio futuro migliore a portata di mano. A bordo della strombazzante, “decappottabile e supercompressa” Lancia Aurelia B24 di Bruno, attraversano e si confrontano con un pezzo dell’Italia vacanziera e spensierata, che affolla spiagge e trattorie in nome di un benessere reale e simulato che sembra non poter sfuggire. Illuminato dal sole della torrida estate mediterranea e accompagnato dalle canzonette imbelli e svagate più in voga, il viaggio si dipana lungo la via Aurelia – la strada statale 1, che in buona parte ripercorre il tracciato dell’antica arteria consolare che collegava Roma ad Arles, in Gallia, seguendo la costa tirrenica – toccando alcune delle tappe tipiche dei romani in fuga verso il mito collettivo della spiaggia: la sosta per il rifornimento di carburante alla stazione di servizio appena fuori città, la visita agli zii in campagna, il pranzo in trattoria al porto vecchio di Civitavecchia, il tallonamento di due turiste straniere, l’approdo al calar del sole nella cittadina balneare di Castiglioncello, la parentesi ballerina al night club e in ne la notte sotto le stelle. Quando il giorno successivo i due protagonisti riprendono il loro viaggio, non per ritornare a Roma, come stabilito inizialmente, 94

ma per correre a rotta di collo alla volta di nuovi incontri e avventure, cui Roberto ha nalmente ansia di abbandonarsi, un triste destino si compie nello scontro violento della Lancia con un camion che sopraggiunge dalla direzione opposta. La vettura esce di strada e precipita lungo la scarpata no a schiantarsi sugli scogli. Bruno ha la prontezza di lanciarsi fuori dall’auto, mentre Roberto rimane intrappolato nella caduta fatale. Con la decappottabile e lo studente si frantumano sulla scogliera di Calafuria l’innocenza e i sogni di un Paese che si lasciava sbranare dalla modernità, senza resistenze e senza giudizio, abbandonandosi inebriato a uno sviluppo industriale ed economico senza progresso, che lasciava inalterati e anzi accentuava gli squilibri sociali. Anche per questo nale, che il produttore avrebbe voluto più conciliante, Il sorpasso rimane uno dei punti di massima espressione della commedia all’italiana, un road movie all’amatriciana girato con un budget limitato e nei luoghi reali, ribattezzato Easy life per il mercato internazionale dove riscosse un successo incredibile, no a ispirare un’altra celebre storia di solitudini erranti, il capolavoro hopperiano Easy rider (1969), pietra miliare della controcultura americana. Qui i due protagonisti sfrecciano a bordo dei loro chopper lungo le strade deserte e innite che solcano i grandi spazi americani, come due moderni cowboy in fuga dai luoghi dell’omologazione urbana, alla ricerca dell’imprevisto, della libertà, in un misto di desiderio anarchico e necessità di crescere, no al tragico epilogo in cui niscono uccisi da un uomo che spara su di loro senza ragione durante un sorpasso. La ne pessimistica


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5 - Fotogramma del lm Il cammino della speranza (1950), diretto da Pietro Germi.

del lm sancisce allora il risveglio dal sogno della summer of love della nuova generazione americana in cerca di pace, amore e libertà in alternativa ai falsi miti della società del consumo. Il viaggio come ricerca di un senso nuovo e di nuovi signi cati, di una disponibilità ad aprire il cuore all’intima vicinanza tra le nostre esistenze ferite e la lingua ancestrale della natura per ascoltare la sua preghiera e al tempo stesso riconoscere la bestemmia delle ferite che una modernità distratta vi ha inferto, si chiude nel sangue. Quali storie raccontano dunque le strade? Quali verità rivelano questi percorsi secolari nati per connettere luoghi e comunità, per facilitare movimenti di persone e culture, per suggerire a ogni passo nuove conoscenze, nuove aperture, nuovi viaggi nel viaggio? Certo, come afferma William Least Heat-Moon in Strade Blu (1982), uno dei più noti libri di viaggio sulle backroads d’America (quelle un tempo segnate appunto in blu sulle mappe geogra che), “siamo persone irrequiete e il modo per risolvere le cose è iniziare a muoversi”, per perdersi e poi – nel uire di luoghi, di persone e di storie dimenticate – sperabilmente ritrovarsi. Eppure, in questo nostro confuso presente, troppi muri si oppongono alla ricerca di nuovi orizzonti che è in ogni cammino, come dimostra il documentario Human Flow, diretto nel 2017 dall’artista e attivista cinese Ai Weiwei, dedicato al terribile scenario contemporaneo del biblico usso umano in fuga da carestie, persecuzioni, con itti, disastri naturali che si muove dai territori più poveri e instabili del pianeta in cerca di ospitalità nei Paesi occidentali. Milioni di esistenze precarie in cammino lungo

rotte migratorie che quasi mai si concludono con l’approdo sperato. Per mezzo di ampie riprese dall’alto, Ai Weiwei ci mostra in tutta la loro immensità interminabili colonne di esuli in marcia su strade che ancora conservano la memoria di migrazioni passate, ma che oggi non giungono più a luoghi dove l’estraneità si trasforma in prossimità e si concretizza quella naturale ospitalità che il poeta Edmond Jabès de nisce “incrocio di cammini”, perché barriere e con ni presidiati militarmente negano ogni asilo. Di fronte al disastro umanitario documentato da Human Flow, vengono alla mente le sequenze nali del lm Il cammino della speranza, diretto nel 1950 da Pietro Germi, dove un gruppo di minatori disoccupati, estenuato da un interminabile viaggio dalle estreme terre siciliane verso la Francia in cerca di una nuova possibilità di lavoro, viene individuato dai gendarmi poco dopo aver valicato la frontiera clandestinamente. Basta però un sincero sguardo reciproco, senza parole, a convincere i militari a lasciarli andare, esprimendo così: “un bisogno di fraternità che sovente gli uomini dimenticano ma sempre fermenta nei loro cuori, perché – come recita lucidamente la voce fuori campo dello stesso regista – i con ni sono tracciati sulle carte, ma sulla terra come Dio la fece non ci sono con ni”. © Riproduzione riservata

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Infrastrutture di trasporto e territorio: il quarto ciclo di incontri presso l’Ateneo Veneto di Giovanni Giacomello

“Infrastrutture di trasporto e territorio” è il titolo della quarta edizione del ciclo di incontri incentrato sul tema dei trasporti che si è tenuta nel 2023 presso la prestigiosa sede dell’Ateneo Veneto in Campo San Fantin a Venezia. Questa edizione è stata curata da Laura Facchinelli (Direttrice della rivista Trasporti & Cultura), Giovanni Giacomello e Michelangelo Savino (entrambi ICEA, Università di Padova) ed è stato patrocinato da: rivista Trasporti & Cultura, Collegio Ingegneri Ferroviari Italiani (CIFI), Associazione Italiana per l’Ingegneria del Traffico e dei trasporti (AIIT), Dipartimento di Ingegneria Civile, Edile e Ambientale – ICEA dell’Università di Padova, Ordine degli Architetti, Piani catori, Paesaggisti e Conservatori di Venezia, Ordine degli Ingegneri della città Metropolitana di Venezia e Centro Regionale di Studi Urbanistici del Veneto (CeRSU). Il ciclo di incontri, arrivato alla quarta edizione, ha avuto come lo conduttore l’attualità e l’evoluzione tecnologica dei trasporti e le relazioni tra i trasporti e il territorio, la società e la cultura. In particolare, nel quarto ciclo si è discusso di: stazione ferroviaria come nodo cruciale per la città, sostenibilità e sicurezza delle infrastrutture stradali, potenzialità e progetti dell’aeroporto di Venezia, e conseguenze del commercio online sul territorio e sull’ambiente.

La stazione ferroviaria come nodo di interscambio e polo di sviluppo urbano Venerdì 17 febbraio 2023 si è tenuto il primo incontro del quarto ciclo. All’inizio dell’evento Laura Facchinelli ha presentato brevemente il ciclo di incontri, e Giovanni Giacomello, moderatore del primo evento, ha effettuato un’introduzione sull’argomento: il ruolo della stazione ferroviaria come fulcro di un processo di rigenerazione urbana e di miglioramento della qualità com-

Infrastrutture di trasporto e territorio: the fourth cycle of seminars at Ateneo Veneto by Giovanni Giacomello

“Infrastrutture di trasporto e territorio” is the fourth edition of a round of seminars focused on the transport eld. The round of seminars consists in four meetings that was held in 2023 at the Ateneo Veneto in Venice. Laura Facchinelli (Director of Trasporti & Cultura journal), Giovanni Giacomello (Dept. ICEA, University of Padua) and Michelangelo Savino (Dept. ICEA, University of Padua) composed the scienti c committee of the seminars. This round of seminars had a common theme on the latest news and technological evolution of transport and the relationships between transport and territory, society and culture. In particular the seminars were focused on: railway station as a crucial node for the city, sustainability and safety of road infrastructures, projects for Venice airport and its potentiality, and consequences of online commerce on territory, urban planning and environment. The semianars were supported by: Trasporti & Cultura journal, Collegio Ingegneri Ferroviari Italiani (CIFI), Associazione Italiana per l’Ingegneria del Traffico e dei trasporti (AIIT), Department of Civil, Environmental and Architectural Engineering - ICEA of the University of Padua, Ordine degli Architetti, Piani catori, Paesaggisti e Conservatori of Venice, Ordine Ingegneri città Metropolitana of Venice and Centro Regionale di Studi Urbanistici del Veneto (CeRSU). Nella pagina a anco: i relatori del primo incontro all’Ateneo Veneto.

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plessiva della città e la trasformazione della stazione ferroviaria in un hub di mobilità intermodale. I relatori sono stati Marianna Beltrani e Simona Lega (entrambe FS Sistemi Urbani gruppo Ferrovie dello Stato), e Pasqualino Boschetto (ICEA, Università di Padova). Con un intervento dal titolo “Stazioni e città. Nei processi di rigenerazione urbana e territoriale” e mediante esempi di varie città del territorio veneto, Boschetto ha illustrato i concetti tecnici di rete infrastrutturale, di riordino della città e di riquali cazione urbana. Ha descritto inoltre il concetto della porta metropolitana di interscambio, ovvero l’individuazione delle porte di una città come centri di interscambio e di sviluppo. Con il loro intervento intitolato “Il ruolo del Polo Urbano del Gruppo FS ed esempi di rigenerazione urbana”, Beltrani e Lega hanno parlato della rigenerazione urbana degli scali ferroviari dismessi dalle Ferrovie dello Stato e della necessità della ricucitura di aree del tessuto urbano effettivamente slegate e rese disomogenee per la presenza della ferrovia. Illustrando alcuni casi di studio a Milano, Trento e Mestre (VE), sono state indicati i metodi di rigenerazione e di costituzione degli scali, lo stato di progetti in fase di realizzazione e i bene ci per la comunità (maggiore vivibilità della zona e miglioramento della sostenibilità della città). L’incontro ha permesso di apprendere l’importanza per le politiche urbane e infrastrutturali della riorganizzazione delle stazioni e della riconversione degli scali merci. Infatti, i processi di trasformazione della città contemporanea trovano concreta applicazione nella rigenerazione delle stazioni ferroviarie. La s da per le città italiane è comprendere quali siano le potenzialità e il ruolo della stazione ferroviaria in tali contesti, in funzione di una nuova e diversa cultura del viaggiare.

Piani cazione e gestione sostenibile delle infrastrutture di trasporto nel territorio Il secondo incontro del ciclo si è tenuto giovedì 9 marzo 2023. Il coordinatore del convegno, Michelangelo Savino, ha tenuto una breve introduzione sull’argomento, sottolineando l’importanza della piani cazione e della gestione sostenibile delle strade e delle autostrade nel territorio, con particolare attenzione alla strada come supporto

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alle trasformazioni del paesaggio. Il primo intervento, dal titolo “L’ampliamento dell’autostrada A4 con la terza corsia”, è stato svolto da Paolo Perco (Autovie Venete, oggi Autostrade Alto Adriatico), che ha parlato sia delle vicissitudini progettuali, costruttive e autorizzative per l’ampliamento dell’Autostrada A4 tra Venezia e Trieste, sia della sensibilità del progetto verso il paesaggio e la volontà di ricucire la continuità dello stesso a ridosso dell’autostrada. Stefano Zampino, intervenuto anche in qualità di Dirigente dell’Area Normativa e Standard Tecnici ANSFISA, ha trattato della “Piani cazione per le infrastrutture stradali: dagli obiettivi ai processi”. Durante la sua relazione ha sottolineato come l’utilizzo di un corretto processo di piani cazione e di programmazione delle infrastrutture stradali possa essere oggi maggiormente importante per una rete stradale che ha la necessità di essere adeguata agli standard più recenti piuttosto che della progettazione di nuove infrastrutture. Nella valutazione della sicurezza delle infrastrutture stradali, Stefano Zampino si è soffermato sui documenti necessari in fase di progettazione, sia per nuove infrastrutture sia per l’adeguamento di quelle esistenti, e su quali standard di sicurezza promossi da ANSFISA siano da implementare per un corretto processo di piani cazione di un’opera viaria. In ne, Luigi Siviero (ICEA, Università di Padova) ha illustrato nel suo intervento dal titolo “GIG - Gray Into Green. La strada come supporto per le trasformazioni del paesaggio” i risultati di una ricerca scienti ca svolta presso l’Università di Padova sul caso di studio dell’Autostrada A22 “del Brennero”. Questa autostrada è stata studiata perché risulta essere inserita in un particolare contesto paesaggistico, che spazia dalla pianura Padana no alle strette valli dell’Adige e dell’Isarco. Luigi Siviero ha evidenziato l’attenta piani cazione e gestione del paesaggio e del territorio lungo questa autostrada di concerto con le comunità locali, rispetto ad altre realtà autostradali. Questo incontro ha dato la possibilità di riettere sulla necessità della piani cazione e dell’attenta gestione del territorio e del costruito: solamente in un tale contesto si riesce a creare un opportuno supporto alla trasformazione sostenibile del territorio. Durante il convegno diverse criticità sono emerse, indicando che la costruzione delle infrastrutture nel territorio manca di un opportuno riguardo verso le diversità dei luoghi attraversati.


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Aeroporto di Venezia, la ripresa post pandemia: traffico, potenzialità di sviluppo, progetti Il terzo incontro si è tenuto giovedì 6 aprile 2023. L’incontro è stato un momento di approfondimento e di formazione sul tema delle infrastrutture aeroportuali, con riguardo soprattutto al loro futuro sviluppo nel territorio veneto, ed è stato aperto da Marco Pasetto (ICEA Università di Padova) che ha anche moderato l’intero evento. I relatori sono stati Corrado Fischer (SAVE S.p.A.) e Anna Buzzacchi, (Consiglio Nazionale Architetti). Pasetto ha introdotto l’argomento dal punto di vista tecnico, parlando delle problematiche del trasporto aereo a seguito dell’emergenza sanitaria per la pandemia da SARS-CoV-2, del sistema aeroportuale italiano e veneto e delle prospettive future (studio di nuovi sistemi di trasporto e di sistemi di alimentazione alternativi dei veicoli). Corrado Fischer, con la presentazione dal titolo “Aeroporto Marco Polo: crescita e sostenibilità”, ha inquadrato l’aeroporto di Venezia come terzo scalo intercontinentale dopo quelli di Roma e Milano, illustrando che il traffico nell’aeroporto di Venezia – che fa parte di un sistema comprendente anche gli scali di Treviso, Verona e Brescia – conta oggi 9.3 milioni di passeggeri all’anno. Fischer ha descritto le idee che SAVE sta sviluppando per la crescita dell’aeroporto e, a partire dagli obiettivi nel medio-lungo periodo, la piani cazione e la gestione delle infrastrutture con riguardo alla sostenibilità ambientale e alla neutralità climatica per il futuro dell’aeroporto di Venezia. Con la relazione dal titolo “Infrastrutture e forma del territorio”, Buzzacchi ha parlato invece del signi cato degli aeroporti e della loro sostenibilità sociale, economica ed ambientale. Gli aeroporti sono spazi di attesa, come una città all’interno di un’altra città, e dovrebbero avere un ruolo anche culturale e commerciale ed entrare in relazione col territorio circostante. Tuttavia, numerosi aeroporti, in particolare all’estero, sono progettati come grandi opere di architettura, nei quali si è puntato su effetti spettacolari ma che destano perplessità. A partire dal concetto che un’infrastruttura modi ca sempre il paesaggio, Buzzacchi ha sottolineato l’importanza di una progettazione partecipata e integrata all’interno del territorio e della società. L’incontro ha permesso di comprendere le criticità del sistema aeroportuale tra il periodo pre-pandemico e la situazione attuale. È

stato inoltre approfondito il tema dei traffici nello scalo veneziano e in quelli vicini (Treviso e Verona) e quello dello sviluppo futuro di tali infrastrutture. Le ri essioni dei relatori hanno in ne indicato le prospettive e le potenzialità future del trasporto aereo, dimostrando la maggiore attenzione alla gestione sostenibile nel territorio e alla trasformazione del paesaggio.

1, 2 e 3 - Momenti del secondo incontro.

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4 e 5 - Relatori del terzo incontro.

6 e 7 - Nella pagina a anco: relatori del quarto incontro.

A pag. 102, in alto: il rettilineo della Via Appia visto dal Tempio di Giove Anxur a Terracina (foto C. Pallini, settembre 2023). In basso: la Valle del Vardar con la strada e la ferrovia (foto di C. Pallini, marzo 2002).

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Le conseguenze logistiche, territoriali e ambientali del commercio online L’ultimo incontro si è svolto giovedì 20 aprile 2023 ed è stato coordinato da Michelangelo Savino, che ha anche introdotto il tema: la repentina crescita del fenomeno degli acquisti online sotto l’impulso delle limitazioni imposte dalla situazione sanitaria emergenziale, ha spinto ad un aumento della richiesta di nuovi insediamenti per la logistica e per lo smistamento delle vendite; ciò ha portato ad una congestione delle strade, ad un aumento dell’inquinamento e allo sfruttamento in-

tensivo del territorio senza una sua corretta piani cazione/gestione. L’evento è stato teatro della presentazione del numero 62-63 della rivista Trasporti & Cultura intitolato Logistica e paesaggi del commercio online. Hanno partecipato a questa presentazione Laura Facchinelli, Luca Tamini e Marco Falsetti (questi ultimi sono stati i curatori del numero). Luca Tamini (Politecnico di Milano), nella sua relazione intitolata “Insediamenti logistici, e-commerce e governo del territorio: indirizzi per una valutazione integrata”, ha sottolineato l’importanza di una valutazione integrata delle esternalità generate dai differenti contenitori della catena logistica. La politica e l’urbanistica devono spostare l’attenzione verso la de nizione di nuove pratiche di regolazione dei servizi logistici, mediante valutazioni degli impatti sulle reti viarie, sul mercato immobiliare residenziale e commerciale, sulla trasformazione delle vocazioni ambientali e funzionali dei territori extraurbani, e sulle dinamiche del mercato del lavoro. Con la presentazione “Meno spazio conviene: progetti di magazzini multipiano e torri della logistica”, Marco Falsetti (Università di Roma La Sapienza) ha descritto alcuni esempi avveniristici di magazzini multipiano e torri logistiche che, introdotti dapprima in alcune metropoli dell’estremo oriente, si stanno diffondendo anche negli USA, in alcune città europee e in Italia.


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Questi complessi hanno il vantaggio di porre il venditore vicino all’utente nale, ma soprattutto di occupare poca super cie, in quanto si estendono in altezza. I relatori hanno indicato spunti di ri essione molto interessanti sul fenomeno degli acquisti online, di recente esploso in termini di utenti che utilizzano il servizio: il trattamento dei lavoratori, l’inserimento dei magazzini e centri smistamento in estese aree all’esterno delle città, l’architettura per la logistica, la congestione delle strade, e l’inquinamento delle città (si ha una forte concentrazione dei veicoli addetti alla distribuzione). L’incontro ha permesso di evidenziare il forte risvolto sociale, economico ed ambientale di tali problematiche. Di qui la necessità per la politica e i governi di adottare una strategia di piani cazione e gestione del territorio, dell’urbanistica e delle infrastrutture viarie. © Riproduzione riservata

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Autori Cristina Pallini - Professore Associato, Dipartimento di Architettura Ingegneria delle Costruzioni e Ambiente Costruito, Politecnico di Milano Angela Bruni - Facoltà di Architettura, Università di Roma La Sapienza Valerio Tolve - Ricercatore, Dipartimento di Architettura e Studi Urbani, Politecnico di Milano Alessandro Isastia - Architetto, PhD, docente a contratto presso la Scuola di Architettura Urbanistica e Ingegneria delle Costruzioni, Politecnico di Milano Mevlut Cihan Alkan - Architetto Davide Libretti - Architetto junior, ricercatore indipendente Houssam Mahi - Architetto, dottorando presso il Dipartimento di Architettura Ingegneria delle Costruzioni e Ambiente Costruito, Politecnico di Milano Francesco Martinazzo - Architetto, dottorando presso il Dipartimento di Architettura Ingegneria delle Costruzioni e Ambiente Costruito, Architetto, Politecnico di Milano Alessandro Raffa - Ricercatore, Dipartimento di Architettura e Studi Urbani, Politecnico di Milano Eshraq Marey - Architetto Fabrizio Violante – Architetto e Critico cinematogra co Giovanni Giacomello - Ingegnere PhD, Ricercatore di Strade Ferrovie e Aeroporti, DICEA, Università di Padova

Questo numero è stato curato da Cristina Pallini, Professore Associato di Composizione Architettonica, Dipartimento di Architettura, Ingegneria delle Costruzioni e Ambiente Costruito Politecnico di Milano

Copyright Questa rivista è open access, in quanto si ritiene importante la libera diffusione delle conoscenze scienti che e la circolazione di idee ed esperienze. Gli autori sono responsabili dei contenuti dei loro elaborati ed attribuiscono, a titolo gratuito, alla rivista Trasporti & Cultura il diritto di pubblicarli e distribuirli. Non è consentita l’utilizzazione degli elaborati da parte di terzi, per ni commerciali o comunque non autorizzati: qualsiasi riutilizzo, modi ca o copia anche parziale dei contenuti senza preavviso è considerata violazione di copyright e perseguibile secondo i termini di legge. Sono consentite le citazioni, purché siano accompagnate dalle corrette indicazioni della fonte e della paternità originale del documento e riportino fedelmente le opinioni espresse dall’autore nel testo originario. Tutto il materiale iconogra co presente su Trasporti & Cultura ha il solo scopo di valorizzare, sul piano didattico-scienti co i contributi pubblicati. Il suddetto materiale proviene da diverse fonti, che vengono espressamente citate. Nel caso di violazione del copyright o ove i soggetti e gli autori avessero qualcosa in contrario alla pubblicazione, si prega di darne immediata segnalazione alla redazione della rivista - scrivendo all’indirizzo info@trasportiecultura.net – e questa provvederà prontamente alla rimozione del materiale stesso, previa valutazione della richiesta.

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