Archeo n. 471, Maggio 2024

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DI ALLE V O

ORIGINI DI VENEZIA

SCIAMANESIMO

MUSEO DI AOSTA

GUSTAVE FLAUBERT

SPECIALE VULCI METROPOLI D’ETRURIA

AOSTA

IL NUOVO MUSEO ARCHEOLOGICO

o. i t

VULCI

METROPOLI D’ETRURIA

UNA GRANDE MOSTRA A MILANO

TRENTO

IL POTERE DEGLI SCIAMANI

RIVOLUZIONE A CARTAGINE

VENEZIA

INCHIESTA SULLE ORIGINI

www.archeo.it

IN EDICOLA IL 10 MAGGIO 2024

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EN RIGI EZ NI ww w. IA a rc

2024

Mens. Anno XXXIX n. 471 maggio 2024 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

ARCHEO 471 MAGGIO

LETTERATURA

€ 6,50



EDITORIALE

ARCHEODIPLOMAZIA Consumatasi sullo sfondo di scenari geopolitici tortuosi e tutt’altro che prevedibili, una curiosa iniziativa diplomatica ha attirato la divertita attenzione della stampa internazionale: lo scorso 22 aprile, in occasione dell’arrivo di Frank Walter Steinmeier a Istanbul per celebrare il centenario dell’istituzione delle relazioni diplomatiche tra Turchia e Germania, il presidente tedesco si è presentato con un enorme döner kebab (letteralmente, la «carne grigliata che gira», vivanda tipica le cui origini risalgono all’impero ottomano del XVI secolo, oggi diffusissima anche in Germania). Il messaggio sotteso a quel controverso dono di 60 kg – allusivo all’avvenuta integrazione sociogastro-economica della numerosa comunità turca in Germania (con circa 2,9 milioni di unità, la popolazione originaria dal Paese vicino-orientale è ormai parte integrante del composito quadro demografico tedesco) – non è stato, però, accolto con segni di particolare entusiasmo. Comprensibilmente (immaginiamo un capo di Stato in visita ufficiale in Italia con, al seguito, una gigantesca… pizza). Una scelta, quella dello staff diplomatico tedesco, su cui forse ci si continuerà a interrogare, anche se sarebbe davvero meglio dimenticarsene. Fortunatamente, anche se per pura coincidenza, pochi giorni dopo, il 27 aprile, si è svolto a Roma un incontro italo-turco-tedesco, questa volta di irreprensibile livello scientifico, culturale e… diplomatico. Lo abbiamo annunciato in calce all’articolo sulle ultime scoperte nel sito di Hattuša, pubblicato nello scorso numero. Accolti dal padrone di casa, il direttore dell’Ufficio Cultura dell’ambasciata turca a Roma, Riza Haluk Söner, gli archeologi Adriano Rossi (Ismeo), Stefano di Martino (Università di Torino), Andreas Schachner (Istituto Archeologico Germanico di Istanbul), Metin Alparslan (Università di Istanbul), Massimiliano Marazzi (Università Suor Orsola Benincasa di Napoli)

e l’architetto Leopoldo Repola (Università Federico II di Napoli) hanno illustrato, nella sede della rappresentanza culturale turca gremita di pubblico, le ultime scoperte nella capitale ittita. Un racconto avvincente il loro, narrato a piú voci e piú lingue, a riprova della profonda capacità dialogante – troppo spesso sottovalutata – insita nella nostra disciplina. Capacità a cui, naturalmente, nulla toglierebbe, anzi, il consumo di un piatto di döner kebab. Andreas M. Steiner

Immagini dell’incontro italo-turco-tedesco nel quale sono state presentate le ultime scoperte nel sito di Hattuša. Nella foto in alto, da sinistra: Stefano de Martino, Metin Alparslan, Riza Haluk Söner, Andreas Schachner, Massimiliano Marazzi e Leopoldo Repola.


SOMMARIO EDITORIALE

Archeodiplomazia 3 di Andreas M. Steiner

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di Alessandra Randazzo

10

di Giancarlo Sani e Alberto Marretta

di Mara Sternini

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DI ALLE V O

ww

2024

€ 6,50

amministrazione@timelinepublishing.it

Mens. Anno XXXIX n. 471 maggio 2024 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

SPECIALE VULCI METROPOLI D’ETRURIA

Amministrazione

GUSTAVE FLAUBERT

Impaginazione Davide Tesei

Comitato Scientifico Internazionale

MUSEO DI AOSTA

Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it

In copertina statua in pietra raffigurante una sfinge alata, esposta nella mostra «Vulci. Produrre per gli uomini. Produrre per gli dèi», allestita presso la Fondazione Rovati di Milano.

Federico Curti

UNA GRANDE MOSTRA A MILANO

SCIAMANESIMO

Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it

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Presidente

METROPOLI D’ETRURIA

ORIGINI DI VENEZIA

Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it

54

incontro con Stefano Gasparri e Sauro Gelichi, a cura di Andreas M. Steiner

ARCHEO 471 MAGGIO

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 – 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it

30

«Quella città presso Rialto» 36

VULCI Anno XL, n. 471 - maggio 2024 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

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STORIA

www.archeo.it

16

di Andreas M. Steiner

A TUTTO CAMPO Il tempo scorre come l’oro

MOSTRE Mondi a confronto ARCHEOFILATELIA Salammbô, la figlia che non c’era di Luciano Calenda

14

di Antonella Docci

MOSTRE Il ritorno degli dèi

22

di Stefania De Francesco e Serena Solano

IN EDICOLA IL 10 MAGGIO 2024

FRONTE DEL PORTO Immaginare l’antico

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MOSTRE La città dei morti racconta la città dei vivi

o. it

ARCHEOLOGIA RUPESTRE Rose di pietra

Il potere dell’estasi 54

di Stefano Mammini

di Stefano Mammini

ALL’OMBRA DEL VULCANO La carica dei 500

di Stefano Mammini

MOSTRE Antico nell’antico

EN RIGIN EZ I IA

SCOPERTE Annibale non fu il primo

di Fabio Pagano

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NOTIZIARIO

MOSTRE

w.a rc

Attualità

MOSTRE Agli albori della comunicazione 20

TRENTO

IL POTERE DEGLI SCIAMANI

LETTERATURA

RIVOLUZIONE A CARTAGINE AOSTA

IL NUOVO MUSEO ARCHEOLOGICO

arc471_Cop.indd 1

VENEZIA

Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Venceslas Kruta, Henry de Lumley, Javier Nieto

INCHIESTA SULLE ORIGINI

29/04/24 16:42

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Carla Alfano, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Giulio Paolucci, Sergio Pernigotti, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Jacopo Tabolli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore ordinario di archeologia medievale all’Università di Bologna. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Simona Carosi è funzionaria archeologa della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la provincia di Viterbo e per l’Etruria Meridionale. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Alessandro Conti è ricercatore in etruscologia e antichità italiche presso Sapienza Università di Roma. Stefania De Francesco è funzionaria archeologa della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le Province di Bergamo e Brescia. Sandro Debono è consulente museale. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Antonella Docci è funzionario restauratore Parco archeologico di Ostia antica. Luciano Frazzoni è archeologo. Stefano Gasparri è professore emerito di storia medievale all’Università Ca’ Foscari, Venezia. Sauro Gelichi è professore ordinario di archeologia cristiana e medievale all’Università Ca’ Foscari, Venezia. Alberto Marretta è membro del Centro Ricerche Antropologiche Alpi Centrali (CRAAC). Fabio Pagano è direttore del Parco archeologico dei Campi Flegrei. Alessandra Randazzo è giornalista. Maria Cristina Ronc è archeologa, responsabile scientifica del MAR-Museo Archeologico Regionale di Aosta. Giancarlo Sani è fondatore del Centro Arte Rupestre Toscano. Giuseppe Sassatelli è presidente dell’Istituto Nazionale di Studi Etruschi e Italici. Serena Solano è funzionaria archeologa della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio


68 MUSEI

Di tutti, per tutti

68

di Maria Cristina Ronc e Stefano Mammini

SPECIALE

Vulci. Uomini e dèi

ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/14

Un quarantotto a Cartagine di Giuseppe M. Della Fina

86

78

Rubriche SCAVARE IL MEDIOEVO Il potere abita qui

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA 104

di Andrea Augenti

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86

testi di Giuseppe Sassatelli, Carlo Casi, Simona Carosi e Alessandro Conti

Gioia, splendore e prosperità

110

di Francesca Ceci

TERRA, ACQUA, FUOCO, VENTO

Racconti di bottega 106

LIBRI

112

di Luciano Frazzoni

per le Province di Bergamo e Brescia. Mara Sternini è professoressa associata di archeologia classica all’Università degli Studi di Siena.

Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534

Illustrazioni e immagini: Fondazione Luigi Rovati: pp. 89, 95, 98 (basso), 100; Daniele Portanome: copertina e pp. 86/87, 88/89, 90-93. 98 (alto), 99, 101, 103 – Cortesia Ambasciata di Türkiye-Ufficio Cultura e Informazioni: p. 3 – Tim Schüler TLDA: p. 6 (sinistra) – Marcel Weiss: p. 6 (destra) – Geoff M. Smith: p. 7 (alto, a sinistra e a destra) – Josephine Schubert, Museum Burg Ranis: p. 7 (basso) – Parco Archeologico di Pompei: pp. 8-9 – Cortesia degli autori: pp. 10-13, 40, 41, 42; Sandra Primon, Paolo Mozzi: pp. 40/41; Fondazione Ca’ Foscari/Francesca Zamborlini: pp. 44/45, 48/49; Università Ca’ Foscari, Venezia: pp. 46, 47; Paolo Nanni: p. 48; Martina Secci: p. 51 (alto, a sinistra); Yuri Marano: p. 51 (alto, a destra, e centro) – Parco Archeologico di Ostia antica: Archivio Fotografico: p. 14; Antonella Docci: p. 15 (alto); Giulio Sanguinetti: p. 15 (basso, a sinistra); Sergio Salvati: p. 15 (basso, a destra) – Museo Archeologico Nazionale di Napoli, Ufficio Comunicazione: pp. 16-17 – Fondazione Brescia Musei: Petrò Gilberti: pp. 18-19 – Parco archeologico dei Campi Flegrei: p. 20 – Cortesia Ufficio stampa: p. 21 – Ministero della Cultura-Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Bergamo e Brescia: pp. 22-23 – Musée d’Archéologie nationale, Saint-Germain-en-Laye, Ufficio stampa: pp. 24-25 – Doc. red.: pp. 36/37, 43, 50, 72 (basso), 81, 82-85, 87, 94, 96-97, 102, 105 (alto), 106 (alto), 108, 110-111; Giorgio Albertini: p. 104 – Stefano Mammini: pp. 54/55, 61 (basso) – Ufficio stampa mostra «Sciamani»: pp. 56-59, 60, 61 (alto), 62-65 – MAR-Museo Archeologico Regionale, Aosta: pp. 68-71, 72 (alto), 73, 74-77 – Mondadori Portfolio: Erich Lessing/K&K Archive: p. 78; Album: p. 79; Roger-Viollet: pp. 80/81 – Shutterstock: p. 105 (basso) – Museum of Fine Arts, Boston: pp. 106 (basso), 107 (basso) – Staatliche Museen, Berlino: p. 107 (alto) – Cippigraphix: cartine alle pp. 38, 39.

Distribuzione in Italia Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia srl Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI)

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Il Servizio Arretrati è a cura di: Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Srl - 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito: https://arretrati. pressdi.it

L’indice di «Archeo» 1985-2023 è disponibile sul sito https://ulissenet.comperio.it/ Registrandosi sulla home page si ottengono le credenziali per la consultazione di prova


n otiz iari o SCOPERTE Germania

ANNIBALE NON FU IL PRIMO

N

el 218 a.C., la città spagnola di Sagunto, alleata dei Romani, fu presa da Annibale: una mossa alla quale l’Urbe non poteva restare indifferente e che, di fatto, segnò l’inizio della seconda guerra punica. Il condottiero cartaginese realizzò allora una delle imprese che piú impressionarono (e spaventarono) i contemporanei e

In alto: la grotta di Ilsenhöhle, situata sotto il castello di Ranis, nell’omonima città della Turingia (Germania). A destra: un’immagine degli scavi, su livelli situati a 8 m di profondità rispetto all’attuale piano di campagna.

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A destra: la testa della statuetta raffigurante il dio Mercurio rinvenuta a Smallhythe, nel Kent. In basso, a sinistra: un vaso d’epoca romana rinvenuto integro nel corso degli scavi. In basso, a destra: frammento di tegola recante il bollo della flotta imperiale (CL[assis] B[ritannica]).


che, nel tempo, ha assunto un’aura quasi leggendaria: alla guida del suo esercito, del quale facevano parte anche gli elefanti, attraversò le Alpi, forse al Monginevro o attraverso il Piccolo San Bernardo, aprendosi cosí la via verso la Pianura Padana. Il conflitto si chiuse dopo oltre quindici anni, nel 202 a.C., con la vittoria di Roma, ma la sortita «alpina» del Barcide rimase nella memoria di tutti. Tuttavia, senza voler sminuire le difficoltà che l’esercito cartaginese

In alto: resti ossei di cervo e di lupo, due delle specie sfruttate dai cacciatori della grotta di Ilsenhöhle.

dovette superare, itinerari d’alta quota come quello seguito da Annibale e dalle sue truppe venivano percorsi dalle comunità umane già da millenni: una conferma in tal senso è giunta dalle ricerche sui materiali rinvenuti nella grotta di Ilsenhöle, un giacimento preistorico localizzato sotto il castello di Ranis, nell’omonima città della Turingia (Germania centrale). Gli scavi hanno restituito resti fossili di Homo sapiens databili intorno ai 45 000 anni da oggi, associati a strumenti in pietra, fra i quali sono compresi esemplari di punte bifacciali tipiche del complesso culturale noto come LRJ (Lincombian-RanisianJerzmanowician). Quest’ultimo è collocato dagli studiosi tra il Paleolitico Medio – in associazione con Neandertal – e il Paleolitico Superiore, associato all’uomo

Qui accanto: un momento delle analisi sui resti ossei, che hanno provato la lavorazione delle carcasse degli animali. In basso: strumenti bifacciali in selce provenienti dagli scavi: a sinistra, una lama, e, a destra, una punta foliata.

anatomicamente moderno. I materiali di Ilsenhöle costituirebbero dunque la conferma della compresenza delle due specie nella regione europea, come già ampiamente provato dalle ricerche degli ultimi anni. Ma, soprattutto, sarebbero la prova della diffusione di Homo sapiens nell’Europa centro-settentrionale prima che i «cugini» neandertaliani si estinguessero. Una diffusione che, come nel caso di Ranis, dovette dunque senza dubbio comportare a piú riprese e in piú punti il valico della catena alpina. Del resto, la presenza dei reperti al suo interno ha anche dimostrato come gli individui che frequentarono la grotta intorno ai 45 000 anni fa, in una fase climatica assai fredda, avessero sviluppato la capacità di adattarsi ad ambienti particolarmente rigidi. Stefano Mammini

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ALL’OMBRA DEL VULCANO di Alessandra Randazzo

LA CARICA DEI 500 HA RIAPERTO I BATTENTI IL MUSEO ARCHEOLOGICO DI STABIA «LIBERO D’ORSI». TOTALMENTE RINNOVATO E ARRICCHITO DA MOLTI REPERTI INEDITI, IL PERCORSO ESPOSITIVO RACCONTA LA STORIA DI STABIAE, PERLA DEL GOLFO DI NAPOLI, E DEL SUO TERRITORIO

I

l Museo Archeologico di Stabia «Libero D’Orsi» rinnova il suo allestimento e riapre al pubblico le sue nuove sale, proponendo un percorso che include anche la visita dei depositi. Tutti i 507 reperti ora esposti provengono dal territorio stabiano ed è possibile ammirare dipinti murali, arredi marmorei, suppellettili in ceramica e bronzo. Il museo è ospitato dal 2020 nella splendida Reggia di Quisisana, un edificio con piú di sette secoli di storia, sito nel territorio della moderna Castellammare di Stabia. Un edificio la cui vocazione espositiva fu ulteriormente rafforzata, in epoca borbonica,

quando la residenza venne utilizzata anche come spazio nel quale mostrare i reperti provenienti dal territorio stabiano oltre a testimonianze della vita quotidiana recuperate nelle ville (d’otium e rustiche) affacciate sul Golfo di Napoli. Oggi il percorso si amplia con nuovi reperti restaurati e, dopo oltre 250 anni, anche con materiali stabiani finora custoditi nel Museo Archeologico di Napoli con il quale è stato firmato un protocollo di valorizzazione. Sei dispositivi multimediali distribuiti lungo il percorso espositivo raccontano le forti relazioni tra la città antica e quella

Sulle due pagine: immagini di varie fasi delle operazioni di documentazione e ricomposizione dei frammenti di affreschi e di ceramica condotte nell’ambito del progetto RePAIR.

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contemporanea. Vengono narrate le vicende di un sito archeologico straordinario, Stabiae, due volte distrutta e due volte rinata.

DALLA PARTE DEI RIBELLI Conquistata e devastata nel corso della guerra sociale dalle truppe di Silla, come punizione per essere passata dalla parte dei ribelli italici, riprende vita come pagus di Nocera e diventa sede di importanti e prestigiose ville marittime dotate di meravigliosi e lussuosi apparati decorativi. Nel 79 d.C., anche Stabiae fu distrutta dall’eruzione del Vesuvio, ma, a differenza di Pompei ed Ercolano, la sua vita


Sulle due pagine: immagini del nuovo allestimento del Museo Archeologico di Stabia «Libero D’Orsi». Nelle sale sono riuniti materiali provenienti dall’antica Stabiae, molti dei quali inediti, ai quali si aggiungono reperti restituiti dagli scavi condotti nei territori di numerosi comuni del circondario. gli appunti dello stesso D’Orsi. Il percorso continua, ancora, con il rapporto con il territorio circostante e qui un’ampia sezione è dedicata ai reperti provenienti dai territori dei moderni comuni di S. Antonio Abate, Santa Maria La Carità, Gragnano, Casola e Pimonte. continuò anche dopo l’evento, come riferisce il poeta latino Stazio. Gli scavi di Stabiae ebbero inizio il 7 giugno 1749 per volere di Carlo III di Borbone. Fu esplorato un impianto urbano, con botteghe, strade e sei ville residenziali sul ciglio del pianoro di Varano. Nella prima sala del Museo un plastico multimediale entra in relazione con i reperti esposti, raccontando in un lungo arco temporale le trasformazioni del territorio – compreso tra Ercolano, il Vesuvio, Pompei e fino a Sorrento sul versante napoletano, tra Nocera e i Monti Lattari su quello salernitano – e i due diversi momenti di scoperta della città antica, la prima in età borbonica (negli anni in cui furono anche scoperte Pompei ed Ercolano); la seconda a opera del preside Libero D’Orsi, negli anni Cinquanta del Novecento. Quest’ultimo momento, in particolare, viene ripercorso attraverso un diario multimediale con la voce, le foto e

L’IMPORTANZA DEL PAESAGGIO Il progetto scientifico del nuovo allestimento è stato curato dal direttore generale del Parco archeologico di Pompei, Gabriel Zuchtriegel, e da Maria Rispoli, direttrice del Museo Archeologico di Stabia Libero D’Orsi. Hanno contribuito alla realizzazione dei contenuti, studiosi del territorio, allievi della SSM-Scuola Superiore Meridionale e ricercatori dell’Università della Campania Luigi Vanvitelli. La nuova sezione è interamente dedicata al paesaggio, ricostruito sul fondo della sala, spogliandolo di tutte le costruzioni contemporanee, e riproponendolo in una proiezione dinamica che cambia nell’arco delle 24 ore della giornata. La proiezione diventa la quinta prospettica per gli arredi rinvenuti nei peristili e nei giardini delle ville di Varano sui quali si affacciavano le splendide sale per banchetti riccamente decorate e

affrescate e dedicate al soggiorno e al riposo di corpo e mente con lo sguardo sempre proiettato sul panorama di Ischia e Capo Miseno, Capri e la penisola sorrentina, ma anche le alte e verdi montagne di cui Simmaco elogia la qualità e la salubrità del latte prodotto dagli armenti che qui pascolavano. Campeggiano sulle pareti delle sale le parole di Cicerone, che scrive una lettera all’amico Marco Mario: «Non ho dubbi in proposito: hai tratto un’apertura nella tua camera da letto e ti sei spalancato un panorama sul golfo di Stabia». «Il Museo Archeologico di Stabia – sottolinea Gabriel Zuchtriegel – è molto piú di un museo di opere archeologiche di pregio, per quantità e qualità che evidenziano il valore storico e culturale del territorio stabiano, ma un vero e proprio polo culturale e centro di ricerca di richiamo internazionale, in quanto sede di una scuola di formazione per la valorizzazione dei beni culturali dotata di attrezzature per la digitalizzazione e depositi accessibili per la ricerca e lo studio». Per notizie e aggiornamenti su Pompei: pompeiisites.org; Facebook: Pompeii-Parco Archeologico; Instagram: PompeiiParco Archeologico; X: Pompeii Sites; YouTube: Pompeii Sites.

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n otiz iario

ARCHEOLOGIA RUPESTRE Toscana

ROSE DI PIETRA

I

n occasione di una visita alla chiesa di S. Stefano a Villa a Roggio, compiuta dagli scriventi, accompagnati da Alberto Marchi, nell’agosto 2022, nell’ambito di un programma di ricerca di antichi segni sacri nelle chiese della Garfagnana è stata inaspettatamente riconosciuta l’immagine di una «rosa camuna». Villa a Roggio è un piccolo borgo del comune di Pescaglia (Lucca), dalle origini antiche, tanto che il toponimo appare citato per la prima volta in un documento datato all’anno 828. Un tempo con Roggio s’identificava tutta la zona. Il nome Villa, cioè borgata priva di difese, appare invece solo nello Statuto di Lucca del 1308, probabilmente per differenziarla dalla vicina Castello, termine che indica un nucleo abitativo cinto da mura. Il termine Roggio deriva da Rogium, che significa terra ricca d’acqua, una caratteristica ambientale che è rimasta immutata nel tempo. Sono

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molti, infatti, i torrenti presenti nei pressi di Villa a Roggio: il Solco di Cologna, il Rio di Ansana, il torrente Dezza, il torrente Pedogna. La chiesa parrocchiale è dedicata a santo Stefano protomartire. Dell’oratorio originale, risalente almeno al primo quarto del IX

secolo, rimane solo una porzione del muro perimetrale a sud, all’interno del quale vi era una piccola porta oggi murata. La chiesa nel corso dei secoli ha subito diverse modifiche: dalla metà del Cinquecento ebbero inizio sostanziali ristrutturazioni, che portarono all’allungamento dell’edificio e all’inversione del suo orientamento, con la costruzione di una facciata là dove in precedenza si sviluppava l’abside. Entrando in una stanza laterale, oggi adibita poco piú che a un ripostiglio, si raggiunge la porzione residua dell’antica parete esterna della chiesa medievale. Coperta per circa un terzo da un muro di epoca piú recente costruito perpendicolarmente al precedente, si nota la presenza di una porta oggi seminterrata e murata. Sopra l’architrave si trova una lunetta incassata in un grande arco a tutto sesto. Si tratta della cosiddetta «porta del clero», che forniva ai sacerdoti l’accesso diretto al presbiterio. Tutte le murature sono attualmente ricoperte da uno strato di intonaco bianco. La rosa


Nella pagina accanto, in alto: la chiesa di S. Stefano a Villa a Roggio (Lucca). A destra: tracce di una seconda immagine sullo stesso tratto di muratura antica che ospita la rosa camuna, forse interpretabile come un rudimentale orologio solare. Nella pagina accanto, in basso: la rosa camuna come si presentava al momento della scoperta, seminascosta da un mobile. camuna, larga oltre 50 cm e realizzata mediante un profondo solco inciso, è posizionata al centro della lunetta. La figura è costruita nel classico schema della linea che avvolge nove punti disposti a croce e disegna una sorta di svastica lobata, un simbolo che nel mondo anglosassone viene chiamato «fylfot» o «swastika-pelta». Nel nostro caso i punti sono realizzati mediante cerchielli disposti a forma di croce greca orientata secondo gli assi orizzontali e verticali. A sinistra della rosa, a circa due metri di distanza, abbiamo intravisto un altro segno ancora non indagato ma forse indicante l’originaria presenza di un rudimentale orologio solare. La rosa camuna è una delle piú famose incisioni rupestri della Valcamonica ed è stata raffigurata circa un centinaio di volte in diversi

In alto: vasi in vetro di varia foggia e tipologia restituiti dallo scavo del cimitero paleocristiano. A sinistra: veduta aerea del recinto di epoca messapica individuato nell’area della navata della chiesa.

siti della valle. La sua datazione risale all’età del Ferro, cioè al I millennio a.C., anche se in anni recenti sono comparse interessanti sopravvivenze storiche di questo simbolo soprattutto in Inghilterra, Danimarca e Finlandia. La rosa camuna, che nella sua forma piú nota ricorda un quadrifoglio (variante quadrilobata), presenta ancora notevoli difficoltà interpretative. C’è infatti chi sostiene possa rappresentare il sole e il ciclo annuale delle stagioni, oppure una rosa dei venti che indica i punti cardinali, uno strumento musicale o un emblema delle tribú camune. Nonostante gli aspetti ancora oscuri legati al suo significato, la rosa camuna ha colpito anche l’immaginario moderno, al punto di trasformarsi nel logo della Regione Lombardia nel 1975.

Seppur già notato in passato, il motivo inciso nella lunetta della chiesa di S. Stefano a Villa a Roggio non fu correttamente identificato con la rosa camuna. Nel volumetto Quadrifoglio in Valpedogna (1998) si legge infatti la seguente breve nota: «Di questo edificio, costruito da Aliprando nella prima metà del sec. IX, è giunta a noi una parte del muro perimetrale sud, con una piccola porta oggi seminterrata, la cosiddetta porta del clero, che immetteva nel presbiterio. Nella lunetta di questo portale è inciso un tralcio vegetale, uno dei pochi resti in lucchesia della scultura del sec. IX». È invece evidente che il segno corrisponde perfettamente alla variante a svastica delle diverse tipologie di rose presenti in Valcamonica. L’esemplare piú famoso si trova a Carpene di

a r c h e o 11


n otiz iario

Sellero (Valcamonica), mentre una immagine identica per disegno, proporzione e dimensioni è stata incisa a Rombalds Moor (Yorkshire) in Inghilterra. Si tratta di una ricorrenza sorprendente,

soprattutto perché in questa zona, ricchissima di incisioni rupestri pertinenti al cosiddetto filone cupand-rings, questa immagine è un unicum. Anche il nostro segno appare identico e della stessa

In alto: doluptu sanduntium eossint quaesto do dolorest lorest, ut exereca taspisci.

Residuo di muratura della chiesa originaria, con la porta seminterrata sormontata da un grande arco e la rosa camuna raffigurata nella lunetta.

12 a r c h e o

misura della rosa di Sellero, la piú grande finora censita in Valcamonica, e di quella inglese. Una datazione della nostra rosa al periodo di erezione della chiesa originaria, e quindi al IX secolo, sembra praticamente certa. Il segno è posto al centro della lunetta e avrebbe avuto poco senso posizionare un’immagine del genere in questo punto dopo i rimaneggiamenti e le ristrutturazioni subite dall’edificio, che finirono per cambiarne completamente il volto, mutandone addirittura l’intero orientamento e occultando alla vista questa porzione di muratura. Va notato che la figura non è tracciata sommariamente, ma appare sapientemente costruita sia in termini di armonia geometrica che di tecnica esecutiva. Non si tratta dunque di un’immagine eseguita da un pellegrino di passaggio, ma di qualcosa di pianificato dalla committenza della chiesa originaria e lasciato alla realizzazione di uno scalpellino esperto. Tanto piú che l’immagine era visibile al clero che entrava in chiesa, in un punto, quello al centro della lunetta, solitamente occupato da temi di alto valore simbolico e religioso. La figura appare inoltre disegnata con accuratezza mediante uno schema che utilizza il compasso e una serie di cerchi tangenti, un sistema di costruzione che consente la realizzazione corretta di questo segno, assai piú complicato da disegnare di quanto possa sembrare a prima vista. Si notano bene i cerchi perfetti che circondano i punti piú esterni e che, nello schema costruttivo qui utilizzato, sono tangenti ad altri cerchi della stessa misura posti verso il centro della figura. La presenza di «punti» formati da cerchielli e non da


coppelle è un dettaglio importante, poiché apparenta questa immagine ad alcuni esemplari storici del Nord Europa e meno alle rose protostoriche della Valcamonica, che invece sono sempre formate da allineamenti a croce di coppelle e non di cerchielli. Tale dettaglio ricorre, per esempio, in alcuni esemplari dipinti in chiese danesi, in un caso, di età bizantina, dalla provincia di Ragusa e in una rosa dal Messico, tutti collegati fra loro da una matrice religiosa di stampo cristiano.

«Rose camune» di epoca storica: qui accanto, sul soffitto della chiesa di Ørbæk, Danimarca (XV-XVI sec.); al centro, a destra, sito di San Felipe, Ramos Arizpe (Messico).

Ma come si può spiegare la presenza di un simbolo del genere in una chiesa della Garfagnana? L’ipotesi principale che stiamo seguendo è quella del Cammino del Volto Santo, un’antica via di pellegrinaggio religioso che univa la Lunigiana a Lucca attraverso la Garfagnana e che passa poco distante da Villa a Roggio. È possibile che il trovarsi su una delle grandi vie che collegavano il Centro e il Nord Europa con Roma abbia aperto questa zona a influssi e Qui sopra: schema costruttivo della rosa camuna a svastica basato su nove cerchi tangenti disposti a croce greca. In basso: la grande rosa camuna di Sellero, Valcamonica (Brescia).

contatti a piú ampio raggio, consentendo di inserire nel repertorio decorativo un elemento sicuramente alieno alla locale iconografia del periodo. Piú in generale, è possibile che la rosa camuna di Villa a Roggio manifesti quel reimpiego consapevole di antichi simboli pagani che, come per il nodo di Salomone e il labirinto, divengono oggetto di nuova interpretazione e di largo utilizzo anche in epoca cristiana. Lo studio sta comunque proseguendo con una mirata indagine bibliografica e, in collaborazione con appassionati di simboli e linguaggi della scultura religiosa, con una rivisitazione di tutte le chiese che si trovano lungo la direttrice del Volto Santo, alla ricerca di indizi utili a dipanare questo piccolo mistero. Giancarlo Sani e Alberto Marretta

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FRONTE DEL PORTO a cura di Claudia Tempesta e Cristina Genovese

IMMAGINARE L’ANTICO IN VISTA DELLA RIAPERTURA DEL MUSEO OSTIENSE È STATA CONDOTTA UNA VASTA CAMPAGNA DI RESTAURI. INTERVENTI CHE HANNO RESTITUITO A MOLTE OPERE IL LORO ASPETTO ORIGINARIO, COME NEL CASO DI UNA PREGEVOLE STATUA RAFFIGURANTE PERSEO

I

n occasione del riallestimento del Museo Ostiense, di prossima riapertura, oltre cento opere che ne costituiranno la collezione permanente sono state interessate da interventi di restauro specialistico. Si è trattato di un progetto complesso, che ha affrontato diverse situazioni conservative, determinate dalla tipologia dei manufatti (ritratti, statue, rilievi, sarcofagi, mosaici, pitture, ecc.) e dai differenti materiali costitutivi (marmo, travertino, terracotta, ecc.). Inoltre, si è reso necessario tenere in considerazione anche tutte le modifiche apportate alle opere nel corso del tempo, che in alcuni casi avevano alterato la percezione complessiva dell’immagine rappresentata attraverso ricomposizioni e completamenti di parti mancanti. A tal fine, si è deciso quindi di non reintegrare quanto inesorabilmente perduto, proprio per favorire l’apprezzamento di quanto invece conservato: riprendendo i concetti della «psicologia della percezione», elaborati a partire dall’inizio del XX secolo, si è scelto di ricorrere alla fisiologica capacità del sistema nervoso di ricomporre l’immagine

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La statua di Perseo rinvenuta in una villa suburbana fuori Porta Laurentina in una foto d’epoca. nella sua totalità attingendo alle esperienze pregresse. Per una serie di sculture sono state dunque studiate e dimensionate strutture autoportanti in metallo, in grado di restituire correttamente gli ingombri delle porzioni assenti, consentendo al visitatore di

immaginare e appunto reintegrare le parti perdute. Un caso esemplare è quello della statua di Perseo con la testa di Medusa nella mano destra, esposta nel Museo Ostiense sin dal suo primo allestimento nel 1934, al piano terreno del Casone del Sale. Realizzata in epoca adrianea in un pregiato marmo bianco greco, l’opera era stata rinvenuta poco prima presso una villa suburbana ubicata fuori Porta Laurentina, priva dei piedi e gran parte dell’avambraccio sinistro. In seguito ai restauri e alle integrazioni (in malta) apportate, nel tentativo di riprodurre in forma semplificata gli elementi anatomici mancanti, la percezione estetica della statua risultava sensibilmente alterata: in particolare, la foggia incongrua delle caviglie, resa appunto con la malta, distoglieva l’attenzione dall’apprezzamento dell’opera nel suo insieme. Inoltre, mentre il «cilindro» realizzato tra il gomito e l’impugnatura della spada nella mano sinistra poteva effettivamente svolgere una funzione di raccordo efficace dal punto di vista strutturale, altrettanto non era per la


alla funzione portante, affidata a un’ulteriore staffa posizionata sul retro della gamba destra.

SOLUZIONI AD HOC

terminazione delle gambe: gli esili perni nascosti nella malta all’altezza delle caviglie, al di sotto delle gambe molto fratturate, infatti, non riuscivano nemmeno ad assolvere

Riscontrata nel dettaglio questa situazione pregressa, a seguito della rimozione con tecniche di pulitura selettive e mirate dei materiali, ormai alterati, applicati sulla superficie del marmo nel corso dei precedenti restauri – operazione questa che ha peraltro consentito di rendere nuovamente visibile la finitura di colore rosso attorno e all’interno degli occhi – e dopo aver sanato i processi di decoesione e disgregazione della pietra, l’opera è stata finalmente liberata dalle integrazioni, sostituendole con una struttura autoportante capace di sorreggerla pur in presenza delle lacune. Grazie all’ausilio di simulazioni in In alto: la statua di Perseo prima dell’intervento conservativo. A sinistra: l’opera nel nuovo allestimento del Museo Ostiense, al termine dell’intervento conservativo. In basso: le tracce di colore sulla pupilla dell’occhio di Perseo.

ambiente digitale e del confronto con altri esemplari dal medesimo schema iconografico, si è potuta cosí determinare – su presupposti non solo percettivi ma geometricamente misurabili – la distanza tra gli arti inferiori nel loro punto di fratturazione e l’appoggio a terra dei piedi perduti, nonché quella tra la mano sinistra e la porzione conservata del braccio. Ciò ha permesso di progettare e realizzare l’armatura autoportante che sostiene la statua posizionandola in corrispondenza delle ascelle e lungo la parte posteriore della statua, mentre si è supplito alla mancanza dell’avambraccio sinistro assegnando alla spada, pure mancante e realizzata ex novo in forma stilizzata e vincolata alla struttura stessa, la funzione di raccordo tra la mano che la impugnava e il braccio. Si tratta, in altre parole, di una struttura dalla forma essenziale, nascosta per quanto possibile sul retro dell’opera anche grazie al colore scuro del metallo che, armonizzandosi con l’analoga tonalità delle pareti espositive, resta decisamente in secondo piano. Nonostante la sua apparente semplicità, si è trattato in realtà di un intervento complesso, che ha richiesto una sinergia tra professionalità diverse, a dimostrazione del virtuoso connubio possibile tra conservazione e valorizzazione. Antonella Docci

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n otiz iario

MOSTRE Napoli

IL RITORNO DEGLI DÈI

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opo esser stati presentati per la prima volta a Roma, nelle sale del Palazzo del Quirinale, gli stupefacenti reperti che hanno scandito le avventurose scoperte verificatesi nel sito del Bagno Grande di San Casciano dei Bagni (vedi «Archeo» nn. 434 e 460, aprile 2021 e giugno 2023; on line su issuu.com) sono oggi esposti al Museo Nazionale Archeologico di Napoli («Gli Dèi ritornano», fino al 30 giugno). Si possono, cosí, ammirare i protagonisti di quella

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KURDISTAN IRACHENO

Una collaborazione di successo Sulle due pagine: immagini della mostra dedicata ai bronzi provenienti dal Bagno Grande di San Casciano dei Bagni (Siena) e attualmente allestita nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli. I reperti (tra cui statue votive e tesori monetali) sono databili fra il III e il I sec. a.C.

che potremmo a buon diritto definire la piú importante scoperta archeologica italiana di questo secolo: statue votive in bronzo (oltre venti), tesori monetali e riproduzioni bonzee di fulmini, tutti reperti databili tra il III e il I secolo a.C., ovvero a un periodo storico di grandi trasformazioni nella Toscana antica, segnato dal passaggio tra Etruschi e Romani. In quest’epoca di grandi conflitti tra Roma e le città etrusche – ricorda Jacopo Tabolli, il direttore scientifico degli scavi di Bagno Grande – sembra che nel santuario nobili famiglie etrusche e romane dedicarono assieme le statue all’acqua sacra. Mentre gli «dèi» di San Casciano sono in mostra a Napoli, in attesa di «tornare», questa volta in maniera definitiva, in un loro museo (di cui auspichiamo la prossima realizzazione), le indagini e lo studio dei materiali emersi nel corso delle campagne di scavo proseguono, con la finalità, come spiega ancora Tabolli, «di comprendere il valore rituale delle offerte, la natura dell’antico luogo sacro, la sua complessa architettura destinata a raccogliere le potenti acque della sorgente». A. M .S.

DOVE E QUANDO «Gli Dèi ritornano. I bronzi di San Casciano» Napoli, Museo Archeologico Nazionale fino al 30 giugno Orario tutti i giorni, escluso il martedí, 9,00-19,30; nei martedí festivi, il Museo è aperto la chiusura posticipata al mercoledí successivo Info tel. 06 39967700; https://mann-napoli.it/

Fino al 21 maggio, per iniziativa del Consolato d’Italia nel Kurdistan iracheno, Erbil ospita la mostra «Le Missioni Archeologiche Italiane nel Kurdistan Iracheno (2011-2023)». L’esposizione documenta le attività svolte nell’ambito dei progetti di ricerca, ben 11, condotti da enti e istituti italiani nella regione curda. Come ha dichiarato il console Michele Camerota, l’iniziativa è nata con l’obiettivo di dare conto del crescente contributo dell’Italia alla «valorizzazione e conservazione del patrimonio storico e archeologico. Abbiamo perciò voluto celebrare questo impegno con una mostra fotografica, un seminario e la realizzazione di un sito web dedicato (https://archeokri.it), coinvolgendo le controparti dei Direttorati delle Antichità, nell’intento di favorire oltremodo la sensibilizzazione della popolazione e delle istituzioni locali nella promozione di questo inestimabile patrimonio universale». La mostra è corredata da un catalogo, che si aggiunge a un’approfondita pubblicazione promossa lo scorso anno dall’Ambasciata d’Italia a Baghdad in collaborazione con l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani, realizzata con il fine di divulgare la conoscenza delle scoperte e dei ritrovamenti degli archeologi italiani.

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A TUTTO CAMPO Mara Sternini

IL TEMPO SCORRE COME L’ORO LE SUGGESTIVE VIDEO-INSTALLAZIONI REALIZZATE DA FABRIZIO PLESSI NEL COMPLESSO MUSEALE DI SANTA GIULIA, A BRESCIA, EVOCANO L’ETERNO ALTERNARSI DELLA VITA, DELLA MORTE E DELLA RINASCITA

A

rtista di fama internazionale, Fabrizio Plessi (Reggio Emilia, 1940) può essere considerato il padre della video-arte in Italia, con una produzione caratterizzata dalla presenza degli elementi della natura come acqua, fuoco, aria e terra, rielaborati attraverso la tecnologia in video-installazioni e performances. In occasione della mostra «Plessi sposa Brixia», conclusasi nello scorso gennaio, l’artista ha realizzato cinque installazioni audio e video pensate per entrare in perfetta sintonia con il luogo in cui sono state esposte,

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cioè il Complesso Museale di Santa Giulia e il Parco Archeologico di Brescia romana, ora collegati dal «corridoio UNESCO»: un percorso pedonale attraverso il quale il visitatore può rileggere 2500 anni di storia della città, dalle tracce degli insediamenti piú antichi ai resti romani del Capitolium, alle domus dell’Ortaglia, al chiostro del monastero longobardo di S. Salvatore (nella cui cripta vennero poi deposte le spoglie, tra gli altri, anche di santa Giulia), e a quello medievale di S. Maria in Solario (XII secolo), fino alla fase del XVI

secolo, quando venne terminata la chiesa di S. Giulia. Partendo dal ricco patrimonio culturale presente nella città, l’artista ha progettato le installazioni prendendo spunto da forme già note (una colonna, un capitello, un mosaico, un ritratto), per riproporle con un nuovo significato, utilizzando la tecnica della video-arte, ma mantenendo sempre un piano di lettura umanistico. Il tema conduttore è l’oro, un metallo cosí prezioso da simboleggiare da sempre la divinità, la regalità, il potere, ma


anche l’eternità dal momento che resiste alla corrosione del tempo. La prima installazione ad accogliere il visitatore è il grande anello inserito nell’ambiente centrale della basilica di S. Salvatore, al cui interno, con movimento circolare, scorre oro fuso, a simboleggiare il flusso eterno di morte e rinascita. Gli effetti sonori rendono l’esperienza ancora piú coinvolgente. Lo stesso accade nella sala delle Colonne Colanti, dove, in mezzo a cippi romani, sono stati installati tre pannelli a fondo nero sui quali, a ritmo continuo, vengono proiettate le immagini di tre colonne scanalate color oro, munite di capitelli compositi, dalle cui volute cola il metallo fuso. Ma certamente Capita Aurea è l’installazione piú emozionante: l’opera si ricollega all’eccezionale ritrovamento avvenuto nel 1826, quando, durante gli scavi per riportare alla luce le strutture del Capitolium, vennero ritrovate cinque teste dorate e una statua in bronzo di Vittoria alata, ora esposta nell’aula orientale del tempio e

divenuta icona della città. Nel deposito furono trovati anche frammenti di cornici, un pettorale di cavallo e altri reperti: la loro presenza è probabilmente l’esito di un occultamento effettuato in antico con l’intento di sottrarre le sculture al riciclaggio per il recupero dei metalli, come spesso è avvenuto in passato, rendendo il ritrovamento di statue in bronzo un evento piuttosto eccezionale, soprattutto quando si tratta di opere di raffinata esecuzione come nel caso bresciano.

UNA FELICE CONTAMINAZIONE L’installazione Capita Aurea è stata posizionata nell’aula occidentale del Capitolium ed è composta da tre pannelli rettangolari a fondo nero, allineati dietro tre pilastri che sorreggono teste di marmo, due raffiguranti Minerva e una Sileno. Il video inizia mostrando la parte posteriore di tre delle cinque teste dorate trovate a Brescia; all’improvviso cominciano a

scendere leggere colature da ciascuna delle tre teste, accompagnate dal rumore di un liquido che scorre in caduta, e il video continua in un crescendo, fino a che delle teste non restano altro che tre pozze di oro liquefatto. È una metafora del tempo, che scompone e degrada ogni cosa, distruggendo le tracce delle civiltà che ci hanno preceduto su questa Terra. Ma non tutto è perduto, perché ciò che resta di quelle colature è pur sempre un liquido prezioso, che fa sperare in un ritorno dell’età dell’oro, sconfiggendo cosí il nulla della morte. Un esempio ben riuscito di contaminazione tra antico e contemporaneo, dove le rielaborazioni di immagini del passato proposte dall’artista aiutano il visitatore ad aprire lo sguardo e, quindi, la mente a nuovi punti di vista, riuscendo cosí a leggere in quei resti un messaggio di rinascita che coinvolge anche il nostro presente. (mara.sternini@unisi.it)

Nella pagina accanto: Capita Aurea, installazione di Fabrizio Plessi nell’Aula occidentale del Capitolium di Brixia. In basso: Colonne Colanti, installazione di Fabrizio Plessi nel Museo di Santa Giulia.

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n otiz iario

MOSTRE Campania

AGLI ALBORI DELLA COMUNICAZIONE

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uella dell’alfabeto greco è stata tradizionalmente considerata come l’invenzione, da parte di un ignoto benefattore dell’umanità, di uno strumento che avrebbe costituito uno dei piú prodigiosi vettori di civilizzazione e progresso della civiltà greca e, con essa, di quella occidentale. Tuttavia, sembra oggi piú verosimile porre la sua diffusione all’interno di un lungo processo – contraddistinto da una intricata rete di stimoli, creazioni indipendenti, sperimentazioni locali – al quale parteciparono diversi intermediari in diversi momenti e in diversi luoghi. La mostra «La pittura della voce», proposta dal Parco archeologico dei Campi Flegrei, segue il labirintico percorso che conduce verso il sorgere degli alfabeti greci, uno dei quali, quello euboico, sarebbe approdato sulle coste campane nell’VIII secolo a.C.,e percorre le tappe evolutive della graduale creazione della costellazione di alfabeti in uso dell’Italia antica. L’esposizione presenta una selezione di reperti archeologici, ma offre un sentiero di riflessione piú ampio, centrato sul significato della scrittura in rapporto alle culture e sulle forme alternative di trasmissione del sapere, spingendoci a riflettere sulle variabili della comunicazione umana, che inseriscono ognuno di noi in foreste di segni e simboli attraverso i quali costruiamo i nostri codici personali e comunitari, sociali e politici. Dai suoni ai segni, dagli ideogrammi alle scritture alfabetiche, dai canti dell’epica

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A destra: lekythos di imitazione protocorinzia. Fine dell’VIII sec. a.C. Cuma, Museo archeologico dei Campi Flegrei. In basso: anforetta in bucchero con iscrizioni graffite. 630-620 a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. greca recitati e trasmessi oralmente alle prime scritture poetiche, fino all’utilizzo della scrittura come strumento di controllo delle leggi e delle economie. Allestita nel Museo archeologico dei Campi Flegrei nel Castello di Baia, la mostra è anche un viaggio per (ri) trovare il senso delle trasformazioni culturali di oggi, in un mondo sempre piú costruito con lettere, ma sostanziato da potentissime e

performanti forme di comunicazione non verbali, per riflettere sulle «nuove» (in realtà antichissime e sempre compresenti) forme di comunicazione orali: dalla coppa di Nestore alle performance di arte contemporanea, dalle parole alle icone, dalle tavolette di argilla a Internet. Per dare spazio a questa dimensione, il Parco ha organizzato un Convegno internazionale, che si svolgerà il 13 e 14 giugno, sul tema «La voce, il segno e il mezzo. Percorsi e trasformazioni della comunicazione tra oralità, scrittura e media differenti», con lo scopo di fornire una riflessione scientifica sui temi disegnati dalla «Pittura della voce». Fabio Pagano

DOVE E QUANDO «La pittura della voce. L’alfabeto prima e dopo Cuma» Bacoli (Napoli), Museo Archeologico dei Campi Flegrei nel Castello di Baia fino al 30 giugno Orario ma-do, 9,00-20,00; lu chiuso Info tel. 081 5233797; https://pafleg.cultura.gov.it


MOSTRE Roma

ANTICO NELL’ANTICO

I

n un suggestivo gioco di rimandi fra antichità reali e citazioni dell’antico, una selezione delle fotografie realizzate da Luigi Spina per Interno pompeiano sono esposte fino al prossimo 16 giugno in Castel Sant’Angelo, a Roma. Immagini acquisite nel corso della campagna di riprese condotta durante la quarantena decretata a seguito della pandemia di Covid-19, che ha dato al fotografo l’opportunità di documentare sistematicamente oltre 100 case della città vesuviana, in

distribuite negli spazi del livello 4 della fortezza romana – che, lo ricordiamo, fu edificata inglobando e sfruttando le strutture del mausoleo di Adriano –, fra le Sale di Clemente VII e la Sala di Apollo. E, come accennato, soprattutto in quest’ultima, risulta particolarmente intrigante il confronto fra le decorazioni che risentono del gusto per le grottesche diffusosi all’indomani della scoperta della Domus Aurea – e di cui Raffaello fu tra i primi e principali alfieri – e gli scatti di

Una delle fotografie scelte per la mostra allestita in Castel Sant’Angelo e, a destra, Luigi Spina nel corso della campagna fotografica che si è tradotta nella pubblicazione di Interno pompeiano.

condizioni di isolamento altrimenti impensabili. Esito del progetto è stata la pubblicazione di un volume (5 Continents Editions-Parco Archeologico di Pompei, 2023; vedi «Archeo» n. 466, dicembre 2023; on line su issuu.com), da cui discende ora la mostra. Per l’occasione sono state scelte 60 foto, stampate in grande formato e

Spina, che esaltano le architetture e le pitture delle domus di Pompei. In queste pagine abbiamo già piú volte sottolineato, al di là della padronanza dei mezzi di ripresa, la sensibilità affinata dal fotografo nei confronti delle creazioni dell’età antica e l’esposizione romana può essere un’occasione eccellente per constatare la forza di immagini

nelle quali l’impeccabilità tecnica si accompagna alla capacità di far parlare e ridare vita a soggetti ormai fermi nel tempo. Qualità che, nel caso di Interno pompeiano, sono state accentuate anche dall’aver eseguito le riprese sfruttando unicamente la luce naturale e, cosí facendo, sperimentando le atmosfere create da momenti diversi della giornata. Le grandi stampe facilitano peraltro l’apprezzamento di dettagli – come la scelta dei colori delle pitture o la tessitura dei mosaici pavimentali – che testimoniano la raffinatezza delle soluzioni adottate nelle residenze di Pompei. Stefano Mammini

DOVE E QUANDO «Interno pompeiano» Roma, Castel Sant’Angelo fino al 16 giugno Orario ma-do, 9,00-19,30; chiuso il lunedí Info tel. 06 32810 (attivo lu-ve, 9,30-18,00); http:// castelsantangelo.beniculturali.it

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n otiz iario

MOSTRE Lombardia

LA CITTÀ DEI MORTI RACCONTA LA CITTÀ DEI VIVI

È

in corso a Lovere, sul Lago d’Iseo, una mostra che racconta la storia della città in età romana, attraverso alcuni fra i piú significativi reperti provenienti dalla sua ricca necropoli. Nel sito della moderna Lovere, riconosciuta come uno dei borghi piú belli d’Italia, sorgeva in età romana un centro vivace e importante, certo favorito dalla felice posizione sul lago. Di questo centro, però, non è stata ancora rinvenuta alcuna traccia, a eccezione di due iscrizioni votive con dedica a Minerva. La vasta necropoli riveste perciò un’eccezionale importanza per capire la ricchezza della Lovere

Pendaglio a lunula in argento con piastrina recante la raffigurazione del Sole e della Luna.

romana e come vi vivessero i suoi abitanti: gli oggetti rinvenuti raccontano di un emporium florido e importante, propaggine e avamposto meridionale della Civitas Camunnorum (l’odierna Cividate Camuno nella media Valle Camonica), alla confluenza di importanti vie di comunicazione tra il territorio bergamasco, il Sebino e la Valle Camonica. Il percorso espositivo offre uno spaccato della Lovere romana attraverso i reperti archeologici, dai primi ritrovamenti casuali

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nell’Ottocento alla scoperta, nel 1907, del cosiddetto «tesoro», fino agli scavi archeologici piú recenti. Preziosi oggetti in oro e argento, vasi e ornamenti vari conservati oggi al Museo Archeologico di Milano tornano in riva al Sebino per questa speciale occasione dialogando in mostra con i materiali recuperati nelle ultime campagne di scavo. Nel 1996 e negli anni 2013 e 2015 le ricerche archeologiche della Soprintendenza hanno infatti portato alla luce oltre 140 tombe; condotti con rigoroso metodo stratigrafico, gli scavi hanno permesso di raccogliere numerose informazioni sulle sepolture, i

corredi e gli individui deposti. In questo modo i «tesori» provenienti dal sottosuolo sono diventati preziosa fonte di conoscenza della storia di Lovere. Come di consueto nel mondo romano, la necropoli si trovava fuori dal centro abitato, lungo la strada di collegamento con la Valle Camonica ed era organizzata in grandi recinti funerari in muratura che delimitavano spazi riservati a gruppi familiari o collegiali. Ne sono stati individuati almeno sei, con dimensioni variabili da 40 a 150 mq. Le oltre 240 tombe scoperte dai primi ritrovamenti a oggi datano la necropoli dalla fine del I secolo a.C. agli inizi del V secolo d.C.

Nella pagina accanto, in alto: coppetta a pareti sottili contenente fibule e altri ornamenti in bronzo saldatisi durante il rogo funebre.

Un caratteristico coltello in ferro cosiddetto «tipo Lovere», a cui durante il rogo funebre si è saldata un’ascia.

Tra i reperti che si possono ammirare spiccano collane, anelli in oro e argento con castone e altri ornamenti, vasi e oggetti della vita quotidiana, lucerne e dadi da gioco. Un grande disegno con ricostruzione della necropoli sullo sfondo del lago e dell’area circostante fa da quinta scenografica alla mostra. Il taglio dell’esposizione è duplice: da un lato c’è stata la volontà di far

comprendere quanto i materiali archeologici possano restituire e raccontare, se correttamente recuperati e contestualizzati. Dall’altro lato, è stata prestata particolare attenzione ai visitatori piú giovani, con un’introduzione didattica sulle necropoli e sul rituale funerario e un invito a osservare e a giocare con alcune riproduzioni dei reperti. La mostra infine invita a percorrere un viaggio nel passato e a muoversi nel territorio, visitando i siti valorizzati nella rete PAD-Paesaggi Archeologici Diffusi (www.pad-bg. it) e nella vicina Valle Camonica romana, dove al Museo Nazionale Archeologico di Cividate Camuno è stata allestita una vetrina con reperti da Lovere in collegamento con la mostra principale. Nata da un’idea di Giovanni Guizzetti, ex sindaco di Lovere, la mostra «Lovere romana» è curata dalle scriventi, funzionarie archeologhe della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Bergamo e Brescia, ed è stata realizzata dal Comune di Lovere in collaborazione con la Soprintendenza e la Fondazione Accademia di belle arti Tadini di Lovere con il contributo del Consorzio del Bacino Imbrifero Montano dell’Oglio. Stefania De Francesco e Serena Solano

DOVE E QUANDO «Lovere romana. Dal tesoro alla necropoli» Lovere (Bergamo), Atelier del Tadini fino al 2 giugno Orario ve-sa, 15,00-19,00; do e festivi, 10,00-12,00 e 15,00-19,00 Info www.accademiatadini.it; www.pad-bg.it

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n otiz iario

MOSTRE Francia

MONDI A CONFRONTO

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opo essere stata presentata per la prima volta ad Autun (città francese del dipartimento di Saône-et-Loire), è approdata negli spazi del Musée d’Archéologie nationale di Saint-Germain-enLaye la mostra «Da un mondo all’altro», imperniata su una ricca selezione dei materiali restituiti dagli scavi condotti nel 2020 nella stessa Autun e che portarono alla scoperta di una importante necropoli nei pressi della chiesa paleocristiana di Saint-Pierrel’Estrier. Condotte dall’INRAP (Institut national de recherches archéologiques préventives) dal locale Servizio archeologico le indagini hanno rivelato un vasto sepolcreto, in uso tra il III

Qui sopra e in alto: due vedute di una scultura bifronte in marmo di Carrara, importata dall’Italia, dal sito di Faubourg d’Arroux. II-III sec. d.C. Da un lato è rappresentato il dio Mercurio e, dall’altro, Giove-Ammone. A sinistra: coppa in vetro diatreta, rinvenuta nella necropoli di SaintPierre-L’Estrier. IV sec. d.C. Al suo interno sono state identificate tracce di sostanze profumate.

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e il V secolo d.C. Del cimitero, in realtà, non si era del tutto persa la memoria, poiché alcuni dei suoi mausolei erano ancora visibili nel Settecento e alcuni di essi custodivano pregevoli sarcofagi in marmo, uno dei quali avrebbe accolto le spoglie di Amatore, personaggio talvolta citato come primo vescovo di Autun. Lo scavo ha permesso di individuare oltre 150 sepolture, caratterizzate da deposizioni all’interno di sarcofagi in pietra oppure in casse lignee o di piombo. Queste ultime costituiscono una delle presenze piú interessanti, poiché le indagini ne hanno riportate alla luce alcune decine. Né mancano casi di sepolture in cassoni di tegole, simili alle tombe In alto: frammento di un pavimento in opus sectile appartenente a una domus di Augustodunum. IV sec. d.C. In basso: ricostruzione grafica della necropoli di Saint-Pierre-l’Estrier cosí come doveva apparire nel IV sec. d.C. In primo piano, si immagina una famiglia intenta a celebrare una cerimonia funebre; sullo sfondo, mausolei e tombe in corrispondenza delle quali sono collocate stele con motivi iconografici cristiani.

a cappuccina di età imperiale. In generale, le tombe hanno restituito pochi materiali di corredo, tra i quali sono tuttavia presenti anche oggetti di notevole valore, come nel caso di una coppa in vetro appartenente alla categoria dei vasa diatreta. Il termine (dal greco diatretos e dal latino diatretus, «forato», «perforato») designa la tecnica con cui si realizzavano contenitori vitrei decorati «a giorno». Per quello trovato a SaintPierre-l’Estrier non è stato possibile stabilirne la funzione originaria, anche se un indizio è venuto dall’analisi dei resti individuati al

suo interno, che hanno rivelato la presenza di residui di essenze profumate e che dunque ne suggerirebbero un uso rituale. Nel percorso espositivo, i materiali provenienti dalla necropoli sono contestualizzati all’interno della piú ampia vicenda storica di Autun. La città venne fondata con il nome di Augustodunum, al tempo di Augusto tra il 16 e il 13 a.C. e divenne la capitale culturale, economica e politica degli Edui. Sappiamo dalle fonti che divenne sede di una scuola assai rinomata fra i membri dell’élite gallica e vi sorsero grandi domus, con decorazioni sontuose, nonché numerosi monumenti civili e religiosi. Parzialmente distrutta alla fine del III secolo d.C., Augustodunum conosce una fase di ricostruzione all’interno delle sue mura e, nei secoli successivi, accolse una delle più antiche diocesi della Gallia. Dinamiche sulle quali lo scavo della necropoli di Saint-Pierre-l’Estrier ha gettato una nuova luce, offrendo informazioni di particolare rilevanza soprattutto per il periodo compreso fra la tarda antichità e gli albori del Medioevo. E illustrando sia l’intensità dei legami con Roma, sia la circolazione di materiali e beni di prestigio all’interno dei territori controllati dall’impero. (red.)

DOVE E QUANDO «Da un mondo all’altro. Autun dall’antichità al Medioevo» Saint-Germain-en-Laye, Musée d’Archéologie nationale fino al 17 giugno Orario tutti i giorni, escluso il martedí, 10,00-17,00 Info www.museearcheologienationale.fr

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n otiz iario

IN CROCIERA CON «ARCHEO»

EMOZIONI ARTICHE

S

ono le grandi rotte artiche ad aver ispirato gli itinerari delle crociere di Swan Hellenic in programma fra giugno e luglio: Iceland in Depth (16-24 giugno), Arctic Islands & Fjords (24 giugno-7 luglio) e Svalbard Explored (7-14 luglio) sono l’occasione per scoprire la storia e le bellezze naturali di regioni di terre che le comunità umane hanno abitato e abitano sfidando condizioni spesso estreme. Iceland in Depth prende il via da Reykjavík, la capitale situata piú a nord nel mondo. Dal punto di vista geomorfologico, l’Islanda è una terra relativamente giovane ed è soggetta a periodici cambiamenti, determinati dall’attività vulcanica e

A destra: la cascata di Dynjandi, nella regione dei Westfjords. Al centro, a sinistra: una volpe artica (Alopex lagopus), il solo mammifero terrestre indigeno dell’Islanda; In basso, a destra: la Hallgrímskirkja di Reykjavík, realizzata su progetto dell’architetto Gudjón Samuelsson.

Isola di Grímsey

Ísafjördur

Isola di Vigur Akureyri Cascate di Dynjandi

ISLANDA

Seyðisfjörður Djupivogur

Reykjavík

Heimaey

OCEANO ATLANTICO SETTENTRIONALE

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sismica. È un’isola per lo piú montuosa e ricoperta di ghiacciai, i piú vasti in Europa, dai quali peraltro ha preso il suo nome, che, letteralmente, vuol dire appunto «terra dei ghiacci». Vulcanesimo, ghiacciai e geyser caratterizzano dunque i paesaggi naturali di questo Stato insulare che, pur distando appena 300 km dalle coste della Groenlandia e ben 900 da quelle scozzesi, per cultura, lingua, popolazione, presenta tratti nettamente europei. Come detto, Iceland in Depth prende il via da Reykjavík, che, nell’874, fu il primo insediamento scandinavo nell’isola. Per avere un’idea della città, si può prendere l’ascensore che raggiunge la cima della Hallgrímskirkja, la grande chiesa realizzata su progetto dell’architetto islandese Gudjón

In alto: un paesaggio nei pressi di Djupivogur, villaggio di origini vichinghe. A destra: una veduta di Longyearbyen, sull’isola di Spitsbergen (Svalbard).

Longyearbyen

MARE DI GROENLANDIA SVALBARD

Isola di Jan Mayen

Samuelsson, che è uno degli edifici simbolo della capitale. Ma la visita a Reykjavík sarebbe incompleta senza fare tappa alla Laguna Blu, famosa per le sue acque termali terapeutiche. Il secondo giorno è dedicato a una delle attrazioni naturali piú spettacolari del Paese: la cascata di Dynjandi, nella regione dei Westfjords. Nelle vicinanze, si può raggiungere Hrafnseyri, cittadina che diede i natali a Jón Sigurðsson, leader del movimento per l’indipendenza islandese del XIX

Grimsey Ísafjördur

ISLANDA

MARE DI NORVEGIA

Reykjavík

secolo. Il locale museo include una tipica casa islandese di torba. Circondata dai Westfjords, Ísafjördur, terza tappa della crociera, è una vivace città di pescatori, nella quale spiccano le colorate case in legno del XVIII e XIX secolo della parte piú antica dell’abitato, Neskaupstadur.

In alto: le spettacolari scogliere di Látrabjarg, con pareti rocciose che toccano i 400 m d’altezza, lungo il margine occidentale dell’Islanda. Al centro, a sinistra: un tipico paesaggio dell’arcipelago delle Svalbard, isole fra le quali si snoda l’itinerario della crociera Svalbard Explored (7-14 luglio).

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n otiz iario

A sinistra: una tipica formazione naturale nell’area Stretto di Hinlopen delle Svalbard. In basso: in Parco nazionalecrocieristi di Spitsbergen escursione nelle SVALBARD acque artiche.

Riserva naturale delle Svalbard nord-orientali

Longyearbyen Parco nazionale di Spitsbergen meridionale

Riserva naturale delle Svalbard sud-orientali

MARE DI BARENTS

Sulle due pagine: vedute delle località toccate dalle crociere che Swan Hellenic ha ideato per scoprire la storia, la cultura e l’ambiente delle terre situate a ridosso del Circolo Polare Artico: Iceland in Depth (16-24 giugno), Arctic Islands & Fjords (24 giugno-7 luglio) e Svalbard Explored (7-14 luglio). Nelle vicinanze, Sudavik è sede dell’Arctic Fox Centre, un centro di ricerca e di documentazione dedicato appunto alla volpe artica (Alopex lagopus), il solo mammifero terrestre indigeno dell’isola, che vive nella lussureggiante tundra della Riserva Naturale di Hornstrandir. Nella stessa giornata, si fa tappa a Vigur, seconda isola, per grandezza, dei Westfjords, e vero e proprio santuario degli uccelli marini. Stormi di sterne artiche, pulcinelle di mare, gazze e anatre marine nidificano sulle scogliere rocciose. Qui svetta anche l’unico mulino a vento dell’Islanda. La quarta tappa è Grímsey, un’isola remota, situata a 40 km al largo della costa settentrionale dell’Islanda. Il sito è meta obbligata per tutti coloro che desiderano provare l’ebbrezza di raggiungere il Circolo Polare Artico, poiché si tratta dell’unica località islandese in cui è possibile farlo.

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Da Grímsey si raggiunge quindi l’isola di Hrisey, nel fiordo di Eyjafjörður. Anche qui vive una fauna molto ricca, che comprende pulcinelle di mare, foche e balene. Dal monte Hriseyjarfjall si possono godere splendide vedute del paesaggio circostante e dell’ampia distesa del fiordo di Eyjafjörður. L’isola possiede inoltre un ricco patrimonio culturale e la sua comunità continua a praticare vari


mestieri tradizionali islandesi, come la lavorazione a mano della lana e la lavorazione del legno. Chiamata «Città del sole di mezzanotte» o «Capitale dell’Islanda del Nord», Akureyri, la tappa successiva, è porta di accesso ad alcune meraviglie naturali, tra cui la regione di Myvatn, la cascata di Dettifoss, la cascata di Godafoss e il canyon di Asbyrgi. Ma prima di raggiungerle, vale la pena di dedicare un po’ di tempo anche alla città: da non perdere sono il pittoresco lungomare e il Lystigardurinn, il giardino botanico artico. Nel sesto giorno si viene accolti dalle case in legno, vivacemente dipinte, del porto di Seyðisfjörður, considerato il polo culturale della porzione orientale dell’isola, affermatosi come una vivace scena artistica. Il sito è circondato da una natura incredibile e la vicina riserva naturale di Skálanes è nota per la sua ricca fauna selvatica – forte di oltre 47 specie di uccelli – e per le ancor piú numerose specie vegetali. Né mancherà l’occasione di incontrare renne, foche e delfini. Si fa quindi tappa a Djupivogur, un villaggio di pescatori che vanta origini vichinghe e nelle cui

vicinanze si trova il Parco Nazionale di Vatnajökull, nel quale ricadono la piú grande calotta glaciale d’Europa, il ghiacciaio Vatnajökull, fiumi e vulcani attivi. L’ottavo giorno è dedicato a Heimaey, un’isola di 13 km quadrati nelle Isole Westman, al largo della costa meridionale dell’Islanda. Qui è stanziata la piú grande colonia di pulcinelle atlantiche del mondo, che raggiunge la spettacolare cifra di 10 milioni di esemplari. La crociera termina là dove era iniziata, cioè a Reykjavík, uno scalo che dà modo di completare la conoscenza della vivace capitale

della Repubblica d’Islanda. Arctic Islands & Fjords offre l’opportunità di esplorare le regioni piú settentrionali del mondo, dall’Islanda alla Groenlandia orientale, l’isola di Jan Mayen e Svalbard, all’interno del Circolo Polare Artico. In Groenlandia si possono scoprire culture indigene di eccezionale interesse e conoscere gli stili di vita adottati in terre, come è questa, scarsamente popolate. E poi parchi nazionali, aree faunistiche protette e il sistema di fiordi piú esteso che si conosca. Il viaggio tocca anche l’isola di Jan Mayen, dove il sole di mezzanotte getta ombre sul paesaggio ghiacciato, nel quale non è difficile incontrare orsi polari, trichechi, foche e balene e milioni di uccelli marini. Protagonista di Svalbard Explored è la natura selvaggia dell’Alto Artico, all’interno del Circolo Polare Artico, tra i 74° e gli 81° di latitudine nord. Le Svalbard comprendono le isole Spitsbergen, Terra di Nord-Est, Edge, Barents, Prins Karls Forland, Kong Karls Land, Kvitøya, Hopen e numerosi isolotti e scogli adiacenti. Il territorio, aspro e inciso da fiordi, culmina a 1717 m nel Newtontoppen, sull’isola di Spitsbergen. Ricoperte dalla tundra artica e dai ghiacci, che bloccano i porti per nove lunghi mesi, le isole sono immerse nella notte polare per quasi un terzo dell’anno, mentre il sole di mezzanotte è visibile per 127 giorni consecutivi. Le Svalbard furono scoperte dai Vichinghi nel XII scecolo e riscoperte dal navigatore e cartografo olandese Willem Barents nel 1596. Nel 1920 il Trattato di Parigi le assegnò alla Norvegia, che ne prese possesso nel 1925. Info e prenotazioni: e-mail, enquiries@swanhellenic.com

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n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

SALAMMBÔ, LA FIGLIA CHE NON C’ERA Protagonisti della puntata della serie Archeologia e letteratura di questo numero sono Gustave Flaubert (1) e il 1 suo romanzo Salammbô, pubblicato nel 1862. Lo scrittore francese ambientò la vicenda nel periodo attraversato da Cartagine nel biennio 240-238 a.C., praticamente tra la prima e la seconda guerra punica, ed esaminò molte fonti per documentarsi: Senofonte (2), Erodoto (3), Polibio, Diodoro Siculo e perfino l’Antico Testamento. Tra l’altro nel 1858 si recò nei luoghi in cui la vicenda è ambientata, visitando Costantina (4), Tunisi e Cartagine (5) per «vivere» 3 di persona il «clima» di quei luoghi. La trama del romanzo, in estrema sintesi, si basa su una rivolta di mercenari (cosí immaginati da Albrecht Dürer in un dipinto realizzato intorno al 1514, 6), che si sentirono traditi perché non ricompensati come promesso dai Cartaginesi per il loro aiuto contro Roma nella prima guerra punica. I personaggi 5 principali sono tratti direttamente dalle Storie di Polibio: Matho, capo della rivolta, Spendio, Narava e Amilcare Barca (7). Ma Flaubert inserisce la storia d’amore tra Matho e la figlia di Amilcare Barca, da questi promessa sposa a Narava; dopo una girandola di tradimenti militari e sentimentali, alla fine Matho viene catturato dai Cartaginesi e muore, seguito poco dopo dalla figlia di Amilcare, prima che convolasse a nozze. La stranezza, confermata 7 8 dalle fonti ufficiali, è che si è certi che Amilcare abbia avuto almeno una figlia (forse tre) oltre al ben piú noto Annibale (8), ma nessuno ne cita il nome: ed ecco che allora Flaubert inventò quello di Salammbô. Non esistono elementi filatelici relativi al libro, salvo un disegno nel margine del foglietto del francobollo emesso dalla Francia 10 per il centenario della nascita di Flaubert (9). Ci sono i richiami a ciascuna delle sue opere e la silhouette della donna in abiti moreschi si riferisce sicuramente all’eroina del romanzo (10). Nulla si sa, invece, circa la scelta del nome e si può solo azzardare l’ipotesi che egli sia rimasto colpito dalla denominazione di un sobborgo della IL CIFT. Questa rubrica è curata dal vecchia Cartagine chiamato Salammbô (ancora CIFT (Centro Italiano di Filatelia esistente nel 1972 con un proprio ufficio postale, Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla re11) e sito archeologico per la presenza di un tofet. dazione di «Archeo» o al CIFT, anche Ultimo documento è una cartolina maximum con il per qualsiasi altro tema, ai seguenti primo francobollo emesso dalla Francia nel 1952 indirizzi: sulla foto dello chalet di Croisset (12) per ricordare Segreteria c/o il luogo in cui Flaubert scrisse il suo romanzo, Sergio De Benedictis come è riportato sul retro della stessa cartolina Corso Cavour, 60 - 70121 Bari (13), e dove morí nel 1880. segreteria@cift.club oppure

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Luciano Calenda C.P. 17037 - Grottarossa 00189 Roma lcalenda@yahoo.it www.cift.it



CALENDARIO

Italia ROMA Interno pompeiano

Fotografie di Luigi Spina Castel Sant’Angelo fino al 16.06.24

LOVERE (BERGAMO) Lovere romana Dal tesoro alla necropoli Atelier del Tadini fino al 02.06.24

Un museo per l’École

La collezione di antichità dell’École française de Rome École française de Rome, Galleria (piazza Navona, 62) fino al 20.12.24 (dal 29.05.24)

AOSTA Pietre parlanti nella Preistoria La statuaria preistorica dalla Sardegna all’arco alpino Area Megalitica fino al 15.06.24

BACOLI (NAPOLI) La pittura della voce

L’alfabeto prima e dopo Cuma Castello aragonese di Baia, Museo archeologico dei Campi Flegrei fino al 30.06.24

CARRARA Romana marmora

MILANO Vulci

Produrre per gli uomini. Produrre per gli dèi Fondazione Luigi Rovati fino al 04.08.24

NAPOLI Gli dei ritornano

I bronzi di San Casciano Museo Archeologico Nazionale di Napoli fino al 30.06.24

Storie di imperatori, dei e cavatori CARMI, Museo Carrara e Michelangelo fino al 12.01.25 (dal 25.05.24)

POMPEI L’altra Pompei

Vite comuni all’ombra del Vesuvio Parco Archeologico di Pompei, Palestra grande fino al 15.12.24

COMO Il catalogo del mondo

Plinio il Vecchio e la Storia della Natura Ex chiesa di S. Pietro in Atrio e Palazzo del Broletto fino al 31.08.24

GAVARDO (BRESCIA) L’età del Legno. 4000 anni fa al Lucone

Manufatti in legno e tessuti dal sito palafitticolo dell’età del Bronzo Museo Archeologico della Valle Sabbia fino al 31.12.24 32 a r c h e o


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

RIO NELL’ELBA Gladiatori

Il Met al Louvre

SESTO FIORENTINO Archeologia svelata a Sesto Fiorentino

NÎMES Achille e la guerra di Troia

Museo Archeologico del Distretto Minerario fino al 01.11.24

Momenti di vita nella piana prima, durante e dopo gli Etruschi Biblioteca Ernesto Ragionieri fino al 31.07.24

SIRACUSA Il regno di Ahhijawa

I Micenei e la Sicilia Museo Archeologico Regionale «Paolo Orsi» fino al 09.10.24

TORINO Trad u/i zioni d’Eurasia Reloaded

Frontiere liquide e mondi in connessione. Duemila anni di cultura visiva e materiale tra Mediterraneo e Asia Orientale MAO-Museo d’Arte Orientale fino all’01.09.24

La Scandalosa e la Magnifica 300 anni di ricerche su Industria e sul culto di Iside in Piemonte Galleria Sabauda, Spazio Scoperte fino al 10.11.24

TRENTO-SAN MICHELE ALL’ADIGE Sciamani

Comunicare con l’invisibile Palazzo delle Albere (Trento) METS-Museo etnografico trentino San Michele (San Michele all’Adige) fino al 30.06.24

Dialoghi di antichità orientali Museo del Louvre fino al 29.09.25

Musée de la Romanité fino al 05.01.25

SAINT-GERMAIN-EN-LAYE Da un mondo all’altro

L’autunno dell’antichità nel Medioevo Musée d’Archéologie nationale fino al 17.06.24

Germania BERLINO Il fascino di Roma

Maarten van Heemskerck disegna la città Kulturforum fino al 04.08.24

Elefantina

Isola dei millenni James-Simon-Galerie e Neues Museum fino al 27.10.24

In alto: Maarten van Heemskerck, l’Arco di Tito. 1532-1536.

Paesi Bassi LEIDA Paestum

Città delle dee Rijksmuseum van Oudheden fino al 25.08.24

Ville romane nel Limburgo Rijksmuseum van Oudheden fino al 25.08.24

Lastra dipinta di una tomba lucana della necropoli di Andriuolo (Paestum).

Regno Unito LONDRA Legionari

La vita nell’esercito romano British Museum fino al 23.06.24

Francia PARIGI Nella Senna

Ritrovamenti dalla preistoria ai giorni nostri Crypte archéologique de l’île de la Cité fino al 31.12.24

Svizzera BASILEA Iberi

Museo delle antichità di Basilea e Collezione Ludwig fino al 26.05.24 a r c h e o 33


L’I C NU M O O PE S VA RA TA ED TO N IZIO RE T NE DI IN CR O IS TO

LA NUOVA MONOGRAFIA DI ARCHEO

COSTANTINO «sotto questo segno vincerai»

L

e vicende di molti grandi protagonisti della storia antica sono state tramandate attraverso cronache e testimonianze che hanno finito con il consegnare ai posteri stereotipi suggestivi, piú che profili biografici attendibili. E Costantino ne è uno degli esempi emblematici: da sempre, infatti, viene tradizionalmente esaltato e celebrato come il primo imperatore «cristiano», l’uomo saggio e pio grazie al quale i seguaci della dottrina diffusa trecento anni prima da Gesú in Terra Santa avevano finalmente potuto professare il loro culto. Ma fu veramente cosí? Prova a rispondere la nuova Monografia di «Archeo» che ripercorre la lunga vicenda politica e personale di Flavio Valerio Costantino, costellata a piú riprese da episodi quasi romanzeschi. Primo fra tutti, il sogno fatto alla vigilia della decisiva battaglia combattuta contro Massenzio nell’ottobre del 312 d.C. al Ponte Milvio, a Roma, che avrebbe ispirato all’imperatore la decisione di far incidere il monogramma cristiano sugli scudi e sui vessilli delle sue truppe. Accanto a fatti dal sapore leggendario, c’è però la concretezza delle lotte per il potere, della ridefinizione delle strutture amministrative dell’impero, degli intenti autocelebrativi, culminati nella decisione di rifondare nel suo nome Bisanzio, elevandola a seconda capitale imperiale. Mosse che rivelano il carattere volitivo e deciso del personaggio, che, di fatto, suggellò la sua effettiva conversione al cristianesimo solo in punto di morte, accettando di ricevere il battesimo.

GLI ARGOMENTI

• ALFIERE DI UN MONDO NUOVO

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•U N SOLO IMPERATORE

• LA TETRARCHIA NEL CAOS

•U N GRANDIOSO ARCO TRIONFALE

• 28 OTTOBRE 312: LA RESA DEI CONTI

• IL RITORNO DEL COLOSSO



SCOPERTE • VENEZIA

«QUELLA CITTÀ PRESSO RIALTO» NUOVE INDAGINI SULLE ORIGINI DI VENEZIA Un arcipelago di tante piccole isole sulle quali trovarono rifugio le popolazioni insidiate dalle invasioni barbariche. Ecco come la tradizione racconta le origini di una delle rare città della nostra Penisola che non possano vantare un’«ascendenza» classica. Ma come nacque, veramente, Venezia? Quali furono i fattori che permisero a un piccolo centro altomedievale, conosciuto con il nome di «Rialto», a evolversi e diventare una potenza commerciale del Mediterraneo? E perché primeggiò sugli altri insediamenti lagunari, come Torcello, Equilo, Cittanova? Ne abbiamo parlato con due studiosi, lo storico Stefano Gasparri e l’archeologo Sauro Gelichi, in occasione dell’uscita di un loro libro appena pubblicato per i tipi dell’Editore Laterza, dal titolo Le isole del rifugio. Venezia prima di Venezia incontro con Stefano Gasparri e Sauro Gelichi a cura di Andreas M. Steiner 36 a r c h e o


♦ Professor Gasparri, l’origine di Venezia è legata al mito delle migrazioni, in apparenza confermato da alcuni testi storico-cronachistici… …quello delle migrazioni di massa dalla terraferma veneta verso la laguna è, appunto, un mito, si tratta di un evento mai verificatosi. Un mito che risale a un età piuttosto antica, al X secolo se non prima (ne parla già l’imperatore bizantino Costantino Porfirogenito), e poi è stato ripreso e arricchito nel corso dei secoli, con innumerevoli varianti (quasi sempre il capo dei protagonisti barbari del racconto è Attila, altre volte Totila o anche Alboino). Il motivo della nascita di questo mito risiede nella volontà delle classi dirigenti

del ducato veneziano di creare un’origine autonoma e nobile della città: un pugno di eroici coloni sarebbe stato capace di resistere, senza nessun aiuto esterno, alla furia del piú famigerato condottiero barbaro dell’antichità, creando al tempo stesso una nuova patria, libera e indipendente da qualsiasi potere esterno, fosse esso occidentale (l’impero carolingio e i suoi successori sulla terraferma italica) o orientale (l’impero bizantino). In questo modo, inoltre,Venezia poteva rivendicare anche l’origine della sua struttura ecclesiastica dalla terraferma, sostenendo il patriarcato di Grado, che ne era il vertice, come il vero erede dell’antico patriarcato di Aquileia.

Venezia. Veduta aerea di piazza San Marco. Le origini della città lagunare sono al centro di una recente indagine storico-archeologica.

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SCOPERTE • VENEZIA

piú cose: per esempio, che nella maggior parte dei siti lagunari indagati le tracce di un’occupazione stabile, strutturata e consistente sul piano demico, non inizia prima del III-IV secolo d.C.

♦ Tra i molti argomenti che il libro affronta, non poteva mancare quello della laguna in epoca romana, un tema che ricorre spesso quando si parla di archeologia: che cosa si può dire, professor Gelichi, senza incorrere in stereotipi o in azzardi avventurosi? In effetti, la laguna romana è un tema che ha sempre attraversato gli studi sulla città, variamente ripreso e utilizzato per costruire nessi e relazioni con un luogo che non aveva un passato illustre (come Venezia), oppure per valorizzare una ricerca archeologica che tale poteva dirsi solo se indagava le testimonianze dei suoi tempi piú lontani. Come sempre succede, questo tema ha goduto di alterne vicende, ma in anni piú recenti si deve indiscutibilmente a un ricercatore locale, Ernesto Canal, il merito di aver riportato in auge l’argomento grazie a un paziente lavoro di recupero e salvaguardia di un patrimonio archeologico di epoca antica che altrimenti sarebbe andato perduto. Oggi, sempre grazie all’archeologia, sappiamo molte

♦ Dunque i Romani conoscevano la laguna ma non la utilizzavano? Certamente. Non abbiamo motivo di dubitare che le risorse di questi luoghi (in modo principale il sale e la pesca) fossero sfruttate fin dall’epoca antica, ma la necessità di dare stabilità a una presenza antropica si concretizza nel momento in cui, a causa del lento impaludamento del porto di Altino, si rese necessario spostare piú a sud quelle infrastrutture e quelle funzioni. È questa la congiuntura storica che colloca in una giusta prospettiva tutta quanta la vicenda della laguna nell’antichità, soprattutto della parte settentrionale. ♦ Professor Gasparri, quando si parla di Venezia si intende, per lo piú, la Venezia bizantina …

Santo Stefano La Cura San Mauro San Giovanni Santa Cristina Jesolo Evangelista San Lorenzo di Ammiana Torcello Lio Maggiore Burano Lio Piccolo Mazzorbo San Francesco del Deserto Santi Felice e Fortunato Murano Sant’Erasmo Altino

Marghera

Santi Ilario e Benedetto Loc. Dogaletto

Treporti Fusina

Le Vignole Poveglia

Costanziaco

Sant’Ariano Isola La Certosa

Malamocco San Servolo

Santi Leone e Basso Santi Cornelio e Cipriano

Mare Adriatico

Chioggia

Brondolo Cavarzere

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San Michele Arcangelo

In alto: lo storico Stefano Gasparri. A sinistra: cartina della laguna e delle zone vicine con l’indicazione dei luoghi citati nel testo.


L’argomento è, evidentemente, molto complesso. Limitandoci al periodo preso in esame dal libro – i primi cinque secoli circa di vita di Venezia – ha senso parlare di una Venezia bizantina in quanto, in origine, Venezia era un ducato bizantino, ossia una struttura territoriale periferica, a carattere militare, che faceva parte dell’Esarcato di Ravenna. Quest’ultimo era nato per riorganizzare ciò che rimaneva dei possedimenti bizantini in Italia dopo l’arrivo dei Longobardi nel 568. Il regno fondato da questi ultimi, dapprima nella pianura padana e poi in gran parte del resto d’Italia, esercitò una spinta costante, nel corso di un secolo, contro il ducato veneziano, riducendolo – tra la fine del VII e l’inizio dell’VIII secolo – alla laguna e al territorio a essa piú vicino. In questo spazio territoriale molto ridotto, il comando militare bizantino – guidato da un ufficiale con il titolo di duca (dux) o magister militum – seppe resistere, salvando la presenza dell’impero di Bisanzio in una zona chiave per i collegamenti quale era il nord-est adriatico. Intorno alla gerarchia mili-

tare e amministrativa bizantina si coagulò una popolazione sempre piú numerosa, attratta dalle possibilità da essa offerte. All’inizio del VIII secolo, poi, in coincidenza della crisi provocata dall’eresia iconoclasta abbracciata dagli imperatori bizantini, il ducato iniziò a staccarsi da Bisanzio, quando l’esercito locale – a quel punto in buona parte composto da persone reclutate localmente, o da soldati orientali ormai radicatisi in laguna – elesse per la prima volta un duca in modo autonomo. Tuttavia, nonostante i suoi legami originari con Bisanzio, Venezia si sviluppò in un rapporto stretto e costante anche con la terraferma italica, dove la classe dirigente veneziana possedeva terre, tesseva rapporti politici e matrimoniali con i suoi omologhi delle regioni confinanti; persino l’assemblea generale del ducato, nel X secolo, risente evidentemente dei modelli politici che si andavano allora sviluppando nelle città dell’Italia del Nord. ♦ Professor Gelichi, quanto è stata importante la

Ca’ Vendramin Calergi

San Marco

San Pietro di Castello

San Lorenzo di Castello

San Polo Castello Ca’ Foscari

Olivolo Dorsodur Dorsoduroo Santa Maria di Zobenigo

Palazzo Ducale San Zaccaria Ex Cinema San Marco

San Gregorio

Cartina di Venezia con l’indicazione delle località principali. In alto: l’archeologo Sauro Gelichi. a r c h e o 39


SCOPERTE • VENEZIA

ricerca archeologica per tentare di ricostruire la storia dei primi secoli dell’età volgare in laguna? La ricerca archeologica è stata, e sarà sempre di piú, decisiva per fare luce su questi primi secoli, e non solo per il fatto che la documentazione scritta è, sul versante quantitativo, molto scarsa. Naturalmente perché questo avvenga bisogna che si avverino alcune condizioni. La prima è che le ricerche che si conducono siano rese note, non solo al largo pubblico attraverso la pubblicistica locale ma soprattutto alla comunità scientifica, attraverso le sedi opportune. Queste ricerche, inoltre, devono essere condotte con rigore di metodo e innovazione tecnologica, perché gli strumenti che abbiamo oggi a disposizione sono imparagonabili solo a quelli di qualche anno fa. Ma utilizzare buoni metodi e strumenti innovativi a volte non basta, perché è necessario che sia una ricerca orientata, che abbia cioè un’idea progettuale che la guidi e non sia solamente il corollario a un main stream narrativo che già si presume di conoscere. In poche parole, una ricerca che ci aiuti a rispondere in maniera originale a tre semplici domande: quando, perché e come. Solo in questa maniera si potrà avere la presunzione di elevare la fonte archeologica a strumento originale e autonomo di interpretazione storica. La laguna di Venezia e la sua città A destra, sulle due pagine: cartina con la ricostruzione paleoambientale della laguna in età romana e altomedievale. In basso e nella pagina accanto, in basso: vedute aeree della laguna di Venezia nella località di Lio Piccolo (comune di Cavallino Treporti), oggetto di approfondite ricerche da parte degli archeologi dell’Università Ca’ Foscari di Venezia.

sono uno spazio straordinario dove poter valorizzare al meglio questi strumenti. ♦ Allora, professor Gelichi, alla luce delle ultime indagini, come possiamo immaginarci la città di Venezia dei primi secoli d.C.? E come si è arrivati alla città che ancora oggi vediamo? La prima Venezia era, naturalmente, del tutto diversa da come la vediamo oggi. L’abbagliante bellezza delle sue chiese e dei suoi palazzi, il fascino unico dei suoi recessi, non lasciano trapelare nulla di quella che fu la prima Venezia. Numerosi incendi avvenuti tra il secolo XI e XII dovettero in gran parte cancellarne le tracce. Ma 40 a r c h e o


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non dobbiamo imputare solo a tali drammatici episodi, peraltro comunissimi nelle città medievali, la responsabilità di queste trasformazioni. Venezia cambiò volto nello stesso periodo in cui anche le altre città della terraferma lo fecero, sostituendo al legno, la pietra e il mattone. Nell’Alto Medioevo, la prima Venezia doveva essere come tutti gli altri centri abitati della Penisola, ma con una differenza fondamentale: quella di non aver ereditato nessun monumento dall’antichità classica. La Venezia altomedievale, dunque, doveva essere una città quasi esclusivamente di legno, in cui i pochi edifici in materiale durevole – le chiese e i monasteri, il palazzo ducale, forse qualche abitazione aristocratica – dovevano stagliarsi in maniera impressionante al di sopra di uno skyline sostanzialmente piatto. Non solo, ma ancora intorno al Mille, molte delle isolette che componevano l’arcipelago su cui sorgeva l’insediamento non dovevano essere densamente abitate – come lo sono invece oggi –, ma destinate ad altre funzioni, come saline e orti, forse recinti per animali, quando non spazi espressamente destinati a conservare e movimentare merci. Solo piú tardi la città finí con l’attrarre quanti ancora vivevano nei centri fiorenti della laguna e dei suoi dintorni – come Equilo, Cittanova e Torcello – fino a provocarne lo spopolamento. ♦ Quando si parla di Venezia si pensa immediatamente a una città mercantile: il commercio, professor Gasparri, ha avuto sempre un ruolo cosí importante? Non ci sono dubbi che nell’economia delle popolazioni lagunari, accanto ovviamente alla pesca, il commercio abbia svolto un ruolo primario, inizialmente nella sua versione base, ovvero il commercio del sale: ce ne parla già Cassiodoro nella prima metà del VI secolo. Tuttavia, quest’attività da sola non basta a spiegare l’importanza del commercio nella crescita di Venezia, la cui fortuna iniziale, come dicevamo, è legata infatti al suo ruolo militare e all’investimento che nel ducato fece l’impero di Bisanzio nella prima, lunga e delicata fase della storia cittadina. Per questo periodo – tra VII e VIII secolo – le notizie sul commercio veneziano sono scarse: riusciamo a intravvedere la presenza dei mercanti veneziani su piazze anche lontane – a Roma sono attivi come mercanti di schiavi – ma i dati che abbiamo sono troppo pochi e non ci consentono ancora di ravvisare un ruolo importante del ducato in ambito (segue a p. 46) 42 a r c h e o

LA LUNGA OMBRA DI ALTINO «Il binomio Venezia-Altino (l’una erede dell’altra) è un passaggio che ritorna con frequenza in quasi tutte le narrazioni che intendano descrivere le vicende storiche della laguna dall’antichità al Medioevo, e comunque in ogni racconto sulle origini della Serenissima. Un accostamento che ha origini lontane, ma che può essere percepito quasi come naturale: da una parte una grande città del mondo antico che scompare (di Altino non restano che tracce sepolte) e, dall’altra, una nuova città che nasce sulle acque e che diventa, nel giro di qualche centinaio di anni, la «regina dell’Adriatico».

L’antica Altinum, cosí come emerge in una ripresa aerea all’infrarosso, eseguita qualche decennio fa da studiosi dell’Università di Padova, e, in alto, una cartina che evidenzia i monumenti della stessa zona. Altinum era posta su un’altura a 2/3 m circa sopra il livello del mare e possedeva un suo «Canal Grande» (evidenziato in rosso).


Materiali di età antica reimpiegati nel muro sul lato sud della basilica di S. Marco. a r c h e o 43


SCOPERTE • VENEZIA

Non si ha un’idea ancora precisa di quando le isolette che compongono l’arcipelago di Venezia siano state colonizzate

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UNA LAGUNA VIVACE Dagli inizi del IX secolo il centro politico della laguna si spostò sulle isole su cui oggi sorge Venezia. L’arcipelago si trovava in una posizione invidiabile, naturalmente difeso dalle acque e proteso verso il mare: una sorta di

cerniera tra l’Adriatico e la laguna. Ma il trasferimento della sede ducale in Rialto avvenne in un momento non troppo precoce della storia post-antica della laguna e comunque in un periodo in cui altre realtà insediative

avevano avuto modo di consolidarsi, esprimere delle proprie comunità, quando non istituzioni. Ci volle del tempo perché questi insediamenti venissero fagocitati, da tutti i punti di vista, dalla nascente Venezia.

Ipotesi ricostruttiva dell’arcipelago di Venezia in età altomedievale. Nella pagina accanto, sulla sinistra, i primi edifici di piazza San Marco (vedi anche la ricostruzione alle pp. 48/49). a r c h e o 45


SCOPERTE • VENEZIA

mediterraneo. Il vero decollo del commercio veneziano si ebbe nel momento in cui, dopo la pace di Aquisgrana dell’812 fra l’impero carolingio e quello bizantino, Venezia e i suoi mercanti ebbero la possibilità di svolgere pienamente il loro ruolo di mediatori fra queste due grandi aree, trasportando prodotti dall’oriente mediterraneo verso i fiumi padani e oltre, creando al contempo la ricchezza sufficiente a sfamare una popo-

Le scoperte di Equilo-Jesolo A pochi chilometri da Jesolo, in località Antiche Mura, si conservano i resti di due chiese dell’antica Equilo, S. Maria Assunta e S. Mauro. La prima, eretta, nelle forme attuali, nel XII sec., era, per importanza e dimensioni, seconda solo alla basilica di S. Marco. L’edificio è stato irrimediabilmente distrutto durante la prima guerra mondiale. Nelle immagini di fine Ottocento (qui sopra), i resti ancora ben conservati di alcune porzioni dell’edificio. 46 a r c h e o

lazione in crescita. Come tutti i grandi fenomeni storici, anche la straordinaria fortuna commerciale di Venezia fu il risultato di un processo lungo e difficile: dopo l’812, per esempio, la crescita commerciale della città lagunare fu a lungo insidiata dalla presenza militare saracena, che nel corso del IX secolo inflisse anche pesanti sconfitte alle sue navi. ♦ Se Venezia, la città che tutti noi conosciamo, è il risultato di un lungo processo di conurbazione, quali erano gli altri insediamenti importanti nella laguna dell’Alto Medioevo? Il sottotitolo del nostro libro recita «Venezia prima di Venezia» perché nel periodo preso in esame esisteva una pluralità di centri all’interno


Equilo/Jesolo. Foto zenitale delle due chiese in località San Mauro: in rosso sono marcati i limiti della chiesa altomedievale. In basso, a destra: particolare di un mosaico pavimentale proveniente dagli scavi nell’area della cattedrale e appartenente alla chiesa di VI-VII sec.

A sinistra e nella pagina accanto, a destra: Equilo/Jesolo. Ricostruzione schematica delle terre emerse con l’indicazione delle aree interessate dagli scavi dell’Università Ca’ Foscari Venezia: nell’area di S. Maria Assunta le indagini archeologiche portarono alla luce, tra la navata laterale e quella centrale della cattedrale, i resti di due chiese preesistenti, risalenti al VI/VII e al V sec. a r c h e o 47


SCOPERTE • VENEZIA

VENEZIA, IL SENSO DEL NOME Venezia nell’Alto Medioevo non si chiamava cosí, ma la «città presso Rialto»: civitas aput Rivoaltum, infatti, la definisce l’Istoria Veneticorum. Del resto, il nome di Venezia (attribuito alla città e non a un territorio) non compare mai in quel testo. Ogni luogo ha un suo specifico nome. Come l’episcopio era stato fondato in Olivolo (poi Castello), cosí la nuova città, almeno in quella cronaca, si era sviluppata nell’area del Rivo Alto e da esso aveva preso nome. Se il nome dei luoghi ha un senso, bisognerà dunque pensare che l’arcipelago, che componeva quella che ora è la città di Venezia, non venisse percepito, tra IX e X secolo, come un insieme unitario, ma come la somma di una serie di luoghi diversi.

del ducato bizantino, detto anche – nei documenti ufficiali – provincia Venetiarum, a rimarcare la sua estensione territoriale, non legata a un solo centro urbano. Dopo la caduta definitiva di Oderzo in mano longobarda nel 667, il comando militare bizantino – e la popolazione intorno a esso – probabilmente si spostò a Civitanova, dove secondo le fonti scritte – non confermate però dall’archeologia – ci sarebbe stato un cospicuo intervento di Bisanzio. Nello stesso periodo, nella laguna nord, a Torcello, la fondazione della chiesa di S. Maria da parte del magister militum Maurizio testimonia la vitalità di questa parte del ducato veneziano. Nel secolo VIII il centro della vita politica si sposta decisamente in laguna: nell’isola di Olivolo (oggi S. Pietro di Castello), non lontano da Rialto, venne fondato il primo, vero episcopato lagunare del tutto indipendente da ogni legame, piú o meno mitico, con la terraferma, mentre Malamocco – di cui ignoriamo l’esatta ubicazione – e Rialto si contendevano il primato politico. In coincidenza con i fenomeni descritti prima – la pace di Aquisgrana e il decollo commerciale

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Ipotesi ricostruttiva degli edifici di piazza San Marco in età altomedievale. In basso: ricostruzione di un edificio in legno di età altomedievale, da scavi in Comacchio (Ferrara), analogo a quelli che dovevano sorgere in laguna nello stesso periodo.


– la prima dinastia ducale, quella dei Particiaci (o Partecipazi, n.d.r.) scelse Rialto come sua sede, fondando il palazzo ducale, con annessa la cappella che accolse le reliquie di S. Marco portate dai mercanti da Alessandria. Fu un evento che suggellò il primato urbano di Rialto: Civitas Rivoalti, infatti, è il nome medievale di Venezia. La vicinanza dell’episcopato di Olivolo e la fondazione di chiese e monasteri, in primo luogo il monastero ducale di S. Zaccaria, completarono il primo nucleo della Venezia altomedievale.

La laguna e i suoi bordi erano stati luoghi popolosi per tutto l’Alto Medioevo, erano spazi che avevano dato origine ad abitati e comunità con una propria fisionomia, anche sul versante istituzionale (non bisogna dimenticare l’alto numero di sedi vescovili che qui vennero fondate nell’Alto Medioevo). Tuttavia, molti di questi insediamenti sono scomparsi, e di loro non rimane quasi piú nulla. Entro certi limiti, l’archeologia è la sola in grado di restituircene la fisionomia materiale e la traiettoria insediativa. Non è forse un caso che le prime ricerche di archeologia, condotte con metodi scientifici, ♦ Professor Gelichi, molti di questi edifici oggi siano state sperimentate agli inizi degli anni Sessanta del sono scomparsi. L’archeologia può aiutarci a secolo scorso proprio a Torcello. E forse non è un caso se il progetto archeologico piú importante degli ultimi conoscerli? a r c h e o 49


SCOPERTE • VENEZIA

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In questa pagina, dall’alto, in senso orario: vera da pozzo altomedievale; sarcofago di Sant’Ilario (Venezia, Museo Archeologico Nazionale); sarcofago di Antoninus Tribunus (Jesolo, in deposito). IX-X sec. Nella pagina accanto: Torcello, basilica di S. Maria Assunta (VII-XI sec.). Mosaico raffigurante il Giudizio Universale.

anni sia proprio quello che si sta conducendo nel sito dove si trovava l’antica Equilo (ai limiti settentrionali dell’odierno Jesolo Paese, n.d.r..). Sono due abitati abbandonati, entrambi nella laguna nord, che offrono agli archeologi delle straordinarie opportunità: l’ottima conservazione dei depositi e la possibilità di poter scegliere con libertà dove condurre le indagini – al contrario di quanto avviene a Venezia, dove il costruito è tale da condizionare molto le ricerche. ♦ E dei primi Veneziani cosa sappiamo? È possibile tracciarne un identikit sociale e antropologico? Gli archeologi hanno la possibilità di conoscere direttamente gli individui e le comunità di cui indagano gli oggetti e i monumenti grazie a quegli straordinari archivi biologici e sociali che sono le necropoli. Eppure, i cimiteri scavati in laguna sono pochissimi, e quasi nessuno di epoca altomedievale. Quanto possa essere rivelatore, invece, sviluppare ricerche di questo tipo lo dimostrano i recenti scavi di una necropoli attorno a un edificio di culto, sempre nell’area dell’antica Equilo. Qui, circa 150 individui ci raccontano storie di lavoro e di violenza familiare, di malattie endemiche (la talassemia per esempio), di cultura alimentare e di rapporto con le risorse, di pietà religiosa e di comportamenti sociali.

menti e non erano mancate occasioni di confronto e tali da portarci a convenire sull’esistenza di tutta una serie di criticità e di luoghi comuni che ancora gravano sulle storie piú antiche della laguna – e che, a nostro giudizio, andavano affrontati. Scrivere questo libro, dunque, è stata quasi una decisione naturale. Man mano che procedevamo nel lavoro, però, ci siamo accorti che difficilmente saremmo arrivati a un testo che rappresentasse la sintesi di due modi differenti di guardare uno stesso problema: le fonti utilizzate erano diverse e diversi erano i risultati delle ricerche. Cosí abbiamo preferito lasciare il libro diviso in due parti, in cui ciascuno di noi avesse la possibilità di impostare la riflessione critica secondo una propria personale prospettiva e una propria cifra stilistica. Una suddivisione che ci ha anche permesso di mantenere quelle lievi differenze interpretative che, del resto, costituiscono il lievito di una buona ricerca scientifica. Ci auguriamo che questa scelta non disorienti il lettore ma, anzi, lo aiuti a entrare meglio nel merito dei singoli argomenti.

♦ Questo libro è stato scritto da un archeologo e PER SAPERENE DI PIÚ da uno storico: come è stata questa convivenza tra due discipline diverse anche se sorelle? Stefano Gasparri, Sauro Gelichi, Le isole del rifugio. Ambedue avevamo da tempo lavorato su questi argo- Venezia prima di Venezia, Editori Laterza, 2024 a r c h e o 51




MOSTRE • TRENTINO

IL POTERE

DELL’ESTASI

È DEDICATO ALLO SCIAMANESIMO UN AFFASCINANTE PROGETTO ESPOSITIVO REALIZZATO DA TRE IMPORTANTI MUSEI DEL TRENTINO. CON L’OBIETTIVO DI INDAGARE PRATICHE DALLE RADICI ANCESTRALI, ALLA CUI BASE C’È IL RAGGIUNGIMENTO DI UNO STATO ALTERATO DI COSCIENZA di Stefano Mammini 54 a r c h e o


Particolare di una maschera rituale selezionata per la mostra «Sciamani. Comunicare l’invisibile». Questo e gli altri reperti sciamanici riprodotti nell’articolo sono stati concessi in prestito dalla Fondazione Sergio Poggianella di Rovereto e provengono da culture mongole, siberiane e cinesi.

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MOSTRE • TRENTINO

G

li sciamani sono personaggi difficili da classificare, fin dal nome. Del vocabolo che li designa sappiamo infatti che deriva da lingue tunguse, vale a dire della regione siberiana, ma, a tutt’oggi, non è stato possibile trovarne una corrispondenza esatta. Sciamani e sciamanesimo sono quindi termini convenzionali, adottati dal mondo antropologico occidentale per trattare un fenomeno che, pur nelle sue numerose declinazioni, è comunque accomunato dalla trance: il raggiungimento di uno stato alterato di coscienza è infatti la condizione necessaria perché gli operatori possano effettuare con successo i propri interventi.

È questa una delle prime coordinate del percorso espositivo di «Sciamani», la mostra realizzata grazie all’impegno congiunto del MUSE (Museo delle Scienze) di Trento, del METS (Museo etnografico trentino San Michele) di San Michele all’Adige e del MART (Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto) di Rovereto. L’esposizione è distribuita in due sedi: a Trento, in Palazzo delle Albere, sono allestite le sezioni di «Comunicare l’invisibile», curate dal MUSE e dal MART, mentre il METS di San Michele all’Adige ospita (e ha curato) «Téchne, spirito, idea» (vedi box alle pp. 62-63). Protagonisti principali della mostra

Frase colorata maximai onsectiorem fugiam, sanis mi, quoditae. Et expliquis olumqui quaerspit omnis

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Sulle due pagine: particolari dell’allestimento della sezione della mostra «Sciamani» allestita a Trento, in Palazzo delle Albere. Qui sono stati riuniti reperti sciamanici della Fondazione Sergio Poggianella (in alto a sinistra e sulle due pagine), insieme a materiali del MUSE-Museo delle Scienze e opere selezionate dal MART di Rovereto (qui accanto), che ha partecipato al progetto espositivo.


sono i reperti sciamanici concessi in prestito dalla Fondazione Sergio Poggianella di Rovereto: si tratta di oltre cento manufatti, originari di Cina, Siberia e Mongolia, che lo stesso Poggianella ha riunito a partire dal 2000, trasformando la sua curiosità di gallerista e collezionista in una vera e propria passione, che lo ha anche portato a laurearsi in antropologia. Acquistati in prevalenza sul mercato antiquario di Ulan Bator, sono materiali vecchi

di 100-150 anni, ma che senza alcun dubbio derivano da modelli e tradizioni ben piú antiche e che, soprattutto, possiedono un eccezionale valore documentario per rituali che, peraltro, sono ancora praticati nelle regioni d’origine.

che hanno un ruolo essenziale nelle cerimonie sciamaniche dell’area sino-mongola-siberiana, nelle quali lo stato di trance viene raggiunto attraverso il suono e la danza e non grazie all’uso di sostanze psicotrope, come attestato, per esempio, presso molte culture sudamericane. La sezione della mostra curata dal SUONO E DANZE PER VARCARE I CONFINI MUSE, oltre a illustrare le questioni Spiccano soprattutto i costumi, ac- terminologiche accennate in apercompagnati da copricapi, calzature tura, ripercorre la assai poco lusine tamburi. Strumenti, questi ultimi, ghiera considerazione che per luna r c h e o 57


MOSTRE • TRENTINO

ghi secoli fu riservata agli sciamani. Fra il XIII e il XIX secolo, infatti, fin dalle prime testimonianze di Marco Polo, essi furono descritti come negromanti, adoratori del diavolo, pseudo-sacerdoti: giudizi sui quali evidentemente pesava la lente, in questo caso deformante, della religione cristiana. Piú tardi, con l’avvento dell’illuminismo, venne loro assegnata la patente di mediocri attori e nell’Enciclopedia di Diderot e d’Alembert il termine sciamano fece la sua prima comparsa ufficiale, ma non ebbe miglior fortuna, poiché si spiegava che in Siberia esso designava gli impostori che svolgevano abusivamente le funzioni di sacerdoti, giocolieri e maghi. Né andò meglio con la zarina CaIn alto: maschera rituale in legno e crine di cavallo raffigurante il demone terina la Grande, la quale, dilettandosi nella composizione di opere Yeluri, dalla Mongolia interna, etnia teatrali, volle dedicarne una agli Manchu. Seconda metà del XX sec. In basso: terminazione di rame dorato a sciamani, che comunque definí come persone i cui comportamenti forma di cavallo di un palo utilizzato andavano oltre la follia e altro non per definire un recinto sacro, dalla Mongolia settentrionale. XVIII-XIX sec. erano che gente superstiziosa, ignorante, malata di misticismo. Insomma, almeno fino a tutto l’Ottocento lo sciamano era, nella migliore delle ipotesi, una sorta di buon selvaggio, mentre nella peggiore valeva per lui la qualifica di imbroglione.

REPERTI E CONTESTI A queste ascientifiche valutazioni, che è comunque utile conoscere per avere un quadro generale sull’argomento, fa da contraltare l’approccio che ha segnato la realizzazione del progetto espositivo e del quale l’allestimento riflette a pieno le linee guida, in un confronto tra piú discipline – antropologia, etnografia, archeologia... – che si rivela la carta vincente dell’intera operazione. Peraltro esplicitato dai contributi video che affiancano i materiali, con interviste ai curatori coinvolti nell’iniziativa. Le loro parole offrono chiavi di lettura chiare ed essenziali e, con l’ausilio degli apparati esplicativi e di installazioni 58 a r c h e o

Sulle due pagine: costume sciamanico in pelle di pecora, dalla Mongolia settentrionale. XIX-XX sec. Nella pagina accanto: tamburo in cuoio di cervo, Prima metà del XX sec.


multimediali, permettono non soltanto di apprezzare gli spettacolari materiali della Fondazione Poggianella, ma anche, e soprattutto, di immaginarne l’utilizzo e i contesti nei quali quest’ultimo aveva (e ha) luogo. Una descrizione sistematica di quanto si può vedere nelle sale di Palazzo delle Albere sarebbe qui impossibile, mentre si possono senz’altro sottolineare alcune caratteristiche ricorrenti, fra quelle che piú connotano i manufatti.

AL GALOPPO VERSO L’OLTREMONDO Emerge nettissimo, per esempio, il costante rapporto con in mondo animale. Un rapporto che si traduce nella selezione delle materie prime con cui fabbricare costumi e altri accessori, come pelli, piume, ossa o corna. E, accanto alla dimensione materica, il mondo animale entra poi in gioco in termini di rappresentazione e come elemento simbolico. Un caso esemplare è quello del cavallo: molti bastoni sciamanici di provenienza mongola hanno terminazioni di forma equina e si potrebbe pensare che la scelta sia dettata dal fatto che le popolazioni della Mongolia hanno sviluppato nel a r c h e o 59


MOSTRE • TRENTINO

tempo un rapporto quasi simbiotico con quegli animali; in realtà, i bastoni sono cosí conformati peché lo sciamano, nel momento in cui opera, li agita fino a trasformarli, idealmente, in un cavallo che, lanciato al galoppo, gli consentirà di rag-

giungere i mondi altri accessibili grazie alla trance. Si tratta quindi di scelte solo all’apparenza estetiche, poiché la forma assume un valore funzionale: un bastone che avesse le fattezze di uno yak o di uno scoiattolo, risulterebbe inadatto

allo scopo ricercato dallo sciamano, poiché nessuno di questi animali potrebbe essere cavalcato o possiede la prerogativa di correre al galoppo. Come già ricordato, gli sciamani dell’area da cui provengono i reperti raggiungono lo In questa pagina: pietra dipinta con figura umana, dal Riparo Dalmeri. Paleolitico Superiore, 13 200 anni fa circa. Trento, MUSE. L’immagine potrebbe essere il ritratto di una personalità di spicco del gruppo di cacciatori-raccoglitori che frequentava il sito. Nella pagina accanto, in alto, a sinistra: un ongon, una statuetta che rappresenta un antenato o uno spirito ultraterreno. Nella pagina accanto, in alto, a destra: ciottolo che reca incisa una figura per metà animale e per metà umana, rinvenuto nel 1884 presso Tolentino (Macerata). Paleolitico Superiore, 10 000 anni fa circa. Ancona, Museo Archeologico Nazionale delle Marche. Nella pagina accanto, in basso: particolare di una colonna sciamanica in legno con scene allegoriche, dalla Mongolia Interna, etnia Manchu. Seconda metà del XX sec.

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stato alterato di coscienza grazie al suono, prodotto in questo caso dai tamburi. Se ne possono vedere numerosi esemplari che, ancora una volta, differiscono, oltre che per le dimensioni, per il tipo di pelli e legno scelti per la loro fabbricazione. Ogni sciamano possiede il suo strumento, che, in origine, lo seguiva anche nella tomba. Al momento della morte, il rituale prevedeva la deposizione del defunto su un tavolato, vestito del suo costume e accompagnato dal tamburo, che veniva tagliato, affinché non fosse piú possibile utilizzarlo. Una pratica che mostra singolari affinità con piú di

una cultura dell’età del Bronzo europea, presso le quali sono attestate analoghe operazioni di defunzionalizzazione di strumenti e armi. In tempi piú recenti, la sacralità e l’inviolabilità dei tamburi sono venute meno, tanto che in mostra se ne possono vedere alcuni che, evidentemente recuperati, sono stati ricuciti perché potessero nuovamente emettere il loro suono. Era invece consentito ereditare la statuetta ongon (ongod al plurale) di uno sciamano defunto. Si tratta di figurine identificate come rappresentazioni degli spiriti che aiutavano lo sciamano a diventare tale e poi lo sostenevano nell’esercizio della sua attività oppure come immagini di antenati sciamani, che comunque avrebbero avuto le funzioni di guida. Entità con le quali gli sciamani stabilivano in ogni caso legami assai stretti e che venivano spesso inserite all’interno dei tamburi oppure aggiunte ai bastoni.

TRE MONDI Molti oggetti rappresentano plasticamente il ruolo di mediatore dello sciamano come mediatore fra mondi diversi: quello di mezzo, nel quale l’individuo vive la propria esistenza quotidiana, sovrastato da un mondo superiore, nel quale risiedono entità benevole, e sotto il quale sta invece il mondo inferiore, abitato da entità malevole. Lo si può constatare, in particolare, grazie a due spettacolari colonne in legno intagliato (vedi foto qui accanto): nella prima, si vedono alcuni orsi che cercano di risalire dalla loro condizione di inferiorità, ma vengono ostacolati dalle aquile, mentre piú in alto stanno divinità femminili che scaraventano verso il basso una persona che cerca di ar(segue a p. 64) a r c h e o 61


MOSTRE • TRENTINO

UNA CASA PER GLI ANTICHI SAPERI Il coinvolgimento del METS nel progetto «Sciamani» si è tradotto nell’allestimento della sezione della mostra intitolata «Téchne, spirito, idea»: una scelta programmatica precisa,

poiché il Museo etnografico trentino San Michele all’Adige, documentando le tecnologie contadine, offre un patrimonio di materiali fra i quali non è stato difficile individuare legami e punti di contatto con i reperti sciamanici della Fondazione Poggianella. Per esempio, per ciò che riguarda la scelta e la lavorazione delle materie prime naturali con cui fabbricare utensili e accessori. Un dialogo ideale che si è scelto di arricchire distribuendo in alcune sale del METS opere di 11 artisti contemporanei invitati a realizzare creazioni

ispirate al tema dello sciamanesimo. Ne è cosí scaturito un racconto suggestivo e originale, che rafforza l’idea di un linguaggio sciamanico capace di superare confini temporali e geografici. E la visita della mostra può anche essere l’occasione per scoprire la ricchezza di una raccolta straordinaria, frutto della appassionata tenacia e lungimiranza dell’etnografo e saggista In alto, sulle pagine: la sala del Museo Etnografico Trentino di San Michele all’Adige dedicata all’agricoltura. A sinistra: l’ex convento agostiniano di San Michele all’Adige, divenuto sede del METS nel 1968. Qui accanto: particolare delle legature della iurta turkmena esposta al METS. Prima metà del XX sec.


trentino Giuseppe Šebesta (1919-2005), al quale si devono il recupero e il salvataggio di migliaia di oggetti, ordinati in museo nel 1968, nell’ex convento agostiniano di San Michele all’Adige. Il percorso del METS si snoda attraverso 42 sale, nelle quali sono attualmente esposti circa 8000 oggetti, pari alla metà dell’intero patrimonio custodito dalla collezione. E proprio per dare visibilità anche ai materiali in questo momento chiusi nei depositi è allo studio il riallestimento del museo, secondo criteri che prevedano la rotazione degli oggetti e la possibilità di includere nella visita anche i magazzini. La raccolta del METS ha un valore documentario eccezionale, poiché racconta di un mondo in larga parte mutato o scomparso e le cui testimonianze, anche se vecchie, in molti casi, solo di pochi decenni, hanno ormai assunto lo status di autentici reperti archeologici. Si tratta di strumenti e macchinari che

Trasfigurazione, scultura in radice di cirmolo affiorata e resina di Luca Pojer. 2022.

permettono di scoprire e apprezzare le tecnologie contadine di montagna, affinate da comunità capaci di sfruttare al meglio le potenzialità di materie prime elementari – come legno, fibre vegetali o metalli –, per metterle al servizio di lavori impegnativi e faticosi. Tuttavia, falci, setacci, telai, stampi per il burro o arnie non sono soltanto il variegato campionario delle applicazioni di antichi saperi, perché, offrono anche uno spaccato dell’assetto

sociale ed economico delle comunità insediate sul territorio, svelando dinamiche ben diverse dalle attuali, in cui l’industria turistica ha attirato gran parte delle forze un tempo dedite al lavoro nei campi, nei boschi e nelle stalle. Senza con questo voler evocare teorie luddiste, la visita del METS regala fotografie di un piccolo/ grande mondo antico, che oggi sopravvive appunto come testimonianza etnografica. L’allestimento attuale occupa i cinque

livelli dell’ex convento ed è diviso in 25 sezioni, che spaziano dal lavoro dei campi alla forgia dei metalli, dall’arte del legno alle pratiche religiose, dalla produzione dei tessuti all’allevamento degli animali... Un percorso vivace, ricco di curiosità, e che, in occasione della mostra «Téchne», si conclude con un colpo d’occhio tanto inaspettato quanto spettacolare: quello offerto da una yurta originale turkmena montata nel cortile dell’edificio. a r c h e o 63


MOSTRE • TRENTINO

rampicarsi; nella seconda, ambientata in un paesaggio acquatico, il registro inferiore è occupato da squali che vengono controllati dalle foche del mondo di mezzo, sovrastate da una donna con testa d’aquila che allatta un bambino, circondata da uccelli. Di fronte a opere come queste, appare evidente – nonostante lo sciamanesimo, è bene ricordarlo, non sia una religione – la volontà di rappresentare una sorta di cosmogonia sciamanica, cosí come è difficile non vedere in alcune delle scene le affinità con archetipi che potremmo definire universali e che ricorrono anche in culture geograficamente e temporalmente lontane da quelle a cui sono ascrivibili i reperti in mostra.

UN PERSONAGGIO EMINENTE A rafforzare la sensazione che anche le espressioni moderne dello sciamanesimo parlino una lingua ancestrale e condivisa contribuisce la sezione piú propriamente archeologica della mostra. La selezione dei reperti è qui particolarmente significativa, a cominciare da una delle pietre dipinte rinvenute nel Riparo Dalmeri (Grigno,Trento), sito che è stato oggetto di lunghe e approfondite indagini condotte dal MUSE (vedi «Archeo» n. 233, luglio 2004). Il ciottolo mostra una figura umana che indossa un copricapo con due evidenti protuberanze (una maschera?) e ha le gambe allargate, forse perché seduta oppure in posizione assorta di danza o preghiera (vedi foto a p. 60). Questa pietra era collocata in posizione rilevata ed era di dimensioni nettamente maggiori rispetto alle molte altre che la circondavano. È stata perciò interpretata come il ritratto di una personalità di spicco – uno sciamano? – all’interno del gruppo di cacciatori-raccoglitori che, durante la bella stagione, frequentavano il riparo in quota. 64 a r c h e o


Qui sopra: una vetrina nella quale sono riuniti vari bastoni sciamanici. A destra: copricapo provvisto di frange che servivano sia a nascondere il volto dello sciamano, sia, essendo agitate dai suoi movimenti, a favorire il raggiungimento dello stato alterato di coscienza necessario per operare. Nella pagina accanto: un costume sciamanico completo di calzature fabbricate con pelle di pecora e provviste di sonagli, dalla Mongolia settentrionale.

Al misterioso personaggio fanno da corona manufatti altrettanto significativi, come nel caso del ciottolo trovato nel 1884 durante lavori di scavo in una cava di argilla nei pressi di Tolentino (Macerata). Su una faccia della piccola pietra (12,7 cm) è incisa una figura per metà umana e per metà animale (teriomorfo; vedi foto a p. 61, in alto, a destra): si riconosce un corpo femminile, con seni e triangolo pubico ben evidenti, che ha però la testa da alcuni attribuita a un erbivoro, da altri a un canide. Sull’altra faccia è invece incisa una testa zoomorfa e la presenza delle due raffigurazioni suggerisce che il ciottolo, databile al Paleolitico Superiore (10 000 anni fa circa), sia stato una sorta di talismano, anche se le scalfitture rilevate sulla sua sommità provano che venne comunque usato come percussore per la scheggiatura della selce. Pienamente «sciamanico», se pen-

siamo ai costanti riferimenti al mondo animale evidenziati dai materiali della Fondazione Poggianella, è poi l’uomo-leone (Löwenmensch) rinvenuto nella grotta di Hohlenstein-Stadel (Giura Svevo, Germania). Alta una trentina di centimetri e risalente anch’essa al Paleolitico Superiore, la statuetta è stata ricavata dalla zanna di un mammut e le repliche sperimentali che ne sono state ricavate hanno dimostrato che la sua scultura, per mezzo di strumenti in pietra, può aver richiesto non meno di due mesi di lavoro. Un simile investimento in termini di tempo e fatica suggerisce che l’uomo-leone abbia avuto un significato particolare per il gruppo e che si trattasse di un simbolo favorevole di aggressione e forza, oppure della proprietà, appunto, di un temuto sciamano. Le tradizioni sciamaniche vengono dunque da lontano e il gioco dei

rimandi fra un passato ancora vivente in molte regioni del mondo e le testimonianze che possiamo porre alle radici del fenomeno è senza dubbio uno degli elementi di maggior interesse della mostra trentina. Che, prorogata fino al prossimo 6 ottobre, è uno dei progetti espositivi piú originali e interessanti di questo 2024. DOVE E QUANDO «Sciamani. Comunicare con l’invisibile» Trento, Palazzo delle Albere «Sciamani. Téchne, spirito, idea» San Michele all’Adige, METS-Museo etnografico trentino San Michele fino al 6 ottobre Orario Trento, Palazzo delle Albere, ma-ve, 10,00-18,00; sa-do e festivi, 10,00-19,00; lunedí chiuso San Michele all’Adige, METS, tutti i giorni, 10,00-18,00; chiuso il lunedí non festivo Info www.muse.it, www.museosanmichele.it a r c h e o 65


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MUSEI • AOSTA

DI TUTTI, PER TUTTI GRAZIE AL PROGETTO META\MAR, IL MUSEO ARCHEOLOGICO REGIONALE DI AOSTA SI PRESENTA IN UN ALLESTIMENTO INTEGRALMENTE RINNOVATO. FRUTTO DI UN’INIZIATIVA CONDIVISA CON GLI UTENTI, CHIAMATI A FARSI PARTE ATTIVA NELLA VALORIZZAZIONE DEL PATRIMONIO di Maria Cristina Ronc e Stefano Mammini

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l patrimonio archeologico di Aosta romana era noto fin dalla metà del XVIII secolo. La città e il suo territorio furono oggetto di interessi paesaggistici e archeologici fin dal Grand Tour d’Italie e dal Grand

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Tour des Alpes e soprattutto i viaggiatori inglesi risentivano ugualmente del fascino delle montagne, delle rovine dei castelli, non meno che della monumentalità del capoluogo. Fu quello il lontano avvio del

turismo culturale in Valle d’Aosta. Ora, invece, è tempo di tracciare un nuovo profilo di utente, dal turista sempre piú attento ed esigente al residente consapevole e responsabile del proprio passato, al fine di


Un particolare del nuovo allestimento del MARMuseo Archeologico Regionale di Aosta.

progettare il MAR-Museo Archeologico Regionale del futuro. Da molti decenni l’indagine archeologica si avvale dei contributi multidisciplinari offerti da architetti, ingegneri, geologi, restauratori, chi-

mici, fisici che consentono di definire nuove metodologie di approccio al patrimonio globale e condiviso. Occorre adesso ampliare lo sguardo e l’analisi su scenari futuri, ancorché difficili da immaginare, e

rendersi aperti e disponibili mentalmente e culturalmente ai nuovi linguaggi e a prospettive che non perdano però di vista il principio secondo il quale la persona resta al centro della ricerca su cui si baserà l’esposizione museale.

IL COINVOLGIMENTO DEI CITTADINI Come già avvenuto in un passato recente, per esempio nell’ambito della valorizzazione – quando molti di noi, professionisti dello scavo, ci riconvertimmo verso gli ambiti della comunicazione e della musealizzazione –, siamo adesso di fronte a una stimolante fase di riflessione sociale sulla funzione del museo. Alla metà degli anni Ottanta, quando si cominciarono ad aprire i cantieri «ai non addetti ai lavori», con l’intento di avvicinare il grande pubblico alle scoperte connesse agli interventi edilizi, per lo piú urbani, si avviò, di fatto, una fase di condivisione dei progetti finanziati con denaro pubblico e i cittadini furono responsabilmente coinvolti nel cambiamento in corso. Da tempo si pubblicano lavori sul museo del terzo millennio e anche il Museo Archeologico Regionale di Aosta, nel suo rinnovarsi, non può non interrogarsi su tali indirizzi. Se vogliamo trovare una data d’inizio per questa avventura culturale multidisciplinare, possiamo farla coincidere con l’IMD – International Museum Day – svoltosi 18/19 maggio 2023. L’ICOM aveva allora suggerito come tema «Musei, Sostenibilità e benessere» e, in vista della riqualificazione del MAR e dei lavori di valorizzazione dei siti archeologici musealizzati in città e di alcuni monumenti iconici, quali l’Arco, previsti per le celebrazioni del 2050esimo anno dalla fondazione di Augusta Praetoria da parte di Ottaviano Augusto (25 a.C.), il Dipartimento Soprintendenza per i Beni e (segue a p. 72) a r c h e o 69


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UN MUSEO PARTECIPATO di Sandro Debono

Qualsiasi istituzione culturale partecipativa rappresenta un luogo nel quale i visitatori possono creare, condividere e connettersi gli uni con gli altri intorno ai suoi contenuti (Nina Simon, The Participatory Museum, 2010)

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mmagina un museo coinvolgente con un allestimento facile e accessibile, che non richieda competenze speciali per comprendere temi, narrazioni e reperti esposti. Immagina un museo dove ti sentiresti a tuo agio a scoprire le storie raccontate, dove puoi trovare risposte a svariate domande ipotetiche e dove potresti comprendere futuri possibili grazie a narrazioni e oggetti dal passato. Si potrebbe immaginare? Direi di sí. Storicamente i musei sono stati da sempre luoghi della conservazione e preservazione di oggetti, reperti e opere d’arte. Questi tesori loro affidati vengono spesso presentati al pubblico in visita come reliquie di un passato storico da riconoscere, studiare e comprendere. L’enfasi spesso riguarda i contenuti all’interno del contenitore museale con il pubblico museale che spesso passa in secondo piano. Gli ultimi sviluppi nella museologia europea riguardano piú che altro gli aspetti sociali. In poche parole, la socio-museologia, con le sue radici nelle pratiche di museologia sudamericana degli anni Settanta, riconosce pari rilevanza a contenuti e pubblici museali, ponendo maggiore enfasi sull’incontro di scoperta che avviene tra i due all’interno del museo. Infatti, anziché essere un luogo per conservare e preservare il patrimonio culturale, il museo diventa uno spazio sociale con un senso di luogo partecipato. 70 a r c h e o

Questo crescente interesse nella socio-museologia si accavalla con un approccio partecipativo da parte dei musei promosso da Nina Simon, ex direttore esecutivo del Museum of Art and History (MAH) di Santa Cruz (California), nel suo saggio The Participatory Museum (Il museo partecipativo, 2010). Successivamente, Simon ha lanciato il Movimento Of/By/For All (letteralmente, Di/da/per tutti). Questo movimento globale di

organizzazioni civiche e culturali si impegna a far diventare il museo parte integrante della propria comunità di appartenenza. Meno di cento musei e organizzazioni culturali dell’ecosistema museale internazionale si riconoscono nelle linee guida del movimento Of/By/For All. I musei europei costituiscono una piccolissima frazione nella quale è compreso un solo museo italiano, il Museo Nazionale della Scienza e


della Tecnologia Leonardo da Vinci (Milano). In linea di massima, pochi musei italiani si riconoscono nella pratica della socio-museologia, tanto meno adottando le linee guida del museo partecipativo di Nina Simon, e si tratta per lo piú di eco-musei. Il META\MAR MetamorphoseCantiere Museale Partecipato della Soprintendenza per i beni e le attività culturali della Valle d’Aosta inquadra perfettamente questo pensiero museologico. Invece di chiudere le porte al suo pubblico e procedere con i preparativi del nuovo allestimento museale come si fa di solito, il museo si è trasformato in uno spazio sperimentale guidato da pratiche socio-museologiche ed esperienze partecipative in sintonia con le ultime tendenze sul Sulle due pagine: altri particolari del nuovo allestimento del MAR, le cui soluzioni costituiscono l’esito del progetto META\MAR Metamorphose, Cantiere Museale Partecipato.

continente. Il progetto può essere paragonato anche a una cassetta degli attrezzi con la quale costruire una pratica partecipativa che informa un’esperienza museale centrata sul pubblico, in cerca di un equilibrio tra contenuti e pubblico museale. Tra gli strumenti contenuti nella scatola degli attrezzi del Cantiere Museale Partecipato troviamo anche il design thinking. La metodologia si incastra perfettamente nello schema partecipativo della socio-museologia al quale il nuovo Museo Archeologico Regionale di Aosta aspira. La metodologia non è del tutto nuova per i musei, spesso utilizzata per creare prodotti o esperienze specifiche come, per esempio, la creazione di

un’audioguida. Con il Cantiere Museale Partecipato si stanno cercando di definire nuovi percorsi e nuovi utilizzi. Siamo ancora all’inizio di un percorso che promette innovazione e approcci alternativi. a r c h e o 71


MUSEI • AOSTA

le Attività Culturali si era interrogato sul ruolo dei musei e sul loro significato nelle nostre comunità. Può il bene culturale aiutare lo sviluppo e il benessere della collettività, e che cosa può fare la comunità per valorizzare il patrimonio materiale e immateriale in cui è immerso? E se la soluzione consistesse nello studiare soluzioni pratiche di partecipazione collettiva? Le risposte si cercarono durante un workshop tenuto nella Sala multimediale del MAR, in un incontro tra istituzioni e associazioni culturali, di volontariato, le scuole, il

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Convitto Federico Chabod e, naturalmente, gli stakeholders e cittadini del quartiere. Gli esiti di quell’iniziativa ci hanno portato all’apertura, il 25 novembre 2023, del META\MAR, Metamorphose: un «cantiere» in allestimento e in costante metamorfosi, aperto a tutti, partecipato e condiviso.

SCOPRIRE LA STORIA «Qualunque cosa si faccia, si ricostruisce sempre il monumento a proprio modo; ma è già molto adoperare pietre autentiche» (Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano, Taccuini di Appunti). Questa citazione di Marguerite Yourcenar connotava lo spirito che, nel 2004, animò l’allestimento originario del MAR, la cui missione era quella di fornire al grande pubblico e alle scuole gli strumenti per scoprire la storia piú I cassetti di cui sono dotate le vetrine del MAR, contenenti le repliche dei reperti utilizzabili per le esperienze tattili. Nella pagina accanto, in alto: l’ex caserma Challant di piazza Roncas, trasformata in sede del Museo Archeologico Regionale negli anni Settanta del Novecento. Nella pagina accanto, in basso: l’arco onorario dedicato all’imperatore Ottaviano Augusto, fondatore di Augusta Praetoria nel 25 a.C.

antica della città e dei primi abitanti della regione. Forse perché allocato nel cuore della città, il museo ha avuto da sempre negli studenti i suoi principali fruitori. L’attenzione a questa tipologia di target portò, nel 2010, al primo rinnovamento del museo, con l’integrazione di grandi scenografie immersive e la collocazione sotto le vetrine dei «cassetti della memoria» contenenti le copie dei reperti esposti per comprendere le funzioni dei manufatti antichi. Il museo «A misura di bambino» consentiva di fare esperienza della storia studiata sui libri, di ripercorrere le conquiste, il pensiero e la forma delle rielaborazioni dell’uomo. Il percorso tematico-cronologico, dal Mesolitico (VII millennio a.C.) al Medioevo recente, ha consentito fino a questa nuova fase METAMORFICA di ripercorrere la storia

della quotidianità che, nelle sue tracce, ci parla di noi ora, uomini e donne contemporanei, ma indissolubilmente legati a una memoria storica collettiva. Il passato non si ricorda, si ricostruisce partendo dalle domande del presente: cosí il MAR è diventato per la sua città il luogo in cui le «storie» vivono e i reperti, da muti oggetti, diventano parole. Dalla metà degli anni Novanta, gli indirizzi di politica culturale hanno reso le indagini archeologiche in città un’occasione di conoscenza e di dialogo tra i cittadini contemporanei e quelli del passato. I cantieri di scavo si trasformavano in contesti di temporanea musealizzazione e diventavano luoghi di incontro, generando nuovi spazi di aggregazione. In quei momenti par(segue a p. 76)

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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UN MUSEO A MISURA DI FUTURO a cura di Marketing Toys

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ome sarà il futuro? Soprattutto, dove si svilupperà questo futuro? Sarà liquido, tra reale e virtuale? Come ci aspettiamo di vivere l’esperienza museale del futuro, e soprattutto chi saranno gli utenti dei musei dei prossimi 5, 10 o 20 anni? Queste sono solo alcune delle domande che ci siamo posti e che continuiamo a porci. La risposta, le risposte, le stiamo cercando, costruendo, e immaginando insieme a tutto il team di lavoro multidisciplinare del MAR. In un mondo in continuo cambiamento, emerge la necessità di un approccio

collaborativo e integrato che possa trasformare in valore i prodotti e i servizi, ivi compresi quelli museali. Intendiamo valore non solo per l’utente finale, ma per la comunità intera, valore per il territorio, valore per il prossimo futuro che presto sarà il presente delle nuove generazioni di utenti dei musei. Attraverso la condivisione di conoscenze, l’integrazione di prospettive diverse e l’adozione di metodologie innovative, possiamo plasmare un futuro sicuramente piú sostenibile, inclusivo e prospero. Sperimentare e capitalizzare i In alto: particolare dei dispositivi realizzati allo scopo di raccogliere le opinioni dei visitatori in merito all’allestimento del museo. A sinistra: un particolare dell’allestimento nel quale viene evidenziata la presenza di resti archeologici sotto l’edificio che ospita il MAR, visibili anche grazie alla pavimentazione trasparente.

risultati e i feedback che sistematicamente si raccolgono diventa quindi fondamentale. L’esperienza del META\MAR è essa stessa una sperimentazione: il team di lavoro composto da archeologi, consulenti, museologi, architetti, professionisti del marketing e della comunicazione ha lavorato sin dall’inizio in sinergia per poter iniziare a immaginare il museo del futuro attraverso un percorso di progettazione partecipato e condiviso che coinvolge gli utenti e il territorio. L’approccio utilizzato all’interno degli spazi museali non è stato invasivo, bensí ri-generativo, creando valore dall’integrazione e re-interpretazione degli spazi del 74 a r c h e o


Il nuovo allestimento della sala del Museo Archeologico Regionale in cui è esposto il plastico ricostruttivo in scala 1:200 di Augusta Praetoria.

MAR. È nata cosí anche la scelta di rivestire e non smontare i pannelli all’interno del museo, evidenziando la presenza di un cantiere e di una trasformazione in divenire, con i supporti di comunicazione, la segnaletica e l’utilizzo dei tipici colori (giallo e nero) dei cantieri in corso. Sono state fornite al visitatore quattro chiavi di lettura diverse che permettono di esplorare il museo: Viaggiare lo spazio/tempo, Sentirsi Archeologo, Sentirsi Romano, Sentirsi Museologo. Questo approccio – che si sovrappone al tradizionale percorso del MAR – permette ai visitatori di sperimentare un’esperienza museale estesa e arricchita, oltre che

permetterci di raccogliere importanti feedback sulla visita anche durante il percorso. Rigenerare quindi gli spazi, attraverso strumenti visivi e comunicativi che non dimenticano il vecchio ma lo valorizzano attraverso installazioni provvisorie (e transitorie) contribuendo a una nuova e piú ricca narrazione del museo e del viaggio all’interno del MAR. Il design thinking rappresenta uno dei principali metodi che applichiamo nel nostro lavoro e ci consente di immaginare prodotti e servizi secondo una logica precisa, ovvero quella di porre al centro della progettazione l’utente e i suoi bisogni. • La people-centricità: al cuore del metodo ci sono le persone, la loro

conoscenza, l’ascolto dei loro bisogni reali. • La sperimentazione: integra azioni, test, apprendimenti in modo iterativo. • L’adozione di un mindset ottimistico: ogni difficoltà rappresenta un’opportunità per generare creatività e innovazione. • La collaborazione e la fusione di prospettive diverse; riconosce l’importanza dei differenti punti di vista come arricchimento per trovare nuove soluzioni. Con questa prospettiva è possibile lavorare sui problemi, approcciarsi ai bisogni delle persone e disegnare prodotti e servizi che portino impatto e un contributo di valore reale. Cosí è stato naturale per noi applicare il design thinking al prodotto «museo» permettendoci non solo di ri-posizionare l’utente all’interno del sistema museale ma consentendoci di esplorare nuove possibili chiavi di lettura per l’attuale e il futuro utente del MAR durante la sua visita. Il progetto sta seguendo nel suo sviluppo ciascuna delle tipiche fasi/azioni del design thinking (empathy, define, ideate, prototype, test) con l’adozione di diversi strumenti per ciascuno dei momenti. Il percorso progettuale del MAR e META\MAR rappresenta sicuramente una novità per il settore museale italiano e internazionale, e sta permettendo a professionisti di discipline diverse di dialogare e sperimentare rispetto a un obiettivo e una visione comuni: mettere al centro dell’esperienza museale il visitatore e i suoi bisogni, contribuendo a immaginare quello che sarà il museo del futuro. a r c h e o 75


MUSEI • AOSTA La vetrina nella quale è esposto il busto in argento di Giove Graio, rinvenuto sul colle del Piccolo San Bernardo. Nella pagina accanto: ancora un particolare del nuovo allestimento del MAR. In basso: uno degli apparati facenti parte del percorso tattile offerto dal MAR.

ticolari la città sotterranea veniva alla luce, si svelava e nel lasciarsi scoprire offriva ai suoi abitanti una città raddoppiata anche dal punto di vista urbanistico perché, sotto quella attuale, ne emergeva una sconosciuta, nascosta e spesso diversa. Non solo: l’esperienza diventava anche interiore nella dilatazione della propria conoscenza e nel riappropriarsi di un patrimonio che significa per alcuni identità, per tutti memoria. Una città sotto-sopra sempre piú consapevole, attenta e disponibile, con un museo che le somiglia e vuole rappresentarla nei suoi intendimenti educativi di crescere insieme, anche nella formazione dei cives di domani. Anche nelle trasparenze dell’allestimento del MAR – riproposto ed esaltato nella fase META\ MAR – emerge la natura del dialogo tra le fasi architettoniche, come se le fondamenta della Porta Principalis Sinistra e del palazzo neoclassico costituissero le radici, l’ossatura stessa della storia in cui si susseguono le sue sale. Il MAR trova la sua collocazione 76 a r c h e o

non solo come museo tradizionale che raccoglie, conserva, tutela e espone i suoi reperti, ma il suo ruolo principale è quello di essere diventato una voce per l’intero patrimonio archeologico urbano e per i suoi resti piú o meno monumentali. Il suo percorso allestitivo raccorda semplicemente le varie tracce, crea

reti di congiunzione tra le epoche e le «cose» e rende visibile anche ciò che non lo è piú. Soprattutto, però, il MAR è sempre stato una fucina di attività. Ha svolto e svolge il compito di mediare e di porgere nelle svariate forme dei linguaggi la memoria di «noi» e dell’origine delle soluzioni ai nostri bisogni.


È stato detto che il museo è una grande «machine à lire»; e se il museo è un grande libro, le sale sono i suoi capitoli, le vetrine le sue pagine, i reperti le sue parole. Il racconto che ne scaturisce mette in ordine le parole e il testo si articola snodandosi tra le vetrine. Tuttavia, essendo per sua natura un luogo concluso deve essere inteso anche come luogo della sintesi.

L’ATTENZIONE PER I CONTESTI La fase transitoria che stiamo proponendo ai nostri visitatori in questi mesi tiene conto delle esperienze maturate in 20 anni e la spirale è pronta ad ampliarsi. I reperti saranno oggetto di una nuova

selezione, l’avanzamento delle ricerche archeologiche, arricchito sempre piú dalle analisi scientifiche, ne consentirà la rilettura e la loro potenzialità narrativa. Temi, concetti e lo stesso percorso andranno rivisti nella futura esperienza del nuovo MAR. Poiché il percorso espositivo terrà conto dei contesti di provenienza dei suoi reperti, si interfaccerà con essi anche con approfondimenti come se fossero link di un ipertesto. Questi saranno variamente sviluppati e arricchiranno trasversalmente le conoscenze ampliando le forme di educazione all’antico. Il museo è anche una «macchina del tempo» e diventa un’astronave, una piroga, una biga. Il museo è «tempo»

e diventa calendario, operosità e otium. Il museo è «natura» e diventa clima, migrazioni, commercio, cosmesi, medicina, riti. Il museo è «materia» e diventa nome di un liberto su un’epigrafe, impronta di una mano su di un tubulo, spada di cavaliere. DOVE E QUANDO MAR-Museo Archeologico Regionale Aosta, piazza Roncas 12 Orario apr-set: 9,00-19,00; ott-mar, 10,00-13,00 e 14,00-18,00 Info tel. 0165275902; e-mail: beniculturali@regione.vda.it a r c h e o 77


ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/14

UN QUARANTOTTO A CARTAGINE

GUSTAVE FLAUBERT AMBIENTÒ IL ROMANZO SALAMMBÔ NELLA CITTÀ DI AMILCARE E DI ANNIBALE, E, PER LA SUA STESURA, RACCOLSE UNA DOCUMENTAZIONE IMPONENTE, ISPIRANDOSI SOPRATTUTTO ALLO STORICO POLIBIO. MA LA SCELTA DI PORRE UN’ENFASI PARTICOLARE SULLA RIVOLTA DEI MERCENARI VENNE QUASI CERTAMENTE DETTATA DAI TUMULTI CHE AGITAVANO L’EUROPA DI METÀ OTTOCENTO di Giuseppe M. Della Fina Lo scrittore Gustave Flaubert (1821-1880) in un olio su tela di Pierre François Eugène Giraud. 1867. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon. Nella pagina accanto: Salammbô, olio su tela di Gaston Bussière. 1920. Mâcon, Musée des Ursulines.

«C

’était à Mégara, faubourg de Carthage, dans les jardins d’Hamilcar» («Era a Megara, sobborgo di Cartagine, nei giardini di Amilcare»), è uno degli incipit piú noti e apprezzati della narrativa francese. Inizia cosí il romanzo Salammbô di Gustave Flaubert, che lo scrittore pubblicò a Parigi nel novembre del 1862 per l’editore Michel Lévy, a conclusione di un lungo e accurato lavoro di documentazione avviato nell’estate del 1857. Quando iniziò a lavorarvi, il suo primo e celebre romanzo, Madame Bovary, era stato pubblicato da pochi mesi, in sei puntate, sulla rivista Re-

LA FIGLIA DI AMILCARE BARCA Amilcare Barca è noto per essere stato il padre di Annibale, uno dei piú abili condottieri del mondo antico, ma ebbe con sicurezza almeno anche una figlia: lo ricorda lo storico Polibio, il quale sostiene che il padre l’avrebbe promessa in sposa al comandante numida Narava (Narr’Havas, nel romanzo). Un altro autorevole storico, Tito Livio, rammenta la stessa figlia, o un’altra, sposata con un guerriero cartaginese di stirpe nobile. Nessuno dei due storici ne indica il nome. È lo scrittore Gustave Flaubert a darle il nome di Salammbô

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vue de Paris e l’uscita era stata accompagnata da uno strascico di polemiche, compresa un’accusa di oltraggio alla morale pubblica e religiosa da cui Flaubert dovette difendersi dinanzi al Tribunale di Parigi. Imputazione da cui venne assolto nel febbraio del 1857. Il nuovo romanzo fu subito un successo: secondo la testimonianza di Charles Baudelaire, duemila copie andarono esaurite in due giorni. Quale periodo storico affronta? Gli anni della storia di Cartagine, com80 a r c h e o

Il massacro dei mercenari in rivolta a Cartagine in una tavola realizzata da Gustave Surand per un’edizione del Salammbô di Flaubert. 1896. Nella pagina accanto: Gustave Flaubert in una foto scattata intorno al 1860.

presi tra il 240 e il 238 a.C., incastonati tra la prima e la seconda guerra punica e caratterizzati dalla rivolta dei mercenari. Uno scontro che mise a rischio l’esistenza stessa della città e il suo ruolo in Africa settentrionale e nel Mediterraneo. Ampia è la documentazione esaminata dallo scrittore: fonti letterarie del mondo classico, quali, per esem-

pio, Erodoto, Senofonte, Polibio, Diodoro Siculo, ma anche l’Antico Testamento. Né mancò di consultare pubblicazioni di archeologia e storia antica, cosí come ebbe un’attenzione notevole per le testimonianze archeologiche. Visitò inoltre i luoghi nei quali avrebbe ambientato il romanzo: tra il 12 aprile e il 10 giugno 1858 rag-


interessante andare a consultare l’opera per individuare i punti di contatto e le differenze tra lo scrittore dell’Ottocento e lo storico vissuto durante il II secolo a.C. Non si tratta di un invito a un lavoro erudito e fine a se stesso, ma di entrare – verrebbe da dire – nel laboratorio di uno scrittore di romanzi storici e Salammbô costituisce di sicuro un’occasione privilegiata. Innanzitutto Flaubert dà credito all’indicazione dello stor ico sull’importanza dello scontro con i mercenari nella storia di Cartagine, poco noto rispetto ad altri episodi della storia della città. Polibio, in proposito, scrive: «Una guerra non piccola né di poco conto, quella contro i mercenari, e contro i Numidi e i Libi che si erano ribellati insieme a loro. Nella quale, dopo aver sopportato molte e gravi minacce, alla fine [i Cartaginesi] misero in pericolo non solo il loro

territorio, ma anche se stessi e il suolo della patria» (I, 65, 3-4). Poche righe, in fondo, ma che lo scrittore seppe intendere. Sulla scelta di raccontare una rivolta – come è stato fatto notare – influí, con ogni probabilità, anche il ricordo di una sommossa, repressa, molto piú vicina nel tempo e nei luoghi: le giornate rivoluzionarie del 1848 in Francia, come in altri Paesi europei.

PROFILI COINCIDENTI Alcuni dei personaggi principali del romanzo sono ripresi direttamente dai capitoli di Polibio dedicati alla rivolta: Matho, Spendio, Narr’Havas (Narava), Amilcare Barca. Quest’ultimo è ritenuto dallo storico greco come il comandante migliore per giudizio e audacia: una valutazione che ritorna nel personaggio delineato dallo scrittore nel romanzo. Matho, per Polibio, è un uomo libe-

UN AVVOCATO MANCATO

giunse Costantina,Tunisi e Cartagine, rimpiendo pagine di appunti. Al ritorno, tra sabato 12 e domenica 13 giugno, annotò: «Tutto è confuso nella mia testa, mi sento come se uscissi da un ballo mascherato durato due mesi. Riuscirò a lavorare? Mi annoierò? (...) A me, potenze dell’emozione plastica! Resurrezione del passato, a me, a me!». Le letture di Gustave Flaubert furono numerose, come si è appena accennato, ma le Storie di Polibio costituiscono la fonte principale ed è

Gustave Flaubert nacque a Rouen nel 1821 e studiò inizialmente nel locale Collegio Reale. Conseguí il baccalauréat nel 1840 da privatista, essendo stato allontanato dal Collegio per indisciplina. Passò poi a studiare Legge presso l’Università di Parigi (1841-1844); abbandonati gli studi giuridici, il suo interesse si volse verso la letteratura. Dal novembre del 1849 al maggio 1851 viaggiò a lungo in Oriente e in Italia insieme all’amico Maxime Du Camp. Nel 1857 pubblicò uno dei suoi romanzi piú noti, Madame Bovary, uscito in precedenza a puntate nelle pagine della Revue de Paris. Il secondo romanzo, Salammbô, venne pubblicato alcuni anni piú tardi, nel 1862. Tra le opere successive vanno ricordate, almeno, Education sentimental, che riprende un testo iniziato a scrivere nel 1845, e Bouvard et Pécuchet, al quale

lavorò sino agli ultimi mesi della sua vita, conclusasi a Croisset, a pochi chilometri da Rouen, nel maggio del 1880.

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ro di origine libica e uno dei capi della rivolta, dotato di notevoli capacità militari: un giudizio ripreso nelle pagine del romanzo. Rispetto alle informazioni storiche giunte fino a noi su Matho, Flaubert aggiunge il colpo di fulmine e il conseguente innamoramento per Salammbô, intravista da lontano mentre si trovava nei giardini della casa del padre dove i mercenari sta-

vano gozzovigliando e prendendosi scherno delle tradizioni cartaginesi, ricorrendo anche alla violenza: «Di colpo si illuminò la terrazza piú alta del palazzo, la porta centrale si aprí e una donna, la figlia di Amilcare in persona, tutta coperta di vesti nere, apparve sulla soglia (...) Le braccia, cariche di diamanti, uscivano nude dalla tunica senza maniche, nera ma illuminata da piccoli fiori rossi. Una

A destra, sulle due pagine: cippi funerari nel «tofet» cartaginese di Salammbô. In basso: tavola di Pierre Méjanel raffigurante Salomone che, dopo aver abbandonato il culto di Yahweh, offre sacrifici in onore di Moloch, dall’opera Les Mystères de la Franc-Maçonnerie devoilés. Parigi, 1886.

IL SACRIFICIO PER MOLOCH Tra le pagine piú note di Salammbô vi sono quelle dove viene descritto il sacrificio di fanciulli da parte dei Cartaginesi per ottenere il favore del dio Moloch e il suo aiuto nel fermare i mercenari, che stavano assediando la città. Gustave

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Flaubert riprende la notizia dallo storico greco Diodoro Siculo, vissuto tra il 90 e il 20 a.C. circa, che presenta il dio cartaginese nella veste di Cronos. Egli scrive: «C’era una statua di Cronos in bronzo, dalle mani stese con le palme in alto e inclinate verso il suolo, in modo che il bambino posto su esse rotolava e

cadeva in una fossa piena di fuoco». Nel romanzo, Amilcare non invia al sacrificio il figlio Annibale, bensí un bambino della stessa età e simile per aspetto. Il ricordo dell’inganno è anche in Diodoro Siculo, che non lo attribuisce ad Amilcare, ma a numerosi esponenti dell’aristocrazia cartaginese, di cui non fornisce i nomi.

Essi poi: «vedendo il nemico accampato davanti alle mura, provarono un timore religioso all’idea di essere venuti meno agli onori tradizionali dovuti agli dei. Presi dal desiderio di riparare i propri errori, scelsero duecento bambini tra i piú nobili e li sacrificarono in nome dello Stato» (Biblioteca storica, XX, 14, 4-6).

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ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/14

catenella d’oro, tesa tra le caviglie, regolava la sua andatura». Nel capitolo dedicato al supplizio e alla morte di Matho che accoglie alcune delle pagine piú intense e riuscite del romanzo, Flaubert torna, di nuovo, alla testimonianza di Polibio: «I soldati, conducendo il trionfo attraverso la città, inflissero a Matho ogni sorta di maltrattamenti». Lo scrittore non attribuisce le sevizie sul corpo di Matho soltanto ai soldati, che lo stanno portando alla morte, ma le fa compiere anche a uomini e donne comuni descrivendo la loro ferocia: «Un bambino gli strappò un orecchio; una ragazza che aveva nascosto un fuso nella manica, gli spaccò una guancia; gli strappavano manciate di capelli, brandelli di carne; altri con bastoni, sulla punta dei quali stavano spugne imbevute di lordura, gli sfregavano il volto. Dal lato destro del collo, gli sprizzò un fiotto di sangue ed ebbe inizio il delirio». La vendetta è scambiata per giustizia da tutti, tranne che da Salammbô. Occorre per comprenderlo leggere (o rileggere) le ultime righe del romanzo. Narr’Havas (Narava), un valente comandante numida, sia in Polibio che in Flaubert, si schiera dalla parte dei Cartaginesi e, nel testo dello storico, Amilcare promette di concedergli la figlia in sposa: «Non solo gli piacque di prenderlo con sé come compagno nelle sue operazioni, ma promise anche, con giuramento, di dargli la figlia in moglie, se egli si fosse mostrato

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fedele ai Cartaginesi». Quella figlia, nel romanzo, diviene Salammbô. Un altro personaggio ripreso dal testo di Polibio è Spendio, ma qui vi è uno scarto notevole tra la figura delineata dallo storico e quella tratteggiata dallo scrittore. Polibio lo descrive cosí: «C’era uno schiavo campano, che aveva disertato dai Romani e aveva forza fisica e un coraggio temerario in guerra». Per Flaubert, Spendio diventa invece una persona portata per lo piú a elaborare inganni e intrighi e ossequiosa strumentalmente verso i potenti di turno (anche se, al termine del romanzo, assumerà un comportamento diverso): «Era figlio di un retore greco e di una prostituta campana. Dapprima si era arricchito vendendo donne; poi, rovinato da un naufragio, aveva fatto la guerra contro i Romani a fianco dei pastori sanniti. L’avevano preso, era scappato; l’avevano ripreso e aveva lavorato nelle cave (...) Durante tutto il

cammino, rimase accanto a Matho; gli preparava da mangiare, lo aiutava a smontare e la sera gli stendeva un tappeto sotto la testa». Non mancano personaggi «minori» in comune tra lo storico e lo scrittore: i cartaginesi Giscone e Annone, o, tra i mercenari, il gallo Autarito.

MOSSA VINCENTE Si potrebbero portare numerosi altri esempi della «reinterpretazione» di Polibio da parte dello scrittore francese, ma ci si vuole soffermare su un episodio: una vittoria riportata da Amilcare grazie alla sua conoscenza profonda della zona intorno a Cartagine. Lo storico greco ricorda che Amilcare Barca, avendo osservato che alcune condizioni di vento provocavano l’insabbiamento della foce del fiume Macara [Bagrada, l’attuale Wadi Medijerda] e, di conseguenza, ne consentivano l’attraversamento, ne approfittò per rompere l’assedio che Matho e le Parte superiore di una stele votiva in forma di segno di Tanit, dal «tofet» di Cartagine. IV sec. a.C. Tunisi, Museo Nazionale del Bardo. Nella pagina accanto: busto in terracotta della dea Tanit. V sec. a.C. Ibiza, Museo Arqueológico.

truppe dei mercenari avevano posto alla città (I, 75, 4-9). Lo stesso stratagemma è raccontato dallo scrittore: «Uno di alta statura scese in acqua. Non gli arrivava alla cintura; si poteva guadare. Il suffeta [Amilcare Barca] ordinò che trentadue elefanti fossero schierati nel fiume piú a monte, mentre gli altri, piú a valle, avrebbero bloccato gli uomini che fossero stati trascinati dalla corrente; tutti, tenendo le armi sollevate sopra il capo, traversarono il Macara come fra due muri». Un altro aspetto da sottolineare è la piena consapevolezza delle divisioni che attraversavano la società e la politica di Cartagine e delle sue ragioni da parte di Flaubert: l’opposizione all’azione di Amilcare Barca è ricordata piú volte e indicata come la causa dei rovesci subiti dalla città negli anni di guerra, a partire dalla scelta di non pagare il dovuto ai mercenari e di consentire che si riunissero all’interno della città.Tale consapevolezza veniva allo scrittore dalla lettura di Polibio, ma anche da altre fonti letterarie antiche, come pure dall’analisi attenta di storici a lui piú vicini nel tempo. L’altra consapevolezza dello scrittore è la scala mediterranea dello scontro e non solo per le genti diverse che componevano l’esercito dei mercenari. Flaubert s’interroga sul mancato intervento di Roma e di Siracusa a supporto dei rivoltosi e offre una spiegazione che rinvia a una conoscenza profonda dei rapporti politici e sociali di quel tempo lontano, ma anche di anni a lui piú vicini (di nuovo il riferimento ai moti del 1848): «Un motivo piú profondo induceva a soccorrere Cartagine: era chiaro che se i mercenari avessero vinto, tutti sarebbero insorti, dal soldato fino allo sguattero, e nessun governo, nessuna casata avrebbero potuto resistere». NELLA PROSSIMA PUNTATA • Emilio Salgari a r c h e o 85


SPECIALE • VULCI

VULCI UOMINI E DÈI Con l’esposizione di una serie di straordinari reperti provenienti dai recenti scavi nel sito dell’antica Vulci, la Fondazione Rovati inaugura un ciclo di mostre dedicate alle principali città etrusche. Insieme a una selezione di reperti inediti appartenenti alla collezione della Fondazione, la mostra espone capolavori provenienti dalle piú importanti istituzioni pubbliche e da enti privati. Vulci, autentica metropoli tra le piú dinamiche dell’Etruria meridionale tirrenica, si distingue per la produzione di manufatti in bronzo e in ceramica, nonché per le imponenti sculture in pietra e terracotta. E cosí, tra i reperti esposti nella mostra milanese, figurano oggetti spettacolari, già noti ai nostri lettori, tra cui la coppia di mani in lega d’argento e la ormai celeberrima scultura raffigurante una sfinge alata, scoperta nel 2011 (vedi «Archeo» nn. 325 e 350, marzo 2012 e aprile 2014; on line su issuu.com), ma anche capolavori inediti come una maschera-visiera in bronzo, proveniente dai Musei Vaticani, e la ricostruzione dell’edicola di Ponte Rotto conservata al Museo Archeologico Nazionale di Firenze. Una grande mostra, dunque, intesa a rievocare la vita della città etrusca e di sottolinearne la recente, e fortunata, ripresa degli studi e delle scoperte. testi di Giuseppe Sassatelli, Simona Carosi e Carlo Casi

Sulle due pagine, in primo piano: statua in pietra raffigurante una sfinge alata attualmente esposta nella mostra «Vulci. Produrre per gli uomini. Produrre per gli dèi», allestita presso la Fondazione Rovati di Milano. La pregevole scultura è stata rinvenuta nel 2012 nell’area della necropoli vulcente dell’Osteria, in una tomba monumentale che da essa ha preso nome. VI sec. a.C. Sulle due pagine, sullo sfondo: Vulci, Ponte della Badia, acquerello di Samuel J. Ainsley. 1842. Pittore, disegnatore e acquarellista, Ainsley accompagnò George Dennis nel suo viaggio in Etruria. 86 a r c h e o


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SPECIALE • VULCI

«DICIOTTO GRANDI E BELLE CITTÀ» di Giuseppe Sassatelli

«I

l tratto che forse meglio di ogni altro distingue gli Etruschi, e non solo rispetto agli altri popoli dell’Italia antica, è lo sviluppo assunto presso di loro dal fenomeno urbano. L’Etruria è essenzialmente un paese di città, piccole, medie o grandi, ma tutte esteriormente simili, con la differenza che le grandi erano sede di organismi politici di livello statale». Cosí si esprime Giovanni Colonna con un’efficace sottolineatura di quello che una consolidata tradizione di studi considera un elemento quasi identitario per gli Etruschi. La stessa convinzione è presente anche tra gli storici antichi. Plutarco, nella Vita di Camillo (16, 1-3), dice che tutta la regione anticamente occupata dagli Etruschi era «ricca di boschi, di pascoli per il bestiame e irrigata da fiumi. E aveva diciotto grandi e belle città, attrezzate per guadagni derivati dal lavoro e per un sontuoso tenore di vita», collegando alla struttura urbana un’economia interna molto fiorente e un elevato benessere cittadino, con una differenza nel numero (diciotto invece che le tradizionali dodici) che nulla toglie all’importante considerazione del biografo. Se si tiene inoltre conto del fatto che il passo fa parte del racconto delle invasioni galliche si ha quasi l’impressione che le «grandi e belle città» degli Etruschi abbiano attirato i Galli proprio come l’olio, il vino e i fichi che Arrunte di Chiusi fece loro conoscere per convincerli a invadere l’Italia e l’Etruria; o come anche le tecnologie artigianali che il fabbro Helico, originario dell’Elvezia, aveva appreso a Roma e portato con sé tornando in Gallia per insegnarle ai suoi connazionali.

LA CONFEDERAZIONE Anche per Tito Livio (V, 33, 7-11) gli elementi caratterizzanti della presenza etrusca, anche al di fuori dell’Etruria, sia in area campana che in area padana, sono ancora una volta la struttura urbana e una solida organizzazione territoriale imperniata sulle città. Secondo tale tradizione, gli Etruschi 88 a r c h e o

colonizzarono infatti queste due aree costituendovi una confederazione di dodici città, tante quante erano quelle della loro madrepatria tirrenica. In realtà, in queste aree dodici è un numero addirittura superiore rispetto a quello noto dalla documentazione archeologica e sembra rispondere al desiderio di ipotizzare per l’area padana e per quella campana una situazione speculare a quella della madrepatria tirrenica, dove, al contrario, sulla base della stessa documentazione archeologica, le città


sono piú di dodici, come del resto ci dice anche Plutarco. Gli storici antichi ci informano, inoltre, che il territorio dell’Etruria era ripartito fra dodici città o populi, riuniti in una confederazione o lega che si radunava periodicamente nel santuario federale dislocato apud Volsinios – oggi individuato probabilmente in Campo della Fiera presso

Orvieto – per prendere decisioni politiche e militari di interesse comune. Questa coerente tradizione storica sulle città degli Etruschi trova una straordinaria conferma nella documentazione archeologica, dalla quale traspare una forte e antica strutturazione urbana, non solo in area tirrenica, ma anche in area padana e campana. Con la prima età del

Le due facce di un cratere attico a fondo bianco con Hermes che consegna il piccolo Dioniso alle ninfe di Nysa. Attribuito al Pittore della Phiale di Boston, 440-430 a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Gregoriano Etrusco. a r c h e o 89


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Ferro (X secolo), agli esordi della cultura villanoviana, si registra infatti in tutta questa ampia area dell’Italia antica una rapida e improvvisa concentrazione della popolazione in agglomerati protourbani. Si tratta di un fenomeno di straordinaria portata che sovverte il quadro del precedente popolamento dell’età del Bronzo organizzato per villaggi, prevalentemente interni e di altura, a distanza regolare l’uno dall’altro e senza evidenti gerarchie tra loro, caratterizzati da un’economia semplice e tesa prevalentemente alla produzione del

MANTOVA

ADRIA SPINA

BOLOGNA MARZABOTTO VERUCCHIO FIESOLE AREZZO

VOLTERRA

CORTONA

PERUGIA POPULONIA CHIUSI VETULONIA ORVIETO ROSELLE VULCI

fabbisogno interno senza eccedenze da immettere sul mercato; è probabile, inoltre, che vigesse un regime di proprietà comune della terra, che non ci fossero divisioni del lavoro e le specializzazioni artigianali fossero ancora deboli e poco strutturate. Si tratta di un fenomeno che si identifica con il lungo processo di formazione dell’ethnos al termine del quale gli Etruschi, nel momento stesso in cui si conclude questa trasformazione, acquistano la piena consapevolezza della loro identità etnica e storica.

RAPPORTI GERARCHICI Il sistema totalmente nuovo che ora si afferma si caratterizza in primo luogo per la concentrazione degli abitanti in siti diversi dai precedenti, dislocati, almeno in Etruria meridionale, su grandi pianori tufacei, affacciati su fertili pianure e in prossimità del mare, i quali assumono immediatamente l’aspetto di agglomerati protourbani da cui avranno origine tutte le principali città storiche dell’Etruria tirrenica (Veio, Cerveteri, Tarquinia, Vulci, Chiusi, Vetulonia e altre ancora). Questi fin dal loro esordio mettono in atto un rapporto gerarchico con i rispettivi territori, che sottopongono a una serrata pianificazione e si caratterizzano per un’economia complessa che produce eccedenze da destinare al commercio, per la precoce

TARQUINIA CERVETERI VEIO ROMA

CAPUA

PONTECAGNANO

ETRURIA

ETRURIA PADANA

ETRURIA CAMPANA

LATIUM

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A sinistra: cartina che mostra l’estensione dei territori controllati dagli Etruschi e l’ubicazione delle loro città piú importanti.


Un particolare dell’allestimento della mostra in corso a Milano. In primo piano, sulla sinistra, un busto femminile in nenfro (540 a.C. circa; Fondazione Luigi Rovati, Milano); sulla destra, un pilastro figurato (prima metà del VI sec. a.C.; Collezione Castiglione Bocci, Ischia di Castro).

divisione del lavoro e per alcune marcate specializzazioni artigianali, oltre che per le prime forme di possesso individuale della terra. È una vera e propria rivoluzione che cambia radicalmente il volto di quella parte dell’Italia antica dominata dagli Etruschi.

LA CITTÀ E I SUOI NOMI Un’ulteriore conferma della precocità e della solidità del fenomeno urbano presso gli Etruschi ci viene dalla terminologia utilizzata da questo popolo per definire la città nei suoi diversi aspetti e nelle sue articolazioni, combinando gli assetti politici e istituzionali con le strutture urbanistiche. Questo lessico comprendeva infatti il termine spura, analogo al latino civitas e al greco polis, da intendersi come comunità organizzata; il termine cilth (e forse anche il hil/hilar inteso come «recinto sacro») che indicava l’arx; il termine methlum assimilabile al latino urbs e forse al greco asty, per indicare un’entità topografica e urbanistica; il ter-

mine rasna, avvicinabile al latino populus e forse al greco politai, che indicava la parte dei cittadini atta alle armi, con una precisa valenza politica e socio-istituzionale. Questo profondo intreccio fra aspetti monumentali e topografia urbana da un lato, questioni politiche e aspetti istituzionali dall’altro è la miglior prova di quanto il fenomeno urbano fosse radicato e presente tra gli Etruschi in tutta la sua complessità. Nonostante qualche dubbio che di tanto in tanto affiora, questa sequenza terminologica ha ancora una sua sostanziale validità e risulta particolarmente significativa oltre che per le sue perfette simmetrie col latino e col greco anche per il fatto che, rispetto ai pochi ambiti lessicali su cui siamo relativamente ben informati per l’etrusco (nomi dei vasi, termini di parentela, magistrature e poco altro), questo della città emerge con tutta la sua forza oltre che in tutta la sua completezza e articolazione interna. a r c h e o 91


SPECIALE • VULCI

LE SEZIONI DEL PERCORSO SIMULACRI DI IMMORTALITÀ In una città in cui nella fase piú antica è prevalente il rito della cremazione che distrugge il corpo, si afferma una straordinaria modalità di ricomporre la fisicità distrutta del defunto attraverso cinerari che lo evocano, preludendo ai successivi canopi di area chiusina; o anche attraverso la confezione con materiali diversi – legno, bronzo e altro – di figure umane stilizzate, veri e propri idoli o simulacri con riferimento all’alta classe sociale di cui sono espressione. ARTIGIANI IMMIGRATI, ARTIGIANI LOCALI Le grandi potenzialità produttive della città, unite alle sue vaste relazioni mediterranee, generano una straordinaria serie di intrecci. Dal Mediterraneo arrivano merci, ma anche artigiani che cambiano il modo di produrre della città, ma con la persistenza di presupposti identitari. Gli artigiani che arrivano da fuori innovano con le loro tecniche piú avanzate il modo di produrre del posto, ma nello stesso tempo si mettono al servizio delle esigenze locali nelle scelte iconografiche e ideologiche. IL PAESAGGIO LIMINARE Grande attenzione viene dedicata dalla produzione artigianale della città al momento della morte, intesa come passaggio verso l’aldilà. A esso è destinata una consistente produzione di sculture in pietra per le quali si utilizza un tufo locale, il nenfro, molto compatto, per realizzare animali reali o fantastici con iconografie desunte dall’Oriente (felini, sfingi), ma utilizzate per evocare una landa piena di pericoli e popolata da belve, che il defunto doveva superare per raggiungere 92 a r c h e o

L’atrio antistante il giardino della Fondazione Rovati, nei cui spazi è allestita, fino al prossimo 4 agosto, la mostra dedicata a Vulci. Nella pagina accanto: un’altra immagine della statua di sfinge alata.

quell’aldilà sereno nel quale poteva ricongiungersi ai propri cari morti prima di lui. DA ATENE A VULCI: IMMAGINI IN VIAGGIO Un ruolo speciale ebbero le relazioni tra Vulci e Atene, per la quantità e la straordinaria qualità delle ceramiche attiche importate e per il profondo intreccio tra le immagini veicolate da queste ceramiche da un lato, le ideologie e i presupposti culturali della città dall’altro. Si è ormai consolidata l’ipotesi di relazioni che vanno al di là del semplice meccanismo di scambio commerciale coinvolgendo artigiani e botteghe nelle scelte produttive e nella elaborazione di immagini e racconti. BRONZI PER GUERRA, BRONZI PER LA PACE L’ambito produttivo piú importante e quasi identitario della città di Vulci era quello della lavorazione del

bronzo. Gli esperti bronzisti della città producevano sia armi (elmi, spade, corazze, schinieri) sia oggetti e utensili per la cerimonialità cittadina e per la vita quotidiana (vasellame per il banchetto, elementi di arredo come tripodi e candelabri), oltre che oggetti di ornamento legati al mondo femminile come anelli, orecchini, specchi, altri strumenti da toeletta. DEVOZIONI DI ARGILLA La perizia artigianale delle officine vulcenti si riverbera anche in una straordinaria produzione di terrecotte legate al sacro, sia per l’arredo di edifici di culto le cui pareti lignee erano ricoperte da raffinate terrecotte architettoniche, sia per le pratiche devozionali. La mostra è occasione per esporre l’importante lastra architettonica del frontone di un tempio con Dioniso e Arianna, ricostruita e inserita per la prima volta esattamente nel punto in cui era sistemata in antico.


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VULCI. ANATOMIA DI UNA CITTÀ ETRUSCA di Simona Carosi e Carlo Casi

V

ulci o Volci per i Latini, Olkion per i Greci e Velci, Velclthi o Velx per gli stessi Etruschi, fu forse la piú florida delle città di questi ultimi e controllò per lunghi anni il territorio che va dal Mar Tirreno alle pendici del Monte Amiata e dai monti dell’Uccellina al torrente Arrone. Ma la sua storia comincia molto prima. Già circa mezzo milione di anni fa la pianura immediatamente a nord di Vulci, lungo il corso del Fiora, fu abitata e i numerosi utensili litici rinvenuti in località Montauto fanno bella mostra di 94 a r c h e o

sé nel Museo di Preistoria e Protostoria della valle del Fiora di Manciano (Grosseto). Altre culture si insediano poi nell’area, come sembrano confermare i ritrovamenti di età neo-eneolitica, effettuati soprattutto nell’area orientale della città. Ma la vera svolta si coglie verso la fine del Bronzo Finale (a partire almeno dal X secolo a.C.), quando le comunità di villaggio si organizzano in veri e propri centri protourbani, andando a occupare vasti pianori naturalmente difesi. Anche Vulci viene interessata dal fenomeno e in questo momento

Nella pagina accanto: specchio in bronzo fuso con ageminature in argento con Eos (Aurora) alata che rapisce il giovane amante Kephalos, da Vulci. 490-480 a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Gregoriano Etrusco.


Nella pagina accanto: ricostruzione dell’impianto urbanistico di Vulci in età arcaica: la città si estendeva allora su di una superficie pari a 90 ettari circa.

arriva ad abbracciare un’area di 125 ettari, un’estensione mai piú raggiunta nel corso della sua lunga storia. Ciò è ben testimoniato, oltre che dalle ricognizioni di superficie, anche dal ritrovamento dei resti di alcune capanne in prossimità di Porta Ovest e da tombe distribuite tra le località di Ponte Rotto, Cuccumella, Poggio Maremma, Osteria e Puntone dei Muracci.

Altre testimonianze risalenti al periodo villanoviano (IX-VIII) sono state rinvenute in varie località nei dintorni della città, tutte riferibili a contesti di necropoli che documentano una modificata articolazione sociale, suggerita dalla composizione dei corredi funerari, a volte variegata e ricca, come nel caso della Tomba dei Bronzetti Sardi.

UN NUOVO SISTEMA DIFENSIVO Ma già intorno alla metà dell’VIII secolo a.C. la città contrae i suoi limiti, probabilmente andando a edificare su spazi interni sino ad allora diversamente utilizzati, e inizia a dotarsi di un importante sistema difensivo. Dalla fine dell’VIII e per tutto il VII secolo il processo di occupazione sia del pianoro, sia di un vasto territorio può dirsi ormai al suo apice: Vulci è nella fase di massima espansione politico-economica, grazie a un dinamico ceto aristocratico che accentra beni di lusso importati prima e prodotti da artigiani stranieri impiantatisi nella città poi. La quantità di ceramiche di pregio dipinte, vasellame bronzeo e lussuosi ornamenti in oro, argento e pietre preziose testimonia l’accumulo di ricchezza da parte di questa classe egemone, che controlla i traffici marittimi e la produzione di beni di prima necessità locale. Il tumulo della Cuccumella esprime visivamente questo floruit: la sua monumentalità, in antico accentuata dalla presenza di grandi statue di pietra raffiguranti animali fantastici, serviva a contrassegnare il territorio a est della città, attraversato da importanti vie di comunicazione. Anche le recenti scoperte, come la Tomba delle Mani d’argento, databile tra il 640 e il 620 a.C. ha permesso di confermare grazie al ricco set da banchetto, alla a r c h e o 95


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presenza del carro e di preziose bardature equine, oltre che agli ornamenti in oro, argento, ambra e pasta vitrea, il quadro socioeconomico vulcente sin qui delineato. Anche il VI e il V secolo sono periodi di grande fioritura artigianale: continuano ad arrivare in città oggetti prodotti in varie parti del Mediterraneo, come vasi attici, corinzi o vicino-orientali, ma si sviluppano notevolmen-

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Nella pagina accanto: un suggestivo scorcio del paesaggio in cui è immerso il Castello della Badia, sede del Museo Archeologico Nazionale di Vulci, a cui si accede dal ponte omonimo, che scavalca il Fiora. A sinistra: foto aerea del sito di Vulci, il cui territorio è attraversato dal fiume Fiora. In basso: cartina della Maremma meridionale, con, in evidenza, la localizzazione dei principali insediamenti etruschi.

te le attività locali, come dimostrano le officine di ceramica etrusco-corinzia o quelle della statuaria in pietra e le produzioni bronzistiche. Fino agli inizi del V secolo, quando è attivo il porto in località Le Murelle, la città si dota di importanti edifici pubblici, soprattutto sacri, come dimostrano gli esempi sia del Tempio Grande, nell’area centrale della città, sia del santuario in località Carraccio dell’Osteria, fuori dalla Porta Nord, o del Fontanile di Legnisina, nei pressi della Necropoli Orientale, sia delle strutture monumentali nei pressi dell’Acropoli.

SEPOLCRI IMPONENTI Se fino alla metà del IV secolo, dopo i nuovi equilibri stabiliti nel Mediterraneo,Vulci non vede l’erezione di nuovi edifici monumentali, è dalla metà del secolo che prendono di nuovo vigore attività produttive e si evidenzia una nuova fase di sviluppo per la città. Grandiose sepolture disegnano il profilo della Necropoli di Ponte Rotto, offrendo un impianto scenografico che rende giustizia al nuovo ceto aristocratico detentore del potere. Tra tutte spicca l’ipogeo dei Saties, la famosa Tomba François. Scoperta nel 1857 da Alessandro François, è nota, piú che per la suggestiva profondità e l’architettura, per il complesso ciclo pittorico che mette a confronto eroi greci che si battono con i Troiani a eroi etruschi contro Roma. In particolare, è rappresentata la saga dei fratelli Vipinas, uno dei cui alleati diverrà re di Roma con il nome di


SCETTICISMO BRITANNICO

Servio Tullio, come prefigurazione (la vicenda si colloca nel VI secolo a.C. mentre la tomba si data nel terzo quarto del IV secolo a.C.) di una vicenda locale in cui i Saties e Vulci hanno avuto un certo ruolo, assieme ad altri Etruschi, nella lotta contro Roma che avanzava nel territorio italico. Lo sforzo etrusco era destinato a fallire, poiché il console romano Tiberio Coruncanio finirà per trionfare comunque su Vulci nel 280 a.C. Da questo momento la città etrusca cede il passo, senza grandi trasformazioni strutturali, almeno iniziali, alla città romana, che vive in continuità con l’impianto precedente.

IDENTIFICAZIONI FANTASIOSE Quella di Vulci è comunque una storia complicata, a partire dalla sua localizzazione. Nonostante l’importanza che il centro ebbe durante il periodo etrusco e romano, nel Medioevo se ne perse completamente la memoria. Soltanto nella seconda metà del Quattrocento lo studioso domenicano Annio da Viterbo propose di riconoscere il luogo della scomparsa città nella località Pian de’ Voci, sulla sponda destra del Fiora. Altri eruditi si cimentarono successivamente, ipotizzando Vulci vicino Grosseto, come fece un amico di

«Ma è possibile che qui si trovasse una delle piú ricche e splendide città dell’Italia antica – la residenza eletta dei principi d’Etruria?» Questa la domanda che si poneva Didascalia George da fare Dennis, viaggiatore-archeologo inglese, quando, nelIbusdae 1848, sulle orme del Grand Tour, visitava gli «avanzi»evendipsam, dell’antica officte erupit Vulci. E non si trattava certo di una domanda retorica. antesto taturi Effettivamente, in quel periodo, dell’antico centro etrusco e cum ilita aut quatiur della sua «magnificenza» – testimoniata dagli straordinari restrum reperti funerari che avevano arricchito le collezioni private e eicaectur, i musei di tutto il mondo – non era percepibile quasi piú testo blaborenes nulla. Già nel 1831, all’indomani della conclusione della ium quos non prima, fruttuosissima stagione di ricerche nellequasped necropoli, reius nonem Eduard Gerhard, archeologo tedesco, fondatoreetur dell’Instituto quam di Corrispondenza Archeologica, si era espresso in termini analoghi, lamentando come i pochi monumenti expercipsunt visibili al suo quos rest tempo – sostanzialmente il Tumulo della Cuccumella e magni autatur apic l’ipogeo «con ornamenti intagliati nel tufo», denominato delteces enditibus Sole e della Luna – non potevano certo dare l’idea della teces. ricchezza dei sepolcreti vulcenti. Una ricchezza che, fino ai giorni nostri, ha peraltro attirato sul sito l’attenzione di scavatori clandestini e antiquari senza scrupoli, che hanno ulteriormente contribuito alla dispersione di documenti archeologici di importanza eccezionale. In un centro effettivamente avaro di resti monumentali, le testimonianze della cultura materiale – espressioni di un artigianato artistico d’eccezione e di una attività manifatturiera che si dispiega, quasi senza soluzione di continuità, per diversi secoli – hanno rappresentato e continuano a rappresentare, in mancanza di fonti dirette, le uniche testimonianze utili alla ricostruzione della storia e delle dinamiche di sviluppo di Vulci. Alessandro Conti

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Pico della Mirandola, Raffaele Maffei, alla metà del Cinquecento, e, subito dopo di lui, il bolognese fra’ Leandro Alberti. O addirittura ci fu chi la vedeva tra Cosa e Siena, come scrisse il geografo tedesco conosciuto con il nome di Filippo Cluverio, nella sua opera postuma Italia antiqua (1624). Solo con Filippo Prada, che avvia fortunate ricerche nell’area della città e nella necropoli di Casal di Lanza, nel 1776, si arriva alla soluzione del problema anche grazie all’intervento conclusivo del cardinale Francesco Turriozzi, il quale, nelle sue Memorie historiche di Tuscania, pubblicate nel 1778, riconosce definitivamente Vulci nell’area di Pian de’ Voci. Altre ricerche vennero svolte di lí a poco, nel 1783, nella zona del Ponte della Badia, dal cardinale Giuseppe Pallotta, tesoriere vaticano che concedeva le licenze per condurre gli scavi archeologici a condizione di consegnare alla Tesoreria «il terzo e il quarto, o anche la metà del rinvenuto». I reperti rinvenuti andarono a incrementare le raccolte del Museo Vaticano delle Antichità, il cosiddetto museo Pio-Clementino. Il 1828 segna l’inizio delle grandi depredazioni vulcenti: cominciano gli scavi del principe di Canino Luciano Bonaparte, quelli del tuscanese Vincenzo Campanari e, nella tenuta di Camposcala, quelli dei Guglielmi che portarono alla costituzione dell’omonima collezione. Nemmeno l’editto del cardinale Bartolomeo Pacca del 1820 (mirato a regolamentare la protezione delle opere d’arte e dei monumenti, n.d.r.) riuscí a rallentare la razzia dei monumenti di Vulci, che cominciarono a riempire da lí in poi le vetrine dei musei di tutto il mondo.

UN BUSINESS FIORENTE Campanari fondò addirittura una società con lo scopo di recuperare e vendere i già preziosi reperti vulcenti. E grazie alla sua incontenibile opera venne inaugurata a Londra, nel 1837, la prima mostra sugli Etruschi e, nello stesso anno, il Museo Gregoriano Etrusco. Dopo la mostra di Pall Mall, i Cam98 a r c h e o


Nella pagina accanto: immagini delle mani in argento che hanno dato nome alla tomba scoperta nel 2013 nella necropoli dell’Osteria. 630-600 a.C. In basso: maschera-visiera in bronzo, che costituiva in origine la parte inferiore di un elmo, da Vulci. Metà del V sec. a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Gregoriano Etrusco.

panari decisero di aprire una succursale a Londra, come una vera multinazionale specializzata nella vendita di oggetti archeologici. Le scoperte eccezionali si susseguirono ininterrottamente in quegli anni, a partire dalla famosa e purtroppo scomparsa tomba dipinta detta appunto Tomba Campanari. La sfortunata struttura ebbe a patire anche un infelice tentativo di distacco delle pitture da parte dello stesso Campanari, che ne causò la rovina; fortunatamente esistono copie nei Musei Vaticani e nel British Museum. Posta «nel gradino sottostante l’altipiano di Vulci», la tomba, ascrivibile all’età ellenistica (III secolo a.C.), fu scoperta nel 1833 e aveva una sola camera, con Caronte dipinto sulla porta, mentre all’interno le pitture riguardavano il viaggio nell’oltretomba e il giudizio dei componenti di un’intera famiglia da parte del tribunale infernale. Completava l’apparato decorativo un capitello con scolpite due teste femminili e due maschili, sovrastante una colonna di peperino posta al centro della camera funeraria.

Anche il Tumulo dei Guerrieri, scoperto nel 1835, che si trovava vicino all’area urbana «e precisamente là dove il grande acquedotto piú si avvicina alle mura», manca oggi all’appello. «Sei file» di tombe a camera con al centro la tomba principale a due camere, in ciascuna delle quali, al centro, sul pavimento, era deposto il defunto: nella prima un uomo portava ancora l’elmo su cui era raffigurata la contesa tra Eracle e Apollo per il tripode, mentre lo scudo stava ancora appeso alla parete e aveva ai piedi armi spezzate; nell’altra una donna era accompagnata da un ricco corredo di ceramiche e gioielli. Risulta scomparsa anche un’altra struttura funeraria monumentale scavata in quegli anni, la celeberrima Tomba del Sole e della Luna. Composta da ben otto ambienti è probabilmente riconducibile a maestranze ceretane operanti a Vulci nella II metà del VII secolo a.C.

PASSIONI DI RE E DI PRINCIPI Altra storia è invece quella della «filatrice» di bronzo, rinvenuta da Vincenzo Campanari, nell’area della città in prossimità del Tempio Grande. Sepolta ritualmente, la statua acefala è stata realizzata nella prima metà del I secolo d.C. su ispirazione di un originale di Prassitele del IV secolo a.C. Per lei, i Campanari organizzarono, nel 1837, un’apposita vendita all’asta che vide l’aggiudicazione al re di Baviera per 4400 scudi. Non furono da meno i principi di Canino, i quali, a parte una breve parentesi iniziale, concentrarono i loro saccheggi nella Necropoli Orientale, devastando anche il tumulo della Cuccumella. Alquanto sintomatico risulta l’episodio nel quale la principessa Alexandrine de Bleschamps, moglie di Luciano Bonaparte, indossò, in occasione di un ricevimento alla corte pontificia, alcuni splendidi gioielli provenienti dalle tombe di Vulci. In quegli anni (1839) venne scoperta, nella necropoli della Polledrara, l’eccezionale Tomba di Iside, che purtroppo seguí le sorti degli altri monumenti funerari: il corredo venduto è oggi esposto al British Museum, mentre la struttura risulta ancora dispersa. Non si salvarono nemmeno i due celebri sarcofagi bisomi rinvenuti nella tomba dei Tetnies, uno in nenfro e l’altro, piú tardo, in alabastro, recanti sul coperchio una coppia di sposi abbracciati, che volarono oltreoceano. Dopo la scomparsa del fratello ribelle di Naa r c h e o 99


SPECIALE • VULCI

poleone dapprima (1840) e della moglie poi (1855) il feudo passò insieme al titolo ai Torlonia, che videro bene di continuare i saccheggi. Il caso sicuramente piú eclatante è quello della Tomba François, dal nome dell’archeologo fiorentino scopritore del sepolcro nel 1857 che cosí descrive l’entusiasmante ritrovamento: «Scopersi una fila di annose querce, la di cui verdeggiante chioma era prova evidente di vegetazione floridissima, al quale non poteva derivare che da una polpa di terra assai profonda. Poche zapponate bastarono al darci la certezza del mio pensiero». Anche in questo caso gli oggetti di corredo furono venduti all’estero e, cosa ancora piú drammatica, gli eccezionali affreschi vennero strappati nel 1863, lasciando di fatto una ferita aperta e non ancora rimarginata. Operazione, questa, alla quale non poté partecipare lo sfortunato scopritore, che morí poco dopo il rinvenimento della famosa tomba, a causa della malattia che in quel momento infestava la Maremma: la malaria.

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In alto: kylixcratere (coppacratere) di produzione etrusca con esseri umani, creature mitologiche ed elementi del paesaggio. Attribuita al Pittore delle Rondini, terzo quarto del VII sec. a.C. circa. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. A sinistra: olla in ceramica d’impasto con coperchio. Inizi del VII sec. a.C. Milano, Fondazione Luigi Rovati.

Dopo la prematura scomparsa di Alessandro François, le spoliazioni vulcenti, anche per la fine dello Stato pontificio, si fermarono per quasi un ventennio, riprendendo con rinnovato vigore nel 1875 grazie ad Alessandro Torlonia che dapprima si accaní con il tumulo della Cuccumella – realizzando anche l’intricata rete di cunicoli, oggi impropriamente nota con il suggestivo nome di «labirinto etrusco» – e poi incaricando, nel 1879, Francesco Marcelliani. Quest’ultimo si dedica, sino al 1883, al saccheggio di alcune tombe prossime ai tumuli della Cuccumella e della Cuccumelletta e nella zona di Ponte Rotto, concentrandosi però maggiormente nella monumentale quanto estesa necropoli di Mandrione di Cavalupo. La planimetria degli scavi, edita nel 1930 da Franz Messerschmidt, insieme alla dispersione dei contesti, fanno ben comprendere l’entità del disastro perpetuato a danno dei monumenti vulcenti.

UNA PARENTESI FELICE Di tutt’altro genere, per fortuna, è la figura di Stéphane Gsell, che scavò a Vulci dall’11 febbraio al 1° giugno 1889 per conto della Scuola Francese di Roma. Le indagini vennero condotte con metodologie corrette per l’epoca, accompagnate da descrizioni attente e dalla redazione di dettagliati rilievi delle strutture riportate in luce, che trovarono giusto spazio nella conseguente e pronta pubblicazione due anni dopo, nel 1891.


Tra il 1894 e il 1895 si affacciò sulla scena vulcente l’archeologo dilettante e pittore orvietano Riccardo Mancinelli, che operò in tutte le grandi necropoli e centri etruschi delle valli del Fiora e dell’Albegna. Non poteva certo mancare Vulci tra le sue illustri vittime, come ricorda il nucleo di materiali etruschi al Museo di Filadelfia. Ma il peggio doveva ancora arrivare come dovette certamente constatare Goffredo Bendinelli, nel 1919, cercando di limitare i danni che stavano compiendo gli imponenti quanto distruttivi lavori di canalizzazione, cominciati l’anno prima, per lo sfruttamento dell’energia idraulica, da parte della Società Elettrica «Volsinia». Il tracciato del canale interessò direttamente l’area archeologica di Vulci, in direzione nord-sud, attraversando la necropoli dell’Osteria e tutta la città. Ancora oggi è ben visibile e si nota chiaramente come il tempo non sia riuscito a rimarginare il lungo e profondo taglio. «I lavori di scavo per la pozzolana cosí proseguiti ininterrottamente per vario tempo, senza alcun riguardo per le tombe a camera di tutti i tipi e di tutte le dimensioni, che si scoprivano e che man mano venivano demolite», cosí descrive nel 1921 Bendinelli al Regio Soprintendente ai Musei e Scavi di Roma Roberto Paribeni, evidenziando il disastroso intervento. E continua: «Devesi anche con rammarico constatare che i pochi oggetti e frammenti di oggetti facenti parte

La sezione della mostra nella quale sono riunite terrecotte architettoniche appartenenti alla decorazione dell’edicola di Ponte Rotto. Metà del III sec. a.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale.

delle suppellettili funebri e lasciati dagli antichi saccheggiatori, siano andati tutti o quasi dispersi, o barbaramente distrutti sul posto». L’ingegnere Apolloni della Società «Volsinia» addirittura rilasciò, nel 1922, l’autorizzazione di scavo ai fratelli Riccardi nella zona della Cantina ai quali dovette mettere freno ancora il Bendinelli nell’anno successivo, rilevando la gestione delle indagini con Mancinelli. Le ricerche misero in luce, tra l’altro, un centinaio di tombe villanoviane delle quali però non conosciamo la loro precisa ubicazione né l’associazione dei corredi funerari. Nel 1927 arrivò a Vulci Raniero Mengarelli, altro grande protagonista delle ricerche in Etruria nella prima metà del Novecento, che scavò con grande attenzione sino al 1934, riportando in luce complessi famosi, come la Tomba del Guerriero, ancora nella necropoli dell’Osteria, e il santuario suburbano del Carraccio, lungo il fosso omonimo.

UNA BONIFICA... DISTRUTTIVA Ma un’altra grande disgrazia si doveva abbattere sulle vestigia vulcenti, all’indomani della seconda guerra mondiale: le bonifiche dell’Ente Maremma. Questi lavori segnarono un momento veramente critico, perché proprio grazie a loro e, in particolare, al primo utilizzo dei mezzi meccanici per dissodare e livellare i terreni, vennero scoperte, depredate e spesso distrutte una grande quantità di strutture funerarie. La facilità di riconoscia r c h e o 101


SPECIALE • VULCI

100 ETTARI DI MERAVIGLIE Sorto nel 1999 a seguito di una convenzione rinnovata nel 2019, il Parco Naturalistico Archeologico di Vulci è il risultato di importanti esperienze di valorizzazione del patrimonio culturale e paesaggistico condotte in sinergia dal Ministero della Cultura e dagli enti locali, preziosa testimonianza di come sia possibile – e auspicabile – rendere dinamico e accessibile un territorio storicizzato senza alterarlo, ripercorrendo viabilità e visuali, ammirando i risultati dei recenti scavi dall’area urbana e dalle necropoli. La sua storia si fa risalire indietro nel tempo: i terreni, oggi cuore del Parco, furono sottoposti a vincolo, infatti, sin dal 1916 e dal 1954 il Ministero, attraverso l’attività della Soprintendenza, ha proceduto con espropri, dando effettivamente inizio a quel processo di gestione e valorizzazione pubblica che continua ai giorni nostri. La legge 160/1988 ha avviato la «Scuola cantiere archeologica nel territorio di Vulci e di Montalto di Castro», che nel 1993 è diventata effettivamente operativa. I primi interventi, finalizzati al recupero e alla conservazione del patrimonio archeologico portarono già allora alla realizzazione di un primo modulo di Parco con l’acquisizione di 26,44 ettari; a interventi di scavo e recupero in area urbana e nella necropoli settentrionale (Osteria e Poggio Mengarelli); alla creazione di un laboratorio di diagnostica e restauro; e all’avvio di attività di catalogazione e ricerche di archivio, oltre che a vari progetti sulle tre «porte del Parco», ossia il Museo Nazionale nel Castello della Badia, il Museo della Ricerca Archeologica all’interno del complesso di S. Francesco a Canino, il Museo della Scultura presso la chiesa di S. Sisto a Montalto di Castro. Attualmente il Parco si estende per circa 100 ettari ed è una vera e propria fucina di iniziative di ricerca e fruizione. Da una parte continuano le acquisizioni di terreni grazie allo strumento della prelazione, dall’altra si cerca di attuare un maggior coinvolgimento dei privati nella costituzione di una condivisa coscienza per la valorizzazione del territorio. Simona Carosi 102 a r c h e o

In alto: il Laghetto del Pellicone, una delle mete piú suggestive toccate dagli itinerari allestiti all’interno del Parco di Vulci. A sinistra: disegno a volo d’uccello dell’area compresa nel Parco Archeologico e Naturalistico di Vulci.


mento e l’abbondanza di reperti fece sí che prendesse piede, e non solo a Vulci, l’attività di scavo dei clandestini, condizionando e addirittura alterando la conoscenza archeologica della grande città.

La sezione della mostra in cui troneggia la spettacolare urna biconica con elmo-coperchio in bronzo rinvenuta nella tomba 29 di Poggio Mengarelli. Ultimo quarto dell’VIII sec. a.C.

UNA RINASCITA FATICOSA A latere presero il via anche alcune ricerche solo parzialmente documentate, come quelle condotte dall’allora soprintendente Renato Bartoccini, coadiuvato da Sergio Paglieri, ma che, alla fine degli anni Cinquanta, furono coronate da scoperte eccezionali: la Tomba delle Iscrizioni (1957), la Tomba del Delfino (1958), la Tomba dei Bronzetti sardi (1959), solo per citarne alcune. Gli scavi vennero estesi anche all’area urbana, riportando in luce tratti delle mura perimetrali, del decumano, della Domus del Criptoportico e del Tempio Grande. Piú o meno nello stesso periodo, la Fondazione Lerici del Politecnico di Milano, eseguí fortunate prospezioni, che consentirono di rilevare la presenza di numerose tombe. Nel 1960 viene alla luce la Tomba della Panatenaica, che prende il nome dall’anfora premio dei famosi giochi, e anche in questo caso siamo a patire sia l’incertezza della localizzazione, sia l’associazione dello sfarzoso corredo, al quale potrebbero essere stati aggiunti reperti provenienti da altre tombe scavate in quel periodo. Proprio in questi anni si diffonde, in ambito vulcente, il pessimo uso di riconoscere a privati le concessioni di scavo, consentendo loro anche di trattenere parte del «bottino». E cosí assistiamo ai saccheggi della Società Hercle, di Francesco Paolo Bongioví e di alcuni locali che smembrarono e dispersero buona parte

dei corredi rinvenuti, senza porre nessuna attenzione ai dati scientifici. Dal 1964 prendono il via ricerche svolte dalla Soprintendenza Archeologica per l’Etruria Meridionale a opera di Giovanni Scichilone che portano, nel 1965, alla scoperta della Tomba del Carro di Bronzo, risalente all’Orientalizzante antico e ritrovata eccezionalmente intatta. Negli anni seguenti la Soprintendenza effettua fortunati recuperi e, nel 1975, viene alfine inaugurato il Museo Archeologico Nazionale all’interno del Castello della Badia. Negli anni Ottanta si segnalano la riapertura della Tomba dei Soffitti Intagliati (1982) e lo scavo del santuario suburbano di Fontanile di Legnesina (1985-86). Con gli anni Novanta, comincia finalmente per Vulci un nuovo corso, legato alla realizzazione del Parco Archeologico e Naturalistico. Le scoperte si susseguono, ma solo negli anni piú recenti esse assumono il valore scientifico e internazionale che compete loro, grazie anche alla realizzazione di un convegno biennale «Vulci. Work in Progress» nel 2021 e nel 2023 e di importanti mostre: «La Tomba della Sfinge» (2012), «I predatori dell’arte a Vulci» (2013), «Principi immortali» (2014; incentrata sulla Tomba delle Mani d’Argento), «Frutti d’Oro e d’Argento» (2015), «Il Mitreo di Vulci» (2016), «Egizi ed Etruschi» (2017), «La Sfinge e gli altri animali fantastici (2018), «Gli ultimi Re di Vulci» (2019) e «Leoni, Sfingi e Mani d’Argento» (dapprima al Museo Archeologico di Francoforte, 2020-21, e poi al Museo Nazionale diViterbo, 2023), «La Prima Vulci» (2023). Anche il riallestimento del Museo Nazionale di Vulci (2016), secondo piú aggiornati criteri scientifici e comunicativi, si lega a quella che può essere senz’altro definita «la rinascita di Vulci». DOVE E QUANDO «Vulci. Produrre per gli uomini. Produrre per gli dèi» Milano, Fondazione Luigi Rovati fino al 4 agosto Orario mercoledí-domenica, 10,00-20,00; chiuso lunedí e martedí Info e-mail: info@fondazioneluigirovati.org; www.fondazioneluigirovati.org a r c h e o 103


SCAVARE IL MEDIOEVO Andrea Augenti

IL POTERE ABITA QUI IL MILLENNIO MEDIEVALE TIENE A BATTESIMO ARCHITETTURE PALAZIALI FIGLIE DI MODELLI ASSAI PIÚ ANTICHI. E CHE, PROGRESSIVAMENTE, SI ADATTANO AL MUTARE DEGLI EQUILIBRI POLITICI E DEGLI ASSETTI SOCIALI

I

palazzi sono sempre esistiti, nelle città di ogni civiltà e di ogni epoca, fin dal primo esempio noto di Arslantepe (insediamento pluristratificato scoperto in Turchia, la cui prima frequentazione ha inizio nel V millennio a.C., n.d.r.). E naturalmente c’erano anche nelle città tardo-antiche, altomedievali e medievali. Una domanda sorge però spontanea: i palazzi del potere hanno sempre avuto la stessa forma, la stessa struttura nel corso del Medioevo? Sono rimasti gli stessi, dal IV fino al XIV secolo? A partire dalla tarda antichità, le architetture dei palazzi, siano essi di

natura civile o ecclesiastica, seguono due modelli principali. Il primo è quello dei complessi a «U», cioè a tre ali articolate attorno a un cortile centrale. È il modello incarnato dal palazzo della fortezza di Monte Barro, in Lombardia (V secolo), probabilmente residenza del comandante e della guarnigione di stanza in quel luogo; ed è il caso della possibile Curia Ducis di Brescia, il palazzo dei duchi longobardi. Architetture che sembrerebbero appannaggio di un livello intermedio della classe dirigente, di natura per lo piú militare, e che trovano una

sicura origine nei principia romani, gli edifici dei castra nei quali venivano custodite le insegne della legione. Il secondo modello, riservato alle piú alte sfere del potere, è quello tipico delle domus e delle ville di età tardo-antica, che affonda le sue radici nel palazzo imperiale del Palatino, a Roma: un grande peristilio o comunque un cortile centrale, attorno al quale si dispongono vari ambienti, e la grande aula absidata di rappresentanza; accanto a quest’ultima, in posizioni differenti, possono trovare posto sale da

Disegno ricostruttivo del palazzo imperiale di Ravenna. Nella pagina accanto, in alto: incisione raffigurante il Laterano a Roma (1693): il palazzo è indicato dal n. 4.

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pranzo con tre o molte piú absidi, sempre in numero dispari.

PER LE ALTE AUTORITÀ È lo schema seguito per il palazzo di Onorio e poi di Teoderico a Ravenna, e per molte altre residenze imperiali, come per esempio Treviri; per le sedi di prefetti e di altre autorità dell’impero nelle varie province; e per i pochi palazzi vescovili di cui restano tracce archeologiche, come quello di Parenzo, in Istria. E fin qui ci muoviamo in un arco cronologico compreso tra il IV e il VI secolo, l’epoca in cui vengono gettate e consolidate le basi questo linguaggio architettonico. La cosa interessante, però, è che lo stesso linguaggio continua a essere parlato anche in seguito: lo

vediamo nel palazzo pontificio del Laterano, a Roma; e ad Aquisgrana, dove rispettivamente papa Leone III (in ben due occasioni) e Carlo Magno costruiscono grandi sale absidate ancora tra la fine dell’VIII e i primi anni del IX secolo. Ma già nel corso dell’VIII secolo vengono introdotte alcune novità, e sembra proprio che i palazzi diventino una palestra per sperimentare soluzioni architettoniche differenti. Innanzitutto, le torri: una torre viene aggiunta al Palazzo del Laterano da papa Zaccaria (741752), un’altra a quello di Aquisgrana. E ancora, i portici e i loggiati ai piani superiori che troviamo, per esempio, nel palazzo del principe longobardo Arechi II a Salerno, sempre dell’VIII secolo.

Piazza del Duomo di Pistoia, sulla quale, a destra della cattedrale di S. Zeno, si affaccia l’antico palazzo dei Vescovi.

Poi, le cose cambiano in maniera sostanziale e anche piuttosto bruscamente. I primi segnali li troviamo nelle campagne: in Francia settentrionale, a Mayenne, è venuto alla luce un palazzo che consiste in una grande aula rettangolare articolata su tre piani, affiancata da una torre. In base alle ultime cronologie accertate, per ora il palazzo di Mayenne sarebbe la testimonianza piú antica di questo genere: si data infatti al X secolo.

UN NUOVO MODELLO Lo stesso tipo di palazzo, una semplice aula affiancata da una torre, lo troviamo a Pistoia nell’XI secolo, ed è la residenza del vescovo; e piú o meno allo stesso periodo (seconda metà dell’XI secolo) risale il palazzo vescovile di San Lorenzo a Genova, secondo le piú recenti ipotesi. In poche parole: dal X secolo, sia pure in base a esempi ancora sporadici, riusciamo a intravedere l’emergere di un nuovo modello architettonico del tutto diverso rispetto ai precedenti. Il blocco formato da torre e aula rettangolare incarna una semplificazione estrema dell’idea di palazzo: non piú un mondo a parte e molto articolato al suo interno, nel quale si alternano cortili e aule piú o meno grandi; e dove possono essere definiti percorsi obbligati, che sottolineano i rapporti di forza tra il titolare e gli ospiti. Nei nuovi palazzi l’accento è posto sulla compattezza, sulla verticalità (torri, piani superiori delle aule) e sulle esigenze militari. Questo cambiamento avviene in un’epoca che si caratterizza per un alto tasso di conflittualità, anche in città: tra i vari poteri, e tra le singole famiglie. Siamo nel X secolo, non a caso soprannominato «il secolo di ferro». Da quel momento in poi, torri, fortezze e palazzi si avviano a diventare gli elementi piú tipici del paesaggio urbano.

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TERRA, ACQUA, FUOCO,VENTO Luciano Frazzoni

RACCONTI DI BOTTEGA FABBRI, CIABATTINI, VASAI... I VASI FIGURATI PROPONGONO INNUMEREVOLI SCENE DI VITA ARTIGIANALE. CHE, AL DI LÀ DELLE SOLUZIONI ESTETICHE, OFFRONO UN VIVACE SPACCATO DEL MONDO PRODUTTIVO DEL TEMPO

N

ell’antica Grecia gli artigiani venivano definiti, quasi con disprezzo, banausoi, ossia lavoratori manuali, considerati come persone di condizione inferiore e a cui spesso non spettava nemmeno lo status di cittadini. Eppure molte ceramiche, principalmente di produzione attica, oltre alle raffigurazioni appartenenti a episodi dei poemi omerici, ai miti e alle storie di eroi come Ercole, Ulisse, Achille, ci hanno restituito numerose scene legate alle attività artigianali, fornendo importanti testimonianze su uno spaccato di vita quotidiana. Vediamone alcune, tra le principali attestate ad Atene tra il VI e il V secolo a.C. Un buon esempio di raffigurazione di due distinte botteghe di artigiani è offerto da un’anfora a figure nere, proveniente da Orvieto e ora conservata al Museum of Fine Arts di Boston, su una delle cui facce compare una bottega di calzolaio (vedi foto qui accanto): l’artigiano, seduto, sta provando una calzatura a una donna, in piedi, su un piccolo tavolino, mentre un assistente di fronte sta

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Scena di filatura della lana all’interno di un gineceo, particolare della decorazione di un epinetron (utensile impiegato per filare) attico a figure nere, da Atene. 500 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre. In basso: anfora attica a figure nere sulla quale è rappresentata la bottega di un ciabattino, da Orvieto. 500-490 a.C. circa. Boston, Museum of Fine Arts. forse lavorando a una scarpa; sulla parete di fondo sono appesi due stivali già pronti, un vaso e pezzi di cuoio ancora da lavorare. Sull’altra faccia dell’anfora di

Boston è invece rappresentata l’officina di un fabbro intento a battere con un martello su una sbarra di ferro, che un assistente tiene sull’incudine con una pinza. Accanto si intravede una fornace, mentre sulla parete sono affisse asce, una spada, un trapano e un arco, oltre a una oinochoe. Databile nella seconda metà del VI secolo a.C., l’anfora offre dunque vivaci scene relative a due tra le principali attività artigianali praticate allora ad Atene. Tra l’altro, sappiamo da Senofonte e da altri scrittori, come Diogene Laerzio, che nell’agorà cittadina si trovava la bottega del calzolaio Simon, frequentata anche da Pericle e Socrate. Nella stessa agorà è stata inoltre individuata una bottega di artigiani metallurghi, dediti alla lavorazione del bronzo e del ferro nel corso del IV secolo a.C., mentre nella zona sudoccidentale gli scavi hanno messo


in luce una ventina di impianti a carattere temporaneo, che includevano aree dedicate alla forgiatura del metallo e pozzi di fusione per il bronzo. Una kylix proveniente da Vulci e attribuita al Pittore della Fonderia (vedi foto qui accanto), databile agli inizi del V secolo a.C., raffigura le diverse fasi di lavorazione in una bottega di bronzisti intenti al lavoro su una grande statua di guerriero, forse Ares; in un’altra parte dell’edificio è visibile un uomo accovacciato, che sta operando alla fornace, mentre un altro artigiano sta lavorando una seconda statua maschile, ancora priva della testa. Alle pareti sono appesi vari utensili (seghe, martelli) e pezzi di statue, come una testa, un piede e una mano. Al centro della kylix compare invece Efesto, seduto davanti a Teti armata di lancia e di scudo, mentre sta fabbricando uno splendido elmo destinato ad Achille. Sulla parete sono appesi un martello e schinieri, facenti parte anch’essi dell’armatura forgiata dal dio artigiano.

UNA RIGIDA GERARCHIA Simili scene di bottega, oltre a offrire una preziosa testimonianza delle attività e delle tecniche artigianali, ne documentano anche l’organizzazione sociale, imperniata su una rigida gerarchia, con una netta distinzione tra maestri, giovani apprendisti e schiavi addetti ai lavori piú pesanti, spesso alla presenza di un personaggio (cliente?) appartenente probabilmente a un ceto sociale elevato. Nell’area sud-occidentale

La decorazione esterna di una kylix attica a figure rosse nella quale si vedono due artigiani al lavoro su una grande statua, forse del dio Ares, e, in basso, un altro artigiano addetto alla fornace, da Vulci. 490-480 a.C. Berlino, Staatliche Museen, Antikensammlung. In basso: l’interno di una kylix attica a figure rosse sulla quale compare l’immagine di un satiro che sta scanalando una colonnina, forse da Cerveteri. 475 a.C. circa. Boston, Museum of Fine Arts.

dell’agorà ateniese erano anche attivi vari laboratori di scultura; gli scavi hanno messo in luce ambienti appartenenti alla casa di due scultori, caratterizzati da strati di polvere e schegge di marmo, nei quali sono stati rinvenuti blocchi, statue semifinite e strumenti in metallo e osso. Una kylix conservata anch’essa nel Museo di Boston, risalente alla prima metà del V secolo a.C., mostra un satiro seduto che lavora con uno scalpello a una colonnina

per scanalarla (vedi foto qui sotto), mentre su un’altra coppa attribuita a Epiktetos, che tra l’altro reca l’acclamazione all’efebo Ipparkos, è presente un giovane che scolpisce un’erma di Priapo. Vi è dunque una precisa corrispondenza tra le raffigurazioni sulle ceramiche e i contesti archeologici.

PER SOLE DONNE La maggior parte delle raffigurazioni con soggetto di attività artigianali femminili nella ceramica attica riguarda la manifattura dei tessuti in ambito domestico. Le occupazioni della donna greca infatti, come del resto anche di quella romana soprattutto nel periodo arcaico, erano quelle legate all’amministrazione della casa e al lavoro al telaio. L’immagine di Penelope perennemente intenta a lavorare la lana è in questo caso emblematica. Secondo Euripide, sottrarre la donna al telaio e alla spoletta equivaleva a un vero e proprio sovvertimento etico e morale. Tale attività si svolge spesso,

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Particolare della decorazione di una hydria attica a figure nere del Pittore di Priamo con un gruppo di donne che si recano a una fontana per attingere acqua, da Vulci. 510 a.C. circa. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. nell’intimità della casa, davanti ai figli maschi e alle schiave di famiglia, e riflette le virtú femminili di cui è permeata la società greca, ossia l’industriosità, la sottomissione all’uomo, lo spirito di sacrificio e l’accettazione di un’esistenza condotta sostanzialmente nella reclusione domestica. Le centinaia di rappresentazioni dell’artigianato tessile in ambito domestico, riflettono altresí, dal punto di vista economico, l’autarchia dell’oikos. Tuttavia, in caso di necessità, le donne di casa con le loro schiave potevano anche produrre tessuti da vendere, contribuendo cosí a far fronte alle difficoltà economiche familiari, assumendo in alcuni casi anche la forma di un’impresa industriale a gestione familiare. Come detto, tali attività sono

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raffigurate su centinaia di prodotti ceramici, sia a figure nere che rosse, fornendo importanti informazioni sulle varie fasi di lavorazione dei tessuti, dalla lavorazione della lana (vedi foto a p. 106, in alto), alle scene in cui le donne sono raffigurate con gli strumenti della filatura, alle scene in cui è presente il telaio, e infine a quelle nelle quali compare il prodotto finale della filiera lavorativa.

ATTENZIONI SGRADITE Un’altra attività esclusivamente femminile, rappresentata soprattutto sulle hydriai, è quella della raccolta dell’acqua, che, a differenza della tessitura, si svolge all’esterno delle mura domestiche. Un compito che spesso espone la donna ai pericoli del mondo esterno, in primis alle attenzioni e

alle molestie dei maschi. Tale attività poteva insomma comportare molti rischi, tanto che le famiglie ateniesi pagavano le donne dei meteci, ossia i non cittadini, perché la svolgessero al posto delle proprie donne. Tuttavia, per le donne questa incombenza poteva anche trasformarsi in un’occasione di socializzazione, in quanto momento di incontro per scambiare chiacchiere e proteggersi a vicenda dalle attenzioni di uomini e satiri. Lo si può intuire, per esempio, dalla scena su una hydria del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, nella quale compaiono cinque donne mentre si recano alla fontana (vedi foto qui accanto). Un’ultima considerazione sul significato delle raffigurazioni di attività artigianali nella ceramica. Piú che un’autorappresentazione o una celebrazione del lavoro degli artigiani, si può pensare a oggetti realizzati su commissione in occasione di feste e celebrazioni nelle quali artigiani e aristocratici si incontravano, magari a banchetto (la maggior parte dei vasi con rappresentazioni di botteghe erano quelli utilizzati nei simposi per mescere il vino, ossia crateri e kylikes). Le immagini degli artigiani intenti alle loro attività dipinte sulle ceramiche starebbero dunque in qualche modo a segnare il confine sociale tra i committenti e signori e coloro che erano invece destinati al lavoro manuale, considerati, benché indispensabili per il loro contributo alla crescita economica della società, comunque di condizione inferiore.

PER SAPERNE DI PIÚ Massimo Vidale, Lavorare all’ombra dell’Acropoli. Il mondo degli artigiani nella Grecia antica, in «Archeo» n. 158, aprile 1998, pp. 49-87



L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

GIOIA, SPLENDORE E PROSPERITÀ LE TRE GRAZIE CONOSCONO DA SECOLI UNA FORTUNA INEGUAGLIABILE, ALLA QUALE CONTRIBUISCONO PREGEVOLI EMISSIONI MONETALI

L

a grazia, intesa in senso teologico – sia esso politeista o monoteista –, rappresenta l’atteggiamento benigno della divinità nei confronti del suo fedele, ovvero l’uomo. Questa benevolenza scaturisce dalla libera volontà dell’essere superiore, che decide di concedere favori al

popolo che lo venera o al singolo devoto per puro atto di liberalità e non essendo tenuto a farlo. Ancora oggi, quando ci si rivolge a chi detiene un potere di qualsiasi genere per ottenere un favore, gli si chiede, magari con una leggera ironia, la «grazia»; in campo giuridico, nel diritto penale, la

richiesta di grazia può cancellare o mitigare la pena di un individuo che si trova in carcere e per il quale è stata presentata tale istanza. Quando la grazia (o le grazie) richiesta al dio è concessa, tale dono comporta naturalmente in chi lo riceve un sentimento di letizia e gioia, che gli rende la vita migliore: ancora oggi tali benefici sono testimoniati dai numerosi ex voto, antichi e moderni, che affollano chiese cosí come altarini lungo le strade, in particolare a Roma, affissi «per grazia ricevuta».

LA GIOIA DI VIVERE La grande capacità della cultura classica di personificare concetti astratti ha previsto anche per tali sentimenti una incarnazione che ben simboleggia a livello visivo lo «stato di grazia» che l’essere umano può raggiungere tramite la volontà divina. Ed ecco nascere cosí le tre Grazie, la cui leggiadra rappresentazione ha avuto ininterrotto successo nell’arte antica e moderna. Denominate in greco Charites, nome corrispondente ai concetti di grazia, bellezza, gentilezza e dal quale deriva il nostro «carità», sono figlie di Zeus (ma altre tradizioni nominano vari personaggi del pantheon greco), dispensatrici di bellezza, gioia, prosperità e fertilità (dove camminano spuntano fiori), e sono di regola nude, a simboleggiare la loro perfezione e purezza senza macchia (Servio, Commentarius in Vergilii Aeneidos, I, 720). I loro nomi sono Euphrosyne (la gioia), Aglaia

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(lo splendore) e Thalia (la prosperità), spesso associate ad Afrodite per la loro venustà e il chiaro simbolismo legato alla fertilità sessuale e vegetale. Di regola vengono raffigurate come tre fanciulle nude, quella al centro di spalle e le altre di fronte, le cui mani possono intrecciarsi come in una sorta di ballo, o toccarsi semplicemente le spalle, per meglio rendere il concetto unitario dell’essenza divina che incarnano, che permette alla persona di raggiungere un agognato sentimento di benessere. In mano possono recare fiori, frutti, corone o brocche, sempre a simboleggiare la pienezza della loro benefica natura. Il modello deriva da un originale statuario o pittorico ancora discusso, cosí come lo è la sua datazione, che oscilla tra l’età ellenistica e il I secolo a.C.; la loro posizione a trittico è detta «chiasmo» (da chiasmos, vocabolo greco a sua volta derivante dal nome della lettera chi, tipica per la sua forma incrociata), una modalità compositiva codificata nella scultura da Policleto, grazie alla quale, tramite la disposizione incrociata degli arti e della loro inclinazione, conferisce equilibrio alle statue.

UNO SCHEMA RICORRENTE Le leggiadre Grazie divennero ben presto un soggetto prediletto riprodotto su ogni tipo di supporto, dalle statue alle gemme, nel quale alla bellezza esteriore si sommano significati filosofici e morali che poi confluiranno, nel corso dei secoli, nel neoplatonismo. Esse compaiono nella monetazione

Moneta in bronzo di Severo Alessandro con le tre Grazie al rovescio, da Deultum (Tracia, nell’odierna Bulgaria). 222-235 d.C. Nella pagina accanto: piccolo gruppo scultoreo raffigurante le tre Grazie, forse da un originale dipinto, da Roma. II sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre. imperiale delle province romane a partire dall’età adrianea, rese secondo uno schema ripetitivo che conosce solo piccole variazioni. I bronzi provinciali possono avere

leggende in greco o in latino e riportano come di regola la titolatura imperiale al dritto e quella della città al rovescio. Tra queste si menziona la città della Tracia denominata Colonia Flavia Pacis Deultensium (presso Debelt, in Bulgaria), fondata nel 70 d.C. dai veterani della Legio VIII Augusta di Vespasiano, membro della gens Flavia. Deultum era una delle poche città della regione a fregiarsi dello status di colonia, dove i suoi abitanti godevano degli stessi diritti dei cittadini romani. Le prime monete vennero emesse durante il regno di Traiano, nel 100 d.C., forse in occasione del trentesimo anniversario della fondazione. Le coniazioni prevedevano solo il bronzo e la legenda era in latino, essendo la città una colonia romana. L’invasione delle tribú gote in Tracia e Mesia nel 248 d.C. segnò una rottura nella vita economica della città e pose fine prematuramente alle coniazioni. La città fu distrutta alla fine del VI secolo sotto i pressanti attacchi degli Slavi e degli Avari. Il tranquillizzante riferimento alla Pax nel nome di Deultum ben si accorda con il tipo delle tre Grazie presente sulle emissioni di Severo Alessandro (222-235 d.C.) e della madre Giulia Mamea. Al dritto, il busto imperiale riporta la consueta titolatura mentre al rovescio compare il nome completo della città che circonda le tre giovani nude, con la centrale di schiena, che si toccano le spalle con un grazioso intreccio di braccia. D’altronde, la Pax e le Grazie camminano naturalmente insieme: soltanto con la pace l’uomo può migliorare la sua già travagliata condizione di vita.

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Giorgio Manzi

ANTENATI Lucy e altri racconti dal tempo profondo il Mulino, Bologna, 223 pp., ill. b/n 16,00 euro ISBN 978-88-15-38801-8 www.mulino.it

Sotto forma di «storie, che possono essere lette indipendentemente le une dalle altre», Giorgio Manzi propone una galleria di alcuni dei nostri piú celebri progenitori, abbracciando un vastissimo orizzonte cronologico e geografico. Nel cinquantesimo anniversario della scoperta, non poteva mancare Lucy (a cui il libro è dedicato), ovvero la femmina di australopiteco che visse intorno ai 3,2 milioni di anni fa in Etiopia e i cui resti furono scoperti da Donald Johanson nel novembre del 1974. Accanto e intorno a lei 112 a r c h e o

sfilano, idealmente, altri nomi illustri della paleoantropologia e dell’archelogia preistorica, dall’Uomo di Ceprano a quello di Altamura, fino a concedere a Ötzi, la mummia del Similaun, l’onore di calare il sipario. Non senza offrire al lettore una Postilla che, come il Prologo, l’autore indirizza a una Nostra Signora Garante dell’Universo che l’autore ha immaginato come rappresentante di una popolazione aliena a cui toccasse il compito di provare a ricostruire «archeologicamente» le vicende narrate nel volume. Un’opera che dunque miscela con efficacia il rigore scientifico delle notizie riportate con il brio di una prosa capace di rendere accessibile un tema di straordinaria complessità, quale è quello delle origini della nostra specie. Stefano Mammini Marco Rocco

LIMES Vivere e combattere ai confini di Roma Salerno Editrice, Roma, 252 pp., 6 figg. b/n 25,00 euro ISBN 978-88-6973-833-3 www.salernoeditrice.it

Molto si dibatte, oggi, di frontiere, spesso interrogandosi sul concetto stesso di confine: questioni avvertite, immaginiamo, in maniera diversa

All’Insegna del Giglio, Sesto Fiorentino, 244 pp., ill. col. e b/n 50,00 euro ISBN 978-88-9285-208-2 www.insegnadelgiglio.it

al tempo dell’impero romano, quando il limes, protagonista di questo saggio, era vissuto come una presenza netta e chiara, per lunghi tratti sottolineata dalla presenza di importanti opere di difesa. Questo mondo limitaneo viene dunque esaminato e descritto da Marco Rocco, seguendone lo sviluppo in un arco di tempo compreso fra le prime grandi conquiste di Roma e gli ultimi fuochi della sua potenza imperiale. In un’opera che, anche grazie al contributo delle molte fonti citate, porta il lettore nella vita quotidiana delle guarnigioni di stanza nelle varie province e, al tempo stesso, ripercorre dal loro punto di vista lo svolgersi degli eventi destinati a culminare con la violazione di una frontiera che sembrava poter resistere a qualsiasi minaccia. S. M. Andrea Zifferero

PAESAGGI DI CONFINE IN ETRURIA

Firma da tempo nota ai lettori di «Archeo», Andrea Zifferero affronta in questo volume – di taglio specialistico – un tema che da tempo costituisce uno dei suoi filoni di ricerca e che si inserisce nel piú vasto ambito degli studi sulla gestione del territorio da parte delle civiltà antiche. Si tratta, in questo caso, del tentativo di identificare le dinamiche dei rapporti fra le città etrusche, i loro sepolcreti e i luoghi deputati al culto. Presenze che, nell’area in esame, sono attestate da scavi e ricognizioni di superficie, la cui rilettura critica, incrociata con le notizie riportate da fonti letterarie ed epigrafiche, consente all’autore di ipotizzare convincenti modelli di occupazione di alcune aree nevralgiche dell’Etruria tosco-laziale. S. M.



presenta

MEDIOEVO

NASCOSTO

LUOGHI ♦ STORIE ♦ ITINERARI PARTE I: ITALIA CENTRO-SETTENTRIONALE

All’ombra dei grandi monumenti medievali italiani, dei celeberrimi gioielli delle città d’arte conosciuti in tutto il mondo, la nostra Penisola ospita uno straordinario e infinito patrimonio architettonico e artistico, talora definito, a torto, «minore». Centinaia, migliaia di borghi e interi quartieri cittadini, pievi e abbazie, castelli e fortificazioni compongono il «Medioevo nascosto» a cui è dedicata la nuova edizione del Dossier di «Medioevo», realizzata a oltre dieci anni dalla prima rassegna sull’argomento: una rassegna di monumenti probabilmente meno noti e inseriti in contesti paesaggistici che ne esaltano la suggestione e il fascino. A guidare la redazione dell’opera non è stata soltanto la volontà di valorizzare questi beni, ma anche l’auspicio che, scorrendo le pagine del Dossier, nasca il desiderio di vederli da vicino. Il viaggio si snoda attraverso le regioni del Settentrione e del Centro del Paese, dalla Valle d’Aosta all’Umbria e, naturalmente, al resto d’Italia sarà riservata la seconda parte del progetto. Qui, dunque, ci si muove dai castelli sorti lungo l’arco alpino agli insediamenti sviluppatisi nell’area padana, dalle rocche che punteggiano gli Appennini ai borghi della Maremma tosco-laziale... Un palinsesto di eccezionale ricchezza, le cui storie raccontano di ignoti cavalieri, mercanti, contadini, che però hanno spesso intrecciato le loro esistenze con le gesta di molti celebri protagonisti del Medioevo italiano ed europeo, come il re longobardo Desiderio o come san Colombano, il grande evangelizzatore irlandese. Storie avvincenti, che attendono solo di essere lette...

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