Archeo n. 469, Marzo 2024

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LEGIONARI IN GALILEA

BEIT SAHOUR

MUSEO ARCHEOLOGICO DI PARMA

FESTIVAL UMBRIA ANTICA

SPECIALE FORMA URBIS E PARCO DEL CELIO

UMBRIA

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ARCHEOLOGI ITALIANI NEL CAMPO DEI PASTORI

PARMA

IL NUOVO MUSEO ARCHEOLOGICO

IL CASTRUM DEI LEGIONARI

SCOPERTE

UN FESTIVAL PER LA STORIA ANTICA

IL MUSEO DELLA FORMA URBIS

ROMA

www.archeo.it

IN EDICOLA IL 9 MARZO 2024

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AR RO CO M DE A ww LC w. EL a rc IO he o.

2024

Mens. Anno XXXIX n. 469 marzo 2024 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

ARCHEO 469 MARZO

TERRA SANTA € 6,50



EDITORIALE

NON ACCADE TUTTI I GIORNI Negli anni tra il 203 e il 211 d.C., una grande pianta della Roma del tempo venne affissa sulla parete di un’aula del cosiddetto Tempio della Pace. Era incisa su 150 lastre di marmo, preventivamente applicate alla parete con perni di ferro. La pianta era alta circa 13 m e larga circa 18. Su una superficie di circa 235 mq erano rappresentati, si è calcolato, almeno 13 550 000 mq dell’antica città: vi erano raffigurati tutti gli edifici di Roma, pubblici o meno, con un dettaglio che permetteva di identificarne addirittura i singoli ambienti. Le tracce della Forma Urbis – cosí la pianta viene denominata (con un’espressione che risale, però, all’età moderna) – si perdono durante il Medioevo e la riscoperta di alcuni suoi frammenti avviene, forse del tutto casualmente, nel 1562. Da quel momento, la storia della Forma Urbis è fatta di infiniti frammenti. E la conoscenza di quello che, a buon diritto, possiamo annoverare tra i documenti topografici piú rari tramandatici dell’antichità è rimasto, in massima parte, appannaggio degli studiosi. Fino a poche settimane fa. Lo scorso gennaio, infatti, l’inaugurazione di un nuovo Museo della Forma Urbis, allestito all’interno dell’altrettanto nuovo Parco archeologico del Celio, ha restituito quello straordinario documento alla conoscenza del pubblico. Si tratta di un risultato (un «evento» avremmo voluto scrivere, se quel termine non avesse oggi assunto una connotazione tanto effimera e banalizzante) assolutamente straordinario, frutto di un lavoro e di un impegno – ne parliamo nello Speciale del numero – che meritano il massimo riconoscimento. Cosí come è d’obbligo visitare quello scrigno di tesori che è il rinnovato Museo Archeologico Nazionale di Parma (vedi alle pp. 52-68), allestito all’interno del Complesso monumentale della Pilotta: la sua è una storia avventurosa e travagliata, oggi miracolosamente confluita in un racconto scandito dalla presenza di reperti che conducono il visitatore attraverso i millenni, dalla preistoria agli esordi dell’età medievale. Invitiamo i nostri lettori a verificare di persona i nuovi musei appena inauguratisi. Ricordando che si tratta di due eventi – questa volta sí – di civiltà, nient’affatto scontati al giorno d’oggi. Andreas M. Steiner In alto: la sala del Museo Archeologico Nazionale di Parma nella quale è riunito il ciclo statuario giulio-claudio proveniente da Veleia.


SOMMARIO EDITORIALE

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di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

6

SCAVI Legionari in Galilea

6

di Andreas M. Steiner

ALL’OMBRA DEL VULCANO Echi d’Oriente

SCAVI 8

di Alessandra Randazzo

FRONTE DEL PORTO Tecnologie amiche

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di Claudia Tempesta

MOSTRE Dal Foro al Palatino: sulle orme di mecenati, artisti ed eruditi 12 A TUTTO CAMPO Scienza e ricerca per le persone 16 di Davide Orsini

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Ritorno al Campo dei Pastori

IN EDICOLA IL 9 MARZO 2024

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amministrazione@timelinepublishing.it

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€ 6,50

In Umbria, al ritmo della storia

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In copertina il «Campo dei Pastori», nella municipalità di Beit Sahour, presso Betlemme, oggetto delle ricerche del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana (PIAC-Roma).

Presidente

Federico Curti

ARCHEOLOGI ITALIANI NEL CAMPO DEI PASTORI

Comitato Scientifico Internazionale Mens. Anno XXXIX n. 469 marzo 2024 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

SPECIALE FORMA URBIS E PARCO DEL CELIO

Amministrazione

FESTIVAL UMBRIA ANTICA

Impaginazione Davide Tesei

INCONTRI

di Andrea Augenti

MUSEO ARCHEOLOGICO DI PARMA

Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it

di Giampiero Galasso

Storie di pietra e mattoni

TERRA SANTA

BEIT SAHOUR

Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it

52

34

34 LEGIONARI IN GALILEA

Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it

Meraviglie ducali

SCAVARE IL MEDIOEVO

2024

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 – 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it

MUSEI

Rubriche

ARCHEO 469 MARZO

Anno XL, n. 469 - marzo 2024 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

52

a cura della redazione

testi di Gabriele Castiglia, Simone Schiavone, Giulia Spadanuda e Angelita Troiani, con contributi di Giovanni Claudio Bottini, Daniela Massara, Simone Schiavone e Gianantonio Urbani

PA R RC O O M DEL A CE LIO he o.

MOSTRE Storie di gente speciale

di Luciano Calenda

www.archeo.it

Non accade tutti i giorni

MUSEI Grande, grandissimo, anzi colossale 20 INCONTRI L’antico in una prospettiva multifocale 26 ARCHEOFILATELIA Sulla via per Betlemme 28

Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Venceslas Kruta, Henry de Lumley, Javier Nieto

PARMA

IL NUOVO MUSEO ARCHEOLOGICO SCOPERTE

IL CASTRUM DEI LEGIONARI UMBRIA

UN FESTIVAL PER LA STORIA ANTICA

arc469_Cop.indd 1

ROMA

IL MUSEO DELLA FORMA URBIS

28/02/24 16:03

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Carla Alfano, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Giulio Paolucci, Sergio Pernigotti, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Jacopo Tabolli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore ordinario di archeologia medievale all’Università di Bologna. Francesca Romana Bigi è curatore archeologo della Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali. Giovanni Claudio Bottini è professore di greco biblico, esegesi del Nuovo Testamento, teologia biblica e introduzione al Nuovo Testamento e decano emerito dello Studium Biblicum Franciscanum (SBF-Gerusalemme). Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Gabriele Castiglia è professore di topografia dell’Orbis Christianus Antiquus e di metodologia della ricerca archeologica al Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana (PIAC-Roma). Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Francesca de Caprariis è curatore archeologo della Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Claudia Devoto è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze dell’Antichità della Sapienza Università di Roma. Luciano Frazzoni è archeologo. Giampiero Galasso è giornalista. Daniela Massara è direttore esecutivo del Terra Sancta Museum. Roberto Narducci è funzionario archeologo della Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma. Davide Orsini è direttore del SIMUS-Sistema Museale Universitario Senese e docente a contratto di storia della Medicina all’Università di Siena. Nicoletta Paolucci è direttrice del Museo Civico di Todi. Caterina Papi è curatore archeologo della Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali. Claudio Parisi Presicce è Sovrintendente Capitolino ai Beni Culturali del Comune


TERRA, ACQUA, FUOCO, VENTO C’è scritto (quasi) tutto

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di Luciano Frazzoni

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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Alle origini di un’eresia

SPECIALE 110

di Francesca Ceci

LIBRI

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Il verde e l’antico del colle ritrovato

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di Francesca de Caprariis, Francesca Romana Bigi e Caterina Papi, con un intervento di Claudio Parisi Presicce e con la collaborazione di Luciano Frazzoni

di Roma. Alessandra Randazzo è giornalista. Letizia Rustico è archeologo della Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma. Simone Schiavone è dottorando in archeologia dell’architettura del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana (PIAC-Roma). Giulia Spadanuda è dottoranda in topografia cristiana del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana (PIAC-Roma). Angelita Troiani è dottoranda in topografia cristiana del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana (PIAC-Roma). Gianantonio Urbani è professore invitato di escursioni settimanali in Gerusalemme e dintorni allo Studium Biblicum Franciscanum (SBF-Gerusalemme). Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina (e pp. 34/35) e pp. 54/55, 74/75 – Cortesia Museo Archeologico Nazionale di Parma: pp. 56 (alto), 61; Giovanni Hanninen: pp. 3, 52/53, 54 (alto), 56 (basso), 58 (alto), 60, 62 (basso), 64 (alto); Lorenzo Moreni: pp. 54 (basso), 57, 58 (centro e basso), 59, 62 (sinistra), 63, 64 (basso), 65, 66-67, 68 – Israel Antiquities Authority: Emil Aladjem: pp. 6-7 – Parco Archeologico di Pompei: pp. 8-9 – Parco archeologico di Ostia antica: p. 11 (alto); C.P.T. Studio S.r.l.: p. 10; Giusy Castelli: p. 11 (basso) – Parco archeologico del Colosseo, Servizio Comunicazione: Simona Murrone: pp. 12, 13 (alto e cenro), 14 – Università degli Studi di Siena: Andrea Lensini: p. 16 (alto); Archivio fotografico SIMUS: p. 17 (alto); Archivio fotografico Museo Anatomico: p. 17 (basso) – Ufficio Stampa MUSE-Ufficio Stampa METS: pp. 18-19 – Ufficio stampa Zètema Progetto Cultura: pp. 20, 21 (alto) – Doc. red.: pp. 22-25, 26, 38 (basso), 42 (alto), 43, 46/47, 72/73, 74, 89, 106-107, 108 (alto); Studio Inklink: pp. 100/101 – The American Colony and Eric Matson Collection, Todd Bolen: pp. 35, 37 (alto), 39 (sinistra), 48/49 – Cortesia Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana (PIAC-Roma): pp. 37 (basso), 42 (basso), 42/43, 44 (centro e basso), 45, 47, 49; Gabriele Castiglia: pp. 36/37; Giulia Spadanuda: pp. 38 (alto), 39 (destra), 44 (alto); Studium Biblicum Franciscanum: pp. 40 (sinistra), 41 (destra); S. Bertoldi: p. 41 (basso) – da: Virgilio C. Corbo, Gli scavi di Kh. Siyar el-Ghanam (Campo dei pastori) e i monasteri dei dintorni, Gerusalemme 1955: p. 40 (destra) – Studium Biblicum Franciscanum: Archivio Fotografico Virgilio Corbo: p. 41 (sinistra) – Cortesia Comune di Todi: pp. 77 (basso), 78; Manuel Antonio Martelli: p. 76 – Cortesia Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali del Comune di Roma: pp. 80-87, 88, 90 (alto), 90/91, 92-99, 100 (basso), 101, 102 (alto), 103 – Cortesia Simona Sansonetti: p. 102 (centro, foto b/n) – Cortesia Letizia Rustico: p. 102 (centro, disegno, e basso) – Cortesia Musei del Duomo di Modena: pp. 104-105 – The Metropolitan Museum of Art, New York: p. 108 (basso) – Münzkabinett der Staatlichen Museen, Berlino: Reinhard Saczewski: p. 110 – Cortesia degli autori: p. 111 – Cippigraphix: cartine alle pp. 36, 55, 90 (basso).

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia srl Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Il Servizio Arretrati è a cura di: Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Srl - 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito: https://arretrati. pressdi.it

L’indice di «Archeo» 1985-2023 è disponibile sul sito https://ulissenet.comperio.it/ Registrandosi sulla home page si ottengono le credenziali per la consultazione di prova


n otiz iari o SCOPERTE Israele

LEGIONARI IN GALILEA

rra ite ed

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eno conosciuta della famigerata Legio X Fretensis (protagonista della repressione, sotto la guida di Tito, della grande rivolta giudaica del 66-70 d.C. conclusasi con la distruzione di Gerusalemme e del Tempio erodiano), la Legio VI Ferrata svolse un ruolo rilevante nel corso della successiva, terza, insurrezione giudaica, nota come «rivolta di Bar Kochba» (132-135), ferocemente repressa dall’imperatore Adriano. Secondo alcuni studiosi, la Legio VI Ferrata affiancò la Legio X Fretensis, insediandosi proprio a Gerusalemme, all’uopo rinominata Colonia Aelia Capitolina dallo stesso Adriano. Dalle fonti sappiamo però che già agli inizi del suo principato (117138 d.C.) un contingente permanente della Legio VI Ferrata venne stanziato in Galilea, con lo scopo di garantire il controllo di

neo

M

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Nazareth

Lago di Tiberiade

MEGIDDO

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CISGIORDANIA Gerusalemme STRISCIA DI GAZA

Betlemme

Mar Morto

ISRAELE

GIORDANIA EGITTO

Sulle due pagine: Megiddo (Israele). Gli imponenti resti rinvenuti nei pressi del sito UNESCO in seguito all’ampliamento della strada statale 66 (nella foto a sinistra), identificati con il castrum di Legio, sede della Legio VI Ferrata di stanza in Galilea durante il II e il III sec. d.C.

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quella parte del territorio della Giudea. L’identificazione del luogo in cui sorgeva il campo legionario, noto con il nome di Legio, è stata resa possibile dalla persistenza del nome, sedimentatosi in quello di Lajjun, un villaggio arabo situato a circa 16 km a nord della città di Jenin (in Cisgiordania) e ad appena 1 km a sud dal sito UNESCO di Megiddo (la biblica Armageddon, trascrizione greca dell’ebraico Har Megiddo, il «Monte di Megiddo»). Oggi, dopo dieci anni di ricognizioni e scavi condotti dagli archeologi Yotam Tepper (per conto della Israel Antiquities Authority, la sovrintendenza alle

antichità di Israele) e da Matthew J. Adams (per conto dell’Albright Institute of Archaeology di Gerusalemme), sono stati portati in luce alcuni resti davvero imponenti del castrum di Legio: quelli della via Pretoria (la principale strada d’accesso al campo), di un podio semicircolare e della pavimentazione di un grande edificio pubblico. «Il campo legionario misurava circa 550 x 350 m – spiega il direttore dello scavo, Yotam Tepper – e per oltre 180 anni – dal 117/120 al 300 d.C. circa – ha rappresentato una base militare permanente per un contingente di oltre 5000 soldati romani». Andreas M. Steiner

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ALL’OMBRA DEL VULCANO di Alessandra Randazzo

ECHI D’ORIENTE LE FIGURINE IN TERRACOTTA RINVENUTE DI RECENTE NELLA CASA DI LEDA SEMBREREBBERO TESTIMONIARE LA PRATICA DI CULTI LEGATI A CIBELE E ATTIS. DIVINITÀ «IMPORTATE» A ROMA NEL III SECOLO A.C. PER OTTENERE DA LORO UN AIUTO CONTRO LE DEVASTAZIONI DI ANNIBALE

D

al 1748 a oggi, Pompei è stata scavata per gran parte della sua estensione, ma un settore della città è ancora coperto dal deposito accumulatosi dall’eruzione del 79 d.C. ai nostri giorni, spesso fino a 6 m. Il limite di questa coltre, chiamato «fronte di scavo», è formato da un pendio verde che è stato messo in sicurezza grazie

agli interventi del Grande Progetto Pompei, sotto la direzione di Massimo Osanna. In alcune aree i fronti di scavo sono stati arretrati e hanno permesso di riscoprire intere porzioni di quartieri, come nella Regio V, o singole parti di case come, quali gli ambienti della Casa di Leda (anch’essa nella Regio V, lungo Via del Vesuvio).

In questa domus è stato dato avvio a un nuovo intervento, mirato a rendere pienamente fruibili l’atrio e gli ambienti che vi gravitano, riducendo, grazie allo scavo archeologico, il carico del terreno che grava sulle loro murature perimetrali, oltre a prevedere nuove coperture a protezione delle superfici decorate. Le indagini sono Sulle due pagine: immagini delle statuine in terracotta scoperte in un ambiente prossimo alla Casa di Leda: ancora in situ e dopo i primi interventi di pulitura. Appare probabile che le figurine siano legate ai culti tributati alla dea Cibele e al suo paredro Attis.

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state ampliate fino a comprendere una serie di ambienti retrostanti, fra cui il probabile atrio della casa posta a nord di quella di Leda.

IL GALLO E LA PIGNA Qui, all’interno di una nicchia ricavata nella muratura, sono state rinvenute 13 statuine di terracotta, alte 15-20 cm circa, realizzate con matrici bivalve e con tracce di colore. Con esse sono venuti alla luce vari frammenti, che potrebbero testimoniare l’originaria presenza di altre statuette, sia di forma umana sia animale – come la testa di un gallo –, oltre a una noce, una mandorla e una pigna di vetro. Solo dopo il restauro sarà possibile proporre un’interpretazione certa delle figurine, alcune delle quali, tuttavia, a una prima osservazione, sembrano rimandare al culto di Cibele e Attis e al loro corteo sacerdotale. Cibele, divinità d’origine orientale, era venerata a Roma da quando, nel 205 a.C., i decemviri sacris faciundis avevano letto nei Libri Sibillini (dei quali erano loro affidate la custodia e interpretazione) che, per contrastare la potenza di Annibale – il quale stava seminando terrore e distruzione sul suolo italico –, si doveva far venire da Pessinunte, in Frigia, la Grande Madre Idea (Mater deum Magna Idaea). Fu Attalo I, re di Pergamo, a consegnare la divinità agli ambasciatori giunti da Roma, i quali, sbarcati a Ostia nell’aprile del 204, ne consegnarono il simulacro.

L’arrivo della dea destò stupore nell’Urbe: Cibele non aveva sembianze antropomorfe, ma il suo simulacro era una pietra di colore nero, che in seguito fu incastonata nell’idolo d’argento della dea. Era accompagnata, simbolicamente, dal suo paredro, amante infedele, Attis e dal corteo dei sacerdoti eunuchi, i galli. Fu Catullo, nel carme 63, a narrare di questo giovane che, nell’atto estremo di appartenenza totale alla dea, si evira e cosí, a imitazione, anche i galli inebriati dall’estasi mistica del suono dei flauti, dei tamburelli e dei piatti. Sebbene le pratiche del suo culto fossero lontane dalla severa religione romana, Cibele divenne una dea di Roma a pieno titolo.

IL PINO IN PROCESSIONE Troiana d’origine, fu trattata come dea madre, con dimora sul Palatino, a differenza degli dèi stranieri, ai quali era riservato un luogo di culto fuori dal pomerio. Cibele ebbe anche i suoi ludi, detti Megalenses, dal 4 al 10 aprile, subito dopo una lunga liturgia di passione legata ad Attis. Il ciclo vero e proprio iniziava infatti il 22 marzo con la festa dell’Arbor intrat, l’ingresso del pino sotto il quale Attis si era evirato. La pianta veniva portata in processione al tempio del Palatino dalla confraternita dei dendrofori e la liturgia faceva rivivere la passione, morte e risurrezione del giovane frigio. Il pino poi veniva esposto alla venerazione dei fedeli.

A rendere il culto trasgressivo per la mentalità di un Romano era senza dubbio l’evirazione, una pratica considerata abominevole. Per alcuni secoli il personale sacerdotale fu composto esclusivamente da Frigi e il culto veniva praticato nel santuario, sottoposto a rigide regole e confinato all’interno del tempio. Solo in occasione dell’inizio della festa, il 4 aprile, la processione dei fedeli di Cibele attraversava le strade di Roma con i suoi sacerdoti vestiti con colori sgargianti e gli strumenti esotici della danza. A partire dall’età di Claudio (41-54 d.C.) il culto di Cibele e Attis venne praticato liberamente e si diffuse largamente in Italia e nell’impero e nei luoghi di culto si celebravano riti di iniziazione. Come accennato, nel contesto rinvenuto nella Casa di Leda alcune statuine rimanderebbero proprio ad Attis e al suo culto, in cui il dio è connotato dal berretto frigio, dalla cista, dal pedum e dal gallo, animale che ritorna anche come ex voto all’interno della nicchia. Interessante risulta anche il ritrovamento della pigna in vetro, che richiama al rituale a cui si sottoponevano i sacerdoti nell’estasi e cioè la percussione del petto proprio con le pigne. Per notizie e aggiornamenti su Pompei: pompeiisites.org; Facebook: Pompeii-Parco Archeologico; Instagram: PompeiiParco Archeologico; X: Pompeii Sites; YouTube: Pompeii Sites.

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FRONTE DEL PORTO a cura di Claudia Tempesta e Cristina Genovese

TECNOLOGIE AMICHE GRAZIE ALLA SINERGIA CON ALTRE ISTITUZIONI LOCALI, IL PARCO DI OSTIA HA DATO IL VIA A S.T.AR.T, UN PROGETTO MIRATO A FAVORIRE LA TUTELA E LA VALORIZZAZIONE ATTRAVERSO L’IMPIEGO DI METODOLOGIE AVANZATE

L

a tutela di aree archeologiche vaste e complesse, ma al tempo stesso connotate da un’estrema fragilità, non può prescindere, ormai, dall’adozione di processi di controllo tecnologicamente avanzati, che consentano una gestione informatizzata non solo della documentazione esistente, ma anche dei risultati dell’attività ispettiva, delle indagini diagnostiche e dei monitoraggi necessari alla verifica dello stato di conservazione

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dei beni archeologici e alla programmazione delle attività di manutenzione e di restauro. Tuttavia, poiché i finanziamenti ordinari sono spesso insufficienti per sviluppare tecnologie avanzate applicate ai beni culturali, risultano particolarmente preziose le risorse offerte da bandi europei, nazionali e regionali. In questa prospettiva, l’Avviso Pubblico «DTC-Intervento 2-Ricerca e sviluppo di tecnologie per la valorizzazione del patrimonio culturale» pubblicato nel 2018 dalla

Regione Lazio attraverso la società in house Lazio Innova, ha rappresentato un’occasione straordinaria per elaborare un progetto che, attraverso le tecnologie piú avanzate, consentisse di ottimizzare le metodologie di conservazione, proponendo al tempo stesso nuove modalità di fruizione. Il progetto «S.T.Ar.T. OstiaSoluzioni Tecnologiche per l’ARcheologia e il Territorio», elaborato dal Parco archeologico di


Ostia antica in partnership con il X Municipio di Roma Capitale e il Comune di Fiumicino, ha come obiettivo principale l’individuazione di forme e modelli per la migliore conservazione, gestione e fruizione dei beni archeologici, da testare su contesti circoscritti, ai fini di una successiva estensione all’intero patrimonio archeologico del Parco.

LA SELEZIONE DEI CONTESTI Per la sperimentazione di questo modello sono stati selezionati una parte della Regio IV di Ostia antica, l’edificio della cosiddetta «Capitaneria» di Porto e la tomba n. 57 della Necropoli di Isola Sacra, tra loro molto diversi per stato di conservazione, tipologia e funzione, con l’obiettivo di avere una campionatura che fosse piú ampia possibile e quindi un elevato livello di replicabilità. A seguito del completamento della progettazione e dell’avvio della seconda fase del bando, le attività previste dal progetto sono entrate nel vivo nello scorso mese di dicembre. Sono infatti attualmente

in corso le operazioni di rilievo fotogrammetrico e laserscanner degli edifici della Regio IV di Ostia – la Domus di Giove Fulminatore, il Ninfeo degli Eroti, la Domus dei Pesci, la Domus del Garofano e la Caupona del Pavone –, funzionali alla puntuale registrazione delle successive attività ispettive e diagnostiche e all’elaborazione di progetti di restauro e di manutenzione programmata. Le attività propedeutiche all’esecuzione del rilievo hanno previsto la scopertura integrale dei mosaici della Domus dei Pesci, che è stata utile anche per valutare le condizioni di conservazione dei pavimenti e per programmare l’utilizzo di sistemi piú efficaci di protezione, in attesa dell’esecuzione dei necessari interventi di restauro. In questa fase, inoltre, presso la Domus di Giove Fulminatore e il Ninfeo degli Eroti sono stati installati i sensori di monitoraggio per il controllo dell’evoluzione del quadro fessurativo delle murature; a breve entrerà in funzione anche il sistema di monitoraggio In alto: trasduttore di spostamento installato presso la Domus di Giove Fulminatore. A sinistra: i mosaici della Domus dei Pesci dissotterrati nel corso del progetto S.T.Ar.T. Nella pagina accanto: rilievo tridimensionale del Ninfeo degli Eroti.

microclimatico nella Caupona del Pavone e saranno avviate le indagini geologiche e le indagini diagnostiche, che permetteranno di acquisire informazioni sulla natura del sedime e sulla presenza di eventuali manufatti archeologici sepolti, sulle caratteristiche e sullo stato di conservazione delle strutture e degli apparati decorativi (inclusi eventuali supporti) e, infine, sulle cause del degrado, in modo da mettere in campo adeguati strumenti di prevenzione.

UN SISTEMA APERTO Tutti questi dati confluiranno nella piattaforma GIS del Parco, che verrà implementata attraverso lo sviluppo di nuovi moduli applicativi, e in un H-BIM (Heritage Building Information Modeling) specificamente progettato, che rappresenta certamente l’elemento piú innovativo del progetto: esso consentirà infatti di inserire e gestire in modo dinamico, entro un unico sistema aperto e incrementabile, tutte le informazioni disponibili, registrandone nel tempo le variazioni e favorendo la collaborazione multidisciplinare tra i diversi specialisti coinvolti. I dati prodotti ed elaborati principalmente a scopo conoscitivo e conservativo costituiranno la base per lo sviluppo di ricostruzioni in realtà virtuale in modalità sia aumentata sia immersiva, che saranno veicolate anche all’esterno del Parco archeologico grazie alla collaborazione con i partner e stakeholders pubblici e privati, con l’obiettivo di attrarre nuove fasce di pubblico. Claudia Tempesta

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n otiz iario

MOSTRE Roma

DAL FORO AL PALATINO: SULLE ORME DI MECENATI, ARTISTI ED ERUDITI

N

el Parco archeologico del Colosseo sono in corso, presso il Tempio di Romolo e nell’area del Palatino, due esposizioni temporanee che offrono altrettante testimonianze del fascino che le antichità hanno da sempre esercitato e che il cuore della Roma imperiale era in grado di emanare con un’intensità difficilmente eguagliabile. La prima mostra «Lo sguardo del tempo. Il Foro Romano in età moderna», intende far rivivere le sensazioni di quanti videro e visitarono questo settore della città antica non ancora svelato dai grandi scavi sistematici che gli hanno fatto assumere l’aspetto odierno. Prima di quegli interventi e delle successive sistemazioni, l’area del Foro Romano era uno straordinario paesaggio semirurale, ai margini della città abitata, che tuttavia rappresentava per viaggiatori ed eruditi di tutta Europa il cuore antico dell’Urbe e uno dei luoghi piú amati e celebrati della cultura internazionale. Un paesaggio straordinario, fatto di monumenti, natura e da un’umanità cosmopolita di cui restano migliaia di testimonianze scritte e iconografiche, che, in assenza di adeguati supporti, per i visitatori è difficile leggere

12 a r c h e o

In alto, qui accanto e in basso, a destra: l’allestimento e alcuni degli oggetti scelti per la mostra «Lo sguardo del tempo». In basso, a sinistra: uno scorcio del Ninfeo della Pioggia.


PROGETTO APPIA ANTICA 39

Anomalie in cerca di risposte

In alto: Veduta del Foro Romano alle pendici del Campidoglio, dipinto di autore anonimo. Seconda metà del XIX sec. In basso: un’altra immagine della mostra «Lo sguardo del tempo».

passeggiando nell’attuale Parco archeologico. E l’esposizione allestita nel Tempio di Romolo vuole appunto colmare questa lacuna, proponendosi come introduzione storica alla vera e propria visita archeologica al Foro. Attraverso testimonianze iconografiche riproposte in copia o in digitale (disegni, stampe, quadri, fotografie, filmati) e una piccola raccolta di oggetti-memoria legati

Il Progetto archeologico Appia Antica 39 – del quale «Archeo» ha dato ampio conto (vedi n. 467, gennaio 2024; on line su issuu.com) – ha lanciato la sua prima campagna di crowdfunding dedicata alla realizzazione di analisi biomolecolari e biochimiche su alcune sepolture «anomale» rinvenute nell’ultima campagna di scavo. Il Progetto Appia Antica 39 opera nel cuore di Roma e, dal 2022, sta indagando un sito di età imperiale con monumenti funerari molto ben conservati, dal grande potenziale culturale. Le sepolture «anomale» venute alla luce nel corso delle ultime ricerche – individui di grandi dimensioni, alcuni giovani malati, altri adulti la cui importanza sociale era sottolineata dalla presenza di una testa di cavallo – pongono i molteplici interrogativi ai quali si cercherà di rispondere grazie agli esami di laboratorio. Si può partecipare alla raccolta fondi con una donazione e/o facendo girare la voce tra chi potrebbe sostenere questa ricerca. Qui di seguito il link della piattaforma gofundme.com nel quale è disponibile il video che spiega le ragioni della richiesta: https:// gofund.me/1c51364b

alla cultura materiale del Grand Tour e alla vita quotidiana e professionale di chi visse e lavorò nel Foro (stampe, quadri, modelli, libri, micromosaici, ventagli, strumenti scientifici, ecc.), l’allestimento racconta la storia del Foro Romano come paesaggio tra il Cinquecento e il Novecento, concentrando la sua attenzione su alcuni temi nodali: la riscoperta dell’antico nel Rinascimento, ma

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In alto: un altro scorcio del Ninfeo della Pioggia. A sinistra: le Uccelliere Farnesiane. In basso: strumenti musicali esposti nella mostra «Splendori Farnesiani». XV-XVII sec.

anche l’uso del Foro come cava di materiali per la Roma moderna; il Foro come paesaggio classico ideale e come spazio rurale (Campo Vaccino); il Grand Tour e l’interesse degli eruditi; i primi studi scientifici e progetti di sistemazione dell’area; l’uso civico e politico dello spazio durante l’età dei nazionalismi e nella contemporanea civiltà di massa.

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Spostandosi quindi al Palatino, si può visitare la seconda mostra «Splendori Farnesiani. Il Ninfeo della Pioggia ritrovato», ideata per offrire una ricostruzione dei valori, dei significati e degli usi del Ninfeo e di tutti gli Orti Farnesiani nel momento di loro massimo splendore, tra la seconda metà del XVI e il XVII secolo. Attraverso quadri, disegni dall’antico, stampe, sculture in bronzo, oggetti d’arte e innovativi apparati digitali, la mostra permette ai visitatori di immergersi nella vita e nelle atmosfere del tempo, accostandosi non solo alla storia degli Orti e dei Farnese, ma alla stessa mentalità e visione del mondo che caratterizzava l’aristocrazia romana e italiana tra il tardo rinascimento e il Seicento.

«Splendori Farnesiani» ha inoltre offerto l’occasione di proporre la ricostruzione filologica del celebre Orto botanico istituito dai Farnese sul Palatino. Si tratta di uno dei piú antichi Orti di questo tipo in Europa, destinato al trapianto e alla coltivazione di piante e fiori esotici, provenienti soprattutto dalle Indie e dal Nuovo Mondo. La ricostruzione, che si snoda come un labirinto verde, è stata resa possibile grazie all’esistenza di un prezioso catalogo dell’Orto stesso, realizzato daTobia Aldini (con Pietro Castelli), Exactissima descriptio rariorum quarundam plantarum, quæ continentur Romae in horto Farnesiano, edito a Roma nel 1625 ed esposto fisicamente nell’Uccelliera di destra. (red.)

DOVE E QUANDO «Lo sguardo del tempo. Il Foro Romano in età moderna» Roma, Parco archeologico del Colosseo, Tempio di Romolo fino al 28 aprile «Splendori Farnesiani. Il Ninfeo della Pioggia ritrovato» Roma, Parco archeologico del Colosseo, Orti Farnesiani fino al 7 aprile Orario tutti i giorni, 9,00-16,00 Info https://colosseo.it



A TUTTO CAMPO Davide Orsini

SCIENZA E RICERCA PER LE PERSONE COMPOSTO DA OTTO MUSEI, IL SISTEMA MUSEALE DELL’UNIVERSITÀ DI SIENA HA COME MISSIONE LA RICERCA E LA COMUNICAZIONE SCIENTIFICA, SENZA TRASCURARE IL DIALOGO CON LE COMUNITÀ E L’INCLUSIONE SOCIALE DEI VISITATORI

L’

istituzione universitaria italiana è chiamata da alcuni anni ad assumere un ruolo nuovo e fondamentale a fianco di quelli tradizionali della ricerca e dell’alta formazione: entrare in sintonia con la società, dialogando con essa, per collaborare alla sua crescita sociale, culturale ed economica, offrendo risposte adeguate alle sue necessità. È la cosiddetta terza missione, con cui l’Università si impegna a divulgare la conoscenza per mezzo di una relazione diretta con il territorio circostante e i suoi attori. In questo nuovo scenario, nel quale il trasferimento tecnologico occupa ovviamente un posto privilegiato, i musei universitari possono rappresentare uno strumento altrettanto fondamentale per il «trasferimento culturale», ponendosi al servizio della società per la sua crescita intellettuale. E non sembri strana tale affermazione. Secondo la nuova definizione di museo elaborata nel

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Il Museo di Strumentaria Medica, una delle otto raccolte del SIMUS. 2022 dall’International Council of Museums (ICOM) «Il Museo è un’istituzione permanente senza scopo di lucro e al servizio della società, che compie ricerche, colleziona, conserva, interpreta ed espone il patrimonio culturale, materiale e immateriale. Aperti al pubblico, accessibili e inclusivi, i Musei promuovono la diversità e la sostenibilità. Operano e comunicano in modo etico e professionale e con la partecipazione delle comunità, offrendo esperienze diversificate per l’educazione, il piacere, la riflessione e la condivisione di conoscenze».

GLI OBIETTIVI DEL SIMUS Il Sistema Museale Universitario Senese (SIMUS) opera dal 2007, avendo ben presenti gli obiettivi che l’ICOM ha voluto esplicitare in

La prima pagina del notiziario Simus magazine, periodico on line, scaricabile dal sito www.simus.unisi.it


questa rinnovata definizione di cosa è e cosa fa un Museo. Con le sue otto realtà (costituite in prevalenza da collezioni scientifiche, nei settori della medicina, della botanica, della geologia, della fisica, dell’astronomia, ma anche dell’archivistica, dell’archeologia e della storia dell’arte), il SIMUS svolge da anni le sue attività, con due obiettivi prioritari. Il primo, privato, quasi introspettivo, mira alla salvaguardia, allo studio, alla catalogazione dei beni, in stretto contatto con l’Istituto Centrale del

Catalogo e della Documentazione, afferente al Ministero della Cultura, utilizzando la piattaforma Sigecweb. Ciò permette di portare avanti un’azione di ricerca e di conoscenza del bene culturale che è alla base della catalogazione, che a sua volta è conditio sine qua non per tutelare e conservare tale bene e per valorizzarlo. La catalogazione va infatti intesa come un «momento essenziale della tutela del patrimonio culturale» (D.Lgs. 42 del 22 gennaio 2004): catalogare non vuol dire realizzare un semplice elenco di beni, ma significa attivare un «progetto conoscitivo». È una «conoscenza ragionata» che permette di inquadrare un oggetto in un sistema di saperi scientifici e di relazioni storico-critiche, fondamentali per la sua tutela e, di conseguenza, per la sua valorizzazione. Parallelamente, il SIMUS svolge attività che riguardano il rapporto con il territorio senese e toscano in generale. Il Sistema Museale mira a far sí che i suoi Musei diventino In alto: un momento delle attività svolte nel Museo di Strumentaria Medica per persone affette dal morbo di Alzheimer. A sinistra: studenti del Corso di Laurea in Dentistry and Dental Prosthodontics durante un tirocinio al Museo Anatomico «Leonetto Comparini».

sempre piú luoghi nei quali si realizzano processi collettivi di produzione di conoscenza e spazi per la promozione di società sostenibili. Un obiettivo che risponde a una precisa responsabilità educativa e sociale, a nostro avviso imprescindibile.

INCLUSIONE E PARTECIPAZIONE Per raggiungere tali finalità occorre agevolare occasioni di interazione e favorire la partecipazione, con un’attenzione particolare ai pubblici che potrebbero presentare maggiori criticità. I Musei universitari senesi si stanno sempre piú organizzando, quindi, come luoghi nei quali perseguire il benessere degli utenti, anche nell’ottica di migliorare lo stato di salute, ridurre sensazioni negative come l’isolamento sociale, lo stress, la solitudine, e offrire supporto per le persone colpite da malattie degenerative. Dal 2017, per esempio, il SIMUS è entrato a far parte della rete Musei Toscani per l’Alzheimer. Grazie alla collaborazione tra operatori museali e animatori geriatrici, propone attività dedicate a persone affette da Alzheimer e ai loro caregiver, prendendo spunto dall’osservazione di beni culturali all’interno del Museo, per sollecitare emozioni e stimolare la reminiscenza che, comunicate attraverso differenti modalità espressive, vanno a costituire una storia, testimonianza di come ciascun individuo vede e percepisce la realtà. L’inclusione e la partecipazione sono concetti che coinvolgono il compito istituzionale dei Musei universitari e dell’Università tutta, perché permettono di intercettare le esigenze di conoscenza e di formazione degli utenti intesi nella loro variabilità individuale. (1 – continua) (davide.orsini@unisi.it)

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MOSTRE Trentino

STORIE DI GENTE SPECIALE

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na sorta di capo carismatico, un intermediario fra entità soprannaturali ed esseri umani, uno stregone capace di guarire dalle malattie, ma anche di provocarle... Ecco solo alcuni dei ruoli con i quali si identifica la figura dello sciamano, attestata presso culture di ogni parte del mondo, e ora protagonista

di un progetto espositivo nato dalla collaborazione fra il MUSEMuseo delle Scienze di Trento, il MART-Museo di arte moderna e contemporanea di Rovereto e il METS-Museo etnografico trentino di San Michele all’Adige. In particolare, la sezione curata dal MUSE – allestita in Palazzo delle Albere, a Trento – è imperniata sui A sinistra e in basso: particolari dell’allestimento della sezione della mostra «Sciamani» in Palazzo delle Albere a Trento. A destra: Trasfigurazione, scultura in radice di cirmolo affiorata e resina di Luca Pojer. 2022. Opera esposta al METS.

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reperti concessi in prestito dalla Fondazione Sergio Poggianella e provenienti dalle culture mongole, siberiane e cinesi che ancora oggi praticano lo sciamanesimo. Materiali che offrono l’opportunità di sviluppare un racconto che si snoda fra archeologia, antropologia e scienze cognitive. L’approccio concettuale del percorso espositivo va dal singolo alla pluralità, partendo dallo sciamano come individuo per poi collocarlo nella società di appartenenza e nel contesto paesaggistico. Piú di cento reperti originali, tra cui costumi rituali, maschere, copricapi, bastoni, strumenti per la divinazione e per la cura, guidano visitatrici e visitatori


in questo viaggio antropologico. Uno sguardo viene rivolto anche al tempo profondo: in mostra sono presenti alcuni reperti archeologici datati al Paleolitico Superiore europeo, che rappresentano figure umane con maschere animali e riportano alla dimensione del sacro dei nostri antenati, molto spesso associata, a torto o a ragione, al tema dello sciamanesimo. Si torna poi a esplorare, tramite un’esperienza sensoriale immersiva, la dimensione individuale dello stato alterato di coscienza, elemento centrale dello sciamanesimo che oggi può essere studiato, interpretato e anche

Qui sopra: la parte terminale di un amuleto in forma di testa di toro, dalla Mongolia. Metà del XX sec. In alto, a destra: Maschera, scultura realizzata con legni di recupero da Adolf Vallazza. 1999. A sinistra: un pungolo in metallo, decorato con fibre colorate, dalla Mongolia. Metà del XX sec.

Poggianella provenienti dall’Asia centrale. Il chiostro ospita una yurta di provenienza centro-asiatica completa di arredi originali. Alla mostra «Sciamani» e, piú in generale, allo sciamanesimo sarà dedicato lo Speciale del prossimo numero di «Archeo». (red.)

riprodotto grazie alla tecnologia applicata alle scienze cognitive. Infine, il documentario Dialoghi con l’antropologo Sergio Poggianella (2023) ripercorre le tappe che hanno portato alla nascita della collezione sciamanica della FSP. Al METS di San Michele all’Adige il tema della mostra è stato invece declinato nel segno delle tecnologie popolari. Nelle sale – Agricoltura, Bosco, Mulino, Carri e Slitte, Segheria, Fibre Tessili – e nel Chiostro sono esposte opere di undici artisti contemporanei in dialogo con le opere alcuni oggetti della collezione di arte sciamanica della Fondazione Sergio

DOVE E QUANDO «Sciamani. Comunicare con l’invisibile» Trento, Palazzo delle Albere «Sciamani. Téchne, spirito, idea» San Michele all’Adige, METS-Museo etnografico trentino San Michele fino al 30 giugno Orario Trento, Palazzo delle Albere, ma-ve, 10,00-18,00; sa-do e festivi, 10,00-19,00; lunedí chiuso San Michele all’Adige, METS, tutti i giorni, 10,00-18,00; chiuso il lunedí non festivo Info www.muse.it, www.museosanmichele.it

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MUSEI Roma

GRANDE, GRANDISSIMO, ANZI COLOSSALE

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lla fine del Quattrocento, nel cortile del Palazzo dei Conservatori, sul Campidoglio, furono sistemati i frammenti superstiti di una statua colossale di Costantino rivenuti poco prima nei pressi della basilica di Massenzio (e inizialmente attribuiti a un ritratto di Commodo). Da allora, la testa, il piede, la mano e le altre nobili membra dell’imperatore cristiano sono divenute altrettante icone di Roma, e se un artista come Johann Heinrich Füssli volle perfino elevarle a simbolo della grandiosità dell’antico, di fronte alla quale non si poteva far altro che disperarsi, in tempi piú recenti sono divenute, loro malgrado,

La ricostruzione in scala 1:1 della statua colossale di Costantino (il cui originale si data al IV sec. d.C.). Nella pagina accanto: un momento della ricostruzione della statua colossale di Costantino nel laboratorio della Factum Foundation.

A sinistra: L’artista disperato davanti alla grandezza dell’antichità, disegno di Johann Heinrich Füssli. 1778-80. Zurigo, Kunsthaus.

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sfondo di una quantità certamente incalcolabile di foto e selfie. Una presenza comunque familiare, che adesso ha acquistato un nuovo e importante significato, poiché, poco distante, nel giardino di Villa Caffarelli, è stata installata la ricostruzione in scala 1:1 dell’opera, grazie alla quale si può avere un’idea eloquente delle proporzioni complessive della statua e dell’impatto che essa doveva avere sull’osservatore. La replica è l’esito di un progetto avviato in occasione della mostra «Recycling Beauty», presentata alla Fondazione Prada di Milano nell’inverno 2022/2023, ed è frutto della collaborazione fra la


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Ci vediamo a Palazzo Venezia

stessa Fondazione Prada, la Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali del Comune di Roma e la Factum Foundation for Digital Technology in Preservation. La ricostruzione che oggi si può vedere – l’accesso al giardino di Villa Caffarelli è libero e gratuito – costituisce il risultato finale di un un importante lavoro di analisi archeologica, storica e funzionale dei frammenti, supportata dalla lettura delle fonti letterarie ed epigrafiche. Lo studio archeologico dei frammenti ha permesso di ipotizzare che la statua colossale fosse seduta e che fosse realizzata come acrolito, ovvero con le parti nude in marmo bianco e il panneggio in metallo o in stucco dorato. Secondo uno schema iconografico tipico del tempo, che assimilava l’imperatore alla divinità, Costantino è rappresentato come Giove, con la parte superiore del corpo scoperta e il mantello adagiato sulla spalla; il braccio destro che impugna lo scettro ad

asta lunga e la mano sinistra che sorregge il globo. La ricostruzione è stata preceduta dalla realizzazione di un modello 3D ad altissima risoluzione e, dal punto di vista tecnico, resina e poliuretano, insieme a polvere di marmo, foglia d’oro e gesso, sono stati scelti come materiali per rendere le superfici materiche del marmo e del bronzo, mentre per la struttura interna (originariamente forse composta di mattoni, legno e barre di metallo) è stato impiegato un supporto in alluminio facilmente assemblabile e rimovibile. (red.)

Ha preso il via la terza edizione della rassegna «Al centro di Roma», un appuntamento ormai consolidato per gli amanti dell’arte, della storia e della cultura; un’iniziativa significativa che sottolinea l’impegno dell’Istituto VIVE-Vittoriano e Palazzo Venezia nella divulgazione del patrimonio culturale come luogo virtuoso di incontro e socialità/conoscenza. L’edizione 2024 della rassegna prevede cinque cicli di incontri, a cadenza settimanale. Oltre agli appuntamenti dedicati alla storia, all’arte e all’architettura si sono aggiunti due nuovi cicli: uno dedicato all’archeologia, curato da Paolo Carafa (Sapienza Università di Roma), e un secondo in collaborazione con gli istituti di cultura esteri di Roma, a cura di Marina Formica. (Università di Roma «Tor Vergata»). Un appuntamento, quest’ultimo, volto a consolidare la vocazione internazionale del VIVE. Le conferenze – a ingresso gratuito fino a esaurimento posti – sono ospitate nella Sala del Refettorio di Palazzo Venezia, in via del Plebiscito 118 a Roma. È consigliata la prenotazione tramite piattaforma Eventbrite: https://www.eventbrite.com/o/ vive-vittoriano-e-palazzovenezia-46689282103 Info: https://vive.cultura.gov.it/it

DOVE E QUANDO Musei Capitolini, giardino di Villa Caffarelli Roma, piazzale Caffarelli 2 Orario tutti i giorni, 9,30-18,30, ingresso gratuito Info tel. 06 06 08 (attivo tutti i giorni, 9,00-19,00); www.museicapitolini.org

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IN CROCIERA CON «ARCHEO»

MERAVIGLIE D’ISLANDA

T

utta l’Islanda in una crociera: è questo l’obiettivo di Iceland in Depth, l’itinerario proposto da Swan Hellenic che prenderà il via il 1° giugno da Reykjavík, la capitale situata piú a nord nel mondo, a ridosso del Circolo Polare Artico. L’Islanda, dal punto di vista geomorfologico, è una terra relativamente giovane ed è soggetta a periodici cambiamenti, determinati dall’attività

Le tappe della crociera Iceland in Depth. Qui sotto: la Hallgrímskirkja di Reykjavík, realizzata su progetto dell’architetto Gudjón Samuelsson.

Isola di Grímsey

Ísafjördur Akureyri

Cascate di Dynjandi

ISLANDA

Reykjavík

Seyðisfjörður Djupivogur

Heimaey

vulcanica e sismica. È un’isola prevalentemente montuosa e ricoperta di ghiacciai, i piú vasti in Europa, dai quali peraltro ha preso il suo nome, che, letteralmente, vuol dire appunto «terra dei ghiacci». Vulcanesimo, ghiacciai e geyser caratterizzano dunque i paesaggi naturali di questo Stato insulare che, pur distando appena 300 km dalle coste della Groenlandia e ben 900 da quelle scozzesi, per cultura, lingua, popolazione, presenta

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Dall’alto: 1. la cascata di Dynjandi, nella regione dei Westfjords; 2. la Laguna Blu, nei pressi di Grindavík, a una quarantina di chilometri da Reykjavík; 3. una veduta di Ísafjördur; 4. un esemplare di volpe artica (Alopex lagopus), il solo mammifero terrestre indigeno dell’isola; 5. un maschio di anatra marina (Somateria spectabilis).

tratti nettamente europei. Come detto, Iceland in Depth prende il via da Reykjavík, che, nell’874, fu il primo insediamento scandinavo nell’isola. Per avere un’idea della città, si può prendere l’ascensore che raggiunge la cima della Hallgrímskirkja, la grande chiesa realizzata su progetto dell’architetto islandese Gudjón Samuelsson, che è uno degli edifici simbolo della capitale. Fra le molte

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attrazioni, merita una visita l’area del porto, oggetto di un importante intervento di riqualificazione e che ospita il futuristico Harpa Concert Hall e il Museo Marittimo, nel quale è documentato il patrimonio culturale della città. Ma la visita a Reykjavík sarebbe incompleta senza fare tappa alla Laguna Blu, famosa per le sue acque termali terapeutiche. Il secondo giorno è dedicato a una delle attrazioni naturali piú spettacolari del Paese: la cascata di

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Dynjandi, nella regione dei Westfjords, le cui acque evocano le forme eteree e trasparenti di un velo nuziale. Il percorso si snoda attraverso una sequenza di varie cascate. Nelle vicinanze del sito, si può raggiungere Hrafnseyri, cittadina che diede i natali a Jón Sigurðsson, leader del movimento per l’indipendenza islandese del XIX secolo. Il locale museo include una tipica casa islandese di torba. Circondata dai Westfjords, Ísafjördur, terza tappa della

crociera, è una vivace città di pescatori, nella quale spiccano le colorate case in legno del XVIII e XIX secolo della parte piú antica dell’abitato, Neskaupstadur. Nelle vicinanze, Sudavik è sede dell’Arctic Fox Centre, un centro di ricerca e di documentazione dedicato appunto alla volpe artica (Alopex lagopus), il solo mammifero terrestre indigeno dell’isola, che vive nella lussureggiante tundra della Riserva Naturale di Hornstrandir.

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Nella stessa giornata, si fa tappa a Vigur, seconda isola, per grandezza, dei Westfjords, e vero e proprio santuario degli uccelli marini. Stormi di sterne artiche, pulcinelle di mare, gazze e anatre marine nidificano sulle scogliere rocciose. A Vigur, che è una delle due sole isole abitate dei fiordi, un’azienda agricola a conduzione familiare tiene viva la tradizione del raccolto della lanuggine da oltre 3000 nidi. Qui svetta anche l’unico mulino a vento dell’Islanda, è attivo il piú piccolo ufficio postale del Paese ed è custodita una barca a remi vecchia di oltre due secoli e ancora ancora in grado di navigare. La quarta tappa è Grímsey, un’isola remota, situata a 40 km al largo della costa settentrionale dell’Islanda. Il sito è meta obbligata per tutti coloro che desiderano provare l’ebbrezza di raggiungere il Circolo Polare Artico, poiché si tratta dell’unica località islandese in cui è possibile farlo. Sull’isola vivono meno di 100 persone, ma dimora oltre un milione di uccelli marini, che qui possono prosperare grazie all’assenza di nemici naturali che potrebbero predarne le uova e all’ampia disponibilità di risorse Dall’alto: 1. l’isola di Grímsey; 2. uno scorcio del villaggio dell’isola di Hrisey; 3. vetrata della chiesa di Akureyri raffigurante lo sciamano Thorgeir che porta in processione la statua di Odino.

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offerta dai mari circostanti. Ecco perché Grímsey è uno dei piú grandi siti di nidificazione delle sterne e una delle piú popolose colonie di pulcinelle dell’Islanda. Da Grímsey si raggiunge quindi l’isola di Hrisey, nel fiordo di Eyjafjordur. Anche qui vive una fauna molto ricca, che comprende pulcinelle di mare, foche e balene. Dal monte Hriseyjarfjall si possono godere splendide vedute del paesaggio circostante e dell’ampia distesa del fiordo di Eyjafjörður.

L’isola possiede inoltre un ricco patrimonio culturale e la sua comunità continua a praticare vari mestieri tradizionali islandesi, come la lavorazione a mano della lana e la lavorazione del legno. Chiamata «Città del sole di mezzanotte» o «Capitale dell’Islanda del Nord», Akureyri, la tappa successiva, è porta di accesso ad alcune meraviglie naturali, tra cui la regione di Myvatn, la cascata di Dettifoss, la cascata di Godafoss e il canyon di

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Asbyrgi. Ma prima di raggiungerle, vale la pena di dedicare un po’ di tempo anche alla città, colorata e accogliente. Da non perdere sono il pittoresco lungomare, la maestosa chiesa e il Lystigardurinn, il giardino botanico artico. Nel sesto giorno si viene accolti dalle case in legno, vivacemente dipinte, del porto di Seyðisfjörður, considerato il polo culturale della porzione orientale dell’isola, affermatosi come una vivace scena artistica. Seyðisfjörður ha attirato

scrittori e artisti e ospita un festival estivo d’arte. Il sito è circondato da una natura incredibile e la vicina riserva naturale di Skálanes è nota per la sua ricca fauna selvatica – forte di oltre 47 specie di uccelli – e per le ancor piú numerose specie vegetali. Né mancherà l’occasione di incontrare renne, foche e delfini. Si fa quindi tappa a Djupivogur, un tranquillo villaggio di pescatori attualmente abitato da meno di 500 abitanti, che vanta origini vichinghe e deve oggi la sua notorietà

In alto: l’installazione artistica The Eggs at Merry Bay a Djupivogur. In basso: uno scorcio del villaggio di Seyðisfjörður, con le sue case colorate.

all’installazione artistica The Eggs at Merry Bay, che presenta 34 uova di granito rappresentanti specie di uccelli locali. Nelle vicinanze, si trova il Parco Nazionale di Vatnajökull, che copre il 14% dell’Islanda, offre una vasta estensione con la piú grande calotta glaciale d’Europa, il ghiacciaio Vatnajökull, fiumi glaciali fragorosi e vulcani attivi. L’ottavo giorno è dedicato a Heimaey, un’isola di 13 km quadrati nelle Isole Westman, al largo della costa meridionale dell’Islanda. Qui è stanziata la piú grande colonia di pulcinelle atlantiche del mondo, che raggiunge la spettacolare cifra di 10 milioni di esemplari. Singolare e meritevole di una visita è il museo di Eldheimar, nel quale viene raccontata la storia della devastazione che la città patí nel 1973 a causa dell’eruzione del vulcano Eldfell. Nelle vicinanze, la Scogliera degli Uccelli di Vestmannaeyjar accoglie di pulcinelle, gazze e gazze marittime. La crociera termina là dove era iniziata, cioè a Reykjavík, cosí da offrire l’occasione di completare la conoscenza della capitale islandese. Info e prenotazioni: e-mail, enquiries@swanhellenic.com

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INCONTRI Roma

L’ANTICO IN UNA PROSPETTIVA MULTIFOCALE

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in corso al Teatro Argentina di Roma la decima edizione di «Luce sull’Archeologia», che quest’anno ha per titolo «La “villeggiatura” nell’antica Roma: l’otium come sentimento sublime di bellezza ed esperienza di civiltà». Fino al 14 aprile l’appuntamento con la rassegna di storia e arte si rinnova con gli incontri della domenica mattina, alle ore 11,00, introdotti da Massimiliano Ghilardi, pensati per approfondire il rapporto dei Romani con la terra e la natura, quando, alla fine dell’età repubblicana, ragioni storico-politiche e culturali determinano la trasformazione della mentalità e del costume delle élites, che prediligono sempre piú

una vita lontano dalla città e dal centro del potere. «Luce sull’Archeologia» è un progetto del Teatro di Roma a cura di Catia Fauci, in collaborazione con la Direzione generale Musei del Ministero della Cultura, con il contributo dell’Istituto Nazionale di Studi Romani, di «Archeo» e della società Dialogues Raccontare L’arte, arricchito dagli interventi di storia dell’arte di Claudio Strinati e In alto: Roma, Musei Capitolini, Palazzo Nuovo. Veduta del grande Salone Centrale, al centro del quale sono allineate alcune statue in marmo colorato, tra cui i due Centauri Furietti, in bigio morato, da Villa Adriana.

dalle Anteprime del passato di Andreas M. Steiner. Questa decima edizione aggiunge agli incontri un contributo per una prospettiva multifocale, dal titolo «La parola oltre il sipario», un momento di riflessione e approfondimento del tema da un punto di vista letterario, teatrale, giornalistico. Questi i prossimi appuntamenti. 10 marzo Francesca Ceci, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, Bellezza e otium attraverso i capolavori dei Musei Capitolini; Emanuele Papi, Università di Siena e Direttore della Scuola Archeologica Italiana di Atene, Erode Attico e le ville di un milionario in Grecia; Matteo Nucci, scrittore, Perdere tempo per vivere il tempo: la scholè che vince la morte. 14 aprile Giuliana Calcani, Università di Roma Tre, Immagini dell’otium. Tra realtà e ricerca della perfezione; Monica Salvadori, Università di Padova, L’otium e l’arte di vivere nelle case romane; Paolo Di Paolo, scrittore, Il tempo pieno e vuoto del teatro.

DOVE E QUANDO «La “villeggiatura” nell’antica Roma: l’otium come sentimento sublime di bellezza ed esperienza di civiltà» Luce sull’Archeologia-X edizione Roma, Teatro Argentina fino al 14 aprile Info www.teatrodiroma.net

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ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

SULLA VIA PER BETLEMME Il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana (PIAC) di Roma, che si appresta a celebrare i 100 anni dalla sua fondazione 2 nel prossimo 2025 (1, logo del Centenario), ha avviato un nuovo progetto di ricerca, conservazione e valorizzazione nel 1 sito noto come «Campo dei Pastori» (2, cartolina), nella municipalità di Beit Sahour (3), a pochissima distanza da Betlemme (4, francobollo da bobine), in territorio palestinese. Obiettivo del progetto è la promozione di scavi archeologici all’interno del monastero: indagini che hanno come fine ultimo non solo la ricerca scientifica, ma anche il 4 3 rilancio di tutto il santuario per la valorizzazione dei luoghi legati alla nascita di Gesú. Ci troviamo infatti al centro di una zona dall’alto valore spirituale e storico, dal momento che i «campi» sarebbero quelli nei quali un gruppo di pastori con i propri greggi ricevette da un angelo l’annuncio della prossima nascita del Signore (5); i campi erano coltivati a 5 6 grano (6) e si trovavano lungo il pendio che da Betlemme (7) portava verso il Mar Morto (8). Questi luoghi vennero in qualche modo «autenticati» anche da san Girolamo (9, da un quadro di Leonardo), che visse a 8 Betlemme fino al 420 dopo aver fondato un ordine monastico e aver aperto un convento maschile e uno 7 femminile vicino alla Basilica della Natività di Gesú (10), oltre alla costruzione di molti altri monasteri. Egli era convinto che i resti della torre di Eder (11, foto) fosse il luogo ove i pastori ricevettero l’annuncio e dedusse anche che la posizione di quella zona fuori dalla cinta muraria di Betlemme avesse favorito il sorgere di un sito cimiteriale dal momento che nelle vicinanze si trova la cosiddetta «Tomba di Rachele» (12, su una cartolina Maximum con francobollo di Israele). 9 11 10 Alla luce delle considerazioni appena fatte, dei riferimenti a luoghi e siti ben precisi e in aggiunta alla vicinanza con Betlemme è molto plausibile che il convento di forma quadrangolare (4, vedi sopra) possa essere identificato come il «campo dei pastori» della tradizione cristiana. Ben si comprende, quindi, lo sforzo del PIAC nell’indagare a 13 12 fondo la parte archeologica del sito che è legittimato come una delle tappe ineludibili per i pellegrini in visita alla Terra Santa. Cogliamo l’occasione, infine, per IL CIFT. Questa rubrica è curata dal sottolineare anche un’altra meritoria attività che CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o inforl’Istituto svolge da quasi cent’anni: l’organizzazione mazioni, si può scrivere alla redazione di e la gestione dei Congressi di Archeologia Cristiana «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi 14 iniziati nel lontano 1894 (quando il PIAC non altro tema, ai seguenti indirizzi: esisteva ancora) e protrattasi fino ad oggi con ben Segreteria c/o Luciano Calenda 17 edizioni, alcune delle quali sono state ricordare Sergio De Benedictis C.P. 17037 - Grottarossa filatelicamente come quelle svoltesi a Roma nel Corso Cavour, 60 - 70121 Bari 00189 Roma segreteria@cift.club lcalenda@yahoo.it 1938 (13) e nel 1975 (14). oppure

28 a r c h e o

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CALENDARIO

Italia ROMA La Roma della Repubblica Il racconto dell’archeologia Musei Capitolini, Palazzo Caffarelli fino al 24.03.24

Lo sguardo del tempo

Il Foro Romano in età moderna Foro Romano, Tempio di Romolo fino al 28.04.24

La Colonna Traiana

Il racconto di un simbolo Colosseo fino al 30.04.24

Fidia

Musei Capitolini, Villa Caffarelli fino al 05.05.24

Spina etrusca a Villa Giulia Un grande porto del Mediterraneo Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia fino al 07.04.24

Splendori Farnesiani

Il Ninfeo della Pioggia ritrovato Parco archeologico del Colosseo fino al 07.04.24

ASCEA (SALERNO) Elea: la rinascita Parco Archeologico di Velia fino al 30.04.24

CERVIA (RAVENNA) La Chiesa Ritrovata

Le indagini a Prato della Rosa MUSA-Museo del Sale fino al 24.03.24

LEGNANO Alle radici del territorio

Dacia

L’ultima frontiera della Romanità Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano fino al 21.04.24

30 a r c h e o

La necropoli dell’età del Bronzo di Canegrate a 70 anni dallo scavo Palazzo Leone da Perego fino al 17.03.24

LOVERE (BERGAMO) Lovere romana Dal tesoro alla necropoli Atelier del Tadini fino al 02.06.24


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

MILANO Le vie dell’acqua a Mediolanum Civico Museo Archeologico fino al 31.03.24

MODENA DeVoti Etruschi

La riscoperta della raccolta di Veio del Museo Civico Museo Civico fino al 24.03.24

NAPOLI Gli dei ritornano

I bronzi di San Casciano Museo Archeologico Nazionale di Napoli fino al 30.06.24

Francia PARIGI Nella Senna

Ritrovamenti dalla preistoria ai giorni nostri Crypte archéologique de l’île de la Cité fino al 31.12.24

Il Met al Louvre

Dialoghi di antichità orientali Museo del Louvre fino al 29.09.25

NANTES Gengis Khan

Come i Mongoli hanno cambiato il mondo Château des ducs de Bretagne Musée d’histoire de Nantes fino al 05.05.24

SAINT-GERMAIN-EN-LAYE Da un mondo all’altro

L’autunno dell’antichità nel Medioevo Musée d’Archéologie nationale fino al 17.06.24

POMPEI L’altra Pompei

Vite comuni all’ombra del Vesuvio Parco Archeologico di Pompei, Palestra grande fino al 15.12.24

RIO NELL’ELBA Gladiatori

Museo Archeologico del Distretto Minerario fino al 01.11.24

SESTO FIORENTINO Archeologia svelata a Sesto Fiorentino

Momenti di vita nella piana prima, durante e dopo gli Etruschi Biblioteca Ernesto Ragionieri fino al 31.07.24

TORINO Trad u/i zioni d’Eurasia

Grecia ATENE Cheronea, 2 agosto 338 a.C.

Un giorno che ha cambiato il mondo Museo d’Arte Cicladica fino al 31.03.24

Paesi Bassi LEIDA L’anno Mille

I Paesi Bassi alla metà del Medioevo Rijksmuseum van Oudheden fino al 17.03.24

Regno Unito

Frontiere liquide e mondi in connessione. Duemila anni di cultura visiva e materiale tra Mediterraneo e Asia Orientale MAO-Museo d’Arte Orientale fino all’01.09.24

LONDRA Legionari

TRENTO-SAN MICHELE ALL’ADIGE Sciamani

Svizzera

Comunicare con l’invisibile Palazzo delle Albere (Trento) METS-Museo etnografico trentino San Michele (San Michele all’Adige) fino al 30.06.24

La vita nell’esercito romano British Museum fino al 23.06.24

BASILEA Iberi

Museo delle antichità di Basilea e Collezione Ludwig fino al 26.05.24 a r c h e o 31


AG NUO GI VA ED O IZI R N ON AT E A

LA NUOVA MONOGRAFIA DI ARCHEO

ROMA

LA VITA QUOTIDIANA • DOMUS E CASE POPOLARI • IL TEATRO • GLI SPETTACOLI GLADIATORI • LA NETTEZZA URBANA • L’EMERGENZA DEL FUOCO • LA PROSTITUZIONE • UN GIORNO ALLE TERME • MANGIARE E BERE IN TABERNA...

I

monumenti della Roma imperiale – basti pensare al Colosseo – si sono in piú di un caso conservati in condizioni straordinariamente vicine a quelle originali, che rendono dunque abbastanza agevole immaginare quali fossero le loro funzioni e il loro funzionamento. Piú difficile può essere, a volte, immaginare quegli spazi al tempo in cui furono creati, quando ad animarli erano gli abitanti di una città nella quale, secondo stime attendibili, viveva piú di un milione di persone. Ecco allora che questa nuova edizione della Monografia di «Archeo» dedicata alla vita quotidiana dei Romani si cimenta nel «rianimare» gli uomini e le donne che di quell’epoca furono gli attori, ricostruendone l’esistenza quotidiana, fatta di condivisione degli spazi domestici e, soprattutto, di quelli pubblici. Gli abitanti dell’Urbe, infatti, erano innanzitutto «gente di strada», che amava ritrovarsi nelle grandi piazze forensi, alle terme, nelle tabernae... Una moltitudine composita e vociante, sulla quale il potere imperiale manteneva ben saldo il controllo. Un potere, tuttavia, capace anche di garantire una rete di servizi efficiente e capillare: dalla gestione delle risorse idriche al sistema fognario, dall’illuminazione stradale alla prevenzione degli incendi, solo per fare alcuni degli esempi piú significativi. Una realtà, insomma, che potremmo definire moderna e che la Monografia descrive nel dettaglio, con l’abituale ausilio di un ricco corredo iconografico.

GLI ARGOMENTI

• EDILIZIA PRIVATA E OPERE PUBBLICHE

• LA VITTORIA VAL BENE UN TRIONFO

• L A RETE DEI SERVIZI

•A URIGHI E GLADIATORI



SCAVI • TERRA SANTA

RITORNO AL CAMPO DEI PASTORI

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Il «Campo dei Pastori», nella municipalità di Beit Sahour, presso Betlemme, cosí come si presenta oggi e, in basso, in una foto scattata tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento e poi confluita nell’archivio della American Colony and Eric Matson Collection.

BEIT SAHOUR, CITTADINA POCHI CHILOMETRI A EST DI BETLEMME, SI AFFACCIA SULLE COLLINE DOVE, SECONDO LA TRADIZIONE CRISTIANA, UN ANGELO AVREBBE ANNUNCIATO LA NASCITA DI GESÚ. QUI, NEGLI ANNI CINQUANTA, UN ANTICHISSIMO MONASTERO (DI CUI RIFERISCE GIÀ SAN GIROLAMO, PELLEGRINO IN TERRA SANTA NEL IV SECOLO), VENNE SCAVATO DA UN PIONIERE DELL’ARCHEOLOGIA CRISTIANA, PADRE VIRGILIO CORBO. OGGI, UNA MISSIONE DEL PONTIFICIO ISTITUTO DI ARCHEOLOGIA CRISTIANA È NUOVAMENTE ATTIVA SUL SITO, CON UN IMPORTANTE PROGRAMMA DI RICERCA E VALORIZZAZIONE... di Gabriele Castiglia, Simone Schiavone, Giulia Spadanuda, Angelita Troiani, con contributi di Giovanni Claudio Bottini, Daniela Massara, Simone Schiavone e Gianantonio Urbani

A

partire dal febbraio del 2023 il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana (PIAC) di Roma ha avviato un nuovo progetto di ricerca, conservazione e valorizzazione nel sito noto come «Campo dei Pastori», nella municipalità di Beit Sahour, presso Betlemme, nei territori palestinesi, a seguito di una convenzione con la Custodia di Terra Santa (CTS) e di

un accordo con il Ministry of Tourism & Antiquities of Palestine. Il contesto si distingue per un significativo valore spirituale e storico, essendo legato alla memoria topografica dell’annuncio di un angelo ai pastori sulla nascita di Cristo, come tràdito dal Vangelo di Luca. Il legame con questo luogo diede impulso, già dal IV secolo, alla formazione di un sito monastico, che ebbe un significativo sviluppo soprattutto nel corso del VI, prima dell’abbandono conseguente all’avvento dell’espansionismo islamico nella zona. Obiettivo del progetto in corso è quello di promuovere scavi archeologici all’interno del monastero, con il fine ultimo non solo della ricerca scientifica, ma anche di rilancio di tutto il santuario nella rete di valorizzazione e pellegrinaggi che la Custodia porta avanti da secoli (vedi box alle pp. 42-43). Il sito è infatti di proprietà della stessa CTS dalla fine del XIX secolo e ancoa r c h e o 35


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SCAVI • TERRA SANTA

ra oggi accoglie centinaia di visitatori ogni giorno: una maggiore e piú approfondita conoscenza della storia del «Campo dei Pastori» contribuirà a corroborare il valore storico e intrinseco del sito stesso e, al contempo, a rafforzarne il messaggio di fede e comunione tra popoli, in un’area che, come noto, et Qumran vive tempi molto difficili. G. C., S. S. ecropoli

IL CONTESTO STORICO «Nella piccola città di Cristo tutto è rusticità e, all’infuori dei salmi, vi è silenzio. Dovunque ti volgi, il contadino, tenendo l’aratro, canta alleluja». Cosí Girolamo, in una M delleasuer Epistulae, dà inizio alla descrizione di BetlemMo t oinsieme me, dove si stabilí nelr386 alla sua discepola Paola. È proprio alla figura di Girolamo che si deve

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Foto satellitare e cartina che mostrano la localizzazione del Campo dei Pastori, presso Betlemme. Nella pagina accanto, in alto: raccolta del grano ai Campi di Booz (Betlemme). Fine del XIX-inizi del XX sec. American Colony and Eric Matson Collection. Nella pagina accanto, in basso: veduta panoramica del Campo dei Pastori e della città di Beit Sahour. 36 a r c h e o

la nascita del monachesimo betlemita, non solo in città ma anche nel territorio limitrofo, anch’esso legato, secondo la tradizione evangelica, agli avvenimenti della nascita di Gesú. A Betlemme, grazie all’evergetismo di Paola, furono fondati un monastero maschile e uno femminile e da quel momento la città attirò monaci alla ricerca di ospitalità provenienti da ogni dove. Il fenomeno monastico betlemita si distinse fin dal proprio debutto, infatti, per il carattere di internazionalità dei suoi componenti e per la quasi diretta dipendenza tra la pratica del pellegrinaggio e la successiva scelta di intraprendere la vita monastica che prevedeva, inoltre, per coloro che volessero allontanarsi fisicamente dall’ambito urbano, il ritiro presso siti monastici

sorti in contesti rurali. Attraverso lo studio delle fonti antiche e le indagini archeologiche svolte da padre Virgilio Corbo (vedi box alle pp. 40-41) intorno agli anni Cinquanta del secolo scorso è possibile oggi comprendere l’articolazione interna dei monasteri nei dintorni di Betlemme. Questi si caratterizzano per la presenza della chiesa, di celle per i monaci, stalle, cortili, cisterne, panetterie, forni e vani adibiti alla macinazione del grano e alla produzione di olio e vino. Il complesso di Campo dei Pastori è contraddistinto anche da grotte dove la tradizione colloca la capanna/rifugio dei pastori ai quali un angelo annunciò la venuta del Signore. Si tratta, quindi, di un territorio fortemente correlato alle vicende bibliche e sul quale si stabili-


rono e coabitarono anche altre confessioni cristiane a partire dal IV secolo, con il monastero ortodosso di Keniset er-Rawat e quello georgiano di Bir el-Qutt. G. S.

IL «CAMPO» E LA SUA IDENTIFICAZIONE L’attuale centro abitato di Beit Sahour sorge nell’area dei possedimenti di Booz, uomo della nota famiglia altolocata di Elimèlec, di cui si parla nel Libro di Rut: i campi, coltivati a grano, erano distribu-

iti lungo il pendio che da Betlemme digrada verso il Mar Morto. A mille passi piú a est della città natale di Davide, Girolamo colloca la torre di Eder (Migdal Eder), quae interpretatur turris gregis (Epistola 147), riconoscendovi il luogo dove i pastori ricevettero l’annuncio della nascita del Signore. La posizione dell’insediamento, fuori dalla cinta muraria di Betlemme e lungo l’arteria stradale di collegamento con Gerusalemme, dovette renderla favorevole anche all’inumazione se Eusebio di Cesarea riferisce dela r c h e o 37


SCAVI • TERRA SANTA

San Girolamo e i monasteri In alto: i monasteri tardo-antichi attestati nell’area intorno a Betlemme. A destra: Sofronio Eusenio Girolamo nasce a Stridone (Dalmazia) intorno al 347 d.C. e muore a Betlemme (nell’allora Syria Palaestina) il 30 settembre del 420 d.C. Il santo può essere considerato l’artefice della nascita del monachesimo betlemita. Nell’immagine qui accanto, alcune scene della sua vita riprodotte in una pagina della prima Bibbia di Carlo il Calvo (845-846; Parigi, Bibliothèque nationale de France): dall’alto, la partenza da Roma e l’incontro, a Betlemme, con un insegnante di ebraico; Girolamo che insegna a quattro donne; il santo che distribuisce i suoi scritti.

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la presenza nelle adiacenze della nota tomba di Rachele (a Septuaginta vocatur Hippodromus). In età omayyade (661-750), il vescovo gallico Arculfo, pellegrino nei luoghi santi, attesta di aver visto e visitato presso la torre «di Gader», a un miglio di distanza dalla città da-

vidica, una chiesa intitolata ai tre Pastori che ne custodiva le spoglie; della chiesa oggi non si conserva alcuna traccia né è certo che sia da identificare con quella scoperta da padre Corbo, in quanto essa, con ogni probabilità, andò quasi distrutta con l’incursione persiana del 614.

Su questa memoria doveva sorgere un monastero sanctorum Pastorum, secondo la testimonianza dei monaci Bernardo ed Epifanio nel terzo quarto del IX secolo. La cronaca del pellegrino Pietro diacono del 1137 riferisce, poi, che la cappella interna era chiamata con

ILARIONE, PADRE DEL MONACHESIMO PALESTINESE Considerato il fondatore del monachesimo siro-palestinese, Ilarione nasce a Gaza nel 291 da genitori pagani che lo fanno studiare in Egitto, ad Alessandria, dove si converte al cristianesimo, vivendo per un certo tempo a stretto giro con il grande Antonio. Dopo la morte dei suoi genitori, rinuncia ai suoi beni a favore di una vita di penitenza e di preghiera da anacoreta presso Maiuma, il porto di Gaza. La sua fama di santità si diffonde presto, cosí da attirare un folto numero di discepoli, portando l’eremita a sperimentare una nuova forma di vita, quella nel monastero, che da Gaza si diffonde presto nel resto della Palestina, in Egitto, Libia, Sicilia, Dalmazia e Cipro. Qui egli muore nel 371 dopo aver trascorso cinque anni sull’isola; il suo corpo fu riportato nella città natale dal suo allievo Esichio. Di lui san Girolamo scrisse una biografia entusiasta, nota e tradotta in molte lingue orientali.

A oggi degli almeno dieci monasteri presenti nella regione di Gaza, ne sono stati identificati meno della metà. Di essi certamente quello piú importante si trova nel villaggio di Thavatha (attuale Umm el-Tut) vicino al Wadi Ghazzeh, il cui toponimo compare nella nota «Carta di Madaba» della metà del VI secolo e che gli archeologi palestinesi e dell’École Biblique di Gerusalemme hanno identificato con la prima fondazione di Ilarione del 330, fatto distruggere dall’imperatore Giuliano e poi nuovamente riabilitato da Esichio fino al periodo omayyade. Esso comprendeva le chiese, la cripta, l’ingresso e i portici, i battisteri, una cappella, le celle, il refettorio, una stradina interna e annessi come granai, cucine, latrine, ecc. Tutti spazi e ambienti che caratterizzano in parte anche il complesso del Campo dei Pastori. S. S.

In alto, a sinistra: la Tomba di Rachele in un’altra foto della American Colony and Eric Matson Collection. In alto, a destra: la struttura oggi utilizzata dalla comunità di frati come residenza al Campo dei Pastori, da identificare plausibilmente come la Migdal Eder citata da san Girolamo.

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SCAVI • TERRA SANTA

VIRGILIO CANIO CORBO (1918-1991). UN ARCHEOLOGO SULLE ORME DEL VANGELO Di Virgilio Canio Corbo, il collega e noto archeologo Stanislao Loffreda scrisse: «Aviglianese di origine, sacerdote francescano di Terra Santa, considerò il lavoro una grazia e una missione, nulla stimando troppo basso o troppo alto, come archeologo e scrittore, per quarant’anni fece parlare le pietre, scavando a Betlemme, Gerusalemme, Cafarnao, Magdala, Herodion, Monte Nebo, Macheronte, riscoprí la Casa di Simon Pietro a Cafarnao, dove ora riposa in pace». Meno enfatico ma significativo l’elogio che ne fece J. Murphy O’Connor dell’École biblique et archéologique française, scrivendo che Corbo era uno dei pochi archeologi che non lasciava dietro di sé scavi di cui non avesse pubblicato relazioni esaustive. In effetti, formatosi giovanissimo alla scuola del celebre archeologo Bellarmino Bagatti, in

l’appellativo Ad Pastores, annessa alla grotta dove dimorarono i mandriani al momento della nascita di Gesú; analogamente, nel secolo seguente, r ifer iscono i viaggiatori Giovanni Wirziburgensis, Teodorico (forse monaco) e Giovanni Pocas. Dopo di loro, e comunque entro la metà del XIV secolo, la chiesa non doveva essere piú in uso, forse a seguito della partenza definitiva dei monaci. Infatti, le cronache successive di età moderna si limitano a riportare la memor ia dell’annuncio dell’angelo ai pastori in un’area a un miglio di distanza da Betlemme, senza alcun riferimento al complesso cenobitico e a edifici di culto a esso pertinenti. Per concludere, per l’identificazione del sito sembrano degni di 40 a r c h e o

pochi decenni Corbo riuscí a pubblicare nelle edizioni dello Studium biblicum franciscanum di Gerusalemme articoli e libri su tutti gli scavi da lui eseguiti sia presso

nota sia il rimando alla distanza topografica con Betlemme che l’associazione alla torre di Eder, da riconoscere nell’immobile a pianta quadrangolare e particolarmente sviluppato in altezza, oggi utilizzato dai frati francescani come convento. S. S.

LO STATO DELL’ARTE Il sito noto come «Campo dei Pastori» venne riscoperto alla metà del XIX secolo da Carlo Guarmani, agente delle Messaggerie imperiali di Francia in Terra Santa, che avviò i primi scavi in loco, per quanto ancora lontano dall’applicazione di un rigoroso metodo scientifico. Tra il 1889 e il 1906, la Custodia di Terra Santa avviò l’acquisizione dei terreni ove insisteva-

no le rovine monastiche e, nei primi anni Cinquanta del Novecento, promosse nuove ricerche, sotto la guida di padre Virgilio C. Corbo, dopo prime parziali esplorazioni avviate già nel 1934 che portarono alla scoperta di alcuni pavimenti musivi policromi. Le indagini, dunque, consentirono di intercettare parte di un plesso monastico, organizzato su terrazzamenti, di cui erano documentabili l’area liturgica (caratterizzata da una cappella sviluppata in due differenti fasi costruttive, una piú antica di IV secolo e una piú recente di VI; vedi infra per maggiori dettagli) e un articolato sistema di ambienti legati alla produzione olivicola e vinicola, denunciata dalla presenza massiva di pressoi e vasche di decantazione. Non solo, è altamente plausibile che


Sulle due pagine, da sinistra: padre Virgilio Corbo (1918-1991); pianta complessiva al termine degli scavi da lui condotti al Campo dei Pastori; il pavimento a mosaico con simboli e iscrizioni eucaristiche del Vano 44 del Campo dei Pastori; una foto scattata mentre erano in corso gli scavi di padre Corbo nella cappella del monastero.

i santuari, il primo dei quali fu proprio il «Campo dei Pastori (Siyar el-Ghanam)», sia sui resti delle fortezze erodiane di Herodion e Macheronte. Il suo nome e la sua

vasta bibliografia si leggono nelle enciclopedie contemporanee di archeologia e del mondo biblico. G. C. B.

uno degli ambienti del sito, inter- In basso: il Campo dei Pastori in una foto scattata da drone. pretato come forno, fosse destinato anche alla confezione di pane liturgico, aderendo a una pratica del resto ampiamente attestata in numerosi altri siti monastici del Medio Oriente (vedi box a p. 43). È molto probabile che la forte connotazione produttiva del «Campo dei Pastori» fosse indirizzata non solo a soddisfare il fabbisogno interno, ma anche all’immissione del surplus sui mercati, come del resto sembrano denotare i corredi ceramici rinvenuti, spia ineludibile di traffici a media e lunga distanza. La campagna di scavo condotta tra settembre e ottobre 2023 è stata preceduta a marzo da un intervento di pulizia di tutta l’area indagata da padre Corbo, volta a valutare lo stato di conservazione delle a r c h e o 41


SCAVI • TERRA SANTA

LA CUSTODIA DI TERRA SANTA E IL SUO RUOLO NELLE RICERCHE ARCHEOLOGICHE La Custodia di Terra Santa è una fraternità dell’Ordine dei Frati Minori che, vivendo in Terra Santa, custodisce, studia e rende accoglienti i luoghi delle origini della fede cristiana, da piú di 800 anni. I Luoghi Santi vengono custoditi nelle pietre, nei manufatti e nelle memorie di cui essi parlano. A Gerusalemme, allo Studium Biblicum

Franciscanum, si compie lo studio scientifico e la ricerca archeologica. La Custodia di Terra Santa crede che

l’eco delle parole del Signore che ci ha parlato per mezzo dei profeti e degli apostoli, che si è fatto uomo

liturgica del monastero, situata all’angolo nord-orientale del plesso e in parte già identificata e scavata da padre Corbo. Le indagini hanno consentito di fare chiarezza sull’evoluzione strutturale e cronologica della cappella monastica, articolata in almeno due macrofasi. La prima prevedeva un’aula di culto piuttosto semplice, a navata unica, terminante con abside semicircolare internamente e quadrangoLA CAPPELLA lare all’esterno, per una lunghezza DEL MONASTERO Le campagne di scavo condotte nel complessiva di circa 25 m. Questa 2023 si sono concentrate nell’area prima fase della chiesa è databile,

allo stato attuale delle nostre conoscenze, al IV secolo e, dunque, al debutto del monastero, quando la comunità cenobitica doveva essere verosimilmente ancora piuttosto limitata in termini numerici. Nel corso del VI secolo, la cappella andò incontro a un significativo potenziamento e ampliamento, con l’aggiunta di un’abside esternamente poligonale, in piena adesione al modello architettonico proto-bizantino – ampiamente diffuso in buona parte del bacino mediterraneo. Questo intervento strutturale

strutture emerse e di comprendere la loro eventuale estensione oltre il limite noto dell’area archeologica, con il fine di pianificare nuove e future ispezioni, e dall’altro quello di produrre un rilievo dettagliato e aggiornato dell’intero sito attraverso l’utilizzo di strumenti di telerilevamento. G. C.

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come noi, abitando in mezzo a noi, sia presente nei luoghi. L’attività di cura e di protezione dei Luoghi Santi viene operata secondo le norme vigenti nel paese in cui la Custodia è presente. Si chiedono i permessi di scavo e tutte le autorizzazioni previste per operare sui beni culturali, archeologici e architettonici che si hanno in custodia, in nome e per conto della Santa Sede. G. U.

Il Santo Sepolcro e, nella pagina accanto, in alto, la chiesa della Flagellazione a Gerusalemme, presso la quale si trova la sede dello Studium Biblicum Franciscanum.

te a casi circonvicini, come per esempio quello della cappella bizantina delle Beatitudini a Tabgha, sulle sponde del lago di Tiberiade. Questa serie di interventi occorsi nell’area liturgica ricade in un piú ampio progetto di ampliamento di tutto il monastero che, proprio nel corso del VI secolo, conobbe il suo apogeo, ben tracciabile anche nel sensibile potenziamento delle strutture legate alla produzione in primis dell’olio, ma anche del vino. Una serie di interventi che si può plausibilmente ricondurre alle ben note politiche di rinnovato slancio economico e topografico promosA sinistra: se da Giustiniano, che resero il ambiente Campo dei Pastori uno dei principroduttivo del monastero, con in pali monasteri di area betlemita proprio nel VI secolo. evidenza un Un altro elemento chiave emerso pressoio dagli scavi all’interno della cappelper le olive. la è stata l’intercettazione, per la Nella pagina accanto, in basso: prima volta su base stratigrafica, di tracce in negativo elementi preesistenti all’impianto di un pressoio per del monastero: parte del banco roccioso, infatti, risulta essere tale olive scavato gliato artificialmente per attività di nel banco cava di materiale edilizio e proprio roccioso, nella sui resti del fronte estrattivo (di cui zona nord-ovest sono evidentissime le tracce antrodel monastero. piche in negativo) si andò a impostare la chiesa monastica. Pur mancando elementi diretti che possano consentire di attribuire una crono-

comportò un’estensione della superficie interna della chiesa, ora lunga circa 30 m, che implicò probabilmente anche un innalzamento dei piani pavimentali e una scansione piú articolata degli spazi interni, ora intervallati da muri divisori e da una serie di arcate. È peraltro plausibile ritenere che in questa fase, ben databile al pieno VI secolo grazie ai confronti architettonici e ai materiali ceramici rinvenuti nelle stratigrafie, la cappella fosse stata dotata anche di una serie di ambienti accessori, a sud, analogamen-

LA «PANETTERIA» DEL MONASTERO Dal cortile 62 si scendeva a una serie di ambienti posti in asse (nn. 43-45), orientati S-N. Costituirebbero, secondo padre Corbo, la «panetteria del monastero». Con la macina ritrovata nel piccolo vano 44 si otteneva la farina per l’impasto: sarebbe stato quindi questo l’ambiente in cui si preparava il pane. Una volta formata la pagnotta, quest’ultima veniva cotta nel forno adiacente 43. Come era comune nei monasteri dell’epoca, la panetteria non doveva servire solo per il fabbisogno quotidiano di pane da parte della comunità di monaci, ma anche per l’Eucaristia. Nel pavimento a mosaico del vano 44 diversi simboli e iscrizioni richiamano il sacrificio eucaristico, fonte di salvezza. Sul fondo di tessere bianche, per due volte infatti viene raffigurata, con tessere nere, la Croce sul Golgota, e le scritte in greco invocano l’aiuto e la protezione del Signore. D. M.

logia assoluta, non si può escludere, considerate le dimensioni dei tagli nel banco roccioso, che la cava fosse stata concepita in stretta relazione con la prima fase del cantiere monastico. G. C.

MERCI E COMMERCI In Terra Santa esistevano rotte percorse da carovane di pellegrini desiderosi di venerare i luoghi santi, che portavano con sé una moltitudine di merci da luoghi molto distanti, tra Oriente e Occidente. Lungo queste rotte fiorirono importanti monasteri, sorti in punti a r c h e o 43


SCAVI • TERRA SANTA

In alto: ortofoto della cappella del monastero: a destra (est), si nota l’ampliamento della struttura occorso nel VI sec., con l’aggiunta dell’abside poligonale.

Qui sopra: ambiente produttivo del monastero: in evidenza, apprestamenti per la decantazione dell’olio d’oliva. A sinistra: tracce di lavorazione nel banco roccioso, afferenti al fronte di cava precedente al monastero.

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dove la tradizione biblica ricordava eventi significativi per la tradizione cristiana, che venivano a configurarsi anche quali luoghi strategici per la sosta e l’approvvigionamento di acqua, cibo e altre necessità. Il monastero di Campo dei Pastori fu uno di questi, caratterizzandosi come centro cosmopolita e aperto a genti che arrivavano tanto dai confini orientali che dall’Occidente romano. Mercanti, ambasciatori, pellegrini e forestieri vi giungevano attratti dalla storia di questi luoghi e dal desiderio di ammirare lo splendore dei suoi monumenti. Oltre alle entusiastiche testimonianze dei visitatori, come san Girolamo, gli scavi archeologici, le analisi e gli studi recenti sui reperti stanno permettendo di stabilire una cronologia precisa che consente di puntualizzare le diverse fasi di vita del monastero e i diversi interventi che si sono susseguiti nel corso del tempo. In questi luoghi giungevano prodotti arrivati da lontano, mentre i campi coltivati nei dintorni, grazie al sapiente e ingegnoso sfruttamento della poca acqua disponibile, fornivano cereali, frutta e ortaggi. La carne delle greggi e il pesce portato dal Mar Mediterraneo cosí come dal Mar Rosso, venivano cucinati con l’olio d’oliva, spezie e vino prodotti in loco.


Nei monasteri palestinesi, come in altri monasteri in Galilea e Siria, le installazioni industriali e agricole erano, infatti, una componente fondamentale dell’insediamento. Nel caso specifico, la destinazione agricola del luogo si può riscontrare anche nel periodo antecedente l’edificazione del monastero: sono infatti probabilmente appartenenti al periodo erodiano e romano l’installazione del pressoio per la confezione dell’olio e l’utilizzo delle grotte quali depositi agricoli. Con l’edificazione del monastero le zone artigianali vennero potenziate, come si può notare dall’implementazione

degli apparati legati alla produzione olivicola e vinicola e dalla presenza di una grotta-silos, la quale poté servire come luogo di ripostiglio per le provviste come grano, pane etc. data la sua vicinanza al forno e al probabile refettorio. Molti studi hanno già sottolineato la connessione tra monasteri e installazioni agricole, poiché il lavoro era una parte cruciale del sistema economico per l’autosufficienza di questi luoghi. Ogni monastero disponeva di una zona produttiva, in grado di garantire una quantità tale di olio d’oliva e di vino da essere piú che sufficiente

per il consumo interno, oltre a un surplus per le esportazioni. In particolare, si ritiene che i monaci consumassero una quota relativamente piccola del bilancio vinicolo, la maggior parte della quale era riservata a scopi liturgici. Da ciò sembra chiaro che anche un piccolo monastero sarebbe stato in grado di produrre una quantità tale di risorse da poterne destinare una gran parte al commercio. I principali prodotti furono senza dubbio vino, olio e grano, merci comuni quanto preziose e richieste tanto in Oriente quanto nei Paesi del Mediterraneo. Questa destina-

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

Operai della Custodia di Terra Santa durante le operazioni di pulizia dell’area di scavo. a r c h e o 45


SCAVI • TERRA SANTA

LA FIGURA DEL PASTORE TRA STORIA E TEOLOGIA Il nome con cui il sito è comunemente ricordato deriva dalla tradizione che vuole il luogo abitato dai pastori che visitarono la Grotta della Natività (Lc 2,8-20). La figura del pastore si associa bene al Vicino Oriente per l’identità nomadica dei popoli che vi abitarono. Sin dal III millennio a.C., infatti, il termine «pastore» designa il re (in Mesopotamia) o la divinità (in Egitto). Nelle Lamentazioni di Ipu-Wer e nell’Insegnamento per Merikara, per esempio, la divinità associata al pastore deve sorvegliare il gregge, ovvero il popolo; nei testi di El-Amarna, invece, il re defunto diventava immortale, entrando nel gregge di

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Mechentirti, il dio cieco che vigila sulle stelle della notte. Presso gli Israeliti, invece, la parola indica i livelli sociali piú infimi e indegni della società ebraica post-esilica. Infatti, negli scritti veterotestamentari, con ro‘eh si fa riferimento alla divinità (Yhwh) pochissime volte: è sulla bocca di Giacobbe nella sua permanenza in Egitto (Gen 48,15) o su quella di Giuseppe benedicente (Gen 49,24). Essa, del resto, non si applica mai al sovrano in carica, nemmeno a Davide, modello ideale del monarca israelita, ma ne designa il suo ruolo di mandriano del gregge, ovvero di guida e custode del popolo di Israele, preposto a procacciargli il

nutrimento e a tutelarlo da ogni avversione (Sal 78,70-72). Ne consegue che la Terra Promessa viene anche identificata con il pascolo santo (Ez 15,13) verso cui Israele sarà ricondotto una prima volta nell’esodo, per mano di Mosè e di Aronne (Sal 77,21), e nuovamente da Babilonia, sotto il controllo diretto del Signore (Is 40,11). A partire da Isaia, tutta la tradizione profetica sarà poi accompagnata dall’associazione pastore-Messia che, per essere nato a Betlemme (Ez 37,24), sarà riconosciuto nel re Davide, prima, e da ultimo in Gesú, nuovo Davide. Nel Nuovo Testamento, questi è presentato straordinariamente come


«il grande pastore» (Eb 13,20) o il «pastore per eccellenza» (1Pt 5,4; dal greco, poimén), il quale affida il gregge di Dio ai suoi inviati (vescovi e sacerdoti), è destinato a pascere Israele e le pecore disperse da quell’ovile, ovvero quelle senza pastore (Mt 9,36), e si rallegra per quella ritrovata (Ivi 18,12-13). Tutte queste connotazioni sono condensate nell’immagine del Buon Pastore, simbolo della philantropia e della humanitas, in accordo con la tradizione dell’Hermes psicopompo, ed emblema della storia della salvezza nel repertorio iconografico paleocristiano. S. S. In alto: il sito del Campo dei Pastori alla fine della pulizia generale. A sinistra, sulle due pagine: l’annuncio ai pastori in uno dei rilievi che ornano il fonte battesimale della chiesa di S. Giovanni in Fonte, a Verona, attribuito al maestro Brioloto de Balneo e alla sua bottega. XII sec.

zione commerciale la si può riscontrare nella grande presenza di anfore, i tipici contenitori da trasporto utilizzati per il trasporto a medio e ampio raggio. Le anfore erano in sostanza le confezioni commerciali del mondo antico. La loro forma può variare da una regione all’altra in modo da, unitamente alle informazioni registrate su bolli e tituli picti, informare l’acquirente circa l’origine e i contenuti. Inoltre, data la natura eminentemente religiosa del sito, si può supporre che parte delle merci venisse destinata di volta in volta anche ai pellegrini in visita, oltre all’importazione di prodotti come l’incenso e la mirra, beni preziosi e utili a scopi liturgici, che si ottenevano da alberi che crescevano nella parte meridionale dell’Arabia. Nello specifico, quindi, il monastero del Campo dei Pastori costituisce un osservatorio privilegiato per la comprensione delle dinamiche eco-

nomiche sviluppatesi nel territorio palestinese dall’età romana a quella tardo antica (e, financo, sino all’avvento dell’Islam) per gli aspetti relativi alla vita religiosa, sociale e produttiva di questa regione. L’analisi e lo studio dei reperti archeologici, grazie alla ripresa delle campagne di scavo da parte del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana di Roma, di cui fanno parte vari tipi di suppellettile, tra cui ceramiche fini da mensa, suppellettile da cucina e da dispensa, contenitori da cantina e da trasporto, lucerne, ecc. è di fondamentale importanza per la ricostruzione delle dinamiche di produzione e di circolazione a livello regionale e sovraregionale. Oltre ai reperti di chiara matrice locale sono infatti presenti anche classi ceramiche di importazione, alcune delle quali di pregio, che sono chiara spia dell’inserimento del contesto in un ampio sistema commerciale. La tipologia dei reperti rinvenuti offre a r c h e o 47


SCAVI • TERRA SANTA Betlemme in una foto dei primi decenni del Novecento.

una panoramica di come si sia evo- Nella pagina accanto, in basso: l’équipe del PIAC insieme a studenti della luta nel tempo la cultura materiale Bethlehem University e a operai locali al Campo dei Pastori nel settembre 2023. presente all’interno del monastero, permettendo di capire la funzione della struttura di riferimento, le BETLEMME TRA PASSATO E FUTURO condizioni socio-economiche di coloro che vi abitavano e i contatti La testimonianza biblica del profeta Michea su questo luogo è unica: che intrattenevano. I monasteri, «E tu, Betlemme di Èfrata, cosí piccola per essere fra i villaggi di dunque, oltre alle loro ovvie funzioGiuda» (Mic 5,1). Ne emerge il luogo della profezia che si è resa ni spirituali e religiose, erano di visibile agli occhi dell’umanità. La straordinaria memoria di pietre e fatto attori significativi nell’econoluogo che è oggi Betlemme ci riconduce a Origene, della scuola mia della regione, creando cosí reteologico-catechetica di Alessandria, nei primi decenni del III secolo lazioni sostanziali con i loro vicini che riferí: «Se qualcuno richiedesse ancora nuovi argomenti per laici, dai quali, nel corso del tempo, convincersi che Gesú è nato a Betlemme, secondo la profezia di ricevettero anche donazioni di terMichea e secondo la storia scritta dai discepoli di Gesú nei vangeli, reni. Questi legami sono dunque da rifletta come, conformemente alla narrazione evangelica della nascita, ritenersi un fattore chiave nell’eviene mostrata la grotta di Betlemme dove è nato, e, nella grotta, una spansione economica della Palestimangiatoia dove fu deposto. E tutto questo è noto, in quei luoghi, anche na: recenti prove archeologiche a coloro che sono estranei alla fede: che in quella grotta ha veduto la mostrano infatti come i cenobi non luce colui che è adorato e ammirato dai cristiani» (Contro Celso 1,51). fossero costruiti esclusivamente in G. U. luoghi isolati, ma all’interno di una 48 a r c h e o


rete insediativa ed economica di ampio respiro e profondamente interconnessa con altre realtà. A.T.

LE PROSPETTIVE FUTURE L’elevato potenziale archeologico del sito monastico al «Campo dei Pastori» e la centralità del santuario negli odierni percorsi di pellegrinaggio auspicano un prosieguo intensivo delle attività nei prossimi anni, dietro l’imprescindibile supporto e sostegno fornito al PIAC dalla Custodia di Terra Santa. In tale ottica, la ricerca scientifica è solo un tassello di un progetto di piú ampio respiro, che prevede un futuro rinnovamento dei percorsi di musealizzazione e fruizione dell’area archeologica, l’eventuale allestimento di un piccolo museo corre-

dato da una guida e un nuovo sistema di coperture a protezione dei contesti antichi. Già dal 2023, inoltre, la missione ha stipulato un protocollo di intesa con la Bethlehem University, che prevede la partecipazione di un gruppo di circa dieci studenti locali alle at-

tività di scavo e di schedatura dei materiali, nell’ottica di una piena cooperazione tra istituti e differenti realtà culturali e religiose, aderendo in pieno alle progettualità e agli obiettivi portati avanti sia dalla Custodia che dal PIAC. G. C., S. S. a r c h e o 49




MUSEI • PARMA

MERAVIGLIE DUCALI HA RIAPERTO I BATTENTI, CON UN ALLESTIMENTO COMPLETAMENTE RINNOVATO, IL MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE DI PARMA, NEL COMPLESSO MONUMENTALE DELLA PILOTTA. UNA COLLEZIONE ILLUSTRE E DI ANTICA DATA: NACQUE INFATTI NEL SETTECENTO, PER VOLERE DI FILIPPO DI BORBONE E, DA ALLORA, HA ACCOLTO MATERIALI PROVENIENTI DA PARMA E DAL SUO TERRITORIO, IN GRADO DI DOCUMENTARE UN ARCO CRONOLOGICO CHE DALLA PREISTORIA ARRIVA A TOCCARE L’ETÀ LONGOBARDA di Giampiero Galasso

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on la riapertura del Museo Archeologico Nazionale di Parma, una delle prime raccolte di antichità italiane, fondato nel 1760 dal duca Filippo I di Borbone (vedi box in basso, sulle due pagine), è giunto a compimento il vasto progetto di ristrutturazione del

Complesso monumentale della Pilotta di Parma, promosso e gestito dal direttore Simone Verde, oggi alla guida degli Uffizi di Firenze. Il nuovo assetto del museo si caratterizza per una configurazione architettonica e museografica rivisitata, finalizzata a offrire una visione

La sala del Museo Archeologico Nazionale di Parma che accoglie le statue della gens giulioclaudia da Veleia.

UN’IMPRESA ILLUMINATA E A LUNGO ISOLATA Fondato nel 1760 da don Filippo I di Borbone, il Ducale Museo d’Antichità, oggi Museo Archeologico Nazionale di Parma, rappresenta il primo e a lungo isolato esempio, nell’Italia settentrionale, di un’istituzione legata a un’impresa archeologica. Occupa, a partire dalla prima metà dell’Ottocento, l’ala sud-occidentale della Pilotta, un complesso di servizi di corte sviluppatosi attorno al «Corridore», progettato verso il 1580 da Giovanni Boscoli da Montepulciano per il duca Ottavio Farnese. Ospitato in origine in un modesto fabbricato addossato

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al palazzo, precedentemente sede delle raccolte numismatiche farnesiane, il Museo ha accolto inizialmente frammenti della Tabula Alimentaria traianea e della Lex de Gallia Cisalpina, bronzi figurati, suppellettili e monete provenienti dagli scavi, mentre il gruppo scultoreo del ciclo giulio-claudio dalla Basilica di Veleia e le relative iscrizioni furono destinati alla Galleria costituita presso l’Accademia. Con l’acquisizione, alla fine del Settecento, dei materiali provenienti dall’esplorazione promossa dalla Società di Nobili Parmigiani nel sito dell’antica Luceria,


presso Ciano d’Enza (Reggio Emilia), ha assunto precocemente il ruolo di museo comprensoriale. Privato dei suoi reperti piú prestigiosi dai Francesi nel 1803, che li trasferirono a Parigi, il museo ne tornò in possesso dopo il Congresso di Vienna. Durante gli ultimi decenni del Settecento si costituí il nucleo del Medagliere, incrementato con gli acquisti provenienti da Veleia. La duchessa Maria Luigia d’Austria (1815-1847), dopo avergli assegnato una nuova sede, arricchí il museo con l’acquisto di collezioni numismatiche, di ceramica greca, italiota, etrusca e di

oggetti egizi. Grazie a lei, il processo di rinnovamento edilizio fu anche l’occasione per la scoperta del teatro romano, dell’anfiteatro e di ampi brani del tessuto urbano antico di Parma, con un conseguente incremento delle collezioni. Nel 1866, le statue dalla basilica di Veleia furono finalmente cedute dall’Accademia e, subito dopo l’unificazione nazionale, grazie alle ricerche di Luigi Pigorini e Pellegrino Strobel, si costituí una delle piú notevoli raccolte preistoriche dell’Italia settentrionale. L’allestimento precedente a quello voluto dal direttore Simone Verde risaliva al 1965.

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MUSEI • PARMA

completa e dettagliata del patrimonio. La disposizione delle esposizioni segue un ordine cronologico, articolato attraverso un percorso espositivo che segue una scansione temporale e tematica. L’itinerario di visita è organizzato in un percorso circolare, partendo dalla preistoria e procedendo verso la tarda antichità per poi connettersi, attraversato lo scalone e il vestibolo monumentale, alla prima sala della Galleria. Ad accogliere il visitatore, ai lati del nuovo ingresso del museo, sono due leoni in pietra chiara di Vicen-

UN CENTRO CULTURALE DI PRIM’ORDINE

In alto: il nuovo ingresso del Museo Archeologico Nazionale, fiancheggiato da due leoni in pietra provenienti da un monumento funerario del I sec. d.C. A sinistra: bifacciale acheulano di provenienza francese. Paleolitico Inferiore, 500-150 000 anni fa. A destra, sulle due pagine: il Complesso monumentale della Pilotta.

za, provenienti da un monumento funerario del I secolo d.C., che precedono la prima sala espositiva. Qui, al centro di una vetrina verticale fra schegge e strumenti litici preistorici rinvenuti in Italia centrale (Valle della Vibrata) e in siti francesi, campeggia un bifacciale acheuleano del Paleolitico Inferiore (500-150 000 anni fa), donato dall’associazione Amici della Pilotta.

CACCIATORI NOMADI Nella sala sono esposti i piú antichi reperti recuperati nel territorio parmense grazie a ricognizioni di superficie e databili in un periodo compreso tra i 70 000 e i 50 000 anni fa. Si tratta di schegge semplici o trasformate in raschiatoi e di punte in calcare silicizzato, presumibilmente prodotti e utilizzati da gruppi di Neandertaliani

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Il Complesso monumentale della Pilotta di Parma costituisce un esempio emblematico di architettura rinascimentale e barocca. La sua evoluzione, iniziata nel XVI secolo, si è sviluppata in fasi diverse, che riflettono le trasformazioni architettoniche e l’evoluzione delle funzioni del complesso nel corso dei secoli. La Pilotta ebbe origine nel 1580, quando il duca Ottavio Farnese commissionò all’architetto Giovanni Boscoli da Montepulciano la creazione del «Corridore», un collegamento destinato a unire il Palazzo Farnese alla Rocchetta, sua residenza suburbana. Questo progetto, che sottolineava l’importanza strategica e di rappresentanza della Pilotta, segnò l’inizio della sua storia. Nel corso del XVII secolo, sotto il governo di Ranuccio II Farnese,


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importanti esposizioni e attività culturali. Nel XX secolo, la Pilotta subí danni durante la seconda guerra mondiale, ma i successivi restauri consentirono la salvaguardia e la riapertura delle sue sale espositive. Il complesso

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Complesso Monumentale della Pilotta

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Pianta del centro storico di Parma. 1. Camera del Correggio; di S. Paolo; 2. Museo Glauco Lombardi; 3. Palazzo vescovile; 4. Madonna della Steccata; 5. S. Giovanni Evangelista.

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furono avviati significativi ampliamenti. Il progetto coinvolse l’architetto Francesco Paciotto, il quale contribuí all’espansione del complesso con la creazione delle Gallerie e della Biblioteca Palatina, facendo cosí della Pilotta un centro culturale di prim’ordine. Nel XVIII secolo, nuovi interventi si registrarono sotto il governo di Ferdinando di Borbone, quando Ennemond Alexandre Petitot aggiunse ulteriori spazi espositivi e apportò modifiche alla struttura. Nel corso del XIX secolo, la Pilotta assunse un ruolo predominante come sede di istituzioni culturali. Nel 1760, la creazione del Museo Nazionale d’Antichità, primo embrione dell’attuale Museo Archeologico Nazionale di Parma, marcò una tappa cruciale. Durante il dominio di Maria Luigia d’Austria (1815-1847), la Pilotta ospitò non solo il museo, ma divenne anche il luogo in cui furono allestite

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monumentale è stato oggetto di costanti interventi di conservazione e restauro nel corso degli anni per preservarne l’integrità strutturale e le opere d’arte al suo interno. Oggi, la Pilotta continua a svolgere un ruolo chiave nel panorama culturale di Parma. Oltre al Museo Archeologico Nazionale, ospita la Biblioteca Palatina, la Galleria Nazionale e il Teatro Farnese. Progetti futuri prevedono la realizzazione di nuovi spazi espositivi e servizi didattici, mantenendo la struttura al passo con le esigenze contemporanee e garantendo la sua preservazione per le generazioni future.

DOVE E QUANDO Complesso monumentale della Pilotta Parma, piazzale della Pilotta 15 Orario martedí-domenica, 10,30-19,00 Info tel. 0521 233617; e-mail: cm-pil@cultura.gov.it; complessopilotta.it

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MUSEI • PARMA

nomadi che si spostavano nella regione seguendo rinoceronti lanosi, mandrie di bisonti e alci.Tra Paleolitico Medio e Superiore sono datate una serie di schegge lapidee testimoni dello sfruttamento dei giacimenti di diaspro del Monte Lama, a 1000 m circa di altitudine. Nei siti del Mesolitico (12 000-7500 anni fa), a Collecchio e Monte Camulara, sono stati poi intercettati resti di industrie litiche in selce. In fasi successive, a Copezzato e Benefizio, Ponteghiara, Parma, Gaione-Case Catena e Pontetaro, si svilupparono, alla metà del V millennio a.C., una serie di insedia-

In alto: vaso a bocca quadrata in ceramica d’impasto. V mill. a.C.

menti capannicoli appartenenti alla corrente culturale dei «vasi a bocca quadrata» (VBQ), fiorente durante il Neolitico Antico. Dall’analisi dei siti finora individuati sono emersi frammenti ceramici d’impasto, strumenti in osso, nonché industrie litiche in selce, conchiglie, resti di ossidiana da Lipari, pietra verde, cristallo di rocca e selce alpina, a testimonianza dell’attivazione di complessi traffici commerciali su larga scala. Allo stesso periodo, tra il V e la metà IV millennio a.C., si datano diverse sepolture in fossa terragna, con defunti inumati in posizione rannicchiata, su un fianco, col capo rivolto

spalliera in legno; per la parte inferiore delle gambe si sono aggiunte masserelle d’argilla; braccia e naso sono applicati. I dettagli sono realizzati con asportazioni piccole o grandi di parti di argilla (capelli e un triangolo sotto i seni), con incisioni (occhi, dita), con solcature leggere (abiti e ornamenti?). Alla fine è stata aggiunta la coloritura bianca.

L’esecuzione elaborata contrasta con l’essiccatura e la cottura, effettuate in fretta, senza rispettare i tempi necessari per garantire all’oggetto durata e robustezza. Possiamo dunque immaginare che queste ultime caratteristiche non fossero necessarie per la statuina, destinata a una sepoltura. Per vari aspetti è simile a figurine neolitiche

La «dea» di Vicofertile La famosissima «dea» di Vicofertile (alta quasi 20 cm) era deposta all’interno in una tomba femminile datata alla metà del V mill. a.C. Fra i molti motivi di interesse vi è proprio la sua realizzazione, frutto dell’impiego di molteplici tecniche di manifattura e di rifinitura. Il tronco sembra fatto a stampo, ossia plasmando l’argilla contro una

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a est. I corredi femminili comprendono vasi in ceramica d’impasto, monili e statuine di argilla, mentre quelli maschili presentano armi in selce (punte di freccia) e in pietra, tra cui asce in pietra verde levigate a specchio, non funzionali, oppure con tagliente levigato e tallone picchiettato, utilizzate per disboscare o dissodare il terreno; non mancano scalpelli e asce-martello, queste ultime riferibili a una fase iniziale dell’Eneolitico (metà del IV-metà del III millennio a.C.), che completano il quadro delle scoperte.

VOLTO OVALE E NASO PROMINENTE Da Vicofertile provengono i corredi di piú sepolture esposti ancora in questa prima sala, tra cui spicca quello dell’inumazione di una donna di circa 40 anni, con tipico vaso d’impasto «a bocca quadrata» e una preziosa statuetta femminile, posta davanti al volto della defunta. Alta circa 20 cm, realizzata in argilla ma in origine colorata di bianco, la statuetta rappresenta una donna seduta, con volto ovale e naso prominente: si tratta forse di una divinità ctonia posta a protezione della sepoltura, una sorta di «signora della morte e della rinascita», finora un unicum in Italia (vedi box e foto in queste pagine). Accanto a questa sepoltura erano deposti i resti di un bambino di sette-otto anni, il cui corredo includeva due asce in pietra levigata, e

dell’Europa orientale: qui la donna seduta su trono o sgabello richiama una figura divina importante, riferibile alle forze rigeneratrici della Terra, mentre il colore bianco su oggetti legati alle sepolture (bianco che sappiamo essere anche oggi il colore del lutto nelle culture orientali) aveva forse il compito di ridare «vitalità a ciò che la morte ha strappato via».

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MUSEI • PARMA

quelli di un adulto di circa 30 anni con una lama di ossidiana e un’ascia. Altri reperti, tra cui vasellame d’impasto e manufatti in selce, recuperati da sepolture multiple individuate a sud-ovest del territorio parmense, forniscono preziose informazioni sull’artigianato, le abitudini alimen-

tari e l’utilizzo di armi durante l’Eneolitico (3400-2200 a.C.). Nella seconda sala si documenta la presenza di gruppi umani dalla prima fase dell’età del Bronzo. I siti di Beneceto e San Pancrazio attestano la frequentazione del territorio e il suo sfruttamento agricolo già tra

In alto: una delle vetrine dedicate alle culture della preistoria. Qui sopra e a sinistra: vaghi in ambra e un disco in palco di cervo decorato, dalla terramara di Castione Marchesi (Parma). XVI-XII sec. a.C. Nella pagina accanto: collari in bronzo, dal ripostiglio di Fraore (Parma). XVIII-XVII sec. a.C. 58 a r c h e o


XXI e XX secolo a.C. Alcuni dei materiali provengono da Parma Sant’Eurosia, dove sono stati scoperti otto tumuli circolari con sepoltura centrale. Piú recenti (XVIIIXVII secolo a.C.) sono i ripostigli di collari di bronzo da Fraore e grandi pugnali finemente decorati da Castione Marchesi: si tratta di gruppi di oggetti volontariamente occultati da mercanti fonditori o del risultato di un’offerta cultuale da parte di membri dell’élite locale. Nella sala sono però presentati so-

prattutto i reperti delle terramare parmensi, che costituiscono un’espressione indicativa della ricchezza e della maestria tecnica raggiunta dalla civiltà terramaricola, che prosperò nella Pianura Padana centrale nel periodo compreso tra il 1650 a.C. e il 1150 circa a.C., un’epoca in cui il territorio era punteggiato da villaggi «palafitticoli» difesi da fossati e terrapieni, indagati archeologicamente già dalla seconda metà del XIX secolo da Luigi Pigorini e Pellegrino Strobel.

Gli oggetti di questa sezione, che spiccano per varietà e raffinatezza di esecuzione, illustrano eloquentemente l’alto livello di sviluppo culturale e tecnologico raggiunto dai terramaricoli. Dai siti parmensi emergono reperti diversificati, tra cui forme ceramiche d’impasto, manufatti in metallo (armi, spilloni per abiti), strumenti e oggetti di ornamento realizzati in corno di cervo e ambra. Particolarmente notevoli sono una serie di vaghi di ambra rossa recu-

Fra i reperti piú significativi riuniti nella sezione di preistoria, spiccano i materiali riferibili alle terramare, la cui civiltà fiorí nell’area padana fra il XVII e il XII secolo a.C.

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MUSEI • PARMA La vetrina nella quale sono riuniti i materiali restituiti dalla tomba del guerriero di Casaselvatica, rinvenuta nel 1958 in località Casino Pallavicino. Metà del III sec. a.C. Il pezzo piú importante è l’elmo bronzeo del tipo «Montefortino» con corna in lamina applicate (vedi anche la foto alla pagina accanto).

perati dagli abitati e dalle sepolture terramaricole. Utilizzati per collane o come «ferma-pieghe» e provenienti dal Mar Baltico, riservati alle donne dell’élite, questi oggetti riflettono l’esistenza di una gerarchia sociale pronunciata. Notevole è l’esposizione di uno strumentario che doveva appartenere a un artigiano specializzato nella lavorazione del bronzo: forme di fusione, ugelli, soffiatoi, crogioli funzionali alla realizzazione di attrezzi agricoli (falcetti, asce), armi (pugnali, spade, punte di lancia) e oggetti di ornamento personale (spilloni, bottoni, pendagli). 60 a r c h e o

La collezione esibisce anche una straordinaria selezione di oggetti di legno recuperati dalla terramara di Castione Marchesi, tra cui parti di aratri e una rara ruota per carri.

IL CULTO DEL SOLE La preservazione di questi manufatti di legno fornisce preziose informazioni sulle abilità artigianali, sulle tecnologie utilizzate e sullo stile di vita quotidiano di queste antiche comunità. Dalla stessa terramara proviene uno splendido disco solare in palco di cervo, inciso con motivi a linee concentriche, linee ondulate alternate a piccoli punti e linee for-

mate da punte, con otto piccoli incavi circolari e poco profondi che contenevano placchette d’ambra. Un oggetto unico che potrebbe essere collegato al culto solare praticato durante l’età del Bronzo. Sempre da Castione Marchesi proviene una serie di pettini in corno di cervo (XVI-XII secolo a.C.), funzionali sia per la cura della capigliatura, sia per la lavorazione dei tessuti, le cui fibre hanno appunto lasciato usure inconfondibili. Il percorso ci conduce nella terza sala, dedicata alla successiva fase dell’età del Ferro (VII-fine III secolo a.C.), caratterizzata dalla diffusio-


insieme ai resti del rogo funebre, si sono rinvenuti anche oggetti di corredo che rimandano a contatti con l’area atestina, con l’Emilia occidentale e il Reggiano. Particolarmente interessanti sono i pani di bronzo (aes signatum) provenienti da Quingento e datati al VI secolo a.C.

LA SIGNORA E IL GUERRIERO Risale al 1864 la scoperta, da parte di Luigi Pigorini, a Fraore, lungo la via Emilia e in prossimità dall’attraversamento del fiume Taro, di un tumulo sepolcrale che accolse una donna di rango elevato, vissuta tra il 450 e il 400 a.C. Il suo corredo comprende un tipico servizio da simposio, con due coltelli e uno spiedo di ferro, contenitori di bronzo (kyathos, Schnabelkanne e una cista di bronzo a cordoni di produzione felsinea) e una parure di gioielli: orecchini in oro con terminazione a testa femminile e granuli applicati e due fibule in argento di produzione etrusco-padana; una coppia di

A destra: pugnale da parata a lama sottile, dal territorio parmense. Età del Bronzo.

ne della civiltà etrusca nel territorio parmense. La presenza etrusca è ampiamente documentata a Fraore, Botteghino, Casalora di Ravadese e Baganzola, anche se, al momento, non ci sono prove dell’esistenza di

un centro urbano etrusco nelle vicinanze di Parma. Nella sala trovano esposizione sia il vasellame proveniente da insediamenti rurali diffusi nella regione, sia oggetti di corredo in bronzo, argento, oro. La presenza di grandi dolia decorati da prese rettangolari rimanda a riti funerari d’incinerazione: all’interno, infatti,

fibule in oro «ad arco serpeggiante» e una fibula da parata in argento di produzione celtica. Si ha notizia, infatti, della presenza dal IV secolo a.C. di elementi di tribú celtiche in Emilia, di cui la tomba esposta del giovane guerriero di Casaselvatica, rinvenuta nel 1958 in località Casino Pallavicino, costituisce sicuramente il ritrovamento piú significativo, con il suo elmo bronzeo tipo «Montefortino» con corna in lamia r c h e o 61


MUSEI • PARMA Germanico con ritratto di Nerva, statua in marmo lunense facente parte del ciclo giulio-claudio, da Veleia. I sec. d.C. In basso: uno scorcio della sala che accoglie il ciclo statuario giulio-claudio scoperto nella Basilica di Veleia.

na applicate e le armi di ferro defunzionalizzate (spada, coltello, cuspide di lancia), che la datano alla metà del III secolo a.C. Nella quarta sala si accede all’ampia sezione dedicata alla romanizzazione del territorio, attraverso un suggestivo passaggio nel salone decorato nell’Ottocento dal pittore parmense Francesco Scaramuzza. Questo spazio, in passato destinato al Medagliere, è oggi occupato dal celebre ciclo statuario della dinastia giulio-claudia. Lungo le pareti della sala, sono allineate le dodici statue in marmo lunense scoperte nel Settecento nella Basilica di Veleia a Lugagnano Val d’Arda (Piacenza), dove erano originariamente collocate per celebrare la lealtà politica della comunità e l’adozione del culto giulio-claudio.

RITRATTI IMPERIALI Il gruppo piú antico, risalente all’età tiberiana, presenta i ritratti di Augusto, Livia Drusilla, Druso Maggiore, Druso Minore e Lucio Calpurnio Pisone, patrono dei Veleiati. Un secondo gruppo include le statue di Agrippina Maggiore, Drusilla e Caligola, con la testa di

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La fanciulla da Veleia Questo ritratto fu trovato a Veleia (Lugagnano Val d’Arda, Piacenza) il 28 aprile 1760, non lontano dal luogo di rinvenimento della celebre Tabula Alimentaria: raffigura una ragazza con la testa lievemente inclinata a destra e i tratti del viso molto accurati; la capigliatura è corta, pettinata all’indietro, e in origine doveva essere completata da un alto ciuffo rigonfio sulla fronte, come era di moda alla fine del I sec. a.C. Il particolare dei capelli corti, inusuale per le donne romane, fa pensare che la giovane potesse avere un ruolo religioso, mentre il caso, del tutto eccezionale, della dedica di un ritratto in bronzo a una ragazza ha fatto supporre che si possa trattare di Baebia Bassilla, ricordata in un’iscrizione di Veleia per aver donato alla città un portico intero sulla piazza principale. La scultura in bronzo, una fusione cava indiretta a cera persa, con gli occhi in calcedonio, è opera di officine locali ed è databile alla fine del I sec. a.C.

quest’ultimo poi sostituita con quella di Claudio. Nel terzo gruppo sono presenti una statua di Agrippina Minore e una di Germanico con il ritratto di Nerva, entrambe risalenti al I secolo d.C. Anche la sala successiva è dedicata ai recuperi avvenuti a Veleia: gli scavi di questo municipio, condotti nel Settecento per volere del duca di Parma e Piacenza, ispirarono la fondazione stessa del Museo Archeologico, inaugurato proprio per custodirne i ritrovamenti. La città, sede di un avamposto ligure e sotto il dominio romano dal 158 a.C. al V secolo d.C., ha restituito importanti reperti, tra i quali spicca la Tabula Alimentaria, la piú grande iscrizione su bronzo dell’epoca romana (1,38 m di altezza, 2,86 di larghezza).

UN AIUTO AGLI INDIGENTI Voluto nel 103 d.C. dall’imperatore Traiano, l’istituto degli alimenta consisteva in un prestito ipotecario concesso ai proprietari terrieri (oblia r c h e o 63


MUSEI • PARMA A sinistra: un particolare dell’allestimento della sezione romana. In basso: testa maschile in bronzo dorato raffigurante l’imperatore Antonino Pio (138-161 d.C.), da Veleia.

gatio praedorium), i cui interessi erano devoluti al mantenimento di fanciulli indigenti. L’obiettivo era duplice: incrementare le attività agrarie e sostenere le famiglie povere per contrastare lo spopolamento delle campagne. La tavola bronzea fu rinvenuta nel 1747, durante i lavori di sistemazione di un campo e poi smembrata e venduta per la fusione dall’arciprete di Mucinasso (Piacenza). I pezzi furono recuperati, ricomposti e restaurati nel 1817 da Pietro Amoretti, su incarico di Pietro De Lama. In esposizione vi è anche un frammento della lastra bronzea, datata tra il 49 e il 42 a.C., che riporta tre capitoli interi e due parziali della tavola IV della Lex Rubria de Gallia Cisalpina. La stessa sala accoglie altri preziosi reperti, tra cui una testa di bronzo dorato di Antonino Pio, una Vittoria alata (I secolo d.C.), un bronzetto votivo raffigurante l’Ercole Ebbro (II secolo d.C.) con dedica di Lucio Domizio Secundione e il ritratto di bronzo di fanciulla di età tardo-repubblicana (fine I secolo a.C.), attribuito forse a una Baebia Bassilla, menzionata in un’iscrizione per aver donato alla città un portico sul foro (vedi box a p. 63).

LA VITA DI UN MUNICIPIUM Di notevole rilievo, nella sezione dedicata a Veleia, è un frammento di pittura parietale, con scena di giardino, affiancato da numerosi altri 64 a r c h e o


reperti di età romana. Piccole sculture, parti di mobilio, ceramiche, statuette di marmo, bronzo e terracotta, utensili dedicati alla cura del corpo e agli esercizi ginnici (strigili, spatole, pinzette, balsamari in vetro), fibule, anelli e amuleti offrono una panoramica ricca e variegata della vita quotidiana del municipium emiliano. Il percorso prosegue nelle sale del corpo di fabbrica affacciato sul Lungoparma, la cui costruzione si deve a Giovanni Mariotti, direttore del Museo dal 1875 al 1933. Questo spazio, che si estende su una superficie di 1500 mq, ospita molti dei manufatti extraterritoriali acquisiti dal museo nell’Ottocento sotto Maria Luigia d’Austria.

I BRONZETTI DI MARIA LUIGIA Sotto l’originale soffitto ligneo a cassettoni, le quattro vetrine a muro disposte lungo la parete settentrionale presentano un gruppo di specchi etruschi, le collezioni luigine di bronzetti etrusco-italici, teste votive fittili e un’urna cineraria etrusca da Chiusi, mentre sul breve fianco meridionale, tra due porte, è posizionata una vetrina con esposto il celebre bassorilievo in alabastro, fondo di bacile, raffigurante il dio Oceano (vedi box in questa pagina). Lungo le pareti laterali è un gruppo di sculture di età romana dalle collezioni Gonzaga e Farnese, tra cui si riconosce una copia del Satiro flautista di Lisippo, un torso dell’Eros di Tespie, una testa di Giove Serapide e il busto di Lucio Vero datato tra il 161 e il 169 d.C. Al centro di questa sesta sala esposi-

Alabastro fiorito per il dio Oceano Questo bassorilievo in alabastro fiorito (pietra di gran pregio proveniente dal Nord Africa occidentale) giunse in museo nel 1768 in seguito all’acquisto della collezione del gesuita Luigi Canonici. Proveniente forse da Roma, doveva costituire, in origine, l’umbilicus di una vasca circolare del diametro di circa 2 m. Le antenne o zampe di gambero molto stilizzate, che spuntano dalla testa del soggetto, permettono di identificarlo con il dio Oceano. I confronti stilistici permettono di datare il manufatto tra la fine del II e l’inizio del III sec. d.C.: il suo modello iconografico proviene dall’Egitto ed è rilanciato in Occidente dai ritratti dell’imperatore Settimio Severo.

tiva, su un lungo e spazioso tavolo ottocentesco recuperato nei depositi della Galleria Nazionale, sono collocate forme ceramiche di diversa tipologia e provenienza. La selezione spazia dalla ceramica italogeometrica a quella italo-corinzia (aryballoi, alabastra, olpai), dai vasi in bucchero (oinochoai, brocche, calici, kantharoi) alla ceramica etrusca e italiota a figure rosse (crateri, anfore, kantharoi, hydriai). Presenti anche le tradizionali ceramiche apule (trozzelle, askoi), a vernice nera (coppe, patere anche ombelicate) e nello stile di Gnathia (oinochoai, askoi, olpette). Qui spiccano un cratere a calice a figure rosse di produzione etrusca della fine del V secolo a.C. con la raffigurazione di Helios, un’anfora attica a figure rosse con lotta di Eracle e Apollo, una kylix del ceramografo greco Oltos, datata tra il 520 e il 510 a.C., con figura centrale di una giovane donna danzante (vedi box a p. 66), un cratere apulo a volute con scene di culto funerario di guerriero eroizzato (350 a.C.).

MONETE E MEDAGLIE Nella sala successiva è allestita una piccola parte della ricca raccolta di monete antiche e moderne appartenenti al Medagliere del museo, che rappresenta una delle collezioni numismatiche piú importanti dell’Italia settentrionale per la quantità (oltre 23 000 esemplari) e il pregio di monete e medaglie. Attraversando un corridoio con soffitto ribassato, si accede alle tre sale successive dedicate alla sezione egizia, ora ospitata in spazi a r c h e o 65


MUSEI • PARMA

La kylix di Oltos Acquistata dal Museo nel 1839, questa magnifica kylix attica a figure rosse è uno degli esemplari piú celebri della collezione di ceramiche greche; non solo appartiene al periodo d’oro della produzione di questi recipienti (è databile al 520-510 a.C.), ma è stata attribuita a una delle personalità di riferimento della prima produzione a figure rosse, il pittore Oltos. Questo ceramografo attico, operante nell’ultimo venticinquennio del VI sec. a.C., è una delle personalità centrali della prima generazione di pittori a figure rosse: le opere a lui assegnate dal piú insigne studioso di ceramica attica, John D. Beazley, superano il centinaio e altre sono venute ad aggiungersi negli ultimi tempi, anche se solo due sono gli esemplari che recano la sua firma.

Nel corso della sua carriera, collabora con diversi vasai e predilige temi epici del ciclo troiano e soggetti dionisiaci, dipingendo in modo brillante e accurato figure rapide, veementi e vitalissime. Al centro della nostra coppa è rappresentata una danzatrice: indossa un chitone dalle ardite trasparenze, di cui raccoglie un lembo nella mano destra, mentre nella sinistra protesa regge un ramoscello realizzato in pittura bruna e quasi scomparso; porta un orecchino a pendente e una benda decorata fra i capelli. La donna rappresentata è probabilmente un’etera, una «cortigiana» molto colta dedita alla musica, alla danza e alla poesia, l’unica figura femminile ammessa nei simposi greci, per il piacere degli uomini.

progettati per evocare l’atmosfera di una tomba ipogea: concepite per mantenere costanti temperatura e umidità, le vetrine custodiscono circa 200 reperti, che coprono un arco temporale che va dal 2100 a.C. al I secolo d.C. La sezione egizia si apre con testi e tavole dell’egittologo Ippolito Rosellini, collega di Jean-François Champollion durante la spedizione franco-toscana in Egitto nel 1828, finanziata da re Carlo X di Francia e dal granduca Leopoldo di Toscana. Tra i reperti di particolare interesse, si distingue il rilievo parietale in calcare della tomba di Amenemone, proveniente da Menfi, datato XIV secolo a.C. Il dignitario è raffigurato con una ricca parrucca, il pizzo osiriano e simboli come la piuma di struzzo, che rappresentano il suo potere civile e militare conferitogli dal faraone (vedi box a p. 67).

IL PAPIRO DELL’AMMIRAGLIO La collezione comprende, tra gli altri manufatti, il sarcofago di Shepsesptah (XXVI dinastia), tre stele funerarie lapidee e due in legno dipinto, il papiro del generale dell’esercito e ammiraglio Amenothes (XVIII dinastia) provenienti da Tebe, due ostraka in pietra e terracotta, bronzetti, vasi canopi in alabastro, collane funerarie e, soprattutto, la collezione Magnarini di 429 scarabei-sigillo egizi – in comodato dalla Fondazione Cariparma –, considerata una delle piú importanti raccolte esistenti, sia per la quantità, sia per le caratteristiche dei reperti. Le ultime sale ci introducono alla storia di Parma e del suo territorio in età romana, attraverso i ritrovamenti provenienti dagli scavi delle necropoli in uso fra il I secolo a.C. e il II d.C. Tra i reperti figurano piccoli ornamenti, contenitori di profumi, vasi per bere e addirittura 66 a r c h e o


dadi e pedine da gioco, mentre epigrafi lapidee commemorano cittadini romani, liberti e militari, celebrando le loro vite e i loro affetti. Avvicinandosi idealmente alla città, i reperti provenienti dalle ville del territorio e dalle residenze urbane forniscono altri dettagli sullo stile di vita, il livello di ricchezza, le produzioni e i consumi degli abitanti. Gli scavi condotti in area urbana permettono di ricostruire la conformazione di Parma in diverse epoche,

con ritrovamenti provenienti dai luoghi piú rappresentativi della città, dal principale tempio cittadino affacciato sul foro (corrispondente all’attuale piazza centrale di Parma) al teatro del I secolo d.C.

NASCOSTI PER SFUGGIRE ALLE RAZZIE Databili al III secolo d.C., sono due i tesoretti rinvenuti in momenti difficili per la città. Il primo, composto di aurei, fibule, anelli e

collane d’oro (III secolo d.C.), fu scoperto nel 1821 durante la costruzione del Teatro Regio. Il secondo, noto come il tesoretto del Collegio delle Orsoline, è costituito interamente da materiali di bronzo, tra cui spicca una pregevole lucerna a forma di piede calzato da sandalo a fasce annodate chiuso sul davanti da un elemento a testa di Gorgone (vedi box a p. 68). Il percorso si conclude insieme all’esaurirsi del dominio romano,

Dalla tomba di un dignitario Il rilievo funerario in calcare dipinto di Amenemone, proveniente da Menfi, è uno dei pezzi piú belli della collezione egizia del Museo: formatasi a partire dal 1826 sotto i buoni auspici della duchessa Maria Luigia, essa ammonta a circa 200 oggetti, accuratamente selezionati dal direttore Michele Lopez. Amenemone è rappresentato con ricca parrucca, pizzo osiriano, collana del valore a quattro giri; la mano sinistra stringe una piuma di struzzo, rappresentativa della carica di porta-ventaglio alla destra del faraone, Amenofi III (1413-1377 a.C. circa), che gli aveva affidato tutto il potere civile e militare dell’Egitto: è ricordato infatti come scriba del Re, preposto ai lavori nel tempio di Ra, generale in capo dell’esercito, capo degli arcieri e maggiordomo del tempio di Men keper ra. Il suo nome, che non compare nel nostro frammento, è ricavabile da due rilievi provenienti dalla stessa tomba, oggi alla Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen.

a r c h e o 67


MUSEI • PARMA

di cui rimane testimonianza in alcuni elementi architettonici e sculture, e con i resti delle necropoli dei Longobardi. Un corpus di manufatti inediti, con la sola tomba della cosiddetta principessa di Borgo della Posta già esposta in precedenza, il cui sfarzoso corredo funerario è composto da una fibula a disco, tra i migliori esempi di oreficeria longobarda del VII secolo (vedi box qui accanto), due anelli d’oro, un elemento di cintura dorato al mercurio, una collana, cinque laminette auree, una croce in sottile lamina d’oro e un grande bacile di bronzo. La ricchezza della sepoltura e la datazione hanno fatto ipotizzare che possa addirittura trattarsi della figlia del re Agilulfo, andata in sposa a Godescalco di Parma e morta di parto nel 604.

La luce dal sandalo Prodotta forse in officine dell’Italia meridionale, questa elegante lucerna in bronzo fu rinvenuta nel 1953 nell’area dell’odierno convento delle Suore Orsoline, in via Cavestro (Parma), assieme a una quarantina di altri oggetti in bronzo nascosti dentro un grosso vaso di terracotta e poi sepolti come «tesoretto» a seguito della crisi politico-sociale ed economica che investí l’impero romano nel III sec. d.C. La lucerna ha la forma di un piede calzato da un sandalo a fasce annodate, chiuso sul davanti da un elemento a testa di Gorgone, colto nell’atto di calpestare una falena, forse a richiamare la funzione dell’oggetto stesso, la cui luce era in grado di scacciare le tenebre.

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Arte orafa longobarda Questa fibula a disco rappresenta uno degli esemplari piú belli di oreficeria longobarda del VII sec., come parte del corredo funerario di una sepoltura femminile rinvenuta in Borgo della Posta a Parma nel 1950. Il disco d’oro è decorato da granati e pietre almandine, tagliati e incastrati in una gabbia dorata dai bordi irregolari e sottili a sufficienza da far brillare l’oro sullo sfondo; la decorazione è ripartita in tre corone circolari contraddistinte da motivi geometrici diversi; la seconda fascia ospita laminette auree decorate a bulino, mentre quella piú esterna e quella centrale erano impreziosite da grandi gemme, di cui restano i soli castoni circolari, già perdute al momento del rinvenimento. Del ricco corredo facevano parte anche due anelli d’oro, un elemento di cintura dorato al mercurio, una collana composta da due bulle in lamina d’oro e da elementi in materiali vari (ametista, acqua marina, cristallo di rocca, pasta vitrea, osso e terracotta), cinque laminette auree decorate a sbalzo e un sottile filo d’oro (destinati a ornare la veste), una croce in sottile lamina d’oro (probabilmente cucita sul velo della defunta) e un grande bacile in bronzo, di fattura copta. La ricchezza di questa sepoltura e la presenza del bacile, collegato a riti battesimali, fecero ipotizzare a Giorgio Monaco (allora direttore del Museo Archeologico) che l’importante personaggio femminile potesse essere nientemeno che la figlia di Agilulfo, andata in sposa a Godescalco di Parma e morta di parto nel 604 d.C.; pur essendo soltanto un’ipotesi suggestiva, il corredo è effettivamente databile al primo quarto del VII sec. e si presenta indubbiamente molto piú ricco di quanto fosse consueto in età longobarda, tale da essere attribuito a una donna di rango elevato.



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INCONTRI • UMBRIA

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IN UMBRIA, I

AL RITMO DELLA STORIA TORNA, A TODI E POI A PERUGIA, L’APPUNTAMENTO CON L’UMBRIA ANTICA FESTIVAL, RASSEGNA CHE PORTA ALLA RIBALTA IL NOSTRO PASSATO E NE SOTTOLINEA L’ATTUALITÀ. UN PATRIMONIO PREZIOSO, ALLA CUI LEZIONE NON SI DEVE MAI SMETTERE DI GUARDARE

Particolare della replica del Marte di Todi (vedi a p. 74) custodita nella cripta del Duomo di Todi (cattedrale della SS. Annunziata).

l cuore verde d’Italia batte al ritmo della Storia. Un battito lento e costante, ma mai fuori tempo pur parlando di epoche passate, perché l’umanità ha affrontato da sempre le stesse sfide universali: guerra e pace, progresso e declino, democrazia e tirannia, vita e morte, gioco e dovere. L’Umbria celebra la storia antica con un festival che riunisce i piú grandi archeologi e storici italiani per raccontare il mondo antico attraverso incontri di alta divulgazione: dai popoli italici agli Etruschi, dalla Grecia classica a Roma. L’Umbria Antica Festival torna con una terza edizione ambiziosa, organizzando nelle ultime due settimane di marzo due grandi appuntamenti culturali. Il primo a Todi (1517 marzo), il secondo a Perugia (22-23 marzo). Come da tradizione, i luoghi scelti non sono casuali. Parliamo di due città che uniscono con naturale eleganza passato e presente, storia e geografia, bellezza e mistero. Qui gli strati della storia diventano un ventaglio culturale da sfogliare a ritmo lento: la velocità giusta per godere meglio il panorama.

ALLA PORTATA DI TUTTI Giovanni Brizzi, Umberto Galimberti, Andrea Carandini, Costantino d’Orazio, Giusto Traina, Immacolata Eramo, Filippo Coarelli, Marcella Frangipane, Livio Zerbini, Arnaldo Marcone, Paolo Giulierini,Tommaso Braccini sono solo alcuni dei grandi ospiti che interverranno nel corso delle giornate, con lezioni di alto valore scientifico, usando con sapiente maestria un linguaggio chiaro e preciso, adatto a tutti. Non solo lezioni di storia, ma anche una Fiera del Libro in collaborazione con le principali case editrici di saggistica (Laterza, Il Mulino, Carocci). Inoltre, nel corso delle giornate, saranno organizzate speciali visite guidate alle Cisterne Romane (vedi alle pp. 76-78) e al Museo Civico di Todi, al Parco delle Mura di a r c h e o 73


INCONTRI • UMBRIA

Perugia, al Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria e all’Ipogeo dei Volumni e Necropoli del Palazzone, per valorizzare e far conoscere al pubblico il patrimonio archeologico locale. Dopo aver affrontato i temi dell’Umbria come culla della civiltà

Statua di guerriero in bronzo, nota come «Marte di Todi». Ultimo quarto del V sec. a.C. Città del Varicano, Museo Gregoriano Etrusco. Anche se ritrovata a Todi (in località Monte Santo), in contesto umbro, il luogo di produzione della scultura è senz’altro etrusco: con ogni probabilità si tratta di Orvieto, città famosa nell’antichità per la fabbricazione di sculture di bronzo. In alto, sulle due pagine: una veduta panoramica di Todi. 74 a r c h e o

italica («Dove è nata la nostra storia», prima edizione) e quello del rapporto tra umano e divino nella terra «mistica» per eccellenza («Uomini e dèi», seconda edizione), per la sua terza edizione il festival cambia nome. Non piú Festival dell’Umbria antica, ma Umbria Antica Festival. Non è un tocco di cipria, ma un’operazione culturale: dopo la nascita e il radicamento nel territorio, ecco la crescita: uscire dai confini del discorso regionale per guardare all’Italia intera. In questo modo l’Umbria aspira a diventare la sede del racconto della storia antica, senza rinunciare alla valorizzazione del suo territorio e dei suoi tesori storici e archeologici. Questa la sfida culturale che da tre anni il festival porta avanti: far conoscere l’immenso patrimonio storico e archeologico italiano, spesso considerato scontato, raccontandolo senza atteggiamenti cattedratici, per avvicinare un pubblico ampio ed eterogeneo.

UNA SPIEGAZIONE DEL PRESENTE Lo fa con la stessa passione per la conoscenza di Paul Hunham, il professore interpretato da Paul Giamatti protagonista del film The Holdovers


lei», spiega il professore allo studente davanti ai reperti esposti al Boston Museum of Fine Arts. «Quindi, prima di liquidare qualcosa come noioso o irrilevante, ricordate che se volete veramente capire il presente o voi stessi, dovete iniziare dal passato. Vedete, la storia non è semplicemente lo studio del passato. È una spiegazione del presente». Il Festival vuol essere quindi uno spazio di riflessione e conoscenza, un angulus che possa sorridere agli appassionati, ai curiosi e a tutte le persone che vorranno prendersi del tempo e passeggiare – con la mente e col corpo – in Umbria, cuore verde d’Italia che batte al ritmo della Storia. di Alexander Payne, candidato agli Oscar 2024: «Non c’è nulla di nuovo nell’esperienza umana. Ogni generazione pensa di aver inventato la dissolutezza, la sofferenza o la ribellione, ma ogni impulso e appetito dell’uomo, dal disgustoso al sublime, è in mostra proprio qui intorno a

LEZIONI DI STORIA A TODI VENERDÍ 15 MARZO 17.30 Giovanni Brizzi - Imperium: il potere a Roma 21.00 Umberto Galimberti - L’uomo nell’età della tecnica SABATO 16 MARZO 10.00 Costantino d’Orazio - La sottile linea d’Umbria, tra Antico e Contemporaneo 11.00 Marcella Frangipane - Un frammento alla volta: ricomporre la storia di popoli scomparsi dai resti materiali 12.00 Andrea Carandini - Io, Nerone 17.00 Arnaldo Marcone - Vespasiano, l’inaspettato salvatore dell’Impero 18.00 Livio Zerbini - Commodo. L’imperatore gladiatore DOMENICA 17 MARZO 10.00 Valentino Nizzo - Tuder/Tular: città, persone, confini 11.00 Enrico Zuddas - Il bellum Perusinum e la colonia di Tuder 12.00 Nicoletta Paolucci - Le cisterne romane di Todi 18.30 Augusto Ancillotti - Tuder e Tiberis 16.30 Paolo Giulierini - L’Italia prima di Roma 17.30 Nicola Mastronardi - I Sanniti e la nascita di Italia

a r c h e o 75


INCONTRI • UMBRIA

CISTERNE ROMANE di Nicoletta Paolucci

C’

è un’altra Todi, sotterranea. Una affascinante città sotto la città. È stata costruita nei secoli, sfruttando in modo sapiente le caratteristiche geomorfologiche del terreno. Un articolato sistema idraulico ipogeo attraversa il colle che domina la valle del Tevere. È formato da oltre 5 chilometri di cunicoli e gallerie, piú di 30 cisterne preromane, romane e medievali e 500 pozzi di varie epoche storiche. Le acque sorgive e le infiltrazioni delle piogge, incanalandosi nei cunicoli e raccogliendosi nei pozzi e nelle cisterne hanno garantito le esigenze di approvvigionamento idrico del centro urbano, sprovvisto nei secoli passati di un acquedotto esterno. Con l’eliminazione delle acque in esubero presenti, si è evitata l’erosione degli strati geologici del colle 76 a r c h e o

dalla natura altamente instabile su Questa Todi «invisibile» è stata ricui sorse la Tutere etrusca, diventata scoperta e valorizzata grazie al municipio romano nel I secolo a.C. Gruppo Speleologico di Todi, che, con gli strumenti classici della disciplina, ha finito col creare un metoUSO, OBLIO do esemplare di «speleologia urbaE RISCOPERTA L’ingegnoso sistema ingegneristico, na», che coniuga le battute esplorale cui prime fasi di realizzazione si tive con le ricerche d’archivio. datano tra il II e il I secolo a.C., e Nel cuore del centro storico tuderche fino al secolo scorso, pur suben- te, proprio sotto l’attuale piazza del do modifiche e cambiamenti di de- Popolo, la Platea Magna medievale stinazione d’uso, è stato oggetto di che ricalca lo spazio del Foro romaattenzioni continue e di regolari no, rispettivamente in corrisponcontrolli onde garantirne la conti- denza del lato est e del lato ovest nuità di utilizzo, ha finito col perde- della piazza stessa, sono conservate re quasi del tutto la funzione per cui due grandi cisterne che costituivaè stato creato a seguito della costru- no il perno dell’intero sistema idrizione, agli inizi del Novecento, co antico e avevano l’altrettanto dell’acquedotto civico. L’intervento importante funzione di sostegno del ha provocato la chiusura di molti Foro sovrastante. Le cisterne sotto il pozzi e l’ostruzione o addirittura lato est, non visitabili, sono suddivil’interruzione delle antiche gallerie, se in 12 ambienti. Furono rinvenute non piú sottoposte a manutenzione. nel 1262 in occasione dei lavori di


In alto: pianta di Todi disegnata da Willem Blaeu. 1640. In evidenza, l’area in cui si trovano le cisterne romane. A destra: uno scorcio delle cisterne. Nella pagina accanto: veduta di piazza del Popolo, sotto la quale si estendono le cisterne romane di Todi.

ripavimentazione dello spazio sovrastante, come ricorda una cronaca locale del XVI secolo. Le cisterne del lato ovest, accessibili al pubblico dalla centralissima via del Monte, sono state invece rintracciate casualmente, nel 1996, durante lavori di restauro di un locale commerciale. Sono anch’esse suddivise in 12 vani secondo lo schema delle camere parallele comunicanti a pianta rettangolare. Databile nella seconda metà del I secolo a.C., il duplice complesso venne eretto contemporaneamente, a r c h e o 77


INCONTRI • UMBRIA

scavando una enorme quantità di terreno e utilizzando la medesima tecnica costruttiva: entrambi i manufatti poggiano infatti su una piattaforma in opera cementizia resa impermeabile grazie a un composto di materiali fittili e malta grassa. Sulla base si innestano le mura perimetrali e quelle divisorie, anch’esse in opera cementizia, realizzate con successive gettate contro terra e con il sostegno, verso l’interno, di casseforme lignee di cui sono visibili le tracce. La copertura è costituita da volte a botte in calcestruzzo al centro delle quali si aprono i pozzetti di aereazione e attingimento. Il pavimento è in cocciopesto e in alcuni ambienti si possono notare tracce delle impronte di calzature chiodate probabilmente riferibili alle maestranze che realizzarono l’imponente opera.

UN SISTEMA MISTO La lunghezza complessiva delle cisterne è di 48 m per un’altezza di circa 7. A pieno regime ciascuna struttura poteva contenere circa 2500 metri cubi di acqua, destinata agli usi pubblici della città, tramite un sistema di alimentazione misto, sia attraverso le aperture dei pozzetti delle volte nei quali era convogliata l’acqua piovana e sia tramite l’adduzione di acque sorgive provenienti dalla sommità del colle. Dal 2022 le Cisterne Romane ospitano Secret Water, una videoinstallazione permanente di Fabrizio Plessi. È l’omaggio del pioniere della videoarte italiana a uno dei quattro elementi primordiali, l’acqua, che, attraverso il linguaggio dell’elettronica, crea un flusso di immagini digitali che coniugano l’antichità con il contemporaneo, in un dialogo costante tra storia, memoria, passato e futuro.

Secret Water, una videoinstallazione di Fabrizio Plessi all’interno delle Cisterne romane tuderti. 78 a r c h e o

Le Cisterne Romane in via del Monte sono aperte al pubblico. Per informazioni, ci si può rivolgere all’Ufficio di informazione turistica IAT del Comune di Todi: tel. 075 8956227.



SPECIALE • ROMA

VERDE E L’ANTICO DEL COLLE RITROVATO IL

IL PARCO ARCHEOLOGICO DEL CELIO, A ROMA, TORNA AD ACCOGLIERE IL PUBBLICO, OFFRENDO LA SUGGESTIONE DI UN GRANDE GIARDINO DISSEMINATO DI SILENZIOSI TESTIMONI DELLA VITA QUOTIDIANA DELLA ROMA IMPERIALE E UN NUOVO, SPETTACOLARE MUSEO. DEDICATO ALLA GRANDIOSA PIANTA MARMOREA VOLUTA DA SETTIMIO SEVERO, LA FORMA URBIS, PROPOSTA IN UNA, INEDITA, VISIONE ORIZZONTALE... di Francesca de Caprariis, Francesca Romana Bigi e Caterina Papi, con un intervento di Claudio Parisi Presicce e con la collaborazione di Luciano Frazzoni

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Rilievo con ritratti di coniugi defunti, da villa Celimontana. Roma, Parco archeologico del Celio.

La Casina del Salvi, la coffee-house che prende nome dal suo progettista, l’architetto Gaspare Salvi. Ispirato alla Casina Valadier del Pincio, l’edificio sorse nel 1835, per volere di papa Gregorio XVI, a ridosso delle sostruzioni del Tempio del Divo Claudio.

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SPECIALE • ROMA

I

l Celio è forse il meno conosciuto dei colli romani, in particolare è imperfetta la conoscenza della pendice verso il Palatino, che ha subito nel corso del tempo cambiamenti morfologici di grande impatto. La quinta monumentale del tempio del Divo Claudio rivela da subito la vocazione archeologica di questo importante settore, in posizione strategica tra il centro monumentale e l’inizio della magnifica e incompiuta Passeggiata archeologica verso l’Appia che ha visto impegnati per decenni uomini di Stato, archeologi, urbanisti: da Rodolfo Lanciani a Giacomo Boni, da Guido Baccelli ad Antonio Cederna, per menzionarne solo alcuni. Alla vocazione archeologica, che precede e in certo modo travalica l’impianto del primo Antiquarium, si accompagna un’inevitabile relazione con il verde e la natura che anche in questo settore trova le sue specifiche radici nei progetti delle passeggiate di età napoleonica. Per un altro verso ancora la decisione di esporre al Celio la pianta marmorea severiana richiama un momento importante della vita di questo documento unico, esposto in parte nelle sale dell’Antiquarium negli anni Trenta del Novecento. La scelta risponde anche a una fortunata modalità di espansione degli spazi museali dei Musei Capitolini, come è stato sperimentato 82 a r c h e o

In alto: un particolare dell’allestimento del Museo della Forma Urbis, inaugurato negli spazi dell’ex Palestra della Gioventú Italiana del Littorio, all’interno del Parco archeologico del Celio. A sinistra: Claudio Parisi Presicce, Sovrintendente Capitolino ai Beni Culturali del Comune di Roma.


con successo con il Museo della Centrale Montemartini. La pianta severiana rappresenta infatti un elemento importante e storico delle collezioni capitoline e conta in Campidoglio due esposizioni storiche, alla metà del Settecento e agli inizi del Novecento. Gli studi successivi hanno ampliato le conoscenze del documento e i settori di Roma identificati, con una superficie e un ingombro tale da richiedere uno spazio idoneo. La nuova esposizione nella ex Palestra della Gioventú Italiana del Littorio non solo restituisce al pubblico la pianta marmorea ma, nella prospettiva topografica di cui si diceva, consente anche una visione globale della struttura della città romana ed è quindi uno strumento utile per elaborare percorsi di conoscenza della Roma antica. È importante sottolineare dunque come l’apertura del Parco archeologico del Celio e del Museo della Forma Urbis sia solo il primo importante passo di un progetto molto piú ampio e articolato che ha per obiettivo il recupero totale del decoro e dell’accessibilità in modo da ridare alla città uno dei suoi colli storici. Claudio Parisi Presicce

A destra: una veduta del Parco archeologico del Celio, nel quale è esposta una ricca selezione di materiali lapidei provenienti da edifici pubblici, religiosi e privati della Roma imperiale.

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SPECIALE • ROMA

«D

all’Arco di Costantino si apre una larga via alberata che, con la platea archeologica dovrà esser lunga piú di un chilometro e larga 100 metri, allargandosi cosí sulla sinistra, dove oggi è un versante del Celio a uso di pubblico passeggio; quest’orto per esser frequentato dal popolino, fu prima chiamato Villa pover’uomini, oggi ribattezzato in Orto Botanico, dentro il quale oltre una Palestra ginnastica, vi è il Magazzino Archeologico Municipale, ove venIn alto: acquerello di Victor-Jean Nicolle (1754-1826) raffigurante l’ingresso alla Villa Cornovaglia e, sulla sinistra, le arcate dell’acquedotto neroniano. A sinistra: Plan du jardin du Capitole, di Louis-Martin Berthault. 1813. Nella pagina accanto: le lapidi che ricordano i lavori promossi da papa Gregorio XVI alla Passeggiata del Celio nella loro attuale esposizione nel Parco archeologico del Celio e in una tavola del 1909 che mostra la loro originaria collocazione all’ingresso dell’Orto Botanico.

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SPECIALE • ROMA

gono messi temporaneamente, prima della In alto: pianta della Publica Passegiata al Celio. 1848. destinazione definitiva nei Musei, tutti gli In basso: la Palestra di Ginnastica all’Orto Botanico. 1876. oggetti ricuperati negli scavi del sottosuolo di Roma». Cosí una guida di Roma dell’anno 1914 descrive l’area del Parco Archeologico del Celio, che ha finalmente riaperto al pubblico con una nuova esposizione di reperti marmorei, insieme al Museo della Forma Urbis, collocato all’interno dell’edificio adibito precedentemente a palestra della Gioventú Italiana del Littorio.

TERRAPIENO CON VISTA L’area dell’attuale Parco del Celio, precedentemente occupata dalla cinquecentesca Vigna del Marchese Cornovaglia, è il risultato dell’accumulo delle terre di scarico provenienti dai grandi scavi (o per meglio dire sterri) eseguiti durante l’amministrazione francese di Roma (1809-1814) nel Colosseo e nel Foro Romano. L’enorme terrapieno artificiale cosí formatosi, prospiciente il Colosseo, venne sistemato a giardino con ampie 86 a r c h e o


A destra: progetto di Antonio Muñoz per il nuovo Antiquarium Comunale del Celio. 1929. In basso: la terrazza della Casina del Salvi in corso di scavo: sono emersi resti dell’acquedotto claudioneroniano e di altre opere idrauliche, nonché una scala monumentale.

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SPECIALE • ROMA

IL TEMPIO DEL DIVO CLAUDIO di Francesco Pacetti

L’imponente terrazzamento, tuttora in gran parte visibile, che regolarizza la propaggine nord-occidentale del Celio prospiciente la valle del Colosseo e il Palatino, era destinato a sostenere, al centro della platea soprastante, il tempio del Divo Claudio. La costruzione del tempio era stata intrapresa per volontà di Agrippina Minore – quarta moglie di Claudio, nonché sua nipote –, in onore dell’imperatore divinizzato dopo la sua morte avvenuta nel 54 d.C. Sulle motivazioni della scelta del sito per la realizzazione del santuario può forse fare luce un passo di Svetonio, da cui si apprende che la domus di Claudio venne distrutta da un incendio sotto Tiberio e restaurata a spese di quest’ultimo; in base a questa fonte è stato ipotizzato che la residenza di famiglia della gens claudia si trovasse nel luogo dove poi fu eretto il tempio. Dopo l’incendio del 64 d.C. l’enorme complesso fu incluso da Nerone nella Domus Aurea e trasformato in giardino pensile. In tale occasione sul lato orientale del

terrazzamento fu addossato un grandioso ninfeo, visibile dai padiglioni di Colle Oppio, i cui resti sono tuttora l’elemento distintivo e meglio riconoscibile del monumento. Per alimentare il ninfeo, Nerone realizzò una derivazione dall’acquedotto Claudio dalla zona di Porta Maggiore, che percorreva il Celio in tutta la sua dorsale fino alla terrazza, dov’era collocata una grande cisterna. Del tempio vero e proprio, che secondo le fonti fu completato da Vespasiano, non si sono conservati resti visibili, ma ne conosciamo l’esatta ubicazione e lo schema planimetrico attraverso alcuni frammenti della Forma Urbis. L’edificio di culto, che nella raffigurazione della pianta severiana risulta prostilo e esastilo, era orientato con la facciata rivolta a Ovest, dove si trovava una gradinata che consentiva l’accesso al podio. La vasta area circostante risulta occupata da larghe linee parallele interpretate come siepi o viali alberati, in ogni caso riferibili a una sistemazione a giardino. Pianta archeologica dei resti del Tempio del Divo Claudio elaborata da Italo Gismondi. 1930.

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Tutta la superficie soprastante il perimetro (180 x 200 m) è oggi proprietà della Santa Sede, a uso dei Padri Passionisti che qui hanno la loro Casa Generalizia e un grande giardino, che occupa interamente l’area superiore del terrazzamento, nel quale si conservano alcune arcate dell’acquedotto neroniano e numerosi frammenti lapidei pertinenti alla decorazione architettonica del tempio. Sul fronte occidentale, in corrispondenza del campanile della chiesa dei Ss. Giovanni e Paolo, è ben conservata un’ampia porzione della muratura originaria del terrazzamento; si tratta di una serie di ambienti voltati su due piani, la cui facciata è costituita da arcate in blocchi di travertino lavorati a bugnato rustico, decorate da lesene sormontate da capitelli dorici. Del fronte nord della sostruzione restano alcune strutture nel Parco del Celio, relative a un muro in laterizio, preceduto da una fila di ambienti; probabilmente davanti a questa struttura, poco distante, esisteva una scalinata alla quale appartengono alcuni resti tuttora visibili. Le notizie sul complesso fornite dalle fonti antiche sono piuttosto scarse: il tempio è menzionato in un’iscrizione (CIL VI, 10251) del liberto T. Flavio Trophimo, constitutor del Collegium Numinis Dominorum, un’associazione dedita al culto del nume degli imperatori e la cui sede si trovava nei pressi del santuario; l’edificio è forse identificabile con l’aula absidata sul lato meridionale dell’area sacra raffigurata nella Forma Urbis. In tal caso qui potevano essere originariamente collocate le sculture, rinvenute nelle vicinanze, raffiguranti Agrippina Minore e Britannico e i due troni, che facevano forse parte di un gruppo statuario destinato a celebrare la gens claudia. Francesco Pacetti

Veduta del piano superiore del serraglio delle fiere fabbricato da Domiziano a uso dell’anfiteatro Flavio, e volgarmente detto la Curia Ostilia, acquaforte di Giovanni Battista Piranesi. 1748-1774. L’artista riporta l’errata identificazione delle strutture poi riconosciute come appartenenti al Tempio del Divo Claudio.

zone alberate, prendendo il nome di Orto Botanico. La passeggiata pubblica fu ulteriormente ampliata e abbellita grazie agli interventi voluti da papa Gregorio XVI (1831-1846), ricordati da due lapidi in origine poste ai lati del portale d’ingresso, come si vede in un acquerello di Stefano Donadoni (1844-1911) e ora ricollocate nel Parco presso l’accesso dal clivo di Scauro (vedi a p. 85). In questa fase venne anche realizzata, per volere del pontefice, una coffee-house su progetto dell’architetto Gaspare Salvi, il quale, ispirandosi alla Casina Valadier del Pincio, costruí nel 1835 l’edificio a ridosso delle sostruzioni del Tempio del Divo Claudio. La nuova struttura fu appunto chiamata Casina del Salvi e prossimamente sarà anch’essa riaperta al pubblico con la funzione originaria di punto di ristoro. A partire dal 1870 l’area a verde fu utilizzata anche per eventi temporanei e vi sorse un nuovo edificio stabile: la «Palestra di Ginnastica all’Orto Botanico», sostituita poi dalla Palestra della Gioventú Italiana del Littorio (GIL), oggi sede del Museo della Forma Urbis. a r c h e o 89


SPECIALE • NOME

PARCO ARCHEOLOGICO DEL CELIO IL

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Basilica dei Ss. Giovanni e Paolo Case romane del Celio Vi

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Parco Archeologico del Celio Museo della Forma Urbis

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Arco di Costantino

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Piazza di Santa Francesca Colosseo Romana

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I

l copioso materiale lapideo esposto nel Parco archeologico del Celio permette di comprendere alcuni aspetti della vita quotidiana della Roma antica. Uno di questi è quello funerario, rappresentato da statue e iscrizioni provenienti dai sepolcri dei liberti e del ceto medio, insieme alle testimonianze architettoniche ed epigrafiche connesse con monumenti funerari appartenenti ad alti esponenti della società della Roma repubblicana come Galba e Terentilio (vedi box a p. 93). Tra i sarcofagi, sono da segnalare un esemplare che raffigura un corteo marino con Nereidi e tritoni, e un altro con il ritratto, non finito, della defunta. Tutti questi reperti a carattere funerario, fanno comprendere come per i Romani il sepolcro rappresentasse il mezzo privilegiato per tramandare la propria immagine, e come la grandiosità della tomba rispecchiasse lo status e il prestigio acquisiti in vita dal defunto. La religiosità e l’attenzione per il sacro dei Romani sono testimoniati da alcune are dedicate alle diverse divinità del pantheon romano, tra cui Diana, Silvano, Ercole, mentre


Nella pagina accanto: pianta del Parco archeologico del Celio con l’indicazione delle aree tematiche. In basso, sulle due pagine: una veduta del Parco archeologico del Celio.

elementi architettonici pertinenti a edifici di culto – come la trabeazione del Tempio di Fortuna Muliebre e frammenti monumentali della cornice del Tempio dei Castori del Foro Romano – offrono un’idea di come dovevano essere decorati i luoghi sacri dove si svolgevano i riti in onore degli dèi. Come si può vedere ancora oggi, il paesaggio urbano di Roma era caratterizzato dalla contrapposizione tra edifici pubblici e privati, dove numerose erano anche le statue onorarie dedicate a importanti personaggi. Un aspetto importante della vita quotidiana dei Romani, a tutti i livelli sociali, era poi la frequentazione giornaliera delle terme. In epoca imperiale, come riportano i Cataloghi Regionari (IV secolo d.C.), a Roma erano presenti 11 grandi complessi termali, e addirittura tra 856 e 951 balnea privati; uno di questi è testimoniato da un grande architrave appartenente al bal(i)neum Claudianum, un impianto privato ma probabilmente a uso pubblico. Alcuni capitelli e colonne appena sbozzate documentano il modo di costruire e le tecniche di lavorazione dei marmi dei

Romani, mentre due frammenti di soffitto a lacunari, provenienti dalla zona di Montecitorio, e un capitello corinzio di lesena, rinvenuto al di sotto del Palazzo della Cancelleria, rendono bene la magnificenza e la bellezza delle decorazioni architettoniche degli edifici pubblici, cosí come altri manufatti testimoniano l’uso del reimpiego e della rilavorazione, un fenomeno molto diffuso che dall’epoca romana attraversa tutta la storia architettonica della città.

LE ISCRIZIONI FUNERARIE La sepoltura che rimane «sine titulo, sine nomine» (senza iscrizione, senza nome) è un destino peggiore della morte stessa, scrive Plinio il Giovane (Lettere VI,10,3). Il desiderio di lasciare memoria di sé era cosí diffuso in epoca romana che molti facevano costruire il proprio sepolcro già in vita o lasciavano disposizioni nel testamento. Indipendentemente

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SPECIALE • ROMA

L’ANTIQUARIUM COMUNALE Con la proclamazione di Roma Capitale d’Italia, furono avviati dopo il 1870 grandiosi cantieri per fornire la città di nuovi quartieri di edilizia residenziale e dotarla delle infrastrutture che la funzione di capitale richiedeva: si aprirono cosí nuove vie centrali, si edificarono imponenti sedi governative, ministeri, caserme, banche e lo stesso Parlamento. Una ricchissima messe di reperti fu recuperata durante gli sterri per la creazione dei nuovi quartieri, soprattutto sull’Esquilino, sul Quirinale, sul Viminale: dai piccoli oggetti della vita quotidiana, in terracotta, vetro, avorio agli elementi architettonici, mosaici e affreschi, provenienti da edifici pubblici e privati. Mentre le opere piú belle restituite dagli scavi arricchirono l’esposizione dei Musei Capitolini, la maggior parte del materiale di minore importanza finí per essere ospitato nel Magazzino Archeologico Comunale, un modesto edificio costruito nel 1885 nell’area rialzata prospiciente via di San Gregorio, adibito dapprima a deposito e officina di restauro, e a partire dal 1890 o 1895 aperto al pubblico come piccolo museo. Una edizione della Guida del Touring Club Italiano del 1925 ce ne dà una breve descrizione: «L’Antiquarium è costituito da una costruzione ov’è il museo propriamente detto, di solo piano terreno e senza importanza architettonica, sorgente isolata in un giardino lungo la via S. Gregorio. Il giardino è a due ripiani; vi si sale con una scalinata. Nei viali tra gli alberi e le aiuole rustiche sono sparse, con effetto grandemente pittorico e riposante, centinaia e centinaia di oggetti di scavo i piú diversi, di cui moltissimi di notevoli dimensioni: pezzi di colonne, urne, capitelli, stele, frammenti decorativi, sculture, statue mutile, ecc.». Ampliato piú volte, nel 1929 Antonio Muñoz, direttore della Ripartizione delle Antichità e Belle Arti del Governatorato di Roma, lo riprogettò ex novo, intitolandolo Antiquarium Comunale del Celio e facendone un museo di notevole modernità, che illustrava tutti gli aspetti della società antica. Dodici sale ornate di affreschi a tema, raccontavano la vita 92 a r c h e o

domestica, i commerci, le arti e i mestieri, il gusto decorativo e le tecniche costruttive grazie all’esposizione del meglio dei corredi funerari, della suppellettile e dei contenitori da trasporto, cosí come di una selezione di mosaici, iscrizioni e delle porzioni meglio conservate della Forma Urbis severiana. I materiali lapidei – elementi architettonici e iscrizioni – erano invece collocati, in apparente ordine casuale, lungo i viali del parco e attorno a una piccola vasca decorativa. L’edificio ebbe purtroppo vita breve. Nel 1938 la costruzione della galleria della linea B della metropolitana, che passa proprio sotto l’Antiquarium per tutta la sua lunghezza, provocò profonde lesioni nella struttura che venne presto dichiarata inagibile e già nel 1940 parzialmente demolita. Ciò comportò la chiusura del Museo, mentre la collezione dell’Antiquarium dovette essere smembrata. I materiali di piccole dimensioni vennero chiusi in casse e trasferiti altrove, i materiali lapidei rimasero invece nel parco attorno all’edificio ormai diruto per oltre quarant’anni. Solo alla fine degli anni Ottanta furono trasferiti nel giardino della Casina del Salvi, in un’area da poco tornata nella disponibilità della Sovrintendenza dopo essere stata destinata per diversi anni a deposito delle auto sequestrate. Dopo l’esperienza del Parco Archeologico dei Bambini e i progetti legati al Giubileo del 2000, con il nuovo allestimento e l’apertura al pubblico del Parco Archeologico del Celio, molti di questi materiali possono nuovamente essere ammirati dai visitatori.

L’allestimento di una sala dell’Antiquarium Comunale del Celio. Nella pagina accanto, in alto: particolare di un cippo funerario con il ritratto del defunto. Roma, Parco archeologico del Celio. Nella pagina accanto, in basso: il sepolcro di Servio Sulpicio Galba, rimontato all’interno del Parco archeologico del Celio. II sec. a.C.


GENTE DI UN CERTO LIVELLO La tomba monumentale di uno dei Sulpicii, di cui si conservano solo due lati, fu scoperta alla fine dell’Ottocento durante i lavori per edificare il quartiere Testaccio; fu dapprima rimontata in una delle sale dell’Antiquarium, e, nel 1995, nel Parco del Celio, dove si trova tuttora. Il monumento è realizzato in blocchi di tufo di Monteverde sui quali sono raffigurati a rilievo i fasci littori, riferiti alla carica di console, ai lati di una lapide in travertino su cui è iscritto il nome del defunto, membro appunto di una delle piú ricche, potenti e aristocratiche famiglie romane, quella dei Sulpicii. Rimane incerta la sua identificazione: può trattarsi di Servio Sulpicio Galba,

giurista e console nel 144 a.C., o del figlio, suo omonimo e console nel 108 a.C. Il monumento era sormontato da una statua che rappresentava il defunto seduto sullo scanno consolare (sella curulis). Il sepolcro è anche rappresentato nella Forma Urbis, in una zona circondata dai magazzini (horrea Galbana) dell’antico porto fluviale. Un altro sepolcro monumentale, sempre in blocchi di tufo, proviene dalla via Salaria ed è databile all’inizio del I secolo a.C. Apparteneva a Q. Terentilius Rufus, della tribú Camuria, come riportano le iscrizioni incise su entrambi i lati, personaggio altrimenti sconosciuto, ma sicuramente di alto grado sociale.

dalla classe sociale di appartenenza, tutti aspiravano a incidere il proprio nome nella pietra, unico materiale che garantiva la sopravvivenza oltre i limiti temporali della propria vita. E questo è il motivo per cui il maggior numero di iscrizioni romane pervenuteci è di tipo sepolcrale, come testimoniano i tanti cippi, are e stele esposte nel Parco, usati come segnacoli nel terreno a indicare la presenza di sepolture, o aree sepolcrali, all’interno delle quali erano custodite le ceneri dei defunti (al centro di una delle aiuole del Parco Archeologico del Celio è stato ricostruito uno di questi recinti sepolcrali, con l’ara al centro e i cippi che ne delimitavano lo spazio sia sul fronte della strada dove sorgeva il sepolcro, sia verso il piano di campagna, con le formule in fronte pedes…, in agro pedes…). Oltre alla dedica iniziale agli dèi inferi (Dis Manibus, formula spesso abbreviata in D M) in tutte le iscrizioni sono riportati alcuni dati essenziali, come il nome del defunto, lo stato sociale (se libero, schiavo o liberto), quanti anni, mesi, giorni e ore ha vissuto (qui vixit annis, mensibus, diebus), oltre a informazioni riferite alle parentele o alle amicizie a r c h e o 93


SPECIALE • ROMA

MARCARE I CONFINI I cippi relativi alla delimitazione del Tevere o a divisioni territoriali pubbliche e private testimoniano il rapporto dei Romani con lo spazio urbano. I tre cippi esposti, relativi all’ampliamento del pomerio imperiale a opera di Claudio nel 49, di Vespasiano nel 75 e quello che ricorda il restauro adrianeo del percorso piú antico nel 121, si riferiscono a un confine meno tangibile, il perimetro sacrale della città. Questo confine segnava la differenza tra l’Urbs e il territorio, tra potere civile e potere militare: per il suo carattere sacrale, era proibito ai generali di attraversarlo in armi, con la sola eccezione della celebrazione del trionfo. La tradizione parla di pomerio di Romolo intorno al Palatino, poi ampliato in rapporto alla cinta muraria del re Servio Tullio. Perso il rapporto con le mura, il limite del pomerio poteva essere ampliato in relazione alla crescita della città e, a partire dall’età imperiale, il suo ampliamento divenne prerogativa di chi avesse esteso con conquiste lo Stato romano. Cippi del pomerio di Claudio, di Vespasiano e il rifacimento di Adriano.

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I cippi di acquedotti, invece, che in origine erano distribuiti lungo il percorso di questi capolavori dell’ingegneria romana fin dalla sorgente, servivano a marcare lo spazio riservato alla tutela dei condotti e, nei casi in cui il tracciato era sotterraneo, definivano, a coppie, i limiti esterni della strada in superficie riservata alla manutenzione. Due cippi gemelli provengono dall’area di Porta Maggiore: portano il nome dell’acquedotto (Iulia, Tepula, Marcia), dell’imperatore che ne curò il restauro (Augustus) e la delibera che formalmente lo autorizza (ex senatus consulto). Seguono due cifre. La prima indica il numero d’ordine del cippo (XXIIII, XXIV) rispetto alla numerazione progressiva riportata in apposite mappe a disposizione del magistrato responsabile della manutenzione, il curator aquarum. La seconda cifra indica la distanza del cippo dal precedente, 240 piedi (pedes CCXL), cioè uno iugero romano, corrispondente a circa 70 m.


Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

Frammenti del fregio-architrave e della cornice del Tempio di Fortuna Muliebre. La fascia superiore reca la dedica a Livia, moglie di Augusto, relativa a un rifacimento del tempio, del 30 a.C.; nella fascia inferiore si ricorda un secondo restauro, del III sec. d.C., e compare l’imperatrice Giulia Domna.

(mater, pater, filius, amicus), agli affetti (dulcis, amatus, carus, bene merens, rarus, suavis), al mestiere, alla carriera, mentre in alcuni casi sono anche riportate maledizioni o multe contro eventuali profanatori della tomba. Le iscrizioni sepolcrali si offrono cosí come uno scrigno ricco di dati relativi a singole persone, ma che, raccolti insieme, permettono di ricostruire gli usi e i costumi dell’intera società romana; non solo, per esempio, l’età media di vita, la differente età in cui contraevano matrimonio uomini e donne, la trasmissione dei nomi, ma anche la capacità economica dei diversi livelli sociali e le varie modalità di manifestare il proprio status. Alcuni cippi e are sepolcrali riportano anche il mestiere del defunto, permettendo cosí di entrare nella quotidianità sociale dell’antica Roma. Riemergono cosí vite e mestieri legati al commercio (bublarius, macellaio di carne bovina), alla gestione della vita familiare (nutrix, nutrice) oppure al mondo degli spettacoli (il gladiatore appartenente alla categoria dei mirmillones), o al mondo legato alla cosmesi femminile (ornatrix, parrucchiera).

PER LA DEA DELLE MATRONE Presso il Casale di Roma Vecchia nel Parco degli Acquedotti, al IV miglio della via Latina, furono rinvenuti al principio dell’Ottocento, un architrave iscritto e parte del timpano pertinenti ai resti di un piccolo tempio dedicato alla Fortuna Muliebre, il cui culto celebrava la virtú civica delle matrone romane incarnate da Virginia e Volumnia, moglie e madre di Coriolano, nel punto in cui le donne riuscirono a fermare il generale ribelle e l’esercito volsco scatenato contro Roma nel 488 a.C. L’iscrizione con la dedica a Livia, moglie di Augusto, è relativa a un rifacimento del tempio, del 30 a.C. da lei voluto, mentre l’iscrizione nella fascia inferiore, ricorda un secondo restauro attuato nel III secolo d.C., dove compare l’imperatrice Giulia Domna, moglie di Settimio Severo, a testimonianza del carattere femminile del culto e dell’importanza di questo piccolo tempio arcaico, ancora in uso dopo molti secoli. Il nuovo allestimento del Parco archeologico del Celio ha offerto l’occasione per collocare a r c h e o 95


SPECIALE • ROMA A sinistra: una veduta di Porta Flaminia prima della demolizione delle due torri quadrangolari, avviata nel 1877.

un gruppo di materiali provenienti dalle demolizioni dei due torrioni quadrangolari posti ai lati del fornice di Porta Flaminia. Dopo il 1877 si decise di demolire i due torrioni della cinta muraria di Aureliano, per realizzare l’ampliamento della porta, detta anche del Popolo, ormai inadatta per gestire il grande afflusso di uomini e mezzi che giungeva in città dal Nord della Penisola.

TRECENTO BLOCCHI DI MARMO All’interno dei torrioni quadrangolari si rinvennero le primitive torri circolari dell’età di Aureliano, ma ciò che destò piú scalpore fu il ritrovamento di circa 300 blocchi di marmo di grandi dimensioni riutilizzati come materiale da costruzione per foderare la parte inferiore dei bastioni. Sotto i colpi di piccone riapparvero cosí iscrizioni funerarie, cornici architettoniche decorate, fregi

dorici, rilievi con ghirlande e ritratti dei defunti e diversi blocchi con la rappresentazione di una corsa di carri nel circo, materiali facenti parte in origine della decorazione dei sepolcri monumentali che in età imperiale fiancheggiavano la via Flaminia al di fuori della cinta muraria. Accatastati inizialmente in un ricovero di fortuna ai piedi del Pincio, i marmi vennero presto trasferiti nel Magazzino della Commissione Archeologica (il futuro Antiquarium del Celio); mentre i pezzi piú belli e significativi presero poi la via del Campidoglio, per essere rimontati e allestiti in un pasticcio di gusto eclettico nel giardino di Palazzo Caffarelli, dove ancora oggi si possono ammirare, il resto dei materiali rimase all’Antiquarium e si perse confuso nella messe di ritrovamenti che aumentava a dismisura di giorno in giorno, fino a oggi,

QUALE VENTO SOFFIA OGGI? Tra i tanti reperti, ve ne è uno molto particolare: si tratta di un anemoscopio, ossia uno strumento che indica la direzione dei venti, rinvenuto presso l’arco di San Lazzaro, in via Marmorata, negli anni Trenta del secolo scorso. Dopo la sua scoperta, venne collocato nella prima sala dell’Antiquarium, poi trasferito al Giardino Caffarelli in Campidoglio, e ora infine esposto nel Parco del Celio. È composto da un cilindro di marmo greco che si restringe verso il piano superiore, diviso in sedici riquadri in cui sono scolpite altrettante testine, sotto le quali sono incisi i nomi dei venti. Di queste teste, molto schematizzate, due soltanto hanno la barba. Il ripiano

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superiore presenta un foro profondo, sul quale era probabilmente fissato un perno metallico su cui ruotava una banderuola che indicava cosí quale vento soffiasse. Tra i nomi dei venti, si possono leggere BOREAS, vento di nord-est, FAVONIOS, di ovest, AFRICUS di sud-ovest, AUSTER, vento del sud, SOLANUS, vento dell’est. Il manufatto fa parte della ristretta cerchia (oltre il nostro se ne conoscono solo sette) di tali strumenti a noi giunti dall’antichità, tra cui quello del Museo Pio Clementino in Vaticano, quello al Museo di Pesaro, oltre alla Torre dei Venti nell’Agorà romana di Atene, e quello inciso nel pavimento della Piazza dei Venti a Dougga in Tunisia.


quando, dopo un lavoro di ricerca condotto anche su documenti d’archivio, se ne è potuta ristabilire l’ esatta provenienza.

In questa pagina: altri manufatti esposti nel Parco archeologico del Celio: in alto, un blocco marmoreo proveniente da un sepolcro ubicato lungo la via Flaminia e reimpiegato nella costruzione di una delle torri di Porta Flaminia; in basso, l’anemoscopio dell’arco di San Lazzaro.

UN MILITARE IN GIRO PER L’IMPERO Il grande architrave di Tizio Mansueto è stato rinvenuto in via Bocca della Verità, reimpiegato come soglia nella Chiesa di S. Gallo. L’iscrizione apparteneva al monumento sepolcrale di grandi dimensioni che Petronia Firminia a proprie spese ha dedicato al marito insieme al sarcofago. Il nome di Mansueto è seguito dagli incarichi ricoperti nell’esercito romano: prefetto della coorte II, costituita da ausiliari Breuci della Pannonia e di stanza in Mauretania, tribuno militare in una legione, prefetto dell’ala Sebosiana, un reparto di cavalleria ausiliaria di guarnigione in Britannia, e infine procuratore imperiale. Si intravede cosí la vita di un personaggio molto interessante, che ha concluso la sua esistenza a Roma, ma prima ha girato il mondo antico ricoprendo importanti incarichi legati alla carriera militare. La dedica ripetuta in lingua greca è ulteriore conferma dell’ambiente cosmopolita frequentato da Mansueto fra il I e il II secolo d.C.

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SPECIALE • NOME Salvo diversa indicazione, le immagini di questa sezione dello Speciale documentano l’allestimento e i materiali del Museo della Forma Urbis nel Parco archeologico del Celio. La Forma Urbis allestita a pavimento nella grande sala dell’ex Palestra della Gioventú Italiana del Littorio. La grande pianta marmorea, in origine, era invece disposta in verticale, sulla parete di un’aula del Tempio della Pace.

MUSEO DELLA FORMA URBIS IL

L

a pianta marmorea severiana è un’enorme planimetria in scala di Roma incisa su lastre di marmo, risalente al principio del III secolo d.C., sotto l’imperatore Settimio Severo. Fu realizzata tra il 203 e il 211 d.C., vale a dire tra l’anno della costruzione del Septizodium – un monumentale ninfeo raffigurato nella pianta – e

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quello della morte di Settimio Severo, menzionato con il figlio Caracalla in un altro settore della città (SEVERI ET [AN]TONINI AV[GG] NN [...]). Decorava una vasta sala laterale del Templum Pacis, su una parete ancora in piedi e visibile a chi oggi percorre via dei Fori Imperiali, inglobata nel complesso dei Ss. Cosma e Damiano secondo una continuità d’uso che ne ha consentito la conservazione in tutta la sua altezza. Questa parete di mattoni, su cui sono ancora ben visibili le impronte della griglia delle lastre, ha permesso di dedurne l’ingombro e le dimensioni: la pianta era incisa su 150 lastre di marmo e occupava


Frammenti della Forma Urbis relativi all’area del Circo Flaminio, del Portico di Ottavia e dell’Isola Tiberina.

una superficie di 18 x 13 m circa, equivalente a quasi 235 mq. Sulla pianta, orientata a sud/sud-est e non a nord come per noi è consueto, erano rappresentati circa 13 550 000 mq di città antica attraverso una moltitudine di sottili incisioni: erano riprodotti tutti gli edifici di Roma, in genere al livello del suolo e a una scala media di 1:240 piedi romani (1 piede corrisponde a circa 30 cm), che consente la lettura dettagliata di ogni singolo ambiente. Un pannello in una parete del Museo, dove sono esposti alcuni frammenti non collocabili topograficamente, mostra i vari segni grafici utilizzati nella pianta per indicare elementi diversi, come gli acquedotti, le colonne, i pilastri, le scale, gli archi, gli impianti termali, le botteghe, le insulae.

UNA DEFINIZIONE MODERNA Nonostante il latino, Forma Urbis («pianta dell’Urbe») è un termine moderno. Non è però una definizione impropria, visto che la parola forma (= «aspetto», «sistema di ordinamento») ha un’accezione cartografica bene attestata nella letteratura antica (le formae delle colonie o dei territori romani compaiono spesso negli scritti degli agrimensori antichi o nelle testimonianze epigrafiche).

Nessun autore antico però menziona quest’opera, che doveva essere solo uno – e certo non il piú importante – degli ornamenti di uno dei piú splendidi monumenti romani. Completato nel 75 d.C. da Vespasiano, il Tempio della Pace celebrava la fine delle guerre civili per la successione all’impero e la repressione nel sangue della rivolta giudaica. Era insieme il santuario che custodiva il ricchissimo bottino del trionfo giudaico (tra cui la menorah, il candelabro a sette bracci, raffigurato anche su un rilievo dell’Arco di Tito), un parco, una biblioteca, un centro di studi e un museo con capolavori inestimabili. Fortemente danneggiato nel rovinoso incendio che colpí il centro della città nel 192, fu ricostruito sotto Settimio Severo con una fedeltà assoluta al modello originario, almeno nell’aula che ci interessa, con la pianta marmorea che forse sostituisce una precedente grande planimetria realizzata nel monumento originale, dell’età di Vespasiano. La pianta non dovette subire danni nel grande sacco del 410, quando i Visigoti di Alarico inseguivano prede piú preziose e facilmente trasportabili, come il tesoro del tempio di Gerusalemme, che proprio dal Tempio della Pace comincia il suo viaggio semileggendario nei tesori di diversi regni barbarici. Neppure nei saccheggi che seguirono la parete dovette subire danni particolari, fino a che il combinato di incuria e fenomeni naturali non dovettero provocare crolli del tetto e, a seguire, la rovina dell’edificio. Allora le lastre di marmo e le preziose grappe metalliche divennero parte di quel processo di spoglio, riciclo e riuso del materiale antico che caratterizza tutta la Roma post-antica.

UNA PIANTA ORNAMENTALE? Quale fosse la finalità dell’immensa planimetria è tuttora oggetto di discussione. Prevale l’idea di una relazione con la biblioteca del Foro della Pace e si ipotizza la presenza di un ufficio amministrativo connesso con la Prefettura Urbana. Secondo alcuni studiosi la pianta marmorea sarebbe stata dunque una sorta di quadro d’unione del Catasto Urbano. Che la pianta abbia avuto però una funzione pratica è tuttavia improbabile, considerando la posizione, la difficile leggibilità e la generale assenza di dettagli. Come si potevano vedere, infatti, i dettagli di una raffigurazione che si sviluppava per oltre 18 m di altezza, a r c h e o 99


SPECIALE • ROMA

cioè come un palazzo di 4 piani? Occorre poi considerare che la pianta cominciava a partire da quattro metri di altezza, dopo una parte di parete rivestita da fasce di lastre di preziosi marmi colorati. Doveva pertanto essere difficilissimo leggere le didascalie e impossibile comprendere i dettagli delle planimetrie, specialmente delle parti piú alte. Da qui l’ipotesi che la funzione fosse invece decorativa. Prevale oggi l’idea che la pianta marmorea rendesse una visione generale della città, per cui l’osservatore avrebbe potuto apprezzarne la grandezza e individuare – anche grazie all’uso del colore – le sagome dei grandi monumenti come il Circo Massimo e il Colosseo: una funzione di propaganda, di celebrazione del potere e di conoscenze tecniche piuttosto che una funzione pratica. A partire dal primo e piú notevole rinvenimento nel 1562 fino ai pezzi scoperti nel A destra: ricostruzione grafica dell’aula del tempio della Pace in cui era affissa la Forma Urbis di Roma. La reale utilizzazione della pianta marmorea è tuttora oggetto di dibattito. In basso: la parete dell’aula del Tempio della Pace su cui era affissa la Forma Urbis, divenuta poi parte del complesso composto dalla basilica e dal convento dei Ss. Cosma e Damiano.

corso degli scavi recenti nel Tempio della Pace e in altre poche fortunate circostanze, l’ultima delle quali avvenuta sull’Aventino nel 2020 (vedi box a p. 102), sono venuti alla luce circa 700 frammenti della Forma Urbis, equivalenti a poco piú di un decimo del totale della superficie incisa, corrispondenti ad almeno 23 665 mq di Roma antica. Circa 200 frammenti sono stati identificati e idealmente collocati nella topografia della città antica, (quelli attualmente musealizzati), ma la gran parte è ancora da identificare. Si va da piccole schegge a settori di lastra con interi quartieri, case, portici, templi e botteghe: un panorama unico del paesaggio urbano di Roma antica e uno dei piú rari documenti che l’antichità abbia restituito.

CENTOMILA PEZZI... La prima scoperta della Forma Urbis avvenne nel maggio del 1562. Come racconta un contemporaneo «Facendo cavare drieto a Templum pacis il (…) Cardinale [Farnese] ha trovato in centomila pezzi una parete, per chiamarla 100 a r c h e o


In questa pagina, a destra, dall’alto: un’immagine della Forma Urbis esposta in Campidoglio, nel Giardino Romano; le restituzioni grafiche delle lapidi che celebravano l’allestimento della Forma Urbis del 1742.

cosí, di muro, dove era intagliata la pianta di Roma, et fa raccorre diligentemente ogni pezzuolo per vedere di metterla insieme, et è già a 4 carrettate di piètre che si è fatto portare a casa». Cosí i frammenti della pianta marmorea arrivano «a carrettate» a Palazzo Farnese. È il momento d’oro degli studi di Roma antica e l’entusiasmo suscitato dal rinvenimento fu grande ma di breve durata. Molti frammenti andarono perduti e dispersi. A questa felice stagione di studi appartengono i disegni dei frammenti conservati in un codice della Biblioteca Vaticana, che – riportati in scala – aiutano a integrare la parti perdute di molte lastre e in diversi casi rimangono l’unica testimonianza di frammenti perduti. La lunga permanenza a Palazzo Farnese (1562-1741) vede un iniziale entusiasmo degli studiosi dell’Antico nel circolo del cardinale Alessandro, con i primi tentativi di studio, e il successivo oblio in mezzo ai piú famosi capolavori della collezione ospitati nel palazzo romano (ora in buona parte esposti al Museo Archeologico Nazionale di Napoli). Le lastre finirono in parte frantumate e usate come materiale da costruzione per i lavori farnesiani del Giardino sul Tevere: piú di 600 frammenti spezzati in piccole schegge furono recuperati allo scorcio del Novecento durante la costruzione dei Muraglioni di Lungotevere. Quanto rimaneva fu salvato dall’oblio dalla pubblicazione dell’antiquario Giovan Pietro Bellori, del 1673, che, nonostante inesattezze nei disegni ed errori nell’identificazione dei monumenti, risvegliò l’interesse per il documento. Per questa rinnovata fama e per il legame con la città la pianta marmorea giunse nel 1742 al Museo Capitolino, grazie alla munificenza di Benedetto XIV.

LA PARETE PER TERRA Due precedenti esposizioni complessive – curate da nomi illustri – hanno mostrato insieme debolezze e punti di forza. La prima esposizione pubblica, con i frammenti rimontati in pannelli lungo lo scalone di Palazzo Nuovo, venne realizzata da Giovanni Battista Nolli nel 1742, con il supporto tra gli altri di un giovane Giovanni Battista Piranesi. Fu per molti versi un’esposizione infelice, ma

contribuí ad accendere l’interesse sulle architetture rappresentate nella pianta poiché le rendeva immediatamente visibili ai visitatori. La pianta marmorea fu poi esposta sulla parete del Giardino Romano in Campidoglio (1903), ma venne presto sostituita con copie (1924). Questo fu il primo tentativo di ricomporre la Forma Urbis in maniera organica a r c h e o 101


SPECIALE • ROMA

e ne furono protagonisti due giganti degli studi romani, Rodolfo Lanciani e Christian Hülsen: una sistemazione filologica del monumento antico che non teneva tuttavia conto dell’importante fattore della visibilità. Con i frammenti identificati posti ad altezze diverse, a volte a diversi metri di distanza, era impossibile apprezzare i particolari delle planimetrie o leggere le parti iscritte. L’ultima esposizione parziale fu realizzata nel 1929, nell’Antiquarium del Celio, prima che tutti i frammenti venissero richiusi in casse e non piú visibili al pubblico, fino a oggi (a parte alcuni frammenti relativi all’area del Colosseo e del Foro Romano, esposti per poco tempo presso il Museo della Civiltà Romana).

L’ULTIMA SCOPERTA: IL FRAMMENTO DALL’ AVENTINO Risale al 2020 il piú recente rinvenimento di un frammento della Forma Urbis, scoperto nel giardino di una proprietà privata sul colle Aventino. Sterri ottocenteschi, realizzati per l’installazione di una fortezza militare – un progetto fortunatamente mai completato – misero qui in luce numerosi reperti archeologici. In anni recenti nell’area verde sono stati realizzati camminamenti composti da lastre marmoree di vario tipo e spessore, tutte presumibilmente antiche e alcune delle quali con cornici e modanature. Proprio tra queste lastre è stato ritrovato il frammento della Forma Urbis. Nonostante il critico stato di conservazione del pezzo, che aveva il lato inscritto a vista, esposto per lungo tempo agli agenti atmosferici, vi si legge NEVM, mentre si intuisce una sola lettera, peraltro non riconoscibile, della seconda riga. È plausibile che l’iscrizione della prima riga indicasse un BALNEVM o BALINEVM, cioè un complesso termale privato ma dal rilievo pubblico, e che la seconda riga riportasse invece il nome del suo proprietario, cosí come ricorre in altri quattro frammenti della Forma severiana. Subito sopra l’iscrizione è raffigurato un grande edificio a pianta rettangolare, privo di ripartizioni interne, inserito in uno spazio definito da due rette parallele, secondo un preciso allineamento ortogonale. A destra seguono due ambienti, forse riconoscibili come tabernae, con affaccio verso un’area scoperta. Piú in basso è una monumentale struttura con un lato aperto che sembra interpretabile come un portico. Nel complesso, l’organizzazione dello spazio è compatibile con quella, ordinata e lineare, di un impianto termale antico. Come il frammento sia finito sul colle piú meridionale di Roma, cosí lontano dal luogo della scoperta del primo consistente gruppo di frammenti della Forma Urbis nel Cinquecento, rimane per ora un mistero. Non resta che attendere altri fortunati quanto inaspettati rinvenimenti dell’archeologia sul campo e proseguire gli studi specialistici a tale riguardo. Letizia Rustico, Roberto Narducci e Claudia Devoto 102 a r c h e o


Qui sopra: frammento della Forma Urbis con i templi A e B dell’area sacra di Largo Argentina. A destra: frammenti della Forma Urbis nella sala II dell’Antiquarium Comunale del Celio. In basso: l’ex Palestra GIL, sede del Museo della Forma Urbis. Nella pagina accanto, in alto: frammenti della Forma Urbis con il Colosseo e i vicini ludi, le palestre in cui si allenavano i gladiatori. Nella pagina accanto, al centro e in basso: immagini del frammento della Forma Urbis scoperto nel 2020 sull’Aventino.

Per assicurare una completa visibilità della pianta marmorea, con il nuovo allestimento si è fatta la scelta di modificarne il punto di vista e di traslare, per cosí dire, la parete per terra: la griglia delle lastre marmoree che componevano la parete è ricalcata dalla tessitura delle lastre di vetro che compongono il pavimento dell’attuale esposizione. In questa griglia sono stati collocati tutti i frammenti posizionati con sicurezza nel tessuto della città.

UN «GEOMETRA» DI TALENTO La grande pianta di Roma di Giovanni Battista Nolli è stata scelta come riferimento ideale per ancorare la città antica a quella moderna. Il rilevamento antico da cui fu tratta la pianta marmorea è infatti comparabile – per rigore, precisione e tecniche esecutive – solo alla pri-

ma grande misurazione moderna della città, eseguita appunto da Giovanni Battista Nolli, «celebre geometra». La Nuova Pianta di Roma di Nolli fu pubblicata nel 1748 ed è considerata un capolavoro della cartografia di tutti i tempi. È il frutto di un lunghissimo lavoro di rilievi settoriali eseguiti a grande scala e raffigura gli edifici, le chiese, i pieni e i vuoti dei palazzi, l’arredo urbano (come fontane, obelischi), i giardini e le vigne. Le vigne e il «disabitato» della città di Nolli mostrano quanto quella Roma fosse piú vicina alla città antica che a quella contemporanea. L’abitato neppure si avvicina al confine delle Mura Aureliane e le vigne con i ruderi emergenti ci restituiscono la città perduta e insieme l’impronta chiara della metropoli antica. DOVE E QUANDO Parco Archeologico del Celio e Museo della Forma Urbis Roma, ingressi in viale del Parco del Celio 20 e 22 e clivo di Scauro 4. Orario Parco Archeologico del Celio, tutti i giorni, 7,00-17,30 (ora solare) e 7,00-20,00 (ora legale); chiuso il 25 dicembre e il 1° maggio. Museo della Forma Urbis, martedí-domenica, 10 00-16,00; chiuso il lunedí, 25 dicembre, 1° maggio. Info tel. 06 06 08 (tutti i giorni, 9,00-19,00); www.sovraintendenzaroma.it a r c h e o 103


SCAVARE IL MEDIOEVO Andrea Augenti

STORIE DI PIETRA E MATTONI LA CONOSCENZA DEL MAGNIFICO DUOMO DI MODENA SI ARRICCHISCE DI UN TASSELLO DECISIVO: NEL MUSEO DEDICATO AL MONUMENTO È STATA INFATTI INAUGURATA UNA NUOVA SEZIONE, CHE NE RIPERCORRE LA VICENDA COSTRUTTIVA AVVALENDOSI DEL CONTRIBUTO OFFERTO DALLA RICERCA ARCHEOLOGICA

I

l Duomo di Modena è una delle imprese piú grandi, elaborate e raffinate del Medioevo europeo: un capolavoro indiscusso dell’architettura e della scultura romanica. E proprio per questo è stato al centro di innumerevoli studi, sempre piú sistematici, sempre piú dettagliati e aggiornati. Sul Duomo sono state scritte migliaia di pagine, dei suoi muri e dei suoi rilievi sono state scattate innumerevoli fotografie, eppure… Eppure questo straordinario edificio continua a sorprendere, non smette di parlarci e di raccontarci la sua storia, complessa e avvincente. Lo fa con le nuove scoperte archeologiche, per esempio. In tempi piuttosto recenti, alcuni scavi hanno portato alla luce resti di murature che potrebbero aver fatto parte della struttura piú antica, quello che potremmo chiamare «l’antenato del Duomo»: un sacello, un piccolo santuario costruito nel V secolo sopra la

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Modena. L’ingresso ai Musei del Duomo, che completano la visita alla cattedrale, permettendo di comprenderne a pieno la storia e le vicende. sepoltura del santo a cui il Duomo era intitolato: Geminiano. Intorno sono state trovate alcune tombe, e quindi possiamo immaginare una situazione piuttosto tipica: il santo viene sepolto (Geminiano muore alla fine del IV secolo), poi la sua tomba viene monumentalizzata con un sacello (forse già una basilica?), tutto attorno si sviluppa un cimitero, e successivamente avremo le nuove ricostruzioni della chiesa. Sappiamo che il Duomo ha avuto una fase edilizia di età longobarda (VIII secolo), forse un’altra fase altomedievale alla quale segue la fase progettata dall’architetto Lanfranco (XI secolo), poi affiancato da un altro architetto-scultore, Wiligelmo. Con le ultime scoperte si comincia quindi a far luce sulla storia piú antica di quel luogo, sperando che il tutto possa essere prima o poi

sostanziato da nuove indagini, magari anche piú estese di quelle effettuate finora.

UN NUOVO CAPITOLO Ma non è finita qui, perché Modena tiene molto al suo passato e ai suoi monumenti, e negli ultimi anni ha fatto molto per valorizzarli: indagini, restauri, mostre… E adesso a questa storia è stato aggiunto un altro capitolo, davvero importante. Nei Musei del Duomo, che si trova proprio accanto alla Cattedrale, è stato allestito un nuovo piano, il secondo. E se al pianterreno trovate le metope originali dell’XI secolo (che splendore, viste cosí da vicino!) assieme ad altre sculture e se, al primo piano, è esposto il tesoro, con interessanti oggetti legati alla liturgia… beh, il secondo piano è completamente diverso: racconta


tutta la «biografia» del Duomo, e lo fa con un approccio fortemente archeologico, ottimamente coadiuvato dagli apparati multimediali. Si comincia con una sala in cui, accanto a un plastico del monumento, c’è un ampio ripiano, con una linea del tempo in formato elettronico: il visitatore può seguire, su registri diversi e con il solo tocco di un dito, la storia della cattedrale, quella di Modena, la storia d’Europa e alcune curiosità. Si sfiora la linea, e si accendono finestre che raccontano snodi di quelle vicende In alto: una delle metope originali dell’XI sec. Opera di un maestro attivo nella bottega di Wiligelmo raffigurano esseri mostruosi e fantastici. In basso: il plastico del Duomo esposto al secondo piano del museo.

in maniera sintetica ed efficace. Poi si entra in una sala nella quale viene proiettato un filmato sul Duomo «come non si è mai visto», ricco di dettagli interessanti. Quindi abbiamo un altro spazio dedicato al

cantiere che propone le repliche di tutti gli strumenti e gli attrezzi dei muratori e degli scalpellini del Medioevo: squadra, archipendolo, mazzetta, bocciarda, trapano… Qui si capisce come funzionava un cantiere complesso come doveva essere stato quello del Duomo, rumoroso, polveroso, brulicante di operai e scultori che lavoravano sotto gli occhi attenti dell’architetto. Qui, insomma, si entra in contatto diretto con il sapere tecnico che ha permesso la realizzazione delle piú grandi imprese dell’architettura romanica.

IMMAGINI SIMBOLICHE E ancora, in un’ultima sala – sempre grazie agli ottimi apparati multimediali – entriamo nei meandri delle raffigurazioni simboliche medievali: è lo spazio dedicato ai portali, tutti mirabilmente decorati con sculture, ciascuna delle quali ha un significato diverso. Il Duomo di Modena è un autentico spettacolo, da sempre; ma ora, questo piccolo museo archeologico, che è un vero gioiello, ci ricorda qualcosa di fondamentale: nessun monumento parla da sé, e solo grazie ad allestimenti come questo il visitatore può davvero penetrare il senso piú profondo delle mille storie di pietra e mattoni che il nostro passato ci ha trasmesso.

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TERRA, ACQUA, FUOCO,VENTO Luciano Frazzoni

C’È SCRITTO (QUASI) TUTTO I VASI GRECI FIGURATI SONO VERE E PROPRIE MINIERE DI INFORMAZIONI. VEICOLATE NON SOLO DALLE IMMAGINI, MA ANCHE DA NOMI, EPITETI E FIRME DEGLI ARTISTI...

U

na famosa anfora proveniente dalla necropoli ateniese del Dypilon raffigura sul collo il combattimento tra Ercole e il centauro Nesso; lo spazio intorno alle figure, oltre che da numerosi elementi decorativi – rosette, linee spezzate, onde –, è riempito, in una sorta di horror vacui, anche dalle iscrizioni riferite ai due personaggi: Herakles e Netos (forma dialettale attica per Nesso). Opera del primo grande ceramografo della tradizione attica, denominato appunto Pittore di Nesso, il vaso si data al 620-610 a.C. circa. A partire da questo periodo, altre ceramiche presentano, oltre a scene figurate ed elementi decorativi di riempimento, iscrizioni che contribuiscono all’interpretazione delle immagini, con un chiaro intento didascalico, ma anche ornamentale. In molti casi, dunque, i vasi greci ci parlano, fornendo informazioni preziose sia per leggere le scene raffigurate, ma soprattutto per conoscere anche il nome degli autori materiali dei manufatti. Molti esemplari, infatti, sia a figure nere che a figure rosse, riportano spesso nomi, seguiti dai verbi mégraphsen («mi ha dipinto») o mepoÍesen («mi ha fatto»), intendendosi cosí con il primo

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La lotta fra Ercole e il centauro Nesso dipinta su un’anfora del Pittore di Nesso, dalla necropoli del Dypilon. 620-610 a.C. circa. Atene, Museo Archeologico Nazionale. In basso: la caccia al cinghiale caledonio dipinta sul Vaso François, cratere attico a figure nere di Ergotimos e Kleitias. 570 a.C. circa. Firenze, Museo Archeologico Nazionale. termine il nome del ceramografo, con il secondo quello del ceramista che ha plasmato il manufatto.

CAPOLAVORI A QUATTRO MANI Un esempio in cui sullo stesso vaso compaiono queste due figure distinte di artigiani, è il famoso Vaso François, un cratere rinvenuto a Chiusi (ora a Firenze), che reca i

nomi di Kleitias come ceramografo e di Ergòtimos come vasaio. Ma può accadere che un pittore sia anche vasaio o viceversa, come Amasis o Nikosthenes, i quali, pur dipingendo le loro ceramiche, si definiscono sempre come vasai. Le complesse scene dipinte sul Vaso François, che illustrano le nozze di Peleo e Tetide, la caccia al cinghiale caledonio, i giochi funebri


in onore di Patroclo, la centauromachia, l’agguato di Achille a Troilo, Teseo e le danze dei giovani ateniesi, il corteo di Efesto verso l’Olimpo, la lotta tra i pigmei e le gru, sono facilmente comprensibili grazie alle ben 129 iscrizioni che corrono sul cratere, che indicano i nomi dei personaggi, costituendo non solo un piacevole elemento decorativo, ma anche un sussidio nell’esegesi delle varie narrazioni mitologiche. Simili annotazioni permettono dunque di conoscere sia il nome del pittore, sia di identificare i personaggi raffigurati, dando modo di interpretare episodi non sempre facilmente comprensibili. Ma le scritte conferiscono anche vivacità alle scene. Prendiamo, per esempio, il frammento di vaso (dinos) da Farsalo (ora ad Atene), con le corse di carri per i giochi funebri in onore di Patroclo, opera di Sophilos, che qui si firma come pittore (Sophilos mégraphsen); davanti alla tribuna nella quale gli spettatori che assistono allo spettacolo incitano gli aurighi, si legge Patroclus atla, spiegando dunque che la gara era proprio in onore di Patroclo; una notizia confermata dalla presenza del nome di Achille (Akiles) ideatore dei giochi per l’amico defunto.

LA FORTUNA DI ACHILLE Ancor piú vivace, grazie alle parole iscritte, è la scena della partita a dadi tra Achille e Aiace sull’anfora firmata da Exechias sia come pittore che come vasaio (Exekias égraphse kapoeseme) proveniente da Vulci, ora ai Musei Vaticani. Qui parlano gli stessi personaggi intenti a gettare i dadi: Achille pronuncia il numero quattro (tesara), mentre Aiace (Aiantos) il numero tre (tria), indicando dunque che quest’ultimo sta perdendo la partita. Ci troviamo dunque davanti a un vaso che potremmo definire un primo esempio di fumetto.

Frammento di un dinos raffigurante i giochi in onore di Patroclo, da Farsalo. Opera di Sophilos, 580-570 a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale. Le iscrizioni aiutano a comprendere meglio anche la scena raffigurata su una kylix di produzione laconica proveniente anch’essa da Vulci e ora a Parigi. Il personaggio principale, seduto su uno sgabello, è indicato con il nome Arkesilas, probabilmente da identificare con il re di Cirene Arcesilao II, che regnò dal 569 al 568 a.C. Davanti a lui è un servitore chiamato Iophortos; il sovrano presiede all’operazione di pesatura di alcune balle che stanno per essere scaricate su una bilancia (stathmos), che sembra avvenire sul ponte di una nave. Altri personaggi sono intenti a scaricare un’altra balla a terra, e controllarne il peso. Uno di essi è appunto definito irmophoros, cioè portatore di sacco, mentre un altro è detto sliphomachos (slipho sta per silpho), ossia pesatore di silfio, chiarendo cosí cosa rappresenti la scena. Si tratta della pesatura del silfio, una pianta largamente usata in Oriente e in Grecia, e poi nel mondo romano, soprattutto in cucina, come spezia, ora praticamente estinta a causa proprio del largo uso che se ne fece nell’antichità. Data l’importanza della merce, il controllo dello

scarico e della pesatura dei sacchi dalla nave avviene addirittura alla presenza del re. Sotto la scena principale, in quella che sembra essere la stiva, due schiavi (identificati dalla scritta maen, parola di origine libica – il silfio proveniva specialmente dalla zona di Cirene – equivalente a portatore di sacco), carichi di sacchi di silfio, stanno per scaricarli accanto ad altri già accumulati, alla presenza di un phylakos, cioè di un sorvegliante. Il silfio diventò un prodotto di lusso e per Cirene, che ne sfruttò il commercio, costituí per diversi secoli la principale fonte di ricchezza, tanto da diventare il simbolo della città, raffigurato anche sulle monete. Come si vede, senza le iscrizioni, una scena del genere – tra l’altro un unicum – sarebbe stata di difficile interpretazione, anche se c’è chi sostiene che si tratti di una generica scena di commercio del cotone, e che il personaggio seduto non sia il re, bensí un mercante laconico di nome Arkesilas.

BELLI E CARI AGLI DÈI A partire dalla metà del VI e fino alla metà del V secolo a.C., sui vasi di produzione attica si trovano iscrizioni con acclamazioni rivolte a giovani ateniesi, composte dal nome di un personaggio seguito dal termine kalòs, bello, o dal termine piú generico ho pais kalòs, ossia «il fanciullo è bello». Il termine è per lo piú riferito a personaggi maschili piuttosto che femminili: John Beazley (archeologo britannico al quale si devono le prime identificazioni di ceramografi su base stilistica) registra circa 700 casi di acclamazioni riferite a bei giovani rispetto alle sole 25 riferite a personaggi femminili. Alcuni nomi associati a kalòs appartengono a

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Tuttavia, non manca l’ipotesi alternativa di quanti vi hanno visto anche un significato funerario, riferito a morti giovani e belli, e per questo piú graditi agli dèi.

L’OLIO DEI CAMPIONI

personaggi in vista di Atene, come per esempio Leagros (dal quale prende anche nome un gruppo di circa 400 vasi di pittori in stretto rapporto tra loro), un efebo molto popolare, da identificare con uno stratega morto nel 465, o Eualkides, ucciso dai Persiani nella battaglia di Efeso nel 498. Il riferimento a

personaggi realmente esistiti, costituisce dunque un importante dato per la cronologia dei vasi. Molto si è discusso sul significato dell’acclamazione ai kaloi ateniesi: per la maggioranza degli studiosi si tratterebbe di un riferimento, anche in chiave erotica, alla loro bellezza, ma anche alle loro qualità morali.

In alto: particolare dell’interno di una kylix laconica raffigurante Arkesilas (forse Arcesilao II di Cirene) che assiste alla pesatura del silfio, da Vulci. 565-560 a.C. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In basso: una gara di corsa e la dea Atena sulle due facce di un’anfora panatenaica attribuita al Pittore di Euphiletos. 530 a.C. circa. New York, The Metropolitan Museum of Art.

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Anche le anfore dette panatenaiche e che, piene d’olio ricavato da ulivi sacri, costituivano il premio per le gare atletiche dei giochi panatenaici – disputati per la prima volta ad Atene nel 566 a.C. e organizzati ogni quattro anni, nel mese di luglio, in onore di Atena –, ci portano messaggi in forma di iscrizioni. Questi vasi hanno mantenuto nei secoli sia la forma che le scene rappresentate, dalla metà del VI fino al II secolo a.C. Su un lato compare sempre Atena, armata di tutto punto (prómachos) vicino a una colonnetta su cui è un gallo; di fianco corre la scritta che indicava che l’oggetto era il premio «dalle gare di Atene» (ton athenethen athlon); sull’altro lato erano invece rappresentati gli atleti intenti a svolgere le gare per cui erano stati premiati: corsa, lancio del disco, lancio del giavellotto, corse di quadrighe, pentathlon. Come detto, la rigida tradizione di questi oggetti ha subito pochissimi cambiamenti, conservando sempre la vecchia tecnica delle figure nere, senza risentire dei cambiamenti nella produzione ceramica. A partire dal IV secolo, compare anche l’abitudine di riportare il nome dell’arconte dell’anno nel quale avveniva la raccolta dell’olio, costituendo cosí un importante riferimento cronologico anche per le gare atletiche: tra i piú antichi esempi figura l’anfora con il nome dell’arconte del 392-391 a.C., Philokles, mentre l’ultima è riferita a Polemon, del 312-311 a.C. I vasi insomma ci parlano e forniscono informazioni preziose: talvolta offrendo soluzioni, ma anche e forse piú spesso problematiche da risolvere.



L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

ALLE ORIGINI DI UN’ERESIA LA TEORIA ELIOCENTRICA FECE DI NICCOLÒ COPERNICO UN NEMICO DELLA CHIESA. EPPURE LA PREMINENZA DEL SOLE NELL’UNIVERSO ERA STATA INTUITA GIÀ IN ANTICO, COME PROVANO MOLTE EMISSIONI MONETALI

N

el 1543 fu dato alle stampe il volume di Niccolò Copernico De revolutionibus orbium coelestium, la cui prima copia, secondo la leggenda, gli sarebbe stata consegnata sul letto di morte. Combinando le osservazioni del cielo con calcoli matematici, l’astronomo polacco poté affermare senza tema di smentita che non la terra, come si credeva sin dall’antichità, ma il sole è al centro del cosmo, illuminando «ogni cosa»: Sol stat, Terra movetur. La sua teoria segna cosí non solo la fine del Medioevo, ma la conclusione di un’era millenaria iniziata nel mondo antico. Il diagramma copernicano con il sole al centro del nostro universo, immobile e circondato dai cerchi concentrici dei pianeti che gli ruotano attorno, può considerarsi, insieme all’Uomo vitruviano di Leonardo da Vinci, una vera e propria icona del Rinascimento, nella quale scienza, immagine e arte si fondono in una triade perfetta. «Detronizzando» la terra quale fulcro dell’universo, Copernico fece sí che anche l’uomo perdesse la sua posizione centrale quale signore del cosmo, che non ruotava piú intorno a lui.

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La grande riforma copernicana guadagnò rapidamente notorietà tra gli studiosi, mentre molti teologi, cattolici e protestanti, la osteggiarono con veemenza. Quindi, malgrado il plauso di grandi scienziati e anche di religiosi, nel 1616 il De revolutionibus orbium coelestium fu inserito nell’Indice dei libri proibiti (il catalogo degli scritti condannati dalla Chiesa cattolica in quanto contrari alla fede o alla morale, n.d.r.) e vi rimase fino al 1822.

UNA CENSURA INEFFICACE Un provvedimento che, tuttavia, non impedí alle inoppugnabili osservazioni dell’astronomo polacco di circolare e di trasformarsi in nozioni universalmente accettate e condivise, anche se timidamente sostenute in pubblico, per il timore di possibili interventi da parte della Chiesa. La preminenza del sole nel cielo ricorre anche nella monetazione di età antica e moderna: nel mondo romano, di regola, l’astro è impersonato da un’immagine virile radiata, intera o con il solo busto, spesso associata all’imperatore, ma talvolta anche in rapporto, sull’altra faccia del conio, con la


luna e le stelle. Si veda il caso di un denario di restituzione di Traiano emesso intorno al 107 d.C., ripreso da quello emesso dal triumviro monetale Lucio Lucrezio Trio nel 76 a.C. (sono detti «di restituzione» tipi di monete di età precedente riconiate da un imperatore probabilmente per motivi celebrativi e propagandistici). Sul dritto trionfa l’apollineo profilo radiato di Sol, dai lunghi capelli che scendono sulla nuca, mentre al rovescio campeggia il crescente lunare circondato da sette stelle. Nella legenda ricorre la consueta titolatura imperiale usata da Traiano per questo tipo di monete: IMPerator CAESar TRAIANus AVGustus GERmanicus DACicus Pater Patriae RESTituit (in minuscolo lo scioglimento delle abbreviazioni), mentre al centro si legge TRIO e LUCRETIVS. Le immagini cosmiche celebrano il nome del monetiere, Lucio, la cui radice etimologica contiene il concetto di lux (genitivo lucis), connesso alla luce del sole e della luna, mentre le sette stelle sono quelle del Grande Carro, le stelle piú brillanti dell’Orsa Maggiore, dette septem triones (sette buoi da tiro, da cui l’indicazione del nord come settentrione): anche qui l’allusione è al cognome del magistrato.

IL SOLE DAL VOLTO UMANO Tornando all’epoca di Copernico e alla diffusione della sua «rivoluzione cosmica», vi sono numerose raffigurazioni su monete, medaglie e gettoni dove protagonista assoluto, si potrebbe

Gettone di calcolo in ottone emesso a Norimberga con il sole e la luna personificati e una nave. XIX sec. Nella pagina accanto: denario di restituzione di Traiano con il sole, la luna e i pianeti. 107 d.C. circa. Berlino, Münzkabinett der Staatlichen Museen. dire al centro dell’universo, è il sole, di regola rappresentato come un cerchio dai lunghi raggi dall’atarassico volto umano, mentre manca la personificazione a figura intera cosí ricorrente in

epoca antica. Tra i molti esempi possibili, se ne può segnalare uno sul quale, come nell’esemplare traianeo, il sole e la luna sono egualmente protagonisti. Si tratta di una serie di gettoni tedeschi che fungevano da strumento di calcolo lineare, una sorta di abaco, realizzati ufficialmente nella città tedesca di Norimberga tra il XVI e il XIX secolo da vari incisori qualificati definiti Rechenpfennigmacher (letteralmente, «maestro del pfennig da calcolo»). Contraddistinti da una spiccata estetica decorativa, i tipi sono circondati su entrambi i lati da legende con motti in tedesco e in alcuni casi anche dalle firme o da sigle degli artefici. Un gruppo di questi gettoni, realizzati da vari autori, riporta su un lato una nave in mare e sull’altra faccia il sole la luna. L’esemplare qui illustrato, databile intorno al XVIII secolo, ha il motto DVRCH GLVCK VND PREIS (Dalla fortuna il premio) seguito dalle lettere RE PF PIV, riferibili probabilmente all’incisore. Sull’altro lato si staglia a sinistra il bel volto del sole dai lunghi raggi, seguito da quattro stelle e da uno spicchio di luna, anch’essa umanizzata attraverso la resa di profilo, che conferisce al pratico strumento di calcolo una leggiadra aura di poesia cosmica. Il motto che vi corre intorno, esterno a una cornice circolare sagomata, riporta ANFANG BEDENCK DAS END, che si può liberamente tradurre con il monito alla prudenza e alla lungimiranza che ben si adatta alla funzione del gettone destinato a fini commerciali: «All’inizio di un’impresa, pensa sempre a come potrà concludersi».

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Sandro Caranzano

PIEMONTE ROMANO Edizioni del Capricorno, Torino, 160 pp., ill. col. 14,00 euro ISBN 978-88-7707-716-5 www. edizionidelcapricorno.com

I territori coincidenti con la moderna regione del Piemonte entrarono nell’orbita di Roma alla metà del II secolo a.C. e la loro acquisizione si poté dire definitiva circa un secolo e mezzo piú tardi. È questo il punto di partenza del racconto proposto da Sandro Caranzano nel volume pubblicato per le Edizioni del Capricorno, il cui formato tascabile non deve ingannare: in poco piú di 150 pagine, infatti, l’autore condensa un excursus assai ampio e documentato che ripercorre l’intera vicenda della romanizzazione del Piemonte, scandita in tre macrosezioni di taglio cronologico, dalle origini del fenomeno 112 a r c h e o

sino ai suoi ultimi sussulti, in età tardoantica. La trattazione è dunque dettata dal succedersi degli eventi – a cominciare dai ripetuti scontri campali che aprirono la strada all’affermazione di Roma –, che non è però ridotta a una mera elencazione, ma illustra, seppur sinteticamente, il piú generale contesto politico, economico e sociale. A tutto ciò si affiancano, soprattutto nei primi due capitoli, gli approfondimenti dedicati ai principali centri del Piemonte romano. Inserti che si rivelano assai utili per sottolineare la notevole consistenza e l’importanza del patrimonio archeologico piemontese: da Iulia Dertona (Tortona) a Eporedia (Ivrea), da Libarna (Serravalle Scrivia) a Segusio (Susa), il lettore ha modo di conoscere una realtà significativa e di cui i grandi monumenti di Torino (Augusta Taurinorum) sono gli elementi certamente piú noti, ma non unici. Del resto, specchio eloquente della capillarità delle presenze è la cartina che utilmente le riassume (alle pp. 124-125): un apparato prezioso, in linea con l’impostazione generale del volume, che, non a caso, si chiude con un altrettanto apprezzabile glossario dei termini utilizzati e non esplicitati nel testo.

DALL’ESTERO Ivana Fiore e Francesca Lugli (a cura di)

DOGS, PAST AND PRESENT An Interdisciplinary Perspective Archaeopress, Oxford, 502 pp., ill. col. e b/n 70,00 GBP ISBN 978-1-80327-354-9 (PDF disponibile anche in modalità Open Access) www.archaeopress.com

Opera di taglio specialistico, Dogs propone una storia del rapporto stabilito dalle comunità umane con l’animale che, da sempre, è definito come il loro «migliore amico». Un’etichetta forse fin troppo abusata, ma che, in fondo, può ancora rappresentare una sintesi efficace di un’interazione senza dubbio diversa da molte altre fra quelle che uomini e donne hanno praticato fin dall’età preistorica. Ivana Fiore e Francesca Lugli hanno coinvolto nel progetto una folta schiera di studiosi, italiani e stranieri, riuscendo in questo modo

a offrire una declinazione del tema prescelto che si caratterizza per la sua ampia portata e per l’approccio interdisciplinare. C’è dunque molta archeologia, ma ci sono anche, per esempio, antropologia, etologia, scienze biologiche, a definire un quadro ricco di sfaccettature e denso di notizie. Un quadro peraltro efficacemente sintetizzato dalla tavola che riassume graficamente le parole chiave dei testi riuniti nel volume (tav. XXVI). Né è un caso, a riprova dell’universalità del fenomeno, la vastità dell’orizzonte geografico, con contributi che spaziano dall’ambito europeo a quello extraeuropeo. Dopo che, nelle pagine introduttive, David Ian Howe racconta di come proprio il ricorso al cliché del «migliore amico degli umani» gli abbia permesso di condurre con successo un’attività mirata a sensibilizzare il pubblico circa l’importanza della ricerca scientifica, si entra, potremmo dire, nel vivo della questione, in una rassegna che da studi sulla genetica finalizzati a ricostruire il processo di domesticazione del cane giunge fino a osservazioni di tipo etnografico e archeologico sul ruolo mitico e simbolico assegnato al piú familiare dei quadrupedi. (a cura di Stefano Mammini)



presenta

MARCO POLO LA GRANDE AVVENTURA

Il 9 gennaio del 1324, dopo aver dettato le ultime volontà al sacerdote Giovanni Giustinian, Marco Polo si spegneva a Venezia, nella casa di famiglia. Si chiudeva cosí la vicenda terrena di uno dei massimi protagonisti dell’età di Mezzo e della storia di ogni tempo, al quale, nel 700° anniversario della scomparsa, è dedicato il nuovo Dossier di «Medioevo». Oltre cinquant’anni prima, poco piú che diciottenne, Marco era partito con il padre Niccolò e lo zio Matteo per un viaggio alla volta dell’Oriente, destinato a trasformarsi in un’esperienza straordinaria: il giovane Veneziano, infatti, si spinse fino al Catai (l’odierna Cina) e il suo soggiorno in quelle terre si protrasse ben piú a lungo di quanto aveva probabilmente immaginato, concludendosi solo nel 1295, con il ritorno nella natía Venezia. Qualche tempo dopo, cadde prigioniero dei Genovesi – probabilmente all’indomani della sconfitta patita dalla Serenissima a Curzola, nel 1298 – e, rinchiuso in Palazzo San Giorgio, decise di dettare il resoconto del suo viaggio in Asia a Rustichello da Pisa, che con lui divideva la cella. L’esito di quell’impresa si trasformò in uno dei primi bestseller della storia, Il Milione, un’opera che ancora oggi affascina e sorprende per la sua modernità, soprattutto grazie alle molteplici notazioni di carattere etnografico. Dell’intera vicenda dà conto questo nuovo Dossier, che ricostruisce la biografia del grande viaggiatore ed esploratore, inserendola nel contesto politico, sociale ed economico del tempo, con ampi richiami alle peculiarità della cultura mongola e di quella cinese.

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