Archeo n. 465, Novembre 2023

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NEANDERTAL

ALONISSOS

A CACCIA CON I NEANDERTAL

BET GUVRIN

ARCHEOLOGIA SUBACQUEA

MUSEO DI CLASSIS

IL RELITTO DI ALONISSOS

LETTERATURA

LA MORTE DI VIRGILIO

HERMANN BROCH

SPECIALE GLADIATORI AL COLOSSEO

SPECIALE

GLADIATORI

FINO ALL’ULTIMO SANGUE

IL N

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RAVENNA

ABITARE A CLASSIS

I CRISTIANI DI BET GUVRIN

ISRAELE

www.archeo.it

IN EDICOLA IL 9 NOVEMBRE 2023

DI

RA UOVO VE MUS NN EO ww w. a rc A he

2023

Mens. Anno XXXIX n. 465 novembre 2023 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

ARCHEO 465 NOVEMBRE

SCOPERTE

€ 6,50



EDITORIALE

TERRA SANTA

Nessun altro Paese al mondo può vantare un’intensità di siti archeologici pari a quella di Israele. Quelli censiti sono piú di 30 000, distribuiti sulla superficie nazionale di circa 22 000 kmq, un’estensione inferiore a quella della Toscana. Degli oltre 80 Parchi Nazionali, 45 sono a tema archeologico. 12 dei 16 monumenti iscritti nella Lista UNESCO del Patrimonio dell’Umanità sono luoghi di rilevanza storico-archeologica: tra quelli piú noti citiamo la leggendaria Masada, Cesarea Marittima (la città portuale costruita da Erode il Grande sulla costa mediterranea in onore di Cesare Augusto), le Città Vecchie di Gerusalemme e di Acri; meno conosciuta è, forse, l’area delle antiche città di Maresha e Bet Guvrin, patrimonio UNESCO dal 2014, di cui parliamo nell’articolo di apertura. In Israele, l’archeologia è considerata una «sindrome nazionale», osannata dagli uni e deplorata dagli altri. Una vera e propria mania originata dal fatto che la Terra Santa possiede una plurisecolare tradizione di scavi e di indagini (tradizione, come è noto, promossa e al contempo complicata dalla vasta documentazione letteraria e storica offerta dalla narrazione biblica); ma anche perché l’esplorazione archeologica ha giocato un ruolo di primo piano nel processo stesso di autodefinizione culturale del nascente Stato. Lo scrittore israeliano Amos Elon (1926-2009) ricorda l’euforia di un gruppo di pionieri ebrei del movimento giovanile socialista quando, durante i lavori per un canale di irrigazione del loro insediamento nella piana di Esdralon (pochi chilometri a sud del Lago di Tiberiade), venne alla luce un magnifico pavimento musivo appartenente a una sinagoga del VI secolo. Era il dicembre del 1928, vent’anni prima della proclamazione dello Stato di Israele. Il mosaico, denominato la Sinagoga di Bet Alpha, è oggi custodito dall’autorità dei Parchi Nazionali e aperto al pubblico. In Israele, piú che nelle altre entità nazionali formatesi dopo la prima guerra mondiale, l’archeologia assume valenza politica, diventa strumento per affermare e convalidare, attraverso la produzione di «testimonianze» materiali, una continuità storica e culturale (l’uso politico dell’archeologia non è, del resto, una novità, se – come suggeriva Yigael Yadin, scavatore di Masada e studioso dei manoscritti del Mar Morto – «l’archeologo di maggior successo al mondo» fu Elena, madre dell’imperatore Costantino, la quale – ricorda ancora Elon – a distanza di secoli, effettivamente scoprí tutto quello che intendeva trovare, dal Calvario, alla Vera Croce, al Santo Sepolcro…). Negli ultimi decenni, l’archeologia israeliana si è sottoposta a un profondo, e fertile, esame autocritico, di cui non possiamo dare certo conto in questo breve spazio. Resta il fatto che i risultati di quella che fu, e continua a essere, una grande avventura scientifica e culturale, sono patrimonio monumentale e intellettuale non solo del piccolo Paese vicino-orientale, ma di tutto il mondo. Soprattutto dell’Occidente. Andreas M. Steiner Bet Guvrin, Israele. Resti della chiesa crociata e dell’anfiteatro romano (sulla sinistra).


SOMMARIO EDITORIALE

Terra Santa

3

di Andreas M. Steiner

Attualità

ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/11 18

di Flavia Marimpietri

NOTIZIARIO

6

SCOPERTE Safari preistorici

6

SCAVI

Abramo a Bet Guvrin 8

28

di Boaz Zissu ed Erasmus Gass

ROMA

L’ottagono delle meraviglie

12

di Alessandro D’Alessio e Luigi Maria Caliò

A TUTTO CAMPO Oro nero in Valdichiana

14

28 MUSEI

MUSEI Le molte vite di Saint-Martin-de-Corléans 16

a cura della redazione

SCOPERTE

A CACCIA CON I NEANDERTAL

Federico Curti

www.archeo.it

ISRAELE

I CRISTIANI DI BET GUVRIN

ARCHEOLOGIA SUBACQUEA

Comitato Scientifico Internazionale

IL RELITTO DI ALONISSOS LETTERATURA Mens. Anno XXXIX n. 465 novembre 2023 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

SPECIALE GLADIATORI AL COLOSSEO

amministrazione@timelinepublishing.it

HERMANN BROCH

Amministrazione

MUSEO DI CLASSIS

Impaginazione Davide Tesei

In copertina Pollice verso, olio su tela di Jean-Léon Gérôme. 1872. Phoenix, Phoenix Art Museum.

Presidente

RAVENNA

BET GUVRIN

Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it

€ 6,50

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ABITARE A CLASSIS

ALONISSOS

Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it

NEANDERTAL

Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it

IN EDICOLA IL 9 NOVEMBRE 2023

2023

ww

DI

w.a rc

IL

o. it

RA NUOVO VE MUSE NN O A he

Vivi, prega, racconta... 42

ARCHEO 465 NOVEMBRE

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 – 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it

68

di Alessandro Blanco

di Andrea Terziani

Anno XXXIX, n. 465 - novembre 2023 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

60

di Giuseppe M. Della Fina

10

di Giampiero Galasso

FRONTE DEL PORTO Era d’agosto...

60

ARCHEOFILATELIA Morituri te salutant... 24

di Alessandra Randazzo

SCAVI Teramo, città dei mosaici

A diciotto ore dalla fine

di Luciano Calenda

di Gabriele Russo

ALL’OMBRA DEL VULCANO Omaggio alla corona

PAROLA D’ARCHEOLOGO Un tuffo nella storia

LA MORTE DI VIRGILIO

Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Venceslas Kruta, Henry de Lumley, Javier Nieto

SPECIALE

GLADIATORI

FINO ALL’ULTIMO SANGUE

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27/10/23 14:08

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Carla Alfano, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Giulio Paolucci, Sergio Pernigotti, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Alessandro Blanco è archeologo. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Luigi Maria Caliò è professore di archeologia classica presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Catania. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Alessandro D’Alessio è direttore del Parco archeologico di Ostia Antica. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Luciano Frazzoni è archeologo. Giampiero Galasso è giornalista. Erasmus Gass è professore di studi sull’Antico Testamento all’Università di Augusta. Alessandra Randazzo è giornalista. Gabriele Russo è dottorando all’Università di Tubinga per il progetto ERC REVIVE. Andrea Terziani è dottorando in scienze dell’antichità e archeologia all’Università di Pisa. Boaz Zissu è direttore del dipartimento di studi e archeologia della terra di Israele dell’Università Bar-Ilan di Ramat Gan (Tel Aviv).


Rubriche TERRA, ACQUA, FUOCO, VENTO

Caccia all’usato sicuro 106 di Luciano Frazzoni

106 L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA «Dove sia, nessun lo sa»

110

di Francesca Ceci

SPECIALE

110 LIBRI

82 Fino all’ultimo sangue

112

82

a cura della redazione

Illustrazioni e immagini: Doc. red.: copertina (e pp. 90/91) e pp. 3, 31, 32, 33, 35, 36/37, 47, 60, 66, 73, 84-93, 98-99, 103, 106-108 – – Niedersächsische Landesamt für Denkmalpflege, Hannover: Julio Lacerda: p. 6; Volker Minkus: pp. 6/7 – Cortesia Parco Archeologico di Pompei: Alessandra Randazzo: pp. 8-9 – Cortesia Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di L’Aquila e Teramo: p. 10 – Archivio Fotografico del Parco archeologico di Ostia antica: pp. 12-13 – da: Gente di Torrita, Sinalunga 2010: p. 14 (sinistra) – da: Le miniere di lignite di Montefollonico, 1987: p. 14 (destra) – Cortesia degli autori: pp. 15, 18-22, 110-111 – Cortesia Ufficio Stampa Valle d’Aosta Heritage-DOC-COM: pp. 16-17 – Shutterstock: pp. 28/29, 32/33, 34/35 – Cortesia Boaz Zissu: pp. 30, 36 (alto e basso), 38-41 – Cortesia A. Kloner: T. KrinkinFabian, N. Graicer: p. 37 – Cortesia Ufficio Stampa Fondazione RavennAntica: pp. 42-45, 46, 48-56, 57 (alto) – Mondadori Portfolio: Veneranda Biblioteca Ambrosiana/Gianni Cigolini: p. 61; AKG Images: pp. 62, 63 (alto); Album/Oronoz: p. 63 (basso); Erich Lessing/K&K Archive: p. 64; Album/Fine Art Images: pp. 66/67 – Cortesia Alessandro Blanco: pp. 70-71, 72 (basso), 74-81; Marco Ansaloni: pp. 68/69; Parco archeologico del Colosseo: p. 72 (alto) – Cortesia Ufficio Stampa Parco archeologico del Colosseo: pp. 82/83, 94-97, 100-101, 104-105 – Cippigraphix: cartine alle pp. 57 e 69.

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia srl Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Il Servizio Arretrati è a cura di: Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Srl - 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito: https://arretrati. pressdi.it

L’indice di «Archeo» 1985-2022 è disponibile sul sito www.ulissenet.it Registrandosi sulla home page si ottengono le credenziali per la consultazione di prova


n otiz iari o SCOPERTE Germania

SAFARI PREISTORICI

C

onosciuti scientificamente come Homo neanderthalensis, i Neandertal erano una specie umana, oggi estinta, strettamente imparentata con Homo sapiens (specie alla quale noi apparteniamo). Emersero circa 400 000 anni fa e popolarono un vasto areale, dall’Atlantico fino all’Asia Centrale, attraverso il Mediterraneo, per poi scomparire intorno ai 40 000 anni da oggi. Inizialmente, i ricercatori europei ritraevano i Neandertal come primitivi, poco intelligenti e brutali, ma, negli ultimi anni, questa prospettiva è stata ribaltata. Il recente studio

condotto da un gruppo internazionale di specialisti di cui chi scrive fa parte ha illuminato un aspetto finora inesplorato dei nostri parenti estinti: la dinamica relazione con uno dei formidabili predatori con cui essi condividevano il territorio, il leone delle caverne (Panthera spelaea). Nell’articolo che dà conto della ricerca, viene in primo luogo descritta la scoperta, nella grotta denominata Einhornhöle (massiccio dell’Harz, Bassa Sassonia, Germania), di resti ossei con segni di taglio di una zampa che facevano parte di una pelle di leone risalente a oltre 190 000 anni

A destra, sulle due pagine: i resti ossei dell’esemplare di leone delle caverne rinvenuti nella grotta di Siegsdorf e la replica moderna di una lancia del tipo di quelle utilizzate dai cacciatori neandertaliani. In basso: ricostruzione virtuale che mostra cacciatori neandertaliani intenti a macellare un leone appena cacciato nei pressi della grotta di Siegsdorf.

fa. Si tratta, a oggi, della piú antica testimonianza conosciuta dell’uso culturale di una pelle di leone, con artigli appositamente conservati. La scoperta è stata resa possibile grazie alla applicazione di metodi analitici come microscopia 3D, metodi zooarcheologici e tafonomici, che hanno suggerito che il leone venne scuoiato altrove e la sua pelle, artigli compresi, fu poi trasportata nella caverna, probabilmente per essere utilizzata e poi abbandonata. In secondo luogo, presentiamo la piú antica prova diretta della caccia e dell’abbattimento di un grande predatore, databile a 48 000 anni fa

6 archeo


e scoperta nella grotta di Siegsdorf, situata anch’essa in Germania, nella regione della Baviera. A tale conclusione si è giunti grazie a un approccio di tipo forense, che ha combinato microscopia 3D e scansioni micro-CT all’interno di un quadro tafonomico. La ricostruzione balistica ci ha permesso di ricostruire gli eventi, portando a due scenari plausibili. Nel primo, l’ipotesi è che i cacciatori avessero inseguito il leone, usando lance per infliggere danni iniziali; una volta che il predatore era esausto e a terra, gli venne inflitto un colpo finale per assicurarne la morte. Nel secondo

caso, il leone sarebbe stato avvicinato e poi impalato a morte con una lancia. Indipendentemente dal metodo di caccia, il leone fu successivamente macellato con cura, eviscerato e lasciato sul sito, senza rompere le ossa. I Neandertal erano abili cacciatori, e impiegarono tecniche sofisticate per inseguire le loro prede. Si servivano delle lance sia per impalare, sia mirando ai punti vitali della preda. Il dato archeologico suggerisce che i cacciatori neandertaliani fossero selettivi nelle loro pratiche venatorie, concentrandosi su specie e individui specifici in determinati siti

e momenti, mentre cacciavano qualsiasi creatura potessero catturare in altre occasioni. Avevano inoltre messo a punto strumenti diversificati per macellare e consumare le loro prede. Lo studio sui resti rinvenuti nelle due grotte tedesche aggiunge a questa conoscenza una nuova dimensione: l’interazione dei gruppi neandertaliani con grandi predatori comprendeva non solo l’uso culturale di parti del corpo di leone, ma anche la capacità di cacciarli, un comportamento inizialmente attribuito esclusivamente alla nostra specie. Gabriele Russo

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ALL’OMBRA DEL VULCANO di Alessandra Randazzo

OMAGGIO ALLA CORONA ALLA SCOPERTA DELLA CASA DELLE NOZZE D’ARGENTO, UNA DELLE PIÚ VASTE E LUSSUOSE RESIDENZE POMPEIANE, COSÍ BATTEZZATA IN ONORE DELLA VISITA COMPIUTA DA UMBERTO E MARGHERITA DI SAVOIA IN OCCASIONE DEL VENTICINQUESIMO ANNIVERSARIO DI MATRIMONIO

I

l 22 aprile 1893 i reali d’Italia, Umberto I e Margherita, celebrarono i 25 anni di matrimonio e visitarono Pompei, dov’erano in corso le fortunate campagne di scavo guidate da Michele Ruggiero che portarono alla luce quasi tutta la via di Nola e della parte alta della città antica nelle Regiones IX e V. Fra le altre, stava tornando alla luce una delle piú estese e lussuose residenze del sito vesuviano, che, in omaggio ai Savoia, fu battezzata Casa delle Nozze d’argento. Scoperta e scavata, come detto, sotto la direzione dell’architetto Ruggiero – al quale succedettero, fino al 1908, Giulio De Petra, Ettore Pais e Antonio Sogliano –, la dimora venne protetta fin dagli inizi del Novecento con la ricostruzione pressoché integrale dei tetti: una scelta felice, che permise ai visitatori dell’epoca – e tuttora permette – di poterne ammirare la magnificenza, facendo crescere la fama di questo straordinario complesso abitativo. Dall’inizio del III secolo a.C., Pompei vede la regolarizzazione del proprio impianto urbano e i nuclei abitati, che prima si alternavano a spazi coltivati racchiusi entro la cinta muraria, vengono ora collegati da una rete viaria piú regolare, inglobati e

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sostituiti da nuove costruzioni e dal progressivo innalzamento dei livelli di frequentazione; con ogni probabilità, infatti, in alcune parti della città si tratta anche di regolarizzare l’irregolare orografia del pianoro per garantire l’organizzazione urbana di quanto

edificato con isolati di forma pressoché regolare. Già dal II secolo, nella vicina Regio IX, tutti gli isolati sono ormai occupati e si iniziano a edificare i vasti e lussuosi complessi residenziali che oggi conosciamo, come la Casa di Giulio Polibio o la Casa di Obellio


Firmo, veri e propri palazzi urbani come le domus di Marco Lucrezio o di Epidio Sabino.

Sulle due pagine: immagini della Casa delle Nozze d’Argento. Dalla pagina accanto, in basso, in senso orario, un cubiculum con decorazione in Secondo Stile, l’atrio della domus, il secondo giardino e il peristilio.

L’AVVIO DEL CANTIERE

peristili con aree «pubbliche», sale di ricevimento e di banchetto, aree per l’hotium e spazi per la vita privata domestica e per la conduzione della casa. Verso la fine del I secolo a.C. la casa subí profonde trasformazioni, per essere adeguata ai nuovi modi dell’abitare. La residenza principale, infatti, venne separata dalla Casa del Cenacolo e quasi tutti gli ambienti furono non soltanto ridecorati, rimpiazzando l’originaria decorazione in Primo Stile con una raffinata soluzione pittorica di transizione tra il Secondo e il Terzo Stile, ma anche trasformati e adeguati in funzione di nuovi modelli abitativi e sociali. Gli alti e monumentali ambienti affacciati sull’atrio, per esempio, vennero suddivisi in due livelli di minore altezza per ricavare, sul livello superiore, nuovi spazi di abitazione, sacrificando dunque la monumentalità e rappresentatività degli spazi per una migliore funzionalità dell’abitare.

Nell’Insula 2 della vicina Regio V, si avvia in questi anni, e siamo ormai all’inizio della seconda metà del II secolo a.C., un vasto cantiere che prevede la demolizione degli edifici precedenti, la colmata delle irregolarità orografiche sfruttando le stesse macerie delle demolizioni, il recupero dell’adiacente, piú antica, Casa del Cenacolo e, sopra la colmata, la costruzione di quello che arriverà a essere un vero e proprio palazzo urbano con piú corti, adatto ad accogliere le raffinatezze di una vita agiata in età ellenistica: la Casa delle Nozze d’Argento. L’impianto dell’abitazione rispecchia il lusso principesco di una dimora pienamente ellenistica nella raffinatezza dell’abitare e nella stessa funzionalità di un edificio capace di garantire condizioni di agiatezza attraverso un sistema architettonico che si compone dell’atrio con il peristilio laterale, degli ambienti di ricevimento organizzati intorno al peristilio rodio e del sistema del secondo atrio con cenacolo. Uno schema che sembra richiamare – forse solo simbolicamente perché in nulla legato alla struttura sociale romana ma con chiari riferimenti, invece, alla residenza signorile orientale ellenistica –, la suddivisione della casa greca, anche descritta da Vitruvio, nei tre settori principali – maschile, femminile e degli ospiti –, ciascuno provvisto di propria entrata e affacciato su giardini e

LA NUOVA PROPRIETÀ Intorno al 60 d.C., in piena età neroniana, i nuovi proprietari – la potente famiglia degli Albucii – decisero nuovamente di adeguare la domus ai propri tempi, facendo sí che i giardini accogliessero triclini all’aperto affacciati su vasche con fontane, creando nuove e lussuose sale di ricevimento, come quella del cosiddetto oecus tetrastilo, con colonne ottagonali di stucco rosso-viola e raffinati

pavimenti a mosaico bicromo bianco e nero, addirittura conservando la meravigliosa bellezza degli affreschi di un secolo prima ma valorizzandola con intento collezionistico e integrandola nella nuova decorazione in Quarto Stile. La nuova dotazione di acqua corrente – abbondante e a pressione con uso di tubazioni di piombo e saracinesche di bronzo ancora oggi in opera – consentita dal collegamento di Pompei all’acquedotto del Serino – un’importante opera idraulica di età augustea forse richiamata anche nella soglia di uno dei mosaici della casa –, determinò la costruzione di un quartiere termale privato con vasche riscaldabili, la formazione di giochi d’acqua a impreziosire i giardini, la realizzazione di una raffinata fontana nell’atrio della casa. In questo momento si ritrova, graffito su muri e oggetti della domus, il nome di un esponente di primo piano della gens Albucia, L. Albucius Celsus: candidato alla carica di edile, fu l’ultimo proprietario della magione e, probabilmente, si trovò ad assistere alla distruzione di Pompei causata dall’eruzione vesuviana del 79 d.C. Per notizie e aggiornamenti su Pompei: pompeiisites.org; Facebook: Pompeii-Parco Archeologico; Instagram: Pompeii-Parco Archeologico; Twitter: Pompeii Sites; YouTube: Pompeii Sites.

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n otiz iario

SCAVI Abruzzo

TERAMO, CITTÀ DEI MOSAICI

I

nteramnia Praetuttiorum – oggi Teramo – regala nuove informazioni sulla sua storia. In via Sant’Antonio, nel cuore della città, durante il rifacimento del lastricato stradale, sono venute in luce tre nuove pavimentazioni e strutture murarie di epoca romana. «Complice la rimozione di una conduttura del gas – spiega Gilda Assenti, funzionario archeologo della Soprintendenza ABAP per le province di L’Aquila e Teramo – sono stati scoperti tre mosaici e strutture murarie con intonaco dipinto, di cui si aveva solo parziale notizia dai dati bibliografici e d’archivio. Le tre pavimentazioni sono riferibili ad altrettanti ambienti, in collegamento tra di loro e attribuibili a una domus di epoca romana. Nel dettaglio, si tratta di un tessellato bianco con motivo a stuoia (o a canestro), impreziosito da inserti di marmi policromi. Parte di questa pavimentazione era già stata intercettata nel 1963, pertanto la porzione ora individuata è la prosecuzione di quanto già visto sessant’anni fa. In collegamento con questo ambiente, grazie a una soglia lapidea, è un vano con pavimentazione a mosaico, solo parzialmente visibile: superato

l’ingresso, è presente un piccolo tappeto mosaicato a sfondo bianco con motivo vegetale stilizzato, delimitato da una fascia costituita da una doppia fila di tessere nere. La parte centrale del pavimento, invece, è composta da un ordito obliquo a tessere bianche, racchiuso in una doppia fascia bianca e nera. Questo pannello centrale è decorato da filari regolari costituiti dall’alternanza di inserti romboidali in pietra di colore nero e raggruppamenti di quattro tessere, a formare delle sorte di piccoli fiori. Da questo ambiente, tramite un ingresso laterale, si accede al terzo vano: il passaggio tra le due stanze è segnalato da un tappeto musivo, costituito da quattro riquadri a fondo nero che presentano, alternati e solo parzialmente conservati, i simboli della croce uncinata e del nodo di Salomone. La pavimentazione del terzo vano è sempre del tipo a mosaico, nei colori del bianco e del nero, con decorazione centrale costituita da una composizione a scacchiera e cornice formata da una doppia fascia e da una treccia a due capi. A completare le scoperte, una ricca presenza di intonaci dipinti policromi, in parte presenti in frammenti negli strati di

Immagini degli ambienti rinvenuti nel centro di Teramo, ornati da mosaici e intonaci dipinti e riferibili a una domus romana di probabile età augustea.

10 a r c h e o

riempimento, in parte ancora in opera. Allo stato attuale, è stato possibile pulire due lacerti di intonaco relativi alla porzione inferiore delle pareti: si tratta di pannelli a fondo nero, ripartiti da sottili linee bianche che disegnano riquadri centrali di forma rettangolare, all’interno dei quali sono inseriti motivi decorativi di carattere naturalistico. In un pannello si riconosce un cervo nell’atto di saltare, in un altro un uccello che, dopo aver allargato le ali, è in procinto di librarsi nell’aria. L’analisi della successione stratigrafica e la lettura di quanto rinvenuto sono l’occasione per una nuova riflessione sulla città romana e la sua articolazione, soprattutto per la fase tardo-repubblicana e augustea, a cui, a una prima analisi, sembra fare riferimento il complesso rinvenuto». Giampiero Galasso



FRONTE DEL PORTO a cura di Claudia Tempesta e Cristina Genovese

ERA D’AGOSTO... LE RECENTI INDAGINI DEL PROGETTO OSTIA POST SCRIPTUM SVELANO UN FRAMMENTO DEI FASTI OSTIENSES CHE TESTIMONIA LA CONSACRAZIONE DI UN IMPORTANTE MONUMENTO DI ROMA DA PARTE DI ADRIANO

I

recenti scavi condotti dal Parco archeologico di Ostia antica e dall’Università di Catania nell’ambito del progetto OPS-Ostia Post Scriptum hanno riguardato, oltre all’area in prossimità del Piazzale delle Corporazioni (Area A; vedi «Archeo» n. 464, ottobre 2023: on line su issuu.com), il settore del cosiddetto Foro di Porta Marina

(Area B). Situato subito all’esterno delle mura repubblicane, nei pressi della porta da cui prende convenzionalmente nome, il Foro di Porta Marina è una grande costruzione di forma rettangolare, porticata su tre lati. Sul lato opposto a quello di ingresso, si apre, sul fondo, un’aula absidata di funzione incerta, mentre a metà

dei due lati lunghi si trovano altrettante esedre rettangolari. Al centro della piazza si trova un basamento di forma quadrangolare, anch’esso di incerta interpretazione, forse il sostegno di statua o una fontana. L’area era stata già indagata nel 1940-41, in maniera estensiva ma superficiale, e quindi nel 1969-72, Il nuovo frammento dei Fasti Ostienses rinvenuto nell’area del cosiddetto Foro di Porta Marina (in basso) ricomposto con la lastra M della cronaca marmorea. Nella pagina accanto: ortofoto dell’area del Foro di Porta Marina al termine dello scavo 2022.

12 a r c h e o


attraverso saggi puntuali che portarono al recupero di diversi frammenti dei Fasti Ostienses, la cronaca marmorea che conserva preziose notizie sulla storia politico-istituzionale e monumentale di Roma e di Ostia e la cui redazione si ritiene fosse prerogativa del pontifex Volcani, massima autorità religiosa di Ostia. I dati emersi dalle indagini citate non hanno consentito di accertare la funzione del complesso, che è tuttora molto dibattuta. L’ipotesi piú accreditata è che si tratti di un luogo di culto all’aperto che, per la sua posizione extraurbana e la contiguità con il santuario della Bona Dea, oltre che per il rinvenimento di frammenti dei Fasti, si è proposto di mettere in relazione proprio con Vulcano, divinità tutelare della colonia, il cui tempio non è stato finora identificato. Obiettivo specifico della ripresa delle indagini in quest’area è stato quello di precisare la funzione e lo sviluppo diacronico del complesso, verificando la presenza di strutture sottostanti e precedenti a quelle attualmente visibili. Le prime

ricerche si sono pertanto concentrate nell’aula absidata e negli angoli nord e ovest del portico. I risultati si sono rivelati subito promettenti, in quanto lo scavo ha consentito sia di rinvenire due preziosi frammenti dei Fasti, sia di individuare una serie di strutture piú antiche della costruzione del Foro.

LE VASCHE E I FASTI Nel corso dell’ultima campagna è stato infatti possibile riconoscere una serie di vasche sovrapposte pertinenti a fasi diverse, verosimilmente da connettere a impianti di lavorazione, la cui esatta estensione e funzione sono tuttavia da chiarire. Tra le murature piú antiche, va certamente segnalato un contesto di grandi dimensioni, costituito da setti murari in opera reticolata riutilizzati in parte per la realizzazione delle vasche e obliterato poi quando fu costruito il portico del Foro. Il rinvenimento forse piú significativo è però quello dei due nuovi frammenti dei Fasti. Il primo di essi, che qui presentiamo,

conserva la parte iniziale di almeno 7 righe (il seguito a destra è perduto) e combacia perfettamente con un altro già noto a Ostia, pertinente alla lastra denominata convenzionalmente M e riferibile al quinquennio 125-130 d.C. Le informazioni che emergono dalla ricomposizione tra il nuovo frammento e la lastra M, incrociate con quanto sappiamo da altre fonti, sia letterarie, sia epigrafiche, numismatiche e di altro genere, gettano luce su fatti e avvenimenti accaduti a Roma nel 128 d.C. sotto il regno di Adriano. Dalla lettura dei frammenti si desume che il 1° gennaio del 128 Adriano assunse il titolo di pater patriae e la moglie Sabina quello di Augusta e che, verosimilmente proprio per celebrare l’assunzione di questi titoli, l’imperatore offrí al popolo un congiarium (CONGIAR DEDIT), forse in denaro; che il 10 aprile dello stesso anno (ante diem IIII IDVS APRIL) egli partí (PROFECTVS) per l’Africa; che tornato a Roma tra la seconda metà di luglio e gli inizi di agosto e prima di ripartire per Atene, Adriano consacrò (CONSECRAVIT) qualcosa, evidentemente un tempio, nell’Urbe. Potrebbe trattarsi del Pantheon o, piú probabilmente, del Tempio di Venere e Roma, della cui consacrazione sapremmo di conseguenza adesso la data esatta o quasi: la prima metà di agosto, se non proprio l’11 agosto (giorno dell’ascesa al trono di Adriano nel 117) del 128 d.C. A sostegno di questa ipotesi giocherebbero del resto i medaglioni di Severo Alessandro del 228 d.C. che, nel mostrare l’imperatore nell’atto di sacrificare davanti a un tempio con la legenda Romae Aeternae, potrebbero celebrare proprio il Tempio di Venere e Roma, a cento anni esatti dalla sua consacrazione. Alessandro D’Alessio e Luigi Maria Caliò

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A TUTTO CAMPO Andrea Terziani

ORO NERO IN VALDICHIANA VERO E PROPRIO PATRIMONIO DI ARCHEOLOGIA INDUSTRIALE, LE MINIERE DI LIGNITE DI MONTEFOLLONICO TESTIMONIANO UNA STORIA RECENTE, CHE HA LASCIATO UNA LABILE TRACCIA NEL PAESAGGIO CONTEMPORANEO E NELLA MEMORIA DELLE COMUNITÀ

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a coltivazione di alcuni giacimenti di lignite situati in prossimità di Montefollonico, nel Comune di Torrita di Siena, ha favorito lo sviluppo industriale del centro agricolo della Valdichiana tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. La lignite, infatti, è un carbone fossile a basso potere calorifico, utilizzato come combustibile e presente in quantità abbondanti in varie località toscane: un fattore che ha condotto il Comune di Torrita ad affacciarsi timidamente sullo scenario industriale europeo, quando in altri Paesi l’impiego di simili risorse era già un’abitudine corrente.

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La presenza di affioramenti di lignite a Montefollonico era nota sin dal Settecento: chiamata allora legno sasso, veniva ampiamente utilizzata dagli agricoltori per alimentare i forni domestici. La prima segnalazione di una cava di lignite risale al 1877 presso il Podere Orbigliano: nel 1884 sono entrati in funzione gli impianti estrattivi di Renellone e nel 1892 quelli di Casanova. Il combustibile estratto veniva in massima parte esportato, mentre una quantità minima si utilizzava per azionare tre opifici locali: una fornace da mattoni e da calce, un mulino a vapore e una vetreria. In seguito, la

lignite iniziò a essere sfruttata in modo massiccio dall’industria bellica, in occasione dell’impresa coloniale in Libia e poi durante la prima guerra mondiale. Con l’arrivo dell’energia elettrica fu costruita una teleferica, in modo da convogliare piú agevolmente la lignite alla stazione ferroviaria di Torrita. Cessò cosí il trasporto del materiale estratto coi barrocci, i carri trainati da muli. Nonostante la crisi economica degli anni Trenta, le miniere continuarono a lavorare, seppur a ritmo ridotto, fino a registrare un nuovo picco estrattivo con lo scoppio della seconda guerra mondiale. Terminato il


conflitto, l’attività mineraria di Montefollonico si è arrestata per il progressivo esaurimento dei filoni di carbone fossile e per l’introduzione sul mercato degli olii combustibili. Soltanto nel 1956, con la crisi del Canale di Suez, c’è stato un tentativo di riattivare le miniere, per l’urgenza di reperire fonti energetiche alternative a basso costo: il progetto è fallito per la scarsa resa del giacimento e la cattiva qualità del minerale, alterata da massicce infiltrazioni d’acqua.

CALDO, BUIO E POCA ARIA L’estrazione della lignite avveniva a colpi di piccone e maglio, con escavazioni condotte a cielo aperto, oppure lungo gallerie armate in legno, che scendevano a 100-200 m di profondità. Gli operai si trovavano quindi a lavorare nel sottosuolo, in condizioni di calore eccessivo, in assenza di luce e con poco ossigeno: a questi problemi si ovviò con la costruzione di condotte di aerazione, di impianti per il deflusso delle acque e con la dotazione individuale di lampade ad acetilene. Il racconto di Luciano Bianciardi e Carlo Cassola I minatori della Maremma (1956), dedicato ai minatori di Ribolla, è molto esplicito sulla fatica fisica e sui pericoli del lavoro in miniera: il mestiere era però ben remunerato e ciò lo rendeva preferibile al lavoro nei campi, per il fatto che garantiva un tenore di vita piú elevato per le famiglie. La cessazione delle attività estrattive ha comportato purtroppo la riconversione forzata di un gran numero di lavoratori: i minatori di

Esemplari di ligniti e mattonelle di carbone per usi domestici e industriali. Siena, Accademia dei Fisiocritici, Museo di Storia Naturale. Nella pagina accanto, da sinistra: il cantiere della miniera di Renellone nel 1895 e la teleferica per il trasporto della lignite dalla miniera di Renellone alla stazione ferroviaria di Torrita di Siena. In basso: lignite xiloide friabile e lignite schistosa. Siena, Accademia dei Fisiocritici, Museo di Storia Naturale. Montefollonico furono infatti riassorbiti nelle campagne o nelle fornaci di mattoni di Torrita, che rappresentavano un altro settore trainante dell’economia locale.

RECUPERARE LA MEMORIA Di tale significativo patrimonio industriale sopravvivono oggi i vecchi ingressi alle gallerie, ostruiti e ormai sepolti dalla vegetazione, cosí come i capannoni destinati alla cernita e deposito del combustibile in attesa del trasporto. Il toponimo Le Miniere indica una località nota agli abitanti del luogo: soltanto i piú anziani conservano, tuttavia, un ricordo nitido della vocazione originaria dei siti. A parte i preziosi

lavori di recupero della memoria storica delle miniere di Montefollonico, intrapresi dal gruppo di ricerca coordinato da Mariano Fresta e poi proseguiti da Neda Mechini e Annamaria Ricco, non vi sono attualmente progetti di ripristino delle strutture e di una loro possibile valorizzazione. La salvaguardia di queste evidenze andrebbe attuata secondo le buone pratiche proposte dall’Associazione Italiana per il Patrimonio Archeologico Industriale (AIPAI): i riferimenti toscani sono il progetto di riqualificazione del paesaggio industriale del Valdarno e la costituzione del MINE-Museo delle Miniere e del Territorio di Cavriglia, che documenta la storia dell’estrazione della lignite con il fine di consegnarne il ricordo alle nuove generazioni. Si tratta di un modello virtuoso, che potrebbe essere applicato anche alle emergenze industriali della Valdichiana. (andrea.terziani@phd.unipi.it)

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n otiz iario

MUSEI Valle d’Aosta

LE MOLTE VITE DI SAINT-MARTIN-DE-CORLÉANS

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meno di dieci anni dalla sua prima inaugurazione (vedi «Archeo» n. 377, luglio 2016; on line su issuu.com), l’area megalitica di Saint-Martin-de-Corléans, ad Aosta, svela la sua nuova veste, al termine di un ampio intervento di rinnovamento e riallestimento. Il sito, lo ricordiamo, fu scoperto nel 1969 e poi indagato con campagne di scavo succedutesi fino al 1991. Le ricerche interessarono un’area di 10 000 mq circa e hanno restituito un palinsesto straordinariamente ricco e articolato, nel quale – tra la fine del VI e la metà del II millennio a.C. – si succedettero e in alcuni casi coesistettero: un’aratura verosimilmente rituale; lo scavo di pozzi con funzioni anch’esse rituali; la posa in opera di pali lignei aventi forse un valore totemico; l’innalzamento di oltre cinquanta stele antropomorfe in pietra; lo sfruttamento del sito a scopo sepolcrale, con la costruzione di tombe a dolmen e poi di altre sepolture megalitiche. Una sequenza a cui fecero quindi da corollario l’impianto di nuove strutture funerarie nel corso dell’età del Ferro e in epoca romana e, nel Medioevo, la costruzione della chiesa romanica di Saint-Martin.

Il nuovo allestimento si presenta a partire dall’ingresso, che è stato spostato all’angolo tra corso SaintMartin-de-Corléans e via Italo Mus. Un corridoio, la Rampa del Tempo, permette di compiere un viaggio a ritroso nei secoli arricchito da elementi tridimensionali: si scende fino a 6000 anni fa, a 6 m di profondità. La vista si spalanca quindi sull’area coperta, una grande «navata» che custodisce le strutture preistoriche. Nel piano seminterrato si ammirano i risultati dello scavo avviato nel 1969 e, a fianco, si apre una «Sala immersiva», sulle cui pareti curve sono proiettate delle immagini che illustrano con chiarezza la successione delle fasi archeologiche. Allo stesso livello si trova la «Sala civica» attrezzata per ospitare conferenze e incontri. L’itinerario prosegue soffermandosi su pali di legno e lastre litiche, fino ad arrivare nella «Grande Sala delle stele», con decine di sculture antropomorfe di pietra che riproducono uomini e donne con abbigliamento, ornamenti, armi. Gli scavi hanno permesso di individuarne 46, ma si stima – sulla base dei frammenti comunque riconducibili a questo genere di

In questa pagina: immagini del nuovo allestimento dell’area megalitica di Saint-Martin-de-Corléans, ad Aosta, che conserva testimonianze di una frequentazione plurimillenaria.

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ROMA

A sinistra: il totem collocato all’ingresso dell’area megalitica di Aosta. In basso: un particolare dell’allestimento della sezione dedicata all’età romana, al tempo di Augusta Praetoria. manufatti – che fossero in tutto piú di 50. I monoliti avevano dimensioni comprese fra 1,7 e 3 m e costituiscono uno dei maggiori motivi di interesse del sito. Il percorso attraversa poi la fase di transizione tra età del Rame ed età del Bronzo, sfociando nella sala dedicata alla protostoria: il periodo in cui l’area diventa sede di attività agricole, oltre che funerarie. Il simbolo di questa trasformazione è il grande tumulo funerario che per la prima volta si può ammirare con il suo piano di calpestio originale. Salendo di livello entriamo nell’epoca romana. Una prima

sezione è dedicata all’insediamento rustico: è l’occasione per scoprire temi e reperti legati alla vita quotidiana ai tempi di Augusta Praetoria, l’antica Aosta. Una seconda sezione permette di visitare le necropoli scavate nel corso degli anni lungo la strada, sotto la chiesa parrocchiale e l’asilo: quasi 20 tombe caratterizzate da ricchi corredi, che permettono di ricostruire pratiche e rituali funerari. Conclude il percorso la sezione medievale: in quest’epoca l’area di Saint-Martin-de-Corléans presentava strutture che gravitavano intorno alla piccola chiesa, citata in una bolla papale del 1176. (red.)

DOVE E QUANDO Area Megalitica Aosta, corso Saint-Martin-de Corléans 258 Orario martedí-domenica, 10,00-18,00; chiuso il lunedí, il 25 dicembre e il 1°gennaio Info tel. 0165 552420; e-mail: beniculturali@regione.vda.it; https://valledaostaheritage.com/ area-megalitica

Archeologia dell’Etruria e della Sardegna A un anno dalla prematura scomparsa, l’etruscologo Marco Rendeli (1960-2022) viene ricordato con l’incontro di studi «Dal Tirreno al Mare Sardo», in programma a Roma, venerdí 10 e sabato 11 novembre. L’incontro si articola in due sessioni, dedicate all’archeologia dell’Etruria e della Sardegna e mirate ad approfondire temi di ricerca cari allo studioso romano, il cui ultimo incarico, in un lungo e prestigioso percorso professionale, è stato quello di professore associato di etruscologia e antichità italiche presso l’Università degli Studi di Sassari. Nella prima giornata i lavori si svolgeranno presso l’Odeion del Museo dell’Arte Classica della Sapienza Università di Roma (piazzale Aldo Moro, 5), mentre il giorno successivo saranno ospitati dall’Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte in Palazzo Venezia (piazza San Marco, 49). L’incontro si svolge con il patrocinio dell’Istituto Nazionale di Studi Etruschi ed Italici e dell’Università degli Studi di Sassari. Hanno aderito all’iniziativa studiosi italiani e stranieri, primi fra tutti molti amici e colleghi di Marco Rendeli, i cui contributi confluiranno in un volume, che verrà pubblicato nella collana della Biblioteca di Studi Etruschi dell’Istituto Nazionale di Studi Etruschi ed Italici.

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PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri

UN TUFFO NELLA STORIA INTORNO ALLA METÀ DEL V SECOLO A.C. UNA NAVE CARICA DI ANFORE SI INABISSA NELLE ACQUE DI ALONISSOS, ISOLA DELL’ARCIPELAGO DELLE SPORADI. OLTRE A ESSERE STATO INDAGATO A PIÚ RIPRESE, IL SUO RELITTO È ORA AL CENTRO DI UN INNOVATIVO PROGETTO DI FRUIZIONE

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i siamo immersi nelle acque cristalline di Alonissos, la piú remota delle Sporadi, nell’Egeo settentrionale, all’interno del parco marino protetto piú grande d’Europa, per visitare un relitto che giace sul fondale di fronte all’isolotto di Peristera, con il suo carico di migliaia di anfore ancora intatto. Non si tratta soltanto di una delle piú grandi navi onerarie del V secolo a.C. mai scoperte nel Mediterraneo, ma anche del primo sito archeologico sommerso visitabile, in Grecia, con immersioni subacquee guidate, nonché, in maniera virtuale,

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attraverso le installazioni 3D realizzate nel Museo della Chora di Alonissos. Ne parliamo con Salvatore Medaglia, ricercatore di topografia antica e docente di metodologia della ricerca archeologica presso il Dipartimento di Culture, Educazione e Società dell’Università della Calabria, che è stato membro del team italiano – composto da archeologi e ingegneri – che ha eseguito i rilievi subacquei e coordinato la realizzazione del museo multimediale del relitto, nell’ambito del progetto Interreg-Med BlueMed.

Salvatore Medaglia, ricercatore e docente presso l’Università della Calabria, membro del team che ha partecipato alle ricerche sul relitto di Alonissos e agli interventi attuati per la sua valorizzazione e fruizione. In basso: le acque antistanti la spiaggia di Kokkinokastro, sull’isola di Alonissos, teatro del ritrovamento del relitto di una nave greca naufragata nel V sec. a.C. Meta, secondo la tradizione, di una colonizzazione in epoca minoica (con il mitico eroe cretese Stafilo) e poi micenea (con l’insediamento di Kokkinokastro), Alonissos era nota in età classica con il nome di Ikos. Sull’isola, precisamente nella baia di Tsoukalia, si producevano anfore dello stesso tipo di quelle ancora oggi visibili a perdita d’occhio sul fondale marino, laddove è affondato il relitto… Professor Medaglia, ci vuole raccontare? «Il relitto si trova nel canale tra l’isola di Alonissos e quella, disabitata, di Peristera, lungo una rotta molto battuta, nel V secolo a.C., dalle navi che percorrevano in un senso e nell’altro la rotta del Nord Egeo. Venne scoperto casualmente nel 1985 da un pescatore locale, Dimitris Mavrikis, e fu oggetto di indagini da parte dell’Ephorate of Underwater


Antiquities, una sorta di Soprintendenza per la protezione delle antichità sottomarine, sotto la direzione di Elpida Hadjidaki, con scavi archeologici effettuati nel 1992, nel 1993, nel 1999 e nel 2000. Il giacimento archeologico è composto da un cumulo di anfore in ottimo stato di conservazione di circa 25 x 12 m, adagiato sul fondale a una profondità compresa tra 22 e 28 m. Il carico di anfore era disposto su tre o quattro strati. La grande “trincea” ancora oggi visibile nella catasta dei contenitori da trasporto è quanto rimane degli importanti saggi di scavo effettuati dalla collega greca». Si favoleggia che, nell’antichità, l’isola di Alonissos abbia visto il passaggio degli Argonauti, nel loro viaggio in Colchide alla ricerca del Vello d’Oro, e di eroi come Peleo, padre di Achille, che in tarda età micenea avrebbe scelto di trascorrere sull’isola il resto della sua vita, nonché delle navi achee dirette a Troia. Che cosa dicono, invece, gli scavi archeologici della nave naufragata tra Alonissos e Peristera nel V secolo a.C.? «Calcolando la densità delle anfore rinvenute nei saggi effettuati da Elpida Hadjidaki, è stato stimato che il carico nel suo complesso ammontava a circa 4200 anfore e dunque a 126 tonnellate, se si

considera il peso medio dei singoli contenitori pieni di liquido: un dato di notevole interesse, se pensiamo che la nave è naufragata tra il 420 e il 400 a.C. Si tratta pertanto di uno dei carichi piú grandi che conosciamo per l’epoca, che è precursore di quelli appartenenti alle grandi navi commerciali di età ellenistica e romana. Nella pubblicazione dei risultati di scavo, l’archeologa greca ha sottolineato come si tratti della “prima testimonianza archeologica dell’esistenza nel Mediterraneo di V secolo a.C. di una nave oneraria di oltre 100 tonnellate”. Infatti, spiega, il relitto di Alonissos trasportava 126 tonnellate e misura circa 25 m di lunghezza, mentre “le navi di epoca classica precedentemente scoperte in Grecia, a Cipro, in Francia, in Italia e in Israele non superano mai i 17 m di lunghezza e i 4 di larghezza”». La nave di Alonissos, insomma, ha dimensioni non comuni. Che tipo di vino trasportava, in cosí grande quantità? «Il carico principale era costituito da vini pregiati dell’Egeo settentrionale, stipati all’interno di due tipologie di anfore appartenenti agli atelier di Mende, sulla costa della Calcidica, e di Peparetos (l’attuale Skopelos, un’isola vicina delle Sporadi). Entrambi i centri

In alto, a sinistra e qui sopra: particolari dell’allestimento del Museo della Chora di Alonissos. In alto, a destra: una selezione delle anfore facenti parte del carico imbarcato dalla nave naufragata ad Alonissos esposta nel museo, a confronto con una foto che ne documenta la giacitura originaria. erano celebri, nell’antichità, per la qualità del loro vino, che era esportato in larga scala nel Mediterraneo e fino al Mar Nero. A giudicare da quanto è emerso dai saggi di scavo, sembra che il relitto trasportasse anche un carico secondario, composto da ceramica a vernice nera di produzione attica. Tra i materiali recuperati nel corso degli scavi vi sono anche una situla e un mestolo di bronzo. Per quanto concerne le dotazioni di bordo, è stata rinvenuta la contromarra di un’ancora in piombo, a tre fori e, proprio alla base della catasta delle

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In alto: visitatori del Museo della Chora di Alonissos sperimentano l’installazione che, grazie al 3D e alla realtà virtuale immersiva, permette di «nuotare» sul relitto di Alonissos. A destra: il carico di anfore del relitto in un plastico in scala e, in basso, in una delle immagini del modello 3D che offre una riproduzione del tutto fedele del contesto originale. anfore, alcune pietre in calcare che, estranee alla litologia del fondale, sono state attribuite alla zavorra, di norma utilizzata per conferire alla nave maggiore stabilità. Questi reperti, tuttavia, corrispondono a una minima parte del deposito archeologico, che è quasi interamente ancora da indagare». Sappiamo qualcosa del motivo per cui la nave affondò nelle acque di fronte ad Alonissos? «Gli scavi subacquei hanno messo in luce uno strato carbonioso, forse riferibile a un incendio di bordo,

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che potrebbe aver innescato l’affondamento. Ma si tratta di ipotesi: le vere cause del naufragio probabilmente non le conosceremo mai. Alcuni elementi lignei dello scafo sono stati sottoposti ad analisi al Carbonio 14 per chiarirne la datazione». E quali risultati sono scaturiti da queste analisi? «Il 14C ha restituito dati interessanti: il taglio del legname usato per la costruzione dello scafo si data in un intervallo di tempo compreso tra il 480 e il 420 a.C. Se incrociamo questi dati con quelli relativi alla datazione delle ceramiche, inquadrabili tra il 420 e il 400 a.C., deduciamo che lo scafo allorché affondò non doveva essere stato varato da tanto tempo». Quale rotta doveva seguire la nave affondata tra Alonissos e Peristera? «Probabilmente, dopo aver caricato parte del suo carico a Mende, nella penisola occidentale della Calcidica, la nave fece un’ulteriore sosta a Skopelos, per stivare le altre anfore vinarie. È probabile che il punto del naufragio indichi che la nave stesse navigando in direzione del vicino porto di Ikos-Alonissos o che da questo fosse appena ripartita, anche perché sembra che tra le anfore vinarie del tipo di Peparetos (Skopelos) vi fossero contenitori prodotti ad Alonissos. Il canale in cui il relitto è stato individuato è un tratto marino nel

quale, di norma, le navi cercavano riparo in caso di maltempo. Il settore marino delle Sporadi, e in genere dell’Egeo, per molti mesi all’anno, soprattutto nella bella stagione, è battuto dal meltemi, un vento che soffia impetuoso da nord e che talvolta può generare burrasche. A ogni modo la destinazione finale del carico è sconosciuta, anche se possiamo cautamente supporre che la nave navigasse in direzione sud». Un altro aspetto straordinario di questo relitto è che si tratta del primo in cui il ministero greco della cultura ha istituito un percorso di viste subacquee, non è vero? «Sí. Il relitto di Peristera non è importante solo dal punto di vista storico-archeologico. Assume anche un valore simbolico per la Grecia, in quanto è il primo sito sommerso a essere stato aperto al turismo archeologico subacqueo. Per rendere il sito visitabile è stato necessario un apposito percorso


A COLLOQUIO CON FABIO BRUNO

Tecnologia virtuale

A raccontarci come è stato realizzato il modello virtuale del relitto visibile nel museo della Chora di Alonissos, che corrisponde perfettamente alla realtà del giacimento archeologico sommerso, è Fabio Bruno, docente di ingegneria meccanica presso l’Università della Calabria, responsabile scientifico dello sviluppo delle tecnologie del progetto BlueMed per l’Università della Calabria e partner responsabile dell’allestimento del museo del relitto, realizzato con l’Eforato per le antichità subacquee della Grecia e la regione della Tessaglia. Professor Bruno, oltre al rilievo fotogrammetrico realizzato dagli archeosub, quali altre tecnologie concorrono alla riproduzione virtuale del sito archeologico sommerso? «Il fondale è stato riprodotto con una tecnologia sviluppata negli ultimi anni dall’Università della Calabria, che fonde modelli ottici (ovvero i rilievi archeologici realizzati con migliaia di foto scattate dai sub), modelli acustici (ottenuti con sonar multi fascio, che riproducono la mappa orografica del fondale grazie alle onde acustiche) e modelli aerei, realizzati con droni per rendere il paesaggio fuori dall’acqua, come l’isolotto di Peristera. Sopra la mappatura multibeam del sonar viene “agganciato” il rilievo archeologico del cumulo di anfore, riprodotte a grandissima precisione, e poi quello aereo. I tre modelli vengono fusi in un unico scenario virtuale, assolutamente realistico e suggestivo che, caschetto in testa, può essere visitato come in una vera immersione, iniziando dalla superficie, per scendere in profondità fino al relitto, che man mano si svela in tutta la sua magnificenza». Il pregio di queste tecnologie è quello di rendere accessibile un sito archeologico che, altrimenti, sarebbe visitabile solo dai sub… ma anche di monitorarlo, non è vero? «Senza la realtà virtuale, sarebbero pochissimi i turisti a poter visitare il relitto: solo i sub con brevetto di II livello. Il modello 3D, inoltre, è importante per effettuare il monitoraggio accurato e periodico delle anfore. Ogni anno i funzionari dell’Eforato per le antichità subacquee ispezionano il relitto per controllare che non vi siano stati furti, utilizzando la mappa da noi realizzata, dove sono indicate le anfore inamovibili per via delle concrezioni e quelle, invece, mobili, che sono oggetto di maggiore attenzione poiché potrebbero essere sottratte piú facilmente». Per controllare che i reperti sommersi non vengano trafugati, ci sono anche le telecamere sommerse. Funzionano? «Per ora non sono stati registrati furti. Anche perché la videosorveglianza è attiva h24 e visibile in diretta dalle autorità, oltre che dai visitatori, on line, sul sito nous.com.gr».

normativo. In Grecia, infatti, le direttive sul patrimonio archeologico subacqueo sono molto restrittive, al fine di

In questo modo si coniuga lo studio dei resti archeologici sommersi con la tutela archeologica e, al tempo stesso, con la divulgazione. Come attirare, inoltre, il pubblico? «Per chi non ha la possibilità di provare l’applicazione virtuale fruibile nel museo di Alonissos, è disponibile il gioco Dive in the past, sviluppato dalla 3D Research s.r.l. e scaricabile gratuitamente per smartphone e tablet sia Android che iOS. Questo videogioco permette di visitare virtualmente quattro siti archeologici subacquei fedelmente ricostruiti in 3D, fra cui Peristera e Baia, in Italia. Oltre a immergersi virtualmente, il giocatore ha la possibilità di vivere un’avventura risolvendo enigmi basati su una storia verosimile ambientata nel passato, cosí da raccontare i siti in maniera accattivante. Si tratta di un ulteriore passaggio nella valorizzazione del relitto di Peristera e, piú in generale, del patrimonio culturale subacqueo del Mediterraneo. Il progetto è proseguito in BlueMed Plus, terminato nel 2022, di cui io sono stato responsabile scientifico. Grazie alla collaborazione di enti come la Soprintendenza Nazionale per il Patrimonio Culturale Subacqueo, abbiamo replicato il modello di protezione e valorizzazione dei siti archeologici sommersi già sperimentato ad Alonissos, Baia e Capo Rizzuto, in regioni in cui il turismo culturale subacqueo non è ancora sviluppato: Vlora in Albania e Budva in Montenegro. Inoltre, insieme alla Regione Puglia e all’Università del Salento, abbiamo studiato come potenziare quanto già fatto nei siti di Torre Santa Sabina, Porto Cesareo e San Pietro in Bevagna». Come si garantisce l’affidabilità scientifica del modello? «I manufatti archeologici, prima di essere rilevati, vengono sottoposti a interventi di pulitura meccanica al fine di mettere in luce i materiali originali, altrimenti coperti da organismi marini, sabbia ed elementi del fondale: il modello 3D fotografa il sito nelle migliori condizioni di visibilità e ha perciò un’altissima attendibilità scientifica. Inoltre, vengono rilevate le coordinate geografiche di una serie di punti di controllo, cosí da poter geo-referenziare i dati acquisiti con una accuratezza molto elevata. Un tale modello 3D dà agli archeologi una visione di insieme del relitto e della sua forma che altrimenti non sarebbe possibile, un colpo d’occhio completo del giacimento di anfore che non si può avere immergendosi realmente, a causa della torbidità dell’acqua. Il modello 3D può, infatti, essere utilizzato per creare viste e sezioni del giacimento di anfore che lo rappresentano come se fosse all’asciutto, diventando uno strumento importante per studiare come si è modificato il sito dal naufragio a oggi».

scongiurare trafugamenti di reperti e proteggere al meglio le aree archeologiche sommerse e semisommerse. Adesso, sul relitto di

Peristera ci si può immergere, ma, beninteso, facendo ricorso alle guide autorizzate dei diving center dell’isola di Alonissos. Si tratta di

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un’importante novità per quanto riguarda la politica di valorizzazione del patrimonio archeologico subacqueo del Mediterraneo, soprattutto considerando l’enorme potenziale che la Grecia può offrire in termini numerici e qualitativi. Sebbene siano stati aperti alla visita anche altri siti sommersi in Grecia, nell’ambito di BlueMed, quello di Peristera è senza dubbio la punta di diamante del progetto, tanto da essersi meritato due emissioni di francobolli delle poste elleniche nel 2019. Tra i siti archeologici sommersi dove noi Italiani abbiamo lavorato ai fini della valorizzazione, vanno ricordati quelli del golfo Pagaseo, in Tessaglia: a Glaros vi è un vero e proprio cimitero di relitti, oltre una decina di naufragi avvenuti tra l’età ellenistica e l’inizio del XX secolo; nei pressi dell’isoletta di Kikinthos si possono invece ammirare, tra i 3 e gli 11 m di profondità, i resti di un relitto che trasportava pithoi e anfore di età bizantina (XII e XIII secolo d.C.); a Telegraphos giacciono invece i resti di un relitto di età tardo-romana (IV secolo d.C.) con un carico di anfore provenienti da Corinto e Samo». Chi non possa o non voglia immergersi nelle acque di Alonissos, può ammirare il relitto dal museo sull’antica Chora dell’isola, grazie alle installazioni 3D e alle applicazioni di realtà virtuale immersiva realizzate dal Dipartimento di Ingegneria Meccanica, Energetica e Gestionale dell’Università della Calabria, che permettono a ogni visitatore di

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A sinistra: un frame del gioco Dive in the past, realizzato per permettere di «esplorare» il relitto di Alonissos. In alto: un operatore impegnato nella documentazione del carico di anfore. «nuotare» sul relitto, in maniera virtuale, come fosse sott’acqua… «Il Museo della Chora, battezzato Knowledge Awareness Center, di Peristera, è stato realizzato nell’ambito del progetto BlueMed, finanziato dalla Comunità Europea e coordinato dalla Regione della Tessaglia con partner croati, ciprioti, spagnoli, greci e italiani (Istituto Centrale per il Restauro e Università della Calabria), per testare buone pratiche che supportino lo sviluppo del turismo sostenibile nelle aree costiere e insulari del Mediterraneo, puntando alla valorizzazione del patrimonio archeologico sottomarino attraverso soluzioni in situ. Tra i siti pilota ci sono anche località croate e italiane, tra cui Baia, in Campania, e l’area marina protetta di Capo Rizzuto, in Calabria. Per ogni sito, a partire dal relitto di Peristera, abbiamo realizzato un’accurata documentazione, che conta su una fotogrammetria 3D del relitto, ma anche su una mappatura del fondale, sempre 3D, mediante sonar multibeam con veicoli autonomi di superficie, per riprodurre al meglio le aree marine che circondano i siti sommersi». Come avete fatto a riprodurre il relitto in maniera del tutto reale? «C’è tanta tecnologia, un lavoro di mappatura del deposito archeologico raffinato. Attraverso le immersioni abbiamo realizzato la

fotogrammetria 3D del relitto: ben 1044 immagini ad alta risoluzione scattate con la macchina fotografica scafandrata: cosí è stato creato un modello 3D composto da 20 milioni di triangoli, per rendere la rappresentazione quanto piú accurata e realistica possibile. Questo modello è stato fuso poi con i rilievi realizzati da strumenti acustici (sonar) e aerei (droni). Tutto appare reale, come se ci si immergesse: la luce sottomarina, la sospensione dell’acqua, la vegetazione, la fauna e la flora marina. In pratica, si nuota sopra il relitto, tra anfore, alghe, coralli, murene, castagnole e altri pesci che realmente colonizzano la catasta delle anfore. Si tratta di un progetto volto alla sostenibilità, in cui viene studiato e tutelato non solo il deposito archeologico sommerso, ma anche l’habitat naturale di cui fa parte, in ossequio a quanto vuole la convenzione UNESCO per la protezione del patrimonio culturale subacqueo. Non a caso, parte dello staff che ha lavorato nei siti subacquei era composto da biologi marini dell’Università di Cipro, che hanno studiato la biocenosi del sito. I risultati delle indagini sono importantissimi per evitare che le visite dei sub abbiano effetti impattanti sui reperti archeologici, nonché per avere una stima della densità e della qualità delle colonizzazioni biologiche e di un loro eventuale danno al relitto».



n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

MORITURI TE SALUTANT... ...è una delle piú note espressioni latine 1 2 attribuita ai gladiatori dell’antica Roma, ma 3 che, in realtà, non sarebbe mai stata proferita in alcuna arena o anfiteatro... Questa e altre curiosità emergono dallo Speciale di questo numero, che prende spunto dalla mostra «Gladiatori nell’Arena. Tra Colosseo e Ludus 4 5 Magnus» allestita nel Colosseo (vedi alle pp. 82-105). Dal nostro canto documentiamo con materiale filatelico alcuni degli innumerevoli riferimenti all’articolo. La storia dei combattimenti tra gladiatori comincia nel IV secolo a.C. in area meridionale, forse in Campania (1); essa si sostituí ai sacrifici umani in onore 6 7 dei defunti, soprattutto di alto lignaggio, in quanto quella pratica venne considerata «crudele». A Paestum (2) sono state trovate tombe del IV secolo a.C. affrescate con corse di bighe, scontri tra uomini armati e incontri di pugilato (3). A Roma i primi spettacoli furono organizzati 8 9 10 nel 264 a.C. al Foro Boario e poi trasferiti al Foro Romano (4) fino ad arrivare all’Anfiteatro Flavio, come è oggi e come era nell’85 d.C. (5). Lo spettacolo era molto richiesto anche nel resto dell’impero, tanto che arene e anfiteatri furono costruiti un po’ ovunque come ad Arles in Francia (6), Merida in Spagna (7) o 13 Uthina in Tunisia (8). Ma veniamo ora al «gladiatore», cominciando da questa cartolina del 1936 che compendia un po’ di tutto: armi, armatura, 11 12 14 elmo, il Colosseo e il pubblico (9). Poi ancora l’elmo in quest’annullo di Bulgaria (10), il gladio (11) e lo scudo rotondo (12) usati da Russell Crowe che interpreta il gladiatore Massimo Meridio nell’omonimo film. I gladiatori erano generalmente prigionieri di guerra ma anche liberti o uomini liberi e venivano classificati a seconda delle armi e delle attrezzature che usavano, per esempio il gladio o la lancia o la rete, ma anche per il tipo di combattimento che affrontavano se tra gladiatori (13) 15 o contro le belve. Non si può terminare senza ricordare il piú famoso gladiatore di tutti i tempi: Spartaco (14). Nato 16 nel 109 a.C. a Sandanski in Tracia (l’odierna Bulgaria ove gli è stata eretta una statua, 15) e IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere arruolatosi nell’esercito romano, presto disertò, alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai ma fu poi catturato e reso schiavo. Fuggito con seguenti indirizzi: altri schiavi combatté contro Roma la III guerra Segreteria c/o Luciano Calenda servile, mettendo in serie difficoltà la Sergio De Benedictis C.P. 17037 - Grottarossa strapotenza militare dei Romani: morí nel 71 a.C., Corso Cavour, 60 - 70121 Bari 00189 Roma forse nella Valle del Sele. Il foglietto di Ucraina segreteria@cift.club lcalenda@yahoo.it (16) ben compendia la sua epopea! oppure www.cift.it

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CALENDARIO

Italia ROMA Imago Augusti

Due nuovi ritratti di Augusto da Roma e Isernia Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali fino al 26.11.23

Gli Dei ritornano

I bronzi di San Casciano Palazzo del Quirinale fino al 22.12.23

Caere

Storie di dispersione e di recuperi Museo delle Antichità Etrusche e Italiche, «Sapienza» Università di Roma fino al 28.02.24

Spina etrusca a Villa Giulia

Un grande porto del Mediterraneo Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia fino al 07.04.24 (dal 10.11.23)

ASCEA (SALERNO) Elea: la rinascita Parco Archeologico di Velia fino al 30.04.24

BRESCIA Luigi Basiletti e l’Antico

Brescia, palazzo Tosio-Ateneo di Brescia fino al 03.12.23

Il Pugile e la Vittoria

Brixia. Parco archeologico di Brescia romana fino al 26.11.23

Gladiatori nell’Arena

Tra Colosseo e Ludus Magnus Colosseo fino al 07.01.24

CANINO (VITERBO) La «prima» Vulci

All’origine della grande città etrusca Museo Archeologico Nazionale di Vulci fino al 31.12.23

ISCHIA DI CASTRO Il ritorno della biga

I carri in bronzo etruschi di Castro, Vulci e Tarquinia Museo Civico «Pietro e Turiddo Lotti» fino al 31.12.23

MILANO Tesori etruschi

La collezione Castellani tra storia e moda Fondazione Luigi Rovati fino al 03.03.24

L’Amato di Iside

Nerone, la Domus Aurea e l’Egitto Domus Aurea fino al 14.01.24

Le vie dell’acqua a Mediolanum Civico Museo Archeologico fino al 31.03.24 26 a r c h e o


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

MODENA DeVoti Etruschi

La riscoperta della raccolta di Veio del Museo Civico Museo Civico fino al 17.12.23

PORTICI (NAPOLI) Materia

Il legno che non bruciò ad Ercolano Reggia di Portici fino al 31.12.23

NANTES Gengis Khan

Come i Mongoli hanno cambiato il mondo Château des ducs de Bretagne Musée d’histoire de Nantes fino al 05.05.24

SAINT-GERMAIN-EN-LAYE Terre del Nilo L’arte dei vasai prima dei faraoni Musée d’Archéologie nationale fino all’08.01.24

Germania BERLINO Derubate-Saccheggiate-Salvate (?) Le tombe di Qubbet el-Hawa Staatliche Museen, Neues Museum fino al 10.03.24

RIO NELL’ELBA Gladiatori Museo Archeologico del Distretto Minerario fino al 01.11.24

SESTO FIORENTINO Archeologia svelata a Sesto Fiorentino Momenti di vita nella piana prima, durante e dopo gli Etruschi Biblioteca Ernesto Ragionieri fino al 31.07.24

TORINO Trad u/i zioni d’Eurasia

Frontiere liquide e mondi in connessione. Duemila anni di cultura visiva e materiale tra Mediterraneo e Asia Orientale MAO-Museo d’Arte Orientale fino all’01.09.24

VIGEVANO La Collezione Strada

Quasi 30 secoli di storia in piú di 260 reperti Museo Archeologico Nazionale della Lomellina fino al 04.12.23

Paesi Bassi LEIDA L’anno Mille

I Paesi Bassi alla metà del Medioevo Rijksmuseum van Oudheden fino al 17.03.24

Regno Unito LONDRA Dalla Birmania a Myanmar British Museum fino all’11.02.24

Stati Uniti NEW YORK L’Africa e Bisanzio

The Metropolitan Museum of Art fino al 03.03.24 (dal 19.11.23)

Francia PARIGI Ritorno dall’Asia

Henri Cernuschi, un collezionista ai tempi del giapponismo Musée Cernuschi fino al 04.02.24 a r c h e o 27


SCAVI • ISRAELE

ABRAMO A BET GUVRIN NUOVE INDAGINI SULLE PRIME

COMUNITÀ CRISTIANE IN TERRA SANTA INTORNO ALLE ROVINE DI MARESHA, VILLAGGIO DELL’ANTICA IDUMEA, SI ESTENDE UN VASTO MONDO SOTTERRANEO COMPOSTO DA MIGLIAIA DI GROTTE SCAVATE NELLA PIETRA CALCAREA. SIAMO NEL PARCO ARCHEOLOGICO DI BET GUVRIN, DOVE UN TEAM DI ARCHEOLOGI TEDESCHI E ISRAELIANI INSEGUE LE TRACCE DI UN MISTERIOSO PERSONAGGIO DALL’INEQUIVOCABILE NOME BIBLICO... di Boaz Zissu ed Erasmus Gass

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Parco archeologico di Bet GuvrinMaresha (Israele). L’interno di una delle numerose «grotte a campana», cavità sotterranee formatesi in seguito all’attività estrattiva della pietra calcarea durante l’età bizantina e il primo periodo islamico.

L

a città romana e bizantina di Bet Guvrin/Eleutheropolis è situata alla convergenza di tre aree geografiche: i monti della Giudea a est, le colline pedemontane della Giudea e la pianura costiera a ovest. Bet Guvrin si sviluppò sul luogo precedentemente occupato dalla città ellenistica di Maresha (Tel Sandahann), a suo tempo capitale della regione. Le favorevoli condizioni geografiche del sito hanno da sempre attratto gli insediamenti umani e la sua posizione centrale ne ha fatto un crocevia importante, sia dal punto di vista del controllo delle vie commerciali, sia perché punto di riferimento essenziale per i viaggiatori e i pellegrini che attraversavano la zona. Il cristianesimo iniziò ad af-

fermarsi in quest’area tra la fine del III e gli inizi del IV secolo d.C. Isolate comunità di monaci vivevano nella zona nel IV secolo. Dalle fonti sappiamo che nel V secolo la città era già un importante centro della cristianità, con una sede vescovile. Sono i ritrovamenti archeologici – in particolare quelli di alcune chiese – a confermare ulteriormente il carattere cristiano di Eleuteropoli per il periodo compreso tra il IV e il VI secolo. Il nostro contributo si concentra principalmente sulla presentazione di un complesso di recente scoperta, quello di Horbat Basal («le rovine di Basal»). Inizieremo, tuttavia, con una breve panoramica delle antiche chiese della città e dell’area circostante.

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SCAVI • ISRAELE

LIBANO

Lago di Tiberiade

Haifa

Nazaret

Mar Mediterraneo

Beit She’an

Hadera Netanya

Tel Aviv Petach Tikva

Cartina di Israele con la localizzazione del sito di Bet Guvrin e, in basso, la distribuzione dei singoli siti archeologici menzionati nel testo sulla base della pianta topografica realizzata nel 1934 dalle autorità mandatarie britanniche: 1. Horbat Basal; 2. Mahat el-Urd; 3. El-Maqerqesh; 4. «Grotta dei Cavalli»; 5. Sandahanna; 6. Tel Maresha.

Giordan o

Negli anni 1941/42, Dimitri C. Baramki (all’epoca capo archeologo presso il Dipartimento di Antichità del governo della Palestina mandataria, n.d.r.) fece la scoperta di una chiesa basilicale pavimentata con eccezionali mosaici a Mahat el-Urd, oggi situata entro i confini del Kibbutz Bet Guvrin. Una delle scene musive, inserita in un pannello otta-

CISGIORDANIA Ashdod

ISRAELE

Ascalona Bet Guvrin (Eleutheropolis) Beersheva

Gerusalemme Mar Morto

Masada

gonale, mostra il profeta Giona sotto la pianta di ricino, identificato da un’iscrizione in greco. Il suo volto fu cancellato dagli iconoclasti dell’antichità. Negli anni Venti del Novecento, gli archeologi francesi Louis-Hugues Vincent e Félix-Marie Abel individuarono una chiesa ornata con mosaici e iscrizioni a el-Maqerqesh. Il sito rivelò una complessa stratigrafia, con ben cinque fasi costruttive. In particolare, una cappella laterale risalente alla terza fase (inizi del VI secolo) presentava una bella pavimentazione musiva raffigurante viticci che emergono da un’anfora per formare medaglioni, con vari uccelli. Degna di nota era un’iscrizione greca di sei righe incorniciata all’interno del mosaico: il testo recitava che l’opera d’arte era stata posata dagli allievi di Obodianus, un personaggio forse identificabile con il vescovo di Eleutheropolis. La «Grotta dei Cavalli», un tempo santuario pagano, subí mutamenti radicali in epoca bizantina, quando fu trasformata in un complesso cristiano. Le sale sotterranee furono adibite a chiesa o monastero, a uso dei cristiani locali e dei pellegrini.

NEL NOME DI SANT’ANNA La chiesa di Sandahanna fu costruita originariamente in epoca bizantina all’interno di un complesso rettangolare di 38 x 47 m circa. Presentava due cappelle absidali erette in due degli angoli. Tuttavia, durante la ricostruzione avvenuta durante il periodo crociato, le navate laterali caddero in disuso e solo quella centrale continuò a svolgere la sua funzione. Oggi, la traccia piú evidente della chiesa è la grande abside centrale, larga 9,57 m, e che suggerisce quanto imponenti fossero le dimensioni della struttura originaria, della lunghezza stimata di 38 m circa. Il nome arabo della chiesa, Sandahanna, deriva da una distorsione del nome originale, ovvero sant’Anna, moglie di Gioac30 a r c h e o


chino e madre della Vergine Maria, da cui il nome arabo della città ellenistica di Maresha, nota come Tell Sandahanna. Circa 300 m a sud-ovest di Tel Maresha, un’altra chiesa è stata portata alla luce dall’archeologo israeliano Amos Kloner nel 1985. Risalente al V-VI secolo, la chiesa era pavimentata con mosaici di squisita fattura e conserva un’iscrizione greca frammentaria che recita: «Grazie al patrocinio del santo angelo Michele, a cui appartiene questa casa, il pastore del Signore Flavio Hime [...], e non gli mancherà nulla». Quando questa chiesa funzionava, l’acropoli di Tel Maresha era già stata abbandonata, suggerendo che il tempio fosse già affiliato alla vicina Eleuteropoli.

Di recente, chi scrive ha avviato l’esplorazione del complesso sotterraneo, finora sconosciuto, di Horbat Basal (in arabo Khirbet Umm el Basal). All’interno di questo affascinante sito abbiamo scoperto una monumentale iscrizione cristiana dipinta, insieme a elaborate decorazioni che ornavano le pareti di una delle cavità sotterranee.

LA CITTÀ DI MICHEA? Horbat Basal si trova vicino alla strada romana che conduce da Eleuteropoli a Gerusalemme, appena oltre l’acquedotto romano settentrionale della città. Il sito è tra quelli che si candidano ad essere identificati con Morashti (Moreshet), luogo di origine e di sepol-

tura del biblico profeta Michea, in seguito divenuto un villaggio bizantino. Entrambi i nomi sono segnati sulla mappa di Madaba. Horbat Basal è composta da tre distinte aree archeologiche. A. Si tratta della parte situata in cima alla collina, dove sono stati scoperti un complesso a pianta ovale circondato da un muro di pietra e materiali ceramici databili ai periodi ellenistico, romano, bizantino, proto-islamico e ottomano. B. Pendici meridionali e orientali di Horbat Basal. Qui sono stati esplorati i resti sparsi di una chiesa bizantina, di 8/10 cavità a forma di campana e circa 12/15 camere funerarie saccheggiate, parte della (segue a p. 36)

Un tipico affioramento di roccia calcarea nel Parco archeologico di Maresha.

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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SCAVI • ISRAELE

IL PARCO NAZIONALE DI BET GUVRIN A sinistra: resti di edifici della città romana di Eleutheropolis. Sulle due pagine: l’interno del grande colombario, situato ai piedi della collina di Maresha. La struttura sotterranea ha una pianta a doppia croce e dispone di oltre 2000 nicchie.

Il Parco Nazionale di Bet GuvrinMaresha, istituito nel 1989, si trova nel Distretto Meridionale d’Israele, una trentina di chilometri a est di Ashkelon, e copre un’area di 5080 chilometri quadrati. Al suo interno si conservano i resti delle due antiche città di Eleutheropolis e Maresha (Marissa). Il Parco Nazionale è famoso, inoltre, per le sue numerose grotte, nel 2014 iscritte nella lista UNESCO del Patrimonio dell’Umanità. Tel Maresha si trova nella parte meridionale del Parco, mentre a nord si incontrano le vestigia dell’antica Eleutheropolis, tra cui un anfiteatro romano, poi utilizzato come mercato durante l’epoca bizantina, resti di un 32 a r c h e o


A destra: l’accesso a una delle centinaia di strutture sotterranee sparse nell’area di Maresha. a r c h e o 33


SCAVI • ISRAELE

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Due immagini della «Tomba di Apollofane», una delle due grotte sepolcrali dipinte di epoca ellenistica rinvenute a Maresha. III-II sec. a.C.

impianto termale di epoca romana e quelli di una fortezza crociata. All’indomani della distruzione di Maresha a opera dei Parti, nel 40 a.C., il vicino villaggio di Bet Guvrin (o Beit Jibrin in arabo) divenne capoluogo dell’Idumea. Verso il 200 d.C., quando l’imperatore Settimio Severo la elevò al rango di polis (Colonia Lucia Septimia Severa), prese il nome di Eleuteropoli, «la città dei liberi». Con questo nome la città – nella quale risiedeva anche una consistente colonia giudaica – ricorre in tutte le fonti di epoca romano-bizantina. In età bizantina Eleuteropoli divenne una città cristiana con sede vescovile. Il primo vescovo della città fu Macrino, che prese parte al concilio di Nicea (325), ma la storia cristiana di Eleuteropoli è ricca di altri personaggi e di avvenimenti di rilievo, tra cui la cronaca dei 60 martiri di Gaza (catturati durante la conquista musulmana della città omonima nel 635). Di Eleuteropoli era originario, inoltre, il vescovo di Salamina Epifanio (315-403). GLI SCAVI Tra il 1898 e il 1900, a Maresha si sono svolti scavi molto estesi, sotto l’egida del Palestine Exploration Fund, guidati dagli archeologi Frederick J. Bliss e R. A. S. Macalister. A partire dal 1902, gli archeologi Hermann Thiersch e John

Punnett Peters esplorarono due tombe ellenistiche (le cosiddette tombe «dei Sidonii») nella parte sud-orientale di Tell Maresha: la «Tomba di Apollofane», capo dei coloni provenienti da Sidone per piú di trent’anni, è decorata con pitture che si riferiscono al culto dei morti: il cerbero, il gallo, animali esotici, fiori e piante. Iscrizioni testimoniano la presenza di una popolazione mista fatta di edomiti, arabi, fenici, nabatei e greci. Una seconda tomba, denominata «dei Musici», presenta una scena di musici che accompagnano i morti nella discesa verso gli Inferi. I due complessi sepolcrali, risalenti al III e II secolo a.C., sono stati restaurati nel 1993. Ulteriori indagini sono state condotte negli anni Sessanta e Settanta, scavi approfonditi si sono, in seguito, svolti sotto la guida di Amos Kloner per conto della Sovrintendenza alle Antichità di Israele e completati nell’anno 2000. Ai piedi di Tel Maresha si trova il cosiddetto Columbarium, una struttura sotterranea a forma di doppia croce con piú di 2000 nicchie nelle pareti, utilizzate per l’allevamento dei piccioni. Nell’area di Eleutheropolis si trovano anche le celebri «Grotte a Campana», utilizzate durante il periodo bizantino e all’inizio dell’età musulmana come cave sotterranee. a r c h e o 35


SCAVI • ISRAELE

necropoli settentrionale di Eleutheropolis. La chiesa sembra suggerire la posizione della Morashti di età bizantina nonché quella della tomba del profeta Michea, come indicato nella mappa di Madaba. C. La cosiddetta «Tomba di Abramo» è un complesso isolato, situato sul pendio che scende verso ovest da Horbat Basal.

LA «TOMBA DI ABRAMO» La Tomba di Abramo è un complesso ipogeo, composto da quattro elementi interconnessi (vedi pianta a p. 39), scavati nel nari, lo strato piú duro del banco roccioso, che è di natura morbida e gessosa. Vi si accedeva attraverso una sala centrale (A), ora crollata. Un corridoio a gradini (B) scende verso nord fino alla cavità a forma di campana (C), «fulcro» devozionale del complesso. La parte superiore del corridoio ha dimensioni monumentali (lunga circa 10 m, larga 4 e alta 3), ma è molto ripida. Sembra che questo corridoio sia stato aggiunto a una preesistente cavità a forma di campana per facilitare l’accesso ai visitatori. La parte inferiore della scala

permette di scendere fino al pavimento della cavità C. La cavità C ha una profondità complessiva di 13 m circa; la sezione orizzontale del pavimento è arrotondata (9 m circa di diametro). Sulle sue pareti sono visibili le rientranze create dall’estrazione dei blocchi. La sezione è «a campana», con un’apertura quadrata (apparentemente originale) nella parte superiore, e presenta le caratteristiche tipiche delle cave sotterranee di questa zona. Sulla parete nord-occidentale sono state dipinte due croci e un’iscrizione, a partire da un’al-

tezza di quasi 4 m rispetto al sedimento che ricopre il pavimento. L’altezza delle pitture suggerisce che questi siano stati realizzati durante il processo di sbozzatura, quando questi livelli erano facilmente accessibili. Altre due croci e alcune lettere (?) greche (?) sono state incise in punti piú bassi e raggiungibili delle pareti della cavità, appena sotto i dipinti. Nella parete meridionale della sala centrale crollata (A) è stato scavato uno stretto passaggio (50 x 90 cm) che conduce alla cavità D. Questa camera, di forma quasi quadrata, Due immagini dell’abside della chiesa bizantina di S. Anna, oggi conosciuta con il nome arabo di Sandahanna.

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misura circa 5 x 4 m e, allo stato attuale, si trova 1,8 m sopra il sedimento che ricopre il pavimento. Una parete divisoria scavata nella roccia presenta due «finestre» sbozzate con soffitti a volta e una «porta». È difficile stabilire quale fosse lo scopo originario di questa camera. I dipinti saranno descritti da sinistra (ovest) a destra (est).

IO SONO L’ALFA E L’OMEGA Dipinto n. 1 Una croce è incastonata in una corona di fiori sulla parete nord-occidentale della cavità C, a 3,9 m sopra il sedimento. Sia la croce che la corona sono dipinte di rosso e parzialmente coperte da una patina bianca che nasconde alcuni dettagli. La corona ha un diametro di 50 cm circa e presenta un nodo alla base. Dal corpo della corona spuntano foglie verdi schematiche. I bracci della croce misurano 30 x 30 cm circa. I quadranti recano le lettere greche iota e chi (le prime delle parole «Gesú Cristo») e alfa e omega (prima e ultima dell’alfabeto greco, nonché simboli cristiani dell’inizio e della fine, basati sul passo dell’Apocalisse che recita: «“Io sono l’Alfa e l’Omega” dice il Signore Dio “colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente”», Ap 1,8). In alto: riproduzione della decorazione musiva del pavimento della chiesa rinvenuta dall’archeolgo Amos Kloner nel 1985 a sud-ovest di Tel Maresha. V-VI sec. Nella pagina accanto, in alto: la grande sala decorata della «Grotta dei Cavalli».

La croce incorniciata da una corona di alloro ha origine nella simbologia tradizionale greco-romana, dove rappresenta la vittoria e l’immortalità, un motivo diventato elemento base nell’arte cristiana antica. La corona di alloro (stephanos) ha vari significati, tra cui quello di vittoria. Nell’arte paleocristiana, la croce simboleggia la vittoria. La corona può riferirsi alla vittoria di Abramo nella lotta per la vita, avvero all’ottenimento della vita immortale in Paradiso dopo la morte, forse basato su un passo della Seconda lettera di Timoteo (4,7-8): «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la

fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno». In alternativa, la corona potrebbe avere la funzione di enfatizzare la croce che incornicia. Tuttavia, nelle fonti patristiche si trova anche traccia di una specifica «corona di verginità» guadagnata da una persona defunta che aveva vinto la carne e vissuto nella verginità; ciò si adatterebbe bene alla tomba di un eremita. Il Dipinto n. 2 si trova all’interno di una tabula ansata (85 x 40 cm), sormontata da una croce, nella sezione nord-occidentale della parete, a 3,95 m dal pavimento. Un ramo di palma orizzontale si trova all’ina r c h e o 37


SCAVI • ISRAELE

terno della tabula ansata, nell’angolo destro. L’iscrizione recita: Theke tou Abram Tou Dikeou (Tomba di Abramo il Giusto o Tomba di Abramo, figlio di Dikeos). Il nome ebraico Abraham ricorre solitamente nelle iscrizioni cristiane nella forma greca Abramios o Abraamios. Per quanto ne sappiamo, solo qui appare nella forma originale ebraica «Abraham». Sebbene il nome Dikeos sia comune in Grecia, Asia Minore e altrove, è sconosciuto nelle iscrizioni greche locali. L’unica eccezione è un peso di piombo traianeo proveniente da Gaza in cui si fa menzione di un agoranomos con questo nome. Sembra quindi ragionevole considerare il nostro Dikeou (Dikeos) non come un patronimico, ma come un attributo: dunque, «Abramo il Giusto».

UN MOTIVO ASSAI DIFFUSO Dipinto n. 3 La croce è dipinta sulla porzione nord-occidentale della parete, a 3,12 m sopra il sedimento. Questa croce (90 x 55 cm) è una crux gemmata, una croce schematica ingioiellata o ornata. Come nel dipinto n. 1, i quadranti recano le coppie di lettere greche iota e chi e alfa e omega. La crux gemmata sembra corrispondere alla croce eretta da Teodosio II sul Golgota nel 420, come riporta il cronista bizantino Teofane nell’VIII o IX secolo. Il motivo è ben noto dalle decorazioni sacre delle pareti di varie chiese. La nostra croce si trova su un edificio schematico che sembra rappresentare l’Anastasi nella chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme. Rappresentazioni schematiche simili compaiono sulle ampolle di Monza (un insieme di sedici ampolle in piombo e stagno, decorate a 38 a r c h e o

sbalzo e datate al VI secolo, appartenute a pellegrini della Terrasanta e oggi conservate nel Museo e tesoro del Duomo di Monza, n.d.r.). Dalla base della croce partono due rami di palma verdi schematizzati. I rami di palma sono noti simboli di vittoria, ma anche di verginità. Poste sulla tomba di un martire potrebbero significare la vittoria, nel nostro caso però, in quella che forse era venerata come tomba di un eremita, i rami di palma simboleggiano la verginità. L’iscrizione dall’aspetto monumentale e le croci ben eseguite sulla parete della cavità C rappresentano un insieme insolito. Mentre, infatti, decorazioni dipinte e/o iscrizioni si trovano sulle pareti delle tombe di epoca bizantina,

non appaiono mai sulle pareti delle cavità «a campana», dove a volte troviamo incisi, in modo del tutto casuale, graffiti grossolani – croci o iscrizioni greche – o anche risalenti al primo periodo islamico. Come tipologia, la cavità C rientra tra le «cave sotterranee a campana» e non è certo una tomba, una cappella ipogea o una chiesa scavata nella roccia. Le pitture, però, dimostrano che l’ex cava è stata adibita a un uso religioso nell’ambito di un contesto piú ampio di devozione extra-ecclesiale. Un interesse particolare riveste la scoperta dell’iscrizione che indica la persona a cui si rivolge la venerazione: Abramo. Chi era questo personaggio? Esiste una tradizione locale, secondaria, che collega il cele-


In alto: sezione e pianta della cosiddetta «Tomba di Abramo» a Horbat Basal. A sinistra: «Tomba di Abramo»: la cavità C con, in evidenza, la scala d’accesso e l’apertura originaria sulla sommità della grotta.

bre personaggio biblico all’area di Eleuteropoli? L’Abramo di Bet Guvrin era un santo, un monaco o un martire? Ad appena una ventina di chilometri a est di Eleuteropoli si trova la città di Hebron, il centro di un culto regionale di Abramo con due luoghi chiave: Mambre e le Tombe dei Patriarchi. A Mambre (oggi identificata con la località di Ramate l-Khalil, n.d.r.) un albero sacro segnava il luogo in cui tre angeli visitarono il patriarca (Genesi 18:1-22). Qui una basilica costantiniana fu costruita all’interno di un precedente complesso erodiano. Il complesso monumentale delle Tombe dei Patriarchi (nella città vecchia di Hebron, n.d.r.), invece, era – come è noto – il venerato luogo di sepoltura di Abramo.

Il nostro sito era, dunque, collegato alla figura del grande patriarca? È piú probabile che trattasse di un luogo di culto dedicato a un martire o a un santo locale, o forse commemorava un eremita che viveva in clausura in una cella vicina. La zona di Eleuteropoli è nota per la presenza di monasteri bizantini. Alla metà del V secolo, per esempio, l’abate Romanus fondò un «grande e bel monastero» nei pressi della città.

STORIE DI EREMITI La letteratura agiografica riporta la testimonianza di eremiti che cercavano la solitudine nelle vicinanze di città e villaggi. Ne è un esempio famoso quello di Ilarione (291-371 d.C.) che costruí il suo ritiro a poche miglia a sud di Gaza;

secondo Sozomeno (storico siro di lingua greca vissuto nel V secolo, noto per la sua Historia Ecclesiastica, n.d.r.), la sua cella si trovava a 20 stadi da Tabatha, il villaggio natale di Ilarione. Sozomeno fa riferimento anche ad Ammonio, un anacoreta del IV secolo che viveva a Capharcobra, vicino a Gaza. Epifanio di Salamina (vescovo e scrittore, morto nel 403) riporta la storia di Petrus l’Eretico, un asceta che viveva in una grotta vicino al villaggio di Caphar Baricha, circa 6 km a est di Hebron. San Girolamo (347-420, padre e dottore della Chiesa a cui dobbiamo la Vulgata, la prima traduzione in lingua latina della Bibbia, n.d.r.) ricorda che un asceta trovò rifugio in una cisterna abbandonata nel deserto a r c h e o 39


SCAVI • ISRAELE Sulle due pagine: l’interno della cavità C, la cosiddetta «Tomba di Abramo», con il posizionamento delle principali decorazioni dipinte. 1. croce in una corona di fiori; 2. tabula ansata con iscrizione; 3. crux gemmata.

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della Siria. Il vescovo siro Teodoreto di Cirro (393-457) racconta la storia di Simeone Stilita, che trovò solitudine in una vecchia e profonda cisterna in montagna. La documentazione archeologica dell’area presa in esame offre numerosi esempi di eremiti che si ritirano in grotte e rifugi situati ai margini dei villaggi: due cave a Tel Lavnin, 5 km a nord-est di Eleuteropoli, erano utilizzate come eremo. Un graffito menziona un sacerdote di nome Ioannes e il nome di Daniele appare accanto al rozzo disegno di un leone (o una leonessa?), in apparente riferimento alla storia biblica di Daniele nella fossa dei leoni.

GESÚ È QUI Una cisterna scavata nella roccia a Khirbet Beit Loya, un sito archeologico circa 7,5 km a sud-est di Eleuteropoli, fu riutilizzata come eremo in epoca bizantina. Un’iscrizione greca incisa su una delle pareti recita «Gesú [è] qui»; sotto l’iscrizione è incisa una grande croce racchiusa da un medaglione. Nel vicino sito di Horbat Burgin (nota anche con il nome arabo di Khirbet Umm Burj, n.d.r.) croci e altri simboli difficili da interpretare sono stati incisi sulle pareti di una cisterna a forma di campana. Sulla parete 40 a r c h e o

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sono state incise due brevi iscrizioni in scrittura georgiana Asomtavruli, della fine del X o dell’inizio dell’XI secolo. La prima recita: «Christos, abbi pietà di Tskhrai (Tskhroi?)»; la seconda «Christos, abbi pietà di Morchai». Sembra che appartenessero ad anacoreti georgiani. Il nostro Abramo era forse un martire? Difficile a dirsi... L’unica tradizione che collega un martire cristiano a Eleuteropoli risale al VII secolo: pare che un certo Abramo faceva parte di un gruppo di 60 soldati cristiani («i 60 martiri di Gaza») catturati durante la conquista musulmana di Gaza nel 635. Alcuni


furono giustiziati a Gerusalemme e altri a Eleuteropoli per il loro rifiuto di convertirsi all’Islam. A Horbat Basal, nel IV secolo d.C. era viva la tradizione della «tomba dei fedeli»: secondo Sozomeno, gli abitanti del luogo si riferivano a questa tomba come a quella del profeta Michea. È possibile che gli abitanti del luogo abbiano interpretato erroneamente la tabula ansata, associando l’iscrizione al biblico Abramo, noto per la sua giustizia e la sua fede (Genesi 15:6).Tuttavia, se la tradizione della «tomba dei fedeli» risale effettivamente al IV secolo, l’iscrizione non può essere collegata al martire del VII secolo.

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Concludiamo dicendo che, al momento, per quanto riguarda il funzionamento del sistema sotterraneo, possiamo fare solo qualche ipotesi: la camera quadrata (D) potrebbe essere stata identificata dai cristiani locali come il luogo di ritiro o di sepoltura del nostro Abramo, figura sconosciuta dalla letteratura agiografica del periodo bizantino. Poiché la piccola camera quadrata non è adatta alla devozione, quando l’afflusso di pellegrini aumentò, la vicina cavità C fu in qualche modo convertita per uso religioso. La «tomba» del santo cristiano veniva mostrata nella cava deserta e i visitatori scendevano gli ampi gradini (B) per vedere la cavità scavata nella roccia con le croci dipinte e l’iscrizione. Forse alcuni visitatori sono scesi fino al fondo della cavità C e hanno inciso grossolanamente altre croci sulle pareti… Il sito di Horbat Basal è stato rilevato dagli autori, con la partecipazione di Yair Tsoran, Danny Bickson,Yotham Zissu, Alon Klein, studenti del Dipartimento di Studi e Archeologia della Terra d’Israele dell’Università BarIlan e volontari, in base al permesso IAA S-753/2017. Assistenza e consulenza sono state fornite da Leah Di Segni e Avner Ecker. Questo articolo è stato preparato con il generoso supporto del Jeselsohn Epigraphic Center for Jewish History dell’Università Bar Ilan ed è stato curato da Deborah Stern. L’esplorazione delle vestigia dei primi cristiani nell’area di Eleutheropolis sarà parte integrante dell’ampio programma di ricerca sul pellegrinaggio promosso dalla facoltà di teologia cattolica dell’Università di Augusta in una fruttuosa cooperazione israelo-tedesca.

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MUSEI • RAVENNA

Uno scorcio dell’allestimento della nuova sezione «Pregare a Ravenna» del Classis Ravenna-Museo della Città e del Territorio.

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VIVI, PREGA, RACCONTA... ALL’EDILIZIA ABITATIVA ED ECCLESIASTICA IN ETÀ ROMANA E TARDO-ROMANA, CAPITOLI FONDAMENTALI NELLA STORIA DELL’ANTICA RAVENNA, SONO DEDICATE LE NUOVE SEZIONI DEL CLASSIS RAVENNA-MUSEO DELLA CITTÀ E DEL TERRITORIO a cura della redazione a r c h e o 43


MUSEI • RAVENNA

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cinque anni dalla sua inaugurazione, il Classis Ravenna-Museo della Città e del Territorio ha innestato nel suo già ricco percorso espositivo due nuove sezioni, «Abitare a Ravenna» e «Pregare a Ravenna», volute per documentare altrettanti aspetti cruciali della storia della città: l’edilizia ecclesiastica tardo-antica e quella residenziale in età romana e tardo-romana. «Abitare a Ravenna» e «Pregare a Ravenna» raccontano la storia della città attraverso il patrimonio materiale custodito per secoli dal territorio e tornato a noi dopo un attento lavoro di ricerca e documentazione. Gli scavi archeologici che hanno permesso di riportare alla luce i mosaici esposti nelle due sezioni, hanno interessato l’intera area ravennate, coinvolgendo anche alcuni siti limitrofi e hanno restituito pezzi unici sia da un punto di vista stilistico sia per il loro valore storico. Il racconto che ne deriva è un approfondimento importante su due

aspetti della vita quotidiana dell’epoca, legati ai luoghi di culto e alle espressioni abitative private, dando al visitatore la possibilità di scoprire nuovi aspetti della storia della città. Grazie a queste due nuove sezioni espositive, già previste nel piano di allestimento iniziale, il Museo Classis amplia la sua dotazione completando la sua missione e il suo progetto (vedi box alle pp. 48-49).

ISPIRATI DALLE MUSE La narrazione avviene principalmente attraverso l’esposizione di mosaici pavimentali di altissima qualità e di diversa provenienza, cronologia e tecnica – esposti per la prima volta e restaurati per l’occasione dal Laboratorio di Restauro della Fondazione RavennAntica –, che permettono di comprendere le peculiarità di utilizzo, a Ravenna, di una straordinaria tecnica antica: musivum (l’opera) e musivarius (l’artista) in latino; mouseion o mousaikon in greco, termini che contengono entrambi un riferimento alle Muse.

La sezione «Pregare a Ravenna» mostra i caratteri e le funzioni dell’architettura religiosa per la quale Ravenna, con gli influssi di Roma, Milano e Costantinopoli, in epoca tardo-antica, divenne un polo di irradiazione per modelli e tecniche soprattutto nell’Alto Adriatico. «Pregare a Ravenna» propone un allestimento inconsueto per una sala espositiva, che mira a evocare un ambiente basilicale; per questo si è inteso evidenziare i fondamentali temi e soggetti architettonici delle chiese ravennati oltre ai contenuti decorati suggeriti dai mosaici. L’esposizione permette di entrare fisicamente in un «luogo della preghiera», scoprendo e analizzando i caratteri del modello ecclesiastico ravennate. Una pellicola stampata a pavimento accoglie il visitatore nell’esplorazione di un ambiente caratterizzato dalla riproduzione di alcuni mosaici pavimentali estrapolati da importanti edifici religiosi ravennati. L’obiettivo è quello di simulare lo spaUn’altra immagine della sezione «Pregare a Ravenna». In fondo, sulla sinistra, il mosaico raffigurante un pavone dalla basilica della Ca’ Bianca. VI sec. d.C. Nella pagina accanto: mattoni con bolli laterizi nella sezione «Abitare a Ravenna».

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MUSEI • RAVENNA

zio liturgico attraverso esempi di pavimentazioni basilicali al fine di suggerire una funzione immersiva e di assolvere alla principale funzione e compito del Museo, che è quello di invitare il visitatore all’esplorazione del patrimonio culturale della città e del territorio. Le riproduzio46 a r c h e o

ni pavimentali sono perciò accompagnate da indicazioni e rimandi ai contesti originali. Questa ricostruzione pavimentale è poi la base per l’esposizione di materiali archeologici e mosaici che documentano le principali tipologie e componenti dell’architettura ecclesiastica.

La riproduzione di un colonnato tipo di una navata laterale, fa da fondale a un lungo basamento, che presenta una sequenza di tipologie di elementi architettonici provenienti da architetture sacre del territorio di Ravenna e di Classe, alcuni dei quali poco conosciuti: una scelta fun-


I SECOLI DI RAVENNA E DI CLASSE DATA 402 425-450 429-475 476 V sec. 493-540 521-549 523-549 535 540 545 553 568 570-595 576 (584?) 585-586 VI sec. (?) 712-713 717-718 726-744 732-733 735 751 774 IX sec. X sec.

EVENTO STORICO Ravenna residenza imperiale d’Occidente

Deposizione di Romolo Augustolo: caduta dell’Impero Romano d’Occidente Ravenna capitale del regno goto di Teodorico

Inizio della guerra tra Goti e Bizantini I Bizantini conquistano Ravenna Fine della guerra tra Goti e Bizantini I Longobardi invadono l’Italia Faroaldo I, duca longobardo di Spoleto, attacca e saccheggia Classe Il bizantino Droctulfo libera Classe dai Longobardi Il duca di Spoleto Faroaldo II occupa Classe, che viene però restituita ai Bizantini dal re longobardo Liutprando Liutprando invade e distrugge Classe Un terremoto colpisce Classe. La Basilica Petriana è distrutta Presa di Ravenna (e di Classe?) da parte del re longobardo Astolfo Il doge di Venezia Orso aiuta i Bizantini a riconquistare Ravenna ponendo il blocco a Classe Astolfo conquista Ravenna. Fine dell’Esarcato Fine del regno longobardo d’Italia Agnello, storico ravennate, definisce Classe «una città scomparsa» Ottone I stabilisce la sua residenza a Classe

XV sec. XIX sec.

zionale a mostrare una campionatura di elementi dell’architettura del periodo attraverso capitelli, pulvini, basi e colonnine. In epoca tardo-antica il territorio ravennate è definito da numerose chiese e basiliche che segnano verticalmente il paesaggio e lo scena-

PRINCIPALI MONUMENTI DI RAVENNA E DI CLASSE Basiliche di S. Giovanni Evangelista e di S. Croce, Mausoleo di Galla Placidia Basilica Petriana (Classe) Cattedrale e Battistero degli Ortodossi, costruzione delle mura e porto di Classe Basilica di S. Apollinare Nuovo, cattedrale e Battistero degli Ariani, Mausoleo di Teodorico Basilica di S. Vitale Basilica di S. Apollinare in Classe Chiesa di S. Michele in Africisco Basilica di S. Severo (Classe)

Basilica del Beato Probo (Classe)

Monastero di S. Severo Palazzo di Ottone I presso S. Severo Spoliazione e ricostruzione di S. Severo Definitiva distruzione di S. Severo

rio della città e del suo territorio. A Ravenna vengono eretti edifici religiosi già a partire dal V secolo, diversi fra loro per ampiezza e struttura planimetrica, come la chiesa di S. Croce e quella di S. Giovanni Evangelista e anche la (segue a p. 50)

In alto: mosaico della basilica di S. Vitale raffigurante Giustiniano. Qui sopra: S. Apollinare Nuovo. Il mosaico con le sante martiri. Nella pagina accanto: una mosaicista intenta a dare gli ultimi ritocchi al mosaico con il mito di Achille, da Faenza (vedi foto a p. 54). a r c h e o 47


MUSEI • RAVENNA

COSÍ CLASSIS CONTINUA A NARRARE LE SUE STORIE di Andrea Mandara

A cinque anni dalla prima apertura, Classis Ravenna conferma la sua identità di Museo Vivo. Amplia il racconto di quel territorio del quale costituisce un caposaldo di memoria storica e contenuto culturale. Classis Ravenna-Museo della Città e del Territorio nasce nel vecchio zuccherificio di Classe con una struttura narrativa scientifica e espositiva progettata in totale simbiosi con l’architettura che l’accoglie. Dalla cronologia, spina dorsale della narrazione posta al piano centrale della fabbrica restaurata, partono i «rami narrativi» del Museo. Il primo nasce insieme alla sua prima inaugurazione, con la sezione sulla Navigazione: con il nuovo ampliamento altri due approfondimenti arricchiscono l’offerta culturale: «Pregare» e «Abitare a Ravenna». Anche in questo caso, come nella prima parte del Museo già realizzato, l’architettura indirizza e accoglie i contenuti del racconto con un allestimento duttile e flessibile modificabile nel tempo insieme all’avanzare delle ricerche e delle conoscenze in materia. Le due grandi sale che ospitano le nuove sezioni, dagli ampi spazi e dalle imponenti capriate che ne disegnano le coperture, hanno indirizzato e regolato spazialmente l’attività progettuale. Confermando i principi espositivi già presenti nella prima parte del Museo, per descrivere questi due nuovi temi della storia del territorio di Ravenna, concordemente con i curatori, si è scelta una logica immersiva della narrazione. Il visitatore è invitato in un caso a entrare in un ambiente


La facciata di Classis Ravenna-Museo della Città e del Territorio, allestito negli spazi dell’ex zuccherificio di Classe e inaugurato nel 2018.

basilicale e nell’altro a muoversi tra grandi mosaici pavimentali di alcune abitazioni. E cosí in «Pregare a Ravenna» anche il pavimento della sala partecipa all’esposizione: la stampa di sezioni di mosaici provenienti da vari contesti basilicali ravennati compongono un abaco di tipi che evidenziano ciò che Wassily Kandinsky affermava nel 1930: «Ho visto finalmente Ravenna, e tutte le mie aspettative erano nulla di fronte alla realtà. Sono i mosaici piú belli e piú formidabili che io abbia mai visto». Mentre camminiamo su questa suggestiva stampa narrante, siamo circondati dalla bellezza del disegno del grande mosaico a croci della navata laterale di S. Severo e dall’abaco tipologico di componenti architettonici originali o dettagliatamente riprodotti in copia che propongono elementi costruttivi di quella spazialità basilicale che ritroviamo anche nel grande fondale grafico che riproduce il colonnato della navata centrale di S. Apollinare Nuovo. Infine la ricostruzione del recinto di una basilica medievale con sedute, permette al visitatore di continuare il viaggio conoscitivo attraverso immagini a schermo di quei luoghi che Classis descrive e contemporaneamente invita a visitare. Accompagnati dalla riproduzione della processione delle offerenti in S. Apollinare Nuovo, l’alfabeto dell’allestimento non cambia in «Abitare a Ravenna». La narrazione, con plastici ricostruttivi, elementi architettonici ritrovati nel territorio e ricchi apparati grafici, ci introduce nel tema dell’abitare. Percorrendo

A destra e nella pagina accanto: particolari dell’allestimento del museo, realizzato su progetto dell’architetto Andrea Mandara.

rampe a diverse altezze ammiriamo i grandi mosaici pavimentali esposti. Riusciamo cosí a leggere con chiarezza dall’alto le scene dei bellissimi mosaici provenienti da via Dogana a Faenza, da via d’Azeglio e dalla Domus del Triclinio a Ravenna. Anche in queste due nuove sezioni gli apparati grafici e multimediali si integrano nell’allestimento in piena coerenza con la narrazione scientifica e la presentazione delle opere. In continuità con quanto già presentato nella prima parte del Museo, sfogliatori di immagini completano il ricco apparato narrativo composto da brevi testi descritti con realistiche e dettagliate ricostruzioni grafiche.

Classis Ravenna amplia cosí la sua offerta culturale, conservando e confermando il suo linguaggio espositivo e narrativo, progettato per descrivere e valorizzare quelle testimonianze che il lavoro degli archeologi e degli studiosi riportano quotidianamente alla luce, con la ferma convinzione che il Museo è vivo se costituisce un caposaldo di quei luoghi che aiuta a conoscere e che spinge a visitare. Andrea Mandara è architetto progettista e direttore dell’esecuzione dell’allestimento di Classis Ravenna e delle due nuove sezioni; il progetto grafico è stato curato da Francesca Pavese. a r c h e o 49


MUSEI • RAVENNA Ricostruzione della basilica della Ca’ Bianca, luogo di culto dedicato a san Demetrio, situato a sud di Classe. A colori le strutture ritrovate, in bianco e nero quelle ipotizzate. In basso: un pavone, simbolo paradisiaco, raffigurato nel mosaico pavimentale della Ca’ Bianca.

Nella pagina accanto: la sezione di «Abitare a Ravenna» nella quale vengono illustrate le caratteristiche del triclinio e gli usi ai quali era adibito.

cattedrale ursiana, dotata di un battistero. Durante il periodo goto si costruirono chiese anche per il culto ariano. Ma è il VI secolo che registra il proliferare di numerosi edifici religiosi e, fra tutte, viene edificata la monumentale basilica di S. Vitale, voluta fortemente dal centro di potere bizantino dall’imperatore Giustiniano.

NEL NOME DEI PRIMI VESCOVI Anche il centro di Classe diviene un luogo importante per la religiosità locale: già nel V secolo si erige la Basilica Petriana, non piú visibile ma identificata tramite indagini archeologiche. In particolare, a Classe si innalzano le basiliche dedicate ai primi vescovi ravennati, che costituiscono il luogo di culto legato alla tradizione della sepoltura del vescovo santificato: è il caso di S. Apollinare in Classe, ancora 50 a r c h e o


splendidamente conservata e che mostra l’immagine del santo al centro del catino absidale e della basilica di S. Severo, oggetto di scavi archeologici a partire dagli anni Sessanta del Novecento.

LE CHIESE PERDUTE Numerose sono le memorie di chiese, nel tempo distrutte, nel territorio di Classe, di cui abbiamo solo la titolatura: come la chiesa della Cà Bianca (dedicata a san Demetrio), a sud di Classe, di cui si propone la porzione pavimentale con lo splendido pavone, simbolo paradisiaco. La sezione offre quindi un quadro complessivo delle diverse basiliche, con rimandi a quelle conservate e visibili, e con documenti concreti di quelle perdute. Fra gli elementi architettonici provenienti da architetture sacre dell’a-

rea archeologica di Classe e di Ravenna, spicca il capitello in marmo ritrovato nel 2005 in occasione dello scavo estensivo dell’Antico Porto di Classe: rinvenuto all’estremità di un pontile, impostato su un pilastro in laterizi, capovolto, venne riutilizzato come bitta per l’ancoraggio delle imbarcazioni. Ravenna, con il suo porto di Classe, era una stazione di arrivo e un centro di smistamento, oltre che per molti altri prodotti, anche degli elementi marmorei provenienti via mare dall’Oriente: una vera e propria porta di accesso per l’introduzione in Occidente delle conquiste tecnologiche e artistiche provenienti da Costantinopoli. Attraverso il recupero delle basiliche perdute, il Museo Classis Ravenna vuole raccontare a tutto tondo come si presentava l’attuale

zona del Parco Archeologico di Classe in antico, esaltandone la ricchezza costruttiva, testimonianza tangibile dell’importanza e della ricchezza di questa zona nel periodo tardo-antico e bizantino.

COSÍ COSTRUIVANO Nella sezione «Abitare a Ravenna», superato il basamento che ospita ricostruzioni grafiche e plastici, si possono osservare alcune significative tecniche edilizie e costruttive, legate alle strutture architettoniche residenziali e liturgiche. Un’ampia pedana consente di ammirare dall’alto i grandi mosaici, esposti sia a pavimento che in parete. Il tema del costruire nell’antichità viene trattato, sia in ambito civile che in ambito ecclesiastico. Un settore dell’allestimento espone modelli e plastici, coadiuvati dai mate-

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MUSEI • RAVENNA

riali archeologici rinvenuti negli scavi del territorio ravennate, che propongono alcune modalità dell’edificare a partire dall’età romana all’Alto Medioevo. Una struttura muraria richiedeva, soprattutto in un’area di origine alluvionale come quella di Ravenna, la creazione di una fondazione che talvolta poteva utilizzare pali lignei inseriti nel terreno, su cui poi si procedeva alla posa di pezzame laterizio e di mattoni di modulo e formato diverso. Sono esposti in allestimento alcuni mattoni romani che presentano bolli impressi nell’argilla a documentare la pro-

prietà e le officine che li producevano. Le pareti venivano poi intonacate e spesso, nelle abitazioni di maggiore pregio, affrescate con decorazioni di vario genere.

LEGNO, TEGOLE E COPPI Per gli edifici religiosi, a partire dal VI secolo si utilizzano mattoni particolari impiegati nella costruzione di chiese e basiliche. Per la copertura della casa e la costruzione del tetto, si utilizzavano travature lignee di sostegno, in seguito ricoperte con tegole e coppi al fine di realizzare anche ampi spioventi. Nel caso di edifici religiosi, quindi a partire dal

UN RECUPERO VIRTUOSO Inaugurato il 1° dicembre 2018, Classis Ravenna racconta la storia di Ravenna e del suo territorio, una delle realtà insediative piú importanti del Mediterraneo antico. La «Linea del Tempo» scandisce i principali snodi storici dello sviluppo della città: le sue origini umbroetrusche, le vicende della romanità e la sua importante funzione di capitale dell’impero d’Occidente, la fase gota, quella bizantina e l’Alto Medioevo. I temi storici sono trattati tramite Ricostruzione grafica di un cantiere per la realizzazione di un muro. Nella pagina accanto, in alto: lo zuccherificio di Classe in una foto d’epoca. Nella pagina accanto, in basso: mosaico pavimentale decorato con motivi geometrici in origine appartenente alla sala tricliniare della Domus del Triclinio. I-III sec. d.C.

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approfondimenti che riguardano la crescita e lo sviluppo della città, la sua stratificazione, la flotta e la navigazione, la sua variegata etnicità, la produzione artistica, le consuetudini funerarie. I materiali archeologici costituiscono il filo conduttore di questo lungo racconto dedicato al passato che non sempre la «storia scritta» ci narra. Il museo è stato allestito grazie al recupero degli spazi dell’ex zuccherificio di Classe, una struttura realizzata dalla Società Ligure Ravennate per la

coltivazione della barbabietola da zucchero e che, nell’agosto del 1900, a meno di un anno dalla creazione, poteva salutare la sua prima campagna saccarifera. Era l’inizio di un’avventura industriale che per molti decenni assicurò al territorio una risorsa economica importante, ma che negli anni Settanta del

V secolo, poteva essere necessario realizzare una volta e sostenere una cupola absidale; in questo caso venivano impiegati piccoli tubuli in ter-

racotta che potevano essere inseriti uno nell’altro per realizzare strutture curvilinee e alleggerire il peso della struttura alla sommità.

Novecento cominciò ad accusare i primi segni di crisi, fino alla chiusura definitiva nel 1982.

«Abitare a Ravenna» documenta un lungo periodo cronologico che va dal I secolo al V secolo d.C., un intervallo temporale nel corso del quale si svilupparono concezioni diverse della residenzialità: sia nella disposizione e negli spazi della casa, sia nelle decorazioni utilizzate all’interno di essa, per abbellirla, e in particolare nei mosaici pavimentali.

RESIDENZE DI LUSSO Nella sezione sono illustrati diversi moduli relativi ad abitazioni della prima epoca imperiale romana: come i piccoli vani dotati di mosaici geometrici, in bianco e nero, dalla domus ravennate del Triclinio, costruita all’esterno dell’antica cinta muraria urbana; oppure di parte del grande vano dell’atrio, il luogo della casa riservata all’accoglienza degli ospiti, decorato da un grande mosaico geometrico bianco e nero e proveniente dalla ricca domus rinvenuta in via d’Azeglio e situata nella zona centrale della città antica, quella poi occupata dalla Domus dei Tappeti di Pietra. È qui esposto anche uno splendido mosaico faentino; si tratta di un pavimento figurato che decorava il vestibolo della casa, cioè l’ampio vano di ingresso che immetteva a r c h e o 53


MUSEI • RAVENNA

Emblema centrale del mosaico pavimentale del vestibolo della domus di via Dogana, a Faenza. IV-V sec. d.C. Nel riquadro compare una scena molto suggestiva: un uomo seduto in trono, vestito con mantello di porpora e con lungo scettro; ai suoi lati soldati con corazze ed elmi; a terra cataste di armi. A sinistra, un vecchio barbuto appoggiato su un bastone, con tunica, mantello e cappello frigio e una figura femminile. La scena è probabilmente riferibile al ciclo mitologico di Achille, da identificare con l’uomo seduto al centro, e, in particolare, alla consegna a Priamo delle armi e del corpo del figlio Ettore in presenza di Briseide, schiava dell’eroe degli Achei.

nella grande sala absidata della domus di via Dogana, a Faenza. Il mosaico è caratterizzato da un riquadro centrale (emblema) attorno al quale si sviluppano dodici ri54 a r c h e o

quadri con vari soggetti figurati con militari dotati di lancia e scudo, figure mitologiche, come Muse e Nereidi, in particolare una di queste nell’atto di cavalcare un delfino.

Nell’emblema centrale compare una scena figurata molto suggestiva, probabilmente raffigurante il mito di Achille: l’eroe potrebbe essere identificato con il personaggio ma-


schile seduto in trono al centro della scena; è vestito con mantello di porpora e con lungo scettro; ai suoi lati sono rappresentati soldati con corazze ed elmi; a terra sono deposte alcune armi. A sinistra si nota un vecchio barbuto appoggiato su un bastone e vestito con tunica, mantello e cappello frigio, probabilmente da identificare con il re Priamo e infine si nota una figura femminile, forse Briseide, schiava di Achille.

LA COMMOZIONE DELL’EROE La scena è, con ogni probabilità, da riferirsi al ciclo mitologico di Achille inquadrabile durante la guerra di Troia. In particolare nel pavimento faentino sarebbe rappresentata la consegna a Priamo delle armi e del corpo del figlio Ettore, ucciso dallo stesso Achille. Il vecchio re Priamo, secondo il racconto omerico, si sarebbe recato da Achille umiliandosi e porgendogli doni, per chiedere la restituzione del corpo di Ettore, ucciso in battaglia. L’eroe greco si commuove e in un gesto di pietà concede che le spoglie di Ettore vengano restituite al padre. Si tratta quindi di un tema legato all’apoteosi eroica, un modello forse scelto dal proprietario della casa faentina per identificarsi con personaggi illustri dell’antichità. Un altro mosaico di grandi dimensioni presenta un emblema centrale che raffigura un giovane nell’atto di accarezzare il muso di una delle due pecore (forse un’immagine precoce del Buon Pastore), databile al IV secolo d.C. e proveniente da un settore urbano di Ravenna indagato nel 1993 per la costruzione di un garage sotterraneo: l’importanza dei rinvenimenti venuti alla luce ha portato alla musealizzazione del sito, noto come Domus dei Tappeti di Pietra. La Domus dei Tappeti di Pietra venne inaugurata il 30 ottobre del 2022: nell’occasione il mosaico del Buon Pastore, databile al IV secolo d.C.,

In alto: una Nereide su un delfino raffigurata in un altro particolare del mosaico pavimentale del vestibolo della domus di via Dogana, a Faenza. IV-V sec. d.C. In basso: mosaico pavimentale geometrico, dalla Domus con Soglia a racemi (Ravenna, via d’Azeglio 47). II sec. d.C. a r c h e o 55


MUSEI • RAVENNA

UN CIRCUITO SEMPRE PIÚ RICCO L’allestimento delle nuove sezioni del Classis Ravenna è stato reso possibile grazie a un finanziamento del Ministero della Cultura – Piano strategico «Grandi Progetti Beni Culturali». Programmazione risorse residue 2022 e ulteriori. Risorse annualità 2020, 2021 e 2022 – che la Fondazione RavennAntica e il Comune di Ravenna hanno fortemente voluto per dare visibilità a due importanti capitoli della storia della città e del territorio e, al tempo stesso, per completare il racconto storico sulla città di Ravenna iniziato nel 2018 con l’apertura al pubblico del museo. La realizzazione di «Abitare a

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Ravenna» e «Pregare a Ravenna», curata da Andrea Augenti, Fabrizio Corbara, Giovanna Montevecchi e Giuseppe Sassatelli, permette al Classis Ravenna di rilanciarsi fortemente come museo del territorio. Le nuove sezioni permanenti del Museo Classis arricchiscono il circuito culturale e turistico del Parco Archeologico di Classe, che, oltre al museo, comprende la grande basilica di S. Apollinare in Classe, straordinario esempio dell’arte paleocristiana, dichiarata patrimonio UNESCO dal 1996 e il sito archeologico a cielo aperto dell’Antico Porto, uno degli scali portuali piú importanti del

mondo romano e bizantino. Il territorio e la sua storia sono al centro degli itinerari turistici di questa zona, praticabili a piedi o in bicicletta e volti a far scoprire le bellezze del paesaggio, spaziando dall’archeologia alla natura, passando ovviamente dai mosaici, simbolo caratteristico e distintivo di Ravenna. L’inaugurazione delle nuove sezioni ha inoltre dato avvio a nuove iniziative, rivolte a grandi e piccini, che animeranno il Classis Ravenna durante l’autunno. Allo stesso tempo, il museo è uno dei luoghi protagonisti della VIII edizione della Biennale del Mosaico Contemporaneo, che si


per cui appartenente a una fase precedente rispetto agli altri ambienti della Domus, databili al VI secolo secolo, venne collocato a parete. In vista dell’apertura delle nuove sezioni del Classis Ravenna, lo scorso anno l’emblema del Buon Pastore è stato affidato al laboratorio di restauro della Fondazione RavennAntica per essere reinserito all’interno della pavimentazione, geome-

trica e policroma, che originariamente lo accoglieva. Oggi il mosaico completo è integralmente esposto, per la prima volta, nella nuova sezione «Abitare a Ravenna», offrendo l’immagine originaria della sua collocazione in antico, consentendo di apprezzarne al meglio la qualità e la funzione e mettendolo in dialogo con le altre domus di Ravenna (Triclinio) e del

na

A destra: l’immagine di un aquilotto in un mosaico proveniente dalla basilica di S. Severo. Ultimi decenni del VI sec. d.C. Nella pagina accanto: emblema del mosaico pavimentale dall’impianto termale della Domus di via d’Azeglio. IV sec. d.C. La figura maschile che accarezza il muso di una pecora potrebbe essere identificata con il Buon Pastore.

Via C la

ssica

Mausoleo di Teodorico

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territorio (Faenza, via Dogana). Alla Domus dei Tappeti di Pietra è attualmente esposta una copia del mosaico del Buon Pastore, realizzata dal Laboratorio di Restauro di RavennAntica e dagli studenti del corso di Laurea magistrale a ciclo unico (LMCU) in Conservazione e Restauro dell’Università degli Studi di Bologna-Campus Ravenna. Oltre a testimoniare quanto è stato rinvenuto durante gli scavi, tale copia rimanda alla visita al Classis Ravenna, non solo per apprezzare il mosaico originale in tutta la sua monumentalità, ma anche per approfondire la conoscenza sul mosaico antico attraverso gli altri reperti in esposizione.

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ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/11

A DICIOTTO ORE DALLA FINE

È GIÀ SERA QUANDO, NEL SETTEMBRE DEL 19 A.C., VIRGILIO SBARCA NEL PORTO DI BRINDISI, SU UNA NAVE DELLA FLOTTA IMPERIALE PROVENIENTE DA ATENE. A IMPORRE QUEL FATICOSO VIAGGIO AL MORIBONDO AUTORE DELL’ENEIDE ERA STATO LO STESSO IMPERATORE AUGUSTO. PRENDE IL VIA DA QUEL SINGOLARE EPISODIO STORICO IL PIÚ FAMOSO ROMANZO DELLO SCRITTORE AUSTRIACO HERMANN BROCH... di Giuseppe M. Della Fina Ritratto dello scrittore Hermann Broch (1886-1951). Teesdorf, Herman Broch Museum.

I

l romanzo di Hermann Broch Der Tod des Virgil (La morte di Virgilio, nella traduzione italiana) racconta bene lo spartiacque costituito dall’età augustea nella storia di Roma. Scaturito da «uno schizzo radiofonico improvvisato nel 1936», come ha ricordato Ladislao Mittner nel saggio che apre l’edizione italiana curata dall’editore Feltrinelli, il testo venne scritto in una cella delle prigioni naziste durante il 1938 e fu completato

IN FUGA DALLA DITTATURA Hermann Broch nacque a Vienna nel 1886, da una agiata famiglia di origine ebraica. Lavorò inizialmente nell’industria tessile di famiglia, poi, nel 1928, se ne allontanò e iniziò a seguire i suoi interessi per la letteratura, la filosofia, la storia e la sociologia. Costretto a lasciare l’Austria dopo l’occupazione nazista, riparò negli Stati Uniti d’America, dove si stabilí sino alla morte, avvenuta a New Haven nel 1951. Tra i suoi romanzi si possono ricordare, oltre a Der Tod des Virgil (1945); Die Schlafwandler (1930-1932; I sonnambuli, nella traduzione italiana), dove sono ripercorse le vicende di tre generazioni nel mondo tedesco tra il 1888 e il 1918; Die Schuldlosen (1950; Gli Innocenti), quasi la continuazione del romanzo precedente; Der Versucher (Il tentatore), pubblicato postumo nel 1953.

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QUELLA NUOVA PROGENIE DISCESA DAL CIELO La fama di Virgilio come messaggero di un mondo nuovo si fonda soprattutto sulla quarta egloga delle Bucoliche: «L’ultimo tempo è venuto del carme Cumano; / una grande serie di secoli nasce da capo. / Ritorna perfino la Vergine, il regno ritorna / di Saturno e nuova progenie scende dal cielo. / Al nascente fanciullo – per cui scompare dal mondo / la stirpe di ferro e quella risorge dell’oro – / guarda benigna casta Lucina: già regna il tuo Apollo» (versi 5-11; traduzione di Enzio Cetrangolo). Quel fanciullo (puer) venne identificato piú tardi, nel mondo cristiano, con Gesú Cristo nascituro. Frontespizio del Virgilio Ambrosiano di Francesco Petrarca. 1300-1326. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana. Il codice trasmette, fra gli altri, i testi delle Bucoliche, delle Georgiche e dell’Eneide di Virgilio.


ARCHEOLOGIA E LETTERATURA

negli Stati Uniti d’America, dove Broch – scarcerato – riuscí a rifugiarsi grazie all’interessamento di vari amici stranieri, tra i quali lo scrittore James Joyce. Il romanzo venne pubblicato in prima edizione nel 1945 a New York insieme alla sua traduzione in lingua inglese. Secondo la testimonianza di alcuni conoscenti, lo scrittore lo avrebbe portato a termine per gratitudine verso le persone amiche incontrate negli Stati Uniti, Paese nel quale continuò a vivere divenendo prima ricercatore presso l’Università di Princeton e poi professore di letteratura tedesca nell’Università di Yale.

L’ARRIVO A BRINDISI Il romanzo ricostruisce le ultime diciotto ore di vita di Virgilio e si apre con l’arrivo del poeta nel porto di Brindisi: «Azzurre e leggere, mosse da un lieve, appena percepibile vento contrar io, le onde dell’Adriatico erano corse incontro alla squadra imperiale, quando essa, avvicinandosi lentamente alle piatte colline della costa calabra, veleggiava verso il porto di Brindisi». A bordo di una delle navi si trovava Virgilio, malato e di ritorno dal viaggio che aveva voluto fare ad Atene. Con lui era tornato in Italia anche Ottaviano Augusto per raggiungere Roma e celebrarvi il giorno della sua nascita: un atto pubblico piú che privato. A terra l’accoglienza dell’imperatore era stata predisposta con cura: «nella fila di case allineate intorno al bacino tutte le finestre erano illuminate sino alle soffitte e cosí le osterie, una dopo l’altra, sotto i colonnati; attraverso la piazza si snodava una doppia schiera di soldati dotati di fiaccole, scintillanti gli elmi, l’uno a fianco dell’altro». Quindi la folla, una grande folla che, all’arrivo del principe, proruppe in un urlo di giubilo: «senza pausa e senza fine, vittorioso, vibrante, irrefrenabile, pauroso, immane, servile, 62 a r c h e o

UNA BELLISSIMA FRAGILITÀ Cosí Elias Canetti descrive lo scrittore viennese: «Broch, sebbene fosse arrivato in compagnia del suo editore e questa circostanza facesse pensare a un certo sussiego, mi sembrò alla fine della lettura un uomo assai fragile. Era una bellissima fragilità che aveva il suo presupposto in un animo sensibile». E, ancora: «Non di rado nelle sue frettolose camminate, Broch veniva a trovarci nella Ferdinandstrasse. Mi pareva di vedere in lui un uccello, grande e bellissimo ma con le ali mozze. Sembrava che si ricordasse di un tempo in cui poteva ancora volare».

sé stesso adorando nella persona dell’Uno». E qui la memoria dello scrittore sembra andare alle adunate oceaniche alle quali aveva potuto assistere negli anni Trenta del Novecento in Europa. Negli anni della sua maturità: era nato, infatti, a Vienna nel 1886.

QUELL’IMPERO CREATO PER LE MASSE La descrizione dello sbarco a Brindisi dell’imperatore e del poeta – quest’ultimo piú nascosto al pubblico – dette modo a Broch di riflettere sul concetto di massa come farà in altre parti del romanzo e della sua intera opera. Un tema divenuto centrale negli anni Venti e Trenta del secolo scorso: «Questa era dunque la massa per la quale viveva l’imperatore, per la quale l’impero era stato creato, per la qua-


PIÚ DI UNA PAGINA AL MINUTO Nello scrivere il romanzo dedicato alle ultime ore della vita di Virgilio, Hermann Broch ebbe ben presente l’Ulysses di James Joyce pubblicato nel 1922. In proposito annotò: «16 ore in 1200 pagine. Piú di una pagina per ogni minuto, quasi una riga per ogni secondo», come ha ricordato Ladislao Mittner nel saggio che introduce La morte di Virgilio nell’edizione Feltrinelli. Il romanzo, in questa versione, è stato tradotto dal tedesco da Aurelio Ciacchi.

furenti che le donne gli scagliavano in faccia, colpito dal frignare lamentoso di poppanti malati che si vedevano ovunque avvolti nei brandelli e nei cenci». Insomma poteva vedere l’altra faccia del mondo governato da Roma.

Lo scrittore irlandese James Joyce (1882-1941) in una foto del 1915. In basso: Elias Canetti (1905-1994), scrittore insignito del Premio Nobel per la Letteratura nel 1981. Nella pagina accanto: Hermann Broch in una foto scattata intorno al 1950.

le si era dovuto depredare la Gallia, piegare il regno dei Parti, combattere la Germania, questa era la massa per la quale era stata creata la grande pace augustea». Virgilio, in precarie condizioni di salute, viene fatto sbarcare e, dopo un tragitto in lettiga tra le vie, i vicoli e le piazze di Brindisi, riesce finalmente a raggiungere il palazzo scelto per ospitarlo: «Largo a Virgilio», «Largo al vostro poeta!». La folla faceva largo: «forse solo perché si trasportava un personaggio al seguito dell’imperatore, o forse perché quegli occhi lucidi di febbre nel cupo viso giallo del malato le ispiravano timore e inquietudine». Il percorso diviene l’occasione per Virgilio di attraversare e osservare – seppure febbricitante – la zona piú povera della città. Trasportato su un’alta lettiga da alcuni servitori, poteva osservare: «misere stanze, colpito dalle maledizioni folli e

L’«INUTILE» AFFRESCO DI UN MONDO IN DECLINO Nel romanzo, che si riallaccia a una tradizione ben consolidata, Virgilio vuole distruggere l’Eneide ritenendo inutile la sua pubblicazione. Interessante è la motivazione che Hermann Broch fa sostenere al suo Virgilio: essa va distrutta perché è divenuta inutile, dal momento che racconta un mondo destinato a cadere e che, da lí a breve, sarebbe stato sostituito da uno nuovo con valori del tutto diversi. Per lo scrittore viennese, l’età augustea costituisce lo spartiacque tra il

mondo romano e un altro che si affermerà presto su basi alternative. L’elemento di rottura è visto nel cristianesimo, non lo si afferma esplicitamente, ma è chiaro. Non si vuole entrare – e probabilmente nemmeno lo scrittore voleva farlo – in aspetti di riflessione religiosa, ma segnalare l’alterità rispetto ai valori tradizionali di Roma. L’interesse per Virgilio non è casuale, poiché Broch ben conosceva il processo di cristianizzazione

RICORDI ILLUSTRI Lo scrittore e saggista Elias Canetti (1905-1994), Premio Nobel per la Letteratura nel 1981 e autore, tra l’altro, del romanzo Auto da fé (1935) e del saggio Massa e Potere (1960), ebbe modo di frequentare Hermann Broch. Il primo incontro avvenne nell’ottobre del 1932 a casa della scrittrice viennese Maria Lazar. In quell’occasione un giovane Canetti doveva leggere il dramma Nozze, che aveva terminato solo pochi mesi prima. Il ricordo è presente in uno scritto

dello stesso Canetti, Occhio e respiro, appena ripubblicato in appendice a una nuova edizione dell’opera di Broch I Sonnambuli. II. 1903. Esch o l’anarchia, curata dall’editore Adelphi con la traduzione di Ada Vigliani. Il saggio del Premio Nobel per la Letteratura è stato qui tradotto da Gilberto Forti.

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ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/11

dell’opera del poeta durante il Medioevo, a partire dalla quarta egloga delle Bucoliche, dove l’annuncio di un’età pacificatrice e redentrice era stato interpretato come il preannuncio dell’avvento di Cristo. Una consapevolezza ben presente anche nella Divina Commedia, quan-

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do, nel canto XXII del Purgatorio, Dante Alighieri fa dire al poeta Stazio riguardo a Virgilio: «Facesti come quei che va di notte, / che porta il lume dietro e sé non giova, / ma dopo sé fa le persone dotte» (versi 67-69). Centrale, nel romanzo, è l’incontro tra Virgilio e Ottaviano Augusto,

prima che quest’ultimo parta per Roma: l’imperatore vuole incontrare il poeta allarmato dalla notizia della sua volontà di distruggere l’Eneide. Il confronto è franco, pur nel rispetto dei ruoli, che il Virgilio immaginato da Hermann Broch ha ben presente. Nel dialogo si toccano


temi diversi: innanzitutto la proprietà di un’opera d’arte. Virgilio – come autore – la rivendica, Ottaviano Augusto la considera un bene pubblico. Il poeta ribadisce di non avere scritto soltanto per il lettore, ma in primo luogo per sé e di conseguenza di poter disporre a pieno della sua opera. La replica dell’imperatore è categorica: «Sarebbe lecito forse per me abbandonare l’Egitto? Mi sarebbe lecito ritirare le truppe dalla Germania? Riconsegnare i loro confini ai Parti? Rinunciare alla pace romana?».

AL SERVIZIO DI ROMA Virgilio replica che l’opera dell’imperatore va letta sulla base della politica, mentre la sua secondo il criterio della perfezione artistica. La distinzione non è valida per Ottaviano Augusto, che controreplica: «Io non vedo la differenza; anche l’opera d’arte deve servire all’utile della collettività e perciò allo Stato». Per poi proseguire: «La tua opera è Roma, ed è quindi del popolo di Roma e dello Stato romano che tu servi e che tutti dobbiamo servire». Nel dialogo – in controluce – si deve leggere il rapporto tra l’intellettuale e lo Stato in un regime autoritario, che Hermann Broch aveva avuto modo di osservare da vicino. Interessante è la duplicità della figura dell’imperatore nel romanzo: Ottaviano e Augusto sono la stessa persona, ma sono anche due entità alternative. Il nome Ottaviano rinvia alla gioventú e agli anni della conquista del potere; Augusto alla maturità e alla gestione del potere conquistato. Indicative sono le poche righe che raccontano il saluto finale tra l’imperatore e il poeta: «Possano i tuoi occhi posare sempre su di me, mio Virgilio – disse Ottaviano, fermo in piedi tra i battenti spalancati; in quell’istante ancora Ottaviano, per allontanarsi poi come imperatore, esile, superbo, imperioso».

Le copertine dell’edizione originale del romanzo storico di Hermann Broch, Der Tod des Vergil, pubblicata nel 1945, e di una delle sue edizioni italiane. Nella pagina accanto: miniatura raffigurante l’incontro di Dante e Virgilio con due falsari che, per punizione, patiscono una malattia simile alla peste (Inferno, canto XXIX), da un’edizione della Divina Commedia. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.

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ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/11

Broch vedeva nell’abolizione della schiavitú un evento capace di gettare il mondo romano in una crisi profonda

In alto: frammento del Papiro 24 di Hawara sul quale si leggono alcuni versi dell’Eneide, da Hawara (Egitto). I sec. d.C. Londra, British Museum. A destra, sulle due pagine: Virgilio legge l’Eneide ad Augusto e Ottavia, olio su tela di Jean-Joseph Taillasson. 1787. Londra, National Gallery.

Virgilio rinuncia all’idea di bruciare l’Eneide – come è ben noto – e ne affida la curatela a Lucio Vario e Plozio Tucca, suoi amici fedeli. Ma nel romanzo pone una condizione all’imperatore: i suoi schiavi devono essere liberati. L’imperatore segnala le difficoltà che la scelta può creare a chi gestisce i beni del poeta presso Mantova («tu gli creerai difficoltà, se gli porti via a un colpo tutti gli schiavi»), poi ironizza amichevolmente sulla condizione posta: «Virgilio, se questa era l’unica condizione che tu avessi da porre, ci saremmo potuti risparmiare la nostra lunga discussione». Per Broch, la liberazione di alcuni schiavi e, in prospettiva, della schiavitú, viene considerata l’evento in 66 a r c h e o

grado di generare una crisi profonda nel mondo romano e – nel romanzo – Virgilio, con tale scelta, diviene colui che rompe un equilibrio secolare: il cantore della grandezza di Roma appare come colui che contribuisce a disarticolarla. Uno scrittore può avvertire in profondità le ingiustizie del proprio tempo, viverle dentro di sé e quindi riconoscerle a pieno. Piú di uno statista o di un uomo di azione, può offrire un contributo per il loro superamento: è la rivendicazione del proprio operato da parte di un grande scrittore, come Hermann Broch. NELLA PROSSIMA PUNTATA • Lidia Storoni Mazzolani


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MONUMENTI • DOMUS AUREA

L’OTTAGONO DELLE MERAVIGLIE TORNIAMO A OCCUPARCI DELLA SALA OTTAGONALE DELLA DOMUS AUREA, CUORE DEL PADIGLIONE DELLA REGGIA DI NERONE SITUATO SUL COLLE OPPIO, E, IN PARTICOLARE, DEL SUO APPARATO DECORATIVO. LA SUA RICOSTRUZIONE ANIMA INFATTI IL DIBATTITO FRA GLI STUDIOSI, CHE TUTTORA SI CIMENTANO NELL’IMPRESA DI DEFINIRE QUALE FOSSE E CHE ASPETTO AVESSE LA CENATIO ROTUNDA DESCRITTA DALLO STORICO SVETONIO CON PAROLE CHE NE HANNO FATTO QUASI UNA LEGGENDA di Alessandro Blanco

I

l settore della Domus Aurea realizzato sul colle Oppio si caratterizza per lo straordinario stato di conservazione, essendo giunto pressoché intatto fino ai giorni nostri perché interrato già in epoca antica per fungere da terrazzamento per le monumentali Terme di Traiano. Sebbene questa porzione della residenza neroniana sia stata frequentata per secoli da visitatori che si calavano al suo interno da cavità ricavate nelle volte per osservare e riprodurre le decorazioni a «grottesche», scavi sistematici furono condotti solo a partire dalla fine degli anni Venti, modificando notevolmente la fisionomia sia interna che esterna del complesso. Nell’articolazione dei vani sono riconoscibili due settori dalla conce-

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zione architettonica completamente differente. Quello occidentale ha un impianto molto tradizionale nei suoi vani quadrangolari disposti paratatticamente: è contraddistinto da un vasto peristilio, oggi quasi del tutto colmo di terra, e dal Ninfeo di Polifemo, la cui volta è ancora decorata con ricchi mosaici policromi in pasta vitrea. Il settore orientale presenta un impianto rivoluzionario, dominato dal complesso tricliniare della Sala Ottagonale incastonato simmetricamente tra due cortili pentagonali. Sin dal 2013 prima la Soprintendenza Speciale, poi il Parco Archeologico del Colosseo, insieme all’Istituto Archeologico Germanico, hanno promosso una fervida attività di analisi architettonica e documen-


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tazione archeologica degli ambienti, La posizione della L.go di Torre P.za Farnese spesso propedeutica a interventi Domus Argentina Aurea nel conservativi, volta a comprendere la contesto dell’area complessità degli interventi antichi archeologica in relazione ai diversi progetti che centrale di Roma. Gianicolo coinvolsero il colle Oppio anche P.za prima e dopo il palazzo diTrilussa Nerone: Iso questo lavoro di lettura e interprela T ibe rin a tazione delle tracce leggibili sulle P.za S.Maria P.za

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L’utilizzo nella Domus Aurea di aste telescopiche, prima dell’avvento dei droni, ha permesso di analizzare dettagli non visibili da terra e di eseguire una documentazione dettagliata dei diversi ambienti della reggia neroniana, compresa la Sala Ottagonale. a r c h e o 69


MONUMENTI • DOMUS AUREA

mente attribuiti a Nerone, sono da riferire a epoca flavia, forse a Domiziano. Un preciso riscontro proviene dalle decorazioni dell’edificio della «Città Dipinta», un altro grandioso edificio distrutto per far spazio alle Terme di Traiano, realizzato con ogni probabilità da Vespasiano. Anche il settore orientale è stato oggetto di analisi: i resti preesistenti alla reggia neroniana e assorbiti al suo interno permettono di ricostruire l’esistenza di un edificio a quattro bracci, in parte mantenuto dagli architetti neroniani, poiché, sostenendo il pendio del colle Oppio, assecondava l’impianto dei due piani del nuovo palazzo neroniano, velocizzandone la realizzazione.

Il rilievo fotogrammetrico di ambienti fortemente sviluppati in altezza, per di piú in condizioni di scarsa luminosità, ha reso necessario l’utilizzo costante di un set di illuminazione fotografico.

murature antiche è reso particolarmente arduo dall’ampiezza dell’insieme, composto da circa 150 ambienti e dall’attuale carattere ipogeo, che rende difficoltose le osservazioni a causa della scarsa illuminazione. Numerose sono le novità scaturite: nonostante sia opinione diffusa che questo settore della Domus Aurea sia 70 a r c h e o

stato realizzato esclusivamente dopo l’incendio del 64 d.C. e prima della morte di Nerone avvenuta nel 69, è stato individuato un importante intervento edilizio di modifica strutturale e decorazione di epoca successiva: è emerso cosí che i mosaici policromi del Ninfeo di Polifemo e del contiguo vestibolo, tradizional-

CENTRALITÀ DELLA SALA L’individuazione di undici fasi di cantiere relative alla costruzione della reggia in epoca neroniana prova la centralità del quartiere della Sala Ottagonale, impiantato da subito, e lo sviluppo successivo dei due cortili pentagonali, realizzati, con ogni probabilità, contemporaneamente e simmetricamente su due fronti. La concezione architettonica della Sala Ottagonale ha senza dubbio una portata rivoluzionaria nella storia dell’architettura romana da


molteplici punti di vista: per la sua planimetria innovativa, con ambienti disposti a raggiera intorno a cinque degli otto lati; per lo studio dell’illuminazione, con finestre aperte al di sopra dell’estradosso della cupola; per la morfologia delle volte, conservando uno dei piú antichi esempi di soluzione a cro-

ciera attestato nel mondo romano. Un virtuosismo architettonico si cela nella modellazione della volta della Sala Ottagonale: nella metà inferiore, essa ha la conformazione di una volta padiglione su pianta ottagonale, mentre, nella metà supe-

riore, assume una forma emisferica. La transizione dall’una all’altra è molto graduale, ma, per forza di cose, ha generato alcune irregolarità negli angoli tra le falde, oggi quasi impercettibili. Per nasconderle, gli architetti di Nerone inserirono in questi punti

In alto: pianta del padiglione esquilino della Domus Aurea. A destra: veduta aerea della Domus Aurea nel 1928: la foto mostra, in occasione della sistemazione a giardino del colle, lo scavo di diversi ambienti antistanti l’esedra traianea e la realizzazione di numerosi lucernari per dare luce e aria al complesso (tra cui spicca la sistemazione dell’estradosso dell’ottagono). a r c h e o 71


MONUMENTI • DOMUS AUREA

o stoffa o la presenza di una struttura sospesa, fissa o girevole. In realtà, sono presenti innumerevoli fori da chiodo, la cui prevalente disposizione lungo cinque file orizzontali, dove spesso appaiono accoppiati, rivela chiaramente come essi fossero funzionali a elementi applicati progressivamente per fasce. Una delle principali novità di questa ricerca consiste nell’aver intuito, esaminate le dimensioni e la frequenza dei chiodi, che questi sostenessero un rivestimento composto da lamine metalliche, la cui duttilità ben si prestava ad attuare la variazione morfologica – da padiglione a cupola – voluta per l’intradosso; altri chiodi, al di fuori di questo schema, potevano sostenere decorazioni a sbalzo.

elementi decorativi aggettanti, forse accoppiati, sorretti da una doppia barra metallica a «T» affogata nel calcestruzzo in costruzione, una modalità che rivela la pesantezza di questi elementi, con ogni probabilità metallici: di tutto ciò rimane oggi solo una cavità, ricavata per asportarli, con l’impronta in negativo del sostegno. A favore di quest’interpretazione, attestazioni analoghe ricorrono in una calotta della sala 51 della stessa Domus Aurea, in diversi ambienti delle Terme di Caracalla e ancora nell’Hadrianeum e nel Pantheon, dove i cassettoni delle volte erano decorati probabilmente con rosoni bronzei.

UNA VOLTA SENZA DECORAZIONI? La superficie interna della volta presenta oggi un aspetto rozzo, mostrando le impronte del tavolato della centina (cioè la cassaforma utilizzata per realizzarla): è singolare che in un complesso che stupisce per la quantità e per la raffinatezza delle decorazioni dipinte, la 72 a r c h e o

volta della sala piú importante non sia stata affrescata, mancandone persino gli strati preparatori. Eppure è impossibile che un rivestimento non sia mai esistito: la decorazione di un ambiente procede generalmente dall’alto verso il basso e i pilastri della Sala Ottagonale conservano ancora le tracce del rivestimento marmoreo originario. Questa impasse ha generato diverse ipotesi tra gli studiosi, tra cui l’utilizzo di arredi temporanei in legno

DORATO PER UN GIORNO Queste lamine erano con ogni probabilità in bronzo dorato, poiché è noto dalle fonti storiche quanto Nerone prediligesse questo materiale: secondo Tacito (Ann., 15, 42) l’utilizzo di oro e gemme nella Domus Aurea suscitava meraviglia nonostante fossero usati abitualmente anche prima, mentre Plinio il Vecchio (Nat. Hist. 33, 16) ci testimonia che Nerone aveva dorato il teatro di Pompeo per mostrarlo per un solo giorno al re Tiridate. Questo genere di rivestimento è attestato su superfici cosí estese in


Particolare di una decorazione a mosaico proveniente dall’edificio della «Città Dipinta», realizzato con ogni probabilità da Vespasiano e poi distrutto per fare spazio alle Terme di Traiano. Nella pagina accanto, in alto: il mosaico di Ulisse e Polifemo. Nella pagina accanto, in basso: pianta dell’edificio preesistente alla reggia neroniana: da notare le murature superstiti (in rosso), quelle presunte (in rosa), gli interri antichi (in marrone). Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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casi rari e di straordinario valore, quali l’Hadrianeum o il Pantheon: quest’ultimo, come noto, era ampiamente decorato in bronzo, e nonostante conservi oggi un tratto dell’originale rivestimento solo intorno all’oculus all’esterno della cupola, questo è ipotizzabile anche per l’intradosso. Ulteriori testimonianze ci vengono dalle fonti storiche: Procopio di Cesarea (Bell. Goth. 1, 25) attesta che, ancora nel VI secolo d.C., il Tempio di Giano al Foro Romano era tutto di bronzo – o, piú probabilmente, rivestito di tale materiale –, mentre Pausania (Per., 5, 12, 6), riferendosi con ogni probabilità alla Basilica Ulpia, sottolinea come «sia da vedere non solo per la decorazione, ma soprattutto per la presenza di una copertura bronzea». Testimonianze archeologiche o figurative di questa tecnica provengono ancora dalle navi di Nemi, le cui chiglie erano coperte da lamine in piombo, e dalla Colonna Traiana, nella quale alcuni edifici daci, all’interno di cinte murarie, appaiono

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rivestiti di lamine per proteggerli dai dardi incendiari. Sporadiche sono le notizie di ritrovamenti di sale ancora rivestite di metalli: nel tardo Cinquecento Flaminio Vacca (Mem. 101) ricorda il racconto del proprietario di una vigna presso la chiesa di S. Saba, il quale, cavando del tufo, trovò «uno stanzino molto adorno, col pavimento fatto di agata e corniola e li muri foderarti in rame dorato»; un altro ritrovamento è attestato intorno al 1650 a Villa Adriana, quando «il tagliapietre Baratta scoprí, tra le altre curiosità, una scala con gradini di alabastro e le pareti ornate con pannelli di metallo». Considerato che la Sala Ottagona-

le doveva rappresentare il fulcro di questo settore, la ricchezza di tale rivestimento è pressoché inimmaginabile, se non attraverso i riferimenti di Svetonio e Tacito alla dimora neroniana, ricoperta d’oro e rivestita di pietre preziose, le rappresentazioni pittoriche degli arredi architettonici in materiali preziosi e le rarissime attestazioni archeologiche, come quelle provenienti dagli Horti Lamiani. La presenza di due incassi anulari e concentrici sull’estradosso della volta, generalmente messi in relazione con il presunto meccanismo rotante della cupola, deve essere attribuito allo strappo di un elemento al loro

Nella pagina accanto, in alto: pianta delle fasi di cantiere, ben undici, del settore orientale del padiglione esquilino della Domus Aurea. Nella pagina accanto, in basso: le tracce sulla volta dell’ottagono: in giallo le risarciture moderne (quelle lungo i pilastri nascondono i discendenti per le acque meteoriche); le frecce rosse indicano le cavità, irregolari, finalizzate al recupero delle barre metalliche a « T»; le frecce verdi indicano incassi per lo piú regolari e a sezione quadrangolare, finalizzati all’inserimento di travi di supporto della centina lignea. In basso: modello tridimensionale della Sala Ottagonale, che evidenzia bene la morfologia dell’intradosso della volta.


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MONUMENTI • DOMUS AUREA

interno, come dimostrano i bordi irregolari e frastagliati; risulta meno probabile la costruzione voluta di due guide, che vengono generalmente ricavate in elementi lapidei, per contrastare l’usura. A giudizio di chi scrive, la presenza di rotaie, suggerita in alcune ricostruzioni (vedi «Archeo» n. 464, ottobre 2023; on line su issuu.com), deve essere esclusa perché ignoti al mondo antico, mentre sembrano trovare giustificazione, piuttosto, nell’alloggiamento di un elemento decorativo continuo, come un clipeo o una lanterna, che doveva ri-

sultare visibile sia dal piano superiore della Domus Aurea (dotato di un affaccio sull’estradosso), sia, in parte, dall’interno della Sala Ottagonale. L’individuazione di un rivestimento «fisso» per la cupola della Sala Ottagonale sembra escludere l’identificazione con «la principale delle sale da pranzo, rotonda, che girava continuamente giorno e notte, come il mondo», di cui ci parla Svetonio (Nero, 31: «praecipua cenationum rotunda quae perpetuo diebus ac noctibus vice mundi circumageretur»). Anche senza dar peso alla differente forma

A destra: barra a «T», rinvenuta in un frammento di volta in crollo nelle Grandi Terme di Corinto.

In basso: confronti per elementi decorativi in metallo sostenuti da barre metalliche inserite nella volta.

AMB. 51 DOMUS AUREA

TERME DI CARACALLA

HADRIANEUM

PANTHEON

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planimetrica, l’attribuzione al padiglione esquilino si basa sul preconcetto che il settore dell’ottagono sia stato completato in epoca neroniana e che la sua frequentazione abbia destato tanto clamore da essere ricordato nelle fonti come la principale delle sale da pranzo di Nerone: la realtà archeologica, invece, mostra tutt’altro, un settore rimasto sempre cantiere e mai completato in antico, una cenatio che difficilmente sarebbe stata praecipua senza essere dotata neppure di una pavimentazione!

STUPIRE INNANZI TUTTO Che senso avrebbe avuto, inoltre, far ruotare giorno e notte una calotta posta sull’intradosso di una volta se risultava visibile dai commensali solo nel tempo del banchetto? Sembra molto piú plausibile, in assenza di resti a cui attribuirlo, ipotizzare un meccanismo rotante limitato all’estradosso o all’esterno di una struttura circolare e realizzato in materiale leggero per durare nel tempo, con l’obiettivo di stupire non solo i convitati, ma chiunque potesse osservarlo ruotare giorno e notte dal di fuori; doveva risultare maggiormente impressionante se osservato a distanza, apparendo come una sala rotante su se stessa a tutti gli effetti. L’obiettivo perseguito da Nerone, del resto, era quello di destare stupore e meraviglia tra i sudditi, in modo da accrescere la propria fama e popolarità: non a caso, tale meraviglia ha meritato di essere citata nella biografia di questo imperatore. Nell’analisi architettonica della Sala Ottagonale, importanti prospettive di ricerca sono state ottenute incrociando i dati provenienti dalla lettura diretta del monumento con i dati d’archivio: in particolar modo, lo spunto è stato offerto dal principale degli ambienti disposti a raggiera intorno all’ottagono, la sala 124, adibita in antico a ninfeo e dotata di un ripido scivolo d’acqua, lungo 10 m circa, che veniva alimentato dal li-

vello superiore, secondo modalità finora poco approfondite. Il piano superiore della Domus Aurea è noto grazie alle indagini condotte da Laura Fabbrini (19262013) alla fine degli anni Settanta del Novecento, limitate al quartiere dell’ottagono. Sebbene gli alzati si-

Dall’alto: i fori da chiodo sulla volta della Sala Ottagonale e gli scassi d’asportazione delle barre metalliche presenti sull’intradosso e il rilievo dei fori da chiodo.

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MONUMENTI • DOMUS AUREA

ano stati quasi completamente distrutti in epoca traianea, gli scavi hanno permesso di riscontrare la presenza di tre lunghi porticati ortogonali e di diversi ambienti rasati a livello dei pavimenti: rilevante è la presenza di giochi d’acqua, essendo riconoscibili due ninfei speculari e un lunghissimo euripus. Questo era un enorme bacino d’acqua realizzato subito a monte del Grande Criptoportico 92: nonostante sia stato indagato solo per limitati saggi, è ricostruibile un’ampiezza di 54 x 7,50 m circa, per una profondità di 1,5 m circa. Le dimensioni impressionanti trovano giustificazione nella disponibilità di Sulle due pagine, in basso: esempi di rivestimenti in lamine metalliche. Da sinistra, Pantheon, nave di Nemi e Colonna Traiana.

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In alto: pianta che evidenzia le sale con decorazione assente (in bianco), incompleta (in arancione), completa (in rosa); la presenza di decorazioni postneroniane è evidenziata a tratteggio. Qui sotto: il ninfeo della Sala Ottagonale.


A destra: planimetria del piano superiore della Domus Aurea: in azzurro il sistema d’adduzione, in arancione il sistema di smaltimento delle acque.

un’ottima portata idrica, garantita dal passaggio di diversi acquedotti. Le pareti dell’invaso erano molto articolate: ampie absidi semicircolari erano poste sui lati corti mentre i lati lunghi erano composti da nicchie alternativamente semicircolari e rettangolari con pilastrino centrale.Tracce presenti sulle strutture suggeriscono che ogni pilastrino fosse dotato di uno zampillo d’acqua, testimoniando l’esistenza di una tubazione che correva lungo il perimetro dell’invaso e che poteva alimentare fino a cinquanta getti, movimentando l’enorme specchio d’acqua. Lo smaltimento delle acque era assicurato da un condotto fognario coperto a cappuccina posto lungo tre lati, che doveva raccordare diversi punti di scarico disposti lungo

il perimetro dell’invaso e che faceva confluire l’acqua, tramite due archetti, in un vano rettangolare (3,20 x 2,10 m circa), posto in cima allo scivolo della Sala Ottagonale.

GIOCHI DI LUCE Come ben raffigurato in sezione, un muro moderno di tamponatura separa oggi la sommità dello scivolo da questo vano, ma in antico questo doveva configurarsi come una vera e propria nicchia a cielo aperto rivolta verso la Sala Ottagonale. Se ne deduce un raffinato gioco di luce, la cui presenza è ben attestata nella Domus Aurea: lo scivolo d’acqua doveva apparire, a chi si trovava ai suoi piedi nel quartiere dell’ottagono, come una lunga galleria semibuia con in cima un vano provvisto di forte illuminazione, punto focale dell’asse dell’ottagono.

Sulla superficie dello scivolo si trovano oggi tre profondi scassi, provocati dall’asportazione di tubazioni di medio calibro allettate al di sotto del piano inclinato; questi scassi terminano inferiormente in prossimità di un elemento in cementizio che doveva fungere da argine ed evitare che la massa d’acqua si riversasse sul pavimento della sala sottostante. Una foto di scavo testimonia come queste tubazioni si innestassero direttamente nella pavimentazione dell’euripus, che fungeva da bacino di alimentazione, garantendo loro una forte pressione: la chiusura delle fistulae nella loro parte inferiore testimonia che queste dovevano essere opportunamente forate per creare lungo lo scivolo considerevoli zampilli o ventagli d’acqua. Completano il quadro della conoscenza due grandi pozzetti di scari-

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MONUMENTI • DOMUS AUREA

Due foto relative allo scavo dell’euripus e della nicchia (1979-1980); le frecce indicano il medesimo arco da due differenti punti di vista; in evidenza la tamponatura moderna che cela la vista dello scivolo d’acqua. In basso: rilievi e fotografie dello scivolo del ninfeo della Sala Ottagonale.

co, ben rappresentati nella sezione generale: un primo pozzetto, posto sul fondo della nicchia, fu probabilmente defunzionalizzato in una fase di modifica del complesso, mentre un secondo pozzetto, ai piedi dello scivolo, doveva assicurare il completo smaltimento delle acque. Oggi risulta purtroppo assai difficile ricostruire il funzionamento dell’intero sistema, caratterizzato, secondo Fabbrini, da varie fasi di funzionalità e di trasformazione del complesso,

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ma è fuori di dubbio che la progettazione del complesso della Sala Ottagonale abbia previsto sin dall’origine la presenza dello scivolo e dell’euripo, in una stupefacente connessione architettonica che permette di riconoscere nel primo un elemento di svuotamento del secondo. I potenti sistemi d’adduzione e di smaltimento delle acque fanno ipotizzare l’esistenza di due differenti stati di funzionamento – un regime ordinario e uno straordinario,

destinato a creare stupore – incentrati sull’apertura o la chiusura delle saracinesche che dovevano consentire lo svuotamento del bacino. In regime ordinario, l’euripus appariva animato dalle numerose bocche d’acqua, colmo fino al livello di troppo pieno; l’eccesso doveva tracimare nella nicchia, formando un velo d’acqua lungo lo scivolo mentre le fistulae generavano potenti zampilli. Una condizione del genere banalizza la presenza dello scivolo d’acqua, che doveva rimanere quasi invisibile alle spalle del gioco d’acqua. Sembra perciò necessario, dato il potente sistema di smaltimento delle acque, ipotizzare un secondo stato in cui, aperti gli scarichi i due canali dovevano riversare un’ingente massa d’acqua nella nicchia e quindi nello scivolo causando un repentino svuotamento dell’euripus. Considerando la destinazione tricliniare del quartiere della sala ottagona, sembra possibile ipotizzare che lo svuotamento dell’euripo avrebbe costituito uno dei momenti clou dei banchetti di Nerone, se mai il piano inferiore del padiglione dell’Oppio fosse stato terminato. Non doveva essere da meno quanto accadeva al piano superiore, dove lo svuotamento e il successivo riempi-


In alto, sulle due pagine: sezione generale dei due livelli del complesso della Sala Ottagonale. A sinistra: sezione ricostruttiva del funzionamento idraulico del complesso in regime ordinario.

mento dell’euripo doveva rappresentare un vero e proprio spettacolo che l’imperatore offriva per stupire i suoi ospiti, analogamente a quanto analizzato per la cenatio rotunda. Una conferma di questo funzionamento sembra provenire dalle fonti: è singolare che la Sala Ottagonale sia stata spesso avvicinata alla cenatio rotunda, ma nessuno l’abbia collegata al passo delle lettere a Lucilio di Seneca (Ep. Ad Lucilium, 14, 90, 15) che, riportando vari espedienti architettonici, dice: «Oggi chi potresti ritenere piú saggio? (...)

chi riempie gli euripi con un improvviso getto d’acqua o li prosciuga (...)?».

INDIZI DECISIVI L’artificio descritto da Seneca sembra trovare un preciso riscontro nel contesto architettonico dell’ottagono e sembra difficile non immaginare come artefici i magistri et machinatores Severo e Celere, il cui operato è noto nella realizzazione di canali di ben altra portata (avevano promesso, infatti, di scavare un canale navigabile dal lago di Averno alle foci del Tevere!).

Se l’analisi condotta fin qui coglie nel segno, se accettiamo che Seneca abbia fatto riferimento a questo euripus, che avrebbe potuto benissimo vedere essendo stato precettore di Nerone, tenendo conto che le Epistole a Lucilio furono scritte tra il 62 e il 64 e descrivono realtà antecedenti l’incendio neroniano, abbiamo un forte indizio per anticipare la datazione di tutto il padiglione del colle Oppio e attribuirlo alla Domus Transitoria e non, come tradizionalmente fatto, alla Domus Aurea. L’ipotesi che nel padiglione esquilino debba essere riconosciuta la Domus Transitoria, del resto, era già stata avanzata da Laura Fabbrini, sottolineando che un complesso cosí esteso e articolato non poteva essere stato realizzato in meno di cinque anni; la studiosa aveva evidenziato come rifacimenti successivi a un incendio siano attestati nel piano superiore, ma di lieve entità, confermando la notizia di Tacito secondo la quale l’incendio del 64 d.C. aveva solo lambito l’Esquilino. a r c h e o 81


SPECIALE • GLADIATORI

FINO ALL’ULTIMO

SANGUE

I GIOCHI GLADIATORI FURONO PER SECOLI UNO DEGLI SVAGHI PIÚ APPREZZATI DAL POPOLO ROMANO. PERFINO SANT’AGOSTINO AMMISE CHE QUEGLI SPETTACOLI ERANO IN GRADO DI ESERCITARE UN FASCINO QUASI IRRESISTIBILE. AI CAMPIONI DELLE ARENE È ORA DEDICATA UNA MOSTRA ALLESTITA NEI SUGGESTIVI SPAZI SOTTERRANEI DEL COLOSSEO, CHE, ATTRAVERSO REPERTI INEDITI, FEDELI REPLICHE DEGLI EQUIPAGGIAMENTI UTILIZZATI PER COMBATTERE E UN ASSAI REALISTICO APPARATO MULTIMEDIALE, DOCUMENTA TUTTI GLI ASPETTI DI UN FENOMENO DI COSTUME, E NON SOLO, DI INTRAMONTABILE INTERESSE a cura della redazione 82 a r c h e o


Rilievo funerario con scena di lotta fra due gladiatori, da Nersae (Pescorocchiano, Rieti). Fine del I sec. a.C. Il reperto è attualmente esposto nella mostra «Gladiatori nell’Arena, tra Colosseo e Ludus Magnus», allestita negli spazi sotterranei del Colosseo e visitabile fino al 7 gennaio 2024.

N

egli ultimi minuti che precedevano l’ingresso nell’area, la mente dei gladiatori era attraversata da pensieri che possiamo soltanto immaginare. Grazie all’archeologia, invece, siamo in grado di ricostruire con precisione dove quegli attimi si consumavano: un luogo che, nel caso di Roma, si identifica con il corridoio di collegamento fra il Ludus Magnus – la palestra adibita all’addestramento e all’allenamento dei protagonisti dei combattimenti (vedi alle pp. 102-105) – e il Colosseo. Quel percorso, oggi solo parzialmente conservato, torna a essere visitabile e, anzi, fa da scenario a una delle principali attrazioni della mostra

allestita nei sotterranei dell’Anfiteatro Flavio, «Gladiatori nell’Arena. Tra Colosseo e Ludus Magnus», visitabile fino al prossimo 7 gennaio 2024. Un’esposizione dalla quale prendiamo le mosse per ripercorrere la storia di una delle forme di spettacolo piú popolari e apprezzate della Roma antica. L’origine dei combattimenti di gladiatori (munus) è da ricercare probabilmente in area osco-sannitica: a Paestum sono state rinvenute tombe dipinte (databili alla prima metà del IV secolo a.C.), in cui sono raffigurate corse di bighe, incontri di pugilato e combattimenti tra uomini armati che ricondurrebbero ai giochi gladiatori. Appare evidente l’origine funeraria di questi spettacoli, offerti appunto in onore di importanti personaggi defunti. Secondo Tertulliano (apologeta e scrittore cristiano attivo nel II-III secolo d.C.) e, soprattutto, Servio (grammatico latino del IV-V secolo d.C.), in origine, presso le tombe di grandi personaggi, venivano sacrificati prigionieri di guerra o schiavi acquistati appositamente, in ossequio alla credenza secondo la quale, per assicurarsi il favore dei defunti, bisognava assolvere all’obbligo o impegno (da cui il termine munus con il quale si indica il combattimento tra coppie di gladiatori) di versare sangue umano. Ma, come dice Servio «dopo che quest’uso venne considerato crudele, si decise che davanti alle tombe combattessero gladiatori».

DALLA CAMPANIA A ROMA Se dunque la gladiatura nacque dal sacrificio umano compiuto per placare i Mani, cioè gli spiriti dei defunti, non è chiaro se i Romani avessero importato tali giochi direttamente dall’area campana o se vi sia stata una mediazione da parte degli Etruschi, come sembra invece suggerire un passo dello storico e filosofo greco Nicola Damasceno, attivo nel I secolo a.C. L’origine campana dei giochi resta comunque l’ipotesi piú probabile, poiché proprio in Campania sorsero i primi anfiteatri in muratura (a Pompei, Capua, Pozzuoli, Telese). Secondo le fonti letterarie (Servio, Lia r c h e o 83


SPECIALE • GLADIATORI Mosaico con combattimento di gladiatori alla presenza dell’arbitro, armato del bastone (rudis) simbolo del suo ruolo, dalla villa di Nennig (Germania). III sec. d.C. Saarbrücken, Saarland Museum.

vio, Valerio Massimo), a Roma tali giochi vennero realizzati per la prima volta nel 264 a.C., nel Foro Boario, per iniziativa di Decimo e Marco Bruto, in onore del defunto padre Bruto Pera. Dal III secolo a.C. e nel successivo, in occasione dei funerali di importanti membri delle gentes piú nobili, vennero offerti altri combattimenti, effettuati prevalentemente nel Foro. Insieme ai munera (plurare di munus), venivano anche offerti banchetti, distribuzioni pubbliche di carne e spettacoli teatrali.

IL TEATRO ABBANDONATO La crescita dell’interesse per tali spettacoli è testimoniata dal numero di gladiatori ingaggiati, che vanno dalle ventidue coppie reclutate per i funerali di 84 a r c h e o

Marco Emilio Lepido del 216, alle sessanta assoldate per quelli di Publio Licinio del 183 a.C. A conferma del crescente gradimento riscosso da queste forme di intrattenimento è stato tramandato un aneddoto secondo il quale, durante la rappresentazione di una commedia di Terenzio, gli spettatori, avendo appreso che stavano per cominciare i combattimenti in onore di Lucio Emilio Paolo, abbandonarono il teatro, per correre ad assistervi. Nel corso del II secolo a.C. i munera si diffusero in tutta l’Italia e nelle altre province. Inoltre, se dalla media età repubblicana e fino alla prima epoca imperiale i giochi gladiatori ebbero carattere privato e funerario (Cicerone definí il gladiatore bustuarius, perché combat-


Lastra in terracotta raffigurante un combattimento fra gladiatori e belve. Prima metà del I sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo. Dalla costruzione sulla sinistra, due spettatori (o giudici) assistono allo scontro. Al centro, la struttura architravata su cui sono poggiate sette uova permette di collocare la scena nel Circo Massimo.

teva intorno alla pira – bustum – del defunto durante il rito funebre), il favore che incontrarono presso il popolo romano fece sí che si trasformassero in un importante strumento di propaganda politica ed elettorale. Con un provvedimento varato dal Senato nel 105 a.C., i munera divennero spettacoli pubblici a tutti gli effetti, favoriti dallo Stato per contrastare la diffusione di giochi di matrice greca, ritenuti potenzialmente lesivi delle tradizioni romane. Cosí, alla fine della repubblica, molti personaggi offrivano giochi gladiatori per sostenere la propria candidatura alle cariche pubbliche, mentre già sotto Augusto essi assunsero carattere di munificenza da parte del principe, per celebrare una vittoria o per onorare la famiglia imperiale. A partire dal I secolo d.C., almeno a Roma, l’organizzazione dei giochi divenne peraltro una prerogativa esclusiva dell’imperatore. L’unica deroga veniva concessa ai giovani questori (senatori all’inizio della carriera), che, a partire

dall’età di Claudio (41-54 d.C.), furono obbligati a organizzare annualmente i munera, ripartendosi le ingenti spese. Il luogo preferito per i combattimenti era il Foro Romano, dove si allestivano spazi provvisori in legno per contenere gli spettatori, sempre piú numerosi. Secondo il grammatico Festo (II secolo d.C.), maenianum, il termine che indicava la divisione dei settori nell’anfiteatro, deriverebbe dal censore Gaio Menio, il quale, nel 348 a.C. – dunque molto prima dei giochi offerti dai figli di Bruto Pera –, avrebbe fatto costruire balconate lignee sopra le botteghe del Foro, per ampliare la capienza degli spazi destinati agli spettatori durante i munera.

PER IL TRIONFO DI CESARE Nel 46 a.C., per celebrare il suo quadruplo trionfo, Giulio Cesare offrí numerosi giochi, comprendenti un munus, spettacoli teatrali, corse nel circo, gare atletiche e una grande battaglia navale (Svetonio, Divus Iulius, 38-39). Per i combattimenti di gladiatori, Cesare fe-

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SPECIALE • GLADIATORI

ce coprire con un velario tutto il Foro Romano, la via Sacra a partire dalla sua residenza (la Regia) e il clivo fino al Campidoglio, un’opera considerata piú mirabile dei giochi stessi (Plinio, N.H. 19.6.23); egli fece costruire anche un grande anfiteatro ligneo intorno alla piazza (teatro cinegetico), con due settori compresi tra le basiliche Emilia e Giulia, raccordati da gradinate semicircolari nei lati est e ovest. Inoltre, al di sotto della piazza, venne realizzata una serie di gallerie collegate alla superficie da montacarichi. Con Augusto, i munera continuarono a svolgersi nel Foro, ma anche nei Saepta Iulia in Campo Marzio, come accadde nel 7 e nel 2 a.C. L’allestimento dei giochi gladiatori richiedeva una complessa struttura organizzativa (ratio ad muneribus), a cui era addetto personale di rango equestre o scelto tra i liberti e gli schiavi imperiali. Tra i funzionari, conosciuti attraverso le iscrizioni, figuravano quelli addetti ai costumi dei gladiatori e dei cacciatori (a veste gladiatoria et venatoria) o quelli appartenenti alla ratio summi choragi, che si occupava dei macchinari e degli ap-

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parati scenici. Di rango equestre erano i procuratores familiarum gladiatoriarum, che controllavano le caserme di gladiatori sparse in Italia e nelle province dell’impero; tra questi, il piú importante era naturalmente il procuratore addetto al Ludus Magnus.

FINANZIATORI E IMPRESARI Se nell’Urbe l’imperatore era spesso il solo editor dei giochi, nelle altre città l’organizzazione dei munera toccava ai magistrati locali (duoviri, aediles), obbligati a finanziare la costruzione di opere pubbliche o l’offerta annuale di spettacoli gladiatori, attingendo in parte da fondi pubblici, ma piú spesso facendosi carico dell’intera spesa. Tra gli editores di spettacoli figuravano anche senatori e cavalieri, sacerdoti e flamini del culto imperiale, seviri augustali e ricchi liberti. Questi si rivolgevano al lanista, cioè a un impresario che reclutava i gladiatori, li addestrava e li affittava per gli spettacoli. L’editore pagava una somma per i gladiatori che sopravvivevano, mentre comprava quelli morti durante i combattimenti. L’im-

In basso, sulle due pagine: rilievo funerario raffigurante i giochi di Pompei, dalla Necropoli marittima della città vesuviana. 20-50 d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Nei tre registri sono rappresentati tutti i momenti degli spettacoli anfiteatrali, dal corteo accompagnato dai musici alle venationes e ai combattimenti di gladiatori.


peratore, invece, disponeva di proprie caserme, nelle quali i gladiatori vivevano e si allenavano (come i Ludi nei pressi del Colosseo). I condannati a essere sbranati dalle fiere, invece – in genere disertori, traditori e criminali comuni –, dipendevano dai magistrati competenti, ai quali ci si poteva rivolgere per disporne negli spettacoli. Durante il principato di Tiberio (14-37 d.C.), il Senato emanò un provvedimento che vietava di offrire spettacoli a chi disponeva di un patrimonio inferiore ai 400 000 sesterzi, corrispondente a quello dell’ordine equestre. In alcuni casi furono istituite fondazioni perpetue, alle quali si potevano destinare per testamento somme anche ingenti per l’organizzazione dei munera, sotto il controllo di curatores munerum publicorum.

In alto: un altro mosaico policromo della villa di Nennig raffigurante il combattimento fra due gladiatori armati di frusta e bastone. III sec. d.C. Saarbrücken, Saarland Museum.

PRETESE SMODATE I costi degli spettacoli, soprattutto a partire dal II secolo d.C., erano molto elevati, sia perché il pubblico esigeva un numero sempre piú consistente di coppie di gladiatori (gladiatorium paria) che di fiere, sia perché spesso i giochi si protraevano per piú giorni. I lanisti, inoltre, aumentarono progressivamente le loro pretese, chiedendo tariffe sempre piú esose per l’affitto dei propri campioni. La figura del lanista veniva paragonata a quella del lenone ed era oggetto di disprezzo, tanto da essere esclusa dai consigli municipali. Se però i guadagni degli impresari erano cospicui, il giro d’affari legato agli spettacoli anfiteatrali assicurava un enorme gettito anche alle casse imperiali, poiché gli introiti erano tassati dal fisco. L’aumento vertiginoso dei costi per l’allestimento di munera e venationes provocò spesso il dissesto finanziario degli editores, tanto che sotto Marco Aurelio e Commodo fu emanato un provvedimento che poneva un tetto alle spese per l’affitto dei gladiatori, fissandolo a un massimo oscillante tra i 5000 e i 15 000 sesterzi (il costo di un intero spettacolo poteva oscillare tra i 30 000 e i 200 000 sesterzi). Molti furono i provvedimenti emanati nel tempo sugli spettacoli gladiatori: a r c h e o 87


SPECIALE • GLADIATORI

oltre a quelli, appena ricordati, che miravano a contenerne i costi, altri cercarono di reprimere le frequenti risse tra spettatori (famosa fu quella tra Pompeiani e Nucerini, scoppiata dentro e fuori l’anfiteatro di Pompei) o di diminuire il numero di spettacoli offerti dal medesimo magistrato, o anche di imporre una quota massima di gladiatori per spettacolo.

IL RECLUTAMENTO Ma come venivano arruolati i gladiatori? Si trattava, in prevalenza, di prigionieri di guerra (tanto che venivano indicati secondo le diverse armature, tipiche di alcuni popoli vinti: Sanniti, Galli,Traci, Sarmati); altri erano invece schiavi. Secondo le leggi, alcuni potevano essere venduti dal padrone al lanista, oppure costretti a praticare il mestiere di gladiatore in seguito a una condanna. Non mancavano, tuttavia, liberti, cioè schiavi liberati – spesso appartenenti alla famiglia imperiale (si conoscono, per esempio, i nomi di C. Iulius Iucundus, Tiberius Claudius Firmus e T. Flavius Incitatus) – e perfino uomini liberi, facenti parte delle classi senatoria ed equestre; famoso, infine, è il caso dell’imperatore Commodo, che amava combattere nel Colosseo indossando l’armatura dei secutores.

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È inoltre probabile che anche i gladiatori i cui nomi (noti da iscrizioni e graffiti) sono costituiti dal solo cognome non fossero esclusivamente schiavi; poteva infatti trattarsi di uomini liberi, che avevano adottato un nome di battaglia, derivante dall’aspetto fisico (Ferox, Leo, Invictus) o da figure mitologiche (Castor, Hercules). Una categoria a parte era poi quella degli auctorati, ossia uomini liberi che si facevano ingaggiare spontaneamente come gladiatori, rinunciando per tutta la durata del contratto ai diritti di cittadino, dietro un compenso fissato in 2000 sesterzi dalla lex Italicensis, norma che regolava anche i costi degli spettacoli. Provenienti da regioni diverse dell’impero (tra cui Egitto, Spagna, Tracia, Germania), i gladiatori vivevano nelle caserme, dove si allenavano, e costituivano una familia.Venivano reclutati tra i 17 e i 18 anni e raramente sopravvivevano oltre i 30. Dalle fonti epigrafiche, si ricava che ciascuno di loro doveva combattere, al massimo, due volte all’anno, in quanto il pubblico richiedeva atleti sempre nuovi; ciononostante, sono noti i casi di gladiatori che in carriera vinsero 36 volte, come Massimo a Roma o combatterono 34 volte, come Fiamma, morto a Palermo all’età di 30

In basso: particolare del fregio del sepolcro di C. Lusius Storax con giochi gladiatori. 20-40 d.C. Chieti, Museo Archeologico «La Civitella». Il rilievo commemora il munus offerto da Lusius alla città di Teate (Chieti). Si riconoscono coppie di traci (con elmo sormontato da protome di grifo), oplomachi con l’elmo crestato, opposti ai mirmilloni con lo scudo rettangolare e la manica al braccio destro.


I gladiatori prima del loro ingresso nell’arena, olio su tela di Stepan Vladislavovich Bakalowicz. 1891. San Pietroburgo, Museo Statale di Russia.

nografiche di scontri tra gladiatori – dalle lucerne ai mosaici ai rilievi in marmo –, l’unico riscontro letterario sembra essere quello che ricorda il duello tra Prisco e Vero, tenutosi nell’80 d.C. nel corso dell’inaugurazione del Colosseo, alla presenza di Tito, e celebrato da Marziale nel Liber de Spectaculis. In questo caso il combattimento si risolse senza spargimento di sangue, con un pareggio, e lo stesso imperatore fece pervenire ai contendenti ricchi riconoscimenti, concedendo a entrambi la palma del vincitore (sebbene sia probabile che Marziale abbia voluto adulare Tito, da cui era protetto, esaltandone la generosità). Il vincitore riceveva una palma e una corona di alloro, a cui spesso si aggiungevano premi in denaro oppure oggetti preziosi; alla fine del combattimento eseguiva un giro d’onore di corsa intorno all’arena. I gladiatori che si cimentavano nel loro primo combattimento erano detti tiro (da cui tirocinio), mentre all’apice della carriera ricevevano il titolo di primus palus e venivano congedati con la consegna del già citato bastone simbolico (rudis), divenendo cosí rudiarii, cioè istruttori e arbitri. Chi trovava la morte combattendo, veniva portato via su una barella (sandapila) da inservienti mascherati da divinità infere, Caronte o Mercurio, attraverso la Porta Libitinaria, e veniva spogliato dell’armatura nello spoliarium, il locale adibito a obitorio situato vicino all’anfiteatro.

anni, oppure 27, come Generoso, a Verona. I pochi che riuscivano ad arrivare al congedo (rudiarii) rimanevano spesso all’interno della caserma come istruttori (doctores) o come arbitri nell’arena (summae e secundae rudes), come mostrano molti mosaici, nei quali li si vede impugnare il bastone (rudis) che era simbolo della loro posizione. Alcuni riuscirono anche a formarsi una famiglia, come ci dicono alcune iscrizioni in cui si legge che la moglie provvide alla loro sepoltura (anche se, nella maggior parte dei casi, dell’incombenza TIFOSI ILLUSTRI si facevano carico amici e colleghi). Gli spettatori, ma anche molti imperatori, si dividevano in tifoserie che sostenevano le varie categorie, come quella dei parmularii, IL DIRITTO ALLA GRAZIA Non sempre, il gladiatore perdente veniva che prediligevano i traci dal piccolo scudo ucciso mediante il taglio della gola (iugulatio), rotondo (parmula), o gli scutarii, che parteggiasoprattutto se si era battuto bene e riusciva a vano per i mirmilloni, dotati del piú grande rimanere in piedi (stans), e Augusto, nella sua scutum. Svetonio afferma che Caligola comlegislazione, aveva proibito combattimenti in batteva con le armi del trace, per i quali parcui non fosse prevista la grazia per il vinto. teggiava anche Tito, mentre Domiziano era Del resto, un gladiatore ben allenato e istru- probabilmente tifoso degli scutarii. ito costituiva un investimento per il lanista, È stato calcolato che in tutto l’impero romache dunque, al pari dell’organizzatore dei no dovevano essere attivi, negli oltre 200 giochi, non aveva alcun interesse a perderlo. anfiteatri di cui si ha conoscenza (ai quali Per il pubblico, inoltre, il divertimento non vanno aggiunti altri spazi, adattati in occasioconsisteva nel veder uccidere, ma nell’assiste- ne dei giochi), circa 16 000 gladiatori, pari a re alla destrezza, alla bravura e al coraggio dei tre legioni di soldati dell’esercito romano. duellanti. Gli spettatori potevano peraltro A questi si devono sommare quelli che opechiedere la grazia anche per gli animali, agi- ravano a Roma e che, secondo quanto riporta Plinio, prima della costruzione del Colostando un lembo della toga. Se innumerevoli sono le testimonianze ico- seo e durante l’imperio di Caligola, erano a r c h e o 89


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UN MITO (FORSE) DA SFATARE Il gesto di abbassare il pollice da parte del popolo e dell’imperatore, per indicare che il gladiatore sconfitto doveva essere ucciso dal suo avversario, o graziato, se la folla lo puntava verso l’alto, è un mito almeno in parte da sfatare. In realtà, non sappiamo se per decidere la sorte dello sconfitto il pollice dovesse essere diretto verso l’alto o verso il basso. Inoltre, le fonti danno conto di numerosi casi di gladiatori che, anche se sconfitti, venivano graziati, soprattutto se avevano combattuto bene. Addirittura un provvedimento emanato da Augusto (ma poi abolito) proibiva l’allestimento di spettacoli che non prevedevano la grazia per il gladiatore sconfitto (Svetonio, Augusto, XLV; Cassio Dione, 54.2.4). Infine, occorre considerare che l’addestramento di un gladiatore era un investimento per il suo lanista, pertanto non era conveniente che venisse ucciso. Sebbene siano molte le raffigurazioni di gladiatori uccisi, spesso essi morivano a causa delle ferite riportate. I combattimenti potevano infatti essere sine missione, concludendosi con la morte di uno dei contendenti, o finire con la richiesta di missio da parte dello sconfitto: quest’ultimo protendeva l’indice della mano sinistra tesa o sollevata, oppure metteva le mani dietro la schiena o si inginocchiava abbandonando lo scudo e offrendo la spada all’avversario, assumendo una posizione di inferiorità. A quel punto il vincitore non poteva piú colpire l’avversario, e l’arbitro imponeva il rispetto della norma. Gli spettatori potevano condizionare la decisione dell’editore (in genere l’imperatore), agitando un pezzo di stoffa e gridando «missus» se il gladiatore sconfitto si era battuto

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bene e se era rimasto in piedi, o «iugula», «verbera», «ure» («sgozza», «frusta», «brucia») in caso contrario, indicando con il pollice in basso o coprendolo con le altre dita. La richiesta della grazia si esprimeva invece puntando il pollice teso contro il petto. L’editore comunicava allora la sua decisione all’arbitro, potendo anche rifiutare la missio; in questo caso, il vincitore finiva l’avversario, tagliandogli la gola. Si deve comunque osservare che le fonti non parlano mai di rifiuto della grazia, ma di ordine di uccidere lo

sconfitto. Sembra che, a partire dal III secolo d.C., la decisione sull’eventuale grazia venisse rimessa al vincitore, come accadde nel 215 d.C. a Nicomedia: un gladiatore sconfitto domandò la grazia a Caracalla, che rispose di chiederla direttamente al suo avversario, in quanto lui non poteva salvarlo (Cassio Dione, Historiae Romanae, LXXII, 19,5). E si conosce perfino un’iscrizione funeraria nella quale il gladiatore defunto si pente di aver risparmiato il suo avversario, che lo uccise in un duello successivo.

Pollice verso, olio su tela di Jean-Léon Gérôme. 1872. Phoenix, Phoenix Art Museum. Che la sorte del gladiatore sconfitto dipendesse dalla scelta dell’imperatore e del popolo, espressa rivolgendo il pollice verso l’alto oppure verso il basso, è una tradizione che, a oggi, non ha trovato riscontri.


circa 20 000. Secondo altre stime, ogni anno ne morivano in combattimento circa 8000. Dalla vendita dei gladiatori, le casse imperiali ricavavano tra i 20 e i 30 milioni di sesterzi l’anno, e il giro di affari complessivo era compreso trai 60 e i 120 milioni di sesterzi.

LA FINE DI UN’ERA L’ultima testimonianza di munera realizzati a Roma sembra risalire al 434-435 d.C. ed è un contorniato emesso sotto Valentiniano III, che su un lato mostra una venatio nel Circo Massimo e, sull’altro, un combattimento di gladiatori. Oltre all’influenza del pensiero cristiano, a partire dal IV secolo gli alti costi degli spettacoli portarono lentamente ad abbandonare la gladiatura. In alcune province, come in Gallia e Spagna, non si offrivano piú munera agli inizi del IV secolo, dopo le invasioni della seconda metà del secolo precedente, mentre in Africa e in Oriente ancora se ne realizzavano sporadicamente intorno alla metà del IV secolo. A Roma la situazione era diversa, in quanto In alto: mosaico raffigurante il combattimento di una coppia di gladiatori, Habilis e Maternus, alla presenza di due arbitri, da Roma. III sec. d.C. Madrid, Museo Archeologico Nazionale. Nel registro superiore, Habilis è stato atterrato e l’avversario si appresta a finirlo. Le altre iscrizioni acclamano Simmaco, homo felix che ha offerto lo spettacolo.

il popolo era ancora appassionato a questo tipo di spettacoli. Con l’avvento di Diocleziano (284 d.C.), la città cessò di essere la residenza dell’imperatore (tranne che per i sei anni del regno di Massenzio, 306-312 d.C.) e perciò, nel corso del IV secolo, gli spettacoli, oltre ai giorni fissi per i munera offerti dai questori – che erano soltanto dieci all’anno, concentrati nel mese di dicembre, come riporta il Calendario di Filocalo del 354 d.C. –, venivano allestiti solo nel caso di un soggiorno a Roma del principe. È quanto accadde, per esempio, durante la breve permanenza nell’Urbe di Costantino, nel 312, quando furono allestiti giochi in cui il popolo romano potè contemplare il sovrano. Nel 325 d.C., con l’editto di Berytos – che abolí la condanna all’esercizio della gladiatura, commutandola nella pena ai lavori in miniera (ad metalla) –, Costantino aveva inoltre inferto un duro colpo al reclutamento di gladiatori. Il provvedimento restrittivo, tuttavia, si rivelò inefficace, perché i munera erano ancora assai apprezzati dal popolo. È noto poi l’episodio del suicidio collettivo, nel Ludus Magnus, di 29 prigionieri sarmati, che avrebbero dovuto combattere nei giochi organizzati da Quinto Aurelio Simmaco per la nomina a questore del figlio, nel 393 d.C.; a r c h e o 91


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l’accaduto indusse Simmaco a optare per gli auctorati, perché offrivano maggiori garanzie, testimoniando come alla fine del IV secolo, nonostante il clima sfavorevole nei confronti dei giochi gladiatori – definiti cruenta spectacula –, vi fossero ancora persone disposte a essere reclutate. Sebbene nessuna fonte antica fornisca la data ufficiale della fine degli spettacoli di gladiatori, nei primi decenni del V secolo l’alto costo dei munera e il basso livello professionale di quanti vi si cimentavano fecero scemare la passione del pubblico. Venne anche abolita la damnatio ad bestias, sicché nell’anfiteatro continuarono a svolgersi solo le venationes e, probabilmente, le esecuzioni pubbliche di pene corporali.

BELVE ESOTICHE Il termine venatio (caccia) indica spettacoli di vario genere con animali come protagonisti, che si svolgevano la mattina e precedevano i combattimenti di gladiatori. Potevano consistere in cacce in cui venivano ricostruiti artificialmente gli habitat tipici delle specie espo92 a r c h e o

QUEL FASCINO IRRESISTIBILE I giudizi degli autori antichi sugli spettacoli dell’anfiteatro sono spesso discordanti e certamente non coincidono con il nostro modo di vedere. Come già ricordato, molti, come per esempio Seneca, non li condannarono per la loro crudeltà, quanto per la noia che potevano suscitavare. Anche Cicerone, parlando di cinque giorni di spettacoli ai quali aveva assistito, affermò che non era piacevole, per un uomo di cultura, vedere un uomo dilaniato da una belva o un magnifico animale trafitto da una lancia; piú avanti scrisse di aver provato addirittura compassione per degli elefanti, ma poi aggiunse che si trattava di cose viste e riviste (ad Familiares, 7.1). Dal canto suo, l’imperatore Marco Aurelio riteneva che non vi fosse cosa piú noiosa e monotona degli spettacoli dell’anfiteatro, sebbene il figlio Commodo ne fosse appassionato, tanto da parteciparvi personalmente. Se altri autori fornirono nude cronache degli spettacoli, venate di adulazione nei confronti dell’imperatore (come nel caso di Marziale per Tito), altri, soprattutto gli scrittori cristiani, li disprezzarono. Tertulliano (170-212 circa d.C.), ricordandone l’origine nei sacrifici umani sulle tombe dei defunti per attenuare il dolore e ingraziarsi le divinità infere con


ste oppure in lotte tra belve. In epoca tarda vennero in parte sostituite da giochi di abilità animati da acrobati e belve, soprattutto tori e orsi, spesso ammaestrate. Secondo Plinio, il primo spettacolo di caccia alle fiere si tenne nel 252 a.C., nel Circo Massimo, con elefanti catturati in Sicilia (ma forse, piú che di una caccia, si trattò di una semplice esibizione dei pachidermi). Fino alla costruzione dell’Anfiteatro Flavio, il Circo Massimo fu il luogo esclusivo per le venationes, ma anche dopo vi si svolsero sia cacce che spettacoli di gladiatori, come riportano fonti letterarie e alcuni rilievi con scene di lotte tra uomini e fiere. Infatti, pur essendo nato per ospitare le corse dei carri, il Circo Massimo possedeva caratteristiche strutturali che si rivelarono particolarmente adatte anche alle venationes, sia per le dimensioni dell’arena – dove potevano muoversi agevolmente animali grandi come gli elefanti e potevano svolgersi simultaneamente cacce con numerose belve –, sia per la capienza della cavea, che si stima potesse ospitare tra i 250 000 e i 320 000 spettatori (anche se i Cataloghi Regionari riportano la cifra di ben 485 000!). Tuttavia, venationes si svolsero anche altrove: per esempio, nel Circo (segue a p. 98)

il sangue delle vittime, li definí addirittura opera del diavolo e sostenne che l’anfiteatro era il tempio di tutti i demoni (De Spectaculis, XII, 6). In un passo delle Confessioni, sant’Agostino descrisse invece il fascino irresistibile che quegli spettacoli esercitavano sul pubblico, e l’attrattiva che la visione del sangue e delle crudeltà suscitarono nel suo discepolo Alipio (che, probabilmente, è un alter ego dello stesso Agostino): condotto controvoglia a uno spettacolo, si lasciò condizionare dall’entusiasmo della folla e ne divenne un fervente appassionato, trascinandovi in seguito altri amici. Al di là dell’evidente senso morale dello scritto, il dottore della Chiesa e santo testimonia il senso di crudele passione che tali spettacoli riuscivano a suscitare anche negli spettatori di animo piú elevato. In alto, sulle due pagine: uno dei mosaici «Borghese», raffigurante duelli tra coppie di gladiatori di cui vengono riportati i nomi, alla presenza degli arbitri, dalla via Labicana (odierna Casilina), località Torrenova. Fine del III-inizi del IV sec. d.C. Roma, Galleria Borghese. A destra: valve di un dittico in avorio con scene di caccia alle fiere. V sec. d.C. San Pietroburgo, Museo Ermitage.

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LE COPPIE DI GLADIATORI I gladiatori si dividevano in varie classi – se ne conoscono 16 – in base all’origine, alle armi, al costume e alla tecnica di combattimento. Classi che però non sono esistite contemporaneamente. In origine, il gladiatore personificava il nemico da sconfiggere: il Samnes (Sannita), il Gallus (Gallo) e il Thraex (Trace). Il Samnes è il gladiatore piú antico (Livio, 9, 40). Forse a epoca cesariana risale il Gallus, che già alla fine dell’età repubblicana

cambia il nome in Murmillo (Paulus ex Festo 359.1-5; Cicerone, Filippiche, 3.12). Caratterizzato dalla tipica spada ricurva – sica –, il Thraex è spesso presente nelle iscrizioni romane del I e II secolo d.C. Generalmente all’età di Augusto si fa risalire la codifica delle classi gladiatorie, certo compiuta con i Flavi, benché suscettibile di successive variazioni. L’iscrizione di un collegio funerario di Roma, datata al 177 d.C., regnante Commodo, elenca nome e specializzazione di numerosi tipi di gladiatori sulla base dell’armatura: thraex, hoplomachus, essedarius, contraretiarius, murmillo, provocator, retiarius. Sulla base del livello di apprendistato, il singolo gladiatore

A sinistra: riproduzione dell’elmo da parata di un murmillo, ottenuta dallo stampo originale del I sec. d.C. proveniente dalla Caserma dei Gladiatori di Pompei e oggi conservato nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli. L’elmo è decorato con scene dell’Ilioupersis (caduta di Troia).

è definito novicius, cioè appena arruolato; tiro, il gladiatore che ha completato l’addestramento ed è pronto per il suo primo scontro; veteranus, il gladiatore che ha al suo attivo almeno un combattimento. Al termine del combattimento la palma e la corona, presumibilmente di alloro, spettavano al vincitore; la rudis, spada di legno, invece, veniva consegnata al gladiatore al termine 94 a r c h e o


della carriera. Nel I secolo d.C. la grazia – missio – allo sconfitto era normalmente concessa nel momento in cui il gladiatore, sfinito, dava un chiaro segno di ammissione della sconfitta, levando in alto la mano sinistra (quella della difesa) con l’indice teso, secondo la formula ad digitum pugnare. In seguito prevalsero i combattimenti sine missione, senza grazia, identificandosi il prestigio sociale dell’editor con la sua munificenza. Le piú comuni coppie di gladiatori documentate, dal I secolo a.C. al IV secolo d.C., prevedono l’abbinamento murmillo-thraex; murmillo-hoplomachus; retiarius-secutor. A queste è dedicata l’esposizione allestita negli ipogei del Colosseo.

MURMILLO Come il secutor, il murmillo appartiene alla categoria degli scutarii difesi da un grande scudo rettangolare. I murmillones traggono il loro nome dall’immagine del pesce, una mormora, che avevano sull’elmo. Indossavano un armamento difensivo caratterizzato dall’elmo con tesa ripiegata sui lati e protezione per gli occhi, realizzata con una griglia molto ampia che consentiva una ottima visione generale. La sua arma era il gladius, la spada dalla lama in ferro lunga 40-50 cm. Completavano l’armamento, lo schiniere (ocrea) alla gamba sinistra e la protezione per il braccio imbottita di lino a vari strati, o di cuoio duro (manica). L’ocrea era assicurata al polpaccio

Riproduzioni delle armature di un gladiatore murmillo (a sinistra) e di un thraex, attualmente esposte nella mostra «Gladiatori nell’Arena». Collezione Mattesini.

attraverso lacci ancorati agli occhielli in bronzo. Nonostante questo armamento pesante e impenetrabile, il suo avversario classico, il thraex, saltando sopra allo scudo e utilizzando una terribile arma ricurva che rispondeva al nome di sica, riusciva a lacerare la schiena del suo avversario all’altezza del fianco o della scapola. THRAEX Il thraex – il cui nome deriva dalla sua terra d’origine (la Tracia) – è il a r c h e o 95


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Riproduzioni delle armature complete di un gladiatore secutor (a sinistra) e di un retiarius. Collezione Mattesini.

robusta protezione (manica) al braccio sinistro e di una placca metallica alla spalla sinistra per proteggere la gola (galerus). Era privo di elmo e scudo, e l’unica arma difensiva contro il suo avversario (il secutor), oltre alla rete e al tridente (Isidoro di Siviglia, Etymologiae sive Origines,18,55), era il pugnale (pugio). Faceva parte di una categoria introdotta all’inizio dell’età imperiale. La mancanza totale di armamento tipico a vantaggio di armi essenziali è espressione di agilità, astuzia e massimo rappresentante della categoria dei parmularii o gladiatori con piccolo scudo rettangolare (parma): è il classico avversario del murmillo. Armato di elmo caratterizzato da pennacchio (lophos) a forma di grifone, il thraex è stato da sempre riconosciuto per la sua arma caratteristica detta «sica supina», una spada originaria dell’Est europeo simulante il becco affilato del grifone alato. La sua forma a uncino aveva lo scopo di colpire alla schiena l’avversario, che era quasi sempre il murmillo, come detto. Lo scudo del Trace è molto piú piccolo di quello degli scutarii. A causa della dimensione ridotta dello scudo utilizzava, come protezione della coscia, degli alti schinieri (ocreae) che arrivano quasi fino all’inguine. La protezione in mostra – di cui è presente una ricostruzione dell’originale ritrovato all’interno della Caserma dei Gladiatori di Pompei e attualmente al Museo Archeologico Nazionale di Napoli –, rappresenta un importante accessorio da parata. Si tratta infatti di una fusione pesantissima in bronzo ed estremamente lavorata. Nella parte alta sono raffigurate foglie di alloro, 96 a r c h e o

A destra: riproduzione dell’armatura completa di un gladiatore hoplomachus. Collezione Mattesini. Nella pagina accanto: elmo di gladiatore thraex (hoplomachus) con la raffigurazione di una palma, da Pompei. Prima metà del I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

di quercia e spighe di grano. All’interno delle ocreae e a contatto con la pelle doveva essere posta una protezione funzionale ben imbottita. RETIARIUS L’abbigliamento del retiarius si componeva di un ampio perizoma fissato in vita (subligaculum), di un’ampia cintura (balteus), di una

destrezza di fronte alla proclamata potenza militare del suo avversario secutor. Il tridente era la sua arma principale, terribile e molto efficace, con una forza di sfondamento notevole perché brandita con entrambe le mani. Un colpo ben assestato doveva essere un grande trauma per il suo avversario, indipendentemente dal coefficiente


di penetrazione e dal tipo di protezione che aveva il secutor. SECUTOR Il secutor (Isidoro di Siviglia, Etymologiae sive Origines,18,55) è noto anche con il nome di contraretiarius, essendo il retiarius il suo vero ed unico avversario. Il suo elmo (galea) di forma ovoidale, liscia ed essenziale, è costruito per far scivolare senza appigli la rete e il tridente del mandatario del dio Nettuno. L’armamento del secutor è composto dalla spada (gladius), corta, diritta, veloce, e non ingombrante, dal corto schiniere (ocrea) nella gamba sinistra e da una protezione del braccio dalla spalla alla mano (manica) imbottita a protezione della mano. Era munito di un largo scudo (scutum), talvolta a forma di semicerchio nella parte alta, a protezione del terribile colpo di tridente del suo antagonista. Per la gola, aveva un paracolpi di metallo o di cuoio indurito, spesso con forma poligonale a varie punte. Il suo omonimo contraretiarius, individuato come scissor, aveva lo stesso tipo di elmo del secutor, ma era privo di scudo: come protezione e per annientare la potenza del tridente usava il tipico martello a due teste o maglio, e un pugnale affilato. La sua corazza di difesa era rappresentata da una lorica squamata lunga fin sotto l’inguine, una delle corazze piú robuste nel panorama militare. PROVOCATOR Questo tipo di gladiatore rappresenta la scherma per eccellenza di forze uguali e contrapposte, tanto da essere considerato il corpo di «sperimentazione» delle legioni di Roma. L’armamento è quello degli

scutarii con scudo rettangolare, ampia protezione e spada (gladius) di tipo militare utilizzata fondamentalmente di punta. Ha un corto schiniere (ocrea) nella gamba sinistra e pettorale (cardiophilax) a protezione del petto. L’elmo è del tipo gallico chiuso e senza cresta con paracolpi frontale e protezione sulla nuca. HOPLOMACHUS L’hoplomachus fa parte della categoria dei parmularii caratterizzati da uno scudo rotondo (parma) dal quale emerge una

affilata spada o machaera. Utilizza, oltre agli alti schinieri (ocreae) fino all’inguine, anche grosse e imbottite protezioni per le gambe. Il torso è scoperto, mentre la sua arma piú invasiva è la lancia. Indossa un elmo con grifone a tesa alta e ornato di piume. Lo scudo ricostruito ed esposto in mostra è ricavato da un originale che si trova oggi al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, ed è decorato con foglie di olivo trattate in rame e argento. Al centro domina una testa di medusa sempre circondata dagli stessi motivi naturalistici. a r c h e o 97


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Flaminio – nella cui arena, appositamente A destra: la allagata, vennero uccisi, nel 2 d.C., 36 coccofaccia interna di drilli – e nel Circo Vaticano. Il fascino di una delle valve questi spettacoli consisteva nel poter ammiradel dittico di re animali esotici, spesso riccamente bardati, i Areobindo. Parigi, paesaggi ricreati all’interno dell’arena, i co- Musée de Clunystumi da parata dei cacciatori. Numerosi Musée national mosaici ci hanno conservato scene di venatiodu Moyen-Âge. nes, da cui è possibile ricostruirne la grandioNella parte sità. Tra le specie piú utilizzate, oltre a leoni e inferiore figurano tigri, compaiono tori, ippopotami, cinghiali, i giochi di iene, rinoceronti, elefanti, coccodrilli, struzzi, destrezza con gazzelle, cervi, pantere, orsi. I grandi plantianimali offerti gradi animarono spettacoli particolari, gli dallo stesso ultimi offerti nel Colosseo alla fine del suo Areobindo utilizzo. La distinzione principale era comundurante il que tra animali erbivori e carnivori. consolato del 506

SEMINUDI CONTRO LE FIERE Non è ben chiara, invece, la differenza tra bestiarius e venator. Secondo alcune ipotesi, il bestiarius sarebbe un condannato a morte, che però veniva prima addestrato a maneggiare le armi per difendersi dagli assalti delle fiere; in genere è raffigurato seminudo, con un pugnale o una spada come arma. Il venator sarebbe invece un professionista che disponeva di un armamento migliore, prevalentemente una lunga lancia, con la parte verso l’asta ricurva, in modo da impedirne l’uscita dopo aver inferto il colpo mortale. Il suo abbigliamento era costituito da una corta tunica, che garantiva libertà di movimento, con le maniche lunghe o corte, su cui erano varie applicazio98 a r c h e o

d.C. e tipici dell’età tardoantica, dopo l’abolizione dei combattimenti di gladiatori.


lo strumento usato per spingere le belve nell’arena. Altre erano quelle dei Pentasii, dei Taurisci, dei Leontii, note attraverso rappresentazioni musive della Tunisia. Lo spettacolo piú in voga nel VI secolo è raffigurato in alcuni dittici consolari da Costantinopoli degli inizi del VI secolo (tre riferiti al consolato di Areobindo del 506, due di Anastasio del 517), in alcuni stucchi e in un graffito del Colosseo, mentre una sua descrizione si legge in una lettera inviata da Teodorico al console Anicio Massimo poco prima dei giochi che questi allestí nel 523 (Cassiodoro, Variae, 5,42). Durante questi spettacoli, alcuni bestiarii uscivano all’improvviso dalle porte posticiae che si aprivano nel muro del podio, pungolando gli animali che rimanevano disorientati. Altri giochi consistevano in esibizioni di Mosaico dalla villa di Zliten (vicino Leptis Magna, in Tripolitania, Libia), con la raffigurazione di una giornata di spettacoli anfiteatrali, probabilmente offerti dal proprietario della residenza. Fine del I-inizi del III sec. d.C. Tripoli, Museo Archeologico. Accanto ai combattimenti di gladiatori, compaiono i musicisti che accompagnavano i giochi: una donna all’organo idraulico, due suonatori di corno seduti e un suonatore di tuba.

ni in cuoio o metallo (orbiculi), per proteggere le spalle e il torace, oltre a bracciali e fasce ai polsi e alle caviglie. Alcuni rilievi mostrano scene di venationes a cui partecipano personaggi con l’armatura tipica dei gladiatori; è da supporre che, almeno fino agli inizi del I secolo d.C., non vi fosse una netta distinzione tra gladiatori e venatores.

AGENZIE SPECIALIZZATE Per procurarsi gli animali, esistevano appositi mercati di bestie, soprattutto in Asia e Africa, presso i quali si potevano acquistare gli esemplari catturati (alle battute, in età imperiale, partecipava anche l’esercito). Alcuni imperatori, come Nerone, possedevano anche serragli privati. Conosciamo inoltre i nomi di vere e proprie «agenzie» di venatores ben addestrati in Africa, a cui potevano rivolgersi gli editori di spettacoli, ognuna contraddistinta da simboli. La piú famosa era quella dei Telegenii, che avevano come emblema un’asta con un crescente lunare, forse

LESSICO GLADIATORIO Balteus alta cintura Cardiophilax pettorale, corazza Corona corona Editor impresario di pubblici spettacoli Familia gruppo di gladiatori appartenenti a un lanista Equites cavalieri Galea elmo Gladius spada corta che feriva di taglio e di punta Lanista impresario dei gladiatori Lophos pennacchio, cimiero, cresta Machaera spada Manica protezione del braccio dalla spalla alla mano Munus/munera dovere, obbligo, dono Novicius gladiatore appena arruolato Ocrea schiniere, gambale, armatura della gamba Palma palma (premio della vittoria) Parma/parmula scudo piccolo Pugio pugnale Rudis bastone o spada di legno Scutum grande scudo rettangolare Subligaculum ampio perizoma fissato in vita Summa rudis arbitro Sica pugnale ricurvo Tiro gladiatore esordiente che ha completato l’addestramento ed è pronto per il suo primo scontro Veteranus gladiatore che ha superato il primo combattimento

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acrobati che affrontavano le belve, come il contomonobolon, in cui uno o piú personaggi eseguivano salti acrobatici con l’aiuto di un’asta, scavalcando gli animali.Vi erano poi alcune attrezzature, come la cochlea (chiocciola), una sorta di porta girevole a due o quattro ante fissate su un perno centrale, con cui i protagonisti del gioco, facendola girare velocemente, innervosivano gli animali, riparandosi dietro i pannelli; l’ericius (il riccio), una gabbia ovale di canne con un uomo all’interno, che veniva fatta probabilmente rotolare contro un orso; un altro attrezzo era costituito da un palo centrale, a cui erano agganciati due cesti dentro i quali stavano due uomini, aggrappati alla corda che teneva i cesti; strattonando da una parte e dall’altra la corda, si facevano salire e scendere i cesti, che inoltre potevano anche girare intorno al palo centrale, provocando il disorientamento dell’animale che non riusciva ad afferrare le prede. Teodorico descrive anche altri giochi, mentre sui dittici compare spesso un fantoccio di paglia (palea) con cui si stuzzicavano le fiere (da cui il termine «uomo di paglia»). Questo tipo di intrattenimento, al quale partecipavano spesso animali ammaestrati, tra cui leoni e soprattutto orsi, piú simile agli spettacoli circensi che alle cacce del primo periodo imperiale, non aveva piú bisogno delle imponenti scenografie utilizzate per i munera e le venationes tradizionali, ma erano sufficienti il piano dell’arena e le porte lungo il muro del podio. Ciò spiega anche perché i sotterranei del Colosseo, tra la fine del V e gli inizi del VI secolo, fossero stati definitivamente interrati.

INTERMEZZI MACABRI Nell’intervallo tra le cacce e i combattimenti dei gladiatori, l’arena ospitava le esecuzioni dei condannati a morte, in genere disertori, prigionieri di guerra e criminali comuni. Poiché si voleva che la punizione fosse di esempio, essa doveva svolgersi in uno spazio pubblico e quale luogo poteva essere piú adatto dell’anfiteatro, sulle cui gradinate sedevano tutte le classi sociali, dall’imperatore ai senatori, al popolo minuto? Il diritto romano aveva fissato una notevole differenza non tanto nel delitto commesso, quanto nello stato giuridico del colpevole: la damnatio ad bestias, cosí come la crocifissione o l’essere bruciati vivi, erano condanne ritenute particolarmente infamanti, che non 100 a r c h e o

Riproduzioni delle armature di un thraex (a sinistra) e di un murmillo. Al centro, stele funeraria del murmillo Quintus Sossius Albus, da Aquileia. II sec. d.C. Aquileia, Museo archeologico nazionale.

potevano essere comminate a un cittadino romano (basti pensare che gli apostoli Pietro e Paolo, colpevoli dello stesso delitto, subirono due diversi tipi di supplizio: il primo venne crocifisso, mentre il secondo, cittadino romano, fu decapitato). Il primo supplizio a opera delle belve attestato dalle fonti sembrerebbe risalire al 167 a.C., quando Emilio Paolo fece calpestare dagli elefanti i disertori stranieri dell’esercito romano, dopo la vittoria su Perseo. Probabilmente, infatti, questo tipo di esecuzione – che secondo Polibio (1,84,8) i Romani avrebbero ripreso dai Cartaginesi – era in origine riservato solo ai disertori e ai prigionieri di guerra, e soltanto in seguito fu esteso anche ai criminali comuni. Numerose testimonianze, letterarie e iconografiche, descrivono queste crudeli esecuzioni. Questi spettacoli, per noi inconcepibili, erano molto apprezzati dal popolo e piú di un autore non li condanna per la loro atrocità, ma semmai perché li giudica di cattivo gusto o


In basso: gradino della cavea del Colosseo recante un graffito che raffigura il combattimento tra un retiarius e un secutor. II-III sec. d.C. Roma, Parco archeologico del Colosseo.

di Attis, Issione legato a una ruota infuocata, o il rogo del monte Oeta, sul quale venne fatta salire una vittima travestita da Ercole. I pyrricharii (la pyrricha era la danza guerriera spartana) dovevano invece indossare una tunica sontuosa e un mantello purpureo, imbevuti di sostanze infiammabili; dopo aver iniziato la danza, si appiccava il fuoco alle vesti, cosí che lo sventurato, avvolto dalle fiamme, continuasse a contorcersi freneticamente sotto gli occhi degli spettatori. Negli Atti dei martiri – che spesso riportano documenti della cancelleria imperiale relativi ai processi, agli arresti e alle esecuzioni – si legge che molti cristiani vennero condannati alle fiere, anche se, come si è visto, non si ha alcuna notizia di fedeli uccisi nel Colosseo. Simili esecuzioni avvennero in altri anfiteatri, come quello di Cartagine – dove subirono il martirio Felicita, Perpetua e i loro compagni nel 203 – o quello di Lione, dove furono messi a morte Blandina e i suoi compagni nel 177. Con l’avvento del cristianesimo, il diritto romano abolí i supplizi, la forca, la crocifissione e la damnatio ad bestias, proprio in virtú del ricordo della morte di Cristo e dei martiri, mentre rimase la condanna al rogo.

perfino noiosi, come scrive Seneca: «Al mattino gli uomini sono dati in pasto ai leoni e agli orsi, il pomeriggio agli spettatori»; piú avanti, il filosofo spiega che i supplizi avvenivano «mentre nell’arena c’è l’intervallo tra gli spettacoli. Ma quello è un ladro, ha ucciso un uomo. E allora? Per il fatto di aver ucciso, egli ha meritato tale pena, ma tu, sciagurato, che delitto hai commesso per dover assistere a un tale spettacolo?» (Epistole, 7,4-5).

SCENEGGIATE MITOLOGICHE Spesso, al pari delle venationes, le esecuzioni di damnati ad bestias venivano trasformate in rappresentazioni mitologiche: da Marziale sappiamo di supplizi in cui le vittime rappresentavano personaggi come Prometeo (con la variante che il condannato venne appeso a una croce e dato in pasto a un orso caledonio), Orfeo (sbranato da un orso «ingrato»), Dedalo, Pasifae che si congiunge con il toro; mentre da Tertulliano abbiamo notizia di altri episodi mitologici «interpretati» da condannati costretti a mettere in scena l’evirazione a r c h e o 101


SPECIALE • GLADIATORI

UN LEGAME RIPRISTINATO

L’

idea di una esposizione temporanea dedicata alle classi di gladiatori e ai loro armamenti – ideata e curata dal Parco archeologico del Colosseo – nasce dal recupero e valorizzazione del criptoportico orientale del Colosseo che collegava l’arena con il quartiere delle palestre (Ludi) realizzate dall’imperatore Domiziano, di cui la meglio nota e conservata è il Ludus Magnus, il piú grande e l’unico di cui si conservi parte delle strutture. Qui i gladiatori si allenavano e si preparavano alle esibizioni. Il criptoportico orientale oggi non è piú percorribile nella sua completa interezza, essendo stato interrotto

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nel corso del XIX secolo dalla realizzazione di un lungo collettore fognario a servizio del popoloso quartiere Esquilino. Un intervento di recupero e manutenzione del PArCo ha però restituito alla fruizione il tratto conservato al di sotto del Colosseo. Il Ludus Magnus – già noto nella marmorea Forma Urbis severiana – era una delle scuole di addestramento costruite dall’imperatore Domiziano (comprendenti anche il Gallicus, il Matutinus e il Dacicus); il quartiere a servizio del Colosseo comprendeva anche la sede per i marinai della flotta di Miseno, i Castra Misenatium, addetti alla manovra del velum, i depositi per le armi, gli Armamentaria, l’ospedale o Saniarium, lo Spoliarium, ove si svestivano i corpi dei combattenti morti e infine il Summum Choragium, fabbrica e deposito delle scenografie. In età traianea, forse per problemi statici della cavea o a seguito dell’incendio del 107

Planimetria della Valle del Colosseo dalla Forma Urbis di Rodolfo Lanciani. 1893-1901. Non vi compare il Ludus Magnus, perché i suoi resti furono scoperti fra il 1937 e il 1961. È invece indicato il Ludus Matutinus, struttura adibita alle esercitazioni dei bestiarii impegnati nelle venationes.


Il Colosseo (1), il Ludus Magnus (2) e il Ludus Matutinus (3) nel plastico della Roma imperiale di Italo Gismondi. 1933-1955. Roma. Museo della Civiltà Romana.

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d.C., l’edificio ricevette un importante restauro che comportò il rialzamento del piano pavimentale di almeno 1,50 m del quadriportico attorno all’arena che invece rimase alla quota flavia. Commodo, appassionato di giochi gladiatori, era tra l’altro solito esibirsi proprio qui oltre che nel Colosseo.

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

In epoca tardo-antica l’edificio dovette essere a lungo restaurato – anche se non ci sono dati certi – mentre l’abbandono si data a partire dal VI secolo, quando fu utilizzato come area per modeste sepolture. I resti della sola metà settentrionale del complesso furono rimessi in luce nel 1937, in a r c h e o 103


SPECIALE • GLADIATORI A sinistra e nella pagina accanto: alcuni frame del video che, grazie alla realtà virtuale, simula il transito dei gladiatori nel corridoio che dal Ludus Magnus li conduceva all’arena del Colosseo. Il collegamento tra l’anfiteatro e la sua palestra è oggi solo parzialmente conservato, perché fu in larga parte demolito nel corso del XIX sec. allo scopo di permettere la costruzione del collettore fognario a servizio del quartiere Esquilino.

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Nella pagina accanto, in basso: lucerne fittili con gladiatori raffigurati in varie pose. I reperti appartengono all’esposizione permanente «Il Colosseo si racconta» (al II ordine dell’anfiteatro), ma sono stati temporanemante trasferiti nei sotterranei per arricchire la selezione dei materiali riuniti nella mostra «Gladiatori nell’Arena».

occasione degli scavi per la costruzione di un nuovo edificio tra via di San Giovanni in Laterano e via Labicana, e sistemati tra il 1957 e il 1961 per la realizzazione della nuova Esattoria Comunale.

COME UNA CASERMA L’edificio, che doveva avere sicuramente almeno due livelli, aveva una pianta simile a quella conosciuta per altre caserme: è il frammento della Forma Urbis marmorea di età severiana a fornirci importanti indicazioni, confermando una pianta rettangolare con quadriportico di colonne doricizzanti in travertino, stanze di alloggio e servizi intorno allo spazio centrale dell’arena, ampia circa 2000 mq e con una cavea che poteva ospitare fino a 3000 spettatori. I percorsi interni erano assicurati da un corridoio alle spalle degli ambienti e dalle scale per i piani superiori (riconoscibili nella pianta marmorea per la

presenza di segni a forma di triangolo). Il cortile centrale era appunto occupato dall’arena per gli allenamenti, realizzata come copia a scala ridotta di quella del Colosseo (con un rapporto di 1:2,5) e della quale resta visibile parte della curvatura. Sono stati trovati i resti di 14 celle per gli alloggiamenti. Le celle misuravano ciascuna all’incirca 20 mq. È stato stimato che l’interno del Ludus potesse accogliere un migliaio di gladiatori. Oggi il criptoportico, che ancora conserva la sua originaria pavimentazione in opus spicatum, torna ad animarsi e a riprendere la sua funzione: grazie alle tecnologie digitali, un’emozionante esperienza multimediale con proiezione olografica permanente permette di «attraversare il muro» che taglia il collegamento, restituendo alla vista l’area archeologica contemporanea, compressa tra le strade e i palazzi moderni che la delimitano, in un emozionante racconto del Ludus Magnus e del Colosseo all’interno del paesaggio storico del periodo imperiale di massimo splendore. Per rendere piú completo l’evento espositivo e offrire al pubblico un ulteriore elemento di conoscenza e comprensione, lungo il percorso di visita di «Gladiatori nell’Arena» sono visibili le riproduzioni filologiche delle armature realizzate dal maestro Silvano Mattesini, accanto a reperti originali provenienti dalle collezioni del Parco archeologico del Colosseo, del Museo Archeologico Nazionale di Napoli e del Museo Archeologico Nazionale di Aquileia. Sono cosí esposte le armi che contraddistinguevano le principali coppie di gladiatori impegnati a contendersi la palma della vittoria: il murmillo contro il thraex, il retiarius contro il secutor, il murmillo contro l’hoplomachus. DOVE E QUANDO «Gladiatori nell’Arena. Tra Colosseo e Ludus Magnus» Roma, Colosseo fino al 7 gennaio 2024 Orario tutti i giorni, 9,00-16,30; chiuso il 25 dicembre e il 1° gennaio Info www.colosseo.it a r c h e o 105


TERRA, ACQUA, FUOCO, VENTO Luciano Frazzoni

CACCIA ALL’USATO SICURO

ANTICIPANDO DI MOLTI SECOLI LE BUONE PRATICHE DEL RICICLAGGIO, I ROMANI, E NON SOLO, DIVENNERO MAESTRI NELL’ARTE DEL RIUSO. OFFRENDO UNA «SECONDA VITA» NON SOLTANTO AI MARMI PREGIATI, MA ANCHE ALLA CERAMICA E, SOPRATTUTTO, ALLE ANFORE

I

l reimpiego dei materiali, spesso utilizzati per scopi diversi da quelli originari, è un fenomeno assai diffuso nell’antichità. Accadeva molto di frequente nell’ambito dei marmi architettonici, spoliati dagli edifici e dai monumenti per essere riutilizzati come materiale da costruzione (il caso piú eclatante è quello dei marmi del Colosseo, molti blocchi del quale furono reimpiegati, per esempio, per la realizzazione del Porto di Ripetta). Ma il riutilizzo riguardava anche la ceramica, che, prima di essere definitivamente scartata poteva risultare ancora utile per gli scopi piú diversi, continuando cosí il suo ciclo di vita prima di trasformarsi in potenziale reperto archeologico. Si tratta di un fenomeno osservabile in tutte le epoche e civiltà, ma qui ci limiteremo ad alcuni esempi di reimpiego della

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ceramica in epoca romana e medievale, basandoci anche sulle osservazioni dell’archeologo statunitense J. Theodore Peña (da lui esposte, in particolare, nel volume Roman Pottery in the Archaeological Report, 2007).

L’OSTRACISMO Uno degli usi piú frequenti della ceramica non piú utilizzabile consiste nel ricavarne supporti per la scrittura, essendo molto piú economica dei fogli di papiro e delle tavolette cerate; la presenza di ostraka (plurale del greco ostrakon, è la denominazione attribuita ai frammenti ceramici trasformati in tavolette iscritte) è conosciuta già in ambito greco, quando, durante le assemblee dei tribunali, si scriveva su di essi il nome di una persona che doveva essere condannata all’esilio (da cui il termine ostracismo). Numerosi sono i

frammenti ceramici rinvenuti ad Atene, con i nomi graffiti di personaggi famosi come Pericle, Cimone, Temistocle. Ma frammenti di vasi (si potevano utilizzare varie parti, dalle pareti ai fondi, purché con una superficie sufficientemente piatta) potevano essere usati anche come base per scrivere brevi testi letterari o esercizi di matematica in ambito scolastico, o anche conti di bottega; oltre che incisi, i testi potevano essere scritti con inchiostro. Gli ostraka sono ampiamente diffusi in ambito romano (alcuni esempi sono stati rinvenuti nell’Egitto copto in contesti databili tra il IV e il VI secolo d.C.), ma anche in epoca medievale e rinascimentale. In un pozzo da butto scoperto ad Acquapendente (Viterbo), che conteneva in prevalenza gli scarti di lavorazione di una vicina fornace, attiva presumibilmente almeno


dalla seconda metà del XV secolo, tra vari scarti di cottura è emerso un frammento di piatto recante un conto di bottega scritto a pennello in bruno manganese, con le cifre probabilmente relative alla produzione dei pezzi dell’officina. I frammenti ceramici potevano insomma funzionare anche come i moderni block notes o Post-it. Una volta persa la loro funzionalità, stoviglie da cucina, coppe, coperchi potevano inoltre essere riutilizzati per varie esigenze quotidiane, in gran parte esposte da Peña. Un frammento di parete, opportunamente ritagliato per conferirgli una forma a disco, poteva diventare una pedina per il gioco del latrunculus (una sorta di dama), mentre pezzi piú grandi potevano servire come tappi per le anfore. Olle ancora intere o che avevano perduto parte dell’orlo, potevano essere usate come contenitori di tesoretti di monete, come testimoniano numerosi ritrovamenti sia di epoca romana

che medievale (ricordiamo, a titolo di esempio, il tesoro rinvenuto nella chiesa di S. Mamiliano a Sovana, risalente al V secolo d.C., e quello della Rocca di Scarlino, risalente alla metà del XV secolo, entrambi in provincia di Grosseto).

USI PRIMARI E SECONDARI Un uso particolare, ricordato anche in un breve passo di Lucrezio (De rerum natura, IV, 1026-1029), è quello di riutilizzare piccoli dolii o vasi come contenitori di urina. Non è invece certo se alcune olle, impiegate nei colombari come ossari, siano di riutilizzo (dunque usate in un primo momento come ceramiche da cucina), o se siano state fabbricate per contenere le ossa combuste dei defunti. Alcuni frammenti ceramici, infine, forati e sagomati alla bisogna, potevano essere utilizzati come pesi da rete da pesca, ciondoli o fuseruole per la filatura della lana. Un fondo di ciotola in maiolica

arcaica, databile alla prima metà del XIV secolo, rinvenuta presso il castello di Castelfranco, in provincia di Viterbo, presenta appunto un foro centrale per permettervi l’innesto di un fuso. La categoria per la quale si registra il maggior numero di attestazioni di riutilizzo è però quella delle anfore. La varietà di forme e dimensioni di questa classe di materiale si presta infatti a molteplici utilizzi, oltre a quello primario di contenitore da trasporto di alimenti liquidi e semiliquidi come olio, vino, garum, salse di pesce, conserve di frutta, nonché pece. Inoltre la grande quantità che ne circolava, faceva delle anfore una merce di scarto facilmente reperibile e a buon mercato. Theodore Peña elenca addirittura 26 modi di possibile reimpiego delle anfore. Vediamone alcuni tra i piú frequenti. Innanzitutto, a parte il caso delle anfore olearie, che erano piú difficili da pulire e pertanto, una volta svuotate del loro contenuto,

Nella pagina accanto: parti di vasi in ceramica trasformate in ostraka con il nome di Temistocle. 482 a.C. Atene, Museo dell’Agorà. A destra: sepoltura a enchytrismòs, in un’anfora di produzione africana, scoperta all’Île-Rousse (Corsica). III-IV sec. d.C. In basso: il tesoretto monetale nascosto in un’olla e rinvenuto nel 2004 nella chiesa di S. Mamiliano, a Sovana (Grosseto). V sec. d.C.

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venivano ridotte a pezzi e smaltite – come dimostra il grande deposito artificiale del monte Testaccio, costituito quasi esclusivamente da anfore olearie di forma Dressel 20, fabbricate nella Betica (odierna Andalusia) –, molti contenitori venivano riutilizzati per conservare nuovamente derrate alimentari. Spesso, come già documentato per le ceramiche di uso quotidiano, le anfore venivano trasformate in orinali: anfore cosí modificate venivano collocate negli angoli delle strade, come testimonia per esempio Macrobio (Saturnalia 3.15.15), e il loro contenuto veniva poi utilizzato dai follatori per il lavaggio dei tessuti. Occorre infatti ricordare che, mescolata alla creta cimolia (cosí chiamata perché ricavata dalle cave dell’isola di Kimolos, in Grecia), l’urina si utilizzava come detergente nelle fulloniche (lavanderie). Alcune parti di anfore, in particolare

il collo e il fondo, potevano essere usate anche come tubature, discendenti, imbuti, condotti per le libagioni durante i riti funebri (esempi dalle necropoli dell’Isola Sacra e di Porto Recanati), bracieri o focolari (esempi a Pompei), tappi, superfici per scrivere, ostraka o anche come etichette per le merci, oppure, infine, si potevano macinare per fare il cocciopesto.

CONTENITORI... MULTITASKING Soprattutto, però, le anfore venivano largamente riutilizzate in ambito funerario, nell’edilizia e nei trattamenti dei terreni agricoli. Nell’Italia peninsulare (Roma, Ostia-Porto, Ravenna, Pisa, Aquileia, Ischia), nella Spagna nord-orientale (Ampurias, Tarragona), in Sardegna, nel Nord Africa (Tunisia, Algeria), anfore intere, opportunamente tagliate, o anche parti di anfore, in particolare

Roma. Il mausoleo di Elena, madre di Costantino, sulla via Labicana. Si riconoscono, in alto, le anfore inserite nel conglomerato della volta.

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quelle di produzione africana, venivano riutilizzate nelle sepolture a inumazione, nel periodo medio e soprattutto tardo-imperiale. Le anfore prodotte inTunisia, di piccole, medie e grandi dimensioni venivano utilizzate per le deposizioni di infanti, bambini e anche adulti (sepolture a enchytrismòs). A Roma, nella volta del mausoleo di Elena, al III miglio della via Labicana, sono utilizzate circa 180 anfore Dressel 20 e 23, dalla cui presenza (resa ben visibile per il distacco dell’intonaco originale) è derivato il toponimo di Tor Pignattara, che oggi designa l’area in cui sorge il monumento. L’utilizzo delle Dressel 20 e 23 si spiega con il fatto che la forma globulare e la robustezza le rendevano particolarmente idonee a questo riutilizzo; il loro volume infatti, oltre ad alleggerire il peso delle volte, permetteva un considerevole risparmio nelle spese per i materiali da costruzione che sarebbe stato necessario per la realizzazione di questi edifici. Gli esempi di questa soluzione sono molteplici: in edifici a Ostia; alla Villa delle Vignacce sulla via Latina; a Roma nella basilica di Massenzio, nel cosiddetto tempio di Minerva Medica, nella cavea del circo di Massenzio al III miglio della via Appia, per la cui costruzione sarebbero state impiegate circa 10 000 anfore Dressel 23. Per finire questa breve rassegna, occorre ricordare l’utilizzo di anfore in ambito idrogeologico, principalmente per migliorare il drenaggio dei terreni, sia in senso verticale, creando strutture che proteggessero i terreni dall’erosione, sia orizzontale, per bonificare zone paludose; ne è un esempio un contesto ad Albinia (Grosseto), dove anfore vinarie di forma Dressel 1 vennero disposte nel terreno in posizione orizzontale allo scopo di favorire il deflusso dell’acqua stagnante.



L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

«DOVE SIA, NESSUN LO SA» DA SIMBOLO DEI FASTI DELL’IMPERO ROMANO, LA FAVOLOSA E INAFFERRABILE FENICE DIVENNE PERFINO EMBLEMA DEL NASCENTE IMPERIALISMO AMERICANO

N

el libretto del Demetrio, opera lirica rappresentata a Vienna con musica di Antonio Caldarera il 4 novembre 1731 per celebrare l’onomastico dell’imperatore Carlo VI, Pietro Trapassi, meglio noto come Metastasio, scrisse versi proverbiali, ancora oggi in uso. Se la musica e la trama sfuggono oggi ai piú, sono infatti famosissime le battute destinate a screditare la fedeltà degli amanti: «È la fede degli amanti come l’araba fenice: che vi sia, ciascun lo dice; dove sia, nessun lo sa. Se tu sai dov’ha ricetto, dove muore e torna in vita, me l’addita e ti prometto di serbar la fedeltà». Nel suo libretto per l’opera mozartiana Cosí fan tutte (1790), Lorenzo da Ponte riprende Metastasio letteralmente, ma, per rendere piú efficace il motivo della donna infedele, sostituisce agli «amanti» il nome «femmine»: «È la fede delle femmine come l’araba fenice: che vi sia, ciascun lo dice; dove sia, nessun lo sa. (…) Non è questa, non è quella: Non fu mai, non vi sarà». E il tema

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Centenionale in bronzo di Costanzo II. Zecca di Siscia, 348-350 d.C. Al dritto, il busto dell’imperatore; al rovescio, la fenice su pira (legenda FEL TEMP REPARATIO e marchio di zecca ASISY).

dell’inaffidabilità muliebre ricorre nel Rigoletto di Giuseppe Verdi (1851, libretto di Francesco Maria Piave), con l’aria La donna è mobile, nella quale, con tragica e voluta ironia, fedele fino al sacrificio è invece la donna che ama l’infido duca di Mantova.

SIMBOLISMO SALVIFICO Anche nel mondo moderno e contemporaneo, dunque, la fenice mantiene le sue caratteristiche di uccello mitico che vive in un luogo lontano e sconosciuto, capace di autorigenerarsi risorgendo dalle proprie ceneri, in un simbolismo salvifico che si adatta a molteplici

contesti filosofici, storico-politici ed escatologici. Presente sulle monete romane della piena età imperiale per lo piú come attributo di Aion, la fenice diviene unica protagonista dei bronzi emessi soprattutto da Costanzo II e Costante, figli di Costantino il Grande, i quali, divenuti Augusti nel 337 insieme al fratello maggiore Costantino II, si suddivisero l’impero. Il regno dei tre fratelli si concluse infelicemente: in lotta tra di loro e con l’usurpatore Magnenzio, morirono prima Costantino (340) e poi Costante (350) e l’unico sopravvissuto, Costanzo II, morí di morte naturale nel 361 dopo piú di vent’anni di regno. In questo difficile momento storico, incerto e


A sinistra: moneta del Regno delle Due Sicilie, battuta al tempo di Carlo III di Borbone. Zecca di Palermo, 1733. Al dritto, il busto del re; al rovescio, la fenice. In basso: prova di banconota da 3 dollari della Banca Phenix di New York. 1812-20 circa.

drammatico sia per i regnanti che per la popolazione, Costanzo II e Costante emisero una serie di piccoli bronzi con il tipo della fenice con legenda FEL TEMP REPARATIO, allusivo a un «ritorno dei tempi felici» dei precedenti secoli dell’impero, ma anche al rinnovamento legato all’introduzione della religione cristiana come culto «lecito» al quale si era convertito Costantino. Il mitico uccello, con un nimbo radiato intorno al capo, poggia su un globo (terrestre e/o celeste), a simboleggiare una beneaugurante eternità del regno anche in un periodo buio come quello postcostantiniano, oppure si staglia su un cumulo che sembra formato da pietre, ma che è piuttosto da leggersi come una pira di legni destinati alla sua autocombustione, da cui risorgerà. La fenice ricompare poi in età moderna, in particolare sulle emissioni siciliane in argento da 30 tarí dei Borbone (Carlo III, 1732-33, e

Ferdinando, 1785, 1791 e 1793) battute nella zecca di Palermo, sul cui rovescio l’uccello, simile a un’aquila, brucia, ma rinasce anche, da un grande falò sovrastato da un sole irraggiante. La legenda EX AVRO ARGENTEA RESURGIT («Dall’oro risorge l’argento») allude sia all’aurea dinastia borbonica, sia alla rinnovata produzione monetale.

NEL NUOVO MONDO Attraversando l’Oceano e arrivando in volo sino agli Stati Uniti d’America, la Fenice diviene parte dell’apparato iconografico di una prova di banconota emessa intorno al 1812-20 dalla Phenix Bank di New

York, divenuta in breve una delle principali istituzioni finanziarie della città e il cui nome si ispirava a quello del mitico uccello. Prima del 1863, le banche potevano stampare banconote per il governo degli Stati Uniti, riportando il proprio nome. Chi ideò questa immagine per la banconota da tre dollari con una fenice, molto simile all’aquila degli Stati Uniti, che risorge dalla sua pira a forma di corona e si innalza verso il sole, volle forse raffigurare la potenza emergente della nazione nata dalle ceneri della rivoluzione americana e che si apprestava a condizionare con la sua influenza il resto del mondo.

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Daniele Manacorda

ROMA Il racconto di due città Carocci editore, Roma, 274 pp., ill. b/n 28,00 euro ISBN 978-88-290-1045-5 www.carocci.it

Città «stratigrafica» per eccellenza (tanto che cosí è definita nella didascalia della prima immagine che correda il volume), Roma viene qui trattata da Daniele Manacorda proprio come un contesto pluristratificato, rileggendone le molte fasi, per offrire a chi legge un quadro d’insieme che permetta di orientarsi all’interno di un palinsesto la cui complessità, probabilmente, è unica

al mondo. La trattazione prende le mosse da un ricordo personale e dalla conseguente scoperta di un’opera che ha segnato un punto di svolta negli studi sulla Roma antica e, in particolare, sul suo Medioevo: Rome. Profile of a City, 312-1308 di Richard Krautheimer, pubblicato nel 1980 e

tradotto in italiano l’anno successivo (Roma. Profilo di una città, 312-1308). Come annota Manacorda, a quella magistrale sintesi mancava il supporto del dato archeologico e dunque questo saggio vuole, in parte, proporsi come ripresa e integrazione dell’excursus condotto dal grande storico tedesco. In parte, perché Roma. Il racconto di due città amplia considerevolmente il campo d’indagine, estendendone gli orizzonti cronologici fino all’età moderna. Nei capitoli che compongono il suo libro, l’archeologo romano, oltre a ripercorrere le tappe piú salienti di una parabola plurisecolare, sviluppa con efficacia

quel costante confronto fra realtà passate e attuali che da sempre costituisce una delle sue chiavi interpretative predilette (come i lettori di «Archeo» hanno avuto a piú riprese modo di apprezzare, soprattutto dalle pagine del suo Mestiere d’archeologo). E si concede, nelle pagine conclusive, un’Appendice dedicata anch’essa a uno dei percorsi che ha spesso battuto, cioè la toponomastica. Proponendo di sciogliere, con argomenti originali e suggestivi, gli enigmi che ancora oggi ruotano intorno ai nomi di elementi simbolo del paesaggio romano, quali il Tevere, il Velabro o il Monte Mario. Stefano Mammini

La Colonna Traiana nel XVI sec., al centro dello scavo che ne mise in luce il basamento, incisione di Étienne Du Pérac facente parte della serie I vestigi dell’antichita di Roma raccolti et ritratti in prospettiva... 1773.

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presenta

ARALDICA LE GRANDI FAMIGLIE D’ITALIA

Colori sgargianti, figure geometriche, animali reali e fantastici, evocazioni di paesaggi... C’è un vero e proprio mondo negli stemmi, un universo stratificatosi nel tempo e che ha portato alla nascita dell’araldica, protagonista del nuovo Dossier di «Medioevo» e, non a caso, chiamata un tempo «arte del blasone». Un’«arte» che si è istintivamente portati ad associare alla nobiltà, ma che, come si scopre scorrendo le pagine dell’opera, non fu soltanto appannaggio di dinastie grandi e piccole. Soprattutto, sebbene si tratti di un’acquisizione abbastanza recente, l’araldica viene ormai riconosciuta come una delle fonti documentarie che possono contribuire alla ricostruzione storica degli eventi che l’hanno scandita e dei loro protagonisti. L’obiettivo del Dossier è puntato sull’Italia, che potrebbe ben essere definita il Paese «delle mille famiglie» (e non delle «cento città») e che vanta un numero sterminato di casate nobiliari che ne punteggiano la geografia e la storia. Una polverizzazione del titolo feudale che, da un canto, ha ostacolato la creazione di un grande Stato nazionale – alla base invece delle fortune politiche e commerciali di altri Paesi d’Europa in epoca moderna –, ma che, dall’altro, grazie all’ascesa della piccola aristocrazia, ha dato vita a una dialettica tra classe borghese e nobiliare capace di evitare grandi fratture sociali. Il nuovo Dossier di «Medioevo» invita, pertanto, a leggere le storia delle casate nobiliari italiane, tra le quali sono comprese anche alcune dinastie «italianizzate», come per esempio gli Angioini. Stemmi, motti e magioni nascondono pagine di straordinario interesse non solo per lo specialista, ma per chiunque intenda la storia come un racconto vivo e palpitante, fatto di donne e uomini desiderosi di affermare se stessi e la propria discendenza.

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