Archeo n. 464, Ottobre 2023

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TIBERIO SUL PALATINO

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SPECIALE

MUSEO DI MONTERIGGIONI

DOMUS AUREA IL CIELO IN UNA STANZA

ARTEMIDE A GROSSETO

UMBRIA

NELLA VILLA DI PLINIO IL GIOVANE

VILLA DI PLINIO

SPECIALE DOMUS AUREA

Mens. Anno XXXIX n. 464 ottobre 2023 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

ILIADE AL FEMMINILE

LETTERATURA

UN’ILIADE AL FEMMINILE

XXV BORSA MEDITERRANEA DEL TURISMO ARCHEOLOGICO

IL PROGRAMMA COMPLETO

MONTERIGGIONI

IL NUOVO MUSEO ARCHEOLOGICO

MOSTRE MAREMMA • ARTEMIDE A GROSSETO •L A BELLEZZA A VETULONIA

www.archeo.it

TI BE ch RI eo O .i

IN EDICOLA IL 10 OTTOBRE 2023

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ARCHEO 464 OTTOBRE

€ 6,50



EDITORIALE

ARCHEOLOGIA ALLO SPECCHIO Il Maraya appare come un miraggio. I 9740 metri quadrati di superficie a specchi di questo incredibile edificio a forma di cubo non sembrano avere altra funzione che riflettere la storia geologica del luogo, racchiusa nelle monumentali rocce scolpite dal vento nel corso di centinaia di milioni di anni. Siamo nel deserto intorno all’oasi di AlUla, nel Nord-Ovest dell’Arabia Saudita, a 400 km da Medina, seconda – per importanza – città santa dell’Islam. Isolato e quasi invisibile, il Maraya («specchio» in arabo) è uno stupefacente esempio di Land Art, la cui soluzione architettonica, sommamente rispettosa di un contesto paesaggistico dominato da immense sculture naturali, era l’unica possibile. Dietro la facciata riflettente del Maraya si nascondono una sala da concerto e un centro congressi. Qui, lo scorso settembre, si è svolto l’AlUla World Archaeological Summit, un convegno internazionale voluto dalla Royal Commission for AlUla, l’istituzione saudita finalizzata alla valorizzazione e promozione delle antichità conservate in questo luogo, fino a pochi anni fa lontano e irraggiungibile (l’oasi ospita siti archeologici di immensa importanza, tra cui le tombe rupestri di Hegra, iscritte nella lista del Patrimonio dell’Umanità UNESCO). Presieduto da Amr AlMadani, CEO della Royal Commission, e da Abdulrahman Alsuhaibani, Direttore per l’Archeologia, la Conservazione e le Collezioni della Real Commissione, il convegno ha riunito trecento studiosi e relatori provenienti da tutto il mondo (l’Italia era rappresentata, tra gli altri, da Emanuele Papi, direttore della Scuola Archeologica Italiana di Atene, e dall’urbanista Pietro Laureano), chiamati a confrontarsi su temi quali il rapporto tra passato e identità moderna, tra paesaggio e rovine, la resilienza e l’accessibilità (fisica e ideale) del sapere archeologico. Un «vertice» internazionale dedicato all’archeologia, dunque, con il fine dichiarato di promuovere il turismo di un territorio ancora in massima parte sconosciuto. In tempi segnati da ben altre – apparenti – priorità, non è una notizia da poco. Cosí come non lo è quella di un altro summit annuale, giunto ormai alla sua 25esima edizione: la Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, che si terrà a Paestum dal 2 al 5 novembre. Andreas M. Steiner Il Maraya, nell’oasi di AlUla (Arabia Saudita) e, in alto, nel riquadro, un momento dei lavori dell’AlUla World Archaeological Summit.


SOMMARIO EDITORIALE

Archeologia allo specchio

3

di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

RESTAURI Benvenuti a palazzo! ALL’OMBRA DEL VULCANO I colori del lusso

ARCHEOFILATELIA Musei reali e virtuali

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di Luciano Calenda

MUSEI 6

All’ombra del Castello...

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www.archeo.it

CO N

RO M A AL AT IN O

SU LP

UMBRIA

NELLA VILLA DI PLINIO IL GIOVANE

LETTERATURA

Mens. Anno XXXIX n. 464 ottobre 2023 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

SPECIALE DOMUS AUREA

amministrazione@timelinepublishing.it

VILLA DI PLINIO

Amministrazione

ILIADE AL FEMMINILE

Impaginazione Davide Tesei

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In copertina ipotesi ricostruttiva della controcalotta rotante della cenatio rotunda nella sala ottagona della Domus Aurea di Nerone.

IL CIELO IN UNA STANZA

ARTEMIDE A GROSSETO

Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it

di Paolo Braconi

Federico Curti

SPECIALE

DOMUS AUREA

MUSEO DI MONTERIGGIONI

Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it

€ 6,50

78

Presidente

TIBERIO SUL PALATINO

Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it

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2023

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 – 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it

IN EDICOLA IL 10 OTTOBRE 2023

TIB ER IO

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contributi di Mariagrazia Celuzza, Chiara Valdambrini, Barbara Fiorini, Maria Francesca Colmayer, Paola Spaziani, Marco Rastelli, Cristian Dessi, Cristina Barsotti, Simona Rafanelli, Luigi Rafanelli e Giampiero Galasso

o. it

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Tesori di Maremma

ARCHEO 464 OTTOBRE

Anno XXXIX, n. 464 - ottobre 2023 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Il buen retiro di Plinio il Giovane

he

di Flavia Marimpietri

SCAVI

38 MOSTRE

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di Michele Mantuano

PAROLA D’ARCHEOLOGO Il museo oggi

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di Giacomo Baldini

di Alessandro D’Alessio e Luigi Maria Caliò

MUSEI Ammaliati da Orfeo A TUTTO CAMPO Voci dalle periferie

«Ho rimescolato le vecchie storie» di Giuseppe M. Della Fina

di Alessandra Randazzo

FRONTE DEL PORTO Sorprese nel cuore della città

ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/10

UN’ILIADE AL FEMMINILE

XXV BORSA MEDITERRANEA DEL TURISMO ARCHEOLOGICO

IL PROGRAMMA COMPLETO

MONTERIGGIONI

IL NUOVO MUSEO ARCHEOLOGICO

MOSTRE MAREMMA

Comitato Scientifico Internazionale

Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Venceslas Kruta, Henry de Lumley, Javier Nieto

• ARTEMIDE A GROSSETO • LA BELLEZZA A VETULONIA

arc464_Cop.indd 1

28/09/23 17:43

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Carla Alfano, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Cristina Barsotti è restauratrice del Museo Archeologico e d’Arte della Maremma di Grosseto. Giacomo Baldini è direttore dei Musei civici di Colle di Val d’Elsa e coordinatore del progetto del MaM. Stefano Borghini è funzionario architetto del Parco archeologico del Colosseo. Paolo Braconi è docente presso l’Università degli Studi di Perugia. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Luigi Maria Caliò è professore di archeologia classica presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Catania. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Mariagrazia Celuzza è archeologa. Maria Francesca Colmayer è archeologa. Francesco Colotta è giornalista. Alessandro D’Alessio è direttore del Parco archeologico di Ostia Antica. Cristian Dessi è artista digitale. Barbara Fiorini è architetto. Luciano Frazzoni è archeologo. Giampiero Galasso è giornalista. Michele Mantuano è archeologo e collabora con il Gruppo di Gestione del Patrimonio Culturale dell’Università Complutense di Madrid. Alessandra Randazzo è giornalista. Luigi Rafanelli è architetto. Simona Rafanelli è direttrice del MuVet-Museo civico archeologico «Isidoro Falchi» di Vetulonia. Marco Rastelli è Business development manager marketing della BB.MM. Sergio Ribichini è studioso di storia delle religioni e delle civiltà del Mediterraneo antico. Paola Spaziani è archeologa. Mara Sternini è professoressa associata di archeologia classica all’Università degli Studi di Siena. Chiara Valdambrini è direttrice del Museo Archeologico e d’Arte della Maremma di Grosseto.


Rubriche TERRA, ACQUA, FUOCO, VENTO

Abbandonati... eppure molto eloquenti 106 di Luciano Frazzoni

106 L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

Fuoco di resurrezione 110 di Francesca Ceci

SPECIALE

110 LIBRI

84 Il cielo in una stanza

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84

di Stefano Borghini e Alessandro D’Alessio

Illustrazioni e immagini: Cortesia Stefano Borghini e Alessandro D’Alessio: pp. 91 (alto, sinistra), 94 (rielaborazione da un originale di Larry F. Ball, 2003), 95 (basso), 96 (alto e basso), 97 (basso), 103 (alto), 104 (rielaborazione da un originale di Larry F. Ball); Katatexilux, ricostruzioni virtuali: copertina e pp. 84, 100 (alto); M. Coen: pp. 88/89; A. Blanco: pp. 90, 92; ACS: pp. 92/93; A. Blanco-D. Nepi: elaborazione a p. 97 (alto); rilievo 3d A. Blanco-D. Nepi/ricostruzione virtuale Katatexilux: pp. 95, 98 (basso), 99; Archivio Parco archeologico del Colosseo: pp. 98/99; M. Muzzupappa: p. 103 (basso) – Cortesia Ufficio stampa: Stefano Castellani: pp. 6 (sinistra, alto, e destra), 7, 8-9; Ufficio fotografico del Parco archeologico del Colosseo: p. 6 (sinistra, basso) – Andreas M. Steiner: p. 3 – Royal Commission for AlUla: p. 3 (riquadro) – Cortesia Parco Archeologico di Pompei: pp. 10-11 – Archivio Fotografico del Parco archeologico di Ostia antica: pp. 14-15 – Cortesia Archivio Ufficio beni archeologici della Provincia Autonoma di Trento: Luca Chistè: pp. 16-18 – Cortesia degli autori: pp. 20-26, 78, 79 (alto), 80-83, 110-111 – Shutterstock: pp. 38/39, 54 – Cortesia Giacomo Baldini: p. 43 (alto, sinistra); Luca Betti: pp. 40-41; Studio Inklink: tavole ricostruttive alle pp. 41, 45, 49; Società Monteriggioni AD 1213 srl/ Marzia Verdicchio: pp. 41 (basso), 43 (basso), 44, 48 (destra), 49 (basso), 50 (alto), 52, 53; Luca Passalacqua: p. 45 (alto); Floriano Cavanna; pp. 46 (basso), 46/47; Paolo Nannini: p. 47 (alto e basso); Stefano Bertoldi: pp. 50/51 – Cortesia MAAM-Museo archeologico e d’arte della Maremma, Grosseto: p. 60 (sinistra); Carlo Bonazza: pp. 58-59, 60 (destra); Alberto Franceschini: pp. 61, 62; Marco Rastelli: p. 63 – Cortesia MuVet-Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» di Vetulonia: pp. 64-65 – Cortesia MiC-Soprintendenza ABAP per le Province di Pisa e Livorno: DSSBC Università di Siena/L. Passalacqua: pp. 66/67; Università degli Studi di Siena: p. 68 (alto) – Cortesia Archivio Parchi Val di Cornia SpA: pp. 68 (basso), 69 – Doc. red.: pp. 70, 73, 76, 85, 86/87, 106-108 – Mondadori Portfolio: AKG Images: p. 71; Album/Fine Art Images: pp. 74/75 – Per gentile concessione di G. Magli: pp. 100/101 – Mentnafunangann/Wikimedia Commons: p. 102 – Cippigraphix: cartine alle pp. 40, 79, 86.

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia srl Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Il Servizio Arretrati è a cura di: Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Srl - 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito: https://arretrati. pressdi.it

L’indice di «Archeo» 1985-2022 è disponibile sul sito www.ulissenet.it Registrandosi sulla home page si ottengono le credenziali per la consultazione di prova


n otiz iari o RESTAURI Roma

BENVENUTI A PALAZZO!

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quasi cinquant’anni dall’insorgere dei gravi problemi strutturali che ne avevano determinato la chiusura e a seguito di importanti interventi di restauro, è stata riaperta al pubblico la Domus Tiberiana, la grandiosa residenza imperiale che si estende per circa 4 ettari sul Palatino, affacciata sulla valle del Foro Romano. La riapertura del monumento è stata accompagnata dal ripristino della circolarità dei percorsi tra Foro Romano e Palatino, attraverso la rampa di Domiziano e gli Horti Farnesiani: chi

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IL PALAZZO SUL PALATINO

Sul colle preferito

La Domus Tiberiana è il primo palazzo imperiale vero e proprio, eretto sul versante nord-occidentale del Palatino nel I secolo d.C. Oltre al settore residenziale, il palazzo comprendeva vaste aree a giardino, luoghi di culto, ambienti destinati alla guardia pretoriana a tutela dell’imperatore, nonché un vero e proprio quartiere di servizi affacciato verso il Foro Romano. Fin dalla prima età repubblicana, questo versante del Palatino venne prediletto dalle famiglie aristocratiche romane per erigervi le loro case, poiché si trattava di una zona immediatamente accessibile dalla valle del Foro Romano, come testimoniano le fonti letterarie e come è stato confermato dagli scavi. La prima fase della Domus Tiberiana attestata dalle in-

dagini archeologiche è quella neroniana, databile all’indomani dell’incendio del 64 d.C., ovvero contestualmente all’edificazione della Domus Aurea. Il palazzo subí diversi ampliamenti e ristrutturazioni nel tempo, le piú importanti delle quali sono dovute agli imperatori Domiziano (81-96 d.C.) e Adriano (117-138 d.C.), fino a raggiungere un’estensione di circa 4 ettari. L’utilizzo del palazzo imperiale continuò fino al VII secolo, quando divenne sede pontificia con Giovanni VII. Dopo secoli di abbandono, alla metà del XVI secolo, la famiglia Farnese realizzò sulle terrazze scenografiche della Domus Tiberiana gli Horti Farnesiani, uno splendido giardino di delizie, destinato a ospitare una nuova corte.

Sulle due pagine: immagini della Domus Tiberiana. In senso orario, dalla sinistra, in basso: le sostruzioni nord; due vedute del Clivo della Vittoria; ancora il Clivo della Vittoria, visto dagli archi della via Tecta; la figura di un gladiatore affrescata nella latrina omonima, di età neroniana; il frutto del limone negli affreschi della latrina «del Gladiatore».

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n otiz iari o Lastra in terracotta del tipo Campana proveniente dagli scavi relativi alle fasi precedenti la Domus Tiberiana. Nella pagina accanto: il tratto terminale della via Tecta/Clivo della Vittoria. In basso: particolare dell’allestimento della sala 3 di «Imago imperii»: proplasmata (modelli preparatori) e vasellame relativo alle fasi precedenti la Domus Tiberiana. Età cesariana e proto-augustea.

entra nella Domus percorrendo la via coperta nota come Clivo della Vittoria, può cosí avere la percezione dell’antico cammino percorso dall’imperatore e dalla corte per raggiungere la sontuosa residenza privata, che dal colle Palatino ha dato origine al moderno significato della parola «palazzo». Gli ambienti che si aprono lungo il percorso sono stati inoltre musealizzati, dando vita a «Imago imperii», un allestimento che racconta la storia del complesso nei

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secoli. Il nuovo percorso di visita si sviluppa nelle viscere del palazzo imperiale, oltrepassando le poderose arcate del quartiere dei servizi, ed è incastonato nelle sostruzioni cave del fronte nord. Si articola in sette sale espositive, quattro delle quali comunicanti tra di loro, che si affacciano con una vista privilegiata sul Foro Romano, mentre due sale multimediali, sul fronte opposto, ospitano un documentario e la ricostruzione olografica del monumento.


Un percorso tattile accompagna il visitatore. Allo snodarsi delle sale, si segue la visione delle architetture restaurate, dei servizi con le terme imperiali e le infrastrutture connesse, delle superfici decorate a stucco che impreziosiscono il cosiddetto ponte di Caligola, con sullo sfondo le pitture ritraenti soggetti della vita di corte. L’allestimento museale si articola secondo una visione tematica negli ambienti del quartiere sostruttivo di epoca adrianea, destinato ad accogliere i servizi, le botteghe per la vendita al dettaglio e presumibilmente anche attività amministrative. Il racconto della vita della reggia è suffragato da un’ampia selezione delle centinaia

LE PRIME ESPLORAZIONI

Pietro Rosa e il «Ponte di Caligola»

Quando Napoleone III divenne proprietario degli Horti Farnesiani, incaricò l’architetto Pietro Rosa di eseguire scavi sistematici. Nel corso di un decennio di attività vennero scoperti, tra gli altri, gli ambienti della Domus Flavia, il clivo Palatino e le aree adiacenti, il Criptoportico «Neroniano», la Casa di Livia e, infine, il clivo della Vittoria, che, dal 1865, fu sgombrato dall’imponente interro che lo ricopriva, portando alla luce gli ambienti su di esso affacciati. Sul finire dello stesso secolo, Rosa concentrò le sue ricerche nel versante nord della Domus Tiberiana, rivolto verso il Foro Romano e qui ci informa «si rinvenne esattamente la fronte principale del Palazzo che potrà attribuirsi alla casa di Caligola (...) questo prospetto alto 16 metri, decorato da due ordini di arcate, contenente una loggia sopra il primo, con un elegante parapetto in marmo traforato (...) conserva ancora ricchi resti di stucchi e pitture». Il cosiddetto Ponte di Caligola è, in realtà, un loggiato di epoca domizianea attribuito, dal suo scopritore, all’imperatore Caligola, sulla base della lettura di un passo di Svetonio, da cui sappiamo che quest’ultimo avrebbe fatto realizzare un ponte al di sopra del tempio del Divo Augusto per congiungere il Palatino al Campidoglio, dove avrebbe innalzato una nuova Domus (Suet., Cal., XXII). In realtà, dopo la morte di Nerone il palazzo venne profondamente modificato: il braccio nord accolse un loggiato con vani alti e stretti, decorati da mosaici geometrici bianchi e neri, pitture e stucchi. La balaustra del Ponte di Caligola è oggi integrata dai restauri di fine Ottocento: una ricostruzione del suo originale partito decorativo è proposta all’interno del percorso espositivo.

di reperti ceramici, in metallo e in vetro, di statuaria e decorazioni fittili messi in luce durante gli scavi degli ultimi trent’anni: le merci e i consumi attraverso la documentazione che ci restituisce il vasellame trovato, le transazioni economiche testimoniate dalle numerose monete rinvenute, i sontuosi arredi degli spazi occupati dalle corti con le informazioni desunte dalla statuaria, i culti misterici del Palazzo, da Dioniso a Mitra e agli egizi Iside e Serapide. (red.)

DOVE E QUANDO «Imago imperii», Domus Tiberiana Roma, Foro Romano e Palatino Orario tutti i giorni, con orari che variano stagionalmente; chiuso il 25 dicembre e il 1° gennaio Info www.colosseo.it

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ALL’OMBRA DEL VULCANO di Alessandra Randazzo

I COLORI DEL LUSSO UNA DELLE PIÚ PRESTIGIOSE RESIDENZE DELL’ANTICA STABIAE, VILLA SAN MARCO, È OGGETTO DI NUOVE INDAGINI. CHE ARRICCHISCONO LA CONOSCENZA DEL SITO E NE DOCUMENTANO LA RAFFINATEZZA DELL’APPARATO DECORATIVO, RICCO DI VIVIDE PITTURE MURALI

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li scavi archeologici in corso presso l’antica Stabiae, oggi nel comune di Castellammare di Stabia e parte integrante del Parco Archeologico di Pompei, hanno rivelato la parte terminale del portico superiore di Villa San Marco, in passato solo parzialmente indagato, con ampie pitture ancora in situ e altre sezioni crollate dalle pareti e dal soffitto. Si tratta di reperti preziosi, che contribuiscono a documentare le

dinamiche di distruzione del vasto complesso residenziale, travolto dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C.

UN CANTIERE DIDATTICO Lo scavo è stato condotto sul campo nella forma del cantiere didattico, con il coinvolgimento di docenti, giovani ricercatori e dottorandi in collaborazione con il Parco Archeologico di Pompei, la Scuola Superiore Meridionale, l’Università della Campania «Luigi

Stabiae, Villa San Marco. Elementi decorativi in stucco dipinto affiorano nel corso degli scavi che stanno interessando la lussuosa residenza.

In alto e qui sopra: particolari delle pitture murali che impreziosivano il portico superiore di Villa San Marco, solo parzialmente esplorato nel corso dei primi scavi condotti nel sito.

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A sinistra e in basso: frammenti di intonaco dipinto provenienti anch’essi dallo scavo del portico superiore di Villa San Marco.

Vanvitelli» e la Scuola IMT Alti Studi di Lucca, sotto la direzione di Maria Luisa Catoni, Carlo Rescigno e del direttore del Parco Archeologico di Pompei, Gabriel Zuchtriegel. Gli scavi del sito vesuviano di Stabiae ebbero inizio il 7 giugno 1749 per volere di Carlo III di Borbone. Furono esplorati un impianto urbano, con botteghe e strade, e sei ville residenziali disposte sul ciglio sopraelevato sul mare del pianoro di Varano. L’esplorazione avveniva allora attraverso cunicoli sotterranei, rinterrando e passando ad altro luogo quando i rinvenimenti non erano ritenuti degni di essere esposti al Museo Borbonico della Reggia di Portici. Seguito dall’ingegnere spagnolo Roque Joaquín de Alcubierre e dall’ingegnere svizzero Carl Weber, lo scavo iniziò dalla cosiddetta Villa San Marco (1749-1754), per poi interessare la villa «del Pastore» (1754) e la Villa Arianna con il complesso adiacente (1757-1762). Dopo un’interruzione di circa tredici anni le ricerche ripresero nel 1775, interessando nuovamente la zona di Villa Arianna e l’area di alcune ville rustiche nel territorio dell’ager. Il complesso di Villa San Marco, dal nome di una chiesetta che sorgeva nei pressi dell’edificio, si articola in un quartiere con doppio atrio e impianto termale, un giardino colonnato inferiore con una grande piscina coronata da raffinati

ambienti di soggiorno e rappresentanza. La struttura si conclude con un portico superiore monumentale a tre bracci aperto verso il mare. Di quest’ultimo portico era noto solo l’avvio, e solamente in anni recenti ne è stata individuata la parte terminale, a circa 100 m di distanza dall’angolo oggi conservato. Una ampia parte di tale articolazione è quindi ancora da portare alla luce.

PITTURE IN IV STILE Nel 2020 era stato avviato un primo cantiere, parte di un piú ampio programma di ricerca incentrato sullo scavo del portico attivo anche in questi mesi. La struttura emerge dai lapilli nel suo assetto originario con la ricca decorazione pittorica in IV stile alle pareti e molto ben conservata, con il monumentale soffitto figurato in crollo sull’alto strato di lapillo grigio e le architetture poderose concluse con una fuga di colonne tortili. Seguendo il racconto fornito dalle stratigrafie di lapilli e di crolli e dalla sequenza dei flussi piroclastici che hanno invaso atri, giardini e sommerso i tetti, provocandone in tempi diversi i crolli, è inoltre possibile ricostruire le ultime ore di vita della villa. Nonostante la drammatica eruzione che, oltre Pompei, Ercolano e Oplontis, interessò anche il sito di Stabiae, la vita e il lusso della villa riaffiorano nelle

preziose pitture delle pareti e dei soffitti, negli stucchi, nei capitelli, nei preziosi rivestimenti e coronamenti di colonne e coperture. Le pitture riproducono tappeti, candelabri e scene fantastiche, finte architetture con profondi scorci prospettici spesso realizzate in diversi toni di azzurro. Le pareti sono popolate da figure sedute sulle architetture, attori o figure mitiche, o disposte a riempire il centro dei tappeti, spesso in volo. Nelle finte architetture troviamo statue dorate, quadretti con rappresentazioni di genere, nature morte, paesaggi marini e architettonici, naumachie. Per notizie e aggiornamenti su Pompei: pompeiisites.org; Facebook: Pompeii-Parco Archeologico; Instagram: Pompeii-Parco Archeologico; Twitter: Pompeii Sites; YouTube: Pompeii Sites.

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FRONTE DEL PORTO a cura di Claudia Tempesta e Cristina Genovese

SORPRESE NEL CUORE DELLA CITTÀ NEL PIENO CENTRO DELL’ANTICA OSTIA, UN’AREA MAI ESPLORATA IN PRECEDENZA STA RIVELANDO UN COMPLESSO DI ECCEZIONALE INTERESSE, FORSE LEGATO ALLA SFERA DEL SACRO

N

ato dal rapporto di collaborazione istituito fra il Parco archeologico di Ostia antica e l’Università degli Studi di Catania, con il supporto del Politecnico di Bari, e volto a indagare aree

non scavate della città di Ostia, il progetto OPS-Ostia Post Scriptum è giunto nel 2023 alla seconda campagna di scavo che, come la precedente, ha interessato due distinte aree, rispettivamente ubicate nella Regio II (Area A), e nella Regio IV (Area B). Nell’area A, l’obiettivo delle ricerche era ed è quello di analizzare un settore della città prossimo all’antico corso del Tevere, in una zona assolutamente centrale sotto il profilo topografico, delimitata dai Grandi Horrea a ovest, dal santuario repubblicano dei Quattro Tempietti, dal Mitreo delle Sette Sfere e dalla Domus di Apuleio a sud, e ancora dal Piazzale delle Corporazioni a est.

UN RICCO PALINSESTO A dispetto della sua centralità, quest’area non era mai stata indagata in precedenza e si presentava pertanto come ideale per nuovi scavi, qualificandosi come un bacino stratigrafico intatto. I risultati scaturiti dalle indagini svolte nel settembre 2022 (vedi «Archeo» n. 453, novembre 2022; on

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A destra: rilievo 3D dell’ambiente absidato riportato alla luce dagli scavi del progetto OPS-Ostia Post Scriptum. Nella pagina accanto, dall’alto: veduta generale del mosaico del portico; veduta aerea dell’area di scavo al termine della campagna 2023. line su issuu.com) e soprattutto a giugno-luglio 2023 sono stati sorprendenti: la campagna di scavo di quest’anno, infatti, in continuità con quella del 2022, ha portato alla luce un ricco palinsesto di strutture verosimilmente pertinenti a una domus, o comunque a un complesso abitativo, realizzato nel corso del III secolo d.C. In particolare, sotto copiosi strati di crollo e di materiale edilizio eterogeneo, sono emersi gli alti muri perimetrali (in opera laterizia e listata) di diversi ambienti, che occupano al momento un’area di circa 400 mq, in parte ancora intonacati, riempiti e obliterati dal crollo dei piani superiori e in cui è stato possibile riconoscere diverse decorazioni dipinte ed estese porzioni di pavimenti a mosaico. Lungo il lato meridionale del complesso correva un portico, di cui sono stati individuati i pilastri in stato di crollo e uno splendido pavimento mosaicato, in ottimo stato di conservazione. Le tessere, bianche e nere, compongono uno schema decorativo ancora perfettamente leggibile, costituito da una fascia laterale nera dalla quale si sviluppano una serie di losanghe e motivi geometrici di forma quadrata e ottagonale, campiti all’interno con motivi a treccia, elementi floreali e vegetali. All’estremità orientale dell’area indagata è emerso un cambio nel motivo decorativo del mosaico, in questo punto costituito da forme esagonali individuate da tessere di colore rosso e riempite in modo alternato da lastre marmoree di colore bianco, esagonali, e tesserine di colore nero.

Sul lato occidentale dell’edificio (o comunque nel settore piú occidentale dello scavo) è emerso uno stretto ambiente absidato al quale si accedeva tramite quattro scalini che conducevano a una quota nettamente piú bassa rispetto a quella del restante complesso. Un ambiente, quindi, quasi sotterraneo. Assiale rispetto al suo ingresso e in posizione nettamente elevata rispetto ai gradini, si trova ancora una nicchia ricavata nella piccola abside, inquadrata da due colonnine sorrette da un sistema di mensole. La nicchia è rivestita da uno strato di intonaco su cui sono applicate numerose conchiglie decorative.

ATTIVITÀ RITUALI? Allo stato attuale non è ancora possibile comprendere la funzione di questo spazio; tuttavia, la presenza delle conchiglie, degli spessi rivestimenti parietali e di numerose lucerne integre, nonché la natura ipogea del vano, lasciano ipotizzare una funzione di carattere rituale. Al vano si accedeva da un ambiente di grandi dimensioni, decorato anch’esso con mosaico pavimentale a tessere bianche e

nere, comunicante con il portico orientale. All’interno di questo grande ambiente, poco piú a sud del vano absidato, è venuta alla luce una sorta di podio che conserva ancora, nella parte inferiore, un rivestimento di lastre marmoree modanate di vario tipo (rosso antico e probabile «greco scritto»), che accresce l’aspetto monumentale del complesso. Essendo le ricerche tuttora in corso di svolgimento – e in programmazione le future campagne di scavo – non è ancora possibile e opportuno sbilanciarsi sul piano interpretativo; ciononostante, il pregio degli elementi decorativi, come le lastre di rivestimento marmoree e i pavimenti mosaicati, consente di ipotizzare che si tratti di un ricco complesso edificato in un settore cruciale e a carattere peraltro pubblico della città, e che conobbe diverse fasi di vita (dal III secolo d.C. come detto e almeno fino al crollo delle strutture murarie nella tarda o post antichità) e in cui sembra emergere una particolare attenzione alla sfera del sacro. Alessandro D’Alessio e Luigi Maria Caliò

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MUSEI Roma

AMMALIATI DA ORFEO

V

enuta alla luce nel 1954 in via Rosmini, la Villa di Orfeo fu la prima grande scoperta di un complesso riferibile alla città romana di Tridentum, l’odierna Trento, fondata nel I secolo a.C. A quasi settant’anni dal ritrovamento e a piú di venti dall’ultima apertura, la magnifica residenza è stata ora riaperta al pubblico, riconsegnando alla comunità un luogo importante per la comprensione e la ricostruzione della storia piú antica del capoluogo trentino. La Villa di Orfeo, il cui nucleo piú antico risale al I secolo d.C., è un magnifico esempio di residenza signorile. Venne edificata al di fuori di quella che era la cinta urbica di Tridentum, quando lo splendidum municipium, come fu definito dall’imperatore Claudio nel 46 d.C., conobbe la sua fase piú

fiorente. La prestigiosa abitazione sorgeva in un quartiere che, alla luce di numerosi altri rinvenimenti, sembra fosse destinato a ricchi edifici nella zona accanto alle mura, non lontano da una delle porte di accesso alla città. La villa, che si articola in due parti separate da uno spazio aperto dove si trova anche un pozzo, prende il nome dallo splendido grande mosaico policromo che si ammira nel vano di rappresentanza, dove il proprietario era solito ricevere i suoi ospiti. Si tratta di un vero e proprio tappeto musivo di 56 mq. al centro del quale è raffigurato Orfeo mentre siede su una roccia intento a suonare la lira per incantare gli animali con la sua musica. Il mitico personaggio è circondato da sei esagoni in ognuno dei quali

compare un animale tra cui si distinguono una pantera, un cervo, un cane, un cavallo, un felino e un orso. Lo stile e il tipo di decorazione permettono di datare il mosaico tra il 90 e il 180 d.C. Oltre a questo magnifico ambiente principale, la villa disponeva di numerosi vani, fra cui la cucina e un impianto termale con spogliatoio e stanza per il bagno caldo dotati di riscaldamento a pavimento. Indice di raffinatezza è anche un secondo ambiente decorato finemente con un mosaico policromo con quadretti raffiguranti il nodo di Salomone e, al centro, un kantharos, una tazza a due manici. L’edificio era inoltre completato da grandi giardini, spazi verdi che abbellivano ulteriormente la dimora, direttamente accessibili dalle stanze della casa. Uno scorcio degli ambienti della Villa di Orfeo a Trento. Al centro, un impianto per la circolazione dell’aria calda, assicurata dalle suspensurae. Nella pagina accanto, in alto: la stanza della villa impreziosita dal grande mosaico policromo con l’immagine di Orfeo nell’esagono centrale. Nella pagina accanto, in basso: un’altra veduta dei resti della lussuosa residenza.

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Al pari degli altri complessi residenziali costruiti all’esterno della cinta muraria di Tridentum, la villa venne progressivamente abbandonata a partire dalla seconda metà del III secolo d.C., in concomitanza con i primi arrivi delle genti barbariche che si resero allora protagoniste di grandi fenomeni migratori. Ai ricchi proprietari si sostituirono famiglie meno abbienti, che apportarono sostanziali cambiamenti alla struttura, riducendo le dimensioni delle stanze e trasformando la sala del mosaico di Orfeo in una cucina. Nel corso del VI secolo i cortili furono adibiti ad aree di sepoltura e il complesso seguí le sorti del resto della città, che venne progressivamente inglobata nella Trento medievale e moderna, scomparendo alla vista per riemergere solo nel ventesimo secolo grazie alle ricerche archeologiche.

Alla villa, situata come gli altri siti di Tridentum, circa 3 m sotto il suolo attuale, si accede da via Rosmini, non lontano dalla chiesa di S. Maria Maggiore. Il percorso di visita è corredato da pannelli informativi in tre lingue (italiano,

inglese e tedesco) ed è arricchito da una vetrina con reperti, alcuni dei quali testimoniano che l’area era già frequentata in età preromana, come dimostra la spilla in bronzo a forma di cavallino, databile tra il VI e il IV secolo a.C, appartenente

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Particolare di uno dei mosaici della Villa di Orfeo raffigurante un vaso crateriforme dal quale fuoriescono tralci d’edera.

forse a una donna dell’aristocrazia locale. Tra gli oggetti di età romana, molti sono attinenti alla cucina e alla tavola, fra i quali mortai in pietra, colini, utensili in ferro, brocche, bottiglie e recipienti utilizzati sia per la conservazione dei cibi, sia per la cottura. Non mancano raffinati manufatti, bicchieri e coppe per bere in vetro e ceramica finemente decorati provenienti dall’area padana, ma sono attestate anche ceramiche africane. I frammenti di anfore testimoniano l’importazione di prodotti alimentari, olio e vini pregiati, dall’area padano-alto adriatica e dalle isole del Mediterraneo orientale. La presenza di due ami da pesca in bronzo è indice di attività ittica legata alla vicinanza del fiume Adige che scorreva a poca distanza dalla villa. Emblematico dell’agiatezza dei proprietari è il

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ritrovamento di ostriche probabilmente provenienti dal Mar Adriatico. Tra gli oggetti di ornamento, di particolare interesse è una gemma vitrea, utilizzata come sigillo. Altri reperti riportano alla sfera femminile come gli spilloni, aghi e pesi da telaio. Si segnalano anche 28 monete in bronzo, alcune tagliate a metà, che vanno dall’età repubblicana al IV secolo d.C. A queste si aggiunge un raro denaro d’argento di Carlo Magno coniato dalla zecca di Mediolanum (Milano) attorno all’anno 800. NeI nuovo allestimento le pareti del sito sono state dipinte con immagini che rievocano da un lato lo skyline della città romana vista dalla villa con il muro di cinta e le torri e, dall’altro, il giardino e gli spazi verdi che abbellivano l’abitazione. Completa il percorso di visita un video immersivo che aiuta a localizzare la posizione della

villa nel contesto di Tridentum e propone la ricostruzione virtuale della città romana e dell’edificio, trasportando il visitatore in un viaggio attraverso i secoli. Il filmato è arricchito da rare e originali musiche eseguite al cospetto del mosaico di Orfeo con un antico strumento a corda ricostruito. Il materiale informativo comprende una breve guida del sito – realizzata anch’essa in tre lingue (italiano, inglese e tedesco) – che riporta le informazioni contenute sui pannelli del percorso di visita e una pubblicazione di 64 pagine che presenta la storia delle ricerche archeologiche condotte nel sito, l’interpretazione dei dati di scavo e una panoramica dei ritrovamenti e dei reperti. Il nuovo allestimento della Villa di Orfeo completa e arricchisce l’itinerario «Tridentum la città sotterranea» del quale fanno già parte lo Spazio Archeologico Sotterraneo del Sas e le aree archeologiche di Porta Veronensis in piazza Duomo e di Palazzo Lodron nell’omonima piazza. (red.)

DOVE E QUANDO Villa romana di Orfeo Trento, via Rosmini 4 Orario 01/10-31 maggio: ma-do, 9,00-13,00 e 14,00-17,30; 01/06-30/09: ma-do, 9,30-13,00 e 14,00-18,00; chiuso il lunedí (esclusi i lunedí festivi), 1° gennaio, 1° novembre, 25 dicembre Info e visite guidate tel. 06 39967700; www.pierreci.it; http://archeoroma.beniculturali.it/



A TUTTO CAMPO Michele Mantuano

VOCI DALLE PERIFERIE NUOVE INTELLIGENZE COMBATTONO LA STIGMATIZZAZIONE DEI LUOGHI NELLA PERIFERIA DI FOGGIA, RICERCANDO BENESSERE E INCLUSIONE SOCIALE ATTRAVERSO LA TUTELA E LA VALORIZZAZIONE DEL PATRIMONIO CULTURALE DELLA CAPITANATA

I

n questi anni molte periferie urbane sono teatro di interessanti fenomeni di rivendicazione dal basso, attraverso azioni concrete che ogni giorno mettono in discussione lo stereotipo di periferia quale sinonimo di marginalizzazione e degrado socio-culturale. La possibilità di invertire i flussi turistici dal centro ai margini, la lotta all’espansione edilizia incontrollata, il miglioramento della qualità della vita, la possibilità di creare inclusione e benessere sociale sono le motivazioni che, dal Nord al Sud del Paese, accomunano esperienze che, in maniera molto diversa, guardano anche al patrimonio culturale e richiamano i principi alla base della Convenzione quadro del Consiglio

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d’Europa sul valore dell’eredità culturale per la società civile. «Questo è un Capitale» recitava lo striscione posizionato dai ragazzi e dalle ragazze di Ottavia, gruppo informale nato nel 2020 a Foggia, nel corso di un sit in nei pressi di Masseria Pantano, esempio di architettura rurale di età moderna, nonché parte integrante di un contesto archeologico oggi invisibile e a rischio di deterioramento nella periferia sudorientale della città. Il termine pantano evoca un paesaggio umido fatto di acquitrini, che, fin dalla preistoria, ha attratto frequentazioni antropiche nell’area. Un toponimo che rimanda, in particolare, a un altro capitolo importante per l’archeologia della Capitanata, e cioè al «paesaggio di

potere» modellato dall’imperatore Federico II (1194-1250), di cui la domus Pantani citata nelle fonti di età sveva (1230, 1231, 1241), rappresenta un tratto essenziale.

LA PASSIONE DI FEDERICO Descritta da atti e cronache medievali come un’architettura di alto profilo, contornata da un parco con specchi d’acqua, popolata da animali e uccelli selvatici, la residenza era un ambiente ideale per la falconeria, passione che l’imperatore praticava nel Tavoliere. Un modello architettonico che il sovrano aveva probabilmente apprezzato nelle forme delle residenze normanne dell’area palermitana, arricchite dall’abbondante presenza di acqua e circondate da giardini di delizie, a imitazione dei palazzi degli emiri musulmani. Della residenza suburbana oggi non resta traccia: l’indagine archeologica dell’Università di Foggia, coordinata dal docente di archeologia medievale, Pasquale Favia, nei pressi di Posta Palazzo a ovest della Masseria Pantano, tradizionalmente identificata con la residenza federiciana, ha permesso di recuperare, in condizioni difficili di


A sinistra: foto aerea dell’area di Masseria Pantano, con i saggi di scavo dell’Università di Foggia. Nella pagina accanto: un’immagine dello sviluppo edilizio in prossimità di Masseria Pantano. In basso: lo striscione del Gruppo Ottavia esposto davanti alla Masseria Pantano.

scavo e di conservazione, la presenza di elementi scultorei, in marmo e breccia corallina, ascrivibili agli arredi del palazzo e di individuare resti di strutture murarie di varie dimensioni che prefigurano ambienti di servizio della stessa domus, poi acquisita dagli Angioini.

LA LUCE DELLA CULTURA «Masseria Pantano è diventato il simbolo del degrado urbano; sarebbe straordinario illuminarlo con la luce della cultura. Abbiamo intrapreso questa iniziativa partendo dalla raccolta delle informazioni e delle caratteristiche del contesto. Sono seguiti diversi incontri con tecnici e organizzazioni culturali e una campagna di sensibilizzazione attraverso una raccolta di firme, con l’obiettivo di promuovere nuove indagini archeologiche e destinare la masseria all’Università. Gli stessi residenti hanno manifestato un notevole interesse, dal momento che in massima parte sono consapevoli del fatto che la tutela e

la valorizzazione del sito possano avere un impatto positivo sulla qualità della vita nel quartiere»: il racconto di Mario, giovane militante di Ottavia, richiama a una responsabilità individuale e collettiva verso l’eredità materiale e immateriale del passato nella città di Foggia, oggi al centro di una difficile crisi sociale, culminata con il commissariamento dell’Amministrazione Comunale per presunte infiltrazioni della criminalità organizzata. L’esperienza di Ottavia a Masseria Pantano segue l’iniziativa di altri gruppi informali e associazioni culturali della città, da anni impegnati nella tutela e valorizzazione del patrimonio archeologico delle periferie urbane. Siamo ancora lontani da quanto sta avvenendo in altre città italiane: qui è possibile, tuttavia, cogliere alcuni segnali che pongono le basi per la costruzione di una Comunità di Patrimonio che, nello spirito della Convenzione di Faro, vuole ricercare il diritto all’eredità del

passato. In questa fase di transizione, le istituzioni hanno il compito di ascoltare simili esperienze, esplorando le motivazioni e gli obiettivi di chi vuole costruire una narrazione diversa per la città di Foggia, a partire dal suo patrimonio culturale. Ci troviamo in un momento impensabile fino a qualche decennio fa, in una sorta di rivoluzione dal basso che vede i cittadini convertirsi da semplici fruitori a protagonisti consapevoli di una nuova concezione del patrimonio culturale, quale potente mezzo di riscatto sociale. (mmantuan@ucm.es)

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PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri

IL MUSEO OGGI LUCIA CATALDO, INSIEME A MARTA PARAVENTI, HA FIRMATO LA NUOVA EDIZIONE DI UN SAGGIO IN CUI VIENE DISCUSSO IL RUOLO CHE LE COLLEZIONI POSSONO E DEVONO AVERE IN UN’EPOCA DI IMPORTANTI MUTAMENTI CULTURALI E TECNOLOGICI COME QUELLA ATTUALE. ECCO COSA CI HANNO DETTO LE DUE STUDIOSE

L’

idea di museo si è trasformata, negli anni, insieme alla nostra società. Oggi il museo è uno spazio in cui vivere un’esperienza che non è solo la contemplazione di vetrine mute. O l’ammirazione delle grandi scoperte archeologiche, tra una moltitudine di reperti incomprensibili. È uno spazio aperto di formazione e di progettazione, in grado di evolversi con il pubblico, pur salvaguardando la storia, come spiega Lucia Cataldo, archeologa e docente di museologia nelle Accademie di Belle Arti di Macerata, Firenze e Verona, che abbiamo intervistato in occasione dell’uscita della nuova edizione del volume Il museo oggi. Modelli museologici e museografici

nell’era della digital transformation, di cui è autrice insieme a Marta Paraventi (Hoepli 2023). Dottoressa Cataldo, ha ancora senso parlare di «museo» oggi? «Ha senso parlare di museo, sebbene con molte differenze nazionali e geografiche, come di un luogo in cui tanti saperi si intersecano e interagiscono. Con il passare degli anni, l’idea di museo si è evoluta, arrivando a comprendere una grande varietà di discipline: museografia e progettazione degli ambienti, conservazione e diagnostica, scienze della percezione visiva applicate ai display informativi, ma anche sviluppo dei nuovi musei digitali, strategie di marketing e turistiche, comunicazione con i vari

tipi di pubblici o di «non pubblici», fino alla comunicazione social». Quindi, di cosa «vive» il museo? «Ricordo un monito provocatorio rivolto da David Lankes ai bibliotecari di tutto il mondo: “la vostra ricchezza sono i vostri lettori, non i vostri libri”. Ho provato a ripensarla sul museo: l’esposizione deve essere centrata sul visitatore, non sull’oggetto. Aggiungo un altro paradosso, altrettanto provocatorio: se, per esempio, al grande flusso turistico orientale non interessasse piú il Rinascimento italiano, ma l’impressionismo francese “vivrebbero” di piú i musei parigini

In alto: Patrizia Cataldo, archeologa e docente di museologia. A sinistra: la Neue Staatsgalerie di Stoccarda, opera di James Stirling (1977). In basso: una sala del Museo Nazionale di Arte Romana di Mérida (Spagna).

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che quelli di Firenze. La vita del museo e dei suoi contenuti è legata al suo rapporto con il visitatore». Se il visitatore non arriva a comprendere il senso dei reperti esposti, lo spazio del museo diventa inutile… «Un oggetto per esistere deve essere comunicato. Lo capii molti anni fa, visitando un museo come archeologa, quando realizzai che le vetrine non bastano a fare un museo. Le faccio un esempio di tipo archeologico: il visitatore, spesso, non capisce il significato degli spiedi di ferro esposti nel corredo di molte tombe magno-greche, etrusche e italiche. La Gestaltpsychologie (Psicologia della forma) tedesca insegna che, se il visitatore non capisce la relazione fra questi oggetti “brutti”, in un materiale poco nobile come il ferro, e il raffinatissimo corredo ceramico della tomba, con monili preziosi e armi in bronzo, non comprende perché stiano nella stessa vetrina. Questo poiché negli apparati didascalici non sono stati spiegati la funzione di questi oggetti e il significato rituale che assumevano nelle sepolture maschili dei personaggi di rilievo. Per far comprendere una cultura, non basta esporre oggetti, talvolta con didascalie molto tecniche, come l’esempio tristemente famoso del “torso loricato di marmo lunense”. Bisogna comunicare bene il contesto che ha prodotto quella cultura materiale». Quindi, come archeologa, ha iniziato a guardare le vetrine dei musei con occhi diversi… «Quando visitai il Museo Archeologico Paolo Orsi di Siracusa, vidi “da turista” alcune forme ceramiche delle culture del Milazzese e di Thapsos: davanti a una delle celeberrime vetrine dell’architetto Franco Minissi, l’impatto percettivo fu fortissimo. Non lo scorderò mai. Questo mi ha fatto capire quanto la percezione,

non solo visiva, sia importante per la comprensione della protostoria e, piú in genere, dell’antichità. Da allora, ho iniziato a pensare non solo con gli occhi dello specialista, ma con quelli del pubblico». Nel volume si parla di comunicazione destinata ai diversi pubblici, o «non pubblici». Qual è il «non pubblico» del museo? «Quello che non viene intercettato. E che non va al museo. È questo il pubblico che dobbiamo conquistare. In Italia, a differenza di quanto accade all’estero, il museo non fa indagini approfondite sui vari “pubblici”. In altre nazioni ci sono interi studi, gruppi di ricercatori e personale del museo che si occupano dell’indagine sui vari tipi di pubblico, cosí da indirizzare la proposta museale in base alle ricerche o correggere il tiro quando le esposizioni non arrivano all’obbiettivo. Tutto ciò in Italia non esiste, poiché le professioni museali non sono mai decollate. Le linee guida dell’ICOM (International Council of Museums) definiscono figure del settore che in Italia non sono state riconosciute come professioni dal Ministero della Cultura. E questo accade anche perché alcune parti vitali dei musei, in Italia, vengono date in

Dall’alto: la Galleria Borghese, a Roma, e la Nike di Samotracia nel Museo del Louvre di Parigi. gestione. Tutte le professioni relative all’educazione museale, per esempio, sono date in appalto a società esterne private». Con quali conseguenze, per il museo? «Le società esterne hanno al loro interno figure professionali multitasking, sicuramente preparate, ma assunte spesso con contratti specifici di altre categorie di lavoratori. Nel personale

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A COLLOQUIO CON MARTA PARAVENTI

Integrare, non sostituire Per cogliere meglio il significato del museo virtuale, oggi, e capire le potenzialità degli strumenti che il digitale offre al pubblico, abbiamo incontrato la coautrice della nuova edizione de Il museo oggi, Marta Paraventi, storica dell’arte, esperta di strategie di comunicazione e marketing museale. Dottoressa Paraventi, che cosa si intende per museo «digitale»? «Si intende un museo che ha colto la sfida che il digitale oggi ci impone e si è organizzato con una strategia di digital trasformation che riguarda non solo gli strumenti che si adottano, per quanto avanzati, ma la governance della struttura, il personale, il metodo di lavoro, la comunicazione interna e quella di valorizzazione del museo. Nel nuovo volume ci sono sezioni specifiche dedicate a questo tema. Io ho realizzato un focus sul museo digitale anche sulla base degli strumenti esistenti per migliorare la fruizione del museo». Con quali strumenti digitali è possibile

accompagnare il pubblico nella visita al museo? «Per aiutare la comprensione delle opere esposte ci sono, per esempio, i QRcode che ne spiegano genesi e significati o i beacon, che, avvicinando il cellulare al dipinto, grazie al bluetooth forniscono informazioni sul quadro, sull’artista, sul contesto storico. Ci sono, poi, applicazioni specifiche da scaricare sul cellulare, con servizi di prenotazione della visita e di fruizione delle opere, oppure i touch screen, schermi di ultima generazione da «sfogliare» con il dito per approfondire le opere esposte. Il mezzo digitale permette di caricare un numero infinito di contenuti che poi, però, vanno armonizzati in base al messaggio da comunicare al visitatore. I contenuti digitali vanno scelti e dosati dal direttore/curatore del museo, altrimenti possono diventare un boomerang: per esempio, non si può mettere la scheda integrale di catalogazione di un reperto o di un dipinto, poiché il visitatore non vi si soffermerebbe».

In alto: la storica dell’arte Marta Paraventi. Nella pagina accanto, dall’alto: l’ingresso del MART di Rovereto, opera di Mario Botta; il Museo dell’Ara Pacis, a Roma, disegnato da Richard Meier. In basso: il museo della Fondazione Luigi Rovati, a Milano.

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Ci vuole fare alcuni esempi di eccellenza nel panorama contemporaneo del museo digitale? «Sicuramente la mostra su Johannes Vermeer, tenutasi al Rijksmuseum di Amsterdam, la piú grande retrospettiva dedicata al celebre pittore olandese mai organizzata prima. Contemporaneamente alla mostra fisica, che con un allestimento minimale e sofisticato ha raccolto il maggior numero di dipinti mai esposti prima dell’artista, c’è stata una mostra «virtuale», che ha preceduto e accompagnato quella reale. Ovvero la piattaforma digitale Close to Vermeer, attraverso la quale l’utente ha potuto scaricare autonomamente le opere, ingrandirne i particolari, ascoltare la storia dei dipinti, dell’artista o dei personaggi rappresentati attraverso la voce narrante dell’attore inglese Stephen Fry. La mostra fisica ha avuto 650 000 visitatori; 800 000 hanno fruito dell’esperienza virtuale, tuttora attiva. Il digitale non sostituisce, quindi, ma integra la visione e l’esperienza del reale. In Italia, per esempio, durante il Covid, due grandi istituzioni hanno intuito l’importanza di mettere a disposizione del pubblico delle piattaforme digitali: la Pinacoteca di Brera e i Musei Reali di Torino. Sono stati i primi che, accanto al sito ufficiale del museo, hanno messo a punto una piattaforma web differente, dove fruire dei contenuti del museo attraverso video, testi, performance, podcast.


Le figure professionali che vi lavorano possono essere archeologi, storici dell’arte e laureati in materie umanistiche con competenze digitali». L’emergenza del Covid ha cambiato la percezione e la fruizione del museo contemporaneo? «Il Covid ha accelerato molto la digitalizzazione dei musei. Quanti avevano già impostato una politica digitale mirata, valorizzando l’esposizione anche con piattaforme web, come la Pinacoteca di Brera, i Musei Reali di Torino oppure i Musei Capitolini di Roma, si sono trovati molto avvantaggiati. Serve un piano di sviluppo digitale, biennale o triennale, che si integri con la mission del museo. Non basta realizzare e dotarsi di app o podcast, bisogna inserire gli strumenti digitali nella cornice di un progetto di comunicazione, di una strategia dedicata, di un ecosistema complesso e organizzato. La trasmissione del sapere non deve essere snaturata, deve cioè rimanere scientifica, ma deve far arrivare contenuti attraverso video, installazioni e approfondimenti digitali sulla biografia dell’autore o sul personaggio dell’opera. I libri e la ricerca scientifica non scompariranno mai, tuttavia possono arrivare meglio al pubblico grazie agli strumenti digitali dal museo». È aumentato il numero dei visitatori nei musei che hanno sfruttato gli strumenti digitali? «Come dimostrato dalla piattaforma Close to Vermeer, messa on line prima della mostra, i biglietti dell’esposizione di Amsterdam sono andati a ruba. Si tratta anche di un’operazione di marketing: se prima dell’evento realizzo uno storytelling, una narrazione mirata dei suoi contenuti, i visitatori sono piú invogliati ad andare a fare un’esperienza che diventa imperdibile. Piú si racconta e si pubblicizza una mostra con strumenti digitali, piú si amplifica il pubblico reale. La visione diretta, fisica, dell’opera d’arte originale è un’esperienza che non può essere sostituita, ma piuttosto integrata, supportata e soprattutto preparata dal digitale».

“interno” del museo, invece, mancano figure professionali che si occupino di progettualità educativa specifica, legata alla mission del museo. Chi fa educazione museale deve, mi passi il termine, “respirare l’aria del museo”, essere “dentro” alle collezioni tanto da poter realizzare progetti che possano arrivare a tutti i tipi di pubblici e di “non pubblici”. Raggiungendo anche quelli che non vanno al museo. Alcuni musei fanno

indagini sul pubblico che, spesso, però, non vengono pubblicate. Un conto è il questionario a macchia di leopardo, altra cosa è uno studio specifico a tappeto. Il museo italiano, negli ultimi tempi, ha un grandissimo numero di visite che tuttavia, in alcuni casi, somigliano a una fruizione di massa, piuttosto che a una vera e propria esperienza. Il museo italiano va a due velocità: ci sono i grandi flussi di Roma, Firenze e Venezia, con una fruizione museale prettamente turistica, e poi una costellazione di musei piú piccoli, che non hanno un direttore, né una mission specifica “dichiarata”, e che spesso sono affidati in gestione a società esterne». Quale è il museo del terzo millennio, quindi? Lei ha parlato di museo «senza oggetti»… che cosa vuole intendere? «I musei che non hanno oggetti – o ne hanno pochissimi ma emblematici – sono, per esempio, i musei di narrazione. Questi sono i musei del terzo millennio: i musei multimediali, come quelli realizzati da Studio Azzurro nel Parco Archeologico di Egnazia, con il

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progetto Egnazia e il mare. Oppure i siti musealizzati, come lo Steilneset Memorial, in Norvegia, costruito nel 2011 in ricordo delle vittime della caccia alle streghe a Vardø, nel 1621, sul sito dove vennero bruciate le donne ritenute streghe. I memoriali sono i nuovi musei del terzo millennio. Anche il museo dell’attentato alle Torri gemelle di New York del 2001, il 9/11 Memorial Museum, lo è, sebbene si riferisca a un evento piú recente». Come si fa a realizzare un museo senza oggetti, ma con un sito da raccontare? «Con la multimedialità, che va dalle proiezioni olografiche, fino a insiemi di luci, suoni e voci narranti che ripropongono l’evento storico, oppure ad azioni di museumtheatre, in Gran Bretagna

molto diffuse, mentre in Italia poco, poiché richiedono un grande impiego di personale. Non sono semplici rievocazioni storiche, ma ricostruzioni scientifiche con personaggi guida, con l’immersione del pubblico all’interno dell’evento stesso, come nell’Archeodromo di Poggibonsi, o nelle installazioni realizzate nei musei inglesi per il centenario dell’abolizione della schiavitú». E poi c’è il ruolo del museo nei grandi conflitti. La funzione del museo nella ricostruzione e nella riconciliazione, ce ne vuole parlare? «Il museo oggi è anche questo: serve a raccontare eventi o identità che sono diverse rispetto al passato, in seguito a guerre o conflitti. Pensiamo al significato dell’istituzione, nel 1955, della A sinistra: un particolare dell’allestimento del Museo di Castelvecchio, a Verona.

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mostra di arte contemporanea Documenta nel Fridericianum di Kassel. Una rassegna che dura ancora oggi, con cui la Germania intendeva riprendere, dopo la seconda guerra mondiale, un dialogo con le altre nazioni, invitando artisti stranieri e tedeschi all’interno di un grande museo di arte antica bombardato. Cito anche il Deutsches Historisches Museum di Berlino, che, dopo la caduta del muro, è diventato il museo simbolo della Germania riunificata e che si apre con un pannello in latino, tedesco e inglese che riporta un passo della Germania di Tacito. Oppure il Museo di Bagdad, in Iraq, depredato subito dopo l’uccisione di Saddam Hussein: con l’avvio delle operazioni militari americane, collezionisti privi di scrupoli avevano già sguinzagliato i loro emissari sul territorio per rubare reperti archeologici unici, mai piú recuperati. Allora il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), in collaborazione con il Ministero degli Affari Esteri italiano, progettò The Virtual Museum of Iraq, con immagini e ricostruzioni virtuali di molti dei reperti trafugati». Un’idea rivoluzionaria di museo? «Carlo Scarpa, nell’Italia del secondo dopoguerra, aveva trasformato Castelvecchio di Verona in un museo che è ancor oggi un vero e proprio unicum, visitato da tutto il mondo: aveva collocato i quadri sui cavalletti, poiché i visitatori dovevano guardare anche il retro del quadro, che Scarpa riteneva parte integrante del dipinto. I frammenti delle sculture, invece, erano installati su supporti girevoli che il pubblico poteva far ruotare, cosí da guardare il pezzo da tutti i punti di vista».



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ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

MUSEI REALI E VIRTUALI Oggetto delle interviste di Flavia Marimpietri all’archeologa Lucia Cataldo e alla storica dell’arte Marta Paraventi (coautrici del volume Il museo oggi. 2 Modelli museologici e museografici nell’era della 1 digital transformation) è stato il futuro delle strutture museali in senso lato, alla luce delle potenzialità della piú moderna tecnologia (vedi alle pp. 22-26). 3 Gli spunti emersi dall’incontro sono molteplici e riguardano «il museo» a 360 gradi: la struttura fisica, il contenuto, la qualità e la professionalità del personale addetto, fino alla tipologia dei visitatori e alle relative strategie di marketing. Si può insomma intravedere quella che potrebbe essere la realtà museale di domani in una ottica «virtuale» (1), radicalmente diversa da quella tradizionale. 4 5 Ciò detto, abbiamo però pensato che sia giusto rendere omaggio ad alcuni dei piú importanti musei del mondo... «a futura memoria», quando essi saranno superati (se mai lo saranno!). Cominciamo dunque dall’Europa, con il Museo del Louvre di Parigi (2), il British Museum di Londra (copertina di un carnet di francobolli, 3), il Prado a Madrid (4), per arrivare 6 7 all’Ermitage a San Pietroburgo (5). Per gli Stati Uniti d’America, citiamo lo Smithsonian (6) e il MoMA (chiudilettere, 7) e, per l’Africa, il Museo Egizio del Cairo (8), dalla vecchia alla nuova location ancora in allestimento. Per l’Italia è doveroso ricordare la Galleria degli Uffizi (9) e i Musei Vaticani all’interno dello Stato Città del Vaticano (10). 8 9 Come filatelisti, approfittiamo dell’occasione per una piccola «invasione di campo», utile a dimostrare la validità delle previsioni delle due autrici e per dire che il futuro è in parte arrivato anche nel nostro limitato settore. Per quasi un centinaio d’anni le mostre filateliche sono state realizzate con vetrine 10 trasparenti che contengono i fogli delle varie collezioni come si vede in questo francobollo di San Marino (11). Ma già da una 11 decina di anni la moderna tecnologia è venuta in aiuto con l’obiettivo di una drastica riduzione dei costi (affitto locali, montaggio e smontaggio delle vetrine, sorveglianza, ecc.). Infatti è stato ideato un meccanismo per cui ogni collezionista presenta dal vivo solo una minima parte di suoi fogli (12 o 16), ma l’intera collezione è comunque fruibile tramite computer (12) posizionati 13 12 in prossimità dei quadri espositivi come si vede dalla foto (13). Ideata e realizzata per la prima volta in Italia, IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia questa soluzione ha incontrato interesse e Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere apprezzamento da parte dell’intero ambiente alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi: filatelico internazionale. Insomma si è riusciti a integrare il reale con il virtuale per superare Segreteria c/o Luciano Calenda l’enorme problema dei costi, che avrebbe Sergio De Benedictis C.P. 17037 - Grottarossa prima o poi causato la completa cessazione di Corso Cavour, 60 - 70121 Bari 00189 Roma segreteria@cift.club lcalenda@yahoo.it questa attività espositiva in qualche modo oppure www.cift.it simile a quella museale.

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ITA AR LE LIACH MI NE EOL SSIO AL OG NI L’E IC ST HE ER O

LA NUOVA MONOGRAFIA DI ARCHEO

L’ARCHEOLOGIA ITALIANA NEL MONDO


Q Lo scavo della missione italopalestinese a Gerico, in Palestina.

uella delle missioni archeologiche all’estero è una tradizione ormai consolidata per l’Italia e, grazie al sostegno del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, sono centinaia gli studiosi attivi in olte 80 Paesi, dall’Europa all’Oceania. A questa importante realtà è dedicata la nuova Monografia di «Archeo», che propone la rassegna dei progetti attualmente in corso, illustrati in prima persona dai loro stessi protagonisti. Le schede dedicate a ciascuna missione, corredate da un ricco apparato iconografico, danno vita a un ideale viaggio intorno al mondo, che permette di scoprire quanto importante sia il contributo italiano allo studio, alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio archeologico e storico-artistico degli Stati in cui i progetti vengono svolti. Perché un tratto comune a tutte le missioni è proprio quello del coinvolgimento di istituzioni e studiosi locali, nella convinzione che ciò rappresenti un passo fondamentale sulla strada della conoscenza e della conservazione. In tutti i territori nei quali operano, gli archeologi italiani si fanno dunque portatori di un know how di altissimo livello, ma sono al tempo aperti alla ricezione delle istanze dei partner con i quali condividono le proprie attività sul campo.

in edicola a r c h e o 35


CALENDARIO

Italia ROMA Imago Augusti

Due nuovi ritratti di Augusto da Roma e Isernia Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali fino al 26.11.23

Gli Dei ritornano

I bronzi di San Casciano Palazzo del Quirinale fino al 29.10.23

Caere

Storie di dispersione e di recuperi Museo delle Antichità Etrusche e Italiche, «Sapienza» Università di Roma fino al 28.02.24

ASCEA (SALERNO) Elea: la rinascita Parco Archeologico di Velia fino al 30.04.24

BRESCIA Luigi Basiletti e l’Antico

Brescia, palazzo Tosio-Ateneo di Brescia fino al 03.12.23

Il Pugile e la Vittoria

Brixia. Parco archeologico di Brescia romana fino al 29.10.23

CANINO (VITERBO) La «prima» Vulci

All’origine della grande città etrusca Museo Archeologico Nazionale di Vulci fino al 31.12.23

Gladiatori nell’Arena

Tra Colosseo e Ludus Magnus Colosseo fino al 07.01.24

CASTAGNETO CARDUCCI Nel segno di Fufluns

Il vino degli Etruschi Sala espositiva di Palazzo Espinassi Moratti fino al 05.11.23

GROSSETO Artemide: una, nessuna, centomila Museo Archeologico e d’Arte della Maremma fino al 05.11.23

ISCHIA DI CASTRO Il ritorno della biga

I carri in bronzo etruschi di Castro, Vulci e Tarquinia Museo Civico «Pietro e Turiddo Lotti» fino al 31.12.23

L’Amato di Iside

Nerone, la Domus Aurea e l’Egitto Domus Aurea fino al 14.01.24

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MILANO Tesori etruschi

La collezione Castellani tra storia e moda Fondazione Luigi Rovati fino al 03.03.24 (dal 25.10.23)


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

Le vie dell’acqua a Mediolanum Civico Museo Archeologico fino al 31.03.24

MODENA DeVoti Etruschi

VIGEVANO La Collezione Strada

Quasi 30 secoli di storia in piú di 260 reperti Museo Archeologico Nazionale della Lomellina fino al 04.12.23

La riscoperta della raccolta di Veio del Museo Civico Museo Civico fino al 17.12.23

PORTICI (NAPOLI) Materia Il legno che non bruciò ad Ercolano Reggia di Portici fino al 31.12.23

Grecia ATENE Ritorno a casa

RIO NELL’ELBA Gladiatori Museo Archeologico del Distretto Minerario fino al 01.11.24

TAORMINA Palinsesti

Il Teatro antico di Taormina: dalla storia al mito Teatro antico fino al 31.10.23

Tesori delle Cicladi nel loro viaggio di ritorno Museo d’Arte Cicladica fino al 31.10.23

Stati Uniti NEW YORK L’albero e il serpente

L’antica arte buddista dell’India, 200 a.C.-400 d.c. The Metropolitan Museum of Art fino al 13.11.23

TORINO Trad u/i zioni d’Eurasia

Frontiere liquide e mondi in connessione. Duemila anni di cultura visiva e materiale tra Mediterraneo e Asia Orientale MAO-Museo d’Arte Orientale fino all’01.09.24

VETULONIA Corpo a corpo

Dalla bellezza classica dei capolavori del Museo archeologico nazionale di Napoli alla classicità del Bello nell’opera di Mitoraj Museo Civico Archeologico Isidoro Falchi fino al 05.11.23 a r c h e o 37


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ALL’OMBRA DEL CASTELLO… DAGLI INIZI DEL XIII SECOLO IL CASTELLO DI MONTERIGGIONI RAPPRESENTA L’IMMAGINE STESSA DEL MEDIOEVO, UNA REALTÀ ANCORA PULSANTE NELLE VIVACI PENNELLATE DI AMBROGIO LORENZETTI O NELLE RIEVOCAZIONI STORICHE CHE AFFOLLANO L’ESTATE DI MOLTE CITTÀ ITALIANE. MA IN TANTI, GUARDANDO LA CORONA TURRITA CHE PROTEGGE L’ANTICO BALUARDO, IGNORANO CHE QUELLE PIETRE POGGIANO SU UN PASSATO MOLTO PIÚ ANTICO, RACCONTATO NEL NUOVO MUSEO ARCHEOLOGICO DI MONTERIGGIONI, OSPITATO NEL COMPLESSO DI ABBADIA A ISOLA di Giacomo Baldini 38 a r c h e o


Veduta aerea di Monteriggioni (Siena). Il Castello possiede un profilo reso inconfondibile dalla cinta muraria intervallata dalle torri, che ne hanno fatto una sorta di immagine simbolo del Medioevo, non solo toscano.

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A

ncora non è svanita l’esile sagoma della vermiglia Torre del Mangia, contrappunto civico alla marmorea mole del Facciatone del Duomo di Siena, che lo sguardo è colpito da una robusta cortina di pietra, scandita da solide torri, perfetta costruzione in vetta a un rilievo che interrompe il morbido ritmo delle colline coperte dai boschi, solo a tratti squarciati dal lavoro dell’uomo, campi di grano e parallele file di viti: siamo a Monteriggioni. Questo castello, voluto dalla Repubblica di Siena nel 1213,

Il complesso monastico di Abbadia a Isola, oggi sede del MaM-Museo archeologico di Monteriggioni.

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rappresenta una vera e propria cartolina della Toscana. Domina il paesaggio circostante con la sua cinta muraria di forma ellittica, lunga 570 m e spessa 2, interrotta da 15 torri – una delle quali interna – che oggi si elevano per circa 15 m. Gli sforzi per il mantenimento di questa grande eredità sono concentrati in particolare nel restauro, nel decoro, nella regolazione delle attività commerciali al suo interno, per impedire la trasformazione in un «emporio» generalizzato. Dall’alto degli spalti, visitabili gra-

Emilia-Romagna

Mas as ass a sss sa

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Prato Prat o Arn

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Firenz Fir enz nzze Arez Are Ar A re rrez e ezzzo o

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Monteriggioni

Umbria

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Lazio


zie a un percorso musealizzato, lo sguardo corre nella piana che separa le prime propaggini del Chianti dal massiccio del Montemaggio, vegliata in lontananza dalle torri di San Gimignano: qui, quasi al centro di una larga depressione, un tempo occupata da una palude, si trova Abbadia a Isola. Il complesso monastico fu fondato nel 1001 dai signori di Staggia, il vicino castello nel Comune di Poggibonsi, in un’area posta all’incrocio dei quattro comitati di Firenze, Fiesole, Siena e Volterra, in un tratto viario

In questa pagina, dall’alto: tavola ricostruttiva del complesso di Abbadia a Isola nel XIII sec. e il chiostro del complesso abbaziale dopo il recupero.

importante alla confluenza di collegamenti secondari per Firenze e Volterra. La località era già nota alla fine del X secolo come submansio di Borgonuovo, citata dal vescovo Sigerico di Canterbury nel suo viaggio lungo la Francigena. Ecco perché, nell’immaginario collettivo, Monteriggioni e il suo territorio rappresentano la sintesi stessa del Medioevo, prendendo a prestito le stesse icastiche parole con cui Ranuccio Bianchi Bandinelli descrisse Siena; un Medioevo sognato, reso immortale dai versi di Dante che, nel canto XXXI a r c h e o 41


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dell’Inferno (vv. 40-45), eterna l’immagine del Castello: Però che, come su la cerchia tonda Montereggion di torri si corona, cosí la proda che ‘l pozzo circonda torreggiavan di mezza la persona li orribili Giganti, cui minaccia Giove dal cielo ancora quando tuona. Pennellate di parole cosí dense che, nel tempo, hanno concorso a fissare un’immagine potente, tale da legare indissolubilmente Monteriggioni al Medioevo: idea rafforzata proprio dalla presenza della via Francigena, oggetto da circa un ventennio di forte rilancio come Grande Itinerario Culturale del Consiglio d’Europa (2004).

OLTRE IL MEDIOEVO In realtà Monteriggioni, centro attento alla conservazione e valorizzazione della propria identità, fatta soprattutto di Storia nella sua piú ampia accezione, offre molto altro. Per questo, pur partendo dal valore evocativo e iconico del Castello, la comunità di Monteriggioni ha iniziato a ripensare la propria politica culturale, recuperando oggetti e storie che da questo centro della Toscana centrale sono andati ad arricchire musei e collezioni italiane e straniere. Una diaspora forse favorita dalla fagocitante presenza del Castello che ha, allo stesso tempo, protetto e «messo in ombra» non solo tutta la stratificata storia precedente la sua fondazione, ma anche tutti i complessi circostanti, che contribuiscono a narrare una vicenda territoriale molto articolata: qui, in età ellenistica, si lambivano le egemonie delle città di Velathri (Volterra) e di Vipsul (Fiesole), mentre a Scorgiano una nobile matrona romana si fece seppellire in un sarcofago marmoreo, salvifico viatico della nuova religione, che i suoi discendenti cercarono di nascondere per non incorrere nelle perse42 a r c h e o

UN SARCOFAGO TRA RELIGIONE E POLITICA Mentre il conte Luigi BichiBorghesi, proprietario della tenuta di Scorgiano, «stava disegnando un capanno da caccia», presso il podere «Casanuova», nello scavare le fosse per le fondazioni, i suoi operai trovarono «a poca profondità dal suolo grosse lastre di travertino squadrate». Una volta rimossa qualche pietra, i lavoranti si accorsero che le lastre chiudevano una stanza «murata» quadrata, con due grossi pilastri di travertino e una colonna al centro che sostenevano un architrave destinato a sorreggere i lastroni disposti a spiovente; il pavimento era rivestito con mattoni. All’interno erano collocati due sarcofagi, uno in marmo, l’altro in travertino. Del corredo deposto con i sarcofagi non si era conservato niente, se non qualche frammento sparso nella camera e «un solo vasetto di terra cotta colorito di rosso».

Del sarcofago maggiore abbiamo solo una fugace descrizione: in travertino, aveva il coperchio a doppio spiovente con una lastra, forse in bronzo dorato, alloggiata dentro il timpano con il nome del defunto. Quello di marmo aveva la cassa riccamente decorata con quattro crateri alternati con altrettanti uccelli, al centro della quale si trovava un clipeo con il busto ad altro rilievo della defunta, che si chiamava Pestinia Apricula, come indicato nella tabella epigrafica circolare posta sul coperchio al centro di quattro coppie di delfini convergenti. L’analisi stilistica ha stabilito che il monumento venne realizzato tra il 280 e il 300 d.C. Sulla base della decorazione è stato ipotizzato che la defunta avesse voluto esibire con orgoglio i simboli della nuova religione, adesione successivamente mortificata dagli eredi che, forse a seguito delle repressioni dioclezianee, abrasero parte dell’iscrizione inserendo la formula pagana tradizionale D(iis) M(anibus). Ignoriamo dove siano conservati i due sarcofagi: sappiamo solo che quello in marmo fino alla fine degli anni Cinquanta del Novecento si trovava nella tenuta Bichi-Borghesi. Su quello in travertino nessuna informazione. Tuttavia, sia per dimensioni che per tipologia, non è escluso che si tratti del sarcofago attualmente conservato nella navata destra della chiesa dei Ss. Salvatore e Cirino di cui non è nota la provenienza. Particolare del sarcofago in marmo apuano di Pestina Apricula, da Scorgiano. Fine del III sec. d.C. Il prezioso manufatto è oggi perduto.


USI E RIUSI DI UN’URNA ROMANA L’urna di san Cirino è conservata nella chiesa dei Ss. Salvatore e Cirino di Abbadia Isola e restituita virtualmente nel museo. In marmo lunense, ha coperchio a doppio spiovente che vede rappresentati su una falda un leone che assale una gazzella, sull’altra una serie di quattro foglie di acanto; i frontoncini sono occupati su un lato da un’anfora inquadrata da patere, sull’altro da un’anfora da cui fuoriescono volute e racemi. La particolarità risiede nella sua lunga storia che conosciamo grazie a una iscrizione incisa sulla fronte in età medievale, con un impaginato molto curato: +H(IC) S(UNT) REL(IQUIAE) S(ANCTI) CIR(INI) EPI(SCOPI) ET M(ARTY)RIS ANN(O) D(OMINI) MC LXXXXVIII mentre sul listello inferiore corre: REC(ON)DITE SU(N)T II K(A) L(ENDAS) AUG(USTAS) Prodotta da una officina volterrana dei primi decenni del I secolo d.C., l’urna fu rinvenuta dai monaci verosimilmente nei dintorni del cenobio e venne utilizzata come contenitore delle ceneri di san

In alto: particolare del coperchio dell’urna di san Cirino, con il sigillo in ceralacca del senese Alessandro Toti, vescovo della diocesi di Colle di Val d’Elsa tra il 1892 e il 1903, apposto dopo il recupero del reliquiario nel 1898. Monteriggioni, Abbadia a Isola, chiesa dei Ss. Salvatore e Cirino.

Cirino dopo la traslazione dalla chiesa di Staggia nel 1198, per essere conservate in luogo sicuro. Nel corso del tempo per i resti di san Cirino fu realizzato un nuovo reliquiario e il vecchio contenitore fu abbandonato, per essere ritrovato nel 1898 tra le macerie della chiesa durante i lavori di restauro. Fu allora che Alessandro Toti, vescovo della diocesi di Colle di Val d’Elsa, da cui dipendeva Abbadia a Isola, decise di recuperare il reliquiario marmoreo, risacralizzandolo: la consacrazione fu sancita con Il sepolcreto medievale musealizzato all’interno del chiostro di Abbadia a Isola.

In alto: l’urna in marmo apuano di età romana utilizzata nel 1198 come reliquiario delle ossa di san Cirino e il suo coperchio. Monteriggioni, Abbadia a Isola, chiesa dei Ss. Salvatore e Cirino.

l’apposizione dei sigilli in ceralacca del presule, che si sono parzialmente conservati sul coperchio.

cuzioni, prima della definitiva affermazione del cristianesimo (vedi box alla pagina precedente). Queste plaghe furono percorse da Sigerico e furono intrise del sangue dei Fiorentini e dei Senesi, in costante guerra tra loro per il dominio sulla Toscana; se poi, sul far della sera, come la mosca cede alla zanzara, l’attento viaggiatore si rivolge verso Castiglion Ghinibaldi, è cosí forte il senso di straniamento dato dai colori e dai profumi di a r c h e o 43


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questa terra da cedere all’illusione di sentire echeggiare ancora le urla dell’invidiosa Sapía negli isolati corridoi del castello che fu del marito Ghinibaldo Saracini. Un approccio nuovo, una visione olistica diremmo oggi, dalla preistoria all’età moderna, che ha favorito lo studio dei piccoli centri del comune (raccolti nella collana Atlante dei borghi medievali del territorio di Monteriggioni, di cui sta per uscire il terzo volume) e, soprattutto, ha suggerito la creazione di un dinamico sistema museale articolato su due plessi: il camminamento delle mura, collegato al percorso didattico «Monteriggioni in arme» in Castello e il nuovo Museo archeologico di Monteriggioni (MaM), posto nei locali del complesso monastico di Abbadia a Isola.

LE PRIME RICERCHE L’area del Comune, estesa per quasi 100 kmq, seppur non oggetto di ricerche sistematiche, mostra un notevole potenziale archeologico, per la maggior parte inespresso e a lungo non adeguatamente valoriz-

zato. Tuttavia, proprio nella piana di Monteriggioni è iniziata la storia della moderna ricerca archeologica in Valdelsa. Infatti, escludendo una tomba a tumulo scoperta all’inizio del XVI secolo dai frati domenicani all’interno del convento di San Gimignano, il primo ritrovamento che ebbe ampia eco anche tra gli eruditi e i viaggiatori del tempo fu la Tomba dell’Alfabeto di Colle, che, a dispetto del nome, venne trovata casualmente nel 1698 nella piana del Casone, ai piedi del Montemaggio, in un’area prossima ad Abbadia a Isola, lungo la strada che conduceva da Colle (da qui la denominazione storica) a Siena. Dalle descrizioni e dai disegni conservati (perché purtroppo si è persa l’esatta localizzazione) ricaviamo che si trattava di una tomba a camera ipogea con tramezzo centrale, arricchita sulle pareti da iscrizioni dipinte in rosso, databile alla fine del VII secolo a.C. (vedi box sulle due pagine, in basso). Il vero protagonista della ricerca archeologica a Monteriggioni è il conte Giulio Vagnoli Terrosi, intelli-

gente collezionista e fortunato scopritore di importanti complessi nel Chiusino: tra tutti, basta citare la Tomba della Pania rinvenuta nel 1873. Egli decise di acquistare la tenuta del Casone, già nota per sporadici ritrovamenti, nel 1881 per impiantarci un vigneto, anche se i lavori iniziarono solo nel 1892. Nel corso del dicembre dello stesso anno fu rinvenuta la Tomba del Cane, ma l’area del Casone acquisí notorietà nel dicembre dell’anno successivo, grazie alla scoperta della Tomba dei Calisna Sepu, un sepolcro gentilizio utilizzato dalla fine del IV agli inizi del I secolo a.C.: intatta, al suo interno furono recuperate 105 deposizioni di incinerati, restituendo oltre 400 reperti (vedi box alle pp. 48-49). Tra il 1892 e il 1901 le ricerche continuarono senza sosta, concentrate nei mesi estivi e autunnali nei quali veniva messo a coltura il vigneto: in pochi anni furono indagate oltre 230 tombe. Tuttavia il clamore (anche «mediatico» per l’epoca) suscitato dalla scoperta della Tomba dei Calisna Sepu fu tale che,

ALLE ORIGINI DELL’ARCHEOLOGIA IN VALDELSA In Valdelsa c’è un rapporto stretto tra parola scritta e archeologia: la stessa storia della ricerca è scandita dal recupero di iscrizioni etrusche. Nonostante ritrovamenti importanti siano noti a partire dal Cinquecento, la scoperta della

Tomba dell’Alfabeto di Colle al Casone nel 1698 segna la nascita dell’archeologia a livello locale e ha grande eco tra gli eruditi del tempo: la troviamo trattata nell’opera De Etruria Regali di Thomas Dempster (1724), nel Saggio di lingua etrusca e

di altre antiche d’Italia per servire alla storia de’ popoli, delle lingue e delle arti di Luigi Lanzi (1789), ed è ricordata anche da George Dennis, a distanza di 150 anni dal ritrovamento (1848), nel suo The Cities and Cemeteries of Etruria. La «magia» che promana dal sepolcro (perduto già nell’Ottocento, nonostante i tentativi fatti del conte Terrosi per ritrovarlo), è determinata dai suoi tratti peculiari: una semplice struttura a tramezzo con deposizioni di incinerati e inumati, corredata di iscrizioni dipinte sulle pareti; una tecnica decorativa molto rara in Valdelsa, ma non al Casone, come dimostra la tomba trovata in Podere Turchiano nel 1853, con le medesime caratteristiche. I segni alfabetici,


Monteriggioni, necropoli del Casone, podere Malabarba-Milanese. La tomba a tramezzo 1/2010 in corso di scavo. In basso: disegno ricostruttivo di un momento della costruzione della Tomba dell’Alfabeto di Colle (600 a.C.). Monteriggioni, Museo archeologico presso Abbadia a Isola. Nella pagina accanto: un particolare dell’allestimento della sezione antica, periodo orientalizzante, nel Museo archeologico di Monteriggioni.

tracciati sulle pareti in rosso all’interno di fasce, formavano titoli sepolcrali (nomi dei defunti), un alfabetario, un sillabario e un testo su tre righe di tipo dichiaratorio: la scrittura esprime tra gli Etruschi la consapevole e orgogliosa esibizione della conoscenza e della capacità di fissare su un testo la lingua parlata, anche e soprattutto attraverso la pratica dell’insegnamentoapprendimento. a r c h e o 45


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in un certo senso, segnò il destino della collezione e dell’archeologia a Monteriggioni. Trascinato in una causa giudiziaria da un collezionista senza scrupoli, il conte fu infatti costretto, nel 1901, a cedere la metà dei reperti trovati nella tomba, provocando in lui una comprensibile disaffezione verso l’impresa che lo aveva visto protagonista: non solo venne abbandonata l’idea di un museo della Tomba dei Calisna Sepu, ma anche le ricerche, condotte con molte difficoltà (anche burocratiche) fino al 1906, sembrano ormai averlo stancato: tra il 1902 e il 1906 vengono segnalate e (parzialmente) scavate solo 40 tombe. Sempre all’inizio del Novecento si colloca un ritrovamento notevole, per troppo tempo dimenticato: nella tenuta di Scorgiano ai piedi del Montemaggio, nel costruire un piccolo annesso per la caccia, fu individuata una tomba a camera costruita in lastre di travertino, al cui interno erano depositi due sarcofagi; il piú importante, in marmo apuano scolpito e oggi perduto, databile tra gli anni 280-300 d.C, sappiamo che fu realizzato per Pestina Apricula, una domina che volle esibire con orgoglio e speranza di salvezza i simboli della religione cristiana (vedi box a p. 42).

RANUCCIO BIANCHI BANDINELLI IN VALDELSA Molto dobbiamo anche alle ricerche di Ranuccio Bianchi Bandinelli, che, negli anni Venti del Novecento, ha gettato le basi per una nuova ricerca storica in Valdelsa, partendo proprio dalle strade e dai campi di Monteriggioni. Nel 1924 il giovane archeologo senese, fresco di laurea a Roma con una tesi in topografia su Chiusi, venne incaricato da Edoardo Galli, Soprintendente ai Musei e Scavi Archeologici d’Etruria, di schedare i materiali archeologici conservati a Siena in vista della costituzione del Museo Archeologico; contempo46 a r c h e o

In questa pagina: ricostruzioni realizzate da Floriano Cavanna di altrettante strutture e contesti riferibili all’abitato scoperto in località Campassini. Dall’alto: il plastico ricostruttivo di una fornace per la cottura dei vasi in ceramica; il plastico della capanna B: in evidenza, il momento della cerimonia funebre riservata al fondatore del villaggio.


raneamente, grazie all’interessamento di Giulio Quirino Giglioli, lavorò nel Regio Museo Archeologico di Firenze, dove il direttore Antonio Minto gli affidò il compito di studiare e ordinare i materiali di Monteriggioni. Nell’ambito di questi lavori, alla fine del decennio, furono pubblicati testi ancora oggi fondamentali: nel 1927 uscirono l’Edizione archeologica della carta d’Italia al 100.000, foglio 113 (Castelfiorentino) e l’Edizione archeologica della carta d’Italia al 100.000, foglio 120 (Siena), mentre l’anno successivo Bianchi Bandinelli dette alle stampe un articolo anA destra: alabastron in ceramica etrusco-corinzia riferibile al Ciclo degli Uccelli, dalla tomba 1/2010 della necropoli del Casone, podere Malabarba-Milanese. 560-550 a.C. Monteriggioni, Museo Archeologico presso Abbadia a Isola. A sinistra: anfora a collo distinto di produzione attica a figure nere, dalla Tomba 2/1984 della necropoli del Casone, podere MalabarbaMilanese. 550-525 a.C. Monteriggioni, Museo Archeologico presso Abbadia a Isola.

cora oggi imprescindibile per l’interpretazione della Tomba dei Calisna Sepu (La tomba dei Calini Sepus, edito nel secondo numero della neonata rivista Studi Etruschi) e gli studi usciti su La Balzana, raccolti nel 1931 nell’estratto Materiali archeologici della Valdelsa e dei dintorni di Siena, che rappresenta una sintesi innovativa anche sotto l’aspetto teorico, perché per la prima volta viene abbandonata la lettura meramente estetica e tassonomica privilegiando l’approccio topografico. All’instancabile attività di Bianchi Bandinelli della fine degli anni Venti si deve anche la segnalazione di una tomba «a catino» in località Sensano, che restituí significativamente due urne collocate in una teca di laterizi, una delle quali riporta il gentilizio Sentius, potente testimonianza della continuità tra l’aristocratica famiglia romana che possedeva i praedia e il toponimo (prediale) giunto fino ai nostri giorni. È seguito un periodo avaro di rinvenimenti, ancora legato a sepoltua r c h e o 47


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«DI UNA GRANDE TOMBA A CAMERA CON SARCOFAGI, SCOPERTA NELLA TENUTA DEL CASONE» Con queste parole Luigi Adriano Milani annuncia su Notizie degli Scavi di Antichità il ritrovamento della Tomba dei Calisna Sepu. Fin dal momento della scoperta, il sepolcro desta interesse e stupore. Dodici gradini scavati nell’arenaria permettono di scendere per oltre tre metri lungo un corridoio che dà accesso alla camera sepolcrale,

ancora sigillata da una rozza serra (lastra di chiusura) in travertino. La camera, di forma sub-rettangolare con pilastro al centro, è inviolata: sulla banchina e sul piano di calpestio giacciono 438 oggetti, che si presentano nella stessa posizione nella quale furono lasciati al momento della chiusura. Purtroppo, l’entusiastica rimozione

del materiale non ha conservato le associazioni dei corredi, privilegiando piuttosto la raccolta per classi: questo ha irrimediabilmente compromesso la precisa definizione delle fasi di utilizzo, scaglionate tra la seconda metà avanzata del IV e l’inizio del I secolo a.C. Il complesso, ricchissimo, è

In basso: disegno a tratto della pianta della Tomba dei Calisna Sepu realizzata da Ranuccio Bianchi Bandinelli alla fine degli anni Venti del XX sec. Siena, Archivio di Stato.

re ascrivibili al periodo compreso tra la fine del VII e il VI secolo a.C. Ma a partire dagli anni Sessanta si è allargato l’interesse per le frequentazioni antropiche. Infatti nella Piana del Casone vennero segnalate stazioni di superficie del Paleolitico Medio, oltre a manufatti litici e in bronzo di età eneolitica e della prima età del Bronzo; mentre sulla Montagnola Senese, dove nel corso del XIX secolo erano state scoperte dodici asce di bronzo a margine rialzato, senza tracce d’uso, custodite in un ripostiglio databile alla prima età del Bronzo, fu recuperato nella Grotta del Chio48 a r c h e o

Nel percorso di visita del MaM, alla Tomba dei Calisna Sepu si è scelto di riservare uno spazio particolare: davanti alla vetrina che conserva le urne e accoglie una ricostruzione grafica dello Studio Inklink (vedi foto alla pagina accanto, a destra), è stata riprodotta la pianta del sepolcro realizzata a tratto di Ranuccio Bianchi Bandinelli.


riferibile alla famiglia Calisna Sepu, come è possibile ricavare dalle iscrizioni che si trovano sulle urne e sui vasi. Il rito praticato è quello incineratorio: le 105 sepolture sono accolte in urne lapidee, crateri cinerari fittili (molti dei quali dipinti) e vasi di bronzo. Una complicata vicenda giudiziaria ha purtroppo In basso: la vetrina dedicata alla Tomba dei Calisna Sepu, particolare del corredo. Fine IV-III sec. a.C. Monteriggioni, Museo Archeologico presso Abbadia a Isola.

straccio lo scheletro di un uomo da subito riferito ad età neolitica (vedi box alle pp. 52-53). Agli inizi degli anni Ottanta, a seguito di ritrovamenti fortuiti, la Soprintendenza Archeologica della Toscana ha ripreso le attività di scavo nella necropoli del Casone, in particolare in un’area poco indagata dal Terrosi. Fra il 1983 e il 1985, nel podere Malabarba-Milanese, furono individuate numerose tombe a camera e a fossa, tra le quali si distingue un sepolcro a pianta complessa databile nella seconda metà del VI secolo a.C., che ha restituito importanti opere di scultura in pietra (tra

causato lo smembramento del complesso: oggi i reperti del sepolcro sono divisi tra il Museo Archeologico Nazionale di Firenze, il Museo Archeologico «Ranuccio Bianchi Bandinelli» di Colle di Val d’Elsa, il Museo Etrusco «Guarnacci» di Volterra, l’Antikensamlung di Berlino, il Museo Puškin di Mosca e alcune collezioni private. Una parte, grazie

cui un cippo a clava in marmo) e significativi corredi di accompagno: merita attenzione un’anfora attica a figure nere databile al terzo quarto del VI secolo a.C.

UN VILLAGGIO DI CAPANNE La fine del secolo è segnata dalle ricerche a Campassini: su un terrazzo del Montemaggio che fronteggia il castello di Monteriggioni, tra il 1986 e il 2004 la Soprintendenza Archeologica della Toscana e l’Università di Siena hanno documentato la presenza di un villaggio sviluppato in nuclei di capanne, in

Disegno ricostruttivo della cerimonia funebre per la tumulazione di Larth Calisna Sepu (250-240 a.C.).

a un accordo tra il Comune di Monteriggioni e il Comune di Volterra, è ospitato nel MaM.

prossimità delle quali sono state rinvenute due sepolture. A questa prima macrofase di occupazione (databile tra la fine dell’VIII e gli inizi del VII secolo a.C.), ne è seguita una seconda, che occupa tutto il VII secolo a.C., caratterizzata da un invaso regolarizzato attorno al quale si sono sviluppate numerose attività manifatturiere, tra cui un piccolo atelier ceramico dotato di una fornace da ceramica. All’inizio del nuovo millennio sono stati condotti scavi nel sepolcreto bassomedievale all’interno del chiostro (2000) e in podere MalabarbaMilanese: in una tomba a tramezzo a r c h e o 49


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(2010) furono tumulati almeno 23 individui, accompagnati da ricchi corredi che consentono di datare il contesto tra la fine del VII e la prima metà del VI secolo a.C.

LA NUOVA POLITICA CULTURALE Forti di una nuova consapevolezza e della necessità di raccontare questa lunga storia, l’Amministrazione Comunale ha deciso di iniziare un percorso che potesse portare alla costituzione di un museo archeologico nel quale esporre oggetti, dispersi in vari musei italiani o stra-

nieri. L’idea di raccogliere in un museo i materiali provenienti da Monteriggioni trova un antesignano in Giulio Vagnoli Terrosi: aveva deciso di esporre l’intera Tomba dei Calisna Sepu nel proprio villino a Firenze, con il prezioso contributo e supporto di Luigi Adriano Milani, che avrebbe studiato il contesto e curato l’allestimento. Ma la già richiamata vicenda giudiziaria interruppe lo studio e il progetto di questo piccolo museo, costituito da una importante collezione privata che, nel tempo, è stata smembrata. Dopo alcune esperienze degli anni

A destra: un particolare dell’allestimento della sezione medievale del Museo archeologico di Monteriggioni. In basso: immagine composita del sepolcreto medievale ricavato dentro il chiostro e scavato nel 2000 e nel 2023.

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Novanta del XX secolo, nel 2018 nel complesso di Abbadia a Isola è stata inaugurata la mostra «Monteriggioni prima del Castello. Una Comunità etrusca in Valdelsa» (vedi «Archeo» n. 410, aprile 2019; on line su issuu.com), un’esperienza significativa, che, tuttavia, si poneva in linea con i vecchi studi, tesi soprattutto a valorizzare il passato etrusco, quasi in contrapposizione alla Monteriggioni medievale. Il nuovo progetto museale, invece, ha come obiettivo proprio il recupero dell’antichità in rapporto di continuità dialettica con il Medioevo. In questa specifica ottica il 22 luglio 2023 è stato inaugurato ad Abbadia Isola il MaM-Museo Archeologico di Monteriggioni, nato dalla collaborazione tra il Comune

di Monteriggioni, la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Siena, Grosseto e Arezzo, la Fondazione Musei Senesi, e i musei o enti prestatori, come il Museo Archeologico «Ranuccio Bianchi Bandinelli» di Colle di Val d’Elsa, il Museo Etrusco «Guarnacci» di Volterra e la Pinacoteca Nazionale di Siena-Museo Santa Maria della Scala di Siena.

UN MUSEO «STRATIGRAFICO» Museo e area monumentale sono parte di un unico «contenitore» e progetto espositivo. Cosí la visita al MaM è concepita come un percorso diacronico, à rebours nella storia di Monteriggioni, dal Medioevo fino alla Protostoria, in costante riferi-

mento all’ambito territoriale della Valdelsa e a temi di carattere piú generale. In una sorta di dialogo continuo e ininterrotto, la visita si dipana tra esterno e interno del complesso monumentale, da poco restaurato e spiegato con apposita pannellistica che ne inquadra le vicende storiche oltre a illustrare il sepolcreto bassomedievale qui individuato dagli scavi archeologici e reso visibile tramite la sovrapposizione di un’ampia vetrata. Abbadia a Isola, pertanto, si presenta oggi come un centro di ospitalità e cultura rinnovato, dotato di un ostello con oltre 50 posti letto, spazi per iniziative; a breve verranno portati a termine gli ultimi interventi di restauro con ulteriore arricchimento del percorso espositivo e narrati-

IL SEPOLCRETO MEDIEVALE Il sepolcreto medievale si trova all’interno del chiostro, adiacente al muro della chiesa. Si riconoscono due fasi, la piú antica delle quali si data nella prima metà del XII secolo. Le sepolture, piuttosto semplici, sono realizzate in fosse terragne rivestite da pietre di reimpiego, che conferiscono alle tombe l’aspetto di cassoni litici. Sono gli anni in cui il monastero di Abbadia a Isola si trovava sotto l’egemonia di uno dei gruppi parentali minori legati alla dinastia dei Lambardi, la famiglia dei Soarzi, che risiedeva nel castello di Staggia, una struttura all’epoca molto diversa da quella che possiamo ammirare oggi. La seconda fase si può collocare a partire da un periodo compreso fra la seconda metà e gli ultimi decenni del XIII secolo. In questo periodo è documentato il reimpiego dei cassoni litici precedenti, in parte modificati mediante l’uso del laterizio, oltre alla costruzione di nuovi cassoni con l’esclusivo utilizzo del laterizio e alla realizzazione di sepolture in semplici fosse terragne. Per l’alto tenore di alcuni oggetti (anelli) e dei resti sfarzosi dei vestiti (di cui si sono conservate le guarnizioni) è plausibile ritenere che questa fase cimiteriale sia da mettere in relazione alla presenza della famiglia dei Franzesi. Merita particolare attenzione la tomba piú orientale, l’ultima rinvenuta nel corso dei lavori per la musealizzazione nella primavera 2023: la fossa terragna è rivestita interamente da laterizi di recupero, superiormente definiti da un coronamento di mattoni medievali. Si tratta di alcuni bipedali romani (59 × 59 cm), messi in opera in verticale quasi a regolarizzare il paramento murario: rivestendo tutta la fossa con mattoni della stessa misura, le pareti acquisiscono un aspetto particolarmente curato, ma soprattutto certificano che, nell’area, in età medievale era ancora visibile un importante edificio romano da cui sono stati spoliati questi preziosi elementi.

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I VOLTI DELLA STORIA Al MaM sono presenti le ricostruzioni di due soggetti: una donna sepolta tra la fine del XIII e gli inizi XIV secolo nel chiostro dell’abbazia e il cosiddetto «Uomo del Chiostraccio», un individuo i cui resti furono rinvenuti nell’omonima grotta sulla Montagnola Senese: inizialmente fu datato a età preistorica e poi, con recenti analisi, attribuito all’età tardo-etrusca. Le ricostruzioni facciali sono state realizzate da Stefano Ricci del Laboratorio di Antropologia del Dipartimento di Scienze Fisiche, della Terra e dell’Ambiente dell’Università di Siena. La realizzazione delle figure intere

La Signora dei Franzesi, ritrovata nella tomba 3 del sepolcreto medievale nel chiostro di Abbadia a Isola. Fine del XIII-inizi del XIV sec. Ricostruzione di Stefano Ricci e Floriano Cavanna. Monteriggioni, Museo Archeologico presso Abbadia a Isola.

vo, l’attivazione di una sala conferenze all’avanguardia e altre novità destinate a implementare il suo ruolo di polo produttore di cultura che vivrà 365 giorni all’anno.

I SIGNORI DI STAGGIA I locali della Tinaia costituiscono l’accesso al museo, introducendo direttamente sia al tracciato del chiostro e della chiesa sia alle sale poste al piano superiore. Nei tre ambienti in successione è possibile 52 a r c h e o

ripercorrere la storia dell’abbazia e del suo chiostro, nonché vedere la ricostruzione di un’esponente della famiglia Franzesi (ultimi signori di Staggia influenti su Abbadia a Isola) seppellita con i suoi gioielli nel chiostro stesso. Impreziosiscono la visita alcuni significativi reperti riferibili sia alla fase dei Soarzi (primo ventennio del XII-seconda metà del XIII secolo) che dei Franzesi (fine del XIII-inizio/seconda metà del XIV secolo), come i boccali in maiolica arcaica con lo stemma di famiglia sul corpo (vedi box a p. 51).

RITORNO ALL’ANTICO Nella Sala Sigerico l’allestimento prosegue dall’età romana alla protostoria, con un posto di rilievo attribuito alla Tomba dei Calisna Sepu

scoperta nella necropoli del Casone, i cui corredi, a seguito di vicende antiquarie, sono oggi dispersi tra il Museo Archeologico Nazionale di Firenze, il Museo Archeologico «Ranuccio Bianchi Bandinelli» di Colle di Val d’Elsa, il Museo Etrusco «Guarnacci» di Volterra, l’Antikensamlung di Berlino, il Museo Puškin di Mosca e altre collezioni private. In assenza dell’intero corredo, per cercare di ricostruire l’importanza e la ricchezza del contesto, è stato deciso di allestire un ambiente che coniughi l’esposizione dei materiali (dati in prestito dal Museo Etrusco «Guarnacci» di Volterra) e l’immagine della cerimonia funebre della tumulazione di Larth Calisna Sepu, illustrata, come tutte le ricostruzioni grafiche presenti, dallo studio Inklink di Firenze.

L’UOMO DEL CHIOSTRACCIO In questa sezione è presente anche la ricostruzione del cosí detto «Uomo del Chiostraccio». Si tratta di uno scheletro trovato nel 1962: all’inizio inquadrato in età neolitica, nel 2010 fu oggetto di nuove indagini


è opera di Floriano Cavanna. La tecnica della ricostruzione facciale permette di restituire i lineamenti di un volto sulla base della morfologia cranica. La metodologia applicata ha visto sia l’utilizzo di spessori muscolari ottenuti da tomografie di individui attuali, sia la modellazione di ogni singolo muscolo direttamente sul cranio. Le ricostruzioni sono state effettuate con materiale finemente modellabile (plastilina), poi replicate in resina per ottenere il risultato finale; una volta caratterizzato in base al sesso e all’età di morte l’individuo è pronto per essere esposto.

che ne anticiparono la datazione a oltre 15 000 anni dal presente, diventando celebre come «il piú antico Toscano conosciuto». Oggi, grazie a nuove analisi (carbonio 14 e DNA), è stato possibile stabilire che non visse in età paleolitica, ma etrusca. Per spiegare le diverse metodologie di studio che hanno portato a questi risultati, è stato deciso di proporre una ricostruzione facciale del reperto, con una spiegazione delle tecniche che ne hanno precisato la datazione e l’inquadramento (vedi box sulle due pagine).

L’ETÀ DEL FERRO Al periodo di formazione del territorio legato al centro proto-urbano di Volterra, si riferisce invece il piccolo insediamento della tarda età del Ferro in località Campassini. Fulcro dello sviluppo dell’abitato era un invaso: cosí alle due capanne della prima fase, a cui è collegato anche un piccolo nucleo sepolcrale verosimilmente di pertinenza dei fondatori, si succedono importanti modifiche in relazione soprattutto alle attività produttive: tra le altre è documentata la produzione di cera-

mica a impasto rosso. Oltre ai materiali recuperati nel corso degli scavi, la narrazione è arricchita da due plastici che illustrano la vita e la morte nel villaggio, attraverso la ricostruzione della capanna e della fornace da ceramica qui attiva.

L’Uomo del Chiostraccio, recuperato nel 1962 in fondo ad una grotta sul Montemaggio. Età tardo-ellenistica. Ricostruzione di Stefano Ricci e Floriano Cavanna. Monteriggioni, Museo Archeologico presso Abbadia a Isola.

UN MUSEO PER TUTTI Per cercare di rendere i contenuti piú accessibili, è stato deciso di prevedere diversi livelli di comunicazione, che corrispondo a scelte museografiche ben definite: sui pannelli, dal linguaggio semplice e immediato, arricchiti da grandi immagini e ricostruzioni, sono collocati QRcode che danno accesso a contenuti aggiuntivi di taglio specialistico. La parte multimediale è affidata a due totem touch screen, che consen-

tono di accedere a video di approfondimento e ricostruzioni tridimensionali di reperti esposti o conservati in altre collezioni, attivando un percorso di rimandi che rafforza il concetto di unità territoriale. Grande attenzione, infine, è stata riservata alla comunicazione social: sulla pagina Facebook del MaM, oltre a informazioni sulle attività, sono caricati costantemente contenuti di approfondimento su singoli aspetti, corredati della bibliografia a r c h e o 53


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previsto il termine dei lavori di recupero delle mura di Abbadia a Isola, che permetterà ai visitatori di comprendere meglio il ruolo economico e politico del cenobio. Nel mese di settembre, infine, è stata presentata la ricca offerta didattica (info e prenotazioni alla pagina www.monteriggioniturismo.it). In questo senso l’idea di promuovere insieme i due plessi (Castello e Abbadia a Isola) rappresenta una sfida verso un reale e praticato decentramento culturale, da un luogo sovraffollato di turismo verso una realtà piú raccolta e poco conosciuLa lapide che riporta il brano del canto ta: a oggi i risultati sono incoragXXXI dell’Inferno in cui Dante Alighieri gianti, dal momento che in poco piú di due mesi di apertura oltre cita Monteriggioni, affissa sulle mura 5000 persone hanno visitato il del borgo toscano, in prossimità della MaM, la maggior parte delle quali Porta Fiorentina (o di San Giovanni). specifica, perché la visita al MaM rappresenti un’esperienza di conoscenza del territorio. A breve il percorso del museo sarà ulteriormente arricchito: entro l’anno, infatti, sarà allestita una vetrina con un consistente nucleo di industria litica databile tra il Paleolitico medio e l’età neolitica proveniente dalle ricognizioni al Casone, mentre, negli spazi della Tinaia, verrà esposto un interessantissimo lotto di ceramica medievale recuperata in Castello. Con la stessa attenzione al contesto, per l’inizio del 2024 è

DOVE E QUANDO MaM-Museo Archeologico di Monteriggioni Monteriggioni, Complesso monumentale di Abbadia a Isola, piazza Gino Strada, 5 Orario dal 1° ottobre al 31 marzo: tutti i giorni (escluso il martedí), 10,00-13,30 e 14,00-16,00; dal 1° aprile al 30 settembre: tutti i giorni, 9,30-13,30 e 14,00-19,30; possibili variazioni o attività sono consultabili sul sito www.monteriggioniturismo.it Info tel. 0577 304834; e-mail: info@monteriggioniturismo.it Facebook: MaM-Museo archeologico di Monteriggioni Guida al museo Betti editore

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proprio dopo aver visitato il Castello. Tutto ciò è anche frutto di una scelta forte e non scontata da parte dell’Amministrazione Comunale: affidare le deleghe a cultura e turismo a un esponente del mondo della ricerca come Marco Valenti, professore ordinario di archeologia medievale all’Università di Siena. PER SAPERNE DI PIÚ Valeria Acconcia, Paesaggi etruschi in terra di Siena. L’agro tra Volterra e Chiusi dall’età del Ferro all’età romana, Archaeopress, Oxford 2012 Giacomo Baldini, Pierluigi Giroldini, Enrico Maria Giuffrè, Matteo Milletti, Andrea Zifferero (a cura di), Monteriggioni prima del Castello. Una comunità etrusca in Valdelsa (catalogo della mostra, Monteriggioni 2018-2019), Pacini Editore, Ospedaletto 2019 Ranuccio Bianchi Bandinelli, La tomba dei Calini Sepus presso Monteriggioni, in Studi Etruschi II, 1928; pp. 133-176 Ranuccio Bianchi Bandinelli, Materiali archeologici della Valdelsa e dei dintorni di Siena, Stabilimento Arti Grafiche San Bernardino, Siena 1931 (estratto da La Balzana II, 1928) Marina Cristofani Martelli, Monteriggioni. Tomba XXXI. Tomba dei Calisna Sepu, in Mauro Cristofani, Marina Cristofani Martelli, Enrico Fiumi, Adriano Maggiani, Anna Talocchini (a cura di), Corpus delle urne etrusche di età ellenistica. I complessi tombali, Centro Di, Firenze 1975; pp. 159-189 Giuliano de Marinis, Topografia storica della Valdelsa in periodo etrusco, Società Storica della Valdelsa, Castelfiorentino 1977 Simonetta Storti, «Monteriggioni», in Bibliografia topografica della colonizzazione greca in Italia e nelle Isole Tirreniche X, 1992; pp. 441-459



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TESORI DI MAREMMA Veduta d’insieme della sala 1 della mostra «#Artemide: una, nessuna, centomila», in corso al Museo Archeologico e d’Arte della Maremma di Grosseto fino al 5 novembre. Nella pagina accanto: busto dell’imperatore Adriano, da Serrata Martini, Castiglione della Pescaia.

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ARTEMIDE SI È FATTA IN QUATTRO IL MUSEO ARCHEOLOGICO E D’ARTE DELLA MAREMMA ESPONE LA PREGEVOLE STATUA DELLA DEA DA CASTIGLIONE DELLA PESCAIA, AFFIANCATA DA TRE «SORELLE» D’ECCEZIONE contributi di Mariagrazia Celuzza, Chiara Valdambrini, Barbara Fiorini, Maria Francesca Colmayer, Paola Spaziani, Marco Rastelli, Cristian Dessi e Cristina Barsotti

N

el 1880 lavori di bonifica e di canalizzazione nella piana del Lago di Castiglione (l’antico Lago Prile, un’ampia laguna che si estendeva in corrispondenza del tratto terminale del fiume Ombrone, n.d.r.) intercettarono nella località Serrata Martini un imponente complesso archeologico di età imperiale. Nulla rimane di quei resti edilizi, ma, in anni piú recenti, un altro settore dello stesso complesso è stato scavato in posizione simmetrica sull’altro lato dell’attuale canale nella località Le Paduline. L’insieme non è di facile interpretazione: a giudicare dai resti conservati a Le Paduline si sarebbe trattato di una villa privata probabilmente passata intorno al 100 d.C. al patrimonio imperiale, acquisendo allo stesso tempo anche funzioni pubbliche, come è documentato in altre situazioni costiere vicine. Le sculture ritrovate nella Serrata Martini si salvarono e giunsero al Museo Civico di Grosseto. Oltre all’Artemide ora esposta nella mostra al MAAM-Museo Archeologico e d’Arte della Maremma, si recuperarono le gambe e la base di un’altra diversa statua di Artemide (del «tipo Versailles»), un busto dell’imperatore Adriano e un busto femminile attribuito a Sabina, moglie di Adriano.

Piú piccola del vero e priva della testa, l’Artemide è rappresentata come cacciatrice, mentre cammina con la faretra sulle spalle; fra i suoi piedi è il cranio di un capriolo.Veste un lungo chitone a pieghe fitte e rigide lungo fino alle caviglie e un mantello corto. Lo stile è arcaizzante, la datazione probabile è la seconda metà del I secolo a.C.

La statua, nota nella letteratura archeologica come Artemide «tipo Pompei», è stata nel tempo identificata con vari originali antichi, peraltro non pervenuti fino a noi,

L’imperatore che amava la caccia Ci si può chiedere se ci fosse un legame tra l’imperatore Adriano e Artemide-Diana e la risposta è affermativa. Sappiamo dalle fonti letterarie ed epigrafiche antiche che Adriano era un appassionato cacciatore. Scene di caccia e di sacrificio a Diana figurano su monete di Adriano e sui tondi adrianei inclusi nell’arco di Costantino. Siamo certi inoltre che Adriano abbia cacciato in Etruria: nell’iscrizione funeraria che forse compose personalmente, Adriano ricorda il suo cavallo Boristene «mentre volava dietro ai cinghiali fra paludi e tumuli etruschi» (CIL XII, 1122, add.). La presenza di cinghiali nel Rosellano è ricordata anche da un’epigrafe di un secolo piú recente, il cui protagonista è un altro cavallo che era stato ferito «dalle zanne di un cinghiale etrusco presso Roselle» (CIL XIV, 3911). (M. C.)

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MOSTRE • TOSCANA

A destra: fondo di una coppa a figure rosse con iscrizione Artmsl = di Artumes (Artemide), da Roselle. 450-425 a.C. circa. In basso: statua arcaistica in marmo greco di Artemide, priva della testa, da Serrata Martini, Castiglione della Pescaia. Fine del I sec. a.C.-inizi del I sec. d.C.

Il culto di Artemide nella Maremma antica Artemide-Diana è una divinità complessa, ricca di attribuzioni per lo piú legate all’ambiente naturale. Si va dalla antichissima Potnia Theron o Signora degli Animali alla divinità degli incolti, dei boschi, delle zone umide, delle sorgenti salutari, delle aree marginali e, di conseguenza, anche della caccia. Per questo motivo è pressoché automatico che Artemide-Diana sia una divinità particolarmente attestata in questa zona dell’Etruria e nei territori confinanti. Una precoce testimonianza del culto della etrusca Artumes/Artames (V secolo a.C.) viene dall’area della cosiddetta Terrazza del Tempio sulla collina sud di Roselle. Sul Monte Amiata non ci sono testimonianze certe, ma il santuario in località Pian delle Bandite, da cui proviene l’antefissa monumentale con testa femminile (450 a.C. circa) conservata nel Museo di Grosseto, potrebbe essere stato dedicato a Diana, se il toponimo Seggiano può essere letto Sedes Dianae. Tornando sulla costa, il santuario di Diana Umbronensis, integralmente scavato e testimoniato da una iscrizione del I secolo d.C. e da una piccola statua di culto, è in attività dal III secolo a.C. fino a tutta l’età imperiale. Datata fra III e II secolo a.C., una statuetta di Artemide è stata recentemente identificata fra i bronzetti rinvenuti nel santuario sul Talamonaccio. A Cosa all’interno del giardino della casa di Diana fu costruito nel 50 d.C. circa un piccolo santuario della dea, testimoniato da un’epigrafe e da frammenti della statua di culto, che era accessibile dalla strada e si presume fosse aperto al pubblico. L’ultima testimonianza è una statuetta di Diana rinvenuta negli scavi in località Santa Marta nel Comune di Cinigiano all’interno di un grande complesso pubblico-privato di età imperiale. (M. C.)

ma descritti solo nelle fonti letterarie antiche. In uno studio del 2004, Antonio Giuliano ha proposto che la statua sia una copia di un famoso originale bronzeo del 500 a.C. circa, collocato nel tempio di Artemide che era a Segesta in Sicilia. Già famosa per motivi legati a un culto localmente molto sentito, la statua

avrebbe poi acquisito ulteriore fama dopo che Verre, governatore della Sicilia, la ebbe trafugata. Del furto parla Cicerone, che nel 70 a.C., quando aveva 36 anni, compose le orazioni contro Verre, le Verrine: erano stati i Siciliani stessi ad affidare a Cicerone il compito di tutelare i loro interessi, calpestati da quel governatore corrotto e sac-


cheggiatore della loro terra. Il processo avrebbe perciò innescato la richiesta di riproduzioni della statua, che per questo ci sarebbe pervenuta in ben quattro esemplari. Mariagrazia Celuzza

ALLE ORIGINI DI UNA MOSTRA La mostra, con protagonista l’Artemide marciante di Castiglione della Pescaia, nasce come valorizzazione di un processo creativo che parte dalla metà del I secolo a.C., ma punta al futuro. Un percorso espo-

sitivo che affonda le proprie radici nel mondo antico e cresce fino ad arrivare a «scoprire», sotto una luce diversa, il significato della produzione artistica nel periodo classico e in quello contemporaneo. Chiunque si avvicini ad Artemide può apprezzare la delicata bellezza della dea, moltiplicata per tutte le copie della stessa oggi esistenti e riunite per la prima volta, frutto della rielaborazione degli schemi arcaici con sensibilità nuova e gusto eclettico proprio dello stile arcaistico. L’allestimento della prima sala, un

semicerchio nel quale le quattro statue simulano un abbraccio verso chi guarda, si arricchisce con odori del bosco e letture di fonti antiche. Il percorso, che continua in altre due sale, una dedicata all’arte della copia e l’altra alla realtà estesa, diventa viaggio collettivo e soggettivo al tempo stesso, in cui la materia e il concreto del marmo perdono la loro certezza e si trasferiscono nel metaverso, grazie alla creatività unica di ciascuno: una nuova possibilità estetica di ipertesti ed esperienze inedite in divenire, con note Pop.

L’arte della copia Realizzare repliche delle opere piú famose dei maestri greci del V e del IV secolo a.C. fu nell’antichità una pratica molto diffusa tra gli scultori copisti che, utilizzando calchi e strumenti di precisione, lavoravano per la clientela romana dalla fine del II secolo a.C. Della vasta produzione greca nulla ci è pervenuto in letteratura, se non attraverso le opere dell’età romana, come per esempio nella Naturalis Historia di Plinio il Vecchio, nella quale l’autore presenta veri e propri elenchi di capolavori che erano maggiormente oggetto di copia (libro XXXVI). La ricerca degli originali greci da replicare era il tramite principale per il possesso di opere elleniche, seppur di imitazione. Grazie a questo fenomeno ci sono state consegnate testimonianze fondamentali per lo studio dell’arte greca e romana, del

gusto e del livello artistico dell’epoca in cui furono eseguite. La selezione di temi e soggetti comprendeva un ricco repertorio di sculture e rilievi destinati ad arredare le sontuose dimore dell’aristocrazia romana. Spesso si riscontra l’uso tipicamente romano di inserire sui corpi delle statue, copiate dagli originali greci, ritratti fisiognomici con effetti spesso curiosi. Molto spesso le copie da realizzare venivano scelte in base agli ambienti a cui erano destinate, per esempio gli atleti per le palestre, le divinità marine per le terme e le statue di divinità per le sale di rappresentanza. Per questi motivi le opere preferite sono talvolta proposte anche in piú repliche come nel caso delle statue di Artemide presenti nella mostra. Maria Francesca Colmayer e Paola Spaziani

Le copie a oggi superstiti dell’Artemide «tipo Pompei», riunite nella mostra «#Artemide: una, nessuna, centomila». a r c h e o 61


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Tutto si snoda tra le arti visive del passato e le arti digitali del presente che permettono di vivere un’esperienza sorprendente, trascendente e immaginifica. Chiara Valdambrini e Barbara Fiorini

LE DEE IN MARCIA L’iconografia dell’Artemide di Castiglione della Pescaia è nota grazie ad altre tre repliche marmoree conservate rispettivamente nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli, nel Museo Archeologico Nazionale di Venezia e nel Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme. La statua del

MAAM e quella di Napoli, rinvenuta a Pompei, nella regio VII, erano collocate in ambienti privati ad adornare, nel primo caso, la zona termale della villa della PadulineSerrata Martini, mentre nel secondo caso si trovava nel peristilio di una domus. Nulla sappiamo invece della collocazione originale delle copie di Venezia e Roma, in quanto la prima fa parte della collezione del cardinale Giovanni Grimani che la donò allo Statuario Pubblico Veneziano nel 1586,

Testa dell’Artemide rinvenuta a Pompei con ancora «il biondo» della capigliatura. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Un mondo a colori Per lungo tempo abbiamo associato la scultura classica a riproduzioni di corpi umani perfetti e candidi. Le statue esposte nei nostri musei ci appaiono infatti, a un primo sguardo, bianche, ma la storia, e i numerosi studi avviati in questi ultimi anni, hanno gradualmente svelato che, un tempo, le antiche statue, presentavano colori sgargianti. Le fonti letterarie antiche non lasciano dubbi sull’impiego del colore nella scultura: Luciano, Vitruvio, Plinio, Plutarco e Platone descrivono il significato del processo di colorazione, affermando che era uso di colorare le sculture in una maniera quanto piú possibile vicina a quella reale e precisando, inoltre, che la statua riceveva «vita» solo grazie ai colori. Le fonti non tralasciano neppure le indicazioni pratiche, relative alla lucidatura dello strato cromatico, che veniva effettuata per mezzo di olio e cera punica mescolati a caldo. Alcune iscrizioni del III secolo a.C. rinvenute a Delo, e le «rendicontazioni» dei santuari, testimoniano che la colorazione delle statue era affidata a mani esperte e rappresentava un vero e proprio processo di completamento dell’opera. Lo scopo principale era, dunque, quello di rendere il prodotto artistico «vivo» agli occhi degli spettatori e in grado di meravigliare l’osservatore. Ed è proprio il colore ad aumentare considerevolmente la leggibilità di una figura, e, come avverrà nel periodo romano, ad assumere anche una funzione comunicativa del ruolo del personaggio rappresentato, trasmettendo in modo chiaro e immediato il messaggio politico dell’opera stessa (il colore rosso del panneggio di una scultura significava, per esempio, che l’immagine scolpita raffigurava l’imperatore). La ricerca della policromia sulle sculture provenienti da scavi archeologici viene spesso effettuata su piccolissime porzioni di colore, che si sono conservate grazie a depositi terrosi e calcarei presenti sulla superficie che ne hanno impedito la perdita: le moderne tecniche d’indagine scientifiche, e lo sviluppo di protocolli archeometrici basati sull’impiego di strumenti analitici sempre piú affidabili, ci consentono di riconoscere resti, anche minimi, di queste finiture, trasmettendoci significative conoscenze della scultura antica, delle tecniche di esecuzione e dei materiali costitutivi. Cristina Barsotti 62 a r c h e o

mentre la seconda era stata trafugata nel 1994 nei pressi di Caserta ed è stata recuperata nel 2001 dai Carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Artistico. La dea è rappresentata incedente, con il corpo di tre quarti e le braccia, presenti solo nella statua di Napoli, abbassate ad accompagnare il movimento. Indossa un lungo chitone che lambisce le caviglie e un mantello allacciato sulla spalla destra; i calzari sono a suola piatta e con stringhe intrecciate sul collo


Il digital painter Cristian Dessi durante una sessione creativa dell’Artemide nell’Extended Reality Room (sala 3) della mostra.

del piede, con una decorazione vegetale; sulla schiena c’è una faretra cilindrica sostenuta da una cinghia che attraversa il petto della dea. Il viso ha una struttura quadrata e mento appuntito; le labbra sono serrate, ma sollevate agli angoli nel tipico sorriso arcaico. Gli occhi hanno le palpebre dal profilo ben marcato; i capelli, caratterizzati da fitte ciocche ondulate, terminano, sulla fronte, con una breve frangia e sono raccolti e fermati da un pesante nodo sul retro, mentre due lunghe ciocche scendono da dietro le orecchie sul petto. Sul capo porta un diadema a fascia, inornato nel caso della copia di Roma, decorato con rosette in rilievo nelle altre due. Da sottolineare che l’Artemide di Venezia era originariamente acefala e in epoca successiva è stato aggiunto il calco in gesso della testa della copia di Pompei. Tutte le repliche sono accomunate dalla stessa concezione formale e da proporzioni piuttosto simili. Il ricorso agli schemi iconografici tipici della scultura greca del VI-V secolo a.C. ne fanno un’opera cosiddetta arcaistica, rispondente al gusto dominante tra la fine del I secolo a.C. e l’inizio del successivo. Maria Francesca Colmayer e Paola Spaziani

UNA NUOVA DIMENSIONE L’esperienza della mostra di Grosseto, apre alla possibilità di espandere l’archeologia a una nuova dimensione digitale che può diventare uno strumento per ampliare i metodi di fruizione dei reperti archeologici attraverso la creazione di una galleria virtuale usabile e accessibile da ogni luogo attraverso la rete. La stanza di Realtà Estesa creata al MAAM di Grosseto è il primo passo per la creazione di una «virtual room» capace di far interagire i visitatori della mostra, ma anche artisti digitali, con modelli 3D della statua stessa, i quali permettono la creazione di nuove versioni della statua, aggiornandola ai codici di comunicazione visiva e concettuale che i social media permettono e richiedono. Infatti, le tecnologie di Extended Reality usabili all’interno della stanza virtuale, offrono la possibilità di manipolare la statua di Artemide, aprendo le frontiere a una nuova forma di arte e di espressione. Utilizzando i visori di ultima generazione wireless per la realtà virtuale, si ha la possibilità di «maneggiare» la statua, dipingendo, aggiungendo elementi o ricostruendo parti mancanti, andando a creare una nuova inter pretazione dell’Artemide, senza vincoli di forme e colori, reinterpretando e con-

testualizzando il mito fino a farla diventare una nuova icona pop. La digitalizzazione rende perciò fruibile l’opera, ma permette anche di collocarla in nuovi luoghi digitali, raggiungibili da tutto il mondo. Accedendo alle gallerie virtuali, i visitatori diventano dunque altrettanti avatar, con la possibilità di creare, manipolare e confrontarsi con una nuova replica del reperto archeologico, impadronendosene e collocandolo anche in un nuovo contesto espositivo urbano, creando cosí nuove gallerie virtuali, posizionando le opere nella città, andando a realizzare un percorso interattivo e futuristico, raggiungibile da qualsiasi smartphone attraverso Google e dando la possibilità ad altre persone di fruire delle opere in Realtà Aumentata nel contesto cittadino. Questa esperienza ha l’obiettivo di far uscire il reperto archeologico dalla sua sede museale e di renderlo piú accessibile alle nuove forme di comunicazione digitale, permettendo a un pubblico piú giovane e vasto di avvicinarsi all’archeologia e alla storia dei popoli e dei territori. Al termine dell’esperienza della mostra si punta ad avere una galleria digitale di nuove interpretazioni della statua di Artemide e la creazione di un allestimento digitale all’interno della città di Grosseto fruibile da Google street view, capace di creare la prima galleria urbana di opere digitali ispirate dall’archeologia. Marco Rastelli e Cristian Dessi DOVE E QUANDO «#Artemide: una, nessuna, centomila» Grosseto, Museo archeologico e d’arte della Maremma fino al 5 novembre Orario ma-do, 10,30-18,30; chiuso il lunedí Info tel. 0564 488752, e-mail: accoglienzamaam@gmail.com; www.museidimaremma.it a r c h e o 63


MOSTRE • TOSCANA

IL BELLO NON HA TEMPO

ARTE ANTICA E CONTEMPORANEA DIALOGANO NELLA MOSTRA AL MUSEO «ISIDORO FALCHI» DI VETULONIA di Simona Rafanelli e Luigi Rafanelli

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l tema dell’esposizione allestita nel Museo di Vetulonia, complementare a quello della mostra presentata nel 2022 («A tempo di danza. In armonia, grazia e bellezza»), ha mutato decisamente d’abito, sia sotto l’aspetto concettualenarrativo che sotto quello allestitivo-scenografico. Esso risponde, da un lato, al desiderio di dar voce a concetti significativamente «positivi» quali l’armonia, la grazia e la bellezza, e, dall’altro, alla volontà di realizzare una «mostra-cammeo», sviluppata lungo un itinerario di eccezione, che ha messo in scena un numero contenuto di capolavori selezionati da contesti unici, quali quello fiorito «naturalmente» alle falde del Vesuvio. Opere a cui fanno da pendant, nello stesso Museo Archeologico Nazionale di Napoli, le raccolte «artificiali» delle grandi Collezioni come quella Farnese, e il corpus contemporaneo scaturito dal genio artistico di Igor Mitoraj, custodito nell’atelier del maestro a Pietrasanta. Al principale spazio espositivo del Museo, la Sala delle Vele – trasformata in un vero e proprio teatro e divenuta da un anno sede di eventi culturali e performativi a tutto tondo –, si aggiunge lo spazio adiacente ricavato al centro della Sala G, consentendo di intrecciare un dialogo materiale e ideale fra i capolavori di arte antica e le opere d’arte contemporanea. Annullando nel racconto espositi-

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Nudo, bronzo patinato di Igor Mitoraj. 2003.

vo ogni distanza fra le piú alte espressioni dell’arte plastica romana in bronzo e in marmo e le opere modellate nel contemporaneo dalle mani e dall’anima di Igor Mitoraj, la nuova esposizione eleva a protagonisti del discorso artistico e narrativo il corpo in movimento, nella sua declinazione «maschile», tradotto nelle posture assunte dall’atleta durante la performance spor tiva, e la bellezza dell’arte classica, intesa quale risoluzione di una perfetta e circolare composizione dei gesti nell’armonia delle forme.

LA PIÚ BELLA STATUA ROMANA DELL’ANTICHITÀ A esprimere, incarnandoli, tali concetti, sono chiamate ancora una volta in causa le eccellenze dell’arte scultorea del Museo Archeologico Nazionale di Napoli-MANN, rappresentate dall’erma bronzea del Doriforo e da uno dei due Corridori restituiti dalla Villa dei Papiri di Ercolano, a cui va ad affiancarsi la copia moderna al vero del secondo, suggestivamente animati nel video di Nicola Amico (Associazione Culturale Prisma), e da una selezione di statue romane in marmo. Fra queste ultime spiccano lo straordinario Gladiatore Farnese, definito nel Novecento da Enrico Paribeni la piú bella statua romana consegnataci dall’antichità, e il celebre Pugile da Sorrento, firmato da Koblanos di Afrodisia. Statue che ci restituiscono le fattezze di capolavori greci in bronzo della classicità e del primo ellenismo, opera di maestri del calibro di Mirone, Policleto e Lisippo e delle loro scuole. Interprete maggiore e privilegiato erede della bellezza dell’arte classica in età contemporanea, Igor Mitoraj rappresenta la proiezione nel futuro e nell’oggi della riformulazione dell’espressione artistica in forma plastica del bello in sé e lo fa da maestro, accogliendo e rileggendo, nel suo atleta nuotatore Nudo


in bronzo, già esposto nel contesto di unicità offerto dai ruderi di Pompei, l’eredità classica in chiave di bellezza «imperfetta», capace di riunire in un’unica forma armoniosa, «incompleta» ma non «incompiuta», le due parti dell’uomo in eterno conflitto fra la disunione e il progressivo deperimento della carne e l’unione imperitura dell’essenza immateriale. Anche per il 2023, l’allestimento della mostra, sapientemente illumiIn basso: il Gladiatore Farnese. II sec. d.C. (da un originale greco del V sec. a.C.) Napoli, MANN.

In alto: statue in bronzo di atleti nudi, cosiddetti Corridori, dalla Villa dei Papiri di Ercolano. I sec. a.C.-I sec.d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. La scultura a sinistra è uno dei due originali, l’altra è una replica moderna.

nata dall’Azienda Exenia di Firenze, si avvale del talento di uno dei principali fotografi d’Arte italiani, Luigi Spina, le cui spettacolari foto-quadro conferiscono alla sala l’aspetto di una raffinata pinacoteca, e del giovane regista Lorenzo Antonioni, autore in esclusiva per il MuVet del docufilm Viaggio nel CORPO a CORPO, accompagnato da uno dei maggiori interpreti della musica contemporanea, il maestro sassofonista jazz Stefano «Cocco» Cantini. A quest’ultimo si deve, oltre alla colonna sonora ori-

ginale del docufilm, il servizio fotografico dedicato all’esposizione, a cui ancora una volta l’editore designer Alessandro Bartoletti ha voluto riservare in ARA Edizioni un elegante e accurato catalogo. DOVE E QUANDO «Corpo a corpo. Dalla Bellezza Classica dei capolavori del Museo Archeologico Nazionale di Napoli alla Classicità del Bello nell’opera di Mitoraj» Vetulonia, MuVet-Museo civico archeologico «Isidoro Falchi» di Vetulonia fino al 5 novembre Info tel. 0564 927241 o 948058; e-mail: museo.vetulonia@comune. castiglionedellapescaia.gr.it; www.museoisidorofalchi.it Catalogo ARA Edizioni (Siena) a r c h e o 65


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CASE DI UN CERTO LIVELLO

GLI SCAVI DI POPULONIA HANNO TAGLIATO IL TRAGUARDO DEI 25 ANNI. CON ESITI DI GRANDE RILIEVO E PROSPETTIVE PROMETTENTI di Giampiero Galasso

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Foto da drone dell’Acropoli di Populonia: si riconoscono il settore centrale dell’area archeologica; sulla sinistra, le arcate cieche delle Logge e, davanti a queste, la domus; sulla destra, l’area dei templi

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i è da poco conclusa la campagna di scavi 2023 nel Parco archeologico di Baratti e Populonia, a Piombino (Livorno). Condotte sull’acropoli, nella grande domus e alla base del cosiddetto Edificio delle Logge, le indagini si inseriscono nella lunga collaborazione tra il Parco archeologico, gestito dalla Società Parchi Val di Cornia, la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Pisa e Livorno e l’Università di Siena: una collaborazione che, con lo scavo realizzato in concessione ministeriale, taglia il traguardo dei 25 anni di ricerca a Populonia, condivisa nel tempo con gli altri atenei italiani e stranieri. «La grande domus aristocratica, sicuramente la residenza di un personaggio di spicco della città – afferma Marta Coccoluto, responsabile del Parco archeologico – è uno degli edifici piú ricchi di Populonia ed è una delle piú grandi mai scavate in Etruria. La sua ricchezza si misura dalle strutture ancora conservate: in particolare un piccolo bagno privato con bellissimi pavimenti a mosaico, recentemente restaurati e restituiti al pubblico, insieme ai pavimenti dell’atrio, dell’ala e del tablino».

UN INCENDIO DEVASTANTE «La casa aristocratica è stata costruita nel II secolo a.C. lungo la grande strada sacra che collegava l’area del foro e dei templi all’edificio delle Logge, una sostruzione monumentale ad arcate cieche, anch’esso oggetto di indagine per datarne la fondazione. Nel I secolo a.C. un devastante incendio distrugge completamente questa domus, tanto che non è piú stata ricostruita. Crolla tutto: il tetto di tegole e coppi, insieme con la carpenteria, è collassato sul primo piano e quest’ultimo, compresi il solaio e il pavimento, si è schiantato sul piano terra, trascinando con sé tutto ciò

che era presente in quel momento negli ambienti dell’edificio. Un contesto rimasto inalterato, che ha restituito soprattutto stoviglie per la cucina e per la mensa, oltre a una serie incredibile di oggetti della vita quotidiana: notevole è il frammento del corpo di una bambola in terracotta con i fori per l’inserimento degli arti. L’incendio ha come fermato il tempo e questo è l’aspetto che piú ha incuriosito i visitatori del parco, coinvolti nelle visite al cantiere di scavo organizzate durante lo svolgimento delle indagini archeologiche».

ABLUZIONI E BANCHETTI «Le indagini all’interno della domus – commenta il direttore scientifico dello scavo, Stefano Camporeale, docente di archeologia classica dell’Università di Siena – sono riprese nel 2023 grazie alla concessione triennale rilasciata dal Ministero della Cultura. La casa fu ritrovata fin dai primi anni di scavo nell’area dell’acropoli populoniese, a partire dal 2003. Furono rimossi alcuni strati di crollo e di obliterazione dell’edificio e messi in luce gli ambienti di rappresentanza, ossia l’atrio, le piccole terme e una grande sala per banchetti affacciata su un’area a giardino – probabilmente un peristilio – collocata sul retro. Nel tempo, e a profondità maggiore, furono scoperte, benché per porzioni limitate, anche strutture relative a una casa precedente, dotata anch’essa di una vasca per l’acqua nell’atrio. La cronologia di questa prima costruzione non è nota e uno degli obiettivi dei prossimi scavi sarà proprio quello di chiarire meglio le diverse fasi costruttive dell’edificio. I nuovi scavi riguardano gli ambienti collocati lungo il limite meridionale della domus, la cui realizzazione è da porre tra II e I secolo a.C.: stanze di rappresentanza e a funzione domestica e utilitaria. La a r c h e o 67


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prima stanza a essere stata scoperta è un secondo triclinio, un altro indice di ricchezza della casa. I proprietari piú ricchi, se avevano sufficiente spazio a disposizione, amavano costruire piú sale per il banchetto, anche una accanto all’altra, in modo da aumentare il numero dei convitati. La porta della sala era rivolta verso il giardino ed era abbellita da una soglia monolitica di marmo bianco di 3 m di lunghezza, ma nella stanza non si sono trovate altre decorazioni.

LAVORI IN CORSO In effetti, al momento della distruzione, la casa era in ristrutturazione, alcune stanze erano in via di rifacimento e mancano pertanto del pavimento e degli arredi. In entrambi i triclini sono state trovate tracce dei lavori in corso e degli strumenti degli operai: in quello piú grande la postazione di un fabbro, con le tenaglie abbandonate repentinamente sul pavimento; nel secondo e piú piccolo triclinio un’ascia e una mezza anfora lasciata in un angolo fra due muri, ancora della calce pronta per essere utiIn alto: studenti di Siena e Oxford durante la campagna di scavi 2023. A destra: uno dei momenti dell’iniziativa «Gli Archeologi raccontano», con i reperti mostrati in anteprima ai visitatori. Nella pagina accanto: pubblico in visita alla domus nell’ambito dell’iniziativa «Gli Archeologi raccontano».

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lizzata per confezionare la malta. Tutto è rimasto lí al momento dell’incendio e del crollo del piano superiore, quando è stato trascinato in basso l’intero contenuto della stanza corrispondente che si trovava al livello soprastante. Proseguendo lo scavo, è stata indagata la stanza situata sul retro del triclinio. La funzione di questo se-

condo spazio era molto diversa: posto nel cuore interno della casa, era inaccessibile a chiunque non fosse della famiglia, e sembra che avesse funzioni di dispensa e cucina. Il pavimento era un semplice battuto di terra e cambiano anche le tecniche murarie, poiché nelle porzioni piú interne gli spazi domestici si presentavano suddivisi da sottili mura-


La perfetta integrazione tra paesaggio e archeologia «Il Parco di Baratti che vediamo oggi – spiega Silvia Guideri, direttore scientifico della Parchi Val di Cornia – è frutto di un progetto unitario di ricerca, tutela e valorizzazione, che ha visto operare in costante sinergia il MiC, la Regione Toscana, il Comune di Piombino e la Parchi Val di Cornia, con il costante supporto di numerosi

dipartimenti universitari. Il paesaggio e le emergenze archeologiche formano in questo territorio un unicum integrato e inscindibile, che richiede un approccio multidisciplinare, capace di cogliere e restituire il complesso e delicato rapporto fra archeologia e paesaggio. Populonia è un luogo che ha sempre avuto il “privilegio” della

complessità: complessità che è stata uno stimolo per la sperimentazione di formule innovative anche dal punto di vista amministrativo, e che rappresenta una sfida costante per chi è chiamato a curare il suo immenso patrimonio, oggi gestito dalla Parchi Val di Cornia Spa grazie a un accordo di valorizzazione fra MiC, Regione e Comune».

ture, realizzate con un misto di terra cruda e legno». Numerosi sono i reperti recuperati durante l’indagine archeologica: «Sono straordinarie – continua Camporeale – alcune serie di ceramiche (grandi tegami, coperchi e anfore) trovate in giacitura primaria e soprattutto oggetti di ferro. Sotto le ceneri dell’incendio il ferro è sopravvissuto, come capita molto di rado in un contesto archeologico. Si tratta di oggetti molto diversi, un campionario incredibile di elementi di mobili (armadi, scaffalature), di infissi e carpenteria, di utensili piú vari (attizzatoi e palette per il camino, un coltello, ganci e maniglie, decorazioni di porte e mobili, cala-

mai in ceramica, frammenti di penna d’osso per incidere o scrivere documenti). Un repertorio che restituisce uno spaccato della vita che si svolgeva a Populonia poco prima della sua fine: le fonti antiche ci raccontano che la città fu assediata dalle truppe di Silla, nell’ambito delle guerre civili contro i partigiani di Mario, con cui le città d’Etruria si erano schierate. L’assedio dovrebbe essere avvenuto intorno all’80 a.C., ma queste ultime straordinarie scoperte archeologiche sembrano raccontare un’altra storia. I reperti ceramici sembrano collocare l’incendio tra il 70 e il 50 a.C., ossia quando era in corso il restauro della domus, un

momento durante cui un altro pericolo incombeva sulle città collocate in prossimità della costa: i pirati che infestavano i mari, forse gli stessi pirati che hanno determinato la fine di Cosa (Ansedonia), un’altra città dell’Etruria che, come Populonia, farà fatica a risollevarsi dopo la devastazione subita». Le indagini di cui si dà conto nel presente articolo sono state condotte dal Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali dell’Università di Siena in concessione dal Ministero della Cultura e dirette da Stefano Camporeale, con la partecipazione degli studenti della Faculty of Classics-University of Oxford coordinati da Niccolò Mugnai. a r c h e o 69


ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/10

«HO RIMESCOLATO LE VECCHIE STORIE»

SCRITTRICE E GIORNALISTA INGLESE, NATALIE HAYNES HA VOLUTO COMPIERE UN’OPERAZIONE ARDITA: RACCONTARE LA GUERRA DI TROIA DA UNA PROSPETTIVA FEMMINILE. È NATO COSÍ IL CANTO DI CALLIOPE, ROMANZO IN CUI VICENDE E PROTAGONISTI DEL CELEBRE CONFLITTO RIVIVONO IN UNA DIMENSIONE INEDITA E, NATURALMENTE, NON PRIVA DI «PROVOCAZIONI» LETTERARIE di Giuseppe M. Della Fina

«E

ho cantato le donne, le donne nell’ombra. Ho cantato chi è stato dimenticato, ignorato, non raccontato. Ho preso le vecchie storie e le ho rimescolate, finché le donne nascoste non sono apparse in piena luce. Le ho celebrate con il canto perché hanno aspettato fin troppo»: cosí parla la musa Calliope nell’ultimo

UN’AMBASCIATRICE DELLA CLASSICITÀ Natalie Haynes, l’autrice di A Thousand Ships (Il canto di Calliope, nella traduzione italiana) è una scrittrice e giornalista inglese. Ha cominciato a farsi conoscere grazie al successo della trasmissione radiofonica Natalie Haynes Up for Classics, trasmessa per BBC Radio 4. Nel 2015 ha ottenuto il Classical Association Prize per il suo impegno a favore della conoscenza del mondo classico. A Thousand Ships è stato finalista del prestigioso Women’s Prize for Fiction nel 2020 ed è stato ritenuto uno dei libri migliori pubblicati nel 2019 dai giornali The Times e The Guardian.

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Calliope piange la morte di Omero, olio su tela di Jacques-Louis David. 1812. Cambridge (USA), Harvard Art Museums. Nella pagina accanto: la giornalista e scrittrice inglese Natalie Haynes.


ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/10

Natalie Haynes restituisce la voce ad alcune donne molto note – si pensi a Penelope –, ma anche ad altre che lo sono meno e per questo fornisce in apertura una lista ragionata dei personaggi, uomini e donne, coinvolti nella vicenda, suddividendoli tra Greci, Troiani e divinità. E, come si può intuire, la suddivisione non è solo di comodo.

capitolo del romanzo A Thousand Ships di Natalie Haynes, pubblicato nel 2019. Il libro è stato tradotto prontamente in italiano con il titolo Il canto di Calliope dalla casa editrice Sonzogno di Marsilio Editori (2021) e poi riproposto da Feltrinelli nell’Universale Economica nel 2022. La traduzione dall’inglese è di Monica Capuani. Nelle parole di Calliope è riassunto il lavoro portato avanti dalla scrittrice inglese, che ha dato voce alle figure femminili coinvolte nella guerra di Troia, vale a dire nello scontro che ha fondato – per certi aspetti – la civiltà greca. Una guerra durata dieci anni raccontata in un’ottica esclusivamente maschile, o quasi, nelle fonti letterarie antiche e nelle analisi storiche di epoche successive e, in fondo, sino a pochi decenni fa.

LE STORIE E LE FONTI Dare voce alle donne protagoniste del racconto poetico di quella vicenda è dare loro spazio sin dalla fase iniziale di una civiltà che ha caratterizzato il mondo occidentale: la scrittrice, come Calliope, ha preso “vecchie storie e le ha rimescolate”. Quali storie? L’Iliade e l’Odissea, ovviamente. Inoltre – come spiega Haynes – Le Troiane e l’Ecuba di Euripide, l’Eneide di Virgilio, le Eroidi di Ovidio, l’Orestea di Eschilo, Ifigenia in Aulide e Ifigenia in Tauride di Euripide, l’Ippolito, sempre di Euripide. Influenza sulla scrittrice hanno avuto anche alcuni capolavori recuperati grazie all’archeologia, come, per esempio, i vasi attici con la raffigurazione di Pentesilea, la regina delle Amazzoni. Accanto a uno scavo attento, seppure sui generis, nelle fonti letterarie antiche e all’attenzione per la documentazione archeologica, c’è la 72 a r c h e o

sensibilità dell’autrice e non potrebbe essere altrimenti in un romanzo storico, che – lo abbiamo già detto piú volte nelle puntate precedenti di questa serie – non è un saggio e ha regole diverse.

PUNTI DI VISTA DIVERGENTI Divergenze di sensibilità e di opinione tra le rappresentanti dei due popoli restano anche in una storia scritta al femminile, seppure talora con aperture significative verso le ragioni dell’altro: per una donna greca, Achille è un eroe piú o meno apprezzabile; per una donna troiana, è un assassino senza scrupoli. Nella lettura degli avvenimenti, posizioni differenti si segnalano anche tra le divinità e gli uomini e le donne comuni. Il libro si compone di quarantatré capitoli e, quasi sempre, è una sola donna a prendere la parola e a rivolgersi direttamente a noi che la stiamo ascoltando; in alcuni capitoli, intitolati in maniera ricorrente Le troiane, sono invece piú donne a parlare tra loro e noi possiamo, comunque, ascoltarle. Nel primo e nell’ultimo capitolo, significativamente, prende la parola la musa Calliope, che critica il poeta che la invoca: «Ma oggi non sono dell’umore per fare la musa. Forse lui non ha pensato a cosa significa trovarsi nei miei panni: come tutti i poeti, pensa solo a se stesso (...) Crede davvero di avere qualcosa di nuovo da dire?». Poi – nonostante tutto – inizia a ispirarlo, dopo avere osservato che ha la testa china e le spalle sono curve: «È vecchio, questo uomo.


Piú vecchio di quanto suggerisca la sua voce risoluta». Decide di aiutarlo, ma a condizione, che narri le vicende delle donne: «Hanno aspettato che si raccontasse la loro storia, e io non le farò piú aspettare. Se il poeta rifiuta il canto che gli ho offerto, glielo porterò via e lo lascerò in silenzio (...) La storia delle donne sarà raccontata, qualunque sia il tempo che ci vorrà. Io sono senza età, immortale: per me il tempo non ha importanza. Quello che importa è il racconto».

IL PIANTO DI BRISEIDE Briseide è la giovane donna che, perduto lo sposo Minete ucciso da Achille, era divenuta la schiava di quest’ultimo divenendone la favorita. Quando Agamennone, avendo dovuto restituire Criseide al padre Crise, sacerdote di Apollo, la reclamò per sé, Achille – come è noto – si ritirò dalla battaglia sino a quando Patroclo non venne ucciso. Nel frattempo, in un tentativo di riconciliazione, Briseide era stata riconsegnata ad Achille. La scrittrice immagina che Briseide, dopo la morte di Patroclo, di Ettore e dello stesso Achille, riesca finalmente a piangere: «Non pensava che i suoi occhi ricordassero come fare. Ma molti giorni dopo, davanti alla pira funeraria di Achille – ucciso in battaglia da Apollo, dicevano – allora sí pianse, pianse. E pianse per tutti, tranne che per lui».

Affresco raffigurante Achille costretto a cedere Briseide ad Agamennone, dalla Casa del Poeta tragico a Pompei. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto: le copertine del romanzo di Natalie Haynes A Thousand Ships e della sua traduzione in italiano, intitolata Il canto di Calliope.

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ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/10

TUTTE PARLANO (MALE) DI ELENA Un giudizio particolarmente severo su Elena viene dato nel romanzo da Ecuba, moglie del re Priamo e madre di Paride. La caduta di Troia è avvenuta e l’anziana regina, completamente afflitta, sembra avere chiare le cause della tragedia e indirizza il suo odio verso Elena: «Tutto per colpa di quell’infida sgualdrina spartana. Sputò il sangue sulla sabbia. Il suo desiderio di vendetta era assoluto, e vano». Ad avere parole aspre per Elena, nel capitolo ventisette del libro, è anche la musa Calliope, che confida di non apprezzarla: «Ne ho abbastanza di Elena. Ne ho abbastanza della sua bellezza, ne ho abbastanza del suo potere, ne ho abbastanza di lei». Sarebbe scorretto sovrapporre la musa alla scrittrice, ma Natalie Haynes ammette, in chiusura del romanzo, che è Cassandra – tra le protagoniste dell’intera storia narrata – a mancarle di piú.

Questo modo di procedere conduce a una lettura capovolta degli eventi e delle loro cause come sono state raccontate in un’ottica maschile: Creusa, per esempio, la sposa di Enea, mostra di non dare credito alla tesi secondo la quale i Greci mossero guerra a Troia per farsi restituire una donna fuggita con uno dei figli di Priamo, neppure dopo l’incontro avuto con Elena: «Nemmeno allora aveva creduto che un esercito avesse navigato sin laggiú per riportarla a casa. I greci si mettevano in mare per le stesse ragioni di tutti: per riempire i forzieri di bottino e le case di schiavi». Nel capitolo in cui parla Teano, moglie del troiano Antenore, che aveva perso quattro figli nella guerra, la donna critica con asprezza la posizione assunta nella vicenda dalle classi dirigenti della sua città, compreso suo marito: Elena doveva essere restituita a Menelao, come aveva suggerito la dea Atena, di cui era sacerdotessa. All’obiezione del marito che Paride avrebbe cosí perso la faccia e che Priamo, suo padre, non avrebbe potuto consentirlo, Teano replica: «Una reputazione si può perdere solo se non è stata trascinata già nel fango. Solo un illuso può pensare che Paride abbia una reputazione». È sempre Teano a spingere Anteno74 a r c h e o

re a tradire, nella consapevolezza che Troia sia ormai perduta. Il dovere di Antenore – nell’interpretazione di Teano – sarebbe divenuto a tal punto quello di salvare la figlia superstite che, altrimenti, sarebbe stata uccisa o venduta come schiava.

UN COMPORTAMENTO ESECRABILE Una logica che, paradossalmente, ritorna alcune pagine dopo, in una r iflessione dell’anziana Ecabe (Ecuba), la moglie del re Priamo: «Il comportamento di Antenore era deplorevole, certo, ma non si poteva negare che avesse ottenuto un destino migliore per le sue donne di quello a cui Priamo aveva condannato la propria famiglia. Teano e Crino: donne libere; Ecabe e le sue figlie: schiave». A Ecabe, la scrittrice affida la speranza di una giustizia divina in grado di punire i vincitori quando si siano comportati in maniera empia: «Ci sono delle regole. Perfino in guerra, ci sono delle regole. Gli uomini possono ignorarle, ma gli dèi no. Massacrare un vecchio mentre piega le fragili ginocchia per cercare asilo? Un simile comportamento è imperdonabile, e gli dèi – come la regina dei resti fumanti di Troia sapeva fin troppo bene – raramente sono inclini al perdono». Ecabe sta pensando

all’uccisione di suo marito per mano di Neottolemo presso un altare: l’episodio non è narrato nell’Iliade, ma nel secondo libro dell’Eneide. Per l’anziana regina l’uccisore di Priamo, un vecchio


che stava implorando la protezione di un dio, avrebbe pagato per la sua crudeltà e la sua empietà. Lo scetticismo di Creusa sulle motivazioni della guerra di Troia viene condiviso anche da Penelope, a cui

Natalie Haynes fa scrivere una let- Gli amori di Paride ed Elena, olio su tera immaginaria allo sposo Odis- tela di Jacques-Louis David. 1788. seo (Ulisse): «Mille navi hanno sol- Parigi, Museo del Louvre. cato i perigliosi mari solo per restituire la moglie a un uomo. È una storia ben strana, ne converrai». a r c h e o 75


ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/10

IL RIMORSO DI UN EROE Uno dei duelli piú noti della guerra di Troia è quello tra Achille e la regina delle Amazzoni, Pentesilea. Nel romanzo di Natalie Haynes è narrato nel settimo capitolo. A entrambi – per vicende personali che li avevano toccati – non importava vivere, o morire. Il duello si conclude a favore di Achille e, in proposito, la scrittrice osserva: «Il viso straziato dal dolore che aveva davanti non somigliava a nulla che avesse mai visto, e capí di aver commesso l’unico gesto di cui si sarebbe pentito. Quella donna era la sua immagine allo specchio». Il duello tra Achille e Pentesilea dipinto su un cratere a calice del Pittore di Creusa. V sec. a.C. Madrid, Museo Archeologico Nazionale. 76 a r c h e o

Nella stessa lettera Penelope si permette di criticare con asprezza il comportamento di alcuni dei capi greci: per Agamennone confessa di provare un vero odio; reputa Menelao un uomo noioso, non in grado – nemmeno dopo tanti anni – di comprendere che Elena non era la donna per lui.

non l’hai mai sentito parlare, non l’hai mai guardato dondolarsi dai rami bassi del vecchio pino che cresce accanto al nostro palazzo». Vi è anche un rammarico profondo: avremmo potuto avere altri figli oltre a Telemaco. Piú avanti nel romanzo, la scrittrice immagina una nuova lettera di Penelope indirizzata a Odisseo e, in questa occasione, la regina appare meno comprensiva: «È trascorso un anno dalla caduta di Troia, e ancora non sei a casa. Un anno. Possibile che Troia sia ora tanto piú lontana di quando salpasti alla sua volta, dieci anni fa? Dove sei stato, Odisseo? Le storie che sento non sono incoraggianti. Se ti raccontassi cosa i poeti cantano su di te, rideresti. Almeno lo spero». La scrittrice, proprio nell’ultimo capitolo, mette in bocca a Calliope una verità: «Una guerra non ignora metà della gente di cui tocca le vite. Quindi perché dovremmo ignorarla noi?». Suggerisce cosí una strada diversa nel fare storia. Ci si può dunque chiedere se le riflessioni portate avanti dalle protagoniste possano davvero essere appartenute a donne di un passato tanto lontano e attive in una società completamente diversa dalla nostra. La domanda è legittima, ma l’autore – in questo caso l’autrice – di un romanzo storico deve reinterpretare la realtà con occhi nuovi, con lo sguardo del suo tempo: la vitalità di questa forma di letteratura è nell’avvicinare passato e presente, nel creare un ponte tra l’antico e il contemporaneo. Una considerazione finale, quasi una provocazione: la Penelope descritta da Omero – sí, proprio quella – non è una donna moderna, capace di autogestirsi e analizzare la realtà con piena consapevolezza e senza sudditanza?

GLI IMPIETOSI GIUDIZI DI PENELOPE Nelle sue parole c’è un rovesciamento della narrazione legata alla guerra di Troia, le cui motivazioni sono deboli e alcuni dei comandanti dell’esercito greco non sono eroi, ma piccoli uomini. Uno scetticismo che arriva a investire anche il poeta che ha narrato la guerra mettendo in dubbio la forza dell’esercito greco: «Sono infine salpate mille navi?». Nella stessa immaginaria missiva vi è spazio per considerazioni private: «Mi sembra impossibile che tu sia NELLA PROSSIMA PUNTATA lontano da cosí tanto tempo: non hai mai visto tuo figlio camminare, • Hermann Broch



SCAVI • UMBRIA

IL BUEN RETIRO DI PLINIO IL GIOVANE A SAN GIUSTINO, GRAZIOSO COMUNE UMBRO AL CONFINE CON LA TOSCANA, SORGONO I RESTI DELLA VILLA APPARTENUTA AL NIPOTE DI PLINIO IL VECCHIO, SCRITTORE E GOVERNATORE ROMANO VISSUTO TRA IL I E IL II SECOLO D.C. LE TESTIMONIANZE ARCHEOLOGICHE CI PERMETTONO DI RICOSTRUIRE LA STORIA DI QUESTA RESIDENZA E DI SOTTOLINEARE L’INTERAZIONE TRA LE PRATICHE RELIGIOSE ROMANE E QUELLE, PRECEDENTI, DEGLI ABITANTI ETRUSCHI DELLA REGIONE di Paolo Braconi

«L

’aspetto del paese è bellissimo: immagina un anfiteatro immenso e quale soltanto la natura può crearlo. Una vasta e aperta piana è cinta dai monti, e le cime dei monti hanno boschi imponenti ed antichi» (Lettere V, 6). Cosí Gaio Plinio Cecilio Secondo, meglio conosciuto come Plinio il Giovane – per distinguerlo dallo zio Plinio il Vec-

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chio – descrive il luogo dove ha acquistato la sua nuova villa in Tuscis, in Etruria. Quel luogo ameno, dove Plinio trovò pace e r istoro dal caos dell’Urbe, è oggi noto come Colle Plinio, una località nel comune di San Giustino, al confine tra Umbria e Toscana. Il panorama è subito riconoscibile e poco mutato rispetto

a quanto scrive Plinio nella sua lettera all’amico Apollinare: un nucleo abitativo, una villa padronale (Villa Cappelletti), circondata da un giardino e un parco, dove la natura rimane imponente e protagonista, restituendo una calma antica. Qui, nell’area del «campo di Santa Fiora» ai primi del Novecento, lo storico Giovanni Magherini Gra-


ziani identificò i resti della villa di cui Plinio il Giovane parla nelle sue lettere nelle rovine che affiorarono durante lavori agricoli. Un’identificazione confermata dal rinvenimento di bolli impressi su tegola recanti le lettere CPCS, che corrispondono alle iniziali del nome completo di Plinio, Caius Plinius Caecilus Secundus. Nonostante l’evidenza e le valide argomentazioni di Graziani, una vera campagna di scavo fu intrapresa solo a partire dal 1986 grazie all’intervento e alla collaborazione delle Università di Perugia e Alicante, che qui lavorarono fino al 2003, conducendo 18 campagne di scavo, che hanno esplorato in forma estensiva tutta l’area archeologica individuata (circa 2 ettari). Va detto che gli scavi hanno riportato alla luce una parte della proprietà pliniana meno ricca e sontuosa della villa in Tuscis vera e propria, quindi sicuramente non la zona residenziale. Rispetto alla fonte scritta che la descrive (l’epistola

di Plinio ad Apollinare), ci sono varie corrispondenze, quali l’orientamento generale, la fronte porticata, l’atrio che vi si apre al centro, ma anche differenze sostanziali, tra cui la destinazione stessa di gran parte della villa indagata, che non corrisponde a quella desumibile dalla lettera pliniana. Gli scavi aggiungono interessanti tasselli al quadro d’insieme deducibile prima solo dalla lettera, e grazie allo studio delle testimonianze materiali rinvenute è possibile ricostruire la storia di questa residenza e del luogo in cui sorge.

UNA VILLA ROMANA IN UN SANTUARIO ETRUSCO La villa non fu costruita ex novo da Plinio. A posare la prima pietra, infatti, fu Marco Granio Marcello, tra il 2 a.C. e il 15 d.C., che non scelse un luogo qualsiasi, ma un piccolo centro religioso etrusco che marcava il guado di un torrente, lungo una via antichissima, battuta ogni anno dai pastori in transumanza.

Ricostruzione della Villa di Plinio il Giovane proposta nel Museo Archeologico della Villa di Plinio il Giovane. Celalba di San Giustino (Perugia), Villa Magherini Graziani. Nella pagina accanto: veduta aerea di Colle Plinio e del campo di Santa Fiora, teatro degli scavi della villa in Tuscis di Plinio il Giovane.

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SCAVI • UMBRIA

Lí sorgevano un tempio etrusco con la statua in legno di una dea, un bel piazzale accuratamente acciottolato per le esigenze del culto, nonché un mercato nel quale vendere anche i vasi che colà si producevano, come testimonia la presenza di una fornace di ceramica a vernice nera. La pietà religiosa da buon romano superstizioso gli consigliò di spostare la statua in un nuovo sacello e di conservare la tradizionale festa annuale che si celebrava alle Idi di settembre (il 13) in onore di una divinità etrusca che Marcello interpretò – o meglio romanizzò – come Cerere/Flora, la dea romana del grano maturo o in erba: perfetta per tutelare anche la gens Grania!

«VORREI QUATTRO COLONNE DI MARMO...» Un secolo piú tardi Plinio il giovane acquistò la villa e, volendo onorare la dea, sostituí la vecchia statua lignea tarlata con una di marmo, che pose in un nuovo tempio con tanto di portico intorno, pensato per celebrare comodamente la consueta festa di settembre. Scrive infatti Plinio all’architetto

Mustio (Lettere, 9.39): «Caro Mustio, per un avvertimento degli aruspici debbo ricostruire, abbellendolo e ingrandendolo, il tempio di Cerere che è nei miei possedimenti, ed è assai vecchio e angusto eppure nel giorno stabilito è largamente visitato. Infatti alle Idi di settembre da tutta la regione confluisce una gran folla, si trattano molti affari, si fanno e si compiono molti voti. Ma non v’è nei pressi nessun riparo dalla pioggia e dal sole. Darò pertanto prova di munificenza e al tempo stesso di religiosità se farò costruire un tempio il piú bello possibile, cui affiancherò un porticato, quello per uso della dea, questo per gli uomini. Vorrei perciò tu comperassi quattro colonne di marmo, secondo il tuo gusto, e comperassi dei marmi per rivestire il pavimento e le pareti. Bisognerà anche far fare una statua di quella dea, giacché quella antica di legno è smozzicata in parecchi punti a cagione della sua vetustà. Quanto al porticato, non mi viene in mente nulla per ora, che tu debba ricercare costí, se non forse che tu mi mandi un disegno adatto al luogo. Non posso infatti circondare tutto il tempio: giacché il terreno ove esso sorge è limitato da una parte dal fiume con delle rive scoscese e

In basso: un settore degli scavi della Villa di Plinio il Giovane.

dall’altra dalla strada. Oltre questa vi è uno spazioso prato, che sarebbe un luogo abbastanza adatto per sviluppare, in faccia al tempio, il colonnato; se però non troverai una miglior soluzione tu, che sei capace con la tua bravura di superare gli ostacoli del terreno. Addio» (traduzione di Luigi Rusca). La ricostruzione del grande porticato col sacello al centro divenne la facciata monumentale del rinnovato complesso agricolo che ridusse la parte residenziale della vecchia villa di Granio e ampliò le corti contornate da annessi e case coloniche. Sembra la prova archeologica di quel passaggio alla mezzadria che Plinio stesso lamenta di aver dovuto subire a causa dell’impossibilità dei suoi numerosi coloni di pagare il canone 80 a r c h e o


nel giorno di San Cipriano (martirizzato il 14 settembre), titolare della pieve che sovrasta l’antica villa dall’alto del colle retrostante. Ma come si spiega questa straordinaria persistenza di tradizioni e culti attraverso i secoli, che legano la Roma antica, la valle del Tevere, e l’antico mondo etrusco in un continuum religioso e culturale? Una festa che si svolgeva a Roma alle Idi di settembre era quella dedicata a Giove Capitolino, culto introdotto dalla monarchia etrusca, che eresse il grandioso tempio con le tre celle dedicate a Giove, Giunone e Minerva. Sappiamo da Livio che sulla parete di questo tempio, verso la cella di Minerva, ogni anno, proprio il giorno delle Idi di settembre, veniva infisso un chiodo (clavus annalis) allo scopo di segnare concretamente e visibilmente il numero degli anni e di «inchiodare», oltre al tempo, anche il destino della città. Sempre Livio ci informa che questa cerimonia aveva riscontro in Etruria, dove nel tempio della dea Nortia, a Volsinii, veniva annualmente infisso un analogo chiodo. Anche in questo caso si ipotizza che il contesto della celebrazione riguardasse in realtà il Giove etrusco (Tinia). Poin denaro. Sorse infatti a quel punto l’esigenza di avere nuovi spazi a disposizione per accumulare la parte dei prodotti agricoli spettanti al proprietario, in attesa della vendita sul mercato, anche via Tevere.

In alto: plastico degli scavi della Villa di Plinio. Celalba di San Giustino (Perugia), Museo Archeologico della Villa di Plinio il Giovane. Qui sopra: bollo laterizio con la scritta CPCS, Caius Plinius Caecilus Secundus. Celalba di San Giustino (Perugia), Museo Archeologico della Villa di Plinio il Giovane. A destra: ricostruzione del Tempio di Cerere nella Villa di Plinio il Giovane.

CONTINUITÀ DI TRADIZIONI E DI CULTI Il passare dei secoli vide altri padroni, tra cui l’imperatore stesso. Infine, il sito venne abbandonato come unità produttiva agricola attorno al V-VI secolo. Non si persero, tuttavia, il carattere sacro del luogo e l’uso millenario della festa di metà settembre. Sulle rovine, una chiesetta medievale dedicata a santa Flora perpetua forse nel nome quel culto femminile, mentre la festa ora cade a r c h e o 81


SCAVI • UMBRIA Una sala del Museo Archeologico della Villa di Plinio il Giovane allestito nella Villa Magherini Graziani a Celalba di San Giustino.

82 a r c h e o


LA VILLA NELLA VILLA All’interno della seicentesca Villa Magherini Graziani a Celalba, frazione del comune umbro di San Giustino, è stato allestitto l’affascinante Museo della Villa di Plinio il Giovane (61-112 d.C.), oratore della prima età imperiale e governatore della Bitinia sotto Traiano. Questa raccolta non custodisce soltanto materiali archeologici rinvenuti durante gli scavi della villa di Plinio a San Giustino, ma anche preziose informazioni sulla vita quotidiana, gli usi e le tradizioni dell’epoca romana. Al primo piano sono illustrati gli scavi attraverso plastici e ricostruzioni tridimensionali ed esposti i reperti piú significativi emersi dalle operazioni di scavo nella località Colle Plinio.

trebbe essere questa presenza femminile (Minerva a Roma, Nortia in Etruria) a fornire una possibile spiegazione del perché nell’etrusca valle del Tevere esistesse un’antica divinità femminile celebrata il 13 settembre, data fissa legata in origine al capodanno. D’altra parte, la dea etrusca Nortia veniva identificata con la romana Fortuna, dalle competenze in parte sovrapponibili a quelle di Cerere, come provano alcune gemme antiche dove si vede una dea del grano (Cerere) che ha anche gli attributi di Fortuna. Prova, se mai ce ne fosse bisogno, che le entità religiose antiche stavano entro categorie e rappresentazioni dai contorni meno netti di quanto le nostre esigenze classifi-

I visitatori possono ammirare oggetti d’ornamento personale, fine vasellame da mensa, anfore, monete e bolli laterizi che recano iscrizioni grazie alle quali è possibile raccontare la storia della villa e dei suoi proprietari. Al pianterreno e nel piano interrato dell’edificio viene documentata la storia del paesaggio agrario altotiberino: il territorio nel periodo romano viene illustrato in tutti i suoi aspetti, dalla centuriazione alle colture praticate, in primis quella della vite. Inoltre, il museo presenta sezioni multimediali che approfondiscono le connessioni tra Plinio il Giovane e la regione. Una gemma da non perdere per gli appassionati di storia e archeologia.

catorie richiedono. Meno di 30 km in linea d’aria a ovest di Colle Plinio si trova un interessante luogo di culto etrusco: il santuario di Castelsecco di Arezzo, dove veniva venerata una divinità femminile, insieme a Tinia (di nuovo il sommo dio…).

DA CERERE A SAN CIPRIANO La dea aveva competenze anche per le nascite, a giudicare il gran numero di bambini votivi in fasce rinvenuti nell’area sacra. Non si sa molto di piú sul culto e tantomeno se vi fosse una qualche festa annuale importante, ma ci piace segnalare che anche sopra questo antico santuario sorse nel Medioevo una chiesa dedicata a san Cipriano. In alto: Villa Magherini Graziani a Celalba di San Giustino. A sinistra: intonaci dipinti della Villa di Granio Marcello. Celalba di San Giustino (Perugia), Museo Archeologico della Villa di Plinio il Giovane.

Compiendo un lungo salto verso sud, ricordiamo che il giorno di questo santo (il 14 poi il 16 settembre) si teneva il celebre mercato di Consilinum, non lontano dalla Certosa di Padula, tra Campania e Lucania. Cassiodoro (VI secolo) ci racconta che ancora al suo tempo si celebrava questo antichissimo mercato annuale presso una sorgente d’acqua prodigiosa dedicata a Ino Leucothea, dea, tra l’altro, delle nascite. Siamo nel Vallo di Diano, dove si spinsero i primi Etruschi che si insediarono in Campania. Sembra insomma che i Romani nell’Alta Valle del Tevere precursori di Plinio abbiano trovato, e poi reinterpretato, culti antichissimi già appartenuti agli Etruschi, proprio in quelle terre che Plinio stesso, del resto, definiva in Tuscis. Sono esili frammenti di una lunghissima storia possibile, ancora in parte da indagare. a r c h e o 83


SPECIALE • DOMUS AUREA

IL CIELO IN

UNA STANZA LA SALA OTTAGONA È L’AMBIENTE PIÚ CELEBRE DELLA DOMUS AUREA, LA SONTUOSA VILLA URBANA REALIZZATA PER VOLERE DELL’IMPERATORE NERONE – DOPO IL FAMIGERATO INCENDIO DEL 64 D.C. – AL CENTRO DI ROMA, SUL LUOGO DI UN PRECEDENTE PALAZZO (LA DOMUS TRANSITORIA) ED ESTESA SU AMPIA PARTE DEI COLLI PALATINO, ESQUILINO E CELIO. LA GRANDE SALA, OGGI RICOPERTA – INSIEME A TUTTE LE RESTANTI VESTIGIA DELLA DOMUS – DAI GIARDINI E DALLE STRUTTURE DELLA CITTÀ MODERNA, RAPPRESENTA LA PRIMA COSTRUZIONE A CUPOLA ERETTA SU PIANTA OTTAGONALE. IL SUO ASPETTO ORIGINARIO E LA SUA FUNZIONE SCENICA SONO OGGI AL CENTRO DI UNA NUOVA, AFFASCINANTE IPOTESI INTERPRETATIVA... di Stefano Borghini e Alessandro D’Alessio In alto: Domus Aurea. Complesso della sala ottagona, ipotesi ricostruttiva renderizzata della copertura a cassettoni aperti della cenatio rotunda. Nella pagina accanto: ritratto in marmo dell’imperatore Nerone (37-68 d.C.). XVII sec. Roma, Musei Capitolini. 84 a r c h e o


UNA NUOVA VECCHIA IDEA... Cenationes laqueatae tabulis eburneis versatilibus, ut flores, fistulatis, ut unguenta desuper spargerentur; praecipua cenationum rotunda, quae perpetuo diebus ac noctibus vice mundi circumageretur Le sale da pranzo avevano soffitti coperti da lastre di avorio, mobili e forate in modo da permettere la caduta di fiori e profumi. La principale di queste sale era rotonda, e girava continuamente, giorno e notte, su se stessa, come il mondo (Suet., Nero, XXXI, 1)

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on queste scarne eppure affascinanti parole Svetonio, nella Vita di Nerone, descrive la sontuosa cenatio rotunda della Domus Aurea, la sala da pranzo che «incessantemente girava su se stessa come il mondo». Cercata per decenni in diversi luoghi fra quelli anticamente ricompresi nell’area della immensa reggia imperiale (estesa su una superficie di quasi cento ettari tra Palatino, Celio, Velia ed Esquilino) ed erroneamente identificata piú di recente nella grande struttura «a torre» scoperta a Vigna Barberini (emulazione forse del Faro di Alessandria), ne abbiamo ora rintracciato le vestigia – non poche come mostreremo – proprio lí dove era già stato ipotizzato potesse stare, ma senza prove certe: all’interno cioè della sala ottagona del grande padiglione di Colle Oppio. Appena pubblicata negli Atti della Giornata di studi in memoria di Fedora Filippi (a lungo responsabile del monumento e alla quale vogliamo idealmente dedicare anche questo contributo), tenutasi presso l’Istituto Germanico di Archeologia in Roma nel set-

tembre 2022, e in corso di stampa anche nella prestigiosa rivista Archeologia Classica, abbiamo già presentato questa nostra ipotesi, fortemente corroborata da dati nuovi e convergenti, al convegno «L’Otium è rivelatore. Imperator i e otium tra archeologia e letteratura», tenutosi alla «Sapienza» Università di Roma nel maggio 2022 (atti di prossima edizione), e ancora, nel marzo 2023 alla IX edizione di «Luce sull’archeologia. Magnificenza e lusso in età romana: spazi e forme del potere tra pubblico e privato», organizzata come ogni anno dal Teatro di Roma in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Studi Romani e con «Archeo», che qui ci ospita. La r iproponiamo sia per condividerla con il vasto pubblico di lettor i della rivista, sia per rispondere ad altre recenti fantasiose ricostruzioni che sembrano «ispirarsi» ai dati da noi presentati per collocare la stanza perduta in imprecisati e indimoa r c h e o 85


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SPECIALE • DOMUS AUREA

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strabili luoghi altri della reggia neroniana. P.za Quirinale Fondamentalmente, la nostra tesi poggia Colonna sull’individuazione di una cospicua serie di le elementi superstiti e di tracce archeologina zio che molto ben riconoscibili sull’intradosso a N V. della copertura in cementizio della sala ottagona, che da volta a padiglione nella porzione inferiore si trasforma in una vera e propria cupola in quella superiore, come l V. de

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L’attuale ingresso al padiglione della Domus Aurea sul Colle Oppio. P.za Esquilino V. Ca vo ur

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A sinistra, in alto: l’area archeologica centrale di Roma, con l’ubicazione della Domus Aurea e, qui accanto, planimetria dei resti del complesso individuati sul Colle Oppio con, evidenziata in colore rosso, l’aula ottagona, che avrebbe accolto la cenatio rotunda.


anche sul suo estradosso (a poca distanza dal grande oculo centrale) e negli ambienti limitrofi e circostanti alla sala stessa, e ancora in talune strutture messe in luce da Laura Fabbrini negli anni Ottanta del secolo scorso sul piano soprastante del padiglione di Colle Oppio.

UN MARCHINGEGNO PORTENTOSO Ne scaturisce la possibilità concreta di ricostruire un’articolata controcalotta a griglia, ovvero a cassettoni/lacunari traforati, aperti, svuotati (si pensi, per averne un’idea, alla meravigliosa cupola del Pantheon, sebbene qui i cassettoni siano pieni e immobili), realizzata in legno rivestito di avorio o bronzo, che doveva ruotare continuamente, diebus ac noctibus (giorno e notte) appunto, subito a ridosso della superficie interna della copertura della sala, con ogni probabilità rivestita a sua volta

di lamine in bronzo dorato dotate di decorazioni a soggetto forse astronomico. Un portentoso marchingegno, dunque, escogitato dai magistri et machinatores Severo e Celere (i progettisti della Domus Aurea) nel solco della tradizione tecnologica ellenistica e pienamente in linea con gli allestimenti delle sale da pranzo in voga nel I secolo d.C., come apprendiamo e riscontriamo puntualmente nei testi degli autori latini del tempo quali Seneca, Petronio e lo stesso Svetonio. Una struttura rotante il cui moto continuo e uniforme doveva essere assicurato da un meccanismo verosimilmente idraulico la cui ideazione e realizzazione si rivelano, come pure vedremo, altrettanto prodigiose e affascinanti, cosí come strabilianti sembrano essere i significati di natura astronomica rinvenibili nella struttura medesima della controcalotta. Alessandro D’Alessio a r c h e o 87


SPECIALE • DOMUS AUREA

SOFFITTI GIREVOLI E DORATI APPESI SOPRA LE LORO TESTE Sulla cenatio rotunda della Domus Aurea e sulle consimili sale da pranzo in uso nel I secolo d.C. esistono diverse fonti letterarie, coeve o di poco successive. Oltre al già citato passo di Svetonio (Nero, XXXI, 1; vedi in apertura, a p. 85), è innanzitutto Tacito (Annales, XV, 42) a riferirci della progettazione della grande reggia neroniana da parte dei magistri et machinatores Severo e Celere (maestri e «ingegneri», «allestitori», «scenografi», prima ancora che architetti), il cui ingenium e la cui audacia avevano consentito loro di creare con l’artificio (per artem) ciò che la natura aveva negato (quae natura denegavisset). I soli, in altre parole, che avrebbero saputo soddisfare quella «smania di cose impossibili» (incredibilium cupitor) che animava la personalità di Nerone. Ma sono alcuni pur noti brani di Seneca (Epistulae, XC, 9 e 15) e di Petronio (Satyricon, LX) a fornirci informazioni preziose sia per la ricostruzione della controcalotta a griglia della cenatio, sia, e piú direttamente, sull’allestimento di altre contemporanee cenationes. Nell’Epistola 90, Seneca afferma infatti che gli antichi «non costruivano dimore con stanze destinate ai banchetti» e che «pini e abeti non venivano trasportati in lunghe file di carri (...) per trasformarli in soffitti carichi d’oro sospesi sulle loro teste»; poco piú avanti parla inoltre di «chi ha trovato il modo di spruzzare a grandi altezze, attraverso condotti invisibili, essenze profumate» e ancora di «chi riempie i canali con un improvviso getto d’acqua o li prosciuga, e congiunge i soffitti girevoli delle sale da pranzo in modo che si susseguano immagini diverse e il tetto cambi tante volte quante

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sono le portate». E proprio a queste parole Svetonio si sarebbe ispirato per la sua descrizione della praecipua cenatio rotunda. Petronio invece, nel racconto della cena Trimalchionis, dice che «all’improvviso il soffitto si mette a scricchiolare e l’intera sala traballa (...) la volta si spalanca e all’improvviso viene giú un grosso cerchio (forse tolto da un’enorme botte), lungo il cui intero perimetro erano appese delle corone d’oro e delle boccette di alabastro piene di profumi», ribadendo di fatto come in questo genere di sale da pranzo i soffitti potessero aprirsi, muoversi e appunto anche ruotare. Se ci soffermiamo poi su taluni termini specifici utilizzati da questi autori, scopriamo come essi ci restituiscano i significati piú genuini e utili a rafforzare la nostra ipotesi ricostruttiva della sontuosa cenatio neroniana. Non è un caso, per esempio, che laquear, «soffitto» (a cassettoni), derivi da laqueus, cioè «laccio», «rete», «maglia», in quanto una copertura a riquadri/ cassettoni evoca un reticolo di corde, esattamente come la nostra controcalotta. Ed è proprio una struttura di questo tipo che permetterebbe di rendere apribili questi soffitti e di rivestirli di «lastre (d’avorio) mobili e forate», come testimonierebbe anche il verbo coagmento/coagmentare, cioè «congiungere/connettere», «mettere (piú cose) insieme», e quindi comporne e scomporne gli elementi cosí da poterli trasformare affinché «il tetto cambi tante volte quante sono le portate» di un pranzo. Analogamente, anche il ricorso a lacunar/lacunaria di Seneca e Petronio indica ancora una volta la presenza dei cassettoni, ovvero di soffitti caratterizzati da «cavità»,

«vuoti», «mancanze»; lacunaria che possono anche essere «staccati», «separati» o «spalancati» (diductis), per consentire di farvi scendere qualcosa (subito circulus ingens (...) demittitur nella cena Trimalchionis) o tenerla appesa, come mostra l’auro gravia penderent (da pendeo/ pendere) di Seneca.


Domus Aurea. Vista della sala ottagona (ambiente 128) con i suoi ambienti radiali.

Infine, il versatilia cenationum laquearia e il cenationes laqueatae (...) versatilibus di Seneca e Svetonio altro non dicono se non che questi soffitti di sale da pranzo potevano muoversi, ruotare, perché versatilis (dal verbo verso/versare)

significa appunto «girevole», «mobile», come conferma Vitruvio (V, 6, 8) nella sua descrizione delle macchine sceniche nei teatri: «machinae versatiles trigonoe habentes singulares species ornationis» che, al variare delle

situazioni (cum aut fabularum mutationes sunt futurae), «con improvviso rimbombo (cum tonitribus repentinis) ruotano e mutano appunto la scena» (versentur mutentque speciem ornationis in frontes). (A. D.)

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SPECIALE • DOMUS AUREA

MAI VISTI PRIMA: I SEGNI DI QUALCOSA DI UNICO di Stefano Borghini

F

ra i piú sorprendenti complessi architettonici dell’antichità, il compendio della sala ottagona di Colle Oppio, con la corona di ambienti che a essa afferiscono e a cui compositivamente – e simbolicamente – si relazionano, fu liberato dalla terra agli inizi degli anni Trenta del secolo scorso. Sono dunque ormai quasi cento anni che le strutture di tale straordinario monumento sono leggibili e si offrono nude alla vista degli specialisti, e piú recentemente dei visitatori, sfidandoli a immaginare le forme articolate e sontuose degli ambienti cosí come erano state pensate da Nerone e dai suoi architetti. Su di esse sono state scritte pagine memorabili da studiosi del livello di John B. Ward-

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Perkins e di Larry F. Ball, che ne hanno intravisto (soprattutto nell’articolato gioco dei volumi e nel complesso meccanismo delle strutture in cementizio) i prodromi di una rivoluzione architettonica incentrata sulla tecnica delle volte romane, mentre altri, come Hans Peter L’Orange, e piú di recente Giulio Magli, Robert Hanna e Antonella Palmieri, ne hanno sottolineato gli strepitosi significati simbolici incentrati in particolare nell’oculo centrale e nei giochi di luce certamente allusivi alla sfera solare, vera protagonista dell’intera domus neroniana. Giorgio Rocco alla metà degli anni Ottanta del Novecento, ricostruí con precisione il pattern decorativo dei marmi della sala (le sue

Quattro delle otto asportazioni sull’intradosso della cupola della sala ottagona, evidenziate e numerate in ordine progressivo. Nella pagina accanto, in basso: rilievo di Elio Paparatti di tutte e otto le asportazioni.


pareti infatti erano interamente rivestite di incrostazioni marmoree) basandosi sulle tracce delle preparazioni in malta, al punto da permettere una ricostruzione attendibile, seppur sempre ipotetica (nessun frammento

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B In alto: il sistema di ancoraggio della controcalotta della cupola del cosiddetto Heliocaminus di Villa Adriana nella ricostruzione di Cairoli Fulvio Giuliani. In alto, a sinistra: A. impronta dell’asportazione n. 2; B. la stessa impronta vista da altra angolazione e con evidenziate le tracce e le forme degli elementi metallici costitutivi. a r c h e o 91


SPECIALE • DOMUS AUREA

marmoreo di questo ambiente si è conservato perché tutti già asportati in antico da Traiano) degli alzati di questi ambienti. Assai piú lacunose apparivano le ipotesi ricostruttive dei pavimenti e, soprattutto, della finitura della cupola, che, contrariamente a quasi tutte le altre volte della domus, non era mai stata ricoperta da intonaci affrescati.

TRACCE EVIDENTI, EPPURE IGNORATE La cosa piú sorprendente è che, in quasi cento anni di ricerche e di indagini, di restauri e interventi di messa in sicurezza sulle strutture, nessuno o quasi abbia notato (o saputo leggere) alcune tracce evidentissime e molto particolari presenti sull’intradosso e sull’estradosso della cupola/volta a padiglione; oppure, anche quando questi segni siano stati notati e interpretati, come non siano mai stati messi a sistema per tentare di darne una lettura univoca e funzionale a una ricostruzione attendibile dell’intero apparato decorativo della sala.

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L’estradosso di copertura della sala ottagona in una fotografia scattata durante gli scavi del 1931. Nella pagina accanto, dall’alto: appunti di Elio Paparatti e tre serie di fori sopra le piattabande evidenziate.

Il primo di questi elementi, che salta immediatamente all’occhio, alzando lo sguardo sulla cupola, o pseudo-cupola, e che sempre personalmente ci ha fatto interrogare sul suo reale significato funzionale, è la presenza di otto grandi asportazioni, irregolari nella forma, ma tutte precisamente collocate laddove la linea delle falde della volta a padiglione va a morire nell’imposta della vera e propria cupola. Queste otto mancanze nel cementizio sono fortemente depresse e presentano un fondo piuttosto irregolare che dal basso non consente di capirne forma e origine. È stato solo grazie all’uso di un trabattello, impiegato per un intervento di manutenzione sulla cupola, che ci siamo potuti avvicinare a queste mancanze per leggerne con attenzione le caratteristiche. Per accorgersi che, contrariamente a quanto pensava Guglielmo De Angelis D’Ossat, quegli scassi non erano stati

Sezione del settore della sala ottagona pubblicata da Gustavo Giovannoni nel 1938.

affatto realizzati come apprestamenti per la costruzione della copertura, ma per l’esatto contrario. Il fondo di quelle che devono a tutti gli effetti riconoscersi come asportazioni (perché su di esse si notano ancora molto chiaramente i colpi di piccone portati contro la superfice a r c h e o 93


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della volta) presenta le chiare impronte di due elementi, ciascuna caratterizzata dalla traccia di una barra rettangolare orizzontale con lunghezze che variano tra i 20 e i 30/35 cm e altezze di 3/4 cm circa. Nella mezzeria di ogni impronta si notano altre tracce, ortogonali alle prime, che presentano sporgenze massime di 4 cm circa.

UNA SOLUZIONE INEDITA In realtà questi elementi intermedi interrompono con un’impronta piú profonda le barre orizzontali e mostrano, rispetto a queste, un fondo curvilineo evidentissimo. In questi segni, su cui in molti casi si vedono ancora tracce di materiale metallico aggrappato alla malta (ferroso o bronzeo), dobbiamo riconoscere la presenza in negativo di grappe di ancoraggio, simili a quelle che Cairoli Fulvio Giuliani individuò nel cosiddetto Heliocaminus di Villa Adriana, ma in questo caso non distribuite su tutta la superficie della cupola, bensí concentrate a due a due su una circonSpaccato assonometrico della sala ottagona, con evidenziata la sezione della cupola.

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ferenza di mezzeria. Sia Elio Paparatti, storico restauratore della Domus Aurea, che, piú recentemente, Cinzia Conti e Giangiacomo Martines avevano già notato tali elementi: questi ultimi studiosi li avevano attribuiti (pur senza accorgersi del raddoppio delle impronte per ciascun ancoraggio) a un sistema di appendimento per una controcalotta, mancando tuttavia di definirne meglio il funzionamento. Rimane il fatto che una tipologia di appendimenti di questo genere, concentrati lungo una circonferenza, non ha alcun precedente noto. Piú sotto, all’imposta della volta a padiglione, esattamente sopra le piattabande dei grandi portali di accesso alla corona di ambienti circostante la sala, si notano altri fori (due per ogni piattabanda, approssimativamente collocati a 1/3 e a 2/3 della luce dell’apertura, e forse anche all’angolo tra una falda e l’altra) somiglianti a fori da ponte, ma, diversamente da questi, non passanti. Anch’essi possono essere interpretati come incassi per


In alto: modello 3D della sala che mostra l’inserimento delle rotaie sospese e in corrispondenza dei solchi superiori. A sinistra: schema statico del comportamento delle forze in corrispondenza delle due tipologie di appendimenti.

un sistema di sostegno diverso dal precedente, potremmo dire per un appoggio di qualcosa, che nuovamente segue una circonferenza ideale, ma in questo caso allineata all’imposta della volta. Al di sopra, invece, sull’intradosso e a poca

distanza dall’oculo centrale, una fotografia scattata durante gli scavi del 1931 rivela chiaramente la presenza di un doppio solco concentrico, una sorta di rotaia raddoppiata realizzata direttamente all’interno del cementizio di cui la cupola è costituita. a r c h e o 95


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A lungo piú evocata e quasi sussurrata dalla letteratura specialistica, che sostenuta con convinzione, dato che un deprecabile intervento di restauro del secondo dopoguerra ne aveva da molto tempo occultato la visibilità, l’esistenza di questi segni concentrici fu al centro di un famoso articolo degli anni Settanta di Helmut Prückner e Sebastian Storz e poi, inspiegabilmente dimenticata. Tuttavia, la presenza di tali segni non sembra poter essere messa in dubbio, tanto per la foto del 1931 in cui risultano evidentissimi, quanto per il rilievo del 1938 di Gustavo Giovannoni (non proprio uno sprovveduto) dove vengono riportati senza esitazioni. Persino la forma particolare della sezione della parte sommitale della cupola, che, contrariamente a quanto vorrebbe la logica strutturale e costruttiva, va ad allargarsi a partire dalla mezzeria dell’elemento anziché restringersi, sembra giustificarsi solo con la necessità di ospitare sull’intradosso un oggetto dimensionalmente rilevante. L’insieme di questi dati e degli altri che in seguito diremo, segnano un quadro che non ha precedenti e che sembra non avere confronti diretti. L’ipotesi che ne deriva è che le due guide, realizzate in muratura, siano parte di un articolato e ingegnoso meccanismo per un soffitto rotante (di cui farebbero parte altrettante rotaie metalliche sospese, corrispondenti una alla linea di mezzeria – le grappe relative alle asportazioni – e l’altra alla linea di imposta – i fori al di sopra delle piattabande): una controcalotta semovente che ci porta a identificare, con una certa convinzione, lo spazio centrale del complesso ottagonale dell’Oppio come luogo ideale per ospitare la cenatio rotunda descritta da Svetonio.

UN LAVORO METICOLOSO Un ulteriore elemento, questo ancora oggi osservabile, sembra corroborare e sostenere la ricostruzione di un oggetto di rivestimento della cupola in potenziale rotazione: la portentosa ghiera dell’oculo centrale, realizzata in 96 a r c h e o


Schema della dislocazione dei chiodi secondo i cinque paralleli della volta dell’aula ottagona. Nella pagina accanto, dall’alto: ghiera di bipedali dell’oculo della cupola, con evidenti segni di scalpellamento e appunto di Cinzia Conti e Giangiacomo Martines, da cui si evince il dettaglio tecnico del trattamento dei singoli laterizi della ghiera; una delle file di coppie di chiodi, collocate lungo i cinque meridiani della cupola. In basso: dettaglio di una coppia di chiodi.

bipedali ben allettati, fu scalpellata verso l’intradosso dopo la sua posa in opera. Un lavoro meticoloso e certamente oneroso, in termini di tempistiche e di manodopera, che sarebbe stato del tutto superfluo nel caso che la volta fosse stata rivestita. Non cosí invece se immaginassimo l’inserimento, magari effettuato in

corso d’opera, di un oggetto sospeso e rotante: per evitare che lo spigolo retto della ghiera potesse intralciarne il movimento, la stessa venne sagomata a mano dopo l’allettamento.

L’ULTIMO ENIGMA Rimane apparentemente solo un ostacolo alla risoluzione di un rebus archeologico cosí complesso e che presenta tanti segni che paiono tuttavia muoversi verso un’unica soluzione: si tratta di una serie di impronte di chiodi, centinaia, distribuiti in maniera uniforme sul cementizio di intradosso della cupola, e spesso anch’essi scalpellati. Come giustificare la presenza di questi agganci, la cui articolazione (quasi sempre sono accorpati a coppie secondo un andamento diagonale) lascia immaginare che servissero a far aderire all’estradosso un rivestimento in lamine metalliche a lembi sovrapposti? Come far convivere una pelle forse in bronzo dorato, con una controcalotta in movimento che ne avrebbe occultato gli effetti? La soluzione è scaturita ancora una volta dall’osservazione dei segni archeologici e dal confronto con un esempio illustre e potenzialmente erede della cenatio neroniana. La distribuzione dei segni è infatti sí omogenea, ma organizzata secondo cinque circonferenze paa r c h e o 97


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rallele che «sezionano» la volta, rimanendo tra loro approssimativamente equidistanti. Il sistema di ancoraggio delle pannellature sembra dunque progettato in modo tale da poter essere facilmente nascosto alla vista, immaginando 98 a r c h e o

di sovrapporre alla cupola una griglia emisferica articolata in almeno cinque paralleli, tanti quante sono le linee di distribuzione dei chiodi, a eccezione di un’ampia fascia a ridosso dell’oculo sommitale. Ma, a ben vedere, questa


L’inserimento della controcalotta traforata, nel modello 3D della sala ottagona. Nella pagina accanto, dall’alto: l’intradosso cassettonato della cupola del Pantheon; ipotesi di restituzione volumetrica della controcalotta dell’aula ottagona. In basso, sulle due pagine: la cupola del cosiddetto Lupercale, ninfeo situato alle pendici sud-occidentali del Palatino.

è proprio l’organizzazione architettonica del sistema cassettonato del Pantheon: cinque meridiani sui cui si distribuiscono i 140 lacunari della copertura, con un’ampia fascia a risparmio tangente all’oculo centrale. Immaginiamo ora di separare la «struttura» grigliata del Pantheon e di farne un apparato mobile a lacunari svuotati, in costante movimento su un fondo fisso brillante e dorato: avremmo di fronte agli occhi l’immagine di quella che piú verosimilmente, in base alla nostra ipotesi, si avvicina alla straordinaria stanza neroniana evocata dalle parole di Svetonio, e che perfettamente si inseriva nella tradizione nella cultura ingegneristica dell’architettura di spettacolo di matrice alessandrina. Una tipologia di architettura, quella cassettonata applicata alle cupole con oculo centrale, che potrebbe essere evocata anche dal ninfeo alle pendici sud-occidentali del Palatino (il cosiddetto Lupercale), probabilmente anch’esso neroniano, e che qui nella Domus di Colle Oppio avrebbe mostrato invece tutta la sua unicità nello stupefacente meccanismo di rotazione. a r c h e o 99


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IL SOLE, LE STELLE, IL MOTO DEI PIANETI di Alessandro D’Alessio

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ome abbiamo visto, la controcalotta rotante della cenatio rotunda è paragonabile, nella sua trama «strutturale» e nei caratteri formali ed estetici che la informano, all’intradosso della cupola del Pantheon. A ben guardare, e considerando anche il precedente del ninfeo del Palatino, sembra anzi essere proprio la costruzione neroniana In basso: il cielo stellato su Roma agli inizi degli anni Sessanta del a costituire il modello o «archetipo» dell’e- I sec. d.C. (ringraziamo Giulio Magli per questa immagine).

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Nella pagina accanto, in alto: ipotesi di ricostruzione della controcalotta dell’aula ottagona e alcuni dei suoi significati numerico/ astrologici.

misfera del Pantheon, la quale ci consente a sua volta, pur nella sua maestosa fissità, di avanzare alcune suggestive ipotesi sui significati simbolici di entrambe. Come nella controcalotta della cenatio, che abbiamo ricostruito in base a questo confronto, anche la cupola del Pantheon risulta scandita e decorata da cinque ordini di ventotto cassettoni o lacunari di grandezza progressivamente decrescente dal basso verso l’alto, a eccezione dell’ampio fascione liscio circostante l’oculo. Quale accezione aveva, o potrebbe aver avuto, questo tipo di trattamento materico ed estetico della volta? Per rispondere conviene rivolgersi alle fonti letterarie, e piú in particolare a Cassio Dione.

28 E 7, I NUMERI PERFETTI In un passo della sua Storia romana (LIII, 27), l’autore latino sostiene infatti che il Pantheon era cosí chiamato perché ospitava le statue di numerose divinità (Marte e Venere in primis, progenitori divini dei Romani), ma anche, e forse soprattutto, perché la sua cupola richiamava l’immagine del cielo. E in effetti, il numero 28, quello dei cassettoni/lacunari di ciascun ordine in cui è scandita, era considerato dagli antichi un numero perfetto, somma di 1+2+3+4+5+6+7, mentre 1+2+4+7+14 da egualmente 28, che è divisibile per ciascuno degli addendi. Anche il 7 era ritenuto simbolo di perfezione, perché sette erano i pianeti visibili a occhio nudo: Marte e Venere per l’appunto, Mercurio, Giove, Saturno e, per gli antichi, anche il Sole e la Luna (dai quali tutti derivano i nomi dei giorni della settimana che ancora oggi utilizziamo). Ora, la controcalotta della cenatio rotunda da noi ricostruita presenta la stessa scansione «strutturale» e numerica, al punto che se ne può avanzare una medesima esegesi cosmologica/cosmografica. Anche nella sala ottagona della Domus Aurea la volta e la sua controcalotta (fissa e immobile l’una, «applicata» e rotante l’altra) alluderebbero, in forma sintetica e metaforica, a una raffigurazione della volta celeste, in cui il Sole è l’oculo centrale e zenitale, la Luna è evocata dai 28 lacunari per ordine (perché in ventotto giorni si susseguono le quattro fasi lunari principali), e gli «altri» cinque pianeti dai 5 ordini sovrapposti di lacunari. In altre parole, mentre la controcalotta a griglia rotante simboleggiava, con il suo moto continuo (diebus ac noctibus), i cin-

que pianeti che gli antichi chiamavano «vagabondi» (planetes asteres), perché si spostano rispetto alle stelle fisse del cielo, la retrostante cupola, ricoperta di lamine o pannelli presumibilmente bronzei e decorati (con le costellazioni?), raffigurava le stelle ritenute invece immobili, perché infinitamente distanti per poterne apprezzare il pur reale movimento. È anche possibile – sebbene non lo si possa provare – che sul rivestimento della volta fosse raffigurata una porzione del cielo stellato di Roma come la si vedeva al tempo, negli anni Sessanta del I secolo d.C., il che avrebbe colpito ed emozionato chi frequentava la sala ottagona come poche altre meraviglie al mondo. Se questa nostra ipotesi è corretta, come noi crediamo, lo scenografico allestimento della cenatio rotunda verrebbe inoltre a individuare una sorta di trasposizione architettonica di una sfera armillare, o astrolabio; con un legame diretto ai soffitti astronomici egizi fra cui quello del tempio di Hathor a Dendera, della metà del I secolo a.C., che poteva ben essere conosciuto dagli architetti di Nerone, o perlomeno dal suo astrologo e poeta di corte Leonida di Alessandria. Per quanto riguarda la sfera armillare, modello di quella celeste, ideata alla metà circa del III secolo a.C. da Eratostene di Cirene (che fu matematico, astronomo, geografo e filosofo), una vivida ancorché compendiaria immagine degli anelli che la compongono, ciascuno dei quali identifica un circolo della sfera celeste, ci è data dal famoso soffitto dipinto della Villa San Marco a Stabiae (il cosiddetto Planisfero delle Stagioni), di età flavia, dove sono rappresentati un globo e due anelli che si intersecano sugli assi, mossi dalle probabili personificazioni della Primavera e dell’Autunno.

LE PRIME TEORIE ELIOCENTRICHE Tornando infine al Sole, quale raffigurato dall’oculo tanto nella cenatio rotunda che nel Pantheon, è bene ricordare che anticamente, tra l’età ellenistica e il II secolo d.C., la concezione prevalente del sistema astronomico era quella eliocentrica, come sappiamo con certezza da Galileo in avanti. Già Eraclide Pontico prima di Eratostene (che peraltro seppe calcolare con notevole precisione la lunghezza della circonferenza della Terra), e quindi Aristarco di Samo e Seleuco a r c h e o 101


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di Seleucia dopo di lui, avevano infatti ipotizzato sia la rotazione del nostro pianeta sul proprio asse, sia la sua rivoluzione intorno al Sole, formulando le prime, chiare definizioni dell’eliocentrismo come lo conosciamo oggi: «fu dogma di Aristarco il moto della Terra», afferma Leopardi nella sua Storia dell’astronomia. Ancora al tempo di Nerone, del resto, Plinio il Vecchio (nat. hist., II, 70) e Seneca (nat. quaest.,VII, 25, 5-7) mostrano di aderire pressoché pienamente alla concezione eliocentrica, tanto che sarà solo con Tolomeo nel II secolo d.C. e con l’interpretazione dogmatica delle Sacre Scritture da parte del cristianesimo che quella geocentrica la soppianterà. Una concezione, questa dell’immobilità del Sole, che Seneca volle travasare nella sua lettura apologetica del regno di Nerone, se nell’Apocolocyntosis (IV, 1, 25-32) cosí scrive: «Quale Lucifero sperde la luce degli astri cadenti / quale Espero sorge annunciando il ritorno degli astri / Quale, al primo svanir delle tenebre, Aurora la luce / rosseggiando diffonde, e il Sole saluta la terra / Fulgido, e in corsa il suo cocchio avventa fuor dalle sbarre / Tale Cesare appare, tale fra poco Nerone / Roma saluterà».

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Affresco con rappresentazione di sfera armillare. Stabiae, Villa San Marco.

UN MOTORE AD ACQUA PER UNO SPETTACOLO DI LUCE Severo e Celere, i due architetti di Nerone, erano con ogni probabilità egiziani. Certamente alessandrina era la loro formazione culturale e tecnica, e probabilmente entrambi appartenevano a quella categoria di «meccanici» (oggi diremmo ingegneri) che avevano fatto della capacità di stupire con marchingegni a movimento automatico la loro principale prerogativa. Da Ctesibio, e dal suo allievo Filone di Alessandria, a Pappo, intere generazioni di «meccanici» si tramandarono la conoscenza tecnica e la capacità di inventare macchine e marchingegni, teatrali e non, in grado di ingenerare fra i contemporanei stupore e meraviglia. Tra questi, Erone fu contemporaneo di Nerone, e, anche se non possiamo rintracciare un collegamento diretto tra questi e gli architetti della Domus Aurea, certamente dobbiamo supporre che i due conoscessero il suo trattato sugli automata (le macchine dotate di movimenti automatici, appunto), che riscontrò grande successo in antico. Per Erone, i mezzi attraverso i quali i congegni meccanici potevano destare «stupenda meraviglia» erano l’aria, il fuoco, l’acqua e la terra. Per far sí, dunque, che la cupola celeste della Domus Aurea girasse continuamente su se stessa, notte e giorno, a simulare i moti planetari come un piccolo universo (parafrasando le parole di Svetonio), dobbiamo immaginare ci fosse a disposizione uno di questi «carburanti». Il piú vicino è abbondante fu certamente l’acqua. Nella Domus, in particolare nella sala ottagona, vi era una abbondanza d’acqua, già irreggimentata per creare strepitosi giochi scenografici. Fra tutti, spiccava certamente il grande scivolo d’acqua del ninfeo a nord


A sinistra: ipotesi di ricostruzione del meccanismo idraulico del movimento. In basso: ipotesi di ingegnerizzazione del meccanismo in sezione, pianta e dettaglio prospettico ricostruttivo degli ambienti 2 e 3.

della sala ottagona: questo, che già nell’incontro con la luce proveniente dall’oculo, in alcune giornate astronomicamente significative, sembra potesse creare inconsueti effetti di iridescenza, avrebbe anche potuto fornire l’energia idrica utile a far muovere l’intero congegno. Solo un meccanismo idrico avrebbe infatti potuto garantire la continuità del moto descritta da Svetonio, mentre l’utilizzo di energia umana o animale avrebbe necessariamente comportato interruzioni e discontinuità, oltre a rumore dei passi, delle grida o dei versi degli animali. Grazie al supporto del Dipartimento di Ingegneria Meccanica, Energetica e Gestionale dell’Università della Calabria e in particolare di Maurizio Muzzupappa, abbiamo provato a indagare dal punto di vista tecnico la possibilità di sviluppare un tale «motore idraulico» sfruttando le portate e le dimensioni degli spazi presenti all’interno della Domus. Sottolineando come il risultato a r c h e o 103


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ottenuto sia solo uno di quanti possibili, e come la ricerca da questo punto di vista sia ancora in corso, siamo riusciti a ipotizzare un meccanismo che sotto l’aspetto delle verifiche statiche e Disegno ricostruttivo che mostra la possibile presenza di liquido lubrificante sulla vasca dell’estradosso della sala ottagona.

cinematiche risulti funzionante e che tecnicamente avrebbe in effetti potuto garantire il movimento della controcalotta sospesa. L’enorme bacino d’acqua dell’euripus del giardino superiore della Domus comunicava, attraverso tre imboccature incanalate in altrettante tubazioni, con una grande camera di manovra idraulica, che immetteva, oltre che nei canali orizzontali delle fontane superiori, anche nella cascata artificiale che precipitava verso il ninfeo e in un grande pozzo centrale. La camera di manovra risultava sufficientemente grande da ospitare una ruota idraulica «di fianco», capace di trasformare l’energia cinetica dell’acqua, lanciata a pressione dalle tubazioni e in caduta libera nel pozzo, in energia meccanica rotatoria. Da qui una serie di meccanismi di moltiplica,

posizionati in un piccolo solaio tecnico di manovra collocato sopra la cascata d’acqua del ninfeo, trasferiva il moto al diametro superiore della cupola. La controcalotta, poggiata sull’estradosso della cupola e su cuscinetti a sfera o a ruote, forse immersi in un lubrificante naturale quale l’olio, ruotava dunque lentamente ma incessantemente. I soli rumori udibili sarebbero stati forse lo scricchiolio del legno e il cigolare del cordame teso a trasmettere il moto, come quelli di una grande nave ormeggiata in un porto. Un’immagine che si adatta perfettamente e pare risuonare nelle parole usate da Petronio per descrivere la cena di Trimalcione: «nam repente lacunaria sonare coeperunt» (i cassettoni del soffitto cominciarono a crepitare). (S. B.)

PER SAPERNE DI PIÚ Stefano Borghini, Magistri et machinatores. Il ruolo della luce e degli elementi naturali nell’architettura della Domus Aurea, in Stefano Borghini, Alessandro D’Alessio, Vincenzo Farinella, Alfonsina Russo (a cura di), Raffaello e la Domus Aurea. L’invenzione delle grottesche, Milano 2020; pp. 55-79 Stefano Borghini, Alessandro D’Alessio, Ancora sulla sala ottagona della Domus Aurea, in Heinz-Jürgen Beste, Elisabetta Segala (a cura di), Lavori e ricerche nella Domus Aurea durante gli anni 2010-2016, Roma 2023 Stefano Borghini, Alessandro D’Alessio, L’Egitto di Nerone e Adriano. L’arte dell’allusione e della memoria, in Andrea Bruciati, Alessandro Viscogliosi (a cura di), Nerone e Adriano. Le arti al potere (Atti del Convegno internazionale e interdisciplinare di Tivoli, Santuario di Ercole Vincitore, 24-25 marzo 2022), in corso di stampa Stefano Borghini, Alessandro D’Alessio, «Versatilia cenationum laquearia»: otia e miracula al tempo di Nerone, in Massimiliano Papini (a cura di), L’Otium è rivelatore. Imperatori e otium tra archeologia e letteratura (Atti del Convegno, Sapienza Università di Roma, 11-13 maggio 2022), in corso di stampa Cinzia Conti, Giangiacomo Martines, Anna Sinopoli, Constructions techniques of Roman vaults: Opus caementicium and the octagonal dome of the Domus Aurea, in Proceedings of the Third International Congress on Construction History (Cottbus, 20th-24th May 2009), Cottbus 2009; pp. 401-409 Cinzia Conti, Giangiacomo Martines, Hero of Alexandria, Severus and Celer: treatises and vaulting at Nero’s time, in Anna Sinopoli (a cura di), Mechanics and architecture between epistéme and Téchne (Rome, december 5, 2008), Roma 2010; pp. 79-96 Alessandro D’Alessio, Domus Aurea. Storia, architettura e visita del monumento, in Stefano Borghini, Alessandro D’Alessio, Vincenzo Farinella, Alfonsina Russo (a cura di), Raffaello e la Domus Aurea. L’invenzione delle grottesche, Milano 2020; pp. 21-53 Laura Fabbrini, Domus Aurea. Il piano superiore del quartiere orientale, in MemPontAc, 14, 1982; pp. 5-24 Robert Hannah, Giulio Magli, Antonella Palmieri, Nero’s «Solar» Kingship and the Architecture of the Domus Aurea, in Numen 63, 5-6, 2016; pp. 511-524 Helmut Prückner, Sebastian Storz, Beobachtungen im Oktogon der Domus Aurea, in RM, 81, 1974; pp. 186-191 104 a r c h e o



STORIE DI CERAMICA Luciano Frazzoni

ABBANDONATI... EPPURE MOLTO ELOQUENTI LO SCAVO ARCHEOLOGICO È L’OSSERVATORIO PRIVILEGIATO PER RICOSTRUIRE LA VITA DELLA CERAMICA. E PERMETTE DI STABILIRE LE CAUSE DELLA DISMISSIONE O DELL’ACCANTONAMENTO DI VASI E ALTRI OGGETTI D’USO QUOTIDIANO

A

l termine della catena di operazioni che hanno portato alla sua fabbricazione, il manufatto ceramico, nella maggior parte dei casi, viene immesso sul mercato per essere venduto e iniziare cosí il suo processo di vita. Il ciclo di utilizzo di un oggetto varia secondo la funzione che svolge: una pentola o un tegame da cucina, essendo sottoposti a continui stress termici,

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hanno una vita molto piú breve rispetto a un vaso da mensa o a un dolio nel quale si possono conservare derrate alimentari per molto tempo. I processi che portano dal contesto di vita e di uso al contesto archeologico di un reperto possono essere diversi. Nel caso della ceramica, il piú frequente è la rottura accidentale, che fa del manufatto uno scarto, il

quale dev’essere in qualche modo smaltito, in quanto ormai defunzionalizzato. L’archeologo statunitense Michael Schiffer (autore, nel 1976, del saggio Behavioural Archaeology, «archeologia comportamentale [o «del comportamento»], che ha dato nome a una branca della disciplina secondo la quale l’interpretazione dei dati non può prescindere dalla decodificazione dei meccanismi di trasformazione post-deposizionale del deposito archeologico, n.d.r.) ha distinto due tipi di formazione delle aree di scarto dei reperti che danno origine a contesti archeologici: la prima è quando gli oggetti sono lasciati nel luogo stesso del loro


utilizzo (primary refuse), la seconda quando vengono gettati in un luogo diverso, che può essere adiacente a quello di utilizzo, o anche molto distante (secundary refuse). Comprendere se ci si trova di fronte a un contesto primario o secondario di formazione di aree di scarto riveste una grande importanza nel corso di un’indagine archeologica, in quanto ciascuno restituisce informazioni diverse. Per esempio, se all’interno di una capanna protostorica si trova una concentrazione di vasi da cucina, è chiaro che in quel punto doveva esserci un focolare con un punto di cottura dei cibi, mentre se in un altro angolo della stessa abitazione vi sono pesi da telaio e fuseruole, questi oggetti indicheranno un’area domestica adibita ad attività legate alla tessitura. Viceversa, se l’area di scarti ceramici si trova distante dal luogo in cui in origine i manufatti venivano utilizzati, si può pensare a una discarica formatasi in seguito alla volontà di un’autorità preposta a far rispettare determinate regole igienico-sanitarie: un simile contesto può quindi fornire indizi sia economici che sociali.

RIFIUTI CHE PARLANO Molti documenti medievali e rinascimentali, soprattutto gli Statuti comunali, per esempio, regolano lo smaltimento dei rifiuti cittadini, istituendo luoghi preposti allo scarico degli scarti sia alimentari che degli oggetti (principalmente ceramici) non piú utilizzabili. In genere questi venivano gettati nei cosiddetti «pozzi da butto», cavità ricavate nel banco tufaceo degli abitati, in origine aventi funzione di fosse per la conservazione del grano o di cisterne per l’acqua e, in seguito, avendo perso per varie cause la loro funzione originaria, utilizzati come veri e propri «immondezari» cittadini. Molte ceramiche di epoca medievale e rinascimentale sono

In alto: l’abitato protostorico di Sorgenti della Nova e, a destra, un vaso proveniente dal sito. Nella pagina accanto: Pompei, Schola Armaturarum. Lo scavo di un piccolo deposito di anfore che contenevano olio, vino e garum (salsa di pesce).

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state recuperate scavando questi butti, ricavando informazioni preziose sulle loro produzioni e diffusioni. Un tipo particolare di rifiuto primario, che in questo caso non è legato al concetto di scarto, è quello che Schiffer definisce «de facto refuse», generato quando gli oggetti vengono lasciati intenzionalmente nel loro luogo di utilizzo, al momento dell’abbandono di un insediamento perché troppo ingombranti o perché di scarso valore, o in seguito a un evento traumatico. Un caso eclatante sono gli oggetti, in gran parte integri, presenti nelle case di Pompei ed Ercolano, lasciati in situ per la fretta con cui gli abitanti sono fuggiti durante l’eruzione. Un altro esempio può essere il materiale rinvenuto nei relitti, formato principalmente dalle anfore e dalle ceramiche facenti parte del carico che veniva trasportato, ma anche dagli oggetti in dotazione al personale di bordo. Come detto, i manufatti ceramici possono essere stati abbandonati sul luogo di utilizzo anche a seguito di una scelta ben determinata, non

necessariamente a causa di un evento drammatico come un terremoto, un assedio o un naufragio. L’abitato del Bronzo Finale di Sorgenti della Nova (Farnese, Viterbo), uno dei piú importanti insediamenti protostorici indagati nell’Italia centrale, ha restituito moltissime ceramiche in gran parte integre, permettendo di ricostruire le varie attività quotidiane del villaggio.

LASCIATI SUL POSTO Sono stati rinvenuti, infatti, enormi doli per conservare le derrate alimentari (liquidi, sementi), pentole per la cottura dei cibi, ciotole per la mensa, grandi vasi biconici con decorazioni incise, primi esempi delle urne funerarie villanoviane. Tutti questi oggetti vennero lasciati sul luogo di utilizzo da parte degli abitanti in seguito all’abbandono dell’insediamento alla fine dell’età del Bronzo (fine del X-inizi del IX secolo a.C.), quando queste comunità, come gli abitanti di altri centri limitrofi (Poggio Buco, Farnese, Sovana) decisero di spostarsi dalla media valle del fiume Fiora verso la costa,

Vasi in ceramica di varia foggia e tipologia appartenenti al corredo della tomba di un bambino scoperta nella necropoli etrusca di Poggetto Mengarelli, a Vulci.

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occupando un pianoro su cui, nel secolo successivo, si sviluppò la città etrusca di Vulci. È significativo che a Sorgenti della Nova gli scavi abbiano restituito grandi e ingombranti contenitori ceramici da cucina, da mensa e da dispensa, mentre scarsi risultano gli oggetti in bronzo, che pure erano presenti e realizzati nell’abitato (sono stati rinvenuti scarti di fusione e anche stampi per la realizzazione di armi e attrezzi agricoli). Questi manufatti preziosi vennero evidentemente portati via al momento del trasferimento, mentre gli oggetti di poco valore furono lasciati sul posto. In questo caso il contesto archeologico che ne è scaturito, permette di ricostruire non solo uno spaccato di vita del villaggio, ma anche di capire le cause del suo abbandono, con tutte le implicazioni politico-sociali ed economiche che ne sono alla base. Un oggetto può passare inoltre dal contesto di utilizzo a un contesto archeologico anche in base ad altri tipi di operazioni intenzionali, che in questo caso possono rappresentare un’altra fase di «vita». È il caso delle deposizioni dei corredi in ambito funerario, in cui oggetti di uso quotidiano, tra i quali le ceramiche ma anche utensili e armi in metallo, vengono defunzionalizzati a scopo rituale per accompagnare il defunto nel suo viaggio ultraterreno. Le ceramiche possono anche essere deposte intenzionalmente a scopo votivo come offerte alla divinità, e addirittura si fabbricano oggetti che riproducono forme di vasi di uso quotidiano di dimensioni ridotte (le cosiddette ceramiche miniaturistiche), o terrecotte realizzate esclusivamente a scopo votivodevozionale, sagomate in forma di parti anatomiche per le quali si chiede la guarigione, o figure di infanti per ottenerne, tramite l’intervento divino, la buona salute.



L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

FUOCO DI RESURREZIONE SIMBOLO PER ANTONOMASIA DELL’IMMORTALITÀ, LA FENICE CHE RINASCE DALLE PROPRIE CENERI FIGURA SU EMISSIONI ANTICHE E MODERNE

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ra gli animali fantastici creati dalla mitologia conosce grande fortuna e successo la Fenice, l’uccello che risorge dalle proprie ceneri, simbolo di rinascita e rigenerazione vitale. Ancora oggi si usa l’espressione «rinascere dalle proprie ceneri» per chi riesce a fronteggiare e superare difficoltà, anche gravi, volgendole al positivo e addirittura migliorando le condizioni da cui era partito originariamente. Per ricorrere a un termine contemporaneo molto in voga, la fenice potrebbe assurgere a simbolo alla «resilienza» spesso invocata in questi tempi difficili. Presente in numerosissimi miti di tutto il mondo sino ad arrivare all’iconografia cristiana e all’alchimia, è rappresentata come un uccello (dal passero all’airone,

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dall’aquila al pavone) «di fuoco», che si invola da una pira rinascendo dalle proprie ceneri, a volte coronata da un nimbo che può essere radiato.

DA UN’OASI SEGRETA Secondo le fonti classiche, la Fenice è un unico e solo uccello maschio, che vive in un’oasi segreta del deserto d’Arabia, comparendo agli uomini ogni 500 anni. Erodoto (II, 73, 1) cosí la descrive: «C’è anche un altro uccello sacro, che ha nome fenice. Io per parte mia non l’ho visto se non dipinto, ché assai raramente appare tra loro, a quanto dicono gli Eliopolitani, ogni 500 anni; cioè quando gli muore il padre (...) alcune delle penne sono dorate, altre rosse; in complesso per forma e grandezza è assai

simile a un’aquila. Si racconta che la Fenice riesca a compiere questa impresa (...): partendo dall’Arabia, essa trasporterebbe nel tempio di Helios il padre, dopo averlo spalmato di mirra e lí lo seppellirebbe trasportandolo nel modo seguente: dapprima foggia un uovo di mirra (...) e svuotato l’interno dell’uovo, vi pone dentro il padre, e con l’altra mirra spalma quella parte dell’uovo. Dopo averlo cosí avvolto lo trasporta in Egitto nel santuario di Helios». Altre versioni del mito vogliono che la Fenice, quando sta per concludersi il suo ciclo vitale, costruisca un nido su una palma per poi morire bruciata dal sole. Dalle sue ceneri se ne rialza una nuova che vola in Egitto a Eliopoli dove viene consacrata, e cosí


avviene per l’eternità. Anche Ovidio, nelle sue Metamorfosi (15, 192) ne dà una accurata descrizione, notando come essa, a differenza di tutti gli altri esseri viventi, è l’unico a nascere riproducendosi da sé. La Fenice diviene cosí l’immagine della continuità eterna della rigenerazione vitale, una palingenesi cosmica con un ciclo di cinquecento anni che annunzia l’avvento di una nuova età di pace e prosperità: è facile comprendere come Roma abbia fatto proprio questo mito, adattandolo alla propaganda imperiale, fondata sull’associazione dell’eternità dell’Urbe e il succedersi degli imperatori che assicurano il benessere del mondo a lei soggetto.

autonomo sulle monete dei successori di Costantino I, Costante e Costanzo II, nell’ambito di un difficile momento storico e politico.

LIBERA DAL GIOGO

L’ETÀ DELL’ORO Sulle monete Adriano celebra la sua età dell’oro con emissioni raffiguranti l’Aion con la Fenice entro il cerchio del tempo, mentre lo straordinario volatile è l’assoluto protagonista del rovescio degli aurei di consacrazione emessi sempre da Adriano, in onore del divo Traiano. La Fenice qui è una sorta di ibis coronato da un nimbo radiato che posa le lunghe zampe su un ramo, allusione al fuoco o al ramo di palma dove fa il suo nido. In un certo senso la scelta iconografica potrebbe alludere alla controversa adozione di Adriano da parte di Traiano morente, che secondo l’Historia Augusta (4, 1-10) fu una manovra organizzata da Plotina, moglie di Traiano, per permettere al suo favorito di ascendere al trono. In seguito la Fenice compare principalmente e come tipo

Moneta in argento da 1 Fenice della Grecia Indipendente, 1828 a nome del Governatore Ioánnis Antonios Kapodístrias. L’emissione intendeva celebrare l’affrancamento del Paese dal dominio ottomano. Nella pagina accanto: aureo di Adriano per il divo Traiano. 118 d.C. Al dritto, l’imperatore Traiano con la titolatura DIVO TRAIANO PARTH AVG PATRI; al rovescio, la Fenice, con nimbo radiato, su un ramo.

Anche la Grecia emise una moneta con la Fenice, ma si deve attendere l’età moderna: nell’ambito della sua lotta per l’indipendenza dall’impero ottomano (18211830) fu coniata nel 1828 una moneta chiamata proprio Fenice, che doveva simboleggiare la rinascita della Grecia liberata dal giogo straniero. Sul dritto compaiono l’indicazione del valore 1 Phoinike e la data 1828 entro corona d’alloro, con leggenda Kybernetes I.A. Kapodistrias, nome e ruolo di Giovanni Capodistria (Ioánnis Antonios Kapodístrias), primo presidente (kybernetes) della Grecia libera. Al rovescio è raffigurata la Fenice che risorge dal fuoco, volta a sinistra dove guarda i raggi solari, sovrastata dalla croce latina, simbolo della Passione. Nella leggenda si legge Ellenike Politeia e in esergo la data aoka (1821, inizio della Guerra di Indipendenza) tra simboli della zecca di Egina, un’ancora e una catena. L’autore del conio è Chatzi Grigoris Pirovolistis. La moneta non portò fortuna al Capodistria che, per la sua politica non gradita internamente, venne assassinato nel 1831; ciò condusse all’ingerenza degli Stati europei che imposero l’anno dopo la monarchia e Ottone I di Baviera come primo re di Grecia: con lui «bruciò» definitivamente la Fenice, dalle cui ceneri nacque la dracma.

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Alessandro Pace

LUDITE POMPEIANI Nuove prospettive sulla cultura ludica dell’antica città All’insegna del Giglio, Sesto Fiorentino (FI), 371 pp., 296 figg. b/n e col. 95,00 euro ISBN 978-88-9285-153-5 www.insegnadelgiglio.it/

«Exsi – Non tria, duas est»: «Ho vinto!» - «Ma non è un tre, è un due!». La scena e l’epigrafe di un affresco nella cosiddetta caupona (osteria) di Salvius nella Regio VI di Pompei figurano sulla copertina di questo libro e sintetizzano il contenuto. La città, scrive l’autore, è stata studiata sotto infiniti punti di vista, che hanno approfondito questioni artistiche, architettoniche e urbanistiche, commerciali e produttive, fino agli aspetti piú ordinari della vita quotidiana e del costume. Eppure l’ambito del gioco, inteso sia come passatempo che come strumento d’interazione tra individui, culture 112 a r c h e o

e identità, è rimasto piuttosto in ombra. Se, in effetti, anche per la sfera ludica Pompei offre spazi di ricerca interessanti, quanto a contesti (case, taverne, teatri, impianti termali, e cosí via), tipologie di manufatti (dadi, astragali, biglie, tessere, pedine e altro, in vetro, pietra, osso) e singole problematiche (profilo sociale dei giocatori, ecc.), nella pur abbondante bibliografia manca uno studio specifico come quello ora realizzato nel quadro di un ampio progetto di ricerca europeo sul tessuto culturale del gioco e dei giochi nell’antichità classica. Il proposito era quello di realizzare un lavoro di sintesi, raccogliendo la base documentaria, e al contempo di analisi, mappando la distribuzione dei giochi nella geografia della città e studiando gli oggetti con un’adeguata valorizzazione sinergica dei dati archeologici, epigrafici, iconografici, topografici, archivistici e numismatici. Ne è risultato un libro poderoso, che offre dapprima un quadro d’insieme di tutto il materiale ludico proveniente da Pompei; lo esamina poi analiticamente tanto nella sua diversa tipologia quanto nella specifica localizzazione dei ritrovamenti; lo cataloga infine in tabelle,

schede di contesto, strutture, e lo arricchisce con un’antologia di formule definitorie rintracciate nei testi latini. È insomma uno studio pioneristico sulla cultura del gioco a Pompei, per merito del quale si può quasi riconoscere chi si trovava a giocare nella città vesuviana, dove gareggiava, come, perché, con chi e a che cosa. Sergio Ribichini Elisabetta Segala e Heinz-Jürgen Beste (a cura di)

LAVORI E RICERCHE NELLA DOMUS AUREA DURANTE GLI ANNI 2010-2016 Atti della Giornata di studi in memoria di Fedora Filippi (Roma, 15 settembre 2022) Per Artem Temptare, Studi sulla Domus Aurea 1, Sfera Edizioni, Bari, 256 pp., ill. col. e b/n + IV tavv. f.t. 86,00 euro ISBN 978-88-85753-78-5 www.sfera-web.com

Protagonista dello Speciale di questo numero (vedi alle pp. 84-104), la Domus Aurea vede arricchirsi la già copiosa bibliografia che la riguarda di una nuova opera, peraltro apripista di una collana interamente dedicata alla residenza neroniana. Si tratta, in questo caso, degli atti di una giornata di studi organizzata in memoria di Fedora Filippi – che per molti anni fu direttrice scientifica del monumento –, la cui pubblicazione avviene con apprezzabile

tempestività. E basta scorrere l’Indice del volume per comprendere quanto giustificate siano le attenzioni che, da un secolo e piú, gli studiosi riservano al grandioso complesso. La Domus Aurea, infatti, pur essendosi conservata solo nella parte che occupa il colle Oppio, è un organismo molto vasto, fatto di spazi che spesso – come mostra appunto il caso della cenatio rotunda nell’aula ottagona (anche qui descritto da Alessandro D’Alessio e Stefano Borghini) – sono ancora oggi in attesa di interpretazioni e letture definitive. Se a questo aggiungiamo la lunga storia della riscoperta, cominciata al tempo di Raffaello, e le sfide poste dai problemi legati alla conservazione e al restauro delle antiche strutture e delle decorazioni superstiti, la mole delle ricerche finora svolte, comprese quelle di cui si dà adesso conto non deve sorprendere. Meritano infine d’essere segnalati l’elegante veste grafica e il ricco corredo iconografico del volume. Stefano Mammini



presenta

ARALDICA LE GRANDI FAMIGLIE D’ITALIA

Colori sgargianti, figure geometriche, animali reali e fantastici, evocazioni di paesaggi... C’è un vero e proprio mondo negli stemmi, un universo stratificatosi nel tempo e che ha portato alla nascita dell’araldica, protagonista del nuovo Dossier di «Medioevo» e, non a caso, chiamata un tempo «arte del blasone». Un’«arte» che si è istintivamente portati ad associare alla nobiltà, ma che, come si scopre scorrendo le pagine dell’opera, non fu soltanto appannaggio di dinastie grandi e piccole. Soprattutto, sebbene si tratti di un’acquisizione abbastanza recente, l’araldica viene ormai riconosciuta come una delle fonti documentarie che possono contribuire alla ricostruzione storica degli eventi che l’hanno scandita e dei loro protagonisti. L’obiettivo del Dossier è puntato sull’Italia, che potrebbe ben essere definita il Paese «delle mille famiglie» (e non delle «cento città») e che vanta un numero sterminato di casate nobiliari che ne punteggiano la geografia e la storia. Una polverizzazione del titolo feudale che, da un canto, ha ostacolato la creazione di un grande Stato nazionale – alla base invece delle fortune politiche e commerciali di altri Paesi d’Europa in epoca moderna –, ma che, dall’altro, grazie all’ascesa della piccola aristocrazia, ha dato vita a una dialettica tra classe borghese e nobiliare capace di evitare grandi fratture sociali. Il nuovo Dossier di «Medioevo» invita, pertanto, a leggere le storia delle casate nobiliari italiane, tra le quali sono comprese anche alcune dinastie «italianizzate», come per esempio gli Angioini. Stemmi, motti e magioni nascondono pagine di straordinario interesse non solo per lo specialista, ma per chiunque intenda la storia come un racconto vivo e palpitante, fatto di donne e uomini desiderosi di affermare se stessi e la propria discendenza.

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