Archeo n. 386, Aprile 2017

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RAMESSE II

MARZABOTTO

TAVOLE IGUVINE

ARCHAEOLOGY & ME

ANTICHE MINIERE SPECIALE DOMUS AUREA

IL MESSAGGIO DELLE TAVOLE IGUVINE

DOMUS AUREA

COSÌ RINASCE LA REGGIA DI NERONE

EMILIA-ROMAGNA

SCOPERTE A MARZABOTTO

UNO SGUARDO NUOVO SUL PASSATO

MOSTRE

www.archeo.it

IN EDICOLA L’ 8 APRILE 2017

eo .it

DO S M PEC US IA LE A ww UR w. EA a rc h

2017

Mens. Anno XXXIII n. 386 aprile 2017 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

ARCHEO 386 APRILE

ITALIA PREROMANA

€ 5,90



EDITORIALE

RINASCITA «Dove si va per la Domus Aurea? Ma vale la pena visitarla?». Domande che ci sentiamo spesso rivolgere dai turisti che passeggiano per i vialetti del Colle Oppio, il grande parco prospiciente il Colosseo, scandito da alberi di alto fusto e dalle magnifiche e imponenti rovine delle Terme di Tito e di Traiano. Oggi, questa meravigliosa area appare malconcia e – privata delle piú elementari cure che meriterebbe un luogo tanto centrale e rilevante – assai poco presentabile: specialmente a quei visitatori – stranieri e non – che obbligatoriamente l’attraversano, dopo aver ammirato la celeberrima michelangiolesca statua del Mosé nella vicina chiesa di S. Pietro in Vincoli, in direzione del Colosseo e, appunto, della mitica residenza di Nerone. In netto contrasto con la trascuratezza che offende le bellezze del Parco del Colle Oppio, fervono invece i lavori di restauro della sottostante reggia di Nerone, progettati dagli archeologi della Soprintendenza Speciale per il Colosseo e l’Area archeologica centrale di Roma. Un’attività non immediatamente visibile, perché i resti del palazzo neroniano sono oggi nascosti sotto i giardini. Sette anni fa – era il marzo del 2010 – le infiltrazioni d’acqua causarono lo sprofondamento di una porzione di questa superficie, posta in corrispondenza del soffitto delle gallerie traianee, rendendo cosí drammaticamente evidente lo stretto rapporto tra il Parco e il monumento che esso ricopre (vedi la foto in questa pagina). Fu allora che venne posto con urgenza il problema di come salvaguardare il complesso archeologico, rispettando, al contempo, il contesto naturalistico e monumentale del giardino. Dei restauri della Domus Aurea riferiamo nello Speciale di questo numero. È il racconto di un’impresa formidabile – svolta nel silenzio dei sotterranei e, in superficie, sotto la protezione di un grande tendone bianco – narrata dagli stessi protagonisti di questa straordinaria avventura scientifica e culturale. Dei cui risultati beneficeremo tutti noi, appassionati di antichità (insieme – sperabilmente – ai bistrattati giardini del Colle Oppio). Andreas M. Steiner


SOMMARIO EDITORIALE

Rinascita 3 di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

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SCAVI La statua colossale di un faraone è stata riportata alla luce alla periferia del Cairo, nell’area un tempo occupata dalla città di Eliopoli. E ora si indaga per accertarne l’identità 8 ALL’OMBRA DEL VULCANO La Casa della Venere in bikini: un gioiello da riscoprire 12 A TUTTO CAMPO A dieci anni dalla scomparsa, l’Università di Siena ricorda Riccardo Francovich con una mostra e un ricco calendario di eventi collaterali 16

MOSTRE Il Museo «Claudio Faina» e l’Archeologico Nazionale di Orvieto rievocano le scoperte compiute nel territorio nella seconda metà dell’Ottocento, prima fra tutte quella della Tomba del Guerriero 18 PAROLA D’ARCHEOLOGO Il parziale recupero del carico di una delle navi greche affondate nelle acque di Gela nel VI secolo a.C. ha restituito, per la prima volta al mondo, numerosi lingotti del prezioso oricalco 20 MUSEI Il riallestimento della collezione di materiali egiziani dell’Università di Pavia è stato l’occasione per ricostruire l’identikit di una mummia donata all’ateneo lombardo nel 1824 24

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SCAVI

Marzabotto

Cosí reale, cosí virtuale

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testi di Giuseppe Sassatelli, Elisabetta Govi, Andrea Gaucci e Simone Garagnani, con contributi di Malik Franzoia, Bojana Gruška e Giacomo Mancuso

STORIA

Tavole di civiltà

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di Federico Fioravanti e Augusto Ancillotti

MOSTRE

Uno sguardo nuovo sul passato

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incontro con Maria Pia Guermandi, a cura di Andreas M. Steiner

In copertina la sala della Domus Aurea che ospitava il gruppo del Laocoonte nella ricostruzione immaginata dall’architetto francese Georges Chedanne (1861-1940).

Anno XXXIII, n. 386 - aprile 2017 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Realizzazione editoriale: Timeline Publishing S.r.l. Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Davide Tesei Amministrazione: Roberto Sperti

amministrazione@timelinepublishing.it

Comitato Scientifico Internazionale

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, enceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale

Hanno collaborato a questo numero: Augusto Ancillotti è stato professore ordinario di glottologia all’Università degli Studi di Perugia. Vincenzo Angeloro è ingegnere idraulico. Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Maria Bartoli è restauratrice della SSCol (Soprintendenza Speciale per il Colosseo e l’Area archeologica centrale di Roma). Giovanna Bianchi è professore associato di archeologia cristiana e medievale all’Università di Siena. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Raffaele Carlani è architetto. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Alessandro D’Alessio è archeologo, responsabile scientifico della Domus Aurea per la SSCol. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Federico Fioravanti è giornalista. Malik Franzoia è laureato con diploma di specializzazione in beni archeologici. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Andrea Gaucci è assegnista di ricerca in archeologia all’Università di Bologna. Simone Garagnani è assegnista di ricerca in ingegneria edile/architettura all’Università di Bologna. Elisabetta Govi è professoressa ordinaria di etruscologia e antichità italiche all’Università di Bologna. Bojana Gruška è dottoranda in archeologia presso l’Università degli Studi della Repubblica di San Marino. Maria Pia Guermandi è curatore della mostra «Archaeology&ME». Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Sabina Malgora è direttore del Centro Ricerche Mummy Project. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Giacomo Mancuso è dottorando in archeologia presso «Sapienza» Università di Roma. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto della Soprintendenza Pompei. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Sandro Massa è fisico, esperto di conservazione e sicurezza dei beni culturali. Maurizio Pesce è responsabile tecnico della Domus Aurea per SSCol. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Giuseppe Sassatelli è professore ordinario di etruscologia e antichità italiche all’Università di Bologna. Elisabetta Segala è archeologa della SSCol. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso «Sapienza» Università di Roma. Gabriella Strano è architetto paesaggista della SSCol. Marco Valenti è professore associato di archeologia cristiana e medievale all’Università di Siena. Illustrazioni e immagini: DeA Picture Library: pp. 49, 57 (basso, a destra); G. Dagli Orti: copertina e pp. 48 (basso), 74 (basso); A. Dagli Orti: pp. 44 (primo piano), 47, 58; G. Roli: p. 54; Archivio J. Lange: p. 55 (basso); L. Balbo: p. 70 (alto e p. 71, centro); M. Carrieri: p. 72 (alto); A. Vergani: p. 105 – ANSA: p. 3 – Getty Images: Anadolu Agency: pp. 8/9 – Cortesia Università di Lipsia: Dietrich Raue: p. 10 (alto) – Doc. red.: pp. 10 (basso), 18 (sinistra) 46/47, 50 (alto), 53 (sinistra), 57 (basso, a sinistra), 77, 100 (alto), 102, 108-111 – Cortesia Soprintendenza Pompei: pp. 12-13 – Cortesia Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per le province di Catanzaro, Cosenza e Crotone: p. 14 – Cortesia degli autori: pp. 18 (destra), 24 (sinistra), 34, 35 (centro e basso), 36, 43 (basso), 46, 48 (alto), 70/71, 71 (alto), 72 (basso), 73; fotografia di R. Trojanis e S. Bernardoni: pp. 32/33; elaborazioni di S. Garagnani: pp. 35 (alto), 37, 40, 41, 42 (alto e basso); esecuzione di M. Dubbini: p. 38 (alto); esecuzione di A.M. Manferdini,


LA METALLURGIA/3

Quasi una lunga marcia 70 di Flavio Russo

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Rubriche

SPECIALE

IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO Il vero volto del destino

Domus Aurea

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di Daniele Manacorda

Rinasce la reggia di Nerone

LIBRI

SCAVARE IL MEDIOEVO

100

Se due denti vi sembran pochi...

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

di Romolo A. Staccioli

di Francesca Ceci

Il principio di tutti i segni

S. Garagnani: p. 39 (centro); elaborazione di G. Mancuso: pp. 40/41, 43 (alto); elaborazione di M. Franzoia: p. 42 (centro) – Cortesia Soprintendenza del Mare, Palermo: Salvo Emma: pp. 20 (alto e centro), 21 (centro e basso), 22; GUE: p. 20 (basso); Richard Lundgren: p. 21 (alto) – Cortesia Studio Alquati, Milano: pp. 24 (destra), 25 – Da: Edoardo Brizio, Relazione sugli scavi eseguiti a Marzabotto presso Bologna dal novembre 1888 a tutto maggio 1889, in Monumenti Antichi dei Lincei 1, 1889: pp. 38/39 – Marka: Adam Eastland: p. 44 (sfondo) – Shutterstock: pp. 50 (basso), 74 (alto) – Archivi Alinari, Firenze: J. Bedmar/Iberfoto: p. 52 – Mondadori Portfolio: Leemage: p. 53 (destra); AKG Images: p. 100 (basso), 101 – Cortesia Ufficio Stampa: pp. 60/61, 62 (destra), 63, 64 (alto), 65 (basso), 66, 67 (basso), 68 (sinistra), 69 (alto) – Andreas M. Steiner: pp. 62 (sinistra), 64 (centro e basso), 65 (alto e centro), 67 (alto e centro), 68 (sinistra), 69 (basso) – Erich Lessing Archive/ Magnum/Contrasto: p. 75 – Cortesia Archivio SSCol (Soprintendenza Speciale per il Colosseo e l’Area archeologica centrale di Roma: © Eugenio Monti e Roberto Galasso: pp. 76/77, 78-83, 85-98 – Bridgeman Images: pp. 84, 104, 106 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 33, 55, 56, 57 (alto). Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

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di Andrea Augenti

QUANDO L’ANTICA ROMA...

...celebrava la festa delle prostitute 104

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di Alessandro D’Alessio, Elisabetta Segala, Gabriella Strano, Vincenzo Angeloro, Maurizio Pesce, Maria Bartoli, Sandro Massa e Raffaele Carlani

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n otiz iari o SCOPERTE Egitto

UNA STATUA PER DUE?

L’

area di El Matariya, alla periferia settentrionale del Cairo, è stata teatro di una scoperta che ha entusiasmato il mondo dell’archeologia. In questa zona, che oggi accoglie quartieri residenziali densamente popolati, sorgeva in epoca antica Eliopoli, principale centro di culto del Sole nelle sue varie manifestazioni divine (Atum, Ra). La città venne abbandonata e saccheggiata in età greco-romana – dopo che, con l’avvento della dinastia dei Tolomei (305 a.C.), Alessandria le subentrò per importanza – e nel corso del Medioevo, quando ciò che rimaneva dei suoi templi e monumenti venne smantellato e riutilizzato per le necessità edilizie del Cairo. Il solo monumento ancora visibile nella sua posizione originale è il grande obelisco el-Misalla, che faceva parte del grande tempio di Ra-Atum costruito per volere di Sesostri I (XII dinastia, 1964-1929 a.C.). Tuttavia, nelle aree libere da costruzioni, gli archeologi continuano a scavare, alla ricerca di testimonianze che potrebbero essere ancora sepolte nel sottosuolo. E proprio nel corso di indagini condotte in prossimità di un tempio fondato da Ramesse II (XIX dinastia, 1279-1212 a.C.), sono stati di recente rinvenuti i frammenti di due statue, una delle quali, di dimensioni colossali, era stata attribuita inizialmente allo stesso faraone. La scoperta si deve alla missione congiunta tedescoegiziana che, dal 2012, porta avanti le ricerche sul sito.

8 archeo

Il team tedesco è diretto da Dietrich Raue dell’Università di Lipsia, mentre l’équipe del Ministero per le Antichità è guidata da Aiman Ashmawi. La sorpresa è stata notevole, poiché l’area, già setacciata in passato, non aveva restituito risultati particolari, a eccezione dei piedistalli di alcune statue in basalto. In quest’occasione sono stati invece recuperati la testa, il torso e altri frammenti di una statua colossale in quarzite, la cui altezza originale è stata stimata in 9 m e la parte superiore di una seconda statua in pietra calcarea, a grandezza naturale (80 cm circa di altezza) attribuita al nipote di Ramesse II, Seti II (XIX dinastia, 1201-1196 a.C.). I frammenti sono stati estratti dal fossato nel quale si trovavano, completamente immersi nell’acqua, a pochi metri dagli edifici moderni. Il primo a essere recuperato è stato il frammento della testa colossale, prelevato con la benna di un escavatore. A questo proposito, non sono mancate le critiche di chi ha messo in dubbio l’opportunità dell’uso di queste attrezzature, giudicate inadatte per la sicurezza dei reperti, accusando la missione di aver danneggiato e frantumato i reperti durante il recupero. Illazioni e polemiche sono state prontamente sopite dal Ministero per le Antichità e dalla missione archeologica, che hanno ribadito sia l’adeguatezza dei mezzi pesanti di fronte a situazioni come questa, sia il fatto che tutto si è svolto sotto l’attento monitoraggio di archeologi,


Il Cairo. Un momento delle operazioni di recupero dei frammenti della statua colossale, che vengono liberati dal fango in cui erano sepolti.

archeo 9


n otiz iario

restauratori e personale specializzato. Anche l’archeologo ed ex ministro Zahi Hawass è entrato nel merito della questione: ha difeso l’operato degli archeologi con un comunicato, nel quale ha affermato che, considerando le peculiarità e il passato dell’area, le statue dovevano essere sicuramente già in frantumi. Inoltre, dopo aver esaminato la documentazione inviatagli da Raue, ha confermato che le operazioni di scavo e di estrazione si sono svolte con tutte le precauzioni del caso. Il torso della statua, ben piú massiccio, è stato estratto in una fase successiva. Sono stati necessari alcuni giorni di studio per pianificare accuratamente l’operazione: il reperto è stato prima fasciato con un’imbracatura e quindi sollevato con l’ausilio di un braccio meccanico. I materiali recuperati saranno prossimamente trasferiti a Giza, per essere conservati ed esposti nel Grand Egyptian Museum, sede in corso di completamento e per la quale si attende una parziale apertura nei primi mesi del 2018. Sarà tentata la ricostruzione del volto della statua colossale a partire dai frammenti riferibili agli occhi, alla corona e alle labbra. Nell’attesa, tutti i reperti sono stati

trasferiti presso il Museo Egizio di piazza Tahrir, dove, secondo le dichiarazioni del ministro delle Antichità Khaled El-Enany, saranno a breve esposti in una mostra temporanea. Al momento del recupero non erano state individuate iscrizioni che potevano indicare l’identità del soggetto raffigurato dalla statua colossale, ed era stato ipotizzato che raffigurasse Ramesse II, per la In alto: il sollevamento del torso della statua colossale con un braccio meccanico. A sinistra: il frammento della testa colossale dopo il recupero, già sottoposto a una prima pulitura sul campo.

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grandiosità delle dimensioni e per la prossimità con un tempio solare fondato dal faraone. Tuttavia, una volta trasferita presso il Museo Egizio, la statua, a un esame piú accurato, ha rivelato un’iscrizione con il nome del piú tardo faraone Psammetico I (XXVI dinastia, 664-610 a.C.). Non si deve però dimenticare l’uso invalso nell’antico Egitto di riutilizzare le statue di dinastie precedenti sovrascrivendone le iscrizioni, e pertanto ulteriori indagini potrebbero riservare nuove sorprese. Gli archeologi sono convinti che sotto il fango possano ancora nascondersi le parti inferiori delle statue, ma la prosecuzione delle indagini non è certa, a causa della estrema vicinanza delle abitazioni moderne all’area del cantiere di scavo. Nel frattempo, a Eliopoli gli archeologi tedeschi hanno lasciato il campo ai colleghi egiziani, e riprenderanno i lavori nel settembre prossimo. Paolo Leonini



ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi

È TEMPO DI «PROVA COSTUME»... LA DOMUS POMPEIANA CHE PRENDE NOME DALLA VENERE IN BIKINI È OGGI FRA LE MENO NOTE DELLA CITTÀ. MERITA INVECE D’ESSERE RISCOPERTA, PER APPREZZARE L’ELEGANZA DEL SUO APPARATO DECORATIVO

F

ra le case pompeiane meno conosciute, affacciate su via dell’Abbondanza, quella «della Venere in Bikini» si segnala per alcuni interessanti aspetti decorativi emersi nel corso dello scavo. La dimora è di piccole dimensioni (meno di 200 mq di estensione) e si è formata in seguito a una profonda ristrutturazione, operata alla fine

del I secolo a.C. e che ha visto l’aggregazione di due abitazioni attigue piú antiche. Lo scavatore dell’edificio, Matteo Della Corte, identificava il proprietario dell’abitazione in Maximus, in base a due iscrizioni elettorali dipinte in facciata, ma studi recenti hanno invece proposto di individuare gli occupanti dell’ultima fase di vita come

liberti della facoltosa famiglia Poppaea, per via di due sigilli in bronzo ritrovati in un armadietto del corridoio che recano iscritti «Cissus PITHIUS communis» e «C. POPPEAUS Idrus». I diari di scavo del 1954 registrano anche la presenza di scheletri nella parte anteriore dell’edificio, assieme a vasi di bronzo: è probabile che si tratti degli stessi abitanti della casa, che cercarono di salvare nella fuga qualche oggetto In alto: Pompei, Casa della Venere in bikini. Medaglione con ritratto del ciclo pittorico di IV stile. A sinistra: l’affresco del triclinio raffigurante il Giudizio di Paride: accanto al «giudice», in piedi, è il dio Mercurio.

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A destra: un’altra immagine dell’affresco del Giudizio di Paride. In basso: La Venere in bikini, opera databile al tardo III sec. a.C. di valore. Quando la furia del Vesuvio distrusse Pompei, la domus era in ristrutturazione, come proverebbero zone ancora incompiute della decorazione pittorica di IV stile.

ALLUSIONI EROTICHE Vediamo ora due caratteristiche decorative riscontrate nell’abitazione. Nell’atrio, sul lato sud dell’impluvio, si conservano ancora i supporti in muratura intonacati, dipinti in giallo con bordatura rossa, che dovevano sostenere una tavola, un cartibulum, sul quale poggiava la piccola statua marmorea di Venere in bikini (conservata al Museo Archeologico Nazionale di Napoli) a cui l’abitazione deve il nome. Al momento dell’eruzione, l’elegante scultura, alta 62 cm, era

conservata in un armadio posto nel tablino: raffigura la dea coperta da un sottile tessuto dorato in corrispondenza del seno e del pube, colta nell’atto di allacciarsi il sandalo. Ricca di allusioni erotiche, questa iconografia è stata elaborata in ambiente greco-orientale nel tardo III secolo a.C. e ha avuto una certa fortuna nelle città dell’Oriente ellenistico e dell’Egitto. Afrodite, sotto cui è accovacciato un piccolo Eros, si appoggia con il braccio a Priapo, mentre sull’altro lato è un tronco d’albero sul quale è ripiegata la veste della dea. Il «bikini» è impreziosito dalla sapiente tecnica della doratura, adoperata anche negli ornamenti personali della dea. Gli occhi di Afrodite sono in pasta vitrea, mentre i fori nei lobi delle orecchie suggeriscono l’esistenza di preziosi orecchini ora perduti. È probabile che l’opera sia stata importata dall’area alessandrina, dove è stata realizzata ispirandosi al tipo statuario dell’Afrodite che si slaccia il sandalo, noto da repliche in bronzo e terracotta. L’armadietto in cui la statua era riposta al momento dell’eruzione, conteneva anche altre suppellettili domestiche (vasi in bronzo e vetro, specchi, strumenti chirurgici,

lucerne) e oggetti preziosi, tra cui bracciali in oro e monete.

IL GIUDIZIO DI PARIDE Un altro interessante aspetto decorativo della casa è costituito dal ciclo di affreschi in IV stile, avviato dopo il terremoto del 62 d.C., ma rimasto incompleto a causa della distruzione vesuviana. Fra i quadri mitologici piú significativi spiccano, fra architetture fantastiche e grottesche, in una stanza laterale un’originale scena con il suicidio dei giovani amanti babilonesi Piramo e Tisbe, con sullo sfondo la leonessa con il velo di Tisbe che rimanda al racconto di Ovidio; nel triclinio si conserva invece il bellissimo Giudizio di Paride, che compare seduto, con accanto Mercurio in piedi, e con la mano indica la prescelta tra le tre dee, raffigurate, con i loro attributi, sulla parte opposta. La Casa della Venere in bikini con la temporanea ricollocazione della statuetta da cui prende nome viene aperta periodicamente: per informazioni sulle prossime date, si può consultare la pagina Facebook della Soprintendenza Pompei, costantemente aggiornata: pompeiisoprintendenza

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n otiz iario

SCOPERTE Calabria

UNA PICCOLA CNOSSO

U

n’importante scoperta ha suggellato le ultime campagne di scavi condotte a Tiriolo (Catanzaro), in località Gianmartino. L’area era già nota archeologicamente per il ritrovamento, durante la costruzione di Palazzo Cigala (1640), della tavola bronzea contenente il testo del Senatus Consultum De Bacchanalibus (186 a.C.), con il quale il Senato romano aboliva, qui, i culti orgiastici in onore del dio Bacco, oggi conservata al Kunsthistorisches Museum di Vienna. Il recente intervento archeologico ha riportato alla luce alcune strutture riferibili a un grande edificio – splendidamente decorato e in eccezionale stato di conservazione –, databile, sulla base delle informazioni al momento disponibili, al IV-III secolo a.C. Le indagini hanno permesso di documentare le diverse fasi di costruzione, ristrutturazione e riuso dell’edificio, prima che esso venisse distrutto da un violento incendio. «Le strutture rinvenute – spiega Giovanna Verbicaro, funzionario archeologo della Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio per le Provincie di Catanzaro, Cosenza e Crotone e responsabile scientifico del Progetto – si articolano in un lungo corridoio colonnato, sul quale si aprono tre ambienti: una stanza pavimentata con cocciopesto e con un riquadro

Tiriolo (Catanzaro), località Gianmartino. Uno dei capitelli dell’edificio denominato Palazzo dei Delfini, rinvenuto all’interno dello strato di crollo.

centrale in mosaico che raffigura due delfini e un terzo pesce non ancora identificato; una seconda stanza provvista di una porta monumentale dal ricchissimo apparato architettonico; una terza stanza, pavimentata con cocciopesto decorato a motivi geometrici, e infine un grande atriovasca, parzialmente indagato. Essendo ancora in corso lo studio dei reperti, non è possibile al momento definire quale fosse l’originaria destinazione d’uso dell’edificio: tuttavia, numerosi indizi suggeriscono che, almeno in parte, esso avesse una funzione religioso-sacrale. Il Palazzo dei Delfini – come è stato ribattezzato– rappresenta comunque uno straordinario unicum relativo alla frequentazione brettia dell’entroterra catanzarese e conferma Tiriolo antica come uno dei piú rilevanti centri preromani dell’intero Istmo Lametino». Le importanti scoperte compiute Resti dell’intonaco dipinto che rivestiva le pareti di uno degli ambienti del Palazzo dei Delfini.

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nel sito di Gianmartino fanno nuova luce su aspetti finora sconosciuti della cultura dei Brettii. «Per quanto concerne le strutture murarie, di cui il “Palazzo dei Delfini” ha restituito un’ampia e articolata campionatura – spiega Ricardo Stocco, archeologo responsabile tecnico del progetto –, notevole importanza assume il ritrovamento, in ottimo stato di conservazione, di intere parti dell’edificio realizzate con la tecnica della “terra cruda”, compattata sul posto e quindi intonacata e dipinta. Ancor piú straordinaria è la scoperta di gran parte della decorazione architettonica: coperti dal carbone e pressoché integri, sono stati infatti rinvenuti i capitelli degli stipiti e delle colonne, in pietra lavorata e dipinti di rosso e nero, insieme a grandi frammenti delle cornici e degli architravi, anch’essi in pietra e dipinti». Tra i reperti mobili, spiccano un tesoretto di oltre cento monete cartaginesi d’argento e tre gruzzoli di monete bronzee brettie, nascosti poco prima dell’incendio dell’edificio. Importanti risposte storico-interpretative verranno infine dalle statuette votive in terracotta, raffiguranti donne variamente atteggiate e con diversi abbigliamenti e acconciature. Giampiero Galasso



A TUTTO CAMPO Giovanna Bianchi e Marco Valenti

ATTUALITÀ DI UNA LEZIONE A DIECI ANNI DALLA PREMATURA SCOMPARSA, L’UNIVERSITÀ DI SIENA RICORDA RICCARDO FRANCOVICH, STUDIOSO A CUI L’ATENEO TOSCANO DEVE LA MESSA A PUNTO DEGLI INDIRIZZI METODOLOGICI CHE TUTTORA ISPIRANO LE ATTIVITÀ DI RICERCA CONDOTTE DAI SUOI ARCHEOLOGI

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l 30 marzo 2017 ha segnato il decennale della scomparsa di Riccardo Francovich, che l’Università di Siena ha voluto ricordare con una mostra accompagnata da iniziative articolate su piú sedi. In queste pagine vogliamo sottolineare alcuni momenti dell’attività scientifica dello studioso e delle conseguenze che essa ha avuto sullo sviluppo dell’archeologia medievale in Italia. Allievo dello storico Elio Conti – che lo introduce allo studio dei castelli –, Riccardo Francovich fonda nel 1974 la rivista Archeologia Medievale, che è ancora oggi un punto di riferimento per quanti si occupano della materia; l’anno successivo viene chiamato a insegnare Archeologia Medievale nella neonata Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena e avvia subito ricerche ad ampio spettro in quella che sarà sempre la sua regione di elezione, la Toscana. Dopo le prime indagini alle Fonti di Follonica di Siena e nel Palazzo Pretorio di Prato, nel 1978 ha la possibilità di sperimentare uno scavo di maggiore respiro nel Cassero di Grosseto, con l’allestimento di una mostra presso il Museo d’Archeologia e d’Arte

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della Maremma. Nel 1979 indaga gli spazi interni ed esterni della Rocca di Scarlino e si confronta per la prima volta con le labili tracce dell’Alto Medioevo rurale. Nel 1982 Francovich sposta la sua attenzione sul castello di Montarrenti, a breve distanza da Siena, coinvolgendo un giovane professore dell’Università di

Sheffield, Richard Hodges: due gruppi di ricerca distinti, con esperienze diverse, si uniscono per condurre un progetto al quale partecipano numerosi studenti di archeologia provenienti da università italiane ed europee. I risultati ottenuti delineano con chiarezza quel modello storico poi definito «toscano», in seguito


arricchito con altre ricerche: la comparsa nel VII secolo di nuclei accentrati di altura per aggregazione spontanea, poi trasformati in centri aziendali e quindi in castelli. Dal 1984 alla metà degli anni Novanta, Francovich si concentra sui resti di Rocca San Silvestro, nel cuore del distretto minerario dei Monti di Campiglia: qui mette a punto il primo scavo estensivo in Italia di un sito fortificato. San Silvestro diventa in breve il cantiere-simbolo della nuova archeologia medievale, che ha lasciato la fase «dell’innocenza» ed è in grado di imporsi, per qualità e numero dei dati, accanto alle fonti tradizionali per una corretta ricostruzione dei quadri storici.

IL PRIMO PARCO ARCHEOMINERARIO Il suo infaticabile lavoro porta, nel 1996, all’apertura del primo Parco Archeominerario in Italia, a Campiglia Marittima, un’occasione che rafforza la convinzione e la militanza di Francovich nella valorizzazione del territorio, rendendo pubblico l’uso della storia e dell’archeologia. In quegli anni mette a punto importanti contributi sulla cultura materiale nel Medioevo, con particolare attenzione allo studio delle ceramiche, delle tecnologie metallurgiche e delle architetture, anche in funzione della loro tutela e restauro: l’avvio di nuove ricerche e progetti incentrati sull’archeologia dell’ambiente e del paesaggio, sulla storia sociale delle tecniche, coincide con un forte interesse nell’innervare il lavoro dell’archeologo ai metodi e ai risultati delle scienze esatte. In tal senso promuove lo sviluppo delle archeometrie, attivando collaborazioni con vari enti di ricerca e accogliendo nel Dipartimento senese un attrezzato laboratorio archeometrico.

Dalla metà degli anni Novanta Francovich può avvalersi di un nutrito gruppo di allievi, che avviano una mole impressionante di ricerche, dirette a indagare le rocche di molti borghi, ma anche a far luce su chiese e monasteri: a suo giudizio, infatti, solo la sistematica e abbondante raccolta di dati avrebbe dato vita a un racconto storico spendibile nel dibattito scientifico. Per sfruttare al meglio l’impiego delle tecnologie informatiche, crea il Laboratorio di Informatica Applicata all’Archeologia Medievale (LIAAM), sostenuto poi dalle risorse provenienti dal progetto quinquennale Archeologia dei Paesaggi Medievali, in collaborazione con la Fondazione Monte dei Paschi di Siena; al LIAAM segue la nascita del Laboratorio di Archeologia dei Paesaggi e Telerilevamento (LAP&T), basato sull’impiego estensivo del remote sensing nella ricerca archeologica. Con l’avvio del nuovo secolo, Francovich torna a occuparsi delle città nel Medioevo, sia nei centri minori – come San Giovanni Valdarno, nell’Aretino –, sia nei centri urbani: a Siena lo scavo di fronte all’antico ospedale di Santa Maria della Scala ha un seguito fortunato nella piú ampia indagine all’interno dell’ospedale e nella cripta del Duomo, con la scoperta delle sequenze altomedievali e di un eccezionale ciclo pittorico che precede i lavori di Duccio di Boninsegna; mentre gli scavi nel centro di Grosseto fanno emergere le fasi di vita piú antiche della città, si occupa della «sua» Firenze, lavorando sulle sequenze e sui reperti di via dei Castellani, applicando nello studio di un grande centro i metodi affinati in decenni di ricerche e rimarcando piú che mai – nella duplice veste di ricercatore e di cittadino fiorentino – il valore civico dell’archeologia.

Nella sua lunga carriera, Francovich è promotore di iniziative che coinvolgono l’intera comunità degli archeologi: tra le tante, le summer school alla Certosa di Pontignano (Siena), alle quali, negli anni, hanno preso parte moltissimi giovani archeologi, oggi attivi nelle Soprintendenze e nelle Università italiane, dibattendo temi, metodi e tendenze della disciplina.

OLTRE LE STORIE Per Riccardo Francovich il senso dell’archeologia non è soltanto la ricostruzione di storie dal passato, ma consiste soprattutto nell’intervenire nella tutela dei beni culturali e nella pianificazione urbana e paesaggistica: negli ultimi anni realizza il Parco Archeologico e Tecnologico di Poggibonsi e mette a punto un importante documento come il masterplan del Parco Nazionale Tecnologico e Archeologico delle Colline Metallifere, pubblicato postumo e destinato a guidare i futuri interventi di tutela e valorizzazione nell’ampio territorio minerario che è stato teatro delle ricerche da lui dirette. I laboratori dell’Ateneo senese e la sua casa di Antella, presso Firenze, sono sempre stati gli snodi di una rete di rapporti professionali ma soprattutto umani, di affetto e di stima con i tanti colleghi sparsi in ogni parte d’Europa e del mondo.

DOVE E QUANDO «Riccardo Francovich. Conoscere il passato, costruire la conoscenza» Siena, Palazzo di FieravecchiaChiostro del Palazzo di S. Galgano fino al 26 maggio Orario lu-ve, 9,00-19,00; chiuso nel fine settimana e nei giorni festivi. Info sulla mostra e gli eventi a essa collegati: https://www.facebook. com/events/1808875542663226/ permalink/1808875742663206/

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LONDRA

Dall’ambra alla ferrovia Il cantiere per la costruzione della nuova linea metropolitana della capitale inglese è forse il piú grande intervento urbano al momento in corso in Europa. Alla conclusione dei lavori, programmata per il dicembre 2018, l’aeroporto di Heathrow sarà collegato con le periferie orientali della città. La rete preesistente è stata estesa costruendo 10 stazioni ex novo, e tracciando oltre 21 km di gallerie nel sottosuolo, che si sono rivelate un’eccezionale opportunità per l’archeologia. Gli scavi hanno infatti permesso ai ricercatori del Museum of London di raggiungere ed esplorare aree altrimenti inaccessibili, e hanno portato al recupero di decine di migliaia di reperti che abbracciano un arco cronologico vastissimo. Per citarne solo gli estremi, si spazia da un’ambra preistorica, risalente a 55 milioni di anni fa, a strutture superstiti della Great Western Railway degli inizi del XX secolo. Parte di questo patrimonio, che include reperti databili dalla preistoria fino al XVII secolo è esposta nella mostra «Tunnel: The Archaeology of Crossrail», allestita presso il Museum of London Docklands, fino al prossimo 3 settembre. Info: www.museumoflondon.org.uk

MOSTRE Orvieto

UNA STAFFETTA PER LARTH

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el primo resoconto della scoperta della Tomba del Guerriero (pubblicato nel fascicolo delle Notizie degli Scavi di Antichità relativo al febbraio 1881), Gian Francesco Gamurrini (1835-1923) osservava: «Una tomba, la quale per la sua importanza sia di costruzione, che per gli oggetti contenutivi esige

che sia particolarmente descritta». La scoperta era stata effettuata solo tre mesi prima da Riccardo Mancini mentre conduceva indagini archeologiche in terreni posti alle pendici della rupe di Orvieto, nella località nota come Crocifisso del Tufo. Il suggerimento di Gamurrini, uno dei

In alto: cippo a testa di guerriero rinvenuto nel 1881 in una tomba della necropoli etrusca di Crocifisso del Tufo, a Orvieto. A sinistra: ferri da cavallo romani dall’area di Liverpool Street, a Londra.

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maggiori archeologi del suo tempo, è alla base del progetto della mostra «L’intrepido Larth. Storia di un guerriero etrusco», allestita presso il Museo «Claudio Faina» e il Museo Archeologico Nazionale di Orvieto, due luoghi della cultura che si affacciano entrambi sulla piazza del Duomo. Per motivi diversi, i due musei possono essere considerati testimoni di una stagione dell’archeologia italiana particolarmente vivace, nelle sue luci e nelle sue ombre, che portò al riconoscimento dell’importanza della civiltà etrusca nel quadro dell’Italia preromana. Un periodo intenso di scavi e ricerche, che localmente venne avviato, nel 1863,

dalla scoperta delle tombe dipinte Golini I e II in località Settecamini. Lungo il percorso espositivo – articolato significativamente nei due musei – si possono analizzare i tempi e i modi della scoperta e osservare il ricco corredo funerario che caratterizzava la tomba e, al cui interno, spiccano una serie di vasi attici a figure nere e rosse di particolare interesse presentati al pubblico per la prima volta. Inoltre, si può tornare a osservare, con una consapevolezza maggiore, il cippo a testa di guerriero che dà nome alla tomba descritta da Gamurrini e che si conferma come una delle opere piú significative della scultura in pietra degli Etruschi. Giuseppe M. Della Fina

DOVE E QUANDO «L’intrepido Larth. Storia di un guerriero etrusco» Orvieto, Museo «Claudio Faina» e Museo Archeologico Nazionale fino al 17 settembre (dal 12 aprile) Orario Museo «Claudio Faina»: ma-do: 10,00-17,00; lu chiuso Museo Archeologico Nazionale: tutti i giorni, 8,30-19,30 Info Museo «Claudio Faina»: tel. 0763 341216; e-mail: info@museofaina.it; www.museofaina.it; Museo Archeologico Nazionale: tel. 0763 341039; http:// polomusealeumbria.beniculturali.it

FORMAZIONE Ferrara

GESTIRE IL PATRIMONIO

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ono aperte le iscrizioni al Master annuale di I livello in Didattica, educazione e mediazione nei musei e nel patrimonio culturale dell’Università di Ferrara (anno accademico 2016/2017), diretto dal professor Livio Zerbini, ricercatore del Dipartimento di Studi Umanistici di UniFe. Il Master – attivato in modalità didattica on line – si avvale di docenti qualificati, sia provenienti dall’ambito accademico, sia di noti professionisti di comprovata esperienza attivi nell’ambito della didattica, della valorizzazione e promozione dei siti archeologici, dei musei e dei beni culturali. Tra i docenti, oltre allo stesso Livio Zerbini: Mario Tozzi, Fabio Donato, Anna Maria Visser, Carlo Peretto , Stefano Lamorgese, Elena Marescotti e Adriana Martini. Obiettivo del Master è quello di diffondere i risultati conseguiti dalla ricerca e dall’attività nei campi della didattica museale, della didattica dell’antico, della comunicazione, della promozione e della gestione dei beni culturali, al fine di consentire a tutti coloro che siano in possesso di un titolo di studio che consenta l’accesso all’insegnamento o ad attività formative di approfondire gli aspetti teorici e metodologici delle diverse discipline.

Il Master si propone di formare professionisti che mettano a disposizione le conoscenze acquisite e le proprie competenze direttamente presso i musei, i parchi archeologici o gli enti culturali, sia pubblici sia privati, sapendo gestire il Bene Culturale come risorsa per la conoscenza e la divulgazione del sapere. Il Master ha una durata annuale pari a 1675 ore (corrispondenti a 67 CFU), di cui 250 sono dedicate al tirocinio. Scadenza iscrizioni: 21 aprile 2017 Iscrivendosi al Master, è possibile usufruire del bonus da 500 euro per l’aggiornamento dei docenti. Per maggiori indicazioni sulle procedure di iscrizione, si può consultare il sito di UniFE al link: http://www. unife.it/studenti/pfm/mast/2016-2017/didatticamusei Per indicazioni di carattere organizzativo-didattico: e-mail: tutoratosea@unife.it; tel. 0532 293526. a r c h e o 19


PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri

ORICALCO, LA LEGA DEI DESIDERI

NEL VI SECOLO A.C., TRE NAVI GRECHE COLARONO A PICCO NELLE ACQUE DI GELA CON I LORO PREZIOSI CARICHI. A TUTT’OGGI, PERÒ, IL RECUPERO È STATO SOLO PARZIALE

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rent’anni fa, nelle acque al largo di Gela, vennero scoperte tre navi greche. Ancora oggi quei relitti – uno solo dei quali è stato recuperato – attendono di essere indagati e i loro scafi sommersi, che a tratti riaffiorano dalla sabbia del fondale, continuano a rivelare sorprese. Sondaggi effettuati di recente sul posto dagli archeologi subacquei della Soprintendenza del Mare della Regione Siciliana e dai sommozzatori della Guardia di Finanza di Palermo hanno permesso di recuperare da una delle imbarcazioni reperti eccezionali, ma i fondi per avviare uno scavo sistematico non ci sono e le navi rimangono inesplorate, alla mercé dei predoni del mare. Sull’argomento abbiamo intervistato Sebastiano Tusa, Soprintendente del Mare della Regione Siciliana, che in questi

anni ha diretto le indagini sui relitti di Gela e cosí esordisce: «Avremmo bisogno di finanziamenti per continuare le ricerche sulle navi, che risalgono molto probabilmente all’epoca arcaica: il contesto archeologico è databile alla fine del VI secolo a.C. Abbiamo già intravisto lo scafo ligneo di una delle imbarcazioni, dalla quale abbiamo recuperato molto materiale: ceramica, anfore, due elmi corinzi e un gruppo di lingotti di oricalco, una rara lega di rame e zinco, simile al nostro ottone, che gli antichi ponevano al terzo posto per valore, dopo l’oro e l’argento». Di questo metallo leggendario, racconta Platone nel Crizia, era ricca l’isola di Atlantide: ma è la prima volta che l’oricalco viene trovato in lingotti, non è vero? «Sí, per questo la scoperta è eccezionale. Abbiamo recuperato Al centro: uno dei rostri di nave da guerra recuperato nelle acque fra le isole di Levanzo e Marettimo, nel luogo individuato come teatro della battaglia delle Egadi, che, combattuta nel 241 a.C., pose fine alla prima guerra punica. A sinistra: il team che ha condotto il recupero dei reperti dal relitto Panarea III, trovato insieme ad altri tre legni, nelle acque fra Capo Milazzese e l’isola di Basiluzzo.

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A destra: un momento dell’intervento di documentazione del relitto Panarea III e del suo carico. In basso, a destra: antefissa in terracotta recuperata nelle acque al largo di Gela. In basso, a sinistra: i due elmi corinzi recuperati a Gela, al largo della terraferma in contrada Bulala, da una delle navi greche che si inabissarono nell’entrare in porto, per poi arenarsi. Il naufragio ebbe luogo nel VI sec. a.C. Il medesimo legno trasportava un carico di lingotti di oricalco, una preziosa lega di rame e zinco. 47 lingotti nello scorso febbraio, che si sono aggiunti agli altri 39 del 2014. I reperti a oggi conosciuti forgiati in oricalco sono molto rari e questa lega non è mai stata trovata sotto forma di lingotti, in nessuna parte nel mondo. Il carico della nave rappresenta dunque un unicum assoluto». Da dove venivano i lingotti? «Stiamo procedendo con le analisi di laboratorio, effettuate dall’Università di Palermo, per isolare la zona di provenienza. La mia ipotesi è che si tratti di una nave proveniente dall’Anatolia (l’odierna Turchia): sia le fonti che i rinvenimenti archeologici dicono che l’oricalco era conosciuto e usato in alcuni centri dell’Anatolia e

in Europa, dove lo troviamo in alcune fibule villanoviane. Era inoltre apprezzato in epoca augustea per coniare monete, soprattutto sesterzi. Avendo il colore dell’oro, esercitava una forte attrazione tra gli antichi». Che cosa suggerisce il fatto che la nave naufragata a Gela trasportasse decine e decine di lingotti di oricalco? «Che qualcuno li aveva voluti, a dimostrazione della ricchezza della città di Gela, colonia rodio-cretese fondata nel VII secolo a.C. e importante emporio commerciale nel Mediterraneo. L’imbarcazione naufragò

entrando nel porto e si arenò sulla spiaggia. Ciò significa che nel VI secolo a.C. a Gela esisteva un commercio di oricalco ed erano attive officine artigianali specializzate nella produzione di oggetti di pregio. Adesso si dovrebbe cercare di comprendere la relazione tra i lingotti e il contesto archeologico, che, come già dicevo, possiamo datare al VI secolo a.C. per la presenza degli elmi corinzi e della ceramica». Delle tre navi greche rinvenute nel golfo di Gela, l’unica scavata e restaurata, ben dieci anni fa, non è mai stata esposta al pubblico. Le altre, invece, giacciono ancora sommerse… «Ebbene sí. La sola nave recuperata, nel 2008, e poi restaurata in Inghilterra, attende da 10 anni di essere esposta e attualmente è chiusa in casse, nel vecchio Museo di Gela. Il relitto è stato scoperto 29 anni fa: da allora il progetto del nuovo museo del mare che doveva ospitarlo è pronto, ma non è mai stato realizzato. Abbiamo avuto i fondi solo per la parte strutturale dell’edificio. Le altre navi, invece, sono ancora in acqua e devono essere indagate con ricerche sistematiche. Per recuperarne una

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e renderla fruibile al pubblico occorrerebbe una cifra pari a oltre 1 milione di euro». Fondi di cui, al momento, la Soprintendenza del Mare non dispone... «No, i fondi strutturali non esistono e i finanziamenti europei soffrono di una notevole lentezza nella spesa. Io riesco a lavorare soltanto grazie a fondazioni statunitensi e sponsor europei, sulla base di progetti che, come Soprintendenza del Mare, intraprendo direttamente con Bruxelles. Del resto, l’istituto di cui sono responsabile può disporre attualmente di una dotazione annuale di 3000 euro, con la quale dovrebbe garantire l’operatività su tutta la Sicilia e sulle isole minori». E avete anche patito drastiche riduzioni in fatto di servizi e mezzi di trasporto… «Esatto, dobbiamo servirci di auto private e chiedere ospitalità agli amici. Il budget annuale dei beni culturali in Sicilia è passato dai 100 ai 18 milioni l’anno. Inoltre, non esiste nella Regione un laboratorio idoneo per il trattamento e la conservazione dei legni bagnati: la nave tardo-romana che ho scavato a Marausa, vicino Trapani, è stata restaurata a Salerno». E poiché non ci sono soldi per poterli scavare, i relitti sono preda dei tombaroli del mare. La Guardia di Finanza – che ha partecipato al recupero dei lingotti – ha provveduto a installare delle reti metalliche di protezione ancorate al fondale che, però, non sempre riescono a fare da deterrente. Già sono visibili i primi varchi aperti dai

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A destra: un gruppo di lingotti in oricalco provenienti dai fondali di Gela. VI sec. a.C. In basso: una delle anfore recuperate dalla nave di Gela che trasportava i lingotti.

tombaroli, raccontano i sommozzatori. Quanto è alto il rischio che i reperti vengano trafugati? «La zona è interdetta alla navigazione ma i controlli non vengono effettuati h 24. Né la Soprintendenza, né le autorità possono effettuare un monitoraggio continuo e può capitare che qualcuno si immerga per rubare. Il problema della sicurezza esiste, sebbene il fenomeno dei tombaroli sia diminuito rispetto al passato. Come Soprintendenza, adesso, possiamo contare su una rete capillare di informatori e sugli accordi con Guardia di Finanza e Carabinieri. Non ci sono piú le razzie sistematiche e prolungate di un tempo, ma il subacqueo della domenica che si immerge e ruba un’anfora sí». Quali ricerche avete invece potuto condurre, invece, grazie ai fondi di sponsor privati? «Abbiamo individuato il luogo esatto in cui si svolse la battaglia delle Egadi e trovato

ben 11 rostri di navi da guerra, una scoperta di importanza mondiale. Tutto ciò grazie a una fondazione statunitense che mette a disposizione per un mese l’anno una nave da ricerca. Cosí ho potuto verificare un’intuizione che avevo avuto sul luogo della battaglia delle Egadi: cioè che non fosse presso l’isola di Favignana, ma tra Levanzo e Marettimo. Avviate le ricerche in mare, in quel punto abbiamo trovato i rostri delle navi, una dozzina di elmi e circa 200 anfore. A Panarea, invece, canalizzando l’interesse di altre due fondazioni, abbiamo recuperato quattro relitti in alto fondale, colmi di vasellame e anfore databili tra il III secolo a.C. e il I d.C. Con l’Università di Stanford, invece, stiamo scavando un relitto bizantino trovato a Marzamemi, in provincia di Siracusa, che trasportava un’intera chiesa in marmo smontata. Il brand Sicilia attrae molto: grazie alla buona volontà, ai rapporti personali e alla credibilità internazionale, ho potuto offrire situazioni di ricerca di successo. E i reperti provenienti dalle acque siciliane che abbiamo esposto ad Amsterdam, in Olanda, e a Oxford, in Inghilterra, sono già stati richiesti anche da Copenaghen, Bruxelles e Palermo, dove verranno presentati prossimamente con la mostra “Mirabilia Maris”».



ROMA

Un pioniere dell’archeologia subacquea L’11 aprile, alle 16,00, l’auditorium dell’Ara Pacis ospita una manifestazione, sostenuta dalla Soprintendenza del Mare della Regione Siciliana e dall’Ateneo Suor Orsola Benincasa di Napoli, dedicata alla ricerca archeologica subacquea. L’occasione è data dalla presentazione del volume, MARIA, LACUS ET FLUMINA, Studî di storia, archeologia e antropologia «in acqua», di oltre 450 pagine, edito dal Bagatto Libri nella Collana «Ricerche di Storia, Epigrafia e Archeologia Mediterranea», dedicato a uno dei pionieri di questo campo di studio: Claudio Mocchegiani Carpano. A essa si accompagnerà la presentazione, seguita da un filmato, dei nuovi scavi del relitto medievale di Marzamemi (del VI secolo), con il suo carico di elementi architettonici (colonne, lastre decorate ed elementi scultorei finalizzati all’allestimento di un edificio sacro), in corso di svolgimento a cura della Soprintendenza del Mare in collaborazione con le Università di Stanford e di Suor Orsola, nell’ambito del quale sono in corso di sperimentazione nuove tecniche di scanning 3D in ambiente sommerso.

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MUSEI Pavia

UN ANGOLO D’EGITTO

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Egyptian Corner è uno spazio dedicato all’antico Egitto all’interno della raccolta archeologica e della gipsoteca, del Sistema Museale dell’Università di Pavia. La Collezione nacque nel 1819 per volontà di Pietro Vittorio Aldini, professore di archeologia, con finalità principalmente didattica e ospita reperti che si collocano tra la preistoria e la tarda antichità. Tra gli oggetti esposti, si segnalano terrecotte votive etrusche, ceramica dipinta e figurata, bronzetti e suppellettili, elementi architettonici ed epigrafi, una collezione numismatica e opere scultoree. All’inizio del Novecento, la raccolta si arricchí di una collezione di repliche in gesso di una trentina di originali greci. La sezione egizia si è costituita durante la prima metà del XIX secolo, grazie a donazioni di privati, esploratori e viaggiatori. Essa comprende sei ushabti (statuette funerarie) databili tra la fine del Nuovo Regno e l’Epoca Tarda; poco meno di venti frammenti lignei di arredo funerario appartenente al defunto Huynefer, databili alla fine del Nuovo Regno (XX dinastia) o all’inizio del Terzo Periodo Intermedio (XXI dinastia); un papiro funerario contenente estratti dalla XII ora della notte del libro dell’Amduat (Aldilà egizio), databile alla XXI-XXII dinastia (1076-746 a.C.); una testa di mummia di un giovane risalente all’epoca romana, (50-140 d.C. circa); una mummia intera femminile; e un bronzetto raffigurante Osiride, una delle piú importanti divinità del pantheon egizio, dio della rinascita e signore del regno dei morti, databile all’epoca romana. L’idea di una rinnovata presentazione della sezione egizia è nata per valorizzare le due

mummie, che ne sono oggi protagoniste. Infatti, dal 2013 la mummia femminile è stata al centro di ricerche condotte con le piú moderne tecniche di indagine medica e forense, a cura dell’équipe multidisciplinare Mummy Project, che hanno avuto grande accelerazione grazie alla Regione Lombardia, finanziatrice del progetto Condividere il patrimonio museale universitario. La mummia era stata donata nel 1824 da Stefano Giorgiani del Cairo al Gabinetto di Anatomia Umana e poi trasferita nel 1933 al Museo di Storia Naturale dell’Università di Pavia. All’inizio degli anni Sessanta fu collocata nel Castello Visconteo, sempre a Pavia, da dove ha infine raggiunto, nel 2012, la collezione archeologica dell’Università. Non vi sono molte notizie sul suo ritrovamento: Giovanni Zoja nel suo catalogo riferisce: «Fu trovata negli scavi di Tebe con un papiro dal quale si rilevò l’epoca della sepoltura, che corrisponde a 810 anni prima di Cristo». Del papiro non si hanno altre informazioni: la datazione è riportata all’interno del


In alto: la mummia di una giovane donna donata nel 1824 all’Università di Pavia. A sinistra: la mummia viene sottoposta a tomografia computerizzata. Nella pagina accanto: ricostruzione forense del volto della mummia. coperchio della cassa ottocentesca che l’ha a lungo custodita. Non vi sono notizie in merito al bendaggio. La mummia è stata indagata anche grazie a un esame di tomografia computerizzata (TC) presso il Reparto di Radiologia del Policlinico San Matteo di Pavia, ai fini della sua analisi antropologica virtuale e di successive analisi microscopiche e molecolari dei tessuti. Sulla base degli studi di Chantal Milani, antropologo e odontologo forense, di Jonathan Elias, direttore dell’Akhmim Mummy Studies Consortium (Pennsylvania, USA) e della specializzanda Francesca Motta, il corpo mummificato

apparteneva a una donna di tipo caucasico di età compresa fra i 20 e i 22 anni, alta poco meno di 150 cm. La dentatura (completa) è in condizioni eccellenti, salvo abrasioni dello smalto comuni in quelle popolazioni. Non sono state osservate fratture ossee di origine traumatica, antecedenti la morte. Già nel XIX secolo, la mummia dev’essere stata oggetto di autopsia da parte di qualche anatomista dell’Università di Pavia (forse Bartolomeo Panizza?). Il corpo ha infatti subito importanti manipolazioni. Dalla mummia sono stati inoltre prelevati due campioni, rispettivamente datati, con il

metodo del radiocarbonio (C14), al 378-369 a.C. e al 360-211 a.C. Secondo Wilfried Rosendahl, del Museo Reiss-Engelhorn di Mannheim, la mummia si può far risalire al III secolo a.C. Le analisi qualitative degli estratti volatili effettuate da Marco Nicola ed Elisa Ariotti (ADAMANTIO srl, Torino), con cromatografia gassosa (GC-MS), hanno rilevato la presenza, tra gli altri, di α-bisabololo, un alcool naturale costituente principale dell’olio di camomilla, e di neomirraolo, presente negli estratti organici della mirra (Commiphora myrrha). La mirra è attestata nella produzione di balsami e oli utilizzati sia quotidianamente, sia per la conservazione dei corpi e di altri materiali organici (alimenti). Sabina Malgora

DOVE E QUANDO Università di Pavia, Raccolta archeologica e gipsoteca Pavia, Strada Nuova 65 Orario lunedí, 14,00-17,00 e ogni 4° sabato del mese, 15,30-18,30 Info tel. 0382 98.6916/4707; e-mail: infomuse@unipv.it; http://musei.unipv.it/musei/2_ musei_7_AR.html

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n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

RITORNO A SAMARCANDA La città di Samarcanda, protagonista dello Speciale del mese scorso (vedi «Archeo» n. 385, marzo 2017), non poteva essere dimenticata dal punto di vista filatelico. Il suo solo nome evoca immagini esotiche, associate a Gengis Khan, a Tamerlano e a Marco Polo, e, per trasmettere quest’atmosfera, apriamo la consueta rassegna con una cartolina illustrata dei primi del Novecento (1). L’Uzbekistan è stata una delle repubbliche socialiste sovietiche fino al 1991 e quindi i francobolli che hanno ricordato Samarcanda erano emessi dall’URSS, in stile prettamente sovietico, 2 almeno i primi che risalgono al 1963. Cosí sono stati riprodotti la piazza del Registan con le relative Madrase (2), il Mausoleo di Tamerlano (3) e la Moschea Shah-i Zinde (4). Nel 1969, un francobollo riuní vari monumenti stilizzati (5) e, nel 1979, anno preolimpico, una lunga serie celebrò tutte le maggiori città del Paese e Samarcanda fu ricordata con la moschea Sher-Dor (6). L’ultimo francobollo sovietico di Samarcanda venne emesso nel 1989 e raffigura una delle moschee piú recenti, Hazrat-Hizr, costruita nelle vicinanze delle rovine di un’altra molto piú antica (7). All’indomani dello scioglimento dell’URSS, l’Uzbekistan divenne indipendente, nel 1991, e anche la produzione filatelica riguardante Samarcanda si è fatta, da allora, piú «vivace». Il primo francobollo (8) mostra la famosa piazza del Registan, per l’assegnazione a Samarcanda nel 1992 del Premio Aga Khan per l’architettura; ancora una parte della stessa piazza in un intero postale (9), mentre la porta di Samarcanda è riprodotta in quest’altro valore del 1994 (10). Chiudiamo la rassegna dei monumenti con un foglietto emesso nel 2007 per celebrare il 2750° anniversario della nascita della città. Esso riproduce diversi monumenti, alcuni dei quali già mostrati (11). Tuttavia, come si diceva all’inizio, non possiamo non parlare anche di ciò che comunemente associamo a Samarcanda, come Marco Polo (12) e le avventure fantastiche descritte nel suo Milione (13). Infine, l’ultimo omaggio va alla memoria del grande Tamerlano (14) e alla sua decisione di far diventare Samarcanda la fantastica città che ancora oggi è.

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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

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Luciano Calenda, C.P. 17037 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it; www.cift.it

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CALENDARIO

Italia ROMA Recuperare il passato per avere un futuro

Reperti archeologici recuperati dal Comando Carabinieri TPC Rome International School Sarcofago etrusco in fino al 30.04.17 terracotta dipinta.

All’ombra delle piramidi

POMPEI Picasso e Napoli: Parade

In mostra i bozzetti per i costumi del balletto disegnati dall’artista, maschere africane e reperti archeologici Antiquarium degli Scavi fino al 10.07.17

Il Corpo del reato

La mastaba del dignitario Nefer Museo di Scultura Antica Giovanni Barracco fino al 28.05.17

Il patrimonio archeologico ritrovato Antiquarium degli Scavi fino al 27.08.17

I Fori dopo i Fori

Pompei e i Greci

Palestra Grande fino al 27.11.17 (dal 14.04.17)

La vita quotidiana nell’area dei Fori Imperiali dopo l’antichità Mercati di Traiano, Museo dei Fori Imperiali fino al 10.09.17

REGGIO EMILIA Lo scavo in piazza

Spartaco

Affresco con scene di lavoro in una fullonica, da Pompei.

Schiavi e padroni a Roma Museo dell’Ara Pacis fino al 17.09.17

Colosseo. Un’icona Colosseo fino al 07.01.18

L’avventura archeologica M.A.I. raccontata Museo Egizio fino al 10.09.17

Cose d’altri mondi

COMACCHIO Lettere da Pompei

Raccolte di viaggiatori tra Otto e Novecento Palazzo Madama, Sala Atelier fino all’11.09.17

Archeologia della scrittura Palazzo Bellini fino al 02.05.17

TRENTO Estinzioni

GENOVA Salvi in Museo!

Rilievo in calcare con due dignitari di corte.

Dagli Etruschi a Tommaso Corsini Museo Archeologico e d’Arte della Maremma Museo di Preistoria e di Protostoria della Valle del Fiora fino al 30.04.17

PERUGIA Giochi da museo

Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria fino al 17.04.17 24 a r c h e o

TORINO Dall’antica alla nuova Via della Seta

Missione Egitto 1903-1920

Esposizione di papiri e reperti archeologici Oratorio di S. Caterina delle Ruote fino all’11.06.17

GROSSETO, MANCIANO Marsiliana d’Albegna

Una casa, una strada, una città Musei Civici di Reggio Emilia fino al 03.09.17

MAO, Museo d’Arte Orientale fino al 02.07.17

BAGNO A RIPOLI (FIRENZE) Santa Caterina d’Egitto L’Egitto di Santa Caterina

Le lastre dei palazzi assiri riesposte in Museo Museo di Archeologia Ligure fino al 18.06.17

Capitello in tufo con sfinge alata. Seconda metà del II sec. d.C.

Storie di catastrofi e altre opportunità MUSE-Museo delle Scienze di Trento fino al 26.06.17

Acquerello su carta. Dinastia Qing (1644-1911). Tavoletta iscritta in cuneiforme accadico, da Kanesh. XIX sec. a.C.

VENEZIA Prima dell’alfabeto

Viaggio in Mesopotamia alle origini della scrittura Palazzo Loredan fino al 25.04.17

VILLANOVA DI CASTENASO (BO) La Stele delle Spade e le altre Sculture orientalizzanti dall’Etruria padana Museo della Civiltà Villanoviana fino all’11.06.17


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

VICENZA Le ambre della principessa

MANNHEIM Egitto

Storie e archeologia dall’antica terra di Puglia Gallerie d’Italia, Palazzo Leoni Montanari fino al 07.01.18

Città del Vaticano Dilectissimo fratri Caesario Symmachus

Tra Arles e Roma: le reliquie di san Cesario, tesoro della Gallia Paleocristiana Musei Vaticani, Museo Pio Cristiano fino al 25.06.17

Francia PARIGI Che c’è di nuovo nel Medioevo? Tutto quello che l’archeologia ci rivela Cité des sciences et de l’industrie fino al 06.08.17

L’Africa delle rotte

Musée du quai Branly Jacques Chirac fino al 12.11.17

SAINT-ROMAIN-EN-GAL/VIENNE Il design ha 2000 anni Le grandi fabbriche Musée gallo-romain fino al 28.08.17

Terra dell’immortalità Reiss-Engelhorn-Museen fino al 30.07.17

Gran Bretagna Pelike apula con scena amorosa. Pittore di Licurgo, 360-350 a.C. circa.

LONDRA Deturpare il passato

Grecia ATENE Odissee

Svizzera BASILEA Arabia felix?

Mito e realtà nel regno della regina di Saba Antikenmuseum fino al 02.07.17

CHIASSO J.J. Winckelmann (1717–1768) I «Monumenti antichi inediti» Storia di un’opera illustrata m.a.x. museo fino al 07.05.17

Misteri sommersi d’Egitto Museum Rietberg fino al 16.07.17

Germania

USA

BONN Iran

NEW YORK Un mondo di emozioni

KARLSRUHE Ramesse

L’età degli imperi

Sorvano divino sul Nilo Badisches Landesmuseum fino al 18.06.17

Incensiere con figura di cammelliere. III sec. d.C.

Museo Archeologico Nazionale fino al 30.09.17

ZURIGO Osiride

Antiche culture tra l’acqua e il deserto Bundeskunsthalle fino al 20.08.17 (dal 13.04.17)

Statua di Posidone, da Livadostra (Beozia). 480 a.C.

Dannazione e profanazione nella Roma imperiale The British Museum fino al 07.05.17

L’antica Grecia, 700 a.C.-200 d.C. The Onassis Cultural Center fino al 24.06.17 Arte cinese delle dinastie Qin e Han (221 a.C.-220 d.C.) The Metropolitan Museum of Art fino al 16.07.17

Qui sotto: statua di kouros che sorride, con dedica ad Apollo.


SCAVI • MARZABOTTO

MARZABOTTO COSÍ REALE, COSÍ VIRTUALE NUOVE E IMPORTANTI SCOPERTE E UN PROGETTO DI RICOSTRUZIONE VIRTUALE CAMBIANO IL VOLTO DELLA CITTÀ CHE GLI ETRUSCHI CHIAMAVANO KAINUA di Giuseppe Sassatelli, Elisabetta Govi, Andrea Gaucci e Simone Garagnani, con contributi di Malik Franzoia, Bojana Gruška e Giacomo Mancuso

D

opo la straordinar ia scoperta del tempio votato a Tinia (vedi «Archeo» n. 357, novembre 2014), le ultime indagini condotte a Marzabotto, la Kainua degli Etruschi, hanno portato a ulteriori e importanti acquisizioni: è stato infatti scavato un nuovo tempio tuscanico dedicato a Uni, che cambia ancora 32 a r c h e o

il volto della città, e sono state recuperate alcune iscrizioni etrusche legate alla sfera del sacro e della politica. Oltre allo scavo e allo studio dei materiali, le ricerche comprendono la ricostruzione della città secondo le tecnologie piú innovative, perché ricostruire significa porsi domande scientifiche e, al contempo, rispondere all’e-

sigenza di visualizzare ciò che non si conserva piú. Questo approccio non solo va incontro alla necessità di conoscenza dei non addetti ai lavori e alla imprescindibile missione della divulgazione, ma impone anche un percorso di analisi scientifica ampio e integrato, che ha portato l’équipe della cattedra di Etruscologia dell’Università di


Piacenza

Adige

Po

Po

Parma Ferrara Reggio nell’Emila

A p p e n n i n o

Bologna Ravenna

T La Spezia Massa

Mar Ligure

Mare Adriatico

Modena

o

Marzabotto

Faenza

s c o E m i l i a n o

Forlí Cesena

Rimini

Arno

Veduta da sud-est dell’area archeologica della città etrusca di Kainua. Si individuano i tracciati delle strade principali (le cosiddette plateiai) e gli isolati interessati dalle indagini archeologiche.

Bologna ad avviare proficue collaborazioni con altre discipline. In primo luogo, le bioarcheologie per lo studio dei resti zoologici e botanici, finalizzato alla ricostruzione del paesaggio e del sistema di sussistenza. E poi il dialogo con competenze non strettamente archeologiche, come quella ingegneristica per la ricostruzione degli edifici, quella informatica per il trattamento dei dati di scavo, quella chimica per le analisi mineralogiche sui materiali. Da questo approccio nasce il Kainua Project che, giunto al suo terzo anno, si conclude con un convegno internazionale (18-21 aprile), che sarà un’importante occasione di confronto tra archeologi e colleghi di altre discipline oltre che un punto di partenza per una nuova politica di comunicazione dei risultati della ricerca. G.S. Le ricerche a Marzabotto sono condotte dalla Sezione di Archeologia del Dipartimento di Storia Culture Civiltà dell’Università di Bologna, in collaborazione con la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Bologna, Modena, Reggio Emilia e Ferrara e con il Polo Museale dell’Emilia Romagna. a r c h e o 33


SCAVI • MARZABOTTO

NEL NOME DI UNI di Elisabetta Govi

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e indagini archeologiche condotte negli ultimi tre anni nell’area adiacente al tempio periptero dedicato al sommo dio Tinia (assimilabile al Giove dei Romani, n.d.r.) hanno portato alla luce un altro edificio di culto, conservato solo al livello delle possenti fondazioni realizzate con ciottoli di fiume e con macigni di arenaria. Salgono cosí a cinque i templi della città, tre sull’acropoli e due in area urbana. Il nuovo tempio è di tipo «tuscanico», secondo la definizione data da Vitruvio a questa categoria architettonica peculiare del mondo etrusco e molto diffusa anche in ambito romano. A differenza del tempio periptero, il cui modello è greco e si caratterizza per il colonnato continuo che circonda la cella centrale, quello tuscanico ha tre celle allineate e chiuse sul retro, affacciate su uno spazio porticato, il pronao, con doppia fila di colonne. In simili strutture risultano evidenti la prospettiva visiva solo frontale e il principio della assialità, valorizzato anche dalla presenza di un podio, che lo isola dallo spazio circostante. 34 a r c h e o

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In questa foto: il cantiere di scavo dell’équipe dell’Università di Bologna nella pars postica (parte posteriore) del tempio di Uni, durante la campagna del 2015. In basso: planimetria generale della città di Marzabotto, integrata con il tempio di Uni di recente scoperta.


Il nuovo tempio di Marzabotto, largo 19,14 m e lungo 25,70, ha una planimetria ben ricostruibile, nonostante pesanti disturbi di epoca moderna abbiano intaccato le fondazioni e asportato il materiale costruttivo e di crollo dell’edificio. Esso trova un significativo parallelo in templi noti in Etruria meridionale, per esempio a Vulci, e nel Lazio, ad Ardea, costruiti tra la fine del VI e la prima metà del V secolo a.C.

L’OFFERTA DEL VINO Sono pochi, purtroppo, gli elementi della decorazione del tetto recuperati, mentre eccezionale è la scoperta di due iscrizioni che hanno chiarito da un lato il rito di fondazione del tempio e dall’altra il culto praticato. Nelle fondazioni murarie dell’edificio, occultati tra i sassi, sono stati trovati due frammenti di un’anfora in bucchero iscritta, utilizzata per compiere un’offerta rituale di vino alla divinità e poi intenzionalmente fratturata. Il testo dell’iscrizione doveva in origine essere piú lungo, ma le uniche parole gettate nelle fondazioni del tempio ne chiariscono l’atto di dedica alla divinità da parte della città: si tratta, infatti, del nome della città,

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2 cm

Qui sopra: i due frammenti dell’anfora in bucchero rinvenuti nel muro di fondazione del tempio: in quello di sinistra è graffita la parola spural e in quello di destra è il nome della città, Kainu[a]. Fine del VI sec. a.C. In alto: ricostruzione virtuale del tempio di Uni: dettaglio della pars

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antica (parte anteriore colonnata) e della travatura del tetto, ricostruita secondo la descrizione di Vitruvio. In basso: a sinistra, planimetria di scavo del tempio tuscanico di Uni, che evidenzia le parti conservate e quelle asportate in epoca moderna; a destra, la sua ricostruzione schematica.

Kainua, e del termine istituzionale spural, che la definisce nella sua dimensione politica. Molto scarse sono le informazioni a tutt’oggi disponibili sulle circostanze sottese alla fondazione dei templi in Etruria, a parte il caso della dedica del tempio B di Pyrgi da parte di Thefarie Velianas. Pertanto questa iscrizione di Marzabotto dischiude scenari assai interessanti sia sulla pratica rituale, sia sulle implicazioni politiche della costruzione di un santuario. L’altra iscrizione riporta il nome della divinità Uni, la Hera greca e la Giunone romana. Si guadagna cosí il culto della coppia Tinia-Uni, che avevano sedi affiancate nel settore nord-est del templum celeste e hanno due templi vicini nello spazio sacralizzato della città. a r c h e o 35


2 cm

A sinistra: frammento di coppa in bucchero con iscrizione parzialmente lacunosa graffita all’esterno. Il testo conservato restituisce unialthi, cioè «nel (santuario) di Uni». Seconda metà del VI sec. a.C. In basso: frammento della lamina di bronzo iscritta, dal tempio di Tinia. Il reperto (7,2 x 4,8 cm) è databile nei decenni centrali della prima metà del V sec. a.C. Nella pagina accanto: ricostruzione virtuale del tempio periptero di Tinia: in alto, la realizzazione del modello a partire dal disegno degli alzati; in basso, il modello virtuale arricchito delle decorazioni architettoniche rinvenute durante lo scavo.

LETTERE INCISE PER UN RITO SOLENNE

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al tempio di Tinia proviene un documento epigrafico di straordinaria importanza: un frammento di lamina in bronzo iscritta, destinata a essere affissa forse su un supporto ligneo all’interno

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dell’area sacra. Il testo, certamente piú lungo, doveva menzionare varie azioni compiute in una sequenza complessa e difficile da ricostruire. Si riconoscono tre nomi maschili di persona e un verbo, hecce, che

esplicita la sfera semantica del «costruire, erigere». Una possibile ipotesi interpretativa potrebbe ricondurre il testo a un solenne atto fondativo del tempio, scandito in diverse azioni rituali, sulla

scorta di quanto conosciamo da una delle note lamine d’oro di Pyrgi, nella quale si riconoscono il voto del tempio B e la sua dedicatio. L’espressione muntie spural, presente nella seconda riga, si carica di


significati oltremodo rilevanti, tenuto conto del contesto di provenienza dell’iscrizione, il tempio di Tinia nella città di Marzabotto. Muntie, infatti, si inserisce nel nutrito novero delle formazioni etrusche su radice mun-, alla base di muni/munis e derivati, inteso come «luogo» in un’accezione ampia che va dall’ambito santuariale (luogo sacro) a quello funerario (parti della tomba). Muntie potrebbe quindi fare riferimento a un luogo sacro, se non addirittura al mundus, specificato di pertinenza della città, lo spura, e, visto il contesto di ritrovamento, si potrebbe ipotizzare che il testo della lamina ricordasse il rito solenne compiuto al momento della dedica del tempio da parte di magistrati civici. La scelta del tipo di

supporto, che presuppone specifiche abilità scrittorie, è certamente dettata dall’esigenza di assegnare al testo un

carattere di perpetuità e di immutabilità e pertanto un valore quasi simbolico e religioso. L’analisi paleografica e testuale

suggerisce una datazione dell’iscrizione nei decenni centrali della prima metà del V secolo a.C. Elisabetta Govi

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SCAVI • MARZABOTTO

LA «SECONDA» FONDAZIONE DI KAINUA di Andrea Gaucci

N

el 2014 è stato avviato il progetto Futuro in Ricerca (FIR), finanziato da Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca, volto alla ricostruzione virtuale dell’antica Marzabotto secondo un accurato metodo filologico e alla sperimentazione di sistemi di fruizione di questo modello nell’area archeologica. La costruzione della città virtuale si è rivelata fondamentale per affronta-

re il problema degli alzati degli edifici, non conservati, e alcuni aspetti dell’assetto urbano ancora poco chiari. Il lavoro sui modelli ha generato un innovativo metodo di ricostruzione, definito ArcheoBIM, che permette di verificare la credibilità architettonica degli edifici non piú conservati in alzato e di usarli come contenitori di informazioni 3D.

Qui sopra: pianta del podio-altare D, pubblicata nel volume di Edoardo Brizio, Relazione sugli scavi eseguiti a Marzabotto presso Bologna dal novembre 1888 a tutto maggio 1889 (Roma, 1889). 38 a r c h e o

TEMATICHE COMPLESSE Il modello virtuale della città diviene in tal modo la base di partenza per dotare il Museo di un percorso di visita che decodifica le scarse testimonianze archeologiche conservate tramite la sovrapposizione di piú modelli virtuali e approfondisce tematiche complesse In alto: modello come il rito di fondazione. digitale del terreno (DTM) relativo alla città bassa di Marzabotto, eseguito tramite tecniche fotogrammetriche aeree.


Al centro: particolare del podio-altare D nel modello digitale dell’acropoli realizzato tramite 3D laser scanning.

bane (strade e marciapiedi, infrastrutture idriche) e degli edifici noti dagli scavi. Proprio questo lavoro ha permesso di comprendere che la strada «sacra» che univa i templi di Tinia e Uni della città bassa con gli edifici sacri dell’acropoli, costeggiava il ripido pendio di quest’ultima. L’acropoli si stagliava cosí, netta e imponente, ben 11 m circa sopra gli edifici della città.

In alto, qui sopra e in basso: altri particolari della tavola realizzata per l’opera di Edoardo Brizio e relativa al podio-altare D: dall’alto, una veduta prospettica della struttura; un particolare del rilievo delle modanature del recinto; la sezione longitudinale del manufatto.

Il primo obiettivo del Kainua Project è stato quello di raccogliere tutte le informazioni sulla città etrusca, dalle poche desumibili dagli scavi ottocenteschi fino a quelle ricche e dettagliate delle indagini piú recenti. L’insieme di questi dati si è dimostrato essenziale ai fini della ricostruzione di un modello virtuale filologicamente corretto. Grazie a tecniche fotogrammetriche basate su voli con drone e al laser scanning, è stato possibile acquisire l’intera area archeologica in 3D. La correlazione con le informazioni degli scavi ha quindi permesso di ricostruire, dove possibile, la morfologia del terreno antico. Su questo modello digitale del ter reno (DTM), sono state posizionate le ricostruzioni delle infrastrutture ur-

GLI EDIFICI E GLI ISOLATI Il rigore filologico del progetto ha portato a proporre la ricostruzione degli edifici noti dagli scavi senza indulgere in dettagli fittizi. L’attuale stato di conservazione dei resti archeologici non permette infatti di apprezzare gli edifici se non in fondazione, e quindi sono pochi gli indizi per comprendere l’alzato delle strutture e le attività che si compivano all’interno. Inoltre, le aree della città non indagate (ancora molte, se si considerano gli oltre 150 anni di ricerche archeologiche documentate) sono state ricostruite secondo le informazioni delle prospezioni geofisiche e la formulazione di uno schema ipotetico di lottizzazione degli isolati regolari desunto dagli edifici noti.

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SCAVI • MARZABOTTO

PASSEGGIANDO NELLA CITTÀ ANTICA di Simone Garagnani

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a r icostr uzione dig itale dell’intero tessuto urbano di Kainua ha richiesto uno sforzo collaborativo interdisciplinare, al fine di coniugare il rilievo di ciò che si è conservato solo a livello di fondazioni con le informazioni acquisite tramite lo scavo. A questi elementi si sono aggiunte le indicazioni ottenute dall’analisi della morfologia dei luoghi per come potevano presentarsi al tempo della fondazione, portando alla definizione della piú probabile forma della città, digitalizzata in un contesto virtuale tramite programmi di computergrafica tridimensionale. Lo scenario urbano ricreato virtualmente è uno strumento fruibile in varie modalità: dalla navigazione con apparati immersivi mutuati dal mondo dell’entertainment (nei quali

L’ANALISI GRAMMATICALE DI UN MONUMENTO L’adozione di protocolli e tecnologie informatiche derivati dall’ingegneria e dall’architettura ha permesso di affrontare la tematica della ricostruzione virtuale della città di Marzabotto e dei suoi edifici con maggiore consapevolezza grazie al Building Information Modeling (BIM), un processo nel quale le discipline coinvolte dialogano tra loro attraverso modelli digitali: da questo emerge la connotazione di profonda interdisciplinarietà dell’approccio. In questo contesto a Kainua e, nello specifico, per il tempio di Uni, si è cercato di andare oltre, applicando all’archeologia tale processo, che si

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è perciò scelto di battezzare ArchaeoBIM. La ricostruzione effettuata tramite l’ArchaeoBIM si basa principalmente sulla semantica degli elementi architettonici di un edificio replicati nel modello digitale. Infatti, analogamente alle parole di una frase, gli elementi architettonici rispettano una grammatica che ne esprime la relazione e la loro funzione nell’edificio. Nel tempio di Uni, le caratteristiche fisiche dei materiali da costruzione verosimilmente impiegati (legno – probabilmente di quercia –, mattoni crudi, tegoli e coppi di argilla cotta per il tetto),

la posa in opera secondo le proporzioni dettate dall’architetto romano Vitruvio e la loro disponibilità in loco, insieme allo studio dei carichi gravanti sulla costruzione valutati a partire dai reperti rinvenuti, sono informazioni correlate sulla base del processo di simulazione ArchaeoBIM. Questo processo, volto a definire il possibile comportamento della costruzione nel contesto reale, ha reso disponibili varianti costruttive diverse che, a seconda delle fonti, sono state poi comparate tra loro, per giungere all’ipotesi ricostruttiva piú probabile. S. G.


A sinistra: vista da sud-est dell’area archeologica con posizionamento dei modelli digitali delle strade principali e di alcuni dei piú importanti edifici indagati. Nella pagina accanto, in alto: ricostruzione virtuale dell’altura dell’acropoli, con la plateia B che costeggia il ripido pendio. Nella pagina accanto, in basso: ricostruzione virtuale del tempio di Tinia all’interno dell’insula 5 e dell’adiacente tempio di Uni al centro dell’insula 4 della Regio I: entrambi si affacciano sulla plateia B che conduce all’acropoli.

è possibile camminare idealmente tra le strade di Kainua, quando dotati di sistemi stereoscopici di Realtà Virtuale come Oculus Rift o Google Cardboard), alla visualizzazione piú tecnica, pensata per la ricerca. I modelli hanno infatti evidenziato le problematiche relative alla morfologia del terreno antico e alle parti crollate dal terrazzo fluviale; alla diramazione della rete stradale e delle infrastrutture idriche; al posizionamento degli edifici noti e alla

creazione di schemi processuali per di carattere piú esplicativo, destinate le aree ancora non scavate; al rap- ad attività museali: ne è un esempio porto tra la città bassa e l’acropoli. la rappresentazione del rito di fondazione sotto la volta celeste a riRICOSTRUZIONI ANIMATE produzione del cielo del tempo. Alle tradizionali viste di rendering Alcune viste panoramiche di Kaidescrittive di alcuni brani della città, nua tridimensionale saranno rese dove si sono introdotti elementi di disponibili direttamente sul sito arriconoscibilità propri della cultura cheologico, dove semplici indicatoetrusca del tempo (figure in abiti ri a sfioramento inseriti in pannelli coevi, suppellettili, elementi di uso in prossimità dei resti permetterancomune ricavati dai reperti origina- no di visualizzare i modelli su li), sono state affiancate animazioni smartphone o tablet.

Schema generale dell’alzato del tempio di Uni, generato a partire da componenti architettonici parametrici e realizzato mediante il software Autodesk Revit 2016.

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SCAVI • MARZABOTTO

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Mutuli

Trabes compactiles

Cantherii

INFRASTRUTTURE E TECNICA EDILIZIA

Templa

A sinistra: ricostruzione della travatura lignea del tetto ordinata secondo la sequenza di posa descritta da Vitruvio: In basso, a sinistra: elementi fittili rinvenuti a Marzabotto: 1. coppo; 2. antefissa.

di Malik Franzoia, Bojana Gruška e Giacomo Mancuso

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egolata secondo precisi criteri urbanistici, Kainua venne strutturata su quattro grandi vie, larghe 15 m (le cosiddette plateiai), intersecate da strade minori di 5 m (che prendono il nome di stenopoi). Le strade maggiori sono formate da due marciapiedi laterali e da una carreggiata centrale; le minori, orientate in senso nord-sud, dividevano la città in isolati stretti e lunghi, che ospitavano le abitazioni, ma anche i templi. Ai lati delle strade corre la rete di canalette per lo scolo e lo smaltimento delle acque. La ricostruzione della città è ini2

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Qui sopra: ricostruzione di una delle strade principali (plateia): la parte carrabile al centro è costeggiata dai due marciapiedi rialzati; nella carreggiata è visibile una fila di grossi ciottoli usata come attraversamento pedonale.

ziata dalla predisposizione del reticolo stradale sul DTM, cosí come in antico la costruzione delle strade fu il primo atto dopo il rito di fondazione della città. L’ipotesi ricostruttiva si è basata sulla raccolta dei dati disponibili e in particolare quelli dagli scavi dell’Università di Bologna, poi inseriti in un sistema informativo geografico (GIS), allo scopo di restituire l’antico assetto della città. M. F.

ARGILLA, LEGNO E COLORI Sebbene gli alzati delle strutture, che sappiamo essere realizzati in mattoni di argilla cruda e legno, non siano giunti fino a noi, il rinvenimento di numerosi elementi architettonici pertinenti al tetto, come tegole, coppi e antefisse, ha permesso di stabilire quali fossero le tecniche adottate per le coperture degli edifici, e di inquadrare cronologicamente le strutture stesse grazie alle caratteristiche dimen-


sionali e decorative di alcuni di questi oggetti. Per esempio, nel crollo del tetto del tempio urbano di Tinia sono stati identificati frammenti della decorazione architettonica con tracce di colore originale, che collocano l’edificio nel primo quarto del V secolo a.C. Tegole, coppi, antefisse e decorazioni sono stati acquisiti ed elaborati con le piú recenti tecniche di modellazione 3D, cosí da ottenere modelli tridimensionali foto-realistici che ci consentano di completare gli edifici «virtuali» con coperture filologicamente plausibili e di analizzare all’interno del modello BIM il

In alto: particolare dell’area di scavo e ricostruzione del’insula 1 della Regio IV, composta da case di prestigio. La ricostruzione virtuale ha tenuto conto di tutte le informazioni raccolte grazie alle indagini di queste abitazioni.

ARCHEOLOGIA, TECNOLOGIA E DIVULGAZIONE KAINUA 2017. Knowledge, Analysis and innovative Methods for the study and the dissemination of the ancient urban areas è il titolo del convegno internazionale in programma dal 18 al 21 aprile a Bologna (www.kainuaproject.eu). Vi prenderanno parte archeologi, architetti, ingegneri, esperti del settore delle comunicazioni e dell’informatica. Tutti questi specialisti forniranno contributi utili a una riflessione multidisciplinare che formuli nuovi metodi di indagine e analisi nella ricerca archeologica sulle città antiche, nuovi strumenti per la ricostruzione virtuale di queste strutture, nonché piú efficaci processi di divulgazione. La giornata del 19 aprile sarà interamente dedicata a Kainua, con la presentazione dei risultati raggiunti e una dimostrazione della ricostruzione virtuale della città etrusca che sarà possibile apprezzare direttamente nell’area archeologica. Il Convegno, in onore del 70° compleanno del professor Giuseppe Sassatelli, è organizzato dai Dipartimenti di Storia Culture e Civiltà e di Architettura dell’Università di Bologna, in collaborazione con CINECA, la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio, il Polo museale dell’Emilia Romagna e la rivista Archeologia e Calcolatori dell’ISMA-CNR, e con il patrocinio dell’UNESCO-Commisione Nazionale Italiana, del Comune di Bologna e di Genus Bononiae-Musei nella Città. Andrea Gaucci

In basso: Google Carbord e smartphone con applicazione di simulazione della vista stereoscopica: una soluzione a basso costo per fruire del modello virtuale di Kainua.

volume e il peso del tetto che insisteva sulle travi lignee e sugli alzati. B. G.

CASE DI PREGIO Tra gli edifici che costituivano il tessuto urbano dell’antica Kainua, spiccano, per estensione e prestigio, le sette vaste abitazioni rinvenute nell’Insula 1 della Regio IV. La sfida insita nella ricostruzione di questo isolato ha riguardato principalmente la discordanza tra la grande quantità di informazioni necessarie per l’elaborazione del modello tridimensionale e la scarsità di dati noti. Gli scavi in questo settore cittadino si svolsero infatti nel secondo dopoguerra con tecniche oggi superate e non furono mai editi, se non in forma di notizie preliminari. Si è scelto quindi di cominciare il lavoro recuperando l’intera documentazione redatta durante lo scavo, dal cui studio è stato possibile precisare i limiti tra le diverse case, la loro planimetria e la funzione di alcuni ambienti. Le diverse ipotesi ricostruttive emerse da questa rinnovata lettura sono poi state integrate con i dati relativi alle tecniche edilizie e ai materiali da costruzione usati nella città, al fine di riproporre nel modo piú fedele possibile l’aspetto di queste abitazioni. G. M. a r c h e o 43


STORIA • TAVOLE IGUVINE

TAVOLE DI CIVILTÀ Una veduta della città di Gubbio. In basso: due delle sette Tavole Iguvine. III-I sec. a.C. Gubbio, Museo Civico di Palazzo dei Consoli.

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces. 44 a r c h e o


SCOPERTE A GUBBIO ALLA METÀ DEL QUATTROCENTO, LE TAVOLE IGUVINE, SETTE LASTRE IN BRONZO, ISCRITTE SU ENTRAMBE LE FACCE, COSTITUISCONO UN DOCUMENTO LINGUISTICO DI ECCEZIONALE VALORE. E PROVANO ANCHE L’IMPORTANTE RUOLO DEGLI ANTICHI UMBRI FRA LE GENTI DELL’ITALIA PREROMANA

S

di Federico Fioravanti

ette lastre di bronzo. Rettangolari. Diverse per peso e misure. Esposte una accanto all’altra, in una sala del trecentesco Palazzo dei Consoli: sono le Tavole Iguvine, ritrovate nel 1444 da una contadina in un terreno adibito a pascolo delle pecore, nei pressi del Teatro Romano di Gubbio. Un passo dell’atto notarile, stilato nel 1456 al momento del loro acquisto da parte del Comune, descrive bene lo stupore che ancora oggi si prova di fronte agli antichi segni che corrono sul bronzo: «Variis literis scriptas latinis et segretis», «Lettere diverse, sia latine che misteriose». Il senso delle 4365 parole incise sul metallo rimase infatti impenetrabile per almeno quattro secoli. Solo con l’aiuto della nascente glottologia, in pieno Ottocento, si cominciò a capire che quei segni enigmatici, frutto di due differenti scuole di scrittura e quindi di due diversi alfabeti, prima

etrusco e poi latino, erano espressione di uno stesso, arcaico idioma indoeuropeo, oggi catalogato dai linguisti come «umbro-safino». Il linguista e archeologo Giacomo Devoto (1897-1974) ha definito le Tavole Iguvine come «il piú importante testo rituale di tutta l’antichità classica» e secondo il Dizionario d’antichità classica di Oxford (vol. III, 1953), «Le tavole, per la loro ampiezza e antichità, superano in importanza tutti gli altri documenti disponibili per lo studio delle antiche religioni italiche».

TESTI NON ETRUSCHI Dalle lastre di bronzo riemergono 11 testi, ma i temi trattati sono 9, poiché due argomenti sono ripetuti in una stesura doppia, breve e lunga. Le parole si susseguono per 7 facciate e mezza in grafia etrusca, anche se leggermente adattata, e per 4 facce e mezza in grafia latina. Piú di un centinaio di vocaboli, tutti sulla stessa tematica, si ripresentano nelle due diverse scritture. Questa circostanza ha permesso che la conoscenza dei valori alfabetici latini servisse come chiave per comprendere i segni etruschi nelle parole uguali o simili. Sullo studio dei testi eugubini, certamente non etruschi si è quindi a lungo fondata la decifrazione della scrittura degli abitanti dell’antica Etruria. Le Tavole Iguvine piú antiche risalgono al III secolo a.C. e le piú recenti al I secolo a.C. I testi, però, vennero composti centinaia di anni prima. Furono gli Umbri, contemporanei dei Romani, a fermare sul bronzo norme, preghiere e invocazioni che nei secoli precedenti erano state trascritte su pelli, tele, legni e altri materiali deperibili. Al momento dell’ultima trascrizione, il testo tradizionale venne aggiornato con le unità di misura e monetarie romane, alcune indicazioni topografiche e l’indicazione di nuove cariche pubbliche.

I fori visibili sui lati provano che le Tavole Iguvine dovevano essere appese: con ogni probabilità, vennero esposte alla visione pubblica nell’androne del Teatro Romano, nei pressi del quale furono poi ritrovate. Sui particolari della scoperta le cronache sono discordanti e comunque, nel primo studio documentato sull’argomento (1580), l’erudito eugubino Gabriele Gabrielli (15551602) fissò la data del ritrovamento al 1444. Come già ricordato, è invece certo che, dodici anni piú tardi, nel 1456, le Tavole divennero proprietà del Comune, come riporta l’atto notarile, redatto in latino e sottoscritto il 25 agosto dal cancelliere comunale Guerriero Campioni. Il documento venne registrato sui libri delle Riformanze di Gubbio e colpisce la descrizione che delle Tavole fece il cancelliere comunale: ser Guerriero, per due volte, scrisse eburneas, anziché aheneas, alludendo dunque a tavole bianche, come «l’avorio» e non «di bronzo». Un lapsus dotto, se il notaio pensava alle dodici tavole delle leggi romane, incise su tavolette eburnee. O forse, piú semplicemente, un errore attribuibile all’uso del «latinorum» dei burocrati dell’epoca. Il Comune di Gubbio tenne le Tavole lontane dagli occhi del pubblico fino agli inizi del Novecento, ma già gli amministratori del XVI secolo, con il determinante aiuto di Gabriele Gabrielli, avevano inviato ben 300 copie dei testi, riprodotti a stampa con il metodo dell’acquaforte, nelle principali università europee. Per provare a decifrare quelle lettere, si cominciò a copiarle, come fece anche il conte eugubino Giovan Battista Caltamaggi. Altre copie furono diffuse grazie all’uso sempre piú frequente delle presse per la stampa. A parlare per la prima volta di un documento umbro fu Curzio Inghirami (1614-1655), un discusso archeologo volterrano, che aveva però fama di falsario e venne perciò quaa r c h e o 45


STORIA • TAVOLE IGUVINE

DOVE E QUANDO Museo Civico di Palazzo dei Consoli Gubbio, piazza Grande Orario apr/mag e set/ott: tutti i giorni, 10,00-13,00 e 15,00-18,00; giu: giorni feriali, 10,00-13,00 e 15,00-18,00; sa-do, 10,00-13,30 e 14,30-18,00; lug/ago: 10,00-13,30 e 14,30-18,00; nov/mar: 10,00-13,00 e 14,3017,30; chiuso il 13, 14 e 15 maggio; gli orari possono subire variazioni Info tel. 075 9274298; e-mail: info@palazzodeiconsoli.it; www.museiunitigubbio.it

si del tutto ignorato. L’intuizione fu ripresa, con esito diverso, nel 1726 dallo studioso Filippo Buonarroti (1761-1837), al quale Cosimo de’ Medici aveva affidato la revisione del De Etruria Regali, pubblicato da Thomas Dempster (1579-1625) nel 1619. Nell’opera erano elencate le iscrizioni etrusche fino ad allora conosciute. Buonarroti vi aggiunse le Tavole Iguvine e sottolineò una chiara evidenza: nei testi delle Tavole non compaiono mai nomi con la terminazione «al», tipica dell’idioma degli Etruschi. La lingua riportata sul bronzo doveva quindi essere diversa, ma Buonarroti, con la prudenza dello storico, si limitò a titolare il suo contributo Esplicatione et coniecturae.

LE PRIME CONFERME Piú tardi, Scipione Maffei (1675-1755) – un erudito veronese che Giacomo Leopardi considerava «uomo nato nobile nella critica libera, franca, spregiudicata e originale» – volle vedere di persona quelle opere misteriose. E si convinse definitivamente del fatto che la lingua fermata sui bronzi non poteva essere etrusca. Un’altra, autorevole conferma, arrivò nel 1734 dagli studi del 46 a r c h e o

linguista e filosofo svizzero Louis Bourguet (1678-1748). Delle Tavole scrisse anche Anton Francesco Gori (1691-1757), nel suo Museum Etruscum, e un altro studioso settecentesco, l’alto prelato Giovan Battista Passeri (1694-1780), notò per primo che le prime tavole e le ultime due trattavano di argomenti simili. Il valore fonetico dei segni venne analizzato anche dal gesuita Luigi In basso: l’atto notarile stilato all’acquisto delle Tavole Iguvine da parte del Comune di Gubbio. 1456.

Lanzi (1732-1810) nel 1789, ma fu l’archeologo tedesco Karl Richard Lepsius (1810-1884) ad affrontare per la prima volta lo studio dei testi di Gubbio su basi scientifiche. Lepsius dedicò alle Tavole Iguvine la sua tesi di dottorato, nel 1833. E assegnò loro una numerazione, composta da una faccia anteriore A e una posteriore B. L’opera De tabulis eugubinis fu pubblicata dall’ateneo di Berlino ed ebbe grande risonanza nell’ambiente accademico. La consacrazione scientifica giunse però solo cento anni piú tardi, grazie a Giacomo Devoto, che ai bronzi dedicò un’opera fondamentale, Tabulae iguvinae (1937), nella quale scrisse: «Non possediamo nulla di simile né in lingua latina né greca: per trovare paralleli, bisogna ricorrere a letterature del vicino o lontano Oriente». C’era insomma una storia da riscrivere, ma che era già incisa sul bronzo. L’impresa della traduzione coinvolse i maggiori glottologi italiani, dall’indianistaVittore Pisani (1899-1990) ad Aldo Prosdocimi (1941-2016), il quale, nel 1984, pubblicò il testo con la conseguente descrizione pa-


L’allestimento delle Tavole Iguvine, nell’ex Cappella del Palazzo dei Consoli, a Gubbio. In basso: Ritratto di Federico da Montefeltro col figlio Guidubaldo, tempera su tavola attribuita a Pedro Berruguete. 1475. Urbino, Galleria Nazionale delle Marche.

leografica. Le Tavole furono indagate con passione anche da Piero Luigi Menichetti (1923-1998), studioso della storia eugubina. Il secolare percorso della traduzione fu completato dal glottologo Augusto Ancillotti, autore, con Romolo Cerri, de Le tavole di Gubbio e la civiltà degli umbri (Edizioni Jama, Perugia 1996).

SOLO 4 VOCALI Nelle Tavole Iguvine molte parole si ripetono, e spesso, con voci simili, indicano le medesime cose. L’antico alfabeto è composto da 18 lettere: 14 consonanti e 4 vocali (manca la «o»). Solo le Tavole III e IV non presentano scritte su entrambe i lati, ma le differenze non si fermano qui. Le Tavole I e II hanno le stesse dimensioni; la III e la IV sono piú piccole delle prime due; la V è di grandezza media, mentre le ultime due sono piú grandi delle altre. Le prime quattro tavole e anche una parte della V, sono redatte da destra a sinistra. La parte restante della V tavola e le ultime due si leggono invece da sinistra a destra. Le Tavole Iguvine elencano prescrizioni rituali destinate alla «confraternita Atiedia», un collegio di cittadini

eccellenti della comunità iguvina che aveva il compito di officiare i culti collettivi. Chiamati cosí in ricordo di Atiedio, città madre nell’alta valle dell’Esino, oggi Attiggio, frazione del comune di Fabriano, di cui Iguvium era figlia o colonia. Parlare con gli dèi a nome della comunità era un privilegio riservato a pochi, nobili eletti. Ma era importante farlo in modo corretto, secondo procedure rigorose e immutabili, attraverso un «breviario» che andava conservato e trasmesso di generazione in generazione. Occorreva evitare che chi officiava i riti potesse modificare i modi e i tempi di una liturgia considerata perfetta e vista dagli antichi abitanti dell’Appennino come il solo strumento capace di assicurare la benevolenza divina, la salute delle persone e del bestiame, nonché l’agognata prosperità dei campi. Tramandare il «breviario» attraverso il quale si celebravano i riti comunitari di Iguvium e delle città alleate era il primo e il piú importante dei doveri e cosí, attraverso le regole del rito, possiamo ricostruire la società degli antichi Umbri. La comunità cittadina, organizzata in senso politico e amministrativo, a r c h e o 47


STORIA • TAVOLE IGUVINE

veniva chiamata tota. Nella Tavola II e nella Tavola V sono riportate le istruzioni per il corretto svolgimento rituale del patto della decade, termine con cui si indicava una confederazione tradizionale di dieci comunità, strette in un patto lungo un territorio appenninico che da Iguvium arrivava al Mare Adriatico. Le città-stato alleate, con il tempo, diventarono venti, pur mantenendo i dieci nomi sacri originali: tiieriate, klaverniie, kureiate, satanes, peieriate, talenate, museiate, iuieskane, kaselate e peraznanie.

GESTIONE COLLEGIALE La Tavola V è peraltro un documento eccezionale che apre uno squarcio incredibilmente moderno su una società di quasi tremila anni fa: la confraternita era gestita collegialmente, su base maggioritaria. L’esecuzione impeccabile degli atti e la gestione delle parole cerimoniali erano compiti specifici di un officiante, ma il prescelto non era un autocrate. Anzi, sottoponeva ogni suo atto al gradimento dei confratelli, che, a seconda del suo operato, potevano premiarlo o multarlo. Nel rapporto con gli dèi valevano le stesse regole della società degli uomini, con al primo posto la lealtà e il rispetto dell’impegno assunto. La parola data era talmente importante

QUEL LIBRO FRANCESE... Nel suo Anna Karenina, Lev Tolstoj trasforma il mistero delle strane lettere incise sul bronzo in una storia appassionante: «Aleksej Aleksandrovic ordinò di servire il tè nello studio e, giocando col tagliacarte massiccio, andò verso la poltrona accanto alla quale erano preparati una lampada e un libro francese sulle Tavole Eugubine del quale aveva iniziato la lettura. (...) Dopo aver letto ancora un po’ il libro sulle Tavole Eugubine e risvegliato in sé l’interesse verso quelle iscrizioni, Aleksej Aleksandrovic, alle undici, andò a dormire, e quando, supino nel letto, ricordò quello che era accaduto con la moglie, la cosa non gli

che venne divinizzata: Fisone Sancio era il dio che riconosceva un patto come valido e quindi «sanciva», una decisione fino a sacralizzarla, conferendo ufficialità e chiarezza agli accordi presi. Un garante dei patti su cui si fondava la comunità, ma anche delle molte regole che le città confederate dovevano rispettare. I nove testi diversi raccolti nelle sette Tavole sono quindi un manua-

apparve piú sotto un aspetto cosí fosco». Il testo citato da Tolstoj è Les Tables eugubines (1875), del glottologo Michel Bréal, considerato il fondatore della semantica.

le del giusto rapporto da assumere quando ci si rivolge alla divinità. Per esempio, raccontano in modo minuzioso il corretto svolgimento delle cerimonie di purificazione sia sul terreno religioso (piacula) che su quello militare (lustratio). Oppure elencano le prescrizioni del rito «per auspici avversi». Arrivano a descrivere, nei dettagli, il sacrificio rituale di un cane. E regolano la corretta cerimonia di cinque speciali giornate dell’anno, dette Sestentasie, che servivano a propiziare il raccolto secondo le tradizioni dell’antico In alto: restituzione grafica di una delle Tavole Iguvine realizzata per l’opera Les Tables eugubines di Michel Bréal. 1875. A sinistra: particolare dei rilievi dalla cosiddetta Ara di Domizio Enobarbo, raffigurante una scena di censimento, dal Tempio di Nettuno nel Campo Marzio. 100 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto: la faccia A della Tavola Iguvina V. III-I a.C. Gubbio, Museo Civico.

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STORIA • TAVOLE IGUVINE

NEL SEGNO DEL 3 Della triade Giove-MarteVofion e, in generale, del valore assegnato al numero tre dagli antichi Umbri si può considerare erede la Festa dei Ceri, che ogni anno, il 15 maggio, anima Gubbio. Tre santi: Ubaldo patrono, Giorgio guerriero e Antonio, garante della eugubinità. Come la triade umbra Giove-Marte-Vofione. E poi le processioni, le sfilate, i giri nella piazza, le tre soste, simili ai cortei dei sacerdoti di Marte, i Salii sabini. Da cui nacquero il saltarello e la tarantella, danzati in triplice tempo, proprio come l’ahtrepursaom, il «tripudiare», citato nelle Tavole Iguvine: in senso letterale «battere i piedi in tre tempi». E poi c’è la kletra, una portantina di legno. Era la gabbia da trasporto per la pecora e il maiale, gli animali che venivano sacrificati durante la cerimonia delle Sestentasie, la festa che serviva a propiziare i raccolti e che dava inizio all’anno agrario. La barella rituale non doveva essere molto diversa da quelle su cui oggi poggiano i Ceri. Dietro la kletra, portata a braccia, tutta la gente di Iguvium saliva al monte sacro, l’okri Fisio, insieme ai rappresentanti delle comunità umbre federate. Sulle Tavole Iguvine è scritto: Arven kletram amparito, cioè «Al campo si allestisca la portantina». Cosí le parti in legno della kletra venivano assemblate appena fuori dalla città, «al campo». In parte avviene anche oggi per i Ceri, nel giorno della festa, quando le tre macchine di legno, dopo una pausa, ripartono, poco oltre la porta di S. Ubaldo. Antico e moderno, morte e preghiere, si confondono nelle parole incise sul bronzo. Nelle ore del sacrificio in nome di Torsa Giovia, 12 giovenche «mature» venivano messe in fuga per le vie della città. Il rito della loro cattura evoca le tauromachie dei popoli mediterranei e la corrida di Pamplona, che, in qualche modo, somiglia anche alla «Fuga del Bove», la festa popolare natalizia della città umbra di Montefalco, una volta molto piú feroce di quella di oggi, dove un bue, abbeverato da una miscela di pepe e vino, saliva lungo le vie cittadine e poi moriva, sfinito dalla corsa, tra le grida della folla che esultava di fronte alla morte dell’animale.

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A sinistra: Montefalco. Un momento della «Fuga del Bove». In basso: Gubbio. Un primo piano dei tre «ceri» che vengono portati in processione nella tradizionale corsa.

mondo agropastorale. Le parole iscritte sul bronzo illustrano i diritti e i doveri degli officianti e chiariscono le regole tributarie e commerciali da rispettare nei rapporti fra le città confederate.

LA GUERRA COME DIFESA Di particolare interesse, per piú motivi, appare la descrizione che le Tavole Iguvine fanno della lustratio, una cerimonia di purificazione dei cittadini in armi. Le azioni militari portavano morte e distruzioni e quindi rovesciavano l’ordine naturale delle cose. Cosí l’adunata in uno spazio pubblico si ripeteva in modo periodico. Dalle parole delle Tavole Iguvine scopriamo un popolo che impugna le armi solo quando è costretto. E che vede la guerra, in modo pressoché esclusivo, soltanto come uno strumento di difesa. L’abito del soldato andava indossato come un dovere verso gli altri, per difendere il bene comune del territorio minacciato dai nemici, ma la guerra è un male, da tenere lontano dalle proprie case e dalla vita di tutti i giorni. Il mestiere delle armi, in ogni caso, era di esclusiva competenza delle élite. La lustratio, una delle piú arcaiche forme di censimento conosciute, diventava cosí anche un modo per contarsi, per capire chi era in condizione di combattere. L’elenco dei potenziali guerrieri da coinvolgere in una guerra escludeva gli stranieri. La circostanza, paradossalmente, fa riflettere sullo spirito tollerante dell’antico popolo italico verso chi non era nato nella comunità di Iguvium: la circostanza che il divieto venga ripetuto piú volte ci informa sul fatto che nella città degli Umbri risiedevano molti stranieri e che la loro presenza, se si eccettua il momento della battaglia,


era considerata del tutto normale. L’esclusione dalla cerimonia militare non era quindi dettata da ostilità, ma dalla necessità di rimarcare l’identità cittadina.

PREGARE PER VINCERE Nella vita di ogni giorno gli antichi Umbri cercavano di continuo il mers, la «giusta misura». Un buon senso da inseguire e che emerge anche nel testo della Tavola VII, nel passo della imprecatio, la preghiera rivolta alla divinità di Torsa Giovia per ottenere la sconfitta dei nemici. Gli abitanti di Iguvium descrivono se stessi come vittime di continue scorrerie da parte di bellicosi vicini e le condannano con forza.Tuttavia, sanno che non è possibile eliminarle del tutto dalla loro vita. In qualche modo devono convivere con la disgrazia di essere quasi sempre sotto la pressione di un attacco. Allora pregano la dea in modo collettivo, chiedendole di terrorizzare i nemici, perché almeno si spostino e ripieghino in altre zone. La già citata confederazione Atiedia, che raggruppava venti città alleate, al di là del Tevere confinava con Perugia e gli altri centri controllati dagli Etruschi; a oriente, verso il mare, c’era il costante pericolo degli Iapodi, i pirati illirici che infestavano le coste adriatiche; a sud, vivevano altre genti umbre: i Tadinati, insediati nell’area dell’attuale Gualdo Tadino, e i Naharchi, che abitavano lungo le sponde del fiume Nera nei pressi del luogo dove poi nacque Interamna Nahars, la Terni latina. UNA VISIONE TRIPARTITA Nel racconto ormai decifrato delle Tavole, la cultura paleoumbra dell’età del Bronzo e quella safina o savina dell’età del Ferro sono mescolate. Nella prima c’è una visione piú antica del divino, che appare misterioso e duale: uranio e ctonio, celeste e allo stesso tempo interno al terreno. La seconda, come scrive il glottologo Augusto Ancillotti, è in-

vece «portatrice di una visione tripartita, che vede il divino, come l’umano, articolato secondo il potere della parola magica e creatrice, potere della forza materiale e potere della vitalità e della fecondità». Il dio della riproduzione è l’umbro Vofion, la divinità del clan. La trinità è costituita quindi da Giove Grabovio, Marte Grabovio e Vofione Grabovio. A indicare che nell’epoca in cui i testi delle tavole furono trasportati sul bronzo, tutti gli dèi avevano assunto i caratteri di Grabo, un’antichissima divinità iguvina. Giove padre, trasposizione dell’autorità assoluta del pater familias, è il patrono del monte Fisio che domina Iguvium e della confraternita Atiedia; Mart, corrispondente del Marte latino, è l’atavico dio dei guerrieri pastori; Vofione è il dio della fertilità, che assicura la discendenza e quindi la vita futura alla città. Tre divinità. Nel rito colpisce la valenza magico-religiosa attribuita al numero: tre sono le porte maggiori, Tessenaca, Trebulana e Vehia, dalle quali si poteva accedere a Iguvium; tre gli enti beneficiari delle offerte; tre anche i tempi del sacrificio. Cosí come ternario è il ritmo della danza rituale. E la proclamazione della fine del rito, descritta nella Tavola VI, che doveva essere ripetuta tre volte prima che la fila degli armati potesse finalmente sciogliersi. Nell’Italia preromana gli Umbri gettarono le basi della nostra civiltà. Insediamenti in forma di villaggi furono organizzati come comunità statali. All’antico popolo dobbiamo la pratica della giustizia e l’istituzione delle prime magistrature civili e religiose. Nacque allora il concetto di patria comune e il territorio iniziò a essere considerato un bene collettivo da difendere. Gli Umbri fissarono per primi norme che sono ancora fondamentali per le società contemporanee. Come il rispetto del principio della separazione della

proprietà privata, governata dalla famiglia patriarcale e la «cosa pubblica», che era invece un patrimonio di tutta la comunità. La confederazione (deku) delle venti città, all’interno di una unità territoriale molto piú ampia del proprio Paese di origine, dava prosperità ai commerci e agli spostamenti stagionali di un popolo di pastori. Facilitava la costruzione di nuove strade e regolava la transumanza del bestiame, lungo i tratturi che si intrecciavano tra le valli. Con gli antichi Umbri nacquero figure capaci di ordinare la vita pubblica, dal magistrato in capo (uhtur), al suo collega che curava le opere pubbliche (maron). Fino al giudice (meddix) e all’arbiter, il magistrato «equidistante», incaricato di risolvere le controversie.

PAROLE ANCORA VIVE I testi delle Tavole Iguvine, finalmente tradotti, svelano altre sorprese e ci ricordano un’altra eredità che ci arriva dalla civiltà degli Umbri, lontana dalle meraviglie dell’arte etrusca o dalle grandiose opere dei Romani a lungo misconosciuta, ma comunque integra, a distanza di trenta secoli. Non si tratta di oggetti, ma di parole, di termini che il mondo italico ha trasferito prima al lessico latino e poi a noi. Parole della viabilità – come via o calle –; della teologia o del culto – come Cerere, pontifex oppure pius –; dell’ideologia sociale (vir, familia, curia); della terminologia giuridica (arbiter, auctoritas, stipula). Oppure dell’organizzazione militare: centuria, fundere, hastatus, cinctus. Suoni vivi e familiari: casa, tetto, vino, cibo, popolo, soglia, vaso, carne, picchio, capro o vitello. Verbi come curare, tacere, portare oppure sancire. E aggettivi: saldo, salvo, scritto, sacro… Un legame profondo: radici intrecciate di parole ci legano per sempre ai segni, a lungo misteriosi, delle tavole di Iguvium. a r c h e o 51


STORIA • TAVOLE IGUVINE

I «VERI» FONDATORI DI ROMA Analizzando le Tavole Iguvine, sorprendono le affinità con alcune delle piú famose tradizioni solitamente riferite alla città di Romolo. Segno di un’osmosi culturale che fu molto probabilmente lunga e profonda di Augusto Ancillotti

L

e Tavole Iguvine sono una finestra aperta su un mondo che per molti versi sta all’origine della cultura di Roma. Oggi sappiamo che i testi delle Tavole Iguvine sono copie di archetipi antichissimi in cui affondano le radici delle culture «safine» dell’Italia all’inizio dell’età del Ferro (Sabini, «Umbri», Piceni, Sanniti, ecc.). Nonostante la tradizione che impernia sulla figura di Romolo la fondazione della città, Roma non porta avanti la cultura degli uomini giunti al seguito di Romolo e Remo, ma quella delle genti sabine (= safine) che già vivevano in riva al Tevere. Questa affermazione è in linea con la tradizione che vuole il re sabino Tito Tazio accanto a Romolo, che fonda le famiglie romane sulla leggenda del «ratto delle Sabine», e che affida al re sabino Numa Pompilio tutto l’impianto civile e religioso della comunità romana. Scrive Plutarco: «Numa distribuí i cittadini secondo le arti e i mestieri (…) e poi istituí delle adunanze collettive e delle assemblee pubbliche, dei riti e delle funzioni religiose proprie di ognuna di quelle categorie. E in questo modo egli bandí dalla città la pratica di parlare e pensare di alcuni cittadini come Sabini e di altri come Romani, o di alcuni come sudditi di Tazio e di altri come sudditi di Romolo, tanto che alla fine la sua organizzazione risultò come una armo-

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niosa fusione di tutti loro insieme» (Vita di Numa, 17.3). Ecco perché il mondo culturale dei «Sabini» risulta sostanzialmente lo stesso che si esprime nelle Tavole Iguvine: entrambi affondano le radici nella tradizione safina preromana.

I re di origine sabina La tradizione delle origini sabine della città di Roma lascia una traccia anche nella numismatica. Come in questi denarii che riportano i ritratti dei due re sabini, Tito Tazio (in alto) e Numa Pompilio. Tito Tazio condivise con Romolo i primi anni di regno e Numa Pompilio successe poi a entrambi.

DAI PONTI AI PONTEFICI Non è difficile rilevare coincidenze significative tra la cultura della Roma delle origini e quella che si esprime nelle Tavole Iguvine, come nel caso del collegio dei pontefici. Dionigi di Alicarnasso, nelle Antichità romane, scrive che i pontefici istituiti da Numa Pompilio erano cinque, e che tali rimasero fino all’anno 300 a.C. E nella III Tavola Iguvina si legge: «Poi i confratelli presentino alle unità quinarie (ponti) elette il magistrato in capo; [lo faccia] chi dei confratelli si troverà nel luogo dell’assemblea secondo le regole. Quindi il magistrato si sieda sulla pietra nella sede dell’assemblea. Il magistrato proclami che le unità quinarie (ponti) devono procurare un porcellino e una pecora. Allora le unità quinarie (ponti) elette tra i confratelli scelgano il porcellino e la pecora». Nella lingua delle Tavole accanto al termine ponti, «cinquina, unità quinaria», doveva esistere il termine pont-eks o ponti-eks, che indicava «il pontico», il membro della cinquina. Lo si ricava dall’esistenza del termine fratr-eks, «il fratrico», il membro


della fratellanza, piú volte citato nelle Tavole. Ebbene, a Roma Numa porta l’istituto sabino dei cinque pontici, ognuno dei quali era un pontieks. Non ci volle molto perché i Romani reinterpretassero il termine pontieks come pontifex, intendendolo come colui che istituisce il ponte fra la comunità e la divinità.

ACQUA E SALE PER LE VESTALI Un altro istituto condiviso da Gubbio e da Roma è quello delle Vestali. Dalla lettura affiancata di alcuni passi delle Tavole Iguvine ricaviamo che nei sacrifici pubblici si usava il ranu, «ranno», qualcosa che si fa sul posto utilizzando il sale, e che non può essere altro che quella salamoia, composta d’acqua e sale, che a Roma è preparata dalle Vestali: la muries. Altra significativa osservazione discende dall’accostamento dei numerosi passi delle Tavole che pre-

Il re all’altare In alto: rovescio di un denario in argento sul quale compare Numa Pompilio (a destra) di fronte a un altare, al quale un giovane conduce una capra destinata a essere sacrificata. 97 a.C. A destra: Le Vestali, olio su tela di José Rico Cejudo. XIX sec. Siviglia, Palazzo del Municipio.

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STORIA • TAVOLE IGUVINE

scrivono l’uso del fuoco per i sacrifici: un fuoco che non si può accendere ex novo sul luogo prescelto, ma che deve essere portato attingendo le fiamme da un altro fuoco. Quale altro fuoco, se non quello sacro che simboleggia la casa comune? Anche questo importante indizio lascia intendere che, benché le Tavole non le nominino, le Vestali erano in funzione anche a Iguvium. Del resto, dalla tradizione antiquaria romana abbiamo l’indicazione dell’esistenza del collegio delle Vestali presso le genti italiche, anche prima che Numa lo istituisse a Roma. Si tenga presente che la voce vesta, glottologicamente non designava una dea (come fu poi in

epoca storica, per l’influenza del modello greco), bensí «l’insediamento, l’abitato».

SEDUTO A OSSERVARE IL VOLO DEGLI UCCELLI Anche il rito dell’augurazione, con cui si doveva accertare la disposizione positiva della divinità, è lo stesso a Gubbio e a Roma. Nella Tavola Iguvina VI.a si legge: «Colui che sarà andato a rilevare i messaggi augurali, stando seduto, dal capanno cosí si rivolga all’officiante: “Stipula [con la Divinità] che io osservi l’upupa e la cornacchia da destra, il picchio e la gazza da sinistra: gli uccelli giusti e i richiami giusti in quanto divini”». E nella Tavola I.a: «Questa cerimonia [l’officiante] la

PALEOUMBRI E SAFINI Al tempo della guerra di Troia, vero «spartiacque» tra mito e storia, i Paleoumbri – popolo «estremamente grande ed antico» secondo Dionigi di Alicarnasso – abitavano molte, fiorenti città, dislocate lungo un vasto territorio che abbracciava monti e pianure, dal Po al Tevere e dall’Adriatico al Tirreno. Gli storici romani li chiamarono Aborigeni, proprio per indicare che c’erano già, «dal tempo delle origini». Quasi cinquecento anni piú tardi, agli albori dell’età del Ferro, altre popolazioni di migranti che provenivano dai Balcani si insediarono, a piú riprese, sulle coste dell’Adriatico. Penetrarono all’interno della Penisola, attraverso le strade naturali dei valichi dell’Appennino umbro marchigiano. E occuparono parte delle terre dei Paleoumbri. I nuovi arrivati, i Safini, si mescolarono con il popolo piú antico e assunsero presto il ruolo guida di élite sociale della comunità. Le due culture dell’ultima età del Bronzo, si distinguevano dal modo di seppellire i morti. Con i Safini comparvero nella penisola italiana le prime inumazioni accanto alle tradizionali incinerazioni dei Paleoumbri. Nei testi delle Tavole Iguvine, Giacomo Devoto già riconosceva la combinazione di due strati linguistici indoeuropei: l’ausonio, il piú antico, e l’oscoumbro, piú recente, corrispondenti all’originario paleoumbro e al safino, che, in età storica, divenne dominante non solo verso l’umbro, ma anche riguardo l’osco e il piceno. Una traccia della sovrapposizione delle due etnie si ha nel racconto di Marco Terenzio Varrone, secondo il quale il territorio reatino, invaso

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insieme a tutta la valle del Velino dai Sabini (Safini), in precedenza era abitato dagli Aborigeni (Paleoumbri). Nello stesso periodo, sulle coste tirreniche, altre genti – che gli Umbri chiamarono Turski –, provenienti dall’area anatolica, fondavano colonie commerciali, sempre piú fiorenti. Presto, grazie alla loro eccezionale forza economica e culturale, occuparono le fertili terre interne della Penisola e giunsero fino al Tevere. Cosí, intorno al VI secolo a.C., la grande vena d’acqua divenne il confine naturale tra due popoli, tra due sfere di influenza: quella degli Etruschi e quella dei Safini, che a lungo continuarono a chiamare se stessi Savni. Oggi, grazie agli studi di Aldo Prosdocimi e di chi scrive, sappiamo che i testi delle Tavole Iguvine sono copie di antichissimi archetipi, nei quali affondano le radici di tutte le culture safine dell’età del Ferro. Gli Umbri furono i progenitori di tutti gli altri popoli che dal Po al Sannio, mille anni prima di Cristo, usarono la stessa lingua indoeuropea, declinata in cento dialetti diversi: Safini (o Savni), Sabini, Sanniti. E poi i Piceni e le altre genti del mondo che gli studiosi hanno a lungo definito «osco-umbro», ma che sarebbe forse piú corretto chiamare italico. Dall’antico popolo safino (umbro-sabino), germinò quindi la prima cultura italica. L’epopea degli Etruschi e la grandezza immortale di Roma oscurarono il contributo di queste genti alla civiltà occidentale. Del resto, la storia la scrivono i vincitori e gli antichi Umbri, come gli altri popoli italici, furono prima sconfitti e poi assorbiti da Roma.


IL VINO DEI MICENEI L’archeologia ha rivelato che tutte le coste italiane videro la presenza di fondaci achei (che vanno sotto il nome di micenei) verso la fine dell’età del Bronzo, la stessa epoca in cui l’Italia era abitata dagli Umbri/Ombrikòi (o Paleoumbri). Il linguista e filologo Emilio Peruzzi ha dimostrato che numerosi termini micenei entrarono nelle esperienze culturali delle genti del tempo presenti in Italia, che, tramandate da una generazione all’altra, sono giunte fino al latino. Su questa base si colloca anche la ricerca glottologica secondo la quale il nome stesso del vino sarebbe entrato in Italia, con la tecnica della vinificazione, grazie ai colonizzatori micenei e per il tramite delle culture «paleoumbre» che ricevettero tale conoscenza, fino ad arrivare alla cultura romana. Infatti, se il nome del vino fosse stato trasmesso al latino dai Greci di età storica, come spesso si legge, sarebbe documentato come voinum o voenum, almeno fino al III secolo a.C., poiché il latino risolve il dittongo oi in i solo dal III secolo in poi. Invece la forma vinum è attestata fin dal VI secolo a.C.: senza la mediazione paleoumbra – che da sempre risolveva i dittonghi in semplici vocali –, il greco (miceneo) woinos non sarebbe diventato vinum. E insieme furono trasmesse ai Romani per la stessa via parole e nozioni che in latino si spiegano solo se pertinenti a una lingua con le caratteristiche fonologiche del paleoumbro, come rumpus, «tralcio della vite», pampinus, «germoglio della vite», tartarus, «tartaro», buttis, «botte», per finire con il nome della selvatica uva labrusca dalle molte varietà.

Nella pagina accanto: lamina bronzea raffigurante un guerriero etrusco, da Castel San Mariano. VI sec. a.C. Perugia, Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria. A destra: cartina della diffusione (evidenziata in arancione) dei dialetti «osco-umbri» riconducibili al ceppo indoeuropeo e i principali insediamenti.

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Paleoumbri

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Fondaci micenei in Italia Comunità date come umbre dagli antichi

A sinistra: statuetta etrusca in bronzo raffigurante un tritone, da Castel San Mariano. VI sec. a.C. Perugia, Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria.


STORIA • TAVOLE IGUVINE

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A sinistra: cartina dei territori occupati dai popoli italici. Nella pagina accanto, in alto: cartina che indica i luoghi legati alla fondazione di Roma, con l’indicazione delle posizioni assunte da Numa Pompilio e dall’augure per osservare il volo degli uccelli. Nella pagina accanto, in basso foto aerea di Gubbio nella quale sono evidenziate le zone interessate dal rito di fondazione della città e, anche in questo caso, le posizioni assunte dagli attori dei riti augurali.

Ae ol i e i n s ul a ae e Locr Ep Locri pizzep phirii Rheg heg gium iu um u m

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inizi dopo aver rilevato gli uccelli, quelli di fronte e quelli alle spalle». Appare evidente che nella rilevazione dei richiami degli uccelli augurali l’officiante (colui che ha la capacità di stipulare il patto con la divinità) e l’augure (colui che svolge il compito di orecchio e occhio dell’officiante) devono disporsi reciprocamente ad angolo retto, in 56 a r c h e o

Syr Sy yra acussae

Cart arth hag ago a go

modo che gli uccelli scorrano fronte-retro per l’officiante, e destra-sinistra per l’augure, il quale deve osservare in prospettiva l’abitato.

IL POSTO DELL’AUGURE Poiché l’antico abitato di Iguvium era sicuramente posto appena sopra l’attuale via dei Consoli, che ne segnava il limite inferiore, fuori del

quale erano dislocate le sepolture di età protovillanoviana recentemente scoperte, esiste una sola possibilità di posizionamento della coppia «officiante-augure», in modo che l’augure possa osservare l’abitato appena al di sopra dei «tetti»: il luogo delle rocce a mezza costa del monte Foce, quelle che il testo definisce «rocce augurali».


Latiaris

Subura

Arx

Fagutal

auguraculum

Velia

Capitolium

augure Numa

In basso: bronzetto etrusco raffigurante un augure VI-V sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.

uccelli Roma romulea Cermalus

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Rocce Augurali Officiante Augure

Iguvium

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STORIA • TAVOLE IGUVINE

In Livio 1.18 si legge come Numa si fece «inaugurare» sullo sfondo dell’abitato di Roma. «L’augure accompagna Numa sull’arce, lo fa sedere su un sedile di pietra, rivolto a sud (deductus in arcem, in lapide ad meridiem versus consedit). L’augure prende posto alla sinistra di Numa [cioè verso est], rivolge la sua vista verso la

città e il territorio [che quindi è a est], definisce le direzioni da est a ovest, e dichiara che le zone a destra sono a sud e quelle a sinistra sono a nord (regiones ab oriente ad occasum determinavit, dextras ad meridiem partes, laevas ad septentrionem esse dixit); quindi fissa mentalmente davanti a sé il punto piú lontano a cui possa giun-

La faccia A della Tavola Iguvina I, scritta in alfabeto latino. Bronzo. III-I sec. a.C. Gubbio, Museo Civico di Palazzo Consoli.

gere con lo sguardo, e infine pone la mano destra sul capo di Numa e prega: “O Giove padre, se è destino che costui, Numa Pompilio di cui io tocco la testa, sia re di Roma, dacci dei segni manifesti entro i confini che io ho tracciato”. Poi enuncia verbalmente gli auspici che vuole siano inviati. E una volta apparsi gli auspici, Numa è dichiarato re, e può scendere dal colle augurale». A Roma e a Iguvium si svolgevano dunque riti del tutto identici, sia come forme esterne, sia (soprattutto) come ideologia costitutiva del rito stesso. E se in Livio non è esplicitato quali fossero gli uccelli considerati augurali a Roma, l’informazione è fornita da Plauto: «Impetritum, inauguratumst: quouis admittunt aues, picus et cornix ab laeua, coruos, parra ab dextera consuadent» («Dunque è deciso, confermato dall’augurio: dovunque lo affermano gli uccelli, lo assicurano il picchio e la gazza da sinistra, il corvo e l’upupa da destra», Asinaria 249-251). Gli stessi uccelli e nelle stesse posizioni delle Tavole Iguvine. PER SAPERNE DI PIÚ Augusto Ancillotti e Romolo Cerri, Le tavole di Gubbio e la civiltà degli umbri, Edizioni Jama, Perugia 1996 Luciano Agostiniani, Alberto Calderini, Riccardo Massarelli, Screhto est. Lingua e scrittura degli antichi Umbri, catalogo della mostra (Perugia, 22 settembre 2011-8 gennaio 2012), Università degli Studi di Perugia, Perugia 2011 Giacomo Devoto, Tabulae Iguvinae, Roma 1937, III edizione Roma 1963. Giacomo Devoto, Gli antichi italici, III edizione, Firenze 1967 Vittore Pisani, Le lingue dell’Italia antica oltre il latino, Torino 1951, 2° edizione Torino 1964. Aldo L. Prosdocimi, Le tavole iguvine, I, Firenze 1984

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UNO

SGUARDO NUOVO SUL PASSATO UNA MOSTRA ALLESTITA AL MUSEO NAZIONALE ROMANO DI PALAZZO MASSIMO AFFRONTA, CON TONO VIVACE E TUTT’ALTRO CHE «ANTICO», ALCUNI QUESITI FONDAMENTALI DELLA NOSTRA DISCIPLINA: CHE COS’È L’ARCHEOLOGIA? COME È PERCEPITA DAI NOSTRI CONCITTADINI? QUALE RUOLO PUÒ SVOLGERE NELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA? incontro con Maria Pia Guermandi, a cura di Andreas M. Steiner 60 a r c h e o


N

Sulle due pagine: Ara Pacis (Roma) allo specchio, fotografia digitale di Niccolò Manassero. In alto: Trasmettere la storia, fotografia digitale di Remi Anglade. Sopra il titolo: Maria Pia Guermandi.

ell’ultimo ventennio del secolo scorso, l’immagine pubblica dell’archeologia ha vissuto una straordinaria diffusione, grazie ai quattro film (seguiti da una serie televisiva e da numerosi videogiochi) incentrati sulla figura di Indiana Jones. Un’immagine di allegra e avventurosa fantasia, alla quale hanno attinto taluni «seri» archeologi di professione, adottando anch’essi il celebre copricapo, inverosimilmente incollato alla testa di Harrison Ford persino durante le piú sfrenate cavalcate attraverso il Wadi Rum. Oggi – come leggiamo sul pannello introduttivo della mostra «Archaeology&ME» – la figura ideata dal produttore George Lucas e mirabilmente diretta da Steven Spielberg «non sembra piú incarnare il prototipo ideale dell’archeologo, il rimando alla scoperta, al tesoro, all’avventura, appare una dimensione del tutto residuale». Un prototipo – aggiungiamo noi – tragicamente soppiantato dalla figura – non fittiva, ma reale – dell’archeologo Khaled Al-Asaad, il «guardiano di Palmira», assassinato nell’estate del 2015 dagli sgherri del sedicente Stato Islamico. Un cambiamento di percezione inatteso e drastico, drammaticamente attuale e persino rivolto al futuro (cosa ne sarà delle neo-rovine di Palmira?), che a r c h e o 61


MOSTRE • ROMA

ha come protagonista una disciplina che, per sua definizione, guarda al passato. Ecco, allora, rivelato il tema di una mostra innovativa e vitale, allestita fino al 23 aprile al Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo: che cos’è l’archeologia? Come viene percepita e quale è il suo ruolo oggi, in Europa e nel mondo? Per rispondere a questi interrogativi, «Archaeology&ME» espone 87 lavori (sono disegni, fotografie, dipinti e video scelti dalla giuria di un concorso europeo intitolato, appunto, «Archeologia secondo me») lungo un percorso suddiviso in 11 sezioni, intitolati all’archeologia come: studio di tutto ciò che ci precede; ponte tra passato e presente; oggetto di museo; i monumenti archeologici come icone dell’immaginario globale; l’archeologia come disciplina scientifica; il rapporto rovine/paesaggio; l’antichità come fonte di gioia; l’antichità come fonte di ispirazione dell’arte contemporanea; Qui accanto: due immagini dell’allestimento della mostra «Archaeology&ME». A destra: Archeologia, grafica computerizzata di Margreet de Heer. Nella pagina accanto: O tempora, o mores, fotografia digitale di Guergana Radeva di un negozio di antichità ad Arezzo.

il patrimonio archeologico abbandonato e depredato; l’archeologia come fonte di ironia e come strumento per la costruzione di una diversa idea di Europa. L’archeologia dal punto di vista dei cittadini, dunque, cui la mostra affianca una sezione (Il «passato nel presente») che espone le risposte agli stessi interrogativi, questa volta però formulate dagli stessi archeologi. «Archeo» ne ha parlato con Maria Pia Guermandi, curatrice della mostra e del prezioso catalogo che l’accompagna, nonché coordinatrice scientifica del progetto NEARCH (New scenarios for a communityinvolved archaeology, «Nuovi scenari per un’archeologia partecipativa») che ha promosso il concorso europeo alla base della mostra. ◆P rofessoressa Guermandi, «Archaeology&ME» rappresenta uno stimolo, un invito a vedere l’archeologia con uno sguardo nuovo. Il nostro augurio è che, una 62 a r c h e o

volta terminata, i pannelli con le opere possano essere riallestiti altrove (si prestano a costituire una mostra itinerante). Potrebbe contribuire, insomma, a diffondere, come afferma in un saggio del catalogo, la consapevolezza che abbiamo bisogno di «costruire un’archeologia per un’Europa da ricostruire»? «“Archaeology&ME” è stata in effetti pensata come mostra itinerante. Assieme ai partner del progetto NEARCH stiamo ora organizzando altre due tappe, a Parigi e a Berlino. D’altro canto, questo è proprio uno degli obiettivi non solo di NEARCH, ma, in generale, di tutti i programmi culturali finanziati dalla Commissione Europea: la condivisione di ricerche, temi, problemi, proposte al fine di creare una piattaforma comune per elaborare nuove interpretazioni e nuovi usi del patrimonio culturale. Il ruolo della cultura e del patrimonio culturale, in particolare dal Trattato di Maastricht in poi, è sempre stato considerato cruciale per la costruzione del progetto europeo: una delle strategie vincenti per far decollare il processo di integrazione. Almeno fino a pochi anni fa si riteneva che tale processo non potesse scaturire esclusivamente da opportunismi economici, ma anche dalla condivisione di comuni valori culturali, utili a costruire quell’“Europe fe-


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MOSTRE • ROMA

eling” che, purtroppo, sta conoscendo ora difficoltà crescenti. In realtà, cosí come il processo di costruzione politica di un’Europa unita è stato piú lungo e tormentato del previsto, cosí anche il contributo del patrimonio culturale alla costruzione dell’idea europea si è rivelato denso di rischi e tutt’altro che lineare. Se gli ultimi anni conoscono un pericoloso ritorno dell’ideologia dello “Stato-Nazione”, allo stesso modo, sul piano culturale, assistiamo al risorgere di istanze identitarie molteplici e confliggenti. Progetti come NEARCH che cercano invece di creare uno spazio comune a partire dal patrimonio archeologico, sono per questo tanto piú importanti in questo momento di smarrimento rispetto agli ideali dei Trattati di Roma che abbiamo da poco celebrato. La percezione dell’archeologia che ricaviamo dalle opere dei cittadini europei esposte in “Archaeology&ME” ci restituisce, per fortuna, un’immagine senza cesure nazionali e che vive il patrimonio archeologico come strumento di riflessione sul passato e sul presente, come antidoto contro – come afferma uno dei nostri autori a illustra64 a r c h e o

zione della sua opera – “un’Europa che vive nella paura, in uno stato di crisi permanente, ed è spaventata da tutto ciò che è ‘straniero’”». ◆ I n questo quadro, l’archeologia urbana svolge un ruolo di primo piano… «Talora considerato come un “incidente di percorso”, lo scavo urbano r ientra nelle procedure dell’archeologia preventiva, che rappresenta, ormai il 90% dell’archeologia di scavo, in Italia e nel resto del continente. Nelle città storiche d’Europa qualsiasi operazione di intervento sul territorio si incrocia, inevitabilmente, con secoli o spesso millenni di stratificazione archeologica: è la storia delle città che riaffiora sotto i nostri piedi. I cantieri archeologici che interferiscono con i flussi della mobilità cittadina e rallentano i lavori edili o infrastrutturali costituiscono un disagio che conduce, però, a scoperte straordinarie in grado di riscrivere la genesi dei nostri centri storici e di arricchire il nostro patrimonio culturale.


Compito primario degli archeologi è di condividere l’importanza delle loro scoperte con un pubblico sempre piú vasto, rendendo partecipi i cittadini di un patrimonio collettivo fonte di conoscenza non solo per specialisti, e occasione per sperimentare pratiche innovative di condivisione e di inclusione sociale. Cosí come è successo in uno dei siti per questo presentati in mostra, quello di Saint Denis, una delle aree urbane “pilota” per la sperimentazione di procedure di archeologia preventiva in Francia fin dagli anni Settanta. A partire dal 1998, sfruttando il carattere “concreto” dell’archeologia, con i suoi resti materiali e l’impatto di uno scavo al centro della vita urbana, l’Unità di Archeologia di Saint-Denis ha coinvolto nel suo lavoro i cittadini del quartiere, in gran parte immigrati, con un progetto di grande successo, non solo archeologico, ma urbanistico e sociale tuttora in corso, inserito nel progetto NEARCH e vincitore del Premio assegnato dall’EAA (European Association of Archaeologists), lo scorso anno. In taluni casi, però, il rapporto fra sviluppo urbano e tutela archeologica rimane difficile, a volte conflittuale. In una città come Roma, dove l’archeologia è elemento costitutivo della città moderna, non solo nell’area centrale, ma nell’insieme del territorio urba-

no, operazioni come la costruzione della metropolitana andrebbero pensate, per il loro impatto su un territorio di estrema importanza e ricchezza archeologica, fin dall’inizio come operazioni culturali complesse in grado di connotare una o piú aree della città in un modo diverso. Con una progettazione che tenga conto del patrimonio archeologico, non solo Nella pagina accanto, in alto: Una dama misteriosa, fotografia digitale di Mario Pereda della Dama di Elche, scultura iberica del IV sec. a.C. al Museo Archeologico Nazionale di Madrid. A sinistra e nella pagina accanto, in basso: altri particolari dell’allestimento della mostra.

come ingombro spaziale fatalmente estraneo al contesto attuale, ma come occasione per dotare la città di una qualità urbana migliore. La grandiosa immagine in mostra dell’Auditorium di Adriano ai piedi dell’Altare della Patria, testimonia invece la nostra difficoltà a inserire all’interno della città contemporanea un patrimonio anche di grandissimo valore storico-architettonico. Ritrovati durante gli scavi per la costruzione della linea C della metropolitana, da oltre 7 anni i resti dell’Auditorium, nel cuore di Roma, aspettano una sistemazione, un’interpretazione non solo archeologica, ma urbanistica e soprattutto pubblica. Aspettano cioè un progetto che sappia inserirli nel flusso della nostra vita quotidiana affinché questa ne acquisti valore. La straordinarietà della sequenza monumentale che l’immagine esposta in mostra mette in evidenza deve poter essere raccontata e quindi condivisa da un pubblico il piú ampio possibile». ◆P articolarmente convincente e innovativa appare la prospettiva, delineata nella sezione dedicata all’archeologia come «strumento di inclusione»...

Roma. I resti dell’Auditorium di Adriano e, sullo sfondo, il monumento in onore di Vittorio Emanuele.

«Che l’archeologia possa essere uno strumento di inclusione sociale, è una delle risposte che come archeologi abbiamo dato, attraverso “Archaeology&ME”, alla domanda “qual è il ruolo dell’archeologia nell’Europa contemporanea”. Soprattutto attraverso le esperienze a r c h e o 65


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sempre piú numerose di musei Nella pagina accanto: europei, d’altronde, il patrimoAtemporalità, nio culturale sta trovando in fotografia digitale questi ultimi anni nuove interscattata da Barbara pretazioni e nuovi usi proprio Harsh nel sito di in questa direzione. Per quanto Vulci (Maremma riguarda l’archeologia, ho sopra laziale). accennato all’esper ienza Qui sotto: un settore dell’Unité d’Archéologie di della mostra e Saint-Denis, dove uno scavo l’opera Il passato è archeologico è stato usato cotornato!, grafica me mezzo per coinvolgere gli computerizzata di abitanti – in larga parte immiSandro Natalini. grati – nella ricostruzione della In basso, a destra: storia dei luoghi in cui vivono Saint-Denis (Francia). e costruire, anche attraverso Lo scavo alla questo percorso di conoscenza, Fabbrica della Città, quel senso di appartenenza che nell’estate 2012, con è alla base del sentimento di il «fungo urbano». cittadinanza. “Archaeology&ME”, attraverso la mostra e il catalogo – scaricabile gratuitamente dal sito archaeologyandme.eu – illustra anche altre esperienze che vedono protagonista l’archeologia. Testimone privilegiato di multiculturalità, il patrimonio archeologico si presta d’altronde, per sua natura, a divenire potente strumento di inclusione culturale e sociale. L’archeologia e il patrimonio archeologico ci fanno per esempio comprendere come non sia mai esistita una cultura «pura», priva di contaminazioni e come il nostro continente sia stato attraversato, fin dalle origini della sua vicenda umana, da grandiose ondate migratorie successive, mentre confini e muri sono stati prima o poi sempre superati da merci, uomini, linguaggi, idee. A ricordarci l’attualità del messaggio che possiamo ricavare dal patrimonio archeologico, la mostra si conclude del resto con i reperti che ci rimandano a un’antica leggenda: un affresco pompeiano e una terracotta fittile raffiguranti Enea. Colui che è ritenuto il fondatore del piú grande impero del Mediterraneo, altri non era se non un profugo che fuggiva, assieme ai propri cari

superstiti, da una patria distrutta dalla guerra. Poiché però “Archaeology&ME” vuole essere non solo una mostra, ma un progetto di archeologia pubblica, abbiamo organizzato, con l’aiuto determinante della Croce Rossa Italiana Comitato Area Metropolitana di Roma Capitale, un’iniziativa aperta ai visitatori della mostra e agli ospiti migranti della CRI. Nel mese di marzo si è svolto cosí, a Palazzo Massimo, un workshop sul mosaico. I partecipanti sono stati chiamati a riprodurre, in forma di mosaico, una delle opere in mostra ad “Archaeology&ME”, opera che sarà poi esposta sia a Roma, sia nell’ambito del concorso internazionale di mosaici Pictor Imaginarius “L’Arte de Mosaico”, il 27-28 maggio, a Nazzano (Roma). L’archeologia è cosí diventata il tramite per un dialogo a piú voci in cui persone provenienti da esperienze molto diverse hanno potuto raccontare e confrontare storie e tradizioni culturali differenti, creando un’opera collettiva. Uno dei risultati piú importanti che accomunano queste esperienze, è quello di aver innescato un percorso circolare, in cui, cioè, il dialogo di partenza fra archeologi e non-archeologi ha acquisito un carattere sempre meno asimmetrico. La comunicazione è diventata allora bidirezionale e noi archeologi ci siamo dovuti confrontare con esigenze, interpretazioni, usi del patrimonio che rivendicano piena dignità e che richiedono risposte che non possono che essere il frutto di un impegno condiviso». ◆L e recenti e drammatiche vicende geopolitiche riportano in primo piano la necessità di ridiscutere un’altra questione, quella della «proprietà del passato». Come possiamo ricollocare, in questo nuovo quadro, i nostri diritti e i nostri doveri?

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MOSTRE • ROMA

«Le distruzioni dell’ISIS di alcuni siti archeologici – da Nimrud a Palmira, da Ninive a Hatra – hanno testimoniato drammaticamente, a un pubblico vastissimo, l’attualità di un tema in realtà antichissimo. Il passato e il patrimonio archeologico che lo rappresenta sono stati usati per fini politici in tutte le epoche e a tutte le latitudini. Da millenni l’archeologia è stata utilizzata come strumento fondativo dei miti d’origine, in funzione identitaria o come legittimazione del presente. Se già nel VII secolo a.C. i re babilonesi utilizzavano reperti archeologici, allestiti in una sorta di museo, per dimostrare la nobiltà e durata della loro discendenza, innumerevoli volte, nella storia, opere e monumenti del passato sono stati usati e abusati per costruire e consolidare l’immagine del potere, creando piú o meno artificiosamente analogie fra un passato glorioso e un presente che se ne dichiarava erede e continuatore. Come l’appropriazione, anche la distruzione del patrimonio archeologico, risponde a logiche molto simili, da tempi remotissimi: si distruggono i monumenti, gli oggetti del nemico, come prova di forza, di superiorità non solo militare, ma anche culturale. Per uno strano gioco della storia, le immagini dei bassorilievi assiri distrutte dalle milizie dell’ISIS

In alto: due sezioni della mostra. A destra: Sguardo di bambino, disegno su fotografia digitale di Michel Van Assche del sito archeologico di Ciutat del Born (Barcellona). 68 a r c h e o

a loro volta raffiguravano la distruzione di edifici sacri. L’uso disinvolto, fino alla vera e propria manipolazione, del patrimonio archeologico è servito, a partire dal XIX secolo, come fonte di legittimazione degli Stati nazionali in Europa: siti, oggetti e monumenti ascrivibili piú o meno correttamente a Germani, Traci, Daci hanno fornito il retroterra culturale su cui consolidare i giovani Stati tedesco, bulgaro, rumeno. È un meccanismo tutt’altro che superato se pensiamo, per esempio, a ciò che è successo fra i paesi sorti dalla frantumazione della ex Jugoslavia o ai contrasti sanguinosi fra Ucraina e Russia che si giocano anche sull’appropriazione di luoghi e simboli della memoria storica. Il passato, esemplificato dal patrimonio archeologico che, grazie all’evidenza iconica, si presta maggiormente a una funzione propagandistica, è divenuto quindi uno strumento al servizio del potere in molti momenti della storia. Ma nel rapporto fra archeologia e potere, gli stessi archeologi non hanno giocato sempre un ruolo “neutrale”, da semplici studiosi-spettatori. Alludo alle ricerche e agli scavi intrapresi da missioni europee in Paesi extraeuropei. A partire dal XIX secolo l’espansione coloniale europea fu accompagnata, come sappiamo, dall’esplorazione archeologica da parte delle potenze coloniali. Gli scavi condotti dagli archeologi europei determinarono poi spesso veri e propri saccheggi dei siti archeologici a vantaggio perlopiú dei grandi musei che si andavano costituendo o ampliando nelle capitali europee. Da qui, in anni recenti, le molteplici, dibattutissime richieste di “rimpatrio” dei reperti asportati (dai marmi


del fondamentalismo jihadista che si gioca sulla contrapposizione “noi/ loro”, e cioè, rispettivamente, i pretesi custodi del vero Islam e il mondo occidentale cristiano. Ma nello stesso tempo, le vicende di Palmira e degli altri siti archeologici siriani, ci debbono ricordare come dietro l’ideologia si nascondano spesso interessi molto prosaici, quali il commercio di reperti archeologici praticato dagli adepti dello Stato Islamico a vantaggio di acquirenti per lo piú occidentali, pratica che unisce quindi, in uno stretto rapporto economico, i nemici contrapposti sul piano ideologico. Ma soprattutto, la città siriana e i suoi monumenti testimoniano la forza simbolica del patrimonio archeologico. E nello stesso tempo la sua fragilità, che, per essere tutelata, ha bisogno non solo di conoscenze tecniche di alto livello, ma di un cambio radicale del nostro approccio ai beni culturali, beni di tutti e quindi di tradizioni culturali differenti che devono potersi esprimere alla pari e trovare fra loro una mediazione difficile, ma indispensabile». In alto: Il bambino e la Chimera, disegno a matita su carta colorato in digitale di Giulio Zeloni. A destra: immagini del sito di Palmira esposte nella mostra.

Elgin al busto di Nefertiti). Anche la conoscenza archeologica, in buona sostanza, partecipò a pieno di quel rapporto tra produzione del sapere e politica coloniale, finalizzato, come ci hanno insegnato gli studi postcoloniali, all’espressione dell’egemonia occidentale. Insomma, in questa storia dell’ uso del passato, come abbiamo cercato di dimostrare anche in “Archaeology&ME”, molti sono i “colpevoli”, a vario titolo. Palmira, con le cui immagini termina il percorso della mostra, è testimone privilegiato di questi meccanismi: esempio straordinario di multiculturalità nel mondo antico e di odierno uso politico del patrimonio culturale. Diventata in epoca moderna un’icona culturale soprattutto per il mondo occidentale, la “sposa del deserto” illustra esemplarmente la lucida, perversa logica

DOVE E QUANDO «Archaeology&ME Pensare l’archeologia nell’Europa contemporanea» Roma, Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo fino al 23 aprile Orario ma-do, 9,00-19,45; lu chiuso Info e prenotazioni Coopculture: tel. 06 39967700 (lu-sa, 9,00-13,30 e 14,30-17,00); e-mail: archaeoandme@gmail.com; www.archaeologyandme.eu; http://archeoroma.beniculturali.it Catalogo IBC Emilia-Romagna a r c h e o 69


STORIA • LA METALLURGIA

QUASI UNA S LUNGA MARCIA

uperata la fase della semplice raccolta, prima dei metalli allo stato nativo e poi dei loro minerali presenti in superficie dopo averli identificati, iniziò l’epoca che potremmo definire dell’«estrazione mineraria», sia a cielo aperto, sia in galleria, della quale ci sono giunte tracce ambientali e letterarie.

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IL PIÚ AMBITO Ad aprire questa rassegna, sulla scorta di quanto finora osservato (vedi «Archeo» nn. 383 e 384, gennaio e febbraio 2017) è l’oro. L’amdispersione geografica ha fatto LA STORIA DEI METALLI È LEGATA pia dei giacimenti auriferi una presenza ALL’EVOLUZIONE DELLE TECNICHE diffusa nel mondo antico. A partire III millennio a.C., gli Egizi APPROVVIGIONAMENTO MESSE A PUNTO dal estrassero l’oro nel deserto nubiano DALLE CIVILTÀ ANTICHE NEL CORSO DEL (il termine Nubia sarebbe connesso a nub, il vocabolo che designava TEMPO. UN PERCORSO DETTATO DALLE appunto l’oro), dove sono stati riSCOPERTE DI FILONI E GIACIMENTI trovati attrezzi per la produzione, in particolare le macine ricordate dallo di Flavio Russo storico Diodoro Siculo. A quei gia-


cimenti fa riferimento, intorno al 1150 a.C., un singolare papiro con la prima mappa topografica di una regione mineraria, custodito presso il Museo Egizio di Torino. Secondo stime recenti, la produzione annuale si aggirava intorno ai 30 kg, pari all’incirca al volume di una bottiglia di acqua minerale da un litro e mezzo! Per quella modesta quantità, schiere di derelitti prigionieri – senza distinzione di genere e di età – furono costretti a trarre dai cunicoli scheggioni di minerale e triturarlo in fine polvere. Questa, a sua volta, veniva dilavata su scivoli in legno, dove l’acqua non riusciva a trascinare via le particelle d’oro piú pesanti: in altre regioni il flusso di acqua e polvere si faceva passare in un vello caprino, nei crini del quale i granelli d’oro restavano impigliati fino a trasformarlo in una sorta di «vello d’oro», che, bruciato, forniva il metallo puro. Un metodo estrattivo In alto: deserto del Sudan: macine per la produzione dell’oro. Accanto al titolo, e, in questa pagina, a sinistra e a destra: elementi decorativi in oro, da una tomba presso un villaggio minerario nel deserto del Sudan. Epoca meroitica. Sulle due pagine: mappa delle miniere d’oro su un papiro egiziano del 1150 a.C. Torino, Museo Egizio.

meno primitivo consisteva nel far amalgamare la polvere aurifera con il mercurio, tecnica praticata dai Romani, per poi liberare l’oro attraverso l’evaporazione del mercurio.

UNA NUOVA ERA Per piú di uno studioso, il rame segnò l’inizio della nuova era, guadagnandosi perciò l’etichetta di primo metallo utile della storia e disconoscendo cosí l’importanza dell’oro, a r c h e o 71


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dell’argento e poi del piombo, che verosimilmente lo precedettero. Il rosso metallo si ritrova un po’ ovunque nel Sinai, in Siria, nell’Afghanistan, nel Caucaso, in Macedonia e, soprattutto, a Cipro, isola dove, in epoca grecoromana, si estraeva in notevoli quantità e di ottima qualità, tanto che dalla stessa Cupros trasse il nome cuprum. A prima vista, si presentava sotto forma di noduli verdastri, duri da lavorare, che rivelavano la loro natura di rame nativo solo dopo raschiatura e che fondevano, in genere, intorno gli 800 °C, mentre per il rame puro occorrevano 1100 °C circa: entrambe le temperature potevano essere raggiunte, per piccoli quantitativi, nei forni per la ceramica. Una volta padroneggiata la fusione, si iniziò a produrre in discreto numero cuspidi di frecce e poi di lance, lame di asce, di spade e di pugnali, avvalendosi di matrici di pietra. I minerali da cui si estraeva avevano in comune colorazioni vivide e un peso notevole, come la cuprite, la

Da rame e stagno si ottenne il bronzo, la lega piú resistente e robusta In alto: asce, bracciali spiraliformi e collare in bronzo di epoca protostorica. Milano, Castello Sforzesco. A sinistra: Cipro. Miniere di rame moderne, impiantate nelle stesse aree in cui erano attivi impianti di estrazione del metallo di epoca greco-romana.

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malachite e i vari carbonati e ossidi – di facile identificazione e rinvenimento –, che potevano essere purificati grazie al semplice arrostimento con carbone vegetale. Agli iniziali rinvenimenti superficiali seguirono estrazioni via via piú profonde, in particolare di calcopirite, bornite, covellite e altri composti – perlopiú a base di solforati del rame –, ottenuti mediante lo scavo di cunicoli. Con l’abbassarsi delle quote a cui venivano scavate, evacuare l’acqua dalle gallerie divenne il problema principale, risolto sul finire dell’epoca volgare dai Romani, con impianti colossali, del tipo di quelli rinvenuti a Rio Tinto, in Spagna. Tralasciando di addentrarci nelle tecniche fusorie, la produzione realizzata fra il XIV e il IX secolo a.C. nelle sola regione delle Alpi orientali do-


vette essere pari ad almeno 20 000 tonnellate. Considerando che 1 mc di rame pesa circa 9 t, si tratterebbe di ben 2200 mc di metallo puro: una quantità di tutto rispetto, anche se spalmata su mezzo millennio, in lingotti dalla tradizionale forma di pelli bovine, che pesavano ciascuno 70 kg circa. Per come lo conosciamo, il rame è un metallo duttile e malleabile, abbastanza tenero e quindi non adatto alla costruzione di utensili. Tuttavia, la prolungata martellatura a freddo, praticata lungo i bordi di taglio, lo indurisce fin quasi a fargli raggiungere la durezza dell’acciaio, ma, ovviamente, non la sua tenacia. Il processo si deve immaginare applicato dopo l’estrazione dalla matrice: in epoca posteriore, facendone combaciare due simmetriche, si otteneva la fusione in tondo, premessa per quella detta «a cera persa», che si ebbe con l’adozione del bronzo

QUESTIONI DI TITOLO Tra le molteplici leghe ottenute e ottenibili con il rame, quella con circa il 10% di stagno presentava i migliori requisiti di colabilità, resistenza meccanica e durezza. La sua temperatura di fusione è inferiore a quella del rame, e maggiori sono la fluidità e l’elasticità, all’origine della ben nota sonorità. Ineguagliabile risulta poi la resistenza all’ossidazione, persino in acqua marina, confermata dai ritrovamenti in perfette

A destra: lingotti di piombo di epoca romana. In basso: lame in rame da vari siti dell’Egitto. Londra, Petrie Museum of Egyptian Archaeology.

condizioni di conservazione di rostri e statue d’età ellenistica. Lo stagno indispensabile per la lega si trova prevalentemente nella cassiterite, presente in alcuni giacimenti caucasici e, in seguito, in Spagna, in Cornovaglia e in Britannia, dislocazioni geografiche che ne innescarono un proficuo commercio, già prima dell’età del Ferro. Dal punto di vista metallurgico estrarre lo stagno dalla casserite non presentava difficoltà particolari: ridotto in polvere e costipato nei forni in strati alterni con il carbone, dopo poco colava per la sua bassa temperatura di fusione, pari ad appena 232 °C. Il processo di raffinamento dello stagno si deve ritenere acquisito intorno alla metà del XV secolo a.C.; tuttavia, essendo molto piú antica la produzione del bronzo, è sensato ipotizzarne una diversa modalità estrattiva, forse agevolata dalla concomitante presenza dei due metalli in un unico minerale. È però piú plausibile immaginare la fusione casuale di minerali di rame

in presenza di minerali di stagno, che trovò presto adozione nella coeva metallurgia. Il titolo di quelle leghe rimase a lungo arbitrario e solo intorno alla metà del II millennio, grazie alle piú approfondite conoscenze sulle differenti proprietà in base al tenore di stagno, si individuò quello ottimale per la costruzione di efficaci armi di bronzo.

IL BELLO E LA BESTIA L’argento e il piombo fecero la loro comparsa nelle regioni europee in età ellenistica, mentre nel Vicino Oriente entrambi risultano già lavorati sul finire del IV millennio a.C.A Ur e a Lagash, infatti, sono stati rinvenuti oggetti d’argento databili al 3000 a.C.; altri, invece, a Creta, circa mezzo millennio piú tardi; mentre l’argento risulta di uso corrente in Palestina dal 1400 a.C. Sia per l’argento che per il piombo il minerale di partenza è la galena, scarsa in Arabia, Siria e Palestina, ma abbondante in alcune regioni dell’Afghanistan e dell’Armenia. Da lí, pertanto, si originò una florida esportazione del prezioso metallo, come anche del piombo, sia pure di valore di gran lunga inferiore e del quale gli Ittiti mantennero quasi il monopolio. Essendo la galena un solfuro di piombo, estrarne il piombo con al suo interno quantità minime di argento avveniva per semplice desolforazione, ovvero mescolandola con il combustibile in un approssimato forno, da cui, senza dover raggiungere temperature particolarmente elevate, dopo un breve riscaldamento, colava un rigagnolo a r c h e o 73


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lucente. Come accennato, non si trattava di piombo puro, ma con una discreta percentuale di argento, che si poteva separare mediante la coppellazione, un processo di scissione che si ritiene inventato in Asia Minore intorno alla metà del III millennio a.C. In pratica, rifondendo ad alta temperatura quella sorta di lega argentifera, il piombo, ossidandosi, si trasformava in litargirio, mentre l’argento – e, quando presente, anche l’oro – restando puro, si separa sul fondo dalla massa liquida. Sin dall’antichità, l’argento, per la sua eccessiva tenerezza, fu utilizzato in leghe con il rame di vario titolo: tra l’1-4% per oggetti da tesaurizza-

re; tra il 10-40%, invece, per manufatti preziosi ma di uso corrente, quali suppellettili e vasi. Nonostante la richiesta fosse sempre rilevante, il valore dell’argento rispetto all’oro rimase costantemente inferiore: pari a 1/6 sotto Hamurabi, a 1/2 in Egitto, per toccare, in epoca ellenistica, il minimo storico di 1/13, nonostante il suo utilizzo per la coniazione delle monete. A partire dal VI secolo a.C., Atene avviò lo sfruttamento delle ricche miniere argentifere del Laurio, nelle quali impiegò una imponente In alto: un cristallo di cinabro, minerale che in natura contiene le maggiori quantità di mercurio. A sinistra: vaso in argento e rame dedicato da Entemena, re di Lagash, al dio Ningirsu, da Tello (antica Girsu). Produzione sumera, 2400 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto: lingotti di ferro, attrezzi da fabbro e manufatti in ferro, dalla grotta di Byci Skala (Moravia, Repubblica Ceca). VI-V sec. a.C. Vienna, Naturhistorisches Museum.

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quantità di schiavi, trattandosi in gran parte di coltivazione a cielo aperto. È stato calcolato che la produzione di 1 tonnellata di argento richiedesse il lavoro di un anno di 500-1000 schiavi, cifra che da un lato testimonia l’ingente valore del metallo e dall’altro la presenza insignificante nei suoi minerali.

COME GOCCE DI SANGUE Unico metallo allo stato liquido – poiché fonde a -39 °C –, il mercurio si trova raramente allo stato naturale, perlopiú sotto forma di goccioline. Il minerale che ne contiene in maggior quantità è il cinabro, già studiato nel IV secolo a.C. dal filosofo Teofrasto di Ereso, che nell’opera Sulle pietre cosí lo descrisse: «Vi è anche una sorta di cinabro naturale e una preparata. Il cinabro dell’Iberia, che è molto duro come pietra, è naturale, come anche il tipo che si trova nella Colchide. Dicono che questo si trova su di una parete scoscesa ed è fatto cadere da frecce che vengono lanciate su di esso. Il tipo preparato proviene da un unico luogo, nei pressi di Efeso. Si tratta di una sabbia che brilla e che somiglia al colore rosso scarlatto, raccolta e macinata in mortai di pietra fino a ridurlo quanto piú fine possibile, viene poi lavato in vasi di rame (…). Ciò che vi rimane viene raccolto e polverizzato e ancora lavato. Ci vuole molta abilità in questo processo, poiché alcune persone ne fanno una grande quantità mentre altri poco o nulla pari a un eguale ammontare di sabbia. Il lavaggio viene effettuato dalla sommità e le parti separate vengono bagnate le


une dopo le altre, ciò che rimane sul fondo è il cinabro e i lavaggi sono ciò che resta in grandi quantità sopra». Dal punto di vista mineralogico il cinabro è un minerale rosso molto pesante – quindi facilmente identificabile –, da quello chimico è un solfuro di mercurio, con il 14% di zolfo e l’86% di mercurio.

IL FIGLIO DELLE STELLE Il nome greco del ferro, sideros, ricorda la provenienza del metallo nativo dalle stelle cadenti. Sebbene sia il metallo di gran lunga piú presente in natura, la disponibilità allo stato puro è stata complessivamente calcolata in 40 milioni di tonnellate circa su di un arco di 600 000 anni, entità che relazionata all’estensione della superficie terrestre e alla densità del metallo, è ben poca cosa. Perciò, esauritisi rapidamente i fortuiti rinvenimenti meteoritici – senza però aver innescata una vera siderurgia –, si intraprese la ricerca dei suoi minerali, abbondanti un po’ ovunque, ma di improba lavorazione per l’alta temperatura di fusione, pari a 1536 °C, che si dimostrò irraggiungibile fin quasi all’età moderna. A frustrare il processo non giocava soltanto la temperatura, ma un procedimento complesso e indispensabile prima del caricamento del forno, che contemplava la formazione di strati alternati di minerale triturato con strati di carbone vegetale, perlopiú di quercia. Tuttavia, alcune popolazioni africane del Camerun e del Sudan avrebbero messo a punto forni in grado di superare i 1500 °C, ottenendo cosí lingotti di ferro del peso di 15 kg circa, che, sottoposti a battitura prolungata con pesanti mazze, si scorificavano e risultavano idonei alle successive lavorazioni siderurgiche. In Europa, invece, dalla fornace – detta anche bassoforno –, si ricavavano, nel migliore dei casi, una massa spugnosa, detta buma, e una grande quantità di scorie, che spesso contenevano fino al 40% di ferro.

Una volta estratta dal forno, la buma richiedeva ancora un complesso e lungo processo di raffinazione, spesso reiterato, indispensabile per ottenere un ferro di discreta purezza, ma privo del requisito indispensabile della durezza, pur avendo una notevole resistenza. Un metallo perciò ancora inadatto per le produzioni piú richieste quali quelle delle armi e degli utensili, senza contare che si aveva quasi una diversa tipologia di ferro per ogni fusione! Subentrava allora la forgiatura, che consisteva in una serie di procedimenti termici e meccanici, grazie ai quali si aveva finalmente un metallo dalle connotazioni ottimali. Intorno al III millennio a.C., con gli Ittiti, comparvero armi di ferro di notevole qualità, che si imposero sulle coeve, ancora di bronzo, seguiti secoli dopo dai Celti e poi da varie popolazioni germaniche, a partire dal XIII secolo a.C. Piú tardi

estrassero, fusero e lavorarono il ferro gli Etruschi, in particolare nei giacimenti presenti sull’isola d’Elba, o Ilva (nome ancora oggi sinonimo della piú grande acciaieria europea). Per l’estrazione, si avvalsero di un forno o, per meglio dire, di una catasta conica, nella quale deponevano, alternandoli, strati di legna e di minerale, coperti poi da una camicia di argilla da cui si otteneva una sorta di spugna metallica in ragione di appena il 15-20% della potenzialità. Da quest’ultima, per battiture successive, si ricavavano lingotti di ferro dolce, che, mediante opportune operazioni siderurgiche, si trasformava superficialmente in acciaio. Ovviamente i boschi dell’isola si esaurirono ben presto, per cui il minerale dovette essere trasportato sulla terraferma dove a Populonia fiorí uno dei maggiori centri siderurgici della Penisola. (3 – continua) a r c h e o 75


SPECIALE • DOMUS AUREA

DOMUS AUREA

RINASCE LA REGGIA DI

NERONE

SUL PADIGLIONE DEL COLLE OPPIO, UNICO MA SPLENDIDO SUPERSTITE DELLA CELEBRE RESIDENZA IMPERIALE, È IN CORSO UN GRANDE INTERVENTO DI RESTAURO CHE SI AVVALE DI SOLUZIONI TECNOLOGICHE D’AVANGUARDIA. INOLTRE, LA VISITA DEI MAGNIFICI AMBIENTI AFFRESCATI SI È ARRICCHITA DI UNA SUGGESTIVA INSTALLAZIONE MULTIMEDIALE di Alessandro D’Alessio, Elisabetta Segala, Gabriella Strano, Vincenzo Angeloro, Maurizio Pesce, Maria Bartoli, Sandro Massa e Raffaele Carlani

Ipotesi ricostruttiva del vestibolo della Domus Aurea, con, in primo piano, la celebre Sala della Volta Dorata, e, sullo sfondo, il Colosso dorato di Nerone e il Tempio di Giove Capitolino. 76 a r c h e o


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l terribile incendio che nel 64 d.C. devastò dieci delle 14 regioni in cui era divisa la città di Roma, consentí a Nerone di espropriare un’area vasta circa 80 ettari e di edificare il nuovo palazzo, la Domus Aurea «che si estendeva dal Palatino fino all’Esquilino» (Svetonio, Nerone, 31). Per avere un’idea della sua estensione e della sua magnificenza, si può continuare con la descrizione tramandata da Svetonio: «Una statua colossale alta 120 piedi, immagine di Nerone, poteva entrare nel vestibolo della casa; l’ampiezza di questa era tale da includere tre portici lunghi un miglio e uno stagno, anzi quasi un mare, circondato da edifici grandi come intere città. Alle spalle ville con campi, vigneti e pascoli, boschi pieni di ogni genere di animali domestici e selvatici. Nelle altre parti tutto era coperto d’oro, ornato di gemme e di conchiglie. Le sale da pranzo avevano soffitti coperti da lastre di avorio, mobili e forate in modo da permettere la caduta di fiori e profumi. La piú importante di esse era circolare e ruotava continuamente, giorno e notte, come il mondo. I bagni A destra: ritratto in marmo dell’imperatore Nerone (37-68 d.C.). XVII sec. Roma, Musei Capitolini.

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SPECIALE • DOMUS AUREA A sinistra: l’ingresso al padiglione della Domus Aurea del Colle Oppio. Sulle due pagine: immagine ricostruttiva dell’incendio di Roma del 64 d.C.

erano forniti di acqua marina e solforosa. Quando Nerone inaugurò la casa, alla fine dei lavori, se ne mostrò soddisfatto e disse che infine cominciava ad abitare in una casa degna di un uomo» (Nerone, 31). La nuova reggia dell’imperatore era organizzata come una gigantesca villa

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suburbana nel cuore della città, con una serie di edifici raccordati da vie porticate monumentali. Al centro della valle, dove in seguito sarebbe sorto l’Anfiteatro Flavio (il Colosseo), un lago artificiale occupava un’area quadrangolare circondata da portici e raccordata agli


In alto: la firma di Bernardino di Betto Betti, detto il Pinturicchio, graffita sulla volta della Sala della Volta Gialla, all’interno della Domus Aurea.

edifici circostanti, che dovevano apparire «grandi come città», con terrazzamenti e porticati. La nuova residenza imperiale si caricava inoltre di un’evidente valenza ideologica: dopo il 64 d.C., Nerone inizia a rappresentare se stesso come il «Sole» e come iniziatore di una nuova età dell’oro, che si promette all’umanità attraverso la persona del principe.

LA MERAVIGLIA CANCELLATA La vastità, la ricchezza del complesso, il fatto che l’imperatore avesse preso per sé il centro della città, l’ideologia di cui esso era espressione, provocarono lo sdegno dei contemporanei. Fu cosí che, alla sua morte, dopo un breve periodo di utilizzo da parte di Otone e Vitellio, la Domus Aurea – forse non ancora terminata in tutte le sue parti – venne letteralmente spazzata via dai successori di Nerone: le aule del Palatino furono demolite e i pochi resti rimasti vennero inglobati nel nuovo palazzo imperiale, inaugurato da Domiziano nel 92 d.C. Il nuovo progetto urbanistico, che prevedeva la restituzione all’uso pubblico degli spazi occupati dalla Domus Aurea, determinò l’immediata distruzione degli edifici nella valle del laghetto, demoliti e riempiti di macerie per realizzare l’innalzamento del terreno necessario alla costruzione dell’Anfi-

teatro Flavio, inaugurato nell’80 d.C. Solo il padiglione del Colle Oppio sopravvisse fino al 104 d.C., quando un incendio lo distrusse parzialmente. Di lí a poco, l’architetto Apollodoro di Damasco lo sfruttò, colmato di terra, come sostruzione artificiale per edificarvi l’impianto termale inaugurato da Traiano nel 109 d.C. Nel 135 d.C. Adriano inaugurò, sulla Velia, il tempio di Venere e Roma, nell’area in cui un tempo si ergeva il vestibolo della casa neroniana. Privato della luce e trasformato in un complesso sotterraneo, il padiglione del Colle Oppio deve la sua conservazione principalmente alle trasformazioni traianee e viene ormai abitualmente identificato con l’intera Domus Aurea. Il successivo abbandono dell’edificio termale nel corso del VI secolo d.C. segnò l’inizio di una profonda trasformazione del Colle che, per tutto il Medioevo, fu occupato da orti e da vigne. Perso per secoli il ricordo della reggia di Nerone, le rovine furono riscoperte casualmente alla fine del Quattrocento da curiosi e appassionati di antichità, i quali, calandosi dall’alto nelle «grotte» ancora interrate, alla luce delle fiaccole iniziarono a copiare i motivi decorativi delle volte, determinando nell’arte rinascimentale la fortuna delle cosiddette «grottesche». Le a r c h e o 79


SPECIALE • DOMUS AUREA Sulle due pagine: alcune immagini degli affreschi della Sala di Achille a Sciro all’interno della Domus Aurea: a sinistra, insieme figurativo della parete est; nella pagina accanto, in alto, pannello dipinto centrale della decorazione; nella pagina accanto, in basso, veduta d’insieme della decorazione della volta.

PER LE ANTICHE SALE Planimetria generale della Domus Aurea (in rosso, le gallerie traianee), con gli ambienti citati nel testo: 1. Sala della Volta delle Civette 2. Peristilio 3. Ninfeo di Ulisse e Polifemo 4. Sala della Volta Dorata 5. Cortile 6. Sala di Achille e Sciro 7. Sala Ottagonale 8. Sala di Ettore e Andromaca

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pitture e gli stucchi della Domus Aurea divennero un modello per la decorazione di logge e palazzi aristocratici dell’epoca a opera di artisti famosissimi come Raffaello, Pinturicchio, Ghirlandaio, Giovanni da Udine, le cui firme, tracciate sulle volte del monumento, testimoniano ancora oggi il ricordo della loro visita.

AFFACCIATO SUI GIARDINI Il padiglione era collegato alla valle dello stagno da una serie di terrazzamenti. La sua facciata, rivolta a sud e documentata, allo stato attuale, per circa 240 m, si affacciava in antico sui giardini, preceduta da un portico a falda di ordine corinzio. Il sole invadeva gli ambienti che si aprivano su questa fronte meridionale, ma anche all’interno la luce penetrava nelle stanze da peristili e cortili, da finestre aperte sulle pareti e sulle volte. Questo elemento fondamentale nella realizzazione architettonica è stato definitivamente perso quando Traiano trasformò l’edificio in un enorme contenitore sotterraneo funzionale alle sue Terme. Oggi si conservano 153 stanze, in opera laterizia, coperte per la maggior parte da volte a botte di altezza variabile tra i 10 e gli 11 m. L’ala ovest presenta un impianto molto diffuso nel mondo romano, organizzato intorno a un cortile-giardino rettangolare, circondato da un portico di ordine ionico, lungo i lati del quale si dispongono vari ambienti. A sud la Sala della Volta delle Civette, forse un grande triclinio, mentre a oriente un vasto ambiente si apriva, in origine, mediante due colonnati verso il peristilio e verso un retrostante ninfeo, decorato in modo da creare l’illusione di una grotta naturale (Ninfeo di Ulisse e Polifemo). Dal giardino, invaso dalla luce del sole, la vista poteva spaziare con grande effetto scenografico, attraverso la penombra dell’ambiente porticato, fino ai giochi d’acqua della fontana del ninfeo. Le sale piú rappresentative sono poste sugli assi del cortile. L’ala orientale presenta un impianto molto piú articolato, che si snoda intorno a due cortili poligonali aperti ai lati del complesso della Sala Ottagonale, centro di simmetria e fulcro dell’intero padiglione, che, con la corona dei suoi ambienti radiali, rappresenta un esempio straordinario e innovativo per concezione spaziale e arditezza a r c h e o 81


SPECIALE • DOMUS AUREA Una veduta della Sala Ottagonale.

costruttiva. Le altre stanze principali si collocano sul cortile (al centro del quale si apre la famosa Sala della Volta Dorata) e lungo il fronte verso la valle (sale di Achille a Sciro e di Ettore e Andromaca), mentre alle spalle si dispongono ambienti di servizio e corridoi di passaggio. Cosí come questa complessa architettura venne attibuita a Severo e Celere, secondo quanto ci riferisce Plinio, l’autore della decorazione della Domus Aurea fu il pittore Fabullus (Plinio, Storia Naturale, XXXV, 120). A lui probabilmente si devono i disegni dei quadri figurati, con 82 a r c h e o

una netta predilezione per personaggi ed episodi ispirati al «ciclo troiano», legato alle origini della dinastia giulio-claudia, e inseriti in decorazioni parietali ascrivibili al «IV Stile pompeiano». Ma della parte piú fastosa della decorazione, dei rivestimenti in marmi policromi, delle gemme, dei soffitti d’avorio, resta oggi solo la memoria tramandata dalle fonti: Traiano, infatti, fece in modo che tutti i materiali preziosi, e fra questi andavano annoverati anche i marmi, venissero recuperati. Allo stato attuale è possibile ricostruire soltanto i sistemi decorativi delle pareti, attraver-


so l’osservazione delle impronte lasciate dai rivestimenti marmorei sulle malte di allettamento. Le fonti antiche, inoltre, piú volte ricordano come Nerone avesse depredato la Grecia di capolavori scultorei classici ed ellenistici per adornare gli ambienti della sua reggia, tra i quali il gruppo dei Galati vinti, trasferito da Vespasiano nel Tempio della Pace, e il famosissimo gruppo del Laocoonte, rinvenuto nel 1506 proprio in una vigna sul Colle Oppio. La vivace policromia dei marmi – impiegati non solo nella decorazione parietale, ma anche nei pavimenti e nei

rivestimenti di vasche e scivoli d’acqua e illuminati dalla luce che invadeva gli ambienti –, gli affreschi distesi sulla parte alta delle pareti e sulle volte – delimitati da cornici in stucco ricoperte di foglia d’oro –, le opere d’arte collocate nelle sale del palazzo dovevano costituire un elemento di sfarzo e di ricchezza senza eguali, coerente con la grandiosità dell’invenzione architettonica di questo padiglione. Lo stesso che veniva riservato, probabilmente, soltanto all’otium dell’imperatore e dei suoi invitati e paragonabile, per proporzioni e lusso, solo alle regge ellenistiche orientali. a r c h e o 83


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LA DOMUS AUREA E L’INCONSCIO DI ROMA di Alessandro D’Alessio

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l parallelo istituito da Sigmund Freud tra psicoanalisi e archeologia, ovvero tra il lavoro dello psicanalista e quello dell’archeologo, sono state dedicate molte pagine. Si tratta del resto di uno fra i piú suggestivi paragoni extradisciplinari tracciati da Freud nel corso della sua straordinaria vicenda scientifica, professionale e umana. «L’archeologo – scrive Freud – ha a che fare con oggetti distrutti, di cui sono andati assolutamente perduti grandi e importanti fram-

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menti attraverso la violenza meccanica, il fuoco, i saccheggi. Nessuno sforzo può riuscire a rintracciarli, per ricomporli con i resti conservati. Si può fare affidamento solo sulla ricostruzione, che per questo motivo non può andare molto al di là di una certa verosimiglianza (...) È solo un problema di tecnica analitica riuscire a portare compiutamente alla luce ciò che è nascosto» (Etiologia dell’isteria, 1896; Costruzione nell’analisi, 1937). A un’analisi cosí lucida e consapevole si po-


Nella pagina accanto: Reminiscenza archeologica dell’Angelus di Millet, olio su tela di Salvador Dalí. 1931935. St. Petersburg (Florida, USA), Salvador Dalí Museum. In basso: fotografia aerea dell’area del Colle Oppio, con, in evidenza, il perimetro entro il quale sono oggi conservati i resti della Domus Aurea.

trebbe solo aggiungere come nel caso dell’archeologia le difficoltà nel lavoro di ri-costruzione del già esistente, e/o dell’accaduto e del sommerso, siano date proprio dalla corruttibilità e incompenetrabilità della materia, cioè dall’impossibilità oggettiva non solo di osservare l’integrità di un edificio o complesso monumentale (o di una stratificazione) in una data fase della sua vita, ma soprattutto di cogliervi la complessità delle trasformazioni, distruzioni, sovrapposizioni, sostituzioni succedutesi nel tempo. Una condizione, questa, che riguarda anche i casi piú fortunati ed eclatanti, come Pompei e, a maggior ragione, Roma.

DA MITO PER POCHI ERUDITI... Proprio da qui può prendere le mosse una pur breve riflessione sui fenomeni di annullamento, oblio e auspicabile ri-emersione alla coscienza collettiva di un monumento straordinario e «magico» qual è la Domus Aurea (o meglio di quel che oggi cosí chiamiamo). La «rimozione» di questa grandiosa appendice della residenza urbana di Nerone prende avvio proprio con l’edificazione delle Terme di Traiano e con i conseguenti processi di occultamento, espoliazione e riformulazione funzionale. Della Domus, della sua magnificenza, delle sue atmosfere rimase memoria soltanto nelle fonti letterarie. Per secoli, infatti, essa fu un mito, appannaggio di pochi eruditi in grado di leggere Seneca,

Tacito o Svetonio e di apprendere cosí i nomi di Celere, Severo e Fabullus; ma della luce accecante che invadeva i suoi cortili e peristili, le sue grandi sale, come di quella tenue e baluginante che impreziosiva i suoi ninfei e criptoportici, nulla piú. La riscoperta, altrettanto epocale, si concretizzò solo nel tardo Quattrocento, quando curiosi e artisti iniziarono a penetrare dai pertugi nelle volte all’interno delle gallerie traianee e nelle sale affrescate della Domus. Da quelle esplorazioni scaturí una cifra sostanziale del linguaggio stilistico dell’arte rinascimentale e neoclassica, in Italia e in Europa: una parte della materia era stata insomma riesumata – con un taglio prettamente artistico e antiquario –, ma per il resto continuava in gran parte l’oblio, se si pensa che, ancora nel Settecento, la Domus veniva confusa con le Terme di Tito.

...A OGGETTO DI STUDIO La Domus Aurea del Colle Oppio fa il suo ingresso nei moderni studi di antichistica solo nel XX secolo. Grazie ai suoi resti materiali, oggi sappiamo molto della residenza di Nerone (come delle sue preesistenze), qui come sul Palatino e il Celio, sebbene la conoscenza precipua delle sue architetture e funzioni, e soprattutto della sua diacronia, sia argomento tuttora all’ordine del giorno. Per contro, nella percezione quotidiana degli

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abitanti di Roma, come di tanti visitatori occasionali, la Domus Aurea resta soffocata, distante, «rimossa» per l’appunto, innanzitutto per via del suo stato e delle sue condizioni di conservazione, che ne impediscono la piena e libera frequentazione.

CONVIVENZA E SOSTENIBILITÀ Al tempo stesso, il salvataggio della Domus non può ignorare le esigenze della convivenza con l’antico e della sua sostenibilità: occorre dunque portare avanti e concludere il progetto di risanamento e conservazione del monumento da un lato e, dall’altro, offrire ai bambini che ogni giorno giocano nel Parco del Colle Oppio una valida alternativa, non solo in termini di fruibilità del «loro» giardino, ma anche di vivibilità del quartiere in cui vivono. La «rimozione» persistente della Domus Aurea oggi è questa: abitanti e cittadini che non sono ancora in condizione di esperire e (con)vivere, In alto, a sinistra: particolare decorativo dipinto e a rilievo della volta della Sala di Ettore e Andromaca. A sinistra: le decorazioni pittoriche sulle pareti e la volta del Grande Criptoportico. Nella pagina accanto, a sinistra: particolare della volta del Corridoio delle Aquile. Nella pagina accanto, a destra: particolare della conchiglia dell’abside della Sala di Achille a Sciro.

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in maniera certa e consapevole, con quel che li ha preceduti, che potrebbe invece insegnargli molto di piú su chi sono e saranno. Questa persistente «rimozione», infine, ha lungamente ostacolato anche un’adeguata allocazione di risorse al progetto di risanamento della Domus: da parte pubblica e anche da parte privata. La Domus Aurea è sepolta, nascosta, e dunque ancora poco «attrattiva» per gli interventi di crowdfunding e dell’Art Bonus (denominazione scelta per il provvedimento legislativo con il quale, nel 2014, lo Stato ha introdotto un credito d’imposta per le erogazioni liberali in denaro a sostegno della cultura e dello spettacolo, quale sostegno del mecenatismo a favore del patrimonio culturale, n.d.r.). Eppure il monumento è visitabile, con forme e tempi contingentati, ed è aperto al pubblico. Si presta perciò a essere riletto e rivissuto. Si presta a dare un contributo alla riqualificazione di un tessuto urbano e dunque al profitto, socio-culturale ed economico, dell’investimento. Esplicitare e risolvere questa «rimozione» tornerà utile a tutti noi e questa presa di coscienza ha stimolato e alimentato la volontà di intraprendere un percorso di valorizzazione piú dinamico e «sensibile», all’interno del quale la realizzazione del nuovo percorso multimediale della Domus Aurea (vedi alle pp. 96-98) costituisce, a nostro avviso, un valido inizio. a r c h e o 87


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IL PROGETTO DI RISANAMENTO E CONSERVAZIONE

I

l progetto di risanamento del complesso monumentale della Domus Aurea nell’area del Parco del Colle Oppio è stato avviato per contrastare le cause della sua crisi conservativa, giunte a livelli ormai preoccupanti e che possono essere individuate nei fattori di rischio che qui illustriamo. Innanzitutto la presenza, nelle sale e negli altri spazi dell’edificio neroniano, del poderoso impianto di sostruzione delle Terme di Traiano. A ciò si collega e aggiunge la debolezza strutturale dei muri di elevato, elementi verticali di sostegno delle coperture interessati nel corso dei secoli da fenomeni di cedimento, spoliazioni, lacune; e cosí pure delle volte, alcune delle quali hanno perso ogni coesione e solidità. Gli agenti inquinanti esterni vanno a sommarsi e ad attecchire, con evidenti danni alle strutture e decorazioni, in un microclima interno alla Domus caratterizzato dalla forte instabilità termo-igrometrica, che rappresenta forse il fattore di rischio piú significativo e pericoloso. La grave ingerenza, fin dentro il monumento, degli apparati arborei e radicali del Parco soprastante, l’eccessivo peso e le pessime caratteristiche meccaniche del suo terrapieno (il cui spessore varia da 1,70 a 3,30 m circa), unitamente alla presenza di strutture moderne che minano ulteriormente la solidità di quelle antiche, costituiscono una minaccia permanente alla conservazione e tutela del padiglione neroniano del Colle Oppio. Proprio l’acquisizione di questa consapevolezza, rispetto ai pur notevoli restauri condotti nella Domus fino ai primi anni 2000, ovvero l’impossibilità e inutilità di procedere alla pulitura e al definitivo consolidamento delle pitture e degli stucchi senza aver rimosso le

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Un momento del trattamento conservativo delle superfici pittoriche mediante l’utilizzo di nanocalci.


principali cause di degrado, ha indotto la Soprintendenza a un generale ripensamento dell’approccio e delle modalità di intervento conservativo di questo straordinario contesto monumentale, incastonato nel cuore di Roma.

In basso: un momento della pulitura delle decorazioni pittoriche nel Grande Criptoportico, con l’utilizzo della tecnica laser.

UN APPROCCIO NUOVO Per la prima volta, nella lunga storia dell’edificio, è stata affrontata la questione dell’integrale sostituzione del Parco attuale nell’area corrispondente, della messa in luce dei livelli archeologici superiori ed esterni e del loro conseguente consolidamento strutturale (da considerarsi come primo presidio di difesa dell’intero monumento) e, infine, della progettazione di un nuovo giardino sostenibile che includa un innovativo Sistema Integrato di Protezione (SIP). A quest’ultimo, in particolare, è demandato il compito di difendere la Domus dalle continue percolazioni dell’acqua e di garantire, quale punto essenziale per la sua futura conservazione, la riduzione al minimo valore possibile dello scambio termo-igrometrico e ambientale tra il monumento stesso e il contesto entro cui esso ricade. A partire da ciò, il Progetto definitivo per il risanamento della parte superiore e sommitale della Domus Aurea è stato completato e presentato dalla Soprintendenza Speciale per il Colosseo e

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l’area archeologica centrale di Roma nel giugno 2014, anche recependo le indicazioni fornite dai competenti Comitati di Settore del MiBACT nell’aprile 2011. Il gruppo di progettazione della Soprintendenza, costituito da archeologi, architetti e altre figure professionali, insieme a specialisti esterni competenti per le questioni fisico/ ambientali, ingegneristico/idrauliche e bio/ botaniche, ha verificato reazioni e comportamenti del monumento in presenza di differenti soluzioni tecniche e condizioni compatibili con la realizzazione del nuovo giardino sostenibile, che dovrà sostituire integralmente la porzione corrispondente del soprastante Parco del Colle Oppio. Estesa su circa 16 000 mq (pari a circa 3 campi di calcio), quest’area è stata suddivisa in 22 porzioni di forma rettangolare, destinate ad accogliere altrettanti lotti/bacini, che, dal punto di vista idraulico e costruttivo, hanno comunque funzionalità autonoma.Tale complessa articolazione è dettata sia dalla notevole estensione della superficie da trattare, sia dalla necessità di compartimentare il lavoro, per favorirne la gestione e l’ottimizzazione in corso di esecuzione. In sintesi, le fasi iniziali di attuazione del progetto prevedono la completa rimozione del giardino del Colle Oppio nell’area interessata, il successivo scavo archeologico stratigrafico fino al raggiungimento delle strutture antiche (piano superiore della Domus Aurea ed estraUn momento del trattamento di consolidamento delle superfici, effettuato attraverso l’iniezione nella parete di materiali che bloccano il distacco dell’intonaco.

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dossi delle gallerie traianee), e una imprescindibile attività di consolidamento, ricucitura delle lesioni e integrazione delle lacune esistenti. A seguire, sul piano antico cosí risanato, sarà approntato il Sistema Integrato di Protezione, che riconnette l’edificio sotterraneo alla superficie calpestabile del nuovo giardino, abbattendo del 70% circa il peso attualmente gravante sul monumento. Da ultima, la forma del nuovo giardino sostenibile, cosí come concepita e realizzabile, scaturisce dall’intenzione di recuperare e riverberare, al piano del Colle Oppio, la percezione del monumento antico sia nella sua dimensione ipogea (sale e ambienti della Domus Aurea e posteriori gallerie traianee), sia in quella superiore, en plein air, data dalla sovrapposizione delle Terme di Traiano al preesistente edificio neroniano, attraverso l’accentuazione visiva dei rispettivi elementi architettonici e spaziali.

IL CANTIERE PILOTA Allo stato attuale, dei 22 bacini previsti è stato realizzato un primo lotto di intervento (il cantiere pilota), inaugurato nell’aprile 2015, e si è dato avvio, nel settembre 2016, a un secondo e adiacente bacino, in parte ancora sperimentale e tuttora in corso di esecuzione, ulteriormente raffinato nelle caratteristiche tecnologiche e funzionali. Anche in questo caso, come nel primo lotto, l’esteso scavo archeologico effettuato ha consentito di mettere in luce e rimuovere, su tutta la superficie indagata, la settecentesca messa a dimora di vigne e alberi verosimilmente da frutta alloggiati in un potente strato di terra. Al di sotto, in piú punti e con diverso orientamento, sono state individuate e scavate varie sepolture di epoca altomedievale, direttamente ricavate sugli estradossi delle volte di copertura delle gallerie traianee, mentre verso il limite meridionale dell’area indagata sono emersi i resti di strutture e piani pavimentali (anche mosaicati) pertinenti al piano superiore del grande padiglione della Domus Aurea. Il costo complessivo di realizzazione dell’intero Progetto di risanamento della Domus è di circa 31 milioni di euro e la sua prosecuzione nel prossimo triennio è assicurata dai 13 milioni di euro stanziati dal MiBACT (D.M. 28 gennaio 2016: Fondo per la tutela del patrimonio culturale-Programma triennale 2016-


Un esempio di consolidamento mediante integrazione strutturale, effettuato nella Galleria traianea XVIII.

2018), che consentiranno l’immediata progettazione e successiva esecuzione di almeno altri 7 lotti/bacini in corrispondenza della metà occidentale della Domus Aurea, oltre alla ricostruzione delle volte delle due gallerie traianee crollate nel 2010.

INTERVENTI SULLE SUPERFICI DECORATE La realizzazione del Progetto di risanamento della Domus Aurea al piano del Colle Oppio (Sistema Integrato di Protezione e un nuovo giar-

dino sostenibile) è strettamente legata alle attività di consolidamento strutturale delle murature e di messa in sicurezza delle superfici decorate all’interno del monumento, già avviate da alcuni anni. Il consolidamento strutturale si realizza attraverso interventi finalizzati alla rigenerazione della portanza degli elementi che costituiscono l’organismo architettonico antico, mediante la messa in opera di integrazioni eseguite con tecniche e materiali tradizionali (calcestruzzo, laterizio), mentre il trattamento delle superfici decorate si limita all’attività di messa in sicurezza con l’obiettivo di ottenere la loro riadesione al supporto murario, in attesa di poter procedere, una volta che il Progetto di risanamento sarà completato, al loro restauro definitivo. Al momento sono inoltre in corso attività, talora estese, di trattamento biocida, imposte dalle infiltrazioni d’acqua e di altri agenti inquinanti. Tali interventi, che hanno come finalità l’ottenimento del «massimo miglioramento conservativo possibile», sono stati avviati dalla Soprintendenza fin dal 2010 e consistono, piú in particolare, per ogni singolo ambiente della Domus, nelle seguenti attività di cantiere: esecuzione di rilievi e conseguenti proposte ricostruttive, ancorate ai dati archeologici riscontrabili; preliminare messa in sicurezza delle superfici decorate, secondo i criteri e le finalità sopra descritti; ripristino delle volte di copertura già crollate, delle piattabande, degli archi di scarico e dei paramenti in laterizio asportati nel corso della lunga storia della Domus Aurea, con conseguente e sostanziale impoverimento degli elementi verticali di sostegno delle volte stesse; ricucitura delle piú estese e importanti lacune prodotte nelle pareti nel corso della riscoperta del monumento tra il XV e il XVIII secolo (presenti in quota quando il monumento era ancora in gran parte interrato). A tutt’oggi, le operazioni di consolidamento interno già realizzate coprono circa l’80% dell’intera superficie del padiglione del Colle Oppio e sono state effettuate, nel corso degli ultimi due anni, sia con fondi derivanti dal bilancio della Soprintendenza Speciale per il Colosseo e l’area archeologica centrale di Roma, sia con Delibere CIPE opportunamente finalizzate alla messa in sicurezza della Domus. a r c h e o 91


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IL SISTEMA INTEGRATO DI PROTEZIONE

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er Sistema Integrato di Protezione (SIP) si intende tutto quanto va posto in opera tra l’estradosso delle strutture antiche (volte delle sale e degli ambienti della Domus Aurea e delle gallerie traianee), individuate con lo scavo archeologico, e la superficie visibile che costituisce e forma l’ambiente esterno del Colle Oppio, compresi, quindi, la viabilità pedonale, l’irrigazione e i drenaggi, il monitoraggio, e tutti gli allestimenti che consentono la fruizione del sito da parte del visitatore, «al di sopra» del monumento. Prendendo in considerazione i risultati delle recenti sperimentazioni del professor Sandro Massa e gli studi e indagini degli ultimi vent’anni, si è progettata la successione stratigrafica del SIP destinato a contribuire al «miglioramento conservativo» della Domus In basso: una panoramica del cantiere pilota della Domus Aurea sul Colle Oppio. A destra: uno scorcio del cantiere, in cui si può osservare lo strato di argilla espansa disposta in una struttura a nido d’ape.

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Aurea. Inoltre, attraverso l’esecuzione del can- teorica giunge a imbibire le murature antitiere pilota sono state perfezionate alcune scel- che attraverso il terreno ed evapora all’interno degradandone le superfici. Con il SIP, te su materiali e tecniche di realizzazione. arrestate le acque piovane da una superficie impermeabile, al di sotto di questa viene a IL PASSAGGIO determinarsi un’areazione all’estradosso delDELL’ARIA E DELL’ACQUA Cosí come progettato, il SIP mira a ripropor- le volte e l’evaporazione procede dall’interre le condizioni originarie antiche, creando no verso l’esterno, lasciando i suoi eventuali un’intercapedine tra l’estradosso delle volte e residui salini al di sopra delle volte stesse, il nuovo strato impermeabile. L’intercapedine invece che sulle superfici dipinte interne. è riempita di materiale coibente, costituito da Questa intercapedine è inoltre areata in movetro cellulare confinato in geocelle, che per- do controllato, potendo ridurre o aumentare mette un facile passaggio dell’aria e dell’ac- il ricambio dell’aria mediante la chiusura qua. La comunicazione con l’esterno dell’in- delle vie d’accesso o l’introduzione di aria tercapedine è attivabile volontariamente e in forzata. Ciò significa che si può gestire il relazione al valore dell’umidità specifica degli fenomeno dell’asciugamento delle murature ambienti sottostanti e della temperatura in- con la lentezza desiderata, in modo che l’eterna ed esterna. In questo modo è possibile sito possa essere controllato. controllare l’umidità delle murature, poten- Il pacchetto progettato è formato funzionaldosi anche inserire acqua o vapore acqueo mente da 4 strati, ognuno dei quali costituito da molteplici materiali, con funzioni specifiall’interno dell’intercapedine medesima. Si è voluto cosí invertire il senso di circola- che distinte, ma tutti rispondenti alle esigenze zione dell’umidità. Attualmente, l’acqua me- di una piú efficace coibenza termica. Impianto irrigazione Cavidotto monitoraggio Bordi di contenimento terreno

Quota giardino con canalette e caditoie per il drenaggio superficiale

Bordi in plastica Tessuto non tessuto Argilla espansa contenuta in geocelle Geocomposito ad alta densità

Rete di drenaggio sopra l’impermeabilizzazione

Guaina in EPDM Geocomposito ad alta densità Quota giardino prima dell’intervento Quota giardino dopo l’intervento

Gabbioni metallici di bordo riempiti con vetro cellulare Rete di drenaggio sopra l’impermeabilizzazione

Estradosso Domus Aurea Tessuto non tessuto di protezione Riempimento con vetro cellulare Geocelle di contenimento del vetro cellulare Massetto di perlite espansa e calce

COME UNA STRATIGRAFIA Schema esemplificativo del Sistema Integrato di Protezione (SIP), progettato allo scopo di contribuire al «miglioramento conservativo» della Domus Aurea. a r c h e o 93


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IL NUOVO GIARDINO SOSTENIBILE

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l giardino sostenibile rappresenta la nuova sistemazione del verde dell’area soprastante la Domus Aurea e prevede un’importante modifica dell’attuale impianto storico. Nei tracciati e nelle forme, la sua struttura rimanda ai giardini antichi e suggerisce, attraverso segni di superficie, un piano di lettura dell’area archeologica che lo sorregge e lo condiziona: vero e proprio Genius loci di un giardino contemporaneo nato per preservare l’antico. Il progetto del nuovo giardino abbraccia il piú possibile il principio della sostenibilità, cosí da

In basso: planimetria generale della risistemazione del giardino sostenibile.

PROGETTO DEL GIARDINO - PLANIMETRIA GENERALE

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In alto: veduta della risistemazione del nuovo giardino sostenibile, realizzata nell’ambito del lotto del progetto terminato nel 2015.

coniugare i benefici legati alla tutela del monumento su cui insiste con quelli ambientali, sebbene il nuovo parco non potrà avvalersi del forte valore estetico-paesaggistico dato dalla presenza delle grandi alberature, i cui apparati radicali, unitamente al peso della terra e della biomassa, determinano gravi ripercussioni sulle strutture antiche sottostanti. Nella scelta della vegetazione per le piantagioni sono stati infatti tenuti presenti lo sviluppo e il vigore degli apparati radicali, tali da non creare interferenze e rischi per il monumento, orientandosi su specie tipiche dell’areale di impianto (con opportuni richiami storici) e, non ultimo, che permettessero di contenere i costi di manutenzione ordinaria.

LA FONTANA EVOCATA Al centro del giardino spiccano gli elementicontenitore, in acciaio tipo Corten, leggeri e di lunghissima durata, a suggerire i resti della fontana del grande cortile, ormai ipogeo, di questa parte della reggia di Nerone. Essi permettono inoltre di poter effettuare tutti gli interventi giardinieri necessari alla sopravvivenza delle piante in cosí poca terra, senza il pericolo di arrecare danno o alterazione al pacchetto tecnologico (SIP) sottostante. Seppur omogeneo, il disegno d’insieme dell’intero giardino sostenibile è articolato in vari ambiti: le aree a prato, i parterre con le

fioriture, un punto di sosta pavimentato, un percorso a sud-est ombreggiato da un pergolato che rimanda al porticato antico, posto infatti sul versante piú soleggiato. I bacini previsti permetteranno di concludere: il disegno dell’area a nord-ovest, già parzialmente interessata dal cantiere pilota, ovvero il giardino che per le sue linee e fioriture rimanda alle indicazioni sul giardino romano, suddiviso geometricamente da un asse centrale, ma anche da viali rettilinei, come trasmessoci dalle rappresentazioni pittoriche e da testi antichi; un punto di affaccio di notevole interesse, posto nel cuore del Parco, a evidenziare la natura archeologica del luogo e la dimensione «sospesa» dell’impianto. Sarà infatti lasciato aperto, sul piano del giardino, un punto di vista che dall’alto permetterà lo scorcio del cortile all’interno della Domus. La copertura a protezione del manufatto dalla pioggia e dai raggi solari sarà realizzata in acciaio riflettente per arrecare il minor impatto possibile con l’ambiente; nei bacini sul versante sud, invece, le linee di tracciato delle canalette in terracotta di irreggimentazione delle acque di superficie, riproporranno visivamente l’andamento delle gallerie traianee. L’accorgimento, funzionale ed estetico, evidenzia un importante dato archeologico ipogeo: il diverso orientamento della Domus Aurea rispetto a quello delle Terme di Traiano. a r c h e o 95


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IL PERCORSO MULTIMEDIALE di Raffaele Carlani

L’

applicazione della tecnologia della realtà virtuale per la ricostruzione dei monumenti antichi, offre una nuova incredibile opportunità per facilitare e restituire la loro rappresentazione architettonica complessiva. L’impiego di visori bioculari, che coprono l’intero campo visivo di chi li indossa, consente di svincolare la percezione delle «ricostruzioni» dalla dimensione del «media» (schermo, proiezione, monitor) e di immergere il visitatore in uno spazio virtuale metricamente e prospetticamente piú consono. La tecnologia utilizzata, con motori di rendering real time di ultima generazione, permette di simulare il corretto comportamento della luce e di come essa viene riflessa o rifratta dalle superfici materiche. L’armonia di questo binomio, come sapientemente espresso da Le Corbusier, è uno degli aspetti cruciali dell’architettura: «L’Architettura è il gioco sapiente, rigoroso e magnifico dei volumi sotto la luce». Una simile tecnologia appare particolarmente appropriata per la Domus Aurea: monumento nel quale la capacità di riuscire a veicolare la luce negli spazi interni costituisce un aspetto architettonico fondamentale.

UNA RICERCA MINUZIOSA La ricostruzione del modello della Domus Aurea si basa sulla ricerca scientifica che il Progetto Katatexilux porta avanti da ormai 15 anni. Ogni singola scelta ricostruttiva è frutto di un percorso analitico vagliato e verificato, utilizzando la modellistica informatica. Le ricostruzioni non sono rappresentazioni del monumento, ma una delle simulazioni: meta-oggetti con i quali è possibile ese96 a r c h e o


Sulle due pagine: un gruppo di visitatori assiste al video-racconto allestito lungo la Galleria traianea d’accesso alla Domus Aurea. Nella pagina accanto, in basso: ipotesi ricostruttiva della volta della Sala della Volta Dorata, basata sulle testimonianze documentarie del XVIII sec.

guire verifiche e analisi estremamente precise. Il processo di ricostruzione scientifica prende avvio dalle informazioni certe (rilievi, dati di scavo, analisi stratigrafiche disponibili, ecc.) per poi procedere con considerazioni anche ipotetiche, ma che seguono comunque un procedimento analitico e filologico (comparazione analogica, analisi delle fonti scritte, ecc.). Per la realizzazione del modello tridimensionale utilizzato è stato eseguito un nuovo rilievo fotografico degli ambienti interessati dell’installazione. Grazie a questi scatti è stato possibile ottenere, utilizzando la fotogrammetria automatizzata, una rappresentazione tridimensionale metricamente accurata e formalmente rappresentativa dell’ambiente allo stato attuale. Su questa base è stata sviluppata l’intera narrazione che sottende all’applicazione: lo sforzo

è stato quello di porre i visitatori nella condizione di perfetta coerenza tra la «realtà virtuale» dello spazio e la sua «realtà reale». Inizialmente un video racconto di grande formato (19 x 3,3 m), con immagini ricostruttive in 3D degli ambienti originari, introduce al percorso di visita.Vengono illustrate la storia del monumento – dall’edificio neroniano ai mutamenti voluti da Traiano – e la riscoperta rinascimentale, fino ai tempi piú recenti quando, durante la seconda guerra mondiale, le gallerie sono state utilizzate come rifugio per gli sfollati. A seguire, i visitatori, accompagnati da guide, raggiungono una seconda installazione nella Sala della Volta Dorata. Qui una serie di postazioni consentono a ciascun visitatore di utilizzare in maniera autonoma i visori bioculari: un’esperienza immersiva e inedita dello a r c h e o 97


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spazio; un nuovo e completo sguardo sull’antico ambiente, di cui oggi resta solo il sontuoso affresco della volta. Ci si muove a 360° in uno spazio ricoperto di marmi colorati e affreschi, inondato di luce, aperto su un giardino affacciato su Roma. L’effetto finale è un vero e proprio viaggio nel tempo, un corto circuito cognitivo ed emozionale del tutto nuovo nel panorama delle tecnologie applicate ai beni culturali, per la prima volta impiegato in un sito archeologico cosí importante nel cuore di Roma. Dal punto di vista dell’infrastruttura hardware è stata posta notevole attenzione alle problematiche di conservazione del monumento. L’installazione presso la Sala della Volta Dorata è dotata di un controllo puntuale del microclima. Le postazioni multimediali sono infatti monitorate sia sotto il profilo della temperatura sia dell’umidità relativa. I dati raccolti vengono costantemente inviati alla console di gestione, che, in maniera automatizzata, li elabora per decidere se intervenire sulla temperatura interna delle singole sedute, dove risiedono le unità computazionali dei singoli visori. Attraverso questa complessa infrastruttura è possibile evitare di immettere eccessivo calore all’interno della sala e assicurare al contempo che le macchine lavorino in condizioni termoigrometriche adeguate. 98 a r c h e o

DOVE E QUANDO Domus Aurea. Visita al cantiere di restauro con realtà virtuale Roma, viale della Domus Aurea 1 Orario sa-do, 9,00-16,45 Info e prenotazioni tel. 06 39967700 (lu-ve, 9,00-13,00 e 14,00-17,00; sa, 9,00-14,00); www.coopculture.it Note le visite si effettuano, con prenotazione obbligatoria, per gruppi di 25 persone, accompagnati e guidati da archeologi e storici dell’arte, che illustrano la storia della Domus Aurea e informano sui lavori in corso; oltre alla visione delle installazioni multimediali, il percorso tocca gli ambienti piú rappresentativi del monumento; la visita ha una durata di 75 minuti

PER SAPERNE DI PIÚ Irene Iacopi, Domus Aurea, Electa, Roma, 1999; Elisabetta Segala, Ida Sciortino, Domus Aurea, Electa, Roma 1999; Paul G.P. Meyboom, Eric M. Moormann, Le decorazioni dipinte e marmoree della Domus Aurea di Nerone a Roma, I-II, Peeters, Leuven 2013; Nerone, catalogo della mostra (Roma 12 aprile-18 settembre 2011), Electa, Milano 2011.

Veduta aerea di un’ipotesi ricostruttiva dell’intero complesso della Domus Aurea.



IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO Daniele Manacorda

IL VERO VOLTO DEL DESTINO GRECI E ROMANI RAPPRESENTARONO I VARI ASPETTI DELL’ESISTENZA MEDIANTE PRECISE PERSONIFICAZIONI. PER SIMBOLEGGIARE IL FATO, INVECE, RICORSERO A UN’IMMAGINE DIVERSA. COME DIMOSTRA UN MOSAICO RITROVATO NELLA CITTÀ LIBANESE DI BIBLO

U

n mosaico trovato a Biblo, in Libano, qualche decennio fa, associa nella parte conservata della scena le tre figure di Charis, Akmé e Kairòs. Nonostante la sua datazione (seconda metà del III secolo d.C.), l’opera è stata interpretata come citazione di una pittura del celebre Apelle (IV secolo a.C.), che dipinse a Smirne una Charis raffigurandola ancora vestita, invece che nuda come sarà tipico dell’età romana. Nel mosaico Charis impersona Aglaia, la piú giovane delle Charites (le Grazie dei Romani), che contiene in sé anche il significato di Tyche-Fortuna. E infatti in quella scena possiamo riconoscere una

sorta di concisa rappresentazione della vita, una metafora dei due modi, passivo e attivo, nei quali incontriamo la fortuna nella vita. Possiamo essere infatti colti dallo sguardo di Aglaia, oppure cogliere

noi stessi l’opportunità che ci viene offerta da Kairòs, il momento opportuno, che passa e non ritorna e che presiede ai comportamenti di chi intende infatti rendersi faber suae fortunae.

SUL FILO DEL RASOIO In questa narrazione Akmé rappresenta lo spazio, acuto e tagliente come il filo della lama, dove agisce l’istante del tempo opportuno. Sul filo del rasoio si muove infatti Kairòs, e proprio un rasoio dovremmo riconoscere nell’oggetto sospeso da Akmé in un altro mosaico, rinvenuto a Nea Paphos, a Cipro. Qui Akmé compare ai piedi di Dioniso, che le In alto: mosaico romano raffigurante il mito di Icario, dalla Casa di Dioniso a Nea Paphos, Cipro. II sec. d.C. A sinistra: particolare del mosaico da Biblo, raffigurante Akmé e Charis, che si appoggia a un pilastro. Seconda metà del III sec. d.C. Beirut, Museo Nazionale.

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porge un grappolo d’uva; al centro è Icario, protagonista del mito attico quale ospite di Dioniso, giunto fra gli uomini a portare la vite e il vino. Sulla destra compaiono due pastori ubriachi, «i primi bevitori del vino», ai quali Icario aveva offerto la nuova bevanda. Questi se ne ubriacarono (il vino era puro) e, credendo di essere stati avvelenati, lo uccisero. Di qui una serie di sventure e espiazioni, su cui non possiamo soffermarci, mentre merita interrogarsi sulla presenza di Akmé, che, in realtà, non risulta fra i protagonisti del mito. Credo che il suo ruolo si possa riconoscere nella pienezza della vita rappresentata con la sua matronale maturità da Akmé, che, con Kairòs, scandisce il va e vieni delle opportunità da cogliere e di quelle perdute. Il rasoio distingue da un lato o l’altro della lama il crinale che fa del vino un dono o un veleno: un discrimine che accompagna i mortali nel momento della scelta, dove l’akmé implica la precarietà della situazione, ma, al tempo stesso, l’acume, che ci deve guidare, la consapevolezza del nostro operare.

NEL REGNO DELLA FORTUNA Se il mosaico di Nea Paphos rappresenta il senso morale che ci deve guidare nei nostri comportamenti, il mosaico di Biblo descrive invece lo scenario in cui ci muoviamo, quel regnum fortunae, nel quale entriamo una volta usciti dall’utero materno, con i suoi limiti, cioè la nascita e la morte, determinati e scanditi dalla certezza imperscrutabile del fato e della sua condizione immodificabile. Questi due protagonisti della vita umana (la Fortuna e il Fato) sono tuttavia ben distinti: la prima, Fortuna, non è affatto ineluttabile, ma può tutto; il secondo non ha potere in sé, ma è pur tuttavia inevitabile. «Il fato è certo – ammonisce Seneca – la

sorte sempre incerta!». Il filo del destino scorre tra le dita delle due Parche, Klothò e Atropos, che filano e tagliano, dentro l’ordine immutabile delle cose. Nel telaio della vita il fato «sta» dritto e verticale come l’ordito, che misura la lunghezza del tempo assegnato, contrapposto alla condizione umana, variabile e contingente, di cui è simbolo la trama, e dove agisce la terza Parca, Lachesis-Fortuna. La trama darà alla tela i suoi colori, le sue decorazioni, le sue qualità (le vite di ciascuno di noi), ma le dimensioni sono già stabilite dall’ordito e non si cambiano. Fortuna e Kairòs dipingono sulla tela della vita le forme orizzontali dell’esperienza umana, senza mai valicare il limite fissato dall’ordito verticale. Se il mosaico di Biblo pone in campo la fortuna (Charis), il momento opportuno (Kairòs) e il suo culmine (Akmé), rappresentati da altrettante allegorie, palesate dalle relative didascalie, qual è (se c’è) l’immagine del fato? Il fato non corrisponde a una divinità vera e propria: la sua forma non è quindi necessariamente antropomorfa. Il suo nome in latino infatti è neutro, e come tale sembrerebbe senza volto. Il fato ha probabilmente bisogno di un simbolo, che indichi il suo

Particolare del mosaico da Nea Paphos con Icario che conduce un carro di buoi carico di otri di vino. significato fondamentale, cioè quello del «limite» immodificabile, inamovibile, invalicabile.

UNA POSIZIONE NON CASUALE Purtroppo, una parte della scena del mosaico è perduta. Tuttavia, pur davanti a lacune e incertezze, l’attenzione non può non essere attratta da un quarto elemento che campeggia nella zona superstite: intendo dire quella «colonna» o «pilastro», che compare alla sua estremità e al quale Charis si appoggia. Quell’oggetto non ha nulla a che fare con un elemento architettonico. La sua forma cilindrica, suggerita dalla sommità stondata, è perfettamente finita in alto, poco al di sopra dell’immagine di Charis. Se fosse una bassa colonna, non avrebbe alcuna funzione di sostegno architettonico, né di definizione di uno spazio illusionistico. La sua immagine somiglia semmai a quella di una pietra saldamente infissa nel terreno, ma posta, non a caso, ai margini della scena, quasi a indicare i limiti dentro i quali agiscono Charis e le altre allegorie, ma con un ruolo da coprotagonista.

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Particolare del mosaico da Nea Paphos, raffigurante Dioniso e Akmé.

Credo insomma possibile immaginare che quella pietra infissa nel terreno altro non sia che l’immagine del Fato. Ma per assegnare a quel nudo pilastro il valore di una cosí precisa raffigurazione simbolica dobbiamo chiederne conferma ad altre fonti, e, in particolare, ai testi letterari, che ci aiutano a inquadrare meglio il nostro ragionamento. Il primo è un verso (l’unico tramandato) della Hecuba del tragediografo romano Accio: «Cosí aveva deciso l’antico terminus dei fati», cioè la volontà del fato, rappresentata dal cippo che segnava, infisso nel terreno, il suo limite invalicabile. Il secondo è un passo dell’Eneide di Virgilio, posto in bocca a Didone: «Se l’infame [Enea] deve raggiungere altri porti e approdare ad altre terre e cosí pretendono le parole di Giove, questo terminus è inamovibile». Il terzo è un verso del Carme secolare di Orazio: «Voi che annunziaste, o Parche veritiere, ciò che il fato disse una volta per sempre, e che un terminus fisso manterrà, aggiungete un fato favorevole a quanto già compiuto!». In tutti e tre i riferimenti la citazione del fatum è collegata dunque a quella di un terminus, cioè materialmente di un cippo, che incontriamo anche nel

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poema di Lucrezio, nel celebre passo dedicato a Epicuro: «Per poi tornare vittorioso a insegnarci quel che può nascere, quel che non può, e infine le leggi che determinano il potere di ciascuna cosa secondo un limite (terminus) inamovibile». Il Fato è infatti il termine fissato da Giove e al tempo stesso la sua parola, che è impossibile violare. E a lui si inchina nella nostra scena Charis, che di Giove è figlia, appoggiandosi al terminus che ne descrive l’imperturbabile fissità.

UN’ENTITÀ NEUTRA L’analisi letteraria e quella iconografica sembrano dunque convergere verso una rappresentazione simbolica del Fato come un’entità neutra, senza volto, infissa nel terreno, limite invalicabile della vita umana e al tempo stesso anche del mondo di Charis/Fortuna/Lachesis, la Parca che – a differenza delle due sorelle – agisce «sulla terra», nel corso della vita umana. Questa sua condizione è d’altronde resa esplicita in un particolare della scena, a mio modo di vedere decisivo per la nostra argomentazione. Se concentriamo lo sguardo sulla figura di Charis balza infatti agli occhi che la linea che descrive il gomito sinistro della donna è accuratamente compresa

al di qua della linea verticale che segna il lato destro del cippo. Il corpo di Charis non oltrepassa quel limite. Non c’era alcun motivo artistico che impedisse all’artista di sopravanzarlo, e ancor meno di disegnare il corpo della donna all’interno del campo delimitato dal «pilastro». La precisione con la quale le due linee si sfiorano, ma non si confondono, indica che quelle due figure non potevano fare altro: il Fato, lasciando che Fortuna agisse partendo da quel limite per muoversi nel suo regnum, e la Fortuna a sua volta guardandosi bene dall’andare piú in là, dove nulla, neppure la piú splendida delle Charites, avrebbe mai potuto ambire di andare. Il Fato – ci ricorda Ovidio – è infatti insuperabile. Non possiamo sapere se la rappresentazione del Fato fosse presente nella composizione originaria di Apelle; ma se l’inserzione fosse solo un apporto di età romana, potremmo comunque leggervi un riflesso del dibattito tra ineluttabilità del destino e libertà di scelta individuale, che aveva coinvolto le scuole filosofiche greche, e in particolare quella stoica, i cui echi erano ben presenti nella cultura della media età imperiale. Proprio per questo non saprei dire quanto sia casuale l’esempio proprio di una pietra cilindrica, fatta rotolare da un pendio, a cui ricorre il filosofo Crisippo, autore di un trattato Sul fato e di un’opera dal significativo titolo Sui confini, per illustrare il rapporto tra fato e volontà umana, concludendo con questo detto pitagorico: «E apprenderai che gli uomini hanno sventure che si sono scelte di propria volontà». Quando cioè – mi sentirei di aggiungere – sul filo del rasoio hanno scelto di agire o di qua o di là.



QUANDO L’ANTICA ROMA… Romolo A. Staccioli

…CELEBRAVA LA FESTA DELLE PROSTITUTE OGNI 23 DI APRILE, LE DONNE CHE A ROMA PRATICAVANO IL MESTIERE «PIÚ ANTICO DEL MONDO» SI RECAVANO IN PROCESSIONE AL TEMPIO DEDICATO A VENERE ERICINA: UNA TRADIZIONE CHE, NEL TEMPO, FECE DELLA RICORRENZA UNA SORTA DI «FIERA DEL SESSO»...

T

ra le tante feste del calendario romano, non mancavano quelle riservate alle donne, in generale o distinte per «categoria»: da quella dedicata alle madri di famiglia (le Matralia dell’11 giugno) a quella delle serve (il festum ancillarum del 7 luglio). Una – sia pure «minore» – era riservata alle prostitute, le meretrices (da merere, «guadagnare»), le donne che «facevano pubblicamente commercio del proprio corpo», come erano giuridicamente definite. Infatti, sebbene fosse considerato degradante, nell’antica Roma il mestiere «piú antico del mondo» era legalmente riconosciuto e per molti aspetti «regolamentato». Le prostitute dovevano essere iscritte a un «albo» professionale, tenuto dagli Edili, dovevano indossare un abito speciale (vestis meretricia), pagare una tassa giornaliera (vectigal meretricium, pari all’importo di una singola prestazione, al giorno). Inoltre, non potevano assistere ai pubblici spettacoli e testimoniare in tribunale, né potevano ricevere legati ed eredità (fosse pure da parte di un congiunto).

LA PROTESTA DELLE SIGNORE In «compenso», esse sfuggirono ai rigori della legge sugli adultèri promulgata nel 18 a.C. da Augusto. Quasi un privilegio...Tanto che molte donne di buona famiglia, contrariate per le limitazioni imposte alla loro libertà di comportamento e protestando clamorosamente per l’intrusione dello Stato nella loro vita privata, andarono a iscriversi nei registri delle prostitute. Una famiglia romana, olio su tavola di Lawrence Alma-Tadema. 1867. Collezione privata.

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Quanto all’esercizio della professione, vi erano donne – prevalentemente in condizione servile –, che, alle dipendenze del proprio padrone, «lavoravano» soprattutto nei bordelli (lupanaria), ma anche in molte locande (cauponae) e nelle «osterie» (dove proprietarie e inservienti prestavano spesso, a richiesta, le proprie grazie) e, non di rado, pure in case private. Altre, anche in condizione di «libere», lavoravano in proprio. Sia che attirassero i clienti sulle soglie delle loro cellae meretricae, aperte sulla strada. Sia che i clienti li intrattenessero sotto i fornici dei teatri e del circo (donde, il verbo fornicare). Sia che agissero all’aria aperta, da «passeggiatrici» (ambulatrices), fuori le porte della città, magari tra le tombe allineate lungo le vie consolari, preferibilmente di notte, come «lucciole» (noctilucae), alla luce fioca di una lucerna a olio.

UNA VENERE «SPECIALE» Tutte celebravano la loro festa – o, piú correttamente, il loro «giorno» (dies meretricum) – il 23 di aprile, giorno anniversario della dedica (nel 181 a.C.) del tempio votato nel 184 dal console Lucio Porcio Licinio, in guerra contro i Liguri, a Venere Ericina. Una Venere «particolare», onorata nel suo santuario di Erice, in Sicilia, con un culto che prevedeva, tra l’altro, l’antichissima pratica della «prostituzione sacra» (e che, secondo Diodoro Siculo – IV, 83, 1 – era molto frequentato, dopo la conquista romana della Sicilia, da generali, consoli, governatori di stanza o di passaggio nell’isola «che, spogliandosi delle insegne della loro carica, si davano ad allegri godimenti con le ragazze, ritenendo cosí di rendersi graditi alla Dea»). Il tempio romano era la «replica» di quello ericino. Strabone (VI 2, 6) lo definisce «notevole per la sua cella

e il colonnato tutt’intorno». Essendo però dedicato a una divinità forestiera, fu costruito fuori del pomerio e delle mura urbane, all’estremità del Quirinale, oltre la Porta Collina, in un luogo che alcuni studiosi pensano di riconoscere oggi tra le vie Sicilia e Lucania, altri all’incrocio tra le vie Gaeta e Curtatone (dove, nel 1873, furono trovati i resti di un edificio sacro). In ogni caso, in età imperiale, il tempio finí per essere inglobato nei famosi Horti Sallustiani, la grande villa che lo storico che le lasciò il nome s’era fatta sistemare, tra Quirinale e Pincio, sullo scorcio del I secolo a.C., in un terreno già appartenuto a Cesare. A quel tempio, ogni 23 aprile, le prostitute romane si recavano in processione e, dopo averne ornato il simulacro di Venere con corone di rose e di mirto (la pianta sacra alla dea perché dietro un suo cespuglio s’era nascosta, alla sua nascita, dopo essere uscita dalla spuma delle onde, per sottrarsi alla vista lasciva di un branco di Satiri), offrivano doni generosi e imploravano la loro patrona affinché vegliasse su di esse e sulla loro professione, le proteggesse e favorisse mantenendole il piú a lungo possibile attraenti ed efficienti. Come ci assicura Ovidio nei Fasti (IV, 865 sgg.), il quale ricorda non solamente quando «conviene recarsi al tempio fuori la Porta Testa femminile in marmo, interpretata come Venere. IV sec. a.C. Erice, Museo Civico «Antonino Cordici».

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Pompei. Particolare di uno degli affreschi del Lupanare. I sec. d.C. Collina», ma dà opportuni suggerimenti al riguardo: «Venere è assai propizia alle donne professae (ossia «del mestiere»). Dopo aver offerto l’incenso chiedete bellezza e favore popolare, chiedete l’arte di blandire e parole adatte ai duetti e agli scherzi amorosi. E insieme al mirto date alla Dea il gradito sisimbro (un’erba odorosa simile alla menta) e giunchi intrecciati e composizioni di rose». È appena il caso di dire come il singolare «pellegrinaggio fuor di porta» del 23 aprile richiamasse ogni anno una gran folla di maschi e come, al riparo delle motivazioni religiose, si procedesse, tra lazzi e motteggi, a incontri e contrattazioni che finivano col trasformare la circostanza in una sorta di grande «fiera del sesso». In epoca tarda è possibile che la festa sia stata unificata con quella che, alle calende dello stesso mese di aprile, era dedicata sempre a Venere (peraltro insieme a Fortuna Virile), ma alla Venere che sant’Agostino, nella Città di Dio (IV 10) definisce «onesta» (o dell’amore coniugale) in contrapposizione all’altra, «disonesta» (o dell’amore mercenario). Si trattava della Venere detta Verticordia, ossia «che volge – o converte – i cuori», e di essa veniva esaltato (come un autentico contrappunto) il potere di indirizzare l’amore femminile verso il matrimonio e la procreazione dei figli piuttosto che al piacere. All’origine di questo culto ci sarebbe stato un sacrilegio compiuto dalle Vestali, in espiazione del quale i Libri Sibillini, appositamente consultati, avrebbero prescritto l’erezione di una statua (o, addirittura, di un tempio) alla dea la cui dedica, nel 216 a.C., sarebbe stata affidata a una certa Sulpicia, moglie di

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Quinto Fulvio Flacco, considerata in quel momento la matrona piú casta di Roma.

MADRE DEI DUE AMORI Cosí, insomma, in un giorno solo si festeggiava – e s’invocava – la stessa Venere quale «madre dei due amori», come la definisce Ovidio. Il quale, sempre nei Fasti (IV 135 segg.) invita le donne alla lavatio, il bagno, del simulacro divino: «Toglietele dal collo i nastri d’oro, toglietele i ricchi ornamenti. La Dea è tutta da lavare, e dopo asciugatele il collo e cingetelo nuovamente con gli aurei nastri; adornatela ancora e offritele fiori freschi e nuove rose». Quindi aggiunge: «Lei poi vuole che anche voi vi laviate sotto un verde mirto (...) e non vi dispiaccia di bere papavero tritato e bianco latte e liquido miele spremuto dai favi» (la stessa bevanda che Venere aveva gustato al momento di andare sposa a Efesto). Ancora sant’Agostino, invece, per

testimonianza diretta cosí descrive (nella traduzione di Flavio Biondo, in Roma trionfante, I p. 37) le cerimonie congiunte che alla medesima «madre» si dedicavano nell’occasione: «Avanti al tempio dov’era il simulacro della Dea, si faceva un gran concorso di popolo per vedere intensissimamente i giuochi che vi avevano a fare; e dall’un canto si vedeva la pompa delle meretrici, dall’altro, quella delle vergini, e in medesimo tempo, si adorava con tanta umiltà e riverenza la Dea, e se le celebravano davanti sporchi e disonesti giuochi. Perciocché ivi si poteva ogni maniera di disonestà vedere, non meno che in una libera e sfacciata scena: essi ben sapevano quello che sarebbe a una Dea vergine piaciuto, e nondimeno operavano tali atti e parole che le buone e caste donne se ne tornavano poi a casa troppo ben dotte e istruite di quello che meno a loro onestà si confaceva».



SCAVARE IL MEDIOEVO Andrea Augenti

SE DUE DENTI VI SEMBRAN POCHI... LO SCAVO DI UNA SEPOLTURA VICHINGA SCOPERTA IN SCOZIA HA RESTITUITO UNA NOTEVOLE MOLE DI DATI SUL PERSONAGGIO PER IL QUALE ERA STATA REALIZZATA E, PIÚ IN GENERALE, SULLE VICENDE DEL POPOLO CHE, IN CASI COME QUESTO, SCEGLIEVA UNA BARCA COME ULTIMA DIMORA

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er tributare a personaggi influenti o comunque importanti esequie onorevoli e scenografiche, i Vichinghi ricorrevano a una soluzione molto particolare: la sepoltura avveniva dentro (o sotto) una barca, sormontata poi da un tumulo. Questi monumenti funerari, in voga soprattutto tra il V e il X secolo, ci sono giunti grazie a esempi molto illustri, che fanno ormai parte della storia dell’archeologia medievale europea: penso alle navi di Gokstad e Oseberg, in Norvegia (oggi meravigliosamente esposte nel Museo delle navi vichinghe di Oslo); ma anche ai tumuli 1 e 2 di Sutton Hoo, nel Suffolk (Inghilterra). Oggi sappiamo che questa maniera di onorare i morti era comune a una vasta area

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dell’Europa settentrionale, ma fino a tempi recenti nessuna tomba del genere era mai stata trovata intatta nella terraferma della Gran Bretagna. La lacuna è stata colmata nel 2011, nella Scozia settentrionale, a Swordle Bay, nella penisola di Ardnamurchan. Un gruppo di archeologi guidato da Oliver Harris (Università di Leicester) si è imbattuto nella sepoltura mentre conduceva un progetto multidisciplinare sull’evoluzione A destra: ricostruzione grafica della tomba vichinga scoperta a Swordle Bay, nella Scozia settentrionale.

del paesaggio in quella zona: la struttura è stata scavata con tutte le attenzioni del caso e i risultati sono davvero interessanti. Il tumulo si trovava molto vicino alla linea di costa e fu realizzato tra la fine del IX e l’inizio del X secolo. Nella ricostruzione degli archeologi, chi allestí la tomba scavò prima una fossa con la forma della barca, e poi vi sistemò dentro lo


scafo, una piccola imbarcazione lunga 5 m circa. Tutto quello che ne è rimasto, oltre alla sua forma in negativo, sono i rivetti: ne sono venuti alla luce ben 213.

COME UN SERIAL KILLER Dentro la barca fu adagiato il cadavere; che però è stato quasi completamente distrutto dal Ph molto acido del terreno (circostanza riscontrata anche nella piú famosa tomba di Sutton Hoo, che venne inizialmente interpretata come cenotafio, perché nella barca non c’era traccia di ossa, finché il caso di un serial killer che scioglieva le sue vittime nell’acido fece scattare l’intuizione degli scavatori!). Dall’azione del Ph si sono tuttavia salvati due denti, le cui analisi si sono rivelate determinanti, e soprattutto il corredo. Dietro la testa del defunto è stato trovato un grosso mestolo, provvisto di un manico lungo ben 50 cm; e dentro il mestolo, un martello, tenaglie e resti organici, forse cibo. Vi erano poi una spada, piegata a forma di «S»; una lancia spezzata (forse l’effetto di gesti rituali, compiuti al

momento del funerale?), un umbone – cioè la parte centrale in metallo di uno scudo –, un’ascia, un acciarino e parte di un tipico bicchiere a forma di corno. Viene a questo punto logico chiedersi chi fosse l’individuo sepolto a Swordle Bay e si è subito tentati di pensare a un guerriero, maschio, forse norvegese. Tuttavia, non potendo disporre delle sue spoglie, è impossibile stabilirne con certezza il sesso, e va detto che all’epoca della tomba scozzese risalgono svariate deposizioni femminili con armi. Né è certo che fosse davvero un guerriero, poiché le armi potrebbero essere piú semplicemente un indicatore dello status sociale, come spesso avveniva nelle tombe dell’Alto Medioevo. Rispetto alla provenienza, poi, le analisi degli isotopi condotte sui denti indicano che l’individuo potrebbe in effetti essere un Norvegese, ma anche uno Svedese o un Irlandese. In piú, le stesse analisi segnalano che costui, chiunque fosse, per un anno circa, intorno ai 5 di età, cambiò alimentazione, passando da una

In alto: uno dei denti appartenuti al personaggio sepolto nella tomba vichinga di Swordle Bay (penisola di Ardnamurchan, Scozia settentrionale). Nella pagina accanto, in alto: una veduta del sito di Swordle Bay, con, in primo piano, la tomba vichinga. In basso: un’operatrice esamina in laboratorio la spada rinvenuta nella tomba vichinga di Swordle Bay. dieta a base di carne a una a base di pesce (forse a causa di una improvvisa carestia?). Un simile regime alimentare non è documentato nella Gran Bretagna del I millennio d.C., e quindi aumentano le possibilità che si trattasse di un individuo di origine scandinava – uomo o donna –, probabilmente norvegese.

LA BUONA ARCHEOLOGIA La tomba di Swordle Bay non è insomma una delle piú ricche sepolture altomedievali, né passerà alla storia come è toccato al tumulo 1 di Sutton Hoo; ma ha senza dubbio contribuito alla crescita dell’archeologia medievale europea. Averla ritrovata intatta ha permesso di scavarla con grande precisione, di condurre esami circostanziati sui reperti, e ha dimostrato l’importanza delle analisi degli isotopi per ricostruire i dettagli della vita di un individuo. Inoltre l’interpretazione dei dati, elaborata a partire dagli oggetti e da tutto il contesto del ritrovamento, è stata molto equilibrata e aperta, lasciando spazio alla discussione, ad altre proposte. In poche parole, un intervento esemplare.

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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

IL PRINCIPIO DI TUTTI I SEGNI ANIMALE POTENTE E BELLICOSO, MA ANCHE SIMBOLO DI FERTILITÀ, L’ARIETE OCCUPA UNA POSIZIONE DI ASSOLUTO RILIEVO NELLO ZODIACO, RIBADITA DALLE EMISSIONI MONETALI CHE NE ESALTANO GLI ATTRIBUTI

«L

e stelle consce del fato, che cambiano le vicende degli uomini»: cosí, all’inizio del poema Astronomica, il poeta e filosofo di età augustea Marco Manilio ne esplicita l’impostazione programmatica, che suggerisce una sorta di determinismo cosmico, in cui le vicende dei popoli, delle nazioni e dei singoli sono soggette alla posizione e all’influsso degli astri. Il macrocosmo celeste e il microcosmo dei viventi risultano dunque legati in modo indissolubile: pianeti, stelle e segni zodiacali reggono le sorti del mondo, definendone caratteri e destini. L’Ariete domina il cielo dello Zodiaco tra il 20 marzo e il 20 aprile, periodo durante il quale, in età antica, veniva a cadere l’equinozio di primavera; oggi, per effetto della precessione degli equinozi, tale momento si verifica sotto il segno dei Pesci.

A GOVERNO DELLA TESTA Definito da Manilio il segno di colui che comanda («il monton, come a principe conviene, è di se stesso consiglier», Astronomica, II, 485), l’Ariete apre il cerchio zodiacale; nelle raffigurazioni di età medievale dell’«uomo astrologico», connesso e determinato dai segni, esso viene infatti posto a governo della testa, mentre l’ultimo segno, i Pesci, ne costituisce i piedi.

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Rovescio di una dracma in bronzo di Antonino Pio. Zecca di Alessandria, 144-145 d.C. Berlino, Staatliche Museen, Münzkabinett. Sono ben riconoscibili l’immagine dell’ariete, sormontato dal busto di Ares-Marte, e una stella a otto punte. Se nell’iconografia tradizionale, l’ariete è visto come come un animale poderoso, dalle grandi corna ritorte e dal vello folto e riccioluto, la sua costellazione si compone di tre sole stelle, poco brillanti, ma di grande importanza, e i mitografi che scrissero dell’origine dei segni zodiacali ne diedero diverse genealogie. Quella piú celebre riporta a uno dei piú famosi racconti epici dell’antichità, l’impresa degli

Argonauti, con la conquista del vello d’oro dell’ariete Crisomallo. Capace di volare e parlare, figlio di Poseidone e Teofane (Igino, Fabulae, 188), l’ariete divino fu protagonista e vittima di vicende piene di amore, gelosia, morte e violenza. Il re Atamante ripudiò la sua sposa Nefele per la nuova fiamma Ino, la quale, ardendo di gelosia omicida per i figli della coppia reale Elle e Frisso, cercò di ucciderli. Allora Nefele mandò Crisomallo in aiuto dei giovinetti e infine Frisso, salvatosi, con poca gratitudine sacrificò l’ariete che fu poi innalzato da Nefele a costellazione (Igino, Astronomica, 2, 20; Pseudo-Apollodoro, Bibliotheca, I, 9, 1). Il suo vello fu consegnato al re Aete, che lo attaccò a una quercia protetta di Ares-Marte e vigilato da un serpente (Pseudo-Apollodoro, Bibliotheca, I, 109), e infine venne conquistato da Giasone, come si narra nelle Argonautiche.

UN’ARMA IN SUO NOME L’ariete rappresenta la forza pastorale e generatrice indomita, alla quale si unisce anche la componente bellicosa dell’animale, resa letale da corna che senza problema possono uccidere un uomo. La capacità d’urto e di sfondamento di quelle difese ben si prestò a ispirare una delle classiche


armi da guerra romane, l’aries, formata da un trave di duro legno rivestito da una calotta metallica a testa d’ovino, che diveniva pensilis quando era mossa da un sistema di corde annesse a una struttura lignea smovente, che ne amplificava la capacità d’urto. Nella figura zodiacale risulta preminente la rappresentazione del capo, contraddistinto appunto dalle potenti corna ritorte che nel mondo antico simboleggiano sovranità divina: basti ricordare le monete d’oro sulle quali Alessandro Magno è raffigurato con le corna d’ariete, attributo del dio egizio Ammone. Sulle monete della serie dello Zodiaco coniate ad Alessandria A destra: un’altra dracma in bronzo della serie dello Zodiaco di Antonino Pio. Zecca di Alessandria, 144-145 d.C. Al dritto, il busto dell’imperatore; al rovescio l’ariete, sormontato dal busto di Serapide, e la stella a otto punte. In basso: corniola con testa di ariete intagliata. I-III sec. d.C.

d’Egitto sotto Antonino Pio, l’immagine dell’Ariete è formata dall’animale in cammino o al galoppo con la testa rivolta all’indietro, sormontato – come in tutta la serie – dal pianetadivinità dal quale è dominato. Sul maggior numero degli esemplari il segno è sovrastato dal busto di Ares-Marte affiancato da una stella a otto punte.

UNA SPIGA DI GRANO L’Ariete è governato da Marte, simbolo di bellicosità, ma in alcuni esemplari della stessa serie alessandrina con l’animale compare il busto di Serapide. Il collegamento tra l’ariete – che, come già detto, è anche simbolo di fertilità e potenza vitale, tanto che in alcune raffigurazioni ha in bocca una spiga di grano – e la divinità sincretistica di origine tolemaica nella quale

vanno a confluire caratteristiche di Zeus, Ade, Dioniso e altre ancora, si ritrova nella Fabula dedicata ad Ammone (133) dell’erudito ispanico di età augustea Igino, storia che ricorre anche nei suoi Astronomica (2, 20). In essa si narra del viaggio di Dioniso-Liber nel deserto africano, dove, assetato, seguí un ariete che, dopo essere uscito miracolosamente fuori dalla sabbia, lo condusse fino a una sorgente. A differenza dell’ingrato Frisso, Dioniso non sacrificò l’animale, ma chiese a Zeus di trasformarlo nella prima costellazione dello Zodiaco, simbolo dell’energia salvifica e vitale rappresentata dalla sorgente nel deserto.

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Maria Bernabò Brea (a cura di)

PREISTORIA E PROTOSTORIA DELL’EMILIA-ROMAGNA - I Studi di Preistoria e Protostoria 3, I, Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, Firenze, 318 pp. + 1 DVD, ill. b/n 70,00 euro ISBN 978-88-6045-059-3 www.iipp.it

Il volume, di taglio specialistico, raccoglie i contributi presentati in occasione della XLV Riunione Scientifica dell’IIPP (Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria) che, tenutasi a Modena, ha compiuto un’ampia e articolata ricognizione delle conoscenze a oggi acquisite sulle piú antiche fasi della storia emiliano-romagnola, anche e soprattutto alla luce delle scoperte piú recenti. Si tratta di un mosaico assai vasto, non soltanto per via della considerevole estensione del territorio esaminato, ma anche per la ricchezza del palinsesto determinato dal succedersi di numerose culture, molte delle quali di particolare spessore e rilevanza. E non è dunque un caso che questa pubblicazione, pur ponderosa, sia solo la prima parte del resoconto completo del convegno, dando conto degli interventi che hanno affrontato temi e contesti riferibili all’orizzonte compreso fra il Paleolitico e l’Eneolitico. 112 a r c h e o

In accordo con gli obiettivi della Riunione, i quadri d’insieme si alternano alle comunicazioni delle nuove acquisizioni. Tra i primi, soprattutto per quanto riguarda le fasi piú antiche – Paleolitico e Mesolitico – emerge evidente l’importanza dei

dati desunti, oltre che dai materiali archeologici, dalle osservazioni di natura geologica, che costituiscono una chiave di lettura indispensabile in un contesto che aveva, in quelle epoche, un assetto spesso molto diverso dall’attuale. Un territorio che si deve immaginare popolato da gruppi di cacciatoriraccoglitori, capaci di affinare tecniche di lavorazione della selce particolarmente elaborate, come prova il fatto che venga spesso adottata la denominazione di «officina litica» per i contesti di volta in volta descritti. Saperi che, del resto, si sedimentano e si trasmettono, se è vero che, con riferimento al

cruciale momento di passaggio fra il Neolitico e le prime età dei Metalli, nell’Appennino parmense sono documentate non soltanto officine litiche, ma anche una vera e propria cava, in questo caso destinata all’estrazione del diaspro. Indizi di comunità ormai capaci di organizzare e programmare il lavoro, dando vita a catene operative ben definite. Né mancano le considerazioni su quello che, da sempre, è uno degli osservatori privilegiati della ricerca, soprattutto negli studi di preistoria: il contesto funerario. Per epoche che scontano l’assenza di documenti scritti, le tombe e le necropoli, se adeguatamente «interrogate», possono infatti fornire risposte puntuali e illuminanti. E piú d’uno dei contributi – è il caso delle sepolture «anomale» della cultura dei Vasi a Bocca Quadrata o di quelle in fossa dell’Eneolitico - offre eloquenti conferme del fatto che dalle analisi dei corredi o delle deposizioni è possibile ricavare indicazioni che non si limitano alle pur indispensabili classificazioni tipologiche. A corredo del volume a stampa, l’opera comprende il DVD nel quale sono state raccolte le comunicazioni presentate in forma di Brevi note in occasione della Riunione Scientifica. Stefano Mammini

Maurizio Martinelli

RELIGIONE E RITI IN ETRURIA Arbor sapientiaE Editore, Roma, 465 pp., ill. b/n 45,00 euro ISBN 978-88-94820-02-7 www.arborsapientiae.com

Maurizio Martinelli ha voluto affrontare in questo corposo volume quella che, per sua stessa ammissione, è un’«impresa ardua e scivolosa». Come l’autore stesso ricorda, le difficoltà sono facilmente identificabili: a fronte dell’esiguità delle fonti dirette – a causa della perdita della letteratura e, soprattutto, di quella relativa all’Etrusca Disciplina –, dall’antichità a oggi, le speculazioni sulla religione degli Etruschi e sul senso che essi davano a questo aspetto dell’esistenza sono state continue e non si sono mai interrotte. L’autore cerca dunque di riepilogare il problema, definendo una trama che si articola in undici capitoli e può ben dirsi convincente. S. M.


Romolo A. Staccioli

ROMA ANTICA PER LA STRADA Arrcheoroma-Borgia, Roma, 294 pp., ill. b/n 15,00 euro ISBN 88-7156-151-1 www.arborsapientiae.com

È difficile leggere tutto d’un fiato questo prezioso volumetto: basta infatti scorrerne le prime pagine, per sentirsi irresistibilmente attratti dal desiderio di uscire di casa e verificare, l’una dopo l’altra, le segnalazioni riunite in poco meno di 300 pagine da Romolo A. Staccioli, autore ben noto ai lettori di «Archeo» e che, caso mai fosse ancora necessario, offre l’ennesimo saggio di

una scrittura che fonde magistralmente chiarezza e puntualità delle informazioni. Come lo studioso stesso spiega nella breve Presentazione, quella che abbiamo fra le mani non è una guida di taglio tradizionale, bensí una sorta di «stradario» della Roma imperiale, compilato sulla base dei resti – piú o meno imponenti – che di essa si conservano, con l’intento di far parlare soprattutto quell’infinità di presenze che piú difficilmente trasmettono le proprie identità e funzioni originarie. Infatti, se è lecito augurarsi che il Colosseo, il Pantheon o la Colonna Traiana risultino facilmente intellegibili

anche ai non addetti ai lavori, non altrettanto può dirsi, per esempio, dei resti del Portico Minucio Frumentario o del Cippo del Pomerio fatto realizzare dall’imperatore Claudio e ritrovato nella zona oggi attraversata dalle vie del Pellegrino e dei Banchi Vecchi. Con Roma antica per la strada alla mano (il formato favorisce l’operazione), ci si può dunque cimentare in una vera e propria caccia al tesoro. E le

Disegno ricostruttivo del Portico Minucio Frumentario, struttura adibita, come suggerisce il nome, alle frumentationes, vale a dire alle pubbliche distribuzioni gratuite di grano. I resti dell’edificio si trovano lungo l’odierna via delle Botteghe Oscure.

sorprese, ne siamo certi, non mancheranno. La trattazione è suddivisa in funzione dei diversi rioni e quartieri della città, e ogni sezione è corredata da un ricco apparato di piante e disegni. Merita inoltre d’essere segnalata la presenza di un prezioso Dizionario dei termini tecnici e degli Indici, attraverso i quali è possibile recuperare con facilità le informazioni sui monumenti descritti. S. M.

DALL’ESTERO Patrizia Basso, Enrico Zanini (a cura di)

STATIO AMOENA Sostare e vivere lungo le strade romane Archaeopress Publishing Ltd, Oxford, 265 pp., ill. b/n 40,00 GBP ISBN 978-1-78491-498-1 www.archaeopress.com

Il volume nasce dall’omonimo convegno internazionale svoltosi a Verona nel 2014, ma non è da considerarsi come la tradizionale pubblicazione degli atti. Nell’opera sono infatti confluiti contributi successivamente elaborati sulla scorta dei temi dibattuti in occasione dell’incontro. Il risultato è una panoramica ampia e articolata, che non si limita a descrivere le stazioni di posta, ma propone una ricostruzione a tutto tondo del mondo che intorno a esse ruotava, abbracciando i molti aspetti sociali, economici e organizzativi legati al viaggio. S. M.

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