Archeo n. 364, Giugno 2015

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2015

ETRUSCHI LA TOMBA DEL COLLE

CHIUSI. RIAPRE LA TOMBA DEL COLLE MILANO

L’ORO DEI TRACI

LA PATERA DI PARABIAGO PARIGI

PATERA DI PARABIAGO

QUANDO ROMA VISSE LA SUA ETÀ DELL’ANGOSCIA Guerre civili, crisi economiche, barbari ai confini nell’età tra Commodo e Diocleziano

€ 5,90

SPECIALE ROMA. L’ETÀ DELL’ANGOSCIA

Mens. Anno XXXI n. 364 giugno 2015 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

IN MOSTRA L’EPOPEA DEI TRACI

www.archeo.it

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EDITORIALE

ADDIO PALMIRA? Febbraio: devastazioni nel Museo di Mosul e nel sito di Ninive (ruspe spianano le mura cittadine). Marzo: un’esplosione – documentata, fino a prova contraria, da un agghiacciante video facilmente reperibile in rete – manda letteralmente in polvere gli scavi dell’antica Nimrud (si tratta forse del piú grave attentato alla memoria storica dell’antica Mesopotamia perpetrato in età moderna); devastazioni simili, sebbene ancora non comprovate da immagini (ma il portavoce del ministro della cultura iracheno parla di un massiccio intervento di ruspe ed esplosivi) vengono compiute nello splendido centro partico di Hatra (dal 1985 riconosciuto dall’UNESCO come Patrimonio dell’Umanità). Ora sarà la volta di Palmira? Mentre scriviamo, le notizie confermano che l’oasi nel deserto siriano è caduta sotto il controllo dei miliziani del Califfato islamico. Con il fiato sospeso – e scarsissime speranze – attendiamo quello che, fino a ieri, ammantati di eccessiva ingenuità, non ritenevamo possibile: che cosa accadrà alla grande via colonnata con il suo celebre tetrapylon, ai suoi maestosi templi, alle tombe turrite della sua vasta necropoli distesa ai piedi dell’imponente fortezza voluta, ai primi del Seicento, dal principe libanese Fakhr al-Din II (intenzionato a fondare, con premesse ben diverse da quelle dei terroristi dell’Isis, uno stato indipendente nel Levante), e su cui, oggi, sventola la nera bandiera dell’oblio? Certo, la fama della città delle palme non perirà… né quella della sua leggendaria regina, Zenobia, la quale ebbe l’ardire di mostrare la fronte nientemeno che al piú potente impero dell’epoca, quello di Roma. Ma, ci chiediamo, si rendono conto gli sgherri del neocaliffo, che con la distruzione di Palmira pregiudicano il loro stesso futuro, insieme a quello di tutto il popolo siriano? Fino a un decennio fa, erano centinaia di migliaia i visitatori che, da ogni parte del mondo, si avventuravano lungo la strada che da Damasco conduce verso oriente, per visitare le meraviglie di questa città «romana» nel deserto. Quando un giorno, chissà quanto lontano, la guerra sarà finita e la convivenza civile verrà di nuovo ristabilita in questa terra martoriata, quanti saranno i turisti che vorranno ancora incamminarsi lungo quell’arido percorso per visitare i resti del tempio di Baal fatto saltare in aria da fanatici iconoclasti, o le vie colonnate spianate dalle ruspe? E pensare che, ancora nel febbraio del 2002, dopo una visita alle sue grandiose vestigia, potevamo scrivere, proprio su questa pagina, che «oggi Palmira vive cosí, protetta dal deserto che la circonda e dal rispetto della sua gloria passata» (vedi «Archeo» n. 204, febbraio 2002)… Nei numeri seguenti, ai quei «luoghi della leggenda» che l’implacabile attualità sembra voler condannare all’annientamento, dedicheremo una serie di ampi servizi. Semplicemente per non dimenticare. E dei nuovi interrogativi che la situazione impone, una volta superati i primi attimi di costernazione e sgomento, incominciamo a parlare sin da questo numero, nella rubrica della stampa internazionale… Andreas M. Steiner

L’oasi di Palmira, con i resti dell’antica città.


SOMMARIO EDITORIALE

Addio Palmira?

3

di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

SCOPERTE L’Africa Orientale si conferma «culla» del genere umano

DA ATENE

C’è luce in fondo al tunnel!

24

di Valentina Di Napoli

6

SCAVI

CHIUSI

Sant’Agata Bolognese

Tomba del Colle

Eccola di nuovo! 6

58

32

di Monica Salvini

Quando la storia finisce nel pozzo

58

di Carlo Casi

ALL’OMBRA DEL VESUVIO Una mostra allestita fra Napoli e Pompei offre una spettacolare documentazione sui calchi delle vittime dell’eruzione 10 PAROLA D’ARCHEOLOGO Esposta per la prima volta a Ostuni la «prima madre» della storia

14

DALLA STAMPA INTERNAZIONALE Dal Vicino Oriente giungono quasi ogni giorno notizie di distruzioni e saccheggi: cosa fare per fermare questa escalation? 22

32 MOSTRE

CIVILTÀ CINESE/10

L’epopea dei re traci

46

di Daniela Fuganti, con un contributo di Petar Delev

Beni di lusso

Non è un’arte per tutti

68

di Marco Meccarelli

In copertina ritratto colossale in marmo dell’imperatore Probo. 276-282 d.C. Roma, Musei Capitolini, Palazzo Nuovo

Anno XXXI, n. 364 - giugno 2015 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Davide Tesei Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 0069.6352 Comitato Scientifico Internazionale

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli,

Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale. Hanno collaborato a questo numero: Edoardo Albani è dipendente del Museo Nazionale Etrusco di Chiusi. Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Carlo Casi è archeologo e direttore di Mastarna s.r.l., ente gestore del Parco Naturalistico Archeologico di Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Petar Delev è professore di storia antica e tracologia all’Università «San Clemente di Ocrida» di Sofia. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Valentina Di Napoli è archeologa. Daniela Fuganti è giornalista. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Gianna Giachi è funzionario chimico della Soprintendenza Archeologia della Toscana. Eugenio La Rocca è professore di archeologia classica presso Sapienza Università di Roma. Paolo Leonini è storico dell’arte. Adriano Maggiani è docente a contratto di etruscologia e antichità italiche all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto della Soprintendenza Speciale ai Beni Archeologici di Pompei, Ercolano e Stabia. Daniele F. Maras è docente del dottorato di ricerca in storia linguistica del Mediterraneo antico presso l’Università IULM di Milano. Flavia Marimpietri è archeologa specializzata in archeologia greca e romana. Marco Maiuro è Adjunct Assistant Professor di storia romana presso la Columbia University di New York. Marco Meccarelli è storico dell’arte orientale. Claudio Parisi Presicce è Sovrintendente Capitolino ai Beni Culturali. Pasquino Pallecchi è funzionario geologo della Soprintendenza Archeologia della Toscana. Massimiliano Papini è professore associato di archeologia classica presso Sapienza Università di Roma. Elisa Salvadori è dipendente del Museo Nazionale Etrusco di Chiusi. Monica Salvini è direttore del Museo Nazionale Etrusco di Chiusi. Illustrazioni e immagini: Ufficio stampa della mostra «L’Età dell’Angoscia»: Zeno Colantoni: copertina (e p. 93) e pp. 86-92, 95-98, 100-101; The Metropolitan Museum of Art, New York: p. 94: Rheinisches Landesmuseum, Trier: p. 99 – Doc. red.: pp. 3, 14 (alto), 22-23, 108/109, 109 (alto) – MPK-WTAP: pp. 6-7 – Yohannes Haile-Selassie: p. 8 (alto) – Laura Dempsey: p. 8 (basso) – Cortesia


A VOLTE RITORNANO Acque chiare, dolci e... tiepide

106

di Flavio Russo

80 GLI IMPERDIBILI

Patera di Parabiago

L’universo in una coppa

80

di Daniele F. Maras

Rubriche

SCAVARE IL MEDIOEVO

QUANDO L’ANTICA ROMA... …incoronava i re d’Armenia

di Romolo A. Staccioli

108

102

Una tomba come investimento 108 di Andrea Augenti

SPECIALE

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

Quella «macchina» prodigiosa 110

102

di Francesca Ceci

LIBRI

Soprintendenza Archeologia della Campania: p. 9 – Cortesia Soprintendenza Speciale ai BA Pompei, Ercolano e Stabia: pp. 10-12 – Cortesia Donato Coppola: pp. 14 (basso), 15 – Cortesia Società per il Sostegno agli Studi di Thera Preistorica: pp. 24-25 – DeA Picture Library: pp. 32/33; A. Dagli Orti: pp. 80/81, 85; G. Cigolini. p. 83 – Archivio della Soprintendenza Archeologia della Toscana: pp. 34-44 – Ufficio stampa Museo del Louvre: Todor Dimitrov: pp. 46, 51 (Museo Storico Regionale, Ruse), 48 (Museo Storico Regionale, Vratsa), 49 (basso; Museo di Stora, Kazanlak), 50 (Museo Storico Regionale, Lovec), 52, 53 (alto e basso, a sinistra; Museo Archeologico Regionale, Plovdiv), 54 (Museo Storico Nazionale, Sofia); Istituto Nazionale d’Archeologia, ABS/Ivo Hadjimishev: p. 47; Musée du Louvre/Antoine Mongodin: p. 49 (alto), 53 (basso, a destra); © Krassimir Gueorguiev: p. 55; © Nikolai Genov: p. 56 – Cortesia dell’autore: pp. 58-69, 70 (alto), 71, 73 (sinistra), 74, 75 (alto e centro, a destra), 76-78, 106-107, 110 – Mondadori Portfolio: The Art Archive: p. 70 (basso); AKG Images: p. 72, 73 (destra), 84 – Corbis Images: Todd Gipstein: p. 75 (centro, a sinistra) – Bridgeman Images: Maryvonne Gilotte: p. 102; Photo Tarker: p. 104 – Shutterstock: p. 103 – Archivi Alinari, Firenze: BnF, Dist. RMN-Grand Palais/Image BnF: pp. 108, 109 (basso) – Tiziana D’Este: disegno a p. 111 – Stefano Mammini: p. 111 (basso) – Cippigraphix: cartine alle pp. 6, 24, 34, 48, 59, 102. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Editore: My Way Media S.r.l. Presidente: Federico Curti Amministratore delegato: Stefano Bisatti Coordinatore editoriale: Alessandra Villa Segreteria marketing e pubblicità: segreteriacommerciale@mywaymedia.it tel. 02 00696.346 Direzione, sede legale e operativa: via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano tel. 02 00696.352

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Quando Roma visse la sua età dell’angoscia 86 contributi di Eugenio La Rocca, Marco Maiuro, Massimiliano Papini e Claudio Parisi Presicce

Distribuzione in Italia m-dis Distribuzione Media S.p.A. - via Cazzaniga, 19 - 20132 Milano Tel 02 2582.1 Stampa: NIIAG Spa - Via Zanica, 92 - 24126 Bergamo Abbonamenti: Direct Channel srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com Per informazioni, problemi di ricezione della rivista contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Telefono: 02 89708270 [lun-ven 9/13 - 14/18 ] Posta: Miabbono.com c/o Direct Channel Srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Fax: 02 252007333 Posta: Direct Channel Srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da My Way Media Srl – titolare del trattamento – al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’atto della sottoscrizione dell’abbonamento, My Way Media Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: My Way Media Srl, via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a My Way Media Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere l’elenco completo ed aggiornato dei responsabili.


n otiz iari o SCOPERTE Africa

SCHIACCIANOCI E PARENTI STRETTI

L

a caccia al «piú antico» non conosce soste. Questa volta si tratterebbe dei primi strumenti lavorati riferibili alla specie umana o, meglio, a uno dei molti rami che ne compongono il vasto albero genealogico, quello a cui appartiene il Kenyanthropus platyops, una specie scoperta nel 1999 sulla sponda occidentale del Lago Turkana, in Kenya. L’annuncio è stato dato dai membri del West Turkana Archaeological Project (WTAP), all’indomani delle osservazioni compiute sui reperti recuperati, tra il 2011 e il 2012, nel sito denominato Lomekwi 3. In particolare, i saggi di scavo hanno restituito 149 artefatti in pietra che presentano scheggiature e altre alterazioni giudicate intenzionali. Come si può intuire, i meteriali recuperati hanno ben poco a che vedere con gli strumenti litici attestati per le culture preistoriche a noi piú vicine nel tempo. Il repertorio comprende

Sudan

Yemen

Eritrea

Woranso-Mille

Gibuti

Golfo di Aden

Etiopia Lomekwi

Lago Turkana

Lago Vittoria

Somalia

Kenya Africa

Tanzania

infatti grossi ciottoli appena sbozzati, schegge di lavorazione e alcuni elementi interpretati come «incudini»: vale a dire pietre utilizzate come basi su cui disporre materiali che venivano poi percossi, colpendoli dall’alto verso il basso. Si tratterebbe, insomma, della prova di un’attività svolta in loco da individui che, con ogni probabilità al fine di agevolare il consumo di cibo, avevano intuito l’utilità di

ciottoli di varia natura e dimensione. Doveva trattarsi di operazioni semplici, che possiamo immaginare affini a quelle compiute, per esempio, dagli scimpanzé per rompere il guscio delle noci, ma che dunque provano la capacità di pianificazione di chi le ha eseguite. Un salto qualitativo considerevole, soprattutto se si considera che sarebbe avvenuto intorno ai 3,3 milioni di anni fa, poiché questa è la data a cui si possono ascrivere i reperti, dal momento che

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provengono da un contesto sigillato e nel quale erano presenti anche resti fossili sui quali è stato possibile compiere le opportune determinazioni cronologiche. Lomekwi 3, inoltre, è in stretta associazione con Lomekwi, il vicino sito che aveva restituito i resti del Kenyanthropus «faccia piatta» (perché tale è il significato dell’attributo platyops, scelto proprio per via dello schiacciamento frontale osservato sul cranio di questo ominino). Fino a ieri le prime testimonianze di

strumenti deliberatamente messi a punto e utilizzati erano quelle scoperte nella gola di Olduvai (Tanzania), ascritte a Homo abilis e datate a 2,6 milioni di anni fa. Adesso il panorama sembra dunque cambiare e cosí come per le industrie tanzane era stato coniato il termine Olduvaiano, gli studiosi del WTAP hanno proposto di introdurre una nuova facies, il Lomekwiano. Una settimana piú tardi, alle novità provenienti dal lago Turkana hanno fatto eco quelle giunte da un’altra

Sulle due pagine: Lomekwi (Lago Turkana, Kenya). Al centro della foto si riconosce uno dei saggi di scavo che hanno restituito gli artefatti in pietra datati a 3,3 milioni di anni fa e attribuiti a individui della specie Kenyanthropus platyops. Nella pagina accanto: due componenti del West Turkana Archaeological Project esaminano alcuni degli artefatti rinvenuti, che presentano scheggiature e altre alterazioni ritenute intenzionali.

archeo 7


n otiz iario In alto: la mandibola rinvenuta a Woranso-Mille (Afar, Etiopia) e assegnata dagli scopritori a una nuova specie, denominata Australopithecus deyiremeda, vissuta intorno ai 3,5-3,3 milioni di anni fa. In basso: calco della mascella dell’Australopithecus deyiremeda. area che è da decenni uno degli osservatori privilegiati per lo studio della nostra specie: l’Etiopia. Qui, nella località di Woranso-Mille, situata nel cuore della regione dell’Afar (quella da cui proviene lo scheletro di Lucy), una missione del Cleveland Museum of Natural History guidata da Yohannes Haile-Selassie ha rinvenuto resti di una mascella e di una mandibola con caratteristiche tali da indurre a riferirli a

8 archeo

una specie distinta da quelle a oggi note. I reperti sono stati quindi assegnati a un nuovo Australopithecus, battezzato deyiremeda: un attributo ricavato dai termini deyi e remeda, che, nella lingua locale, significano rispettivamente «stretto» e «parente». Haile-Selassie e i suoi collaboratori

hanno infatti voluto sottolineare che il «nuovo arrivato», che abitò la regione etiopica tra i 3,3 e i 3,5 milioni di anni fa, ha comunque affinità molto strette con le specie già distinte, come per esempio l’Australopithecus afarensis o il ramidus. Al contempo, hanno evidenziato come i denti del deyiremeda abbiano caratteristiche sorprendentemente avanzate, con elementi finora ritenuti esclusivi di specie molto piú tarde, come il Paranthropus e Homo. Al di là delle questioni morfologiche, la distinzione del deyiremeda non mancherà di ravvivare il dibattito sull’opportunità di creare una nuova specie a ogni fossile che presenti differenze piú o meno vistose rispetto a quelli già noti. Stefano Mammini


SCAVI Campania

CAPUA: UN PALINSESTO RICCO E ARTICOLATO

G

li ambienti di una domus romana e di un edificio termale separati da un’asse stradale sono venuti alla luce a seguito di un intervento di archeologia preventiva condotto nel Comune di Santa Maria Capua Vetere (Caserta), l’antica Capua. Il ritrovamento documenta una continuità e un’evoluzione insediativa dalla fine del III secolo a.C. all’VIII secolo d.C. «Sebbene l’indagine sia stata resa complessa dalla presenza delle fondazioni di un edificio (costruito all’inizio del Novecento) che hanno inglobato i muri antichi – spiega Ida Gennarelli, funzionario di zona della Soprintendenza Archeologia della Campania – il saggio estensivo ha individuato un asse viario della prima età imperiale in fase con un condotto fognario posto al centro della carreggiata. La strada è composta da due marciapiedi divisi da un pavimento centrale in battuto terragno duro che costituisce l’allettamento per il rivestimento in basoli, trovati divelti e capovolti a causa di una fossa di spoliazione databile all’VIII secolo d.C. Il condotto fognario è costituito da un fondo di mattoni sesquipedali, collocato tra due muretti laterali in blocchi di tufo giallo con paramento in opus latericium e sormontati da una struttura ad arco il cui interno conserva il rivestimento di tegole disposte alla cappuccina. Sono stati individuati quattro ambienti termali: due di essi sono stati parzialmente scavati, mettendo in evidenza la fase in opera a telaio, databile alla fine del III e l’inizio del II secolo a.C.». Nel 2013 il sito era già stato interessato da altre indagini, concentratesi nella parte posteriore della proprietà; questi interventi

avevano portato alla localizzazione dei resti di un’abitazione di epoca medievale, intercettata nei livelli stratigrafici superiori, e, in quelli inferiori, di ben 13 ambienti di una domus che occupava una superficie di 360 mq con pregiati apparati decorativi parietali e pavimentali. Il confronto tra quelle acquisizioni e i dati ora raccolti confermano che l’occupazione del sito ebbe inizio all’interno di un lotto delimitato da muri in opera a telaio e che questi,

Santa Maria Capua Vetere. Foto zenitale dei resti di strutture riferibili a una domus romana, a un impianto termale e a una strada. L’area fu in uso tra il III sec. a.C. e l’VIII sec. d.C. probabilmente, nel settore delle terme sono pertinenti a una domus e adottarono come limite l’asse stradale, testimoniando una definizione degli spazi già in fase di progettazione urbanistica. Giampiero Galasso

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ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi

L’ATTIMO FATALE NEL 1863, GIUSEPPE FIORELLI, ALLORA DIRETTORE DEGLI SCAVI DI POMPEI, EBBE UN’INTUIZIONE GENIALE: CON ACQUA E GESSO, RIDIEDE «VITA» A DECINE DI VITTIME DELL’ERUZIONE. I CALCHI SCATURITI DA QUELL’INTERVENTO SONO ORA UNO DEGLI ELEMENTI DI MAGGIOR INTERESSE DI UNA RICCA RASSEGNA

L

a grande suggestione evocata da Pompei, dall’inizio della sua scoperta nel 1748 fino al drammatico bombardamento del 1943, è raccontata nella mostra «Pompei e l’Europa. 1748-1943» articolata in un doppio percorso di visita che si sviluppa tra il Museo Archeologico Nazionale di Napoli e l’anfiteatro della stessa Pompei. L’esposizione evoca la storia dell’antica città vesuviana, straordinaria fonte d’ispirazione per archeologi, storici dell’arte, architetti e letterati, chiamati a rivelare la vicenda unica della sua scoperta. L’itinerario pompeiano ospita due sezioni, rispettivamente dedicate alle fotografie storiche del sito e ai calchi in gesso delle vittime dell’eruzione del 79 d.C. Quest’ultima è senza dubbio la piú

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accattivante, per l’impressione che da sempre hanno suscitato le «fotografie» dell’attimo in cui spirarono alcuni abitanti di Pompei. La mostra costituisce inoltre l’occasione per tradurre in concreto uno degli interventi piú significativi di restauro e valorizzazione nell’ambito del «Grande Progetto Pompei». Nel 1863, l’allora direttore degli scavi, Giuseppe Fiorelli, ebbe la sorprendente intuizione di pompare gesso liquido negli spazi vuoti che man mano si aprivano negli scavi durante la rimozione della cenere vulcanica. Quasi inconsapevolmente, grazie a questa iniziativa rivoluzionaria, Fiorelli si trasformò in un «archeologo-artista», ricreando i corpi dei Pompeiani sepolti 1800 anni fa. L’eruzione del Vesuvio

sommerse la città antica nel giro di poche ore, con una pioggia prima di lapilli e poi di ceneri: molti abitanti rimasti in città morirono asfissiati dai gas e dalle nubi ardenti, e i loro corpi furono coperti da strati di cenere che si compattarono immediatamente. Col tempo i corpi si decomposero, lasciando cosí altrettanti vuoti all’interno del materiale vulcanico solidificato. Vuoti nei quali Fiorelli fece appunto colare una miscela di gesso e acqua. Dopo la solidificazione del composto, agli scavatori fu possibile rimuovere il terreno circostante e portare alla luce la forma cosí ottenuta. Cosí il collega Giulio De Petra si espresse sull’archeologo Fiorelli: «La piú fortunata delle sue invenzioni fu la immagine autentica


Sulle due pagine: Pompei. Immagini che documentano alcune fasi degli interventi di restauro eseguiti sui calchi delle vittime dell’eruzione del 79 d.C. Gli straordinari reperti sono frutto del geniale esperimento condotto da Giuseppe Fiorelli nel 1863. che diede della catastrofe vesuviana (...) per cui questi rivivono nelle forme e nelle contrazioni della loro agonia». E ancora, lo scrittore Luigi Settembrini: «È impossibile vedere quelle tre sformate figure, e non sentirsi commosso. Sono morti da diciotto secoli, ma sono creature umane che si vedono nella loro agonia. Lí non è arte, non è imitazione; ma sono le loro ossa, le reliquie della loro carne e de’ loro panni mescolati col gesso: è il dolore della morte che riacquista corpo e figura (...) Finora si è scoverto templi, case ed altri oggetti che interessano la curiosità delle persone colte, degli artisti e degli archeologi; ma ora tu, o mio Fiorelli, hai scoverto il dolore umano, e chiunque è uomo lo sente».

Oggi un’esclusiva anticipazione del lavoro di restauro e valorizzazione dei calchi delle vittime, avviato dalla Soprintendenza di Pompei, è ospitata nella mostra allestita nell’anfiteatro. Il progetto nasce, in primo luogo, dall’esigenza di conservazione di manufatti che nella loro unicità sono un’inesauribile fonte di informazioni e di conoscenze. «Il recupero dei calchi di Pompei – sottolinea Stefano Vanacore, responsabile dei Laboratori di restauro di Pompei – è per noi restauratori una sfida appassionante che, con molta razionalità, va gestita senza farsi coinvolgere nell’emotività passionale che questi reperti rappresentano». Vanacore racconta le tappe salienti del lavoro: «Le fasi di preparazione hanno comportato continui confronti fra varie professionalità. Hanno infatti coinvolto restauratori, archeologi, antropologi, radiologi, ingegneri per i rilievi laser-scanner dei reperti e un tecnico esperto in cartografia e informatica.

In particolare, l’attività dell’antropologo ha fornito un aiuto prezioso nel riposizionamento delle parti anatomiche da ricostruire, contribuendo anche nelle indagini biologiche, biochimiche e chimicofisiche, al fine di tracciare un profilo bio-antropologico e genetico

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Uno dei calchi di Pompei, che documenta in maniera particolarmente impressionante l’ultimo soffio di vita della vittima. individuale. Il progetto considera gli 86 calchi censiti su tutta l’area della città antica. Abbiamo ritenuto opportuno inserire anche il calco umano conservato nei magazzini dell’Opera del Santuario della Beata Vergine di Pompei, lí arrivato per motivi ancora ignoti; inoltre, si aggiungono i calchi del cane, del maialino e l’impronta di testa

parlando di calchi, di conoscenza dell’uomo racchiuso nell’involucro di gesso. Il nostro compito consiste nel recupero e nella valorizzazione dei calchi, adottando tutte le strategie possibili per raggiungere tale finalità. Si evidenzia, in particolare, la straordinarietà dell’intervento che interessa per la prima volta tutti i calchi finora realizzati. Riteniamo quindi opportuno, visto che i reperti sono unici nel loro genere, documentare ampiamente le operazioni di restauro, con

pubblicazione di un volume e di un documentario scientificodivulgativo dedicato ai restauri; il primo accoglierà le schede conservative di tutti i calchi pompeiani, i risultati delle indagini RX e DNA destinate alla conoscenza dell’«uomo di gesso». Fra i documenti saranno disponibili i rilievi scanner-laser dei calchi realizzati con tecniche digitali d’avanguardia per una lettura tridimensionale del reperto e del suo stato di conservazione. Saranno inoltre realizzate repliche

conservata nell’Antiquarium di Boscoreale». L’intervento di restauro dei calchi è finalizzato anche alla resa estetica dei manufatti. «Sono state eseguite tutte le operazioni di pulitura, consolidamento, integrazione e protezione del calco – sottolinea Vanacore – È chiaro, però, che il lavoro non si esaurisce con l’intervento conservativo, con il mero recupero della materia, ma deve necessariamente trasformarsi in veicolo di conoscenza, di diffusione delle informazioni recuperate, delle tecniche di realizzazione della forma e,

divulgazione visiva e scritta. Si documenta per memoria e per informare: nel primo caso si procede alla descrizione visiva e scritta dell’intervento, cosí da lasciare agli addetti ai lavori documenti che costituiscono appunto una memoria di quanto fatto precedentemente; nel secondo, invece, i destinatari sono tutti coloro che desiderino conoscere quanto avviene e con quali modalità. Tutto quello che emergerà dall’intervento di restauro sarà infatti messo a disposizione del pubblico». Il progetto sui calchi prevede la

in scala reale di 10 calchi, ottenute con l’impiego di sensori per la lettura tridimensionale della superficie del reperto.

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DOVE E QUANDO «Pompei e l’Europa. 1748-1943» Napoli, Museo Archeologico Nazionale Pompei, Anfiteatro fino al 2 novembre Orario Napoli: tutti i giorni, 9,00-19,30; chiuso martedí Pompei: tutti i giorni, 8,30-19,30 Info www.mostrapompeieuropa.it; www.pompeiisites.org



PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri

UN’ANTICHISSIMA MADRE UNA GROTTA NEI PRESSI DI OSTUNI HA RESTITUITO LE SPOGLIE DI UNA DONNA DEL PALEOLITICO MORTA POCO PRIMA DI PARTORIRE. UN REPERTO ECCEZIONALE, DI CUI CI PARLA LO SCOPRITORE, DONATO COPPOLA, CHE IPOTIZZA ANCHE L’ESISTENZA DI UN «ESPERANTO» PREISTORICO

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a 28 000 anni ed è la prima madre conosciuta della storia dell’uomo. Il suo scheletro e quello del suo bambino, risalenti al Paleolitico Superiore, sono stati rinvenuti in una grotta sulle colline Ostuni, nel Brindisino e vengono ora esposti, per la prima volta nella stessa Ostuni. Ne parliamo con Donato Coppola, professore di archeologia presso l’Università degli Studi di Bari «Aldo Moro». Professor Coppola, lei scoprí l’antica «madre di Ostuni» nel 1991.

Ci vuole raccontare? «Quando l’ho vista, ho cacciato un urlo. I miei studenti si spaventarono, ma io gridavo di gioia: avevo davanti agli occhi un reperto eccezionale. Ero in visita con i ragazzi nella grotta-santuario di S. Maria di Agnano, sulle alture di Ostuni, e mi ero calato all’interno di un condotto carsico secondario che avevo intravisto già da tempo. Lí casualmente feci la scoperta. Lo scheletro aveva la testa adagiata su un letto di terreno rossastro: si Lo scheletro della donna incinta rinvenuto a Ostuni, nella grotta di S. Maria di Agnano. Paleolitico Superiore, 28 000 anni fa circa.

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vedevano il bacino, la colonna vertebrale, le costole e una miriade di conchiglie marine forate, circostanza, quest’ultima, che mi fece pensare subito a un reperto del Paleolitico». Perché è possibile attribuire quei resti alla «madre piú antica del mondo»? «Perché è una donna vissuta 28 000 anni fa, che ha in grembo un feto a quattro settimane dal parto. Si tratta dei piú antichi resti di una donna incinta che conosciamo, nonché degli unici due consanguinei noti della storia dell’uomo paleolitico». Il recupero del reperto è stato lungo e complesso, non è vero? «Abbiamo prelevato gli scheletri in un pane di roccia del peso di 2 tonnellate. Lo scavo, condotto all’interno del museo, è durato due anni. Solo per smontare il cranio della donna ho impiegato sei mesi; altri sei per rimontarlo. Da pochi giorni la madre e il nascituro sono esposti nel Museo di Civiltà preclassiche della Murgia meridionale, dove, oltre agli scheletri, si possono vedere un calco di come fu trovata la sepoltura e una ricostruzione al vero della grotta con la deposizione». La partoriente è stata seppellita secondo un rituale comune in tutto il Mediterraneo, all’epoca, per la figura della «Grande Madre». Con tanto di conchiglie e cavalli…


«Ebbene sí. C’è un’intenzionalità rituale nella sepoltura: una sorta di divinizzazione della defunta. La donna era addobbata come la famosa “Venere di Willendorf“ (vedi «Archeo» n. 285, novembre 2008; anche on line su archeo.it) e come tutte le altre Veneri paleolitiche dell’Europa orientale: indossava un copricapo di conchiglie forate, una sorta di cuffia coperta di ocra rossa, proprio come quelle che vediamo nelle statuette delle Grandi Madri. La nostra defunta aveva sul capo ben 650 conchiglie e una decorazione con canini di cervo, collocati ogni 80 conchiglie. Il modello è senz’altro quello delle Veneri steatopigiche (cosí si definiscono le figure con forme, glutei e cosce fortemente accentuate) del Paleolitico

Superiore. Come queste, la defunta di Ostuni aveva bracciali di conchiglie e cipree ai polsi e agli avambracci. Attorno erano stati deposti resti di cavallo e di un uro, una specie di vacca podolica del Paoleolitico Superiore, conosciuta come bos primigenius. Doveva trattarsi di un’offerta rituale, compiuta a fini propiziatori nell’ambito di una cerimonia di rigenerazione. Qualcosa che doveva significare: “Grande Madre, aiutaci a trovare tanti cavalli e vacche da mangiare”». E poi ci sono quei segni tratteggiati, che lei interpreta come una «carta di identità» della Grande Madre... «Quando ho smontato il cranio, ho trovato al di sotto un ciottolo di selce dipinto sulle due facce con ocra rossa e gialla, di uso rituale, In alto: la grotta-santuario di S. Maria di Agnano, presso Ostuni. A sinistra: la ricostruzione della sepoltura della «madre di Ostuni», esposta, insieme allo scheletro della defunta, nel Museo di Civiltà preclassiche della Murgia meridionale.

inciso con tratteggi lineari paralleli. Secondo me, si tratta della simbologia grafica riferibile alla Grande Madre paleolitica: una sorta di “tessera di riconoscimento” della dea. Un simbolo che si ritrova in tutta l’arte paleoltica europea e francese. Nella grotta di Lascaux, in Francia, per esempio, sopra le figure di animali dipinte sulle pareti di roccia 18 000 anni fa, comprendenti cavalli e uri, sono incisi migliaia di segni sovrapposti (a graticcio o a tratteggio lineare): anch’essi, a mio avviso, sono il simbolo della Grande Madre, lasciato in funzione propiziatoria dai cacciatori. Con il tempo, infatti, nel Paleolitico Superiore tardo, si passa dalla riproduzione figurata degli animali a una resa simbolica. E tra i 30 000 e i 10 000 anni fa, il cacciatore, prima di partire, per propiziare la battuta non disegna piú un animale, ma incide un tratteggio. Nella grotta della «Venere di Parabita», in provincia di Lecce, sono stati trovati 500 ciottoli incisi con questi motivi. È un protolinguaggio simbolico». Il segno della Grande Madre costituirebbe dunque una prima forma comune di linguaggio europeo, già in epoca preistorica? «Sí: io credo che il tratteggio rappresenti una prima forma di scrittura universale. Era una sorta di idioma unico, che tutti i cacciatori erano in grado di tracciare: il primo linguaggio comune europeo».

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n otiz iario

MOSTRE Etruria

ANCHE GLI ETRUSCHI HANNO IL LORO PADIGLIONE (DIFFUSO)

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n ideale collegamento tra passato e presente unisce gli antichi territori dell’Etruria ai moderni padiglioni milanesi dell’Expo 2015: ha infatti preso il via una nutrita serie di iniziative culturali diffuse tra Toscana, Umbria e Lazio – realizzate grazie alla collaborazione di numerose realtà comunali locali e al coordinamento della Soprintendenza Archeologia del Lazio e dell’Etruria Meridionale e dei Comuni di Viterbo e Orvieto –, riunite nel progetto denominato Experience Etruria. Nell’ambito di un accordo di valorizzazione promosso dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, sono stati realizzati quattro percorsi culturali dedicati ad altrettante tematiche del mondo etrusco, che possono essere esplorati attraverso diversi itinerari geografici: le vie del vino e

del sale, dell’olio e del grano, dei boschi e dell’acqua. I percorsi sono completati da mostre allestite nei musei locali (vedi l’elenco) e includono anche affascinanti esperienze sensoriali, che prevedono degustazioni di antichi profumi e unguenti e di cibi e bevande della tradizione etrusca. Per avere un quadro completo del progetto, è stato attivato il sito internet www.experienceetruria.it, dove si possono esplorare in dettaglio tutte le iniziative, localizzate su una mappa interattiva e suddivise per itinerario. Inoltre, per promuovere Experience Etruria, nei saloni dell’Expo e nelle diverse città dell’Etruria, è stata «richiamata in servizio» la principessa etrusca Ati (tenuta a battesimo con la mostra «Il viaggio oltre la vita.L’Aldilà degli Etruschi tra capolavori e realtà virtuale», vedi «Archeo» n. 357, novembre 2014), che, attraverso un film di animazione 3D realizzato dal CINECA, che la vede nuovamente protagonista, guida gli spettatori alla scoperta dei percorsi sensoriali. Questo dunque l’elenco delle esposizioni, che saranno visitabili sino al prossimo 31 ottobre:

Santa Marinella, Castello di Santa Severa «“E non lo fermò la distesa del mare”. L’antico viaggio nell’acqua che nutre»

Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia «Nettare e ambrosia. Il cibo degli Dèi»

Grosseto, Museo Archeologico e d’Arte della Maremma «La giusta misura: il simposio, l’aristocrazia, il vino in Etruria»

Cerveteri, Museo Nazionale Cerite «Qui c’è il fuoco di Bacco. L’antico vino di Caere»

Vetulonia, Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» «Antichità sequestrata. A Vetulonia, l’Italia antica si ritrova... a tavola»

Pyrgi (Santa Severa), Antiquarium «Acqua divina. Pyrgi e gli dèi venuti dal mare» Tarquinia, Museo Archeologico Nazionale Tarquiniense «Il mare si fa oro. Eracle e il sale»

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Canino, Museo Archeologico Nazionale di Vulci «Frutti d’oro e d’argento. La spiga e l’ulivo» Canino, Museo Civico del Complesso di S. Francesco «Frutti d’oro e d’argento. Cibi etruschi al microscopio». Tuscania, Museo Archeologico Nazionale Tuscanese «Il paesaggio immaginario. Leoni, sfingi e ippocampi» Civita Castellana, Museo Archeologico dell’Agro Falisco «Il sacro che scorre. I riti dell’acqua» Viterbo, Museo Nazionale Etrusco «In alto i kantharoi. Acquarossa a banchetto» Viterbo, Museo Civico «Luigi Rossi Danielli» «In alto i kantharoi. Gli Etruschi dal volto di pietra»

Bolsena, Museo Territoriale del Lago di Bolsena «Buoni raccolti, buoni frutti, buona sorte. Culti agricoli e salutari a Bolsena» (red.)


ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

GLI ANNI DELL’INQUIETUDINE 3

«L’età dell’angoscia», la mostra allestita ai Musei 1 2 Capitolini di Roma e a cui è dedicato lo speciale di questo numero (vedi alle pp. 86-101), racconta i 150 anni che vanno dalla morte di Marco Aurelio, con l’ascesa del figlio Commodo, cioè la fine dell’età dell’oro, e l’arrivo al potere di Diocleziano nel 284 d.C. Considerata come un periodo «buio» della storia di Roma, questa fase è un ottimo spunto per una 6 5 4 collezione tematica, perché permette di indagare fatti, personaggi e accadimenti di un’epoca trascurata dalle collezioni tradizionali sulla storia di Roma. Nonostante l’arco temporale sia molto ampio, il materiale specifico non è molto, ma i riferimenti diretti e indiretti si rivelano invece assai numerosi. Nulla c’è di filatelico su Commodo, mentre esiste 8 7 molto materiale sul padre, Marco Aurelio: per esempio, il bel francobollo italiano del 1997, che riproduce la statua equestre dell’imperatore nella piazza del Campidoglio a Roma (1) già raffigurata anche in un annullo del 1976 (2), e il francobollo svizzero del 1972 (3). Il momento finale di questo excursus riguarda 11 Diocleziano e anche per lui ci sono diversi pezzi: due francobolli che lo ritraggono, Albania (4) e Iugoslavia (5), e un annullo di Croazia (6); altri due hanno un 9 10 riferimento indiretto perché riproducono il suo famoso palazzo di Split (Spalato): Iugoslavia (7) e Croazia (8). Sia pure con un po’ di fantasia, quasi tutti i molteplici motivi di «ansia» dell’«età dell’angoscia» possono 12 essere documentati filatelicamente. Innanzitutto, una profonda crisi spirituale e religiosa che ha favorito una 13 sempre piú massiccia adesione al culto di divinità provenienti dall’Oriente: Iside (9), Cibele (la fontana di Cibele a Madrid nella vignetta e nell’annullo, 10), Mitra (11), Sabazio e lo stesso cristianesimo (12). 14 A ciò si sono aggiunte le ansie dovute a motivi piú materiali, quali guerre civili come la battaglia di 15 Antiochia nel 218 (13), crisi economiche, IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Temacarestie ed epidemie (14), e la minacciosa e tica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di continua pressione dei barbari (Attila e san «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi: Leone Magno, 15) ai confini dell’impero. Segreteria c/o Alviero Batistini Luciano Calenda, Solo pochi esempi, dunque, ma il materiale Via Tavanti, 8 C.P. 17037 disponibile per una collezione molto piú 50134 Firenze Grottarossa organica e piú vasta non manca davvero... info@cift.it, 00189 Roma. oppure

lcalenda@yahoo.it; www.cift.it

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CALENDARIO

Italia

MILANO Africa

ROMA Lacus Iuturnae

La fontana sacra del Foro Romano Tempio di Romolo nel Foro Romano fino al 20.09.15

L’Età dell’Angoscia

Da Commodo a Diocleziano (192-305 d.C.) Musei Capitolini fino al 04.10.15

In alto: il cavallo C del gruppo dei Dioscuri.

La terra degli spiriti MUDEC, Museo delle Culture fino al 30.08.15

L’isola delle torri

Tesori dalla Sardegna nuragica. Civico Museo Archeologico fino al 29.11.15

MONTEBELLUNA (TV) Storie di antichi Veneti La situla figurata di Montebelluna Museo Civico fino al 27.09.15

Terrantica

Volti, miti e immagini della terra nel mondo antico Colosseo fino all’11.10.15

BRESCIA Brixia. Roma e le genti del Po

ASTI Alle origini del gusto

Il cibo a Pompei e nell’Italia antica Palazzo Mazzetti fino al 05.07.15

Un incontro di culture. III-I secolo a.C.

CASALE MONFERRATO diVino

Le antiche terre d’Egitto e del Monferrato regni della cultura del vino Castello, Manica Lunga fino all’01.11.15

CASTELLAMMARE DI STABIA (NA) Dal Buio alla Luce

Opere e reperti dalle ville di Stabiae Palazzo Reale di Quisisana fino al 31.12.15

Qui sopra: statuetta cicladica femminile tipo Spedos, da Koufonisia (?). Antico Cicladico II, 2800-2300 a.C.

CIVITA CASTELLANA (VT), MAZZANO ROMANO (ROMA) I Tempi del Rito

Il Santuario di Monte Li Santi-Le Rote a Narce Museo Archeologico dell’Agro falisco, Museo Civico Archeologico-Virtuale di Narce fino al 30.06.15

FIRENZE Potere e pathos

Bronzi del mondo ellenistico Palazzo Strozzi fino al 21.06.15

Piccoli Grandi Bronzi

Capolavori greci, etruschi e romani delle collezioni mediceo-lorenesi Museo Archeologico Nazionale fino al 21.06.15 20 a r c h e o

In alto: testa commemorativa. Regno del Benin.

In basso: testa di cavallo in bronzo, detta Medici Riccardi.

Pur evocando nel titolo Brixia, la Brescia dei Romani, la mostra non si limita a illustrare l’origine della sola città ma racconta la grande vicenda che ha portato, tra il III secolo e il I secolo a.C., all’unione tra la Roma repubblicana e le genti del Po. Un’epopea nella quale compaiono nomi celeberrimi – Annibale, Scipione, Emilio Lepido, Mario, Silla, la Gallia Cisalpina –, ma anche personalità che nulla hanno a che fare con campagne militari e battaglie, come quella di Catullo, il grande poeta dei carmi. È la storia della trasformazione, o meglio, della modernizzazione di un grande territorio, in un percorso lungo tre secoli. Trecento anni dopo i quali nulla è stato piú come prima e raccontati attraverso la presentazione di oltre 500 oggetti, molti dei quali, frutto di scavi recenti, vengono esposti al pubblico per la prima volta.

DOVE E QUANDO Museo di Santa Giulia e Area Archeologica fino al 17.01.16 Orario fino al 15.06 e dall’01.10 al 17.01.16: ma-ve, 9,30-17,30, sa-do, 9,30-19,00; dal 16.06 al 30.09: ma-do, 10,30-19,00; chiuso i lunedí non festivi, il 24, 25 e 31 dicembre Info tel. 030 2977.833-834; www.brixia.bresciamusei.com


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

Francia PARIGI L’epopea dei re traci

Scoperte archeologiche in Bulgaria Museo del Louvre fino all’11.07.15

SAINT-GERMAIN-EN-LAYE Dèi dei Balcani

Qui sotto: sigillo con l’immagine di una menorah, da Ermopoli (Egitto).

Figurine neolitiche dal Kosovo Musée d’Archéologie nationale fino al 22.06.15

Germania NAPOLI E POMPEI Pompei e l’Europa. 1748-1943 Napoli, Museo Archeologico Nazionale Scavi di Pompei, Anfiteatro fino al 02.11.15

Particolare delle pitture della Villa dei Misteri, a Pompei.

ORVIETO Voci ritrovate

Archeologi italiani del Novecento Napoli, Museo Archeologico Nazionale Museo Archeologico «Claudio Faina» fino all’08.11.15

PENNABILLI (RN) Ipazia

Matematica alessandrina, 405-2015 Museo del Calcolo Mateureka fino al 30.08.15

SARDARA (CA) S’Unda Manna

Un drone svela i cento nuraghi del Medio Campidano, colpiti e sepolti da un mare di fango Il nuraghe Millanu, Casa Pilloni presso Nuragus. fino al 04.10.15

BERLINO Un solo Dio. L’eredità di Abramo sul Nilo Ebrei, cristiani e musulmani in Egitto dall’antichità al Medioevo Bode Museum fino al 13.09.2015

MANNHEIM Egitto

Terra dell’immortalità Reiss-Engelhorn-Museen fino al 10.01.16 (prorogata)

Gran Bretagna LONDRA Definire la bellezza

Il corpo nell’arte dell’antica Grecia The British Museum fino al 05.07.15

Svizzera ZURIGO Il gesso conserva

Repliche di originali danneggiati, perduti e distrutti Università di Zurigo, Istituto di Archeologia fino al 25.10.15

USA PHILADELPHIA Sotto la superficie

Vita, morte e oro nell’antica Panama University of Pennsylvania Museum of Archaeology and Anthropology fino all’01.11.15

Replica in gesso della testa di uno dei Dioscuri del gruppo collocato a Roma, sul Quirinale. a r c h e o 21


L’ARCHEOLOGIA NELLA STAMPA INTERNAZIONALE Andreas M. Steiner

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osul, Ninive, Nimrud, Hatra, e oggi Palmira: dall’Iraq alla Siria, il patrimonio storico-archeologico dell’antica Mesopotamia è al centro di una guerra civile che, ogni giorno di piú, assume le sembianze di uno «scontro di civiltà». Ma è veramente cosí? Qual è la finalità ultima di questa forsennata crociata contro le vestigia archeologiche? Di chi è la colpa? Che cosa possono fare (e non hanno, invece, fatto) le organizzazioni internazionali preposte alla conservazione dei beni culturali? Come dobbiamo reagire e cosa possiamo fare, se viene distrutto il patrimonio universale dell’umanità? Ecco alcune delle principali domande che, in questi giorni drammatici, si sono posti archeologi e antichisti sulle pagine dei principali quotidiani internazionali…

È TUTTO PERDUTO A Nimrud, la seconda capitale del regno assiro dopo la stessa Assur, indagata da archeologi italiani, britannici e iracheni, i risultati di decenni di scavi e parziali ricostruzioni sono andati completamente perduti, a eccezione dei reperti trasferiti al Museo Nazionale di Baghdad. Con la distruzione di Nimrud, è stata raggiunta una nuova dimensione nella guerra culturale promossa dal sedicente califfato: secondo Markus Hertling, storico e archeologo, nonché Direttore del Museo del Vicino Oriente antico di Berlino, oltre a colpire la «nostra» memoria, l’aggressione ferisce quei

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punti di riferimento storico-culturali che, in Iraq, sono rappresentati proprio dalle vestigia preislamiche, in grado di costituire, nella prospettiva di una futura pacificazione tra le diverse presenze identitarie del Paese, un terreno di riferimento culturale comune e condivisibile. Secondo lo studioso, musei e siti archeologici sono luoghi della memoria collettiva e, in quanto tali, si ergono al di sopra degli steccati sociali, etnici e confessionali. Paradossalmente, proprio in questi giorni il Museo Nazionale di Baghdad è stato riaperto al pubblico, dopo anni di restauro e riallestimento di sale e reperti devastati durante il saccheggio del 2003, in cui scomparvero circa 15 000 oggetti. Ha dichiarato il viceministro iracheno per il turismo e le antichità, già direttore generale del Museo di Baghdad: «Per la prima volta esiste un’intera generazione di iracheni che non ha mai saputo cosa fosse il museo nazionale, e che ora, per la prima volta nella propria vita, può entrare in contatto con i reperti ivi conservati». Ma, sottolinea Markus Hertling, la riapertura del museo ci ricorda anche il fatto che il saccheggio dei beni archeologici dell’Iraq e lo smantellamento delle istituzioni preposte alla sua salvaguardia non sono iniziati con la distruzione di Mosul, Ninive e Hatra: il nuovo calvario che ha colpito le testimonianze materiali di Sumeri, Accadi, Babilonesi e Assiri nelle terre dell’odierno Iraq e Paesi contermini risale a diversi decenni fa, a partire dai primi anni Novanta (con le sanzioni economiche internazionali inflitte alla popolazione irachena in seguito all’invasione del Kuwait). Oggi la furia iconoclasta sconvolge, a

ragione, l’opinione pubblica mondiale, la quale, però, era stata tenuta all’oscuro del fatto che, nel ventennio trascorso, distruzioni simili si sono svolte, a migliaia, nelle terre tra l’Eufrate e il Tigri. CONTRO LE FACILI RETORICHE… «Le distruzioni dei monumenti antichi perpetrate dal sedicente Stato islamico hanno come finalità primaria quella di recidere l’unico legame che ancora unisce le diverse componenti etniche e religiose dell’Iraq e causare, cosí, lo sfaldamento dello Stato stesso», afferma l’archeologo Hermann Parzinger, presidente della Fondazione dei Beni Culturali della Prussia. «Questo legame è costituito dalla consapevolezza del grandioso passato storico della Mesopotamia. Quale deve essere il potere, la forza che ancora oggi questo passato esercita sulla popolazione di questa regione, se si crede necessario di doverlo distruggere in maniera cosí barbarica!».


A sinistra: una veduta di Nimrud, prima della distruzione avvenuta nello scorso mese di marzo. In basso: rilievo funerario palmireno raffigurante una donna con il suo bambino. III sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre.

Ma Parzinger mette in guardia dalle proposte improntate a facile e opportunistica retorica. Al presidente francese François Hollande che, durante una conferenza stampa allestita nelle sale mesopotamiche del Museo del Louvre, aveva annunciato l’invio in Iraq di un gruppo di esperti con il compito di valutare il da farsi, l’archeologo augura: buon viaggio a Mosul, Nimrud e Hatra! Piú ispirata al buon senso, invece, sebbene impossibile da realizzare oggi, a Parzinger appare l’istituzione di una task force internazionale di «caschi blu della cultura», da inviare, in futuro, nelle zone archeologiche a rischio, come aveva proposto il nostro ministro Dario Franceschini. IL PATRIMONIO VIENE DISTRUTTO, MA NESSUNO VUOLE ASSUMERSI LA COLPA Alla fine dello scorso mese di marzo – riferisce Joseph Croitoru sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung – la città di Idlib, situata 60 km

a sud-ovest di Aleppo, nella Siria nord-occidentale, viene conquistata da una coalizione di ribelli islamisti. Poco dopo, il direttore della Soprintendenza alle Antichità e ai Musei della Siria, Maamoun Abdulkarim, mette in guardia dal rischio che i reperti conservati nel Museo Archeologico di Idlib (che, tra gli altri, custodisce le straordinarie e uniche tavolette cuneiformi restituite dall’archivio di Ebla, il sito dell’età del Bronzo scavato dagli archeologi dell’Università Sapienza di Roma) possano essere trafugati. La reazione dei nuovi signori di Idlib non si fa attendere: convocano la stampa all’interno stesso del museo. La triste sorpresa che attende i giornalisti all’interno delle sale vuote, con il pavimento cosparso di frammenti di vetro e detriti, e le vetrine svuotate, è identico a quello di molti altri musei siriani. I miliziani islamisti, però, affermano che, quando avevano conquistato la città, il museo era già stato depredato…

SALVARE GLI ANTICHI VOLTI DI PALMIRA SIGNIFICA SALVARE UOMINI E DONNE COME NOI! «Quanto sono importanti le rovine antiche se confrontate con le vite umane?» si chiede l’editorialista Jonathan Jones in un articolo appassionato apparso sul quotidiano britannico the Guardian lo scorso 19 maggio. «Come si può piangere per delle pietre quando ci sono dei bambini che muoiono?». Il riferimento è proprio a Palmira, ultima tra le potenziali vittime della violenza iconoclasta dell’Isis. La contraddizione, afferma Jones, è solo apparente: «È semplicemente stupido e sbagliato voler per forza distinguere tra il lutto per la popolazione e quello della loro arte e architettura. Il passato è altrettanto umano e parte integrante della nostra vita, come la nostra infanzia fa parte della nostra mente adulta e dei nostri ricordi. Basta osservare gli straordinari ritratti funerari dell’antica gente di Palmira, per rendersi conto del legame che intercorre tra l’arte e la vita reale… Chi dice che il passato sono solo fredde pietre? Questi ritratti raffigurano volti vividi come te e me… Il passato non è un luogo lontano. È lo specchio di noi stessi. Solo se riusciamo a immaginarci come parte di una storia umana che ricollega quegli antichi volti di Palmira con la gente che ci circonda, possiamo dichiararci “civili”. Altrimenti saremo solo animali senza memoria».


CORRISPONDENZA DA ATENE Valentina Di Napoli

C’È LUCE IN FONDO AL TUNNEL! IL LABORATORIO IN CUI VENGONO RESTAURATE E STUDIATE LE MAGNIFICHE PITTURE PARIETALI DI AKROTIRI HA RIAPERTO I BATTENTI: UNA NOTIZIA INCORAGGIANTE PER L’ARCHEOLOGIA GRECA E NON SOLO, COMMENTATA PER NOI DA CHRISTOS DOUMAS, RESPONSABILE DELLE RICERCHE NEL SITO

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alla Grecia, per fortuna, non arrivano solo notizie allarmanti. Quella che vogliamo raccontarvi questo mese riguarda uno dei siti preistorici piú importanti del Paese (e dell’intero continente europeo), Akrotiri, sull’isola di Santorini, e uno dei laboratori piú attivi e dotati di personale altamente specializzato, quello che si occupa della conservazione e del restauro degli splendidi affreschi che lí sono venuti alla luce. Inaugurato nel 1967 e chiuso per la prima volta nel maggio del 2014, il laboratorio ha felicemente riaperto il mese scorso.

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Ne abbiamo parlato col direttore degli scavi di Akrotiri, Christos Doumas, che ci ha esposto il suo punto di vista, ma non solo, offrendoci anche uno sguardo a tutto tondo sull’archeologia in Grecia oggi. Professor Doumas, perché il laboratorio di restauro di Akrotiri era stato chiuso? Per motivi economici, purtroppo. Gli scavi di Akrotiri, nonché lo studio, la conservazione e il restauro del materiale venuto alla luce, sono oggi finanziati grazie a fondi privati. È quasi superfluo ricordare che ad Akrotiri è stato

riportato alla luce un ampio insediamento di età preistorica, sigillato dall’eruzione del vulcano nel secondo quarto del II millennio a.C. e quindi conservatosi praticamente intatto. Gli edifici di Akrotiri, che erano a due o anche a tre piani, hanno restituito molto materiale e numerosi affreschi parietali. Gli affreschi, fragili per loro stessa natura, sono perlopiú in frammenti: un vero e proprio puzzle, che i nostri restauratori e archeologi hanno pazientemente ricostruito. Lavoriamo sotto l’egida della Società Archeologica di Atene, che dal 1967, data di inizio degli scavi, e fino a qualche anno fa, riceveva per questo progetto fondi dal Ministero. A un certo punto i fondi sono stati sospesi. Semplicemente non sono piú arrivati. Cosí, abbiamo costituito una fondazione di diritto privato per poter racimolare il denaro necessario al prosieguo dei lavori e dello studio. Chio

Atene

Mar Egeo

Andros

GRECIA

Tinos Ikaria

Cicladi Paros

Naxos

Milos

Mar Mediterraneo

Santorini

Samos


Quante persone lavorano al momento in questo laboratorio? Si tratta di un progetto molto costoso? In questo momento nel laboratorio operano 7-8 persone, tra archeologi e restauratori. Si tratta di personale specializzato, formatosi qui da ormai tre generazioni, sempre pronto ad adattarsi alle difficili circostanze lavorative e economiche. E non è affatto un’impresa costosa: ogni mese si spende piú o meno l’equivalente dello stipendio di un dirigente del Ministero... Quindi è solo una questione di buona volontà... Buona volontà e organizzazione. Ogni anno 1 milione di persone visita Akrotiri. Se ognuno di loro pagasse soltanto 1 euro,

potremmo senz’altro autofinanziarci! Invece pastoie burocratiche ci impediscono perfino di vendere le nostre pubblicazioni nello shop del sito, che è stato tristemente trasformato in infermeria, semplicemente

Sulle due pagine: alcune immagini del laboratorio per il restauro e lo studio delle pitture di Akrotiri, sull’isola di Santorini (arcipelago delle Cicladi). La struttura ha recentemente ripreso le sue attività grazie alla creazione di una fondazione di diritto privato. apponendo un cartellino sulla porta di una stanza vuota... Professore, qual è il futuro del laboratorio e di Akrotiri? Dirigo gli scavi di Akrotiri dalla morte di Spyros Marinatos, che ci ha lasciato nel lontano 1974 e di cui sono stato allievo. Continuerò a battermi per questo sito, che è uno dei vanti dell’archeologia greca. Ho sempre creduto che la ricerca possa andare avanti solo se si collabora: per questo motivo nessuno studioso di Akrotiri ha diritti esclusivi sul materiale. Ho vissuto con Marinatos il periodo buio della dittatura dei colonnelli, piú di recente ho superato il momento difficile del crollo della copertura provvisoria (vedi «Archeo» n. 328, giugno 2012; anche on line su archeo.it), adesso sto affrontando questa nuova sfida. Il finanziamento che abbiamo appena ricevuto ci permetterà di tenere il laboratorio aperto fino a ottobre; se riuscirò, come spero, a ottenerne un altro, potrei perfino accrescere il numero delle unità del personale. Vorrei che Akrotiri restasse uno scavo greco.

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ECCOLA

UNO DEI MONUMENTI PIÚ INSIGNI DELLA PITTURA ETRUSCA, LA TOMBA DEL COLLE DI CHIUSI, È STATA RIAPERTA AL PUBBLICO DOPO OLTRE TRENT’ANNI. UN RITORNO IMPORTANTE, ACCOMPAGNATO DA UNA MOSTRA E DA UNA SCOPERTA DAVVERO INASPETTATA E SORPRENDENTE... di Monica Salvini 32 a r c h e o


DI

L

NUOVO!

o scorso 21 marzo ha segnato l’inizio di una nuova primavera anche per la Tomba del Colle di Chiusi che, a oltre trent’anni dalla decisione di sospenderne le visite, si può tornare ad ammirare. Un’opportunità da non mancare, a cui fa da corollario la mostra che riproduce un itinerario tra le necro-

poli etrusche chiusine, realizzato negli anni Trenta del Novecento. Databile tra il 475 e il 450 a.C., la tomba si apre a est sulla ValdichiaSulle due pagine: particolare della corsa delle bighe dipinta nell’atrio della Tomba del Colle di Chiusi. Le pitture si datano tra il 475 e il 450 a.C.

na e la porta in travertino a doppio battente con maniglie in ferro che ancora chiude il sepolcro è preceduta da un lungo dromos (corridoio d’accesso) tagliato nel pendio delle colline che caratterizzano il paesaggio di Chiusi. Insieme alla pressoché coeva Tomba della Scimmia, la Tomba del Colle è a r c h e o 33


RESTAURI • CHIUSI

Pisa

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uno dei numerosi monumenti funerari dipinti presenti nelle necropoli chiusine, che si disponevano sulle colline affacciate sulla valle del fiume Chiana, una delle piú notevoli vie di comunicazione interne alla Penisola. Ancora nel 1911 risultavano visibili otto tombe dipinte, mentre altre (andate distrutte) – illustrate anche da George Dennis nel 1848 nella sua monografia The Cities and Cemeteries of Etruria – erano state visitate dagli eruditi che si recavano nella prima metà dell’Ottocento a Chiusi per esaminare le antichità etrusche (tra questi, Giovan Pietro Vieusseux, Pietro Capei) e dai viaggiatori che compivano il Grand Tour e descrivevano le difficoltà del viaggio e i monumenti visitati, come

Chiusi

Populonia Vetulonia

Saturnia

Perugia Orvieto

Vulci Tarquinia

Mar Tirreno

Veio Cerveteri Roma

Elizabeth Hamilton Gray nel 1839 (Tour to the Sepulchres of Etruria). La Tomba del Colle fu tra le prime (10 maggio 1833) venute in luce nelle campagne chiusine: scoperte In alto: cartina dell’Etruria, con la localizzazione di Chiusi. A sinistra: la porta a doppio battente che ancora oggi chiude l’ingresso del sepolcro, ma che sembra essere stata collocata in età moderna. A destra: l’interno della Tomba della Pellegrina, un altro dei monumenti funerari toccati dalla Passeggiata Archeologica. Nella pagina accanto, in basso: gli scopritori della Tomba della Pellegrina.

34 a r c h e o

avvenute come conseguenza diretta delle bonifiche del fondovalle del Chiana o, indirettamente, a seguito della ripresa dei lavori agricoli. Dopo i primi casuali ritrovamenti, le ricerche si intensificarono.

CACCIA AL TESORO Avvalendosi della legge emanata il 5 agosto 1780 dal granduca Pietro Leopoldo e rimasta in vigore in Toscana fino al 1859 – che permetteva di intraprendere scavi e ricerche senza alcun permesso –, la cosiddetta «archeologia romantica» causò danni irreparabili per la salvaguardia del patr imonio


chiusino. Gli scavi eseguiti dai proprietari dei terreni (nobili, clero e possidenti locali), da cercatori di professione o da scavini locali erano rivolti, infatti, all’acquisizione dei ricchi corredi delle tombe etrusche da rivendere sui mercati antiquar i nazionali ed esteri. Le esplorazioni venivano condotte senza alcun rispetto per il monumento e, salvo qualche caso illuminato, raccogliendo i soli materiali integri o degni di nota; le tombe, se non ben conservate, erano poi richiuse, senza nemmeno registrarne la posizione. (segue a p. 38) a r c h e o 35


RESTAURI • CHIUSI

COLORE E CONSERVAZIONE Le tombe etrusche di Chiusi sono ipogei che conservano in buona parte la pittura parietale, sono scavati nei locali terreni arenacei a scarsa componente argillosa, in cui si inseriscono, talvolta, livelli a ciottoli (Tomba del Leone). La natura del substrato, le caratteristiche del soprasuolo, con la vegetazione, le condizioni termo-igrometriche – anche in considerazione degli scambi con l’esterno durante le aperture –, la tecnica pittorica sono i principali parametri che ne influenzano lo stato di conservazione. Nella decorazione parietale, la scelta dei colori è comune alla maggior parte delle tombe e comprende soprattutto l’utilizzo dei colori rosso e nero. Frequenti sono anche campiture bianche e azzurre, mentre sporadica è la presenza del bruno. Interessante, inoltre, è la

36 a r c h e o

presenza di rosso-violaceo nella decorazione della Tomba delle Tassinaie. Le tonalità di colore sono perlopiú pure. Si fa ricorso a tonalità intermedie, probabilmente per rappresentare piani prospettici diversi, come per esempio, nel caso dei cavalli di una delle pareti della Tomba della Scimmia (rosso vivo e, in secondo piano, rosso scuro), o in quello di due lottatori della Tomba

del Colle (rosso chiaro e, in secondo piano, vivo). L’azzurro è utilizzato per il metallo e anche per tutte le parti che raffigurano la vegetazione: ve ne sono ampi esempi nella Tomba della Scimmia. Nelle tombe del Leone, della Scimmia e del Colle uno strato sottile di argilla applicato sulla parete arenacea opportunamente levigata fa da preparazione alla


UN MISTERO SVELATO?

pittura. Solo nel caso della Tomba delle Tassinaie il colore è applicato direttamente sulla parete sabbiosa, che contiene scarsa argilla. Per quanto riguarda la decorazione, in generale, il disegno pare definito da una lieve incisione del substrato e, un esame autoptico, fa intravedere alcuni ripensamenti. Le analisi evidenziano l’utilizzo di ocra rossa ad alto contenuto di ematite per il rosso, del nero di carbone vegetale per il nero, di calce per il bianco e di blu egizio per l’azzurro. Le scarse campiture di bruno sono ancora dovute all’utilizzo di ocra. Il rosso chiaro è dato dalla diluizione dell’ocra rossa con l’argilla; il rosso scuro è ottenuto dalla miscelazione del pigmento rosso con il nero di carbone, mentre la sola ematite, grossolanamente macinata, va a costituire il rosso-violaceo. In tutti i casi i pigmenti sono stati applicati utilizzando uovo come legante, andando a costituire una pittura a tempera d’uovo. Gianna Giachi, Pasquino Pallecchi

Saggi archeologici in prossimità della soglia della Tomba del Colle hanno mostrato che parte della porta poggiava su una piastra di ferro (elemento improponibile per l’epoca etrusca) e che stipiti e soglia sono forse elementi non pertinenti, ma recuperati altrove e riutilizzati allo scopo di contenere e far ruotare i due battenti. La lettura stratigrafica della parete della tomba prova che lo spazio tra la porta e il cancello moderno esterno è il residuo del dromos che, tagliando la collina, immetteva nella tomba. Il corridoio d’accesso doveva avere piccole nicchie laterali, come documentano le vecchie piante e i lavori degli anni Settanta, e fu probabilmente distrutto dagli sbancamenti effettuati da Pietro Bonci Casuccini e destinati a bonificare la pianura sottostante. A questo punto è da chiedersi: la porta è attuale? Almeno i due battenti sono originali? Il Museo Archeologico Nazionale di Firenze conserva una porta in tutto simile, individuata come dono Paolozzi e ritenuta appartenente a una tomba coeva a quella del Colle, ritrovata nel 1869 in località Bagnolo, ma distrutta perché mal conservata. Come erano le chiusure delle tombe etrusche in area chiusina? Tralasciando le porte delle tombe piú tarde, di epoca ellenistica, a doppio battente (Granduca o Vignagrande), oppure con un’unica lastra (tombe di Poggio all’Abate, Vaiano, Francavilla, Gragnano, Martiena, Pian dei Ponti, Poggio alla Tomba, Fosso Falorsi), aiuta un resoconto di Alessandro François che, negli anni Cinquanta dell’Ottocento, trovò, scavando e poi distruggendo, altre tombe a camera arcaiche: «Vi scorsi in un punto un certo rivestimento in terra tufina. Mentre che con una pala tolgo quella crosta arteficiale, sotto questa con mia grandissima maraviglia presentandomi grosse pietre, mi accorsi che con essa chiudevasi altra tomba», quindi con pietre rivestite all’esterno da uno strato argilloso per lisciare il fronte e assimilarlo alla parete di tufo. Un confronto calzante si ha con una tomba arcaica di San Giustino presso Sinalunga. Quindi almeno i battenti potevano appartenere alla porta originale della Tomba del Colle, collocata all’ingresso del dromos non piú conservato, oppure provenire da un’altra tomba forse non lontana: sappiamo bene, infatti, che in zona sono presenti altre sepolture non poste su mappa. Monica Salvini

In alto: Tomba della Scimmia. Il rosso e il rosso scuro sono utilizzati per la campitura dei cavalli; la tonalità piú scura è riservata al secondo piano. A destra: l’iscrizione moderna sopra l’architrave della porta della Tomba del Colle. Nella pagina accanto, in alto: Tomba del Colle. Il soffitto cassettonato a doppio spiovente dell’atrio. Nella pagina accanto, in basso: Tomba del Colle. Esempio di figure con il contorno in colore nero. a r c h e o 37


RESTAURI • CHIUSI

«Prendetevi la dovuta cura dei vostri monumenti e non avrete bisogno di restaurarli. Poche lastre di piombo collocate a tempo debito su un tetto, poche foglie secche e sterpi spazzati via in tempo da dove scorre l’acqua, salveranno sia il tetto che i muri dalla rovina.Vigilate su un vecchio edificio con premura e attenzione; proteggetelo meglio che potete, e ad ogni costo, dall’ incidenza del degrado» (John Ruskin 1849, La lampada della Memoria) Agli inizi del Novecento il progetto delle Amministrazioni era la costruzione di una strada carrozzabile; oggi la Soprintendenza Archeologia della Toscana suggerisce di costruire un percorso da farsi in automobile, a piedi, a cavallo, lungo il quale, soffermandosi davanti alle tombe, sia possibile leggere la storia dei monumenti e visitarli virtualmente con quella che si chiama realtà aumentata. L’uso di un approccio virtuale alla visita è pensato per avvicinare il pubblico alla lettura di una realtà antica con strumenti nuovi, come è avvenuto con la realizzazione dell’App per la visita intelligente del Museo Nazionale Etrusco di Chiusi (vedi «Archeo» n. 360, febbraio 2015).

Solo nel XX secolo l’archeologia chiusina si adattò alle regole imposte dalla nascita del «servizio» di tutela dei monumenti italiani all’interno dell’Amministrazione statale e dall’avvio di una organica legge di tutela che trovò attuazione solo nel 1909 con il Regio Decreto n. 364. E proprio per ricordare l’impegno dei primi archeologi (Doro Levi, Edoardo Galli) di quel «servizio» di tutela faticosamente costituito dopo l’Unità d’Italia, teso fin dai suoi primi passi a recuperare il disperso patrimonio archeologico chiusino, abbiamo voluto ricomporne la fisionomia unitaria.

UNA VISIONE NUOVA Le tombe sono state cosí contestualizzate nel paesaggio che le accoglieva in antico, messo a confronto con quello attuale, cercando di allontanare la percezione che ne hanno i moderni visitatori, ai quali appaiono come monumenti insigni ma isolati. Si è quindi voluto restituire il senso dell’ampiezza e della lunga durata delle necropoli etrusche – delle quali le tombe facevano parte – distribuite sui rilievi circostanti il luogo in cui, in epoca arcaica, si stabilizzò la città etrusca che fu di Porsenna. Nel catalogo che accompagna la mostra, le tombe oggi visitabili (statali) o visibili (private) – della Pellegrina, dell’Iscrizione, della Scimmia, del Leone o del Pozzo, del Granduca, delle Tassinaie, del Colle – sono state illustrate seguendo dunque la Passeggiata Archeologica, un itinerario che unisce gli ipogei meglio conservati, attraversando anche aree dove altre tombe erano state scoperte, ma distrutte e di nuovo interrate. 38 a r c h e o

21 marzo 2015: l’eccezionale affluenza di pubblico fatta registrare dalla riapertura della Tomba del Colle, chiusa dal 1979.

LA FRUIZIONE AIUTA LA CONSERVAZIONE La decisione di riaprire la Tomba del Colle, chiusa fin dal 1979 per preservare le decorazioni pittoriche incredibilmente ben conservate fino a oggi, nasce da un intervento di restauro resosi necessario a causa della crescita di radici dal terreno al lato dell’ipogeo che aveva danneggiato parte del soffitto dipinto; il danno era passato inosservato a causa della precauzionale chiusura al pubblico della tomba stessa, mostrando, se mai ce ne fosse stato bisogno, che la cura migliore per un monumento non può essere l’interdizione dell’accesso al pubblico, bensí la sua attenta manutenzione e il monitoraggio continuo. I risultati degli studi condotti sui principali monumenti chiusini sono stati presentati in un convegno concentratosi soprattutto sugli aspetti diagnostici della conservazione dei


In alto: un particolare dei dipinti della Tomba del Leone, in un acquarello del pittore Guido Gatti (1863-1947). Chiusi, Museo Nazionale Etrusco. A sinistra: pianta e sezioni della Tomba della Scimmia, realizzate anch’esse da Guido Gatti. Chiusi, Museo Nazionale Etrusco.

monumenti, con particolare riferimento allo studio dei colori delle decorazioni pittoriche. Unitamente al preliminare studio architettonico e pittorico della tomba, sono state recuperate le informazioni riguardanti la storia della scoperta del monumento ed è stato vagliato l’archivio storico della Soprintendenza Archeologia. In esso sono conservati fin dagli ultimi decenni dell’Ottocento, i carteggi tra la Soprintendenza, le autorità locali e i privati possessori dei beni, nonché tutte le determinazioni prese per la tutela e conservazione dei monumenti. Dai documenti d’archivio risulta che l’impegno e la spesa per la conservazione del patrimonio monumentale chiusino sostenuti dall’Amministrazione statale si susseguono quasi annualmente, dal 1901. Risale, infatti, all’8 maggio di quell’anno la prima testimonianza scritta di un intervento a riguardo. In tale data, Luigi Adriano Milani, Direttore del R. Museo Archeologico e degli Scavi di a r c h e o 39


RESTAURI • CHIUSI

LA PASSEGGIATA ARCHEOLOGICA Il progetto relativo alla realizzazione di una Passeggiata Archeologica risale al 1926, quando il Comune di Chiusi, preoccupato per le pessime condizioni delle strade che portavano agli ipogei etruschi, si rivolse all’allora Soprintendenza alle Antichità d’Etruria per ottenere un aiuto finanziario utile alla realizzazione di una strada carrozzabile che mettesse in comunicazione i maggiori monumenti esistenti,

considerati «il patrimonio piú grande e prezioso di questa città» . Contestualmente all’apertura del nuovo tracciato, furono previste tanto la sistemazione degli accessi e degli interni delle tombe, dove si decise di lasciare gli oggetti rinvenuti, quanto la loro gestione al fine di agevolare, attraverso «la raccolta di tutte le chiavi in una mano, la visita agli studiosi e ai turisti» . Le aperture ripetute avrebbero inoltre consentito la

costante sorveglianza dei monumenti, che, secondo il Soprintendente Minto, era «anche la sola maniera efficace per impedire i guasti e le rovine ai cui ripari altrimenti bisogna ricorrere tutti i momenti, quando siano risparmiabili», in un progetto che avrebbe tenuto insieme tutela, valorizzazione e fruizione. Del percorso della Passeggiata Archeologica, mai completata a causa dello scoppio della seconda guerra mondiale, rimane una pianta schematica redatta negli anni Trenta. Dall’anello principale, che partendo dal centro storico collegava le Tombe della Pellegrina, della Scimmia, del Leone e del Granduca, passando vicino alle Catacombe di S. Mustiola, avrebbe dovuto staccarsi

Antichità in Etruria di Firenze, scrisse una breve nota nella quale chiedeva di «impostare Lire 500 per scavi in località Poggio Renzo». Nel tempo, sono stati condotti interventi finanziariamente consistenti per conservare i monumenti, ricorrendo perlopiú all’impegno diretto dello Stato. Tali provvedimenti di spesa, seppur esigui rispetto alle necessità, hanno tuttavia permesso, e ancora oggi consentono, di riparare i guasti ai monumenti, prevenendone la distruzione, in previsione della loro piú ampia valorizzazione. L’apertura, oggi, della Tomba del Colle – come quella della Tomba della Scimmia nel 2003 – testimoA sinistra: il disegno del percorso della Passeggiata Archeologica. Nella pagina accanto: una foto ricordo scattata in occasione della scoperta della Tomba in località Paccianese, avvenuta durante la realizzazione del tratto della Passeggiata per Poggio Gaiella (1931). 40 a r c h e o


un tracciato secondario, volto a raggiungere la Tomba del Colle e quella dipinta delle Tassinaie, lambendo la Tomba del Pilastro e numerose altre camere ipogee conosciute con il nome di «Grottoni», che si aprivano sui versanti della collina del Cimitero Comunale. Nel 1931 il percorso fu ampliato, con la realizzazione di un nuovo tratto che metteva in comunicazione la viabilità principale con il grandioso tumulo di Poggio Gaiella. La Passeggiata Archeologica ha visto, negli anni, numerosi altri interventi e rifacimenti della carreggiata, che in diverse occasioni hanno portato alla scoperta di interessanti testimonianze archeologiche. Elisa Salvadori

niano come gli interventi conservativi eseguiti sui monumenti li valorizzano, rendendo possibile la loro fruizione da parte del pubblico. Consapevoli che il museo – come ha scritto Andrea Emiliani – non può essere «luogo di deportazione artistica, un vero campo di concentramento, ove i quadri, gli oggetti, in una parola il passato, vengono alimentati in vitro, separati dalla loro vitalità contestuale» (Musei e museologia, 1975), la riapertura della Tomba del Colle è stata accompagnata, come già detto, dalla mostra che, per la prima volta, presenta unitariamente i corredi delle piú note tombe chiusine e di quelle trovate, e poi interrate, lungo la Passeggiata Archeologica. Gli oggetti in bronzo, gli ori, i vasi attici, i buccheri, le urne dipinte in terracotta e pietra sono stati riscattati dai magazzini della Soprintendenza e del Museo Nazionale Etrusco di Chiusi in cui giacevano dal momento degli scavi; sono stati cosí sottratti allo smembramento artifi-

cioso antiquario ed espositivo, restituendo il senso del contesto storico, topografico, archeologico da cui provenivano e del quale il Museo, formato con collezioni di esclusiva provenienza chiusina, è testimonianza dal 1871, quando fu costituito.

ESITI INATTESI Lo studio della Tomba del Colle ha prodotto anche risultati inaspettati. Essa, infatti, è famosa per le sue pitture – indicate, tuttavia, da Ranuccio Bianchi Bandinelli fin dal 1939 (Clusium. Le Pitture delle tombe arcaiche) come ampiamente ritoccate – e per avere, unica tra le tombe arcaiche, la porta in travertino originale, salvo le maniglie posticce: tali assunti sono stati, invece, in buona parte capovolti. Infatti, sebbene presentino vistosi interventi moderni, le pitture mostrano accuratezza nell’esecuzione, come si osserva specialmente nel disegno preparatorio. Invece, esaminando la struttura della tomba nella previsione di inserire una nuova por-

ta che limitasse il contatto con l’esterno, si è notato che la porta era collocata in una muratura in mattoni pieni rossi che tamponava l’apertura originale centrata sul lato orientale della stanza, inquadrata da un portale di tipo dorico dipinto di rosso. Poiché una simile tamponatura non può essere etrusca, ne deriva anche che la sistemazione della porta non può essere quella originale. Forse, dunque, nello spirito ottocentesco ben testimoniato dai versi dell’Aida: «La fatal pietra sovra me si chiuse... Ecco la tomba mia. Del dí la luce Piú non vedrò...non rivedrò piú Aida». Pietro Bonci Casuccini, proprietario dei terreni e della tomba, prima del suo acquisto da parte dello Stato, aveva ottenuto un sepolcro magnifico, con pitture rare, integro e con la sua chiusura «originale», senza dimenticare, poi, una delle caratteristiche dell’archeologia ottocentesca (segue a p. 44) a r c h e o 41


RESTAURI • CHIUSI

VINO E GIOCHI PER IL COMMIATO La Tomba del Colle fu scoperta il 10 maggio 1833 nei terreni di proprietà Casuccini, a seguito di lavori di bonifica, secondo quanto riferito da George Dennis nell’opera The Cities and Cemeteries of Etruria (1848). La notizia del ritrovamento fu prontamente riportata sulle pagine di un periodico politico toscano, la Gazzetta Universale, mentre le pitture furono prima riprodotte nel XVI fascicolo dell’Etrusco Museo Chiusino, a cura di Francesco Inghirami (1833), poi nei Monumenti dell’Istituto del 1849-1853, e in seguito copiate da Guido Gatti per la Galleria della Pittura Etrusca del Museo di Firenze, agli inizi del secolo scorso.

la cui autenticità è stata recentemente messa in dubbio (vedi box a p. 37). Oltrepassato l’ingresso, si accede nell’atrio a pianta rettangolare con soffitto cassettonato a doppio spiovente, dotato di columen (trave di colmo del tetto) e travi a rilievo dipinti in rosso. Sulla parete a destra dell’entrata era stata iniziata la costruzione di una seconda camera, mai completata, mentre su quella sinistra è dipinta una falsa porta con architrave dorico incorniciato in rosso, con pannelli nella specchiatura interna. I timpani dell’atrio sono decorati solo dal sostegno del columen, che qui assume la forma di due

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B

L’ipogeo, dichiarato di importante interesse nel 1922 e passato allo Stato nel 1964, era stato rinvenuto già violato. Al suo interno, infatti, furono recuperati solo frammenti ceramici e di pietra fetida. Scavata nell’arenaria, con lungo dromos (corridoio d’ingresso) scoperto in fondo al quale si aprivano due nicchie semicircolari, oggi non piú visibili, la tomba è chiusa da una porta a due battenti in travertino, 42 a r c h e o

grosse volute tra le quali è disegnata una palmetta eretta a nove foglie. Sulla parete di fondo dell’atrio si apre la camera sepolcrale (tablino), con soffitto piano a cassettoni dipinti in rosso e nero e, lungo due pareti contigue, letti funebri con cuscini ricavati nell’arenaria e gambe tornite associate a suppedanei in vernice rossa. La decorazione pittorica figurata, per cui il sepolcro è famoso, interessa sia l’atrio che la camera funeraria. I fregi dipinti nel primo ambiente, sopra fasce rosse e nere, comprendono scene di banchetto e ludi. Le prime sono disposte sulle pareti ai lati della porta di ingresso alla tomba e sulla metà anteriore di quelle laterali, mentre i giochi funebri si sviluppano nella metà posteriore. Al simposio partecipano cinque coppie maschili, distribuite su altrettante klinai (letti tricliniari) con suppedanei, allietate da un tibicine (flautista) ammantato e con la phorbeia (flauto a doppia canna) e accudite da tre inservienti nudi: il primo, a destra della porta della camera incompiuta, è occupato a riempire di vino due oinochoai (brocche da vino) attingendo da un recipiente collocato all’interno di un lebete (grande recipiente per bevande) su tripode, forse impiegato per refrigerare i


C

Sulle due pagine: documentazione grafica e fotografica della Tomba del Colle: A. sezione acquarellata eseguita da Guido Gatti (Chiusi, Museo Nazionale Etrusco); B. particolare delle pitture dell’atrio, con scene di gare atletiche; C. particolare del soffitto piano a cassettoni del tablino; D. la porta a doppio battente del sepolcro, vista dall’interno; E. ancora un acquerello e un disegno di Gatti, che raffigurano in questo caso l’ingresso immaginato senza la porta e la porta medesima, vista dall’esterno.

liquidi. A lato, un altro servo sembra intento a sollecitare l’azione del primo, mentre il terzo, raffigurato sulla parete a destra dell’ingresso alla tomba, si accinge a versare il vino contenuto in due piccole oinochoai ovali dopo averlo filtrato con l’apposito strumento. I recumbenti, uomini a torace scoperto e gesticolanti in modo vivace, indossano un mantello avvolto intorno alle gambe e hanno ghirlande sui capelli: alcuni tengono coroncine, fiori e rami, altri kylikes (coppe a due manici) e phialai (coppe senza manici) inclinate, a indicare che il liquido è stato consumato. I ludi muovono dalla parete collocata a destra della falsa porta, che, alludendo a quella dell’Oltretomba, evoca la presenza-assenza del defunto per il quale erano allestiti sia il simposio che i giochi. Nell’ordine, si susseguono un saltatore che si slancia con gli halteres (pesi), un pirrichista (danzatore

armato) e una crotalista (suonatrice di nacchere) che danza accompagnata da un tibicine di piccole dimensioni, forse un giovanetto; oltre un alberello schematico, un secondo tibicine accompagna le mosse di un pugile, cui seguono un agonoteta (allenatore) con una verga nella mano destra, che assiste alla lotta di due atleti. Al di là della porta di accesso alla camera di fondo, si ammira una corsa di tre bighe verso sinistra che ha inizio dalla parete collocata a lato dell’accesso all’ambiente lasciato incompleto. La corsa si svolge al di là di una serie di alberelli schematici con funzione di spina; gli aurighi in corta tunica bianca e copricapo a pilos dello stesso colore, caratteristici della loro professione, tengono in una mano le redini e nell’altra la frusta. Nella camera di fondo si sviluppa una scena di danza tra le consuete fasce nere e rosse, alla quale partecipano, al suono di una lira e di una doppia tibia, quattordici giovanetti intercalati da alti cespugli di alloro, che sembrano intrecciare passi veloci. Ispirati alla ceramografia attica a figure rosse della prima età severa, al pari delle megalografie tarquiniesi di cui tradiscono l’influsso, sia pure con esito provinciale, i dipinti della Tomba del Colle vengono datati al secondo quarto del V secolo a.C. (tra il 475 e il 450 a.C.), una generazione piú tardi di quelli della Tomba della Scimmia. Edoardo Albani

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

D

E

a r c h e o 43


RESTAURI • CHIUSI

QUEL DISEGNO «SPIGLIATO»... «Nell’atrio si dispongono le scene di banchetto e i ludi; nella camera di fondo, coperta con un soffitto a cassettoni, si sviluppa una animata scena di danza. Le pitture della prima camera sono state considerate opera di una équipe di artisti, il piú maturo dei quali, secondo il giudizio di Otto Brendel, sarebbe l’autore delle figure dei due attendenti al simposio dipinti sulla parete a sinistra dell’ingresso (...) Diversa sembra la mano che ha dipinto la corsa delle bighe, dove domina essenzialmente il colore steso a larghe superfici entro i limiti di un contorno realizzato con una sottile linea dipinta con la precisione di un modello pienamente assimilato. Vicino stilisticamente alle figure dei servi a cui si è accennato sopra sembrano potersi porre le figure del saltatore con halteres e del pirrichista, come anche quelle della crotalista dalla veste trasparente e del piccolo tibicine (...). Sulle pareti della seconda stanza tra alti cespugli di alloro, quattordici giovanetti eseguono una danza concitata, che agita le strette mantellette gettate sulle spalle o avvolte frettolosamente in vita, al suono di una lira e di una doppia tibia. Soltanto il liricine, che occupa approssimativamente la posizione centrale nella parete di fondo, risulta abbigliato con un ampio mantello che lascia libera la spalla destra. Le pitture della camera di sepoltura sono state lasciate in ombra dalla critica, sebbene il giudizio di Bianchi Bandinelli, che le considerava ampiamente ridipinte, non abbia mancato di rilevare un «disegno quanto mai spigliato e sommaria coloritura in rosso monocromo», lamentando però che «il contorno» abbia «perduto ogni freschezza». Se è pur vero che alcune delle figure presentano vistosi interventi moderni, è tuttavia possibile apprezzare in molti casi il graffito preparatorio delle numerose teste: ottenuto con una sottile incisione, il disegno appare sicuro pur nella sua schematicità, e in In alto: una delle figure di danzatore nel tablino della Tomba del Colle.

chiusina, ovvero la capacità di creare pastiche perfetti, quasi indistinguibili dal vero, come testimoniato su vasi in ceramica o oggetti in bronzo. Ma qui si entra nel tema di una possibile futura mostra. In occasione della mostra è stato pubblicato il catalogo La Tomba del Colle nella Passeggiata Archeologica a 44 a r c h e o

alcuni casi assai abile e accurato, confermando l’impressione di una maestranza capace di variare gli schemi iconografici dando vivacità alle figure pur con piccole variazioni formali. Il ritmo della danza, assai libera e veloce è ben reso dalle variazioni cromatiche dell’alternanza dei mantelli rossi e blu e scandito dagli alti cespugli blu scuro (...). La distribuzione dei temi sembra rappresentare una innovazione a Chiusi. Mentre le scene che hanno a che fare con l’aspetto sociale della sepoltura, il banchetto e i giochi funebri, trovano posto nell’atrio (...), nella camera destinata alla concreta dimora del defunto si sviluppano scene che non possono non richiamare i paesaggi della sede dei beati, quali appaiono per esempio nelle Rane di Aristofane, dove si parla di danze sui prati dell’Eliso». (da Adriano Maggiani, «La Pittura tombale a Chiusi», in La Tomba del Colle nella Passeggiata Archeologica a Chiusi, catalogo della mostra, Roma 2015)

Chiusi, a cura di M. Salvini, G. Paolucci, P. Pallecchi (Roma 2015). Salvo diversa indicazione, immagini e documenti sono tratti dagli Archivi della Soprintendenza Archeologia della Toscana. Ringrazio il personale del Museo che ha supportato la realizzazione della mostra e l’apertura della Tomba, nonché Alessandro Pareti del Laboratorio Fotografico. La mostra e il catalogo sono stati realizzati con il contributo del Comune di Chiusi e della Banca Valdichiana Credito Cooperativo Tosco-Umbro.

DOVE E QUANDO «La Tomba del Colle nella Passeggiata Archeologica a Chiusi» Chiusi, Sala Mostre del Museo Nazionale Etrusco Orario tutti i giorni, 9,00-20,00; Info tel. 0578 20177; e-mail: sar-tos. museochiusi@beniculturali.it; pagina Facebook: www.facebook. com/museoetrusco.dichiusi Note per le visite alla Tomba del Colle, rivolgersi al Museo



L’EPOPEA DEI RE TRACI TRA IL V E IL III SECOLO A.C., NELLE TERRE DELL’ESTREMO SUD-EST DELLA PENISOLA BALCANICA, SI ASSISTE A UN SINGOLARE PROGETTO DI UNIFICAZIONE POLITICA: QUELLO DEL REGNO TRACIO DEGLI ODRISI. UNA MOSTRA AL MUSEO DEL LOUVRE NE RACCONTA L’AFFASCINANTE PARABOLA, ATTRAVERSO L’ESPOSIZIONE DEGLI STRAORDINARI REPERTI IN ORO E ARGENTO EMERSI DAGLI SCAVI DEI GRANDI TUMULI PRINCIPESCHI di Daniela Fuganti Qui accanto: rhyton in argento in forma di grifo facente parte del tesoro di Borovo. 400-350 a.C. Ruse, Museo Storico Regionale. Nella pagina accanto: particolare della testa in bronzo identificata come ritratto di Seute III, re degli Odrisi, dal tumulo di Golyama Kosmatka. 300-290 a.C. Sofia, Museo Archeologico. 46 a r c h e o


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Estensione del regno degli Odrisi sotto Kotys I (383-359 a.C.)

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Regno degli Odrisi sotto Seute III (324-290 a.C.)

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e scoperte archeologiche compiute negli ultimi anni in Bulgaria hanno dato nuovo slancio allo studio della Tracia antica, permettendo di comprendere meglio l’organizzazione del potere e le tradizioni religiose delle genti che la abitavano: un insieme di tribú che condividevano una stessa lingua e una cosmologia ancora oscura. La mostra in corso al Museo del Louvre di Parigi, «L’epopea dei re traci. Scoperte archeologiche in Bulgaria», si concentra sul periodo che va dal V al III secolo a.C., quando in Tracia al modello tradizionale delle tribú si sovrappone un nuovo potere: quello degli Odrisi, una stirpe di aristocratici dotati di mezzi finanziari inediti e di costumi sfarzosi, che riesce a federare poco a poco il territorio che va dal Nord del Mar Egeo fino al Danubio, ossia quasi l’intera Tracia. Gli intensi scambi commerciali avviati con l’Asia Minore, allora sotto la dominazione persianoachemenide, e con il mondo coloniale greco si traducono nell’importazione dei lussuosi oggetti di prestigio che si ritrovano nei corredi funerari, estremamente codificati: parure da toilette, oggetti per il banchetto, e armi. Mentre queste ultime sono riservate agli uomini, le stoviglie per il consumo del vino e gli accessori da toilette si ritrovano nelle sepolture di entrambi i sessi, a testimoniare l’importanza del ruolo attribuito alla donna aristocratica nel V secolo e di una visione paritaria che, tuttavia, scompare nelle epoche successive. I ricchi e raffinati manufatti dei nobili odrisi – pettorali, anelli, ciondoli, ecc. – esposti al Louvre, fanno da cornice a una stupefacente testa in bronzo. Fusa probabilmente verso la metà del IV secolo a.C. e rinvenuta nel 2004 da Georgi Kitov nel tumulo di Golyama Kosmatka, la testa è di qualità eccezionale (vedi «Archeo» n. 249, novembre 2005). Riflette bene la complessità degli scambi economici, artistici e culturali intessuti da queste genti, a lungo considerate rozze e bellicose, con l’impero dei Persiani achemenidi, le tribú nomadi degli Sciti, le città greche del litorale o il regno di Macedonia. Il ritratto – uno dei piú belli che l’antichità ci abbia tramandato – è probabilmente dovuto a un artista greco e restituisce i tratti del sovrano odrisio Seute III (331300 a.C.), la cui capitale, Seutopoli, giace ormai sotto le acque della diga di Koprinka, costruita negli anni Cinquanta. Lo spettacolare ritratto in bronzo fa parte delle scoperte piú recenti in territorio bulgaro e ad Alexandre Baralis, uno dei cinque curatori della mostra parigina, abbiamo chiesto di fare il punto sullo stato della ricerca archeologica nel suo Paese.

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Massima estensione del primo regno degli Odrisi (seconda metà del V sec. a.C.)

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Professor Baralis, fino a oggi le esposizioni dedicate alla Tracia antica presentavano una civiltà sostanzialmente sconosciuta, ma affascinante e almeno in parte idealizzata, per via degli spettacolari oggetti rinvenuti nelle tombe, o dei veri e propri tesori intenzionalmente nascosti e ritrovati per caso. Oggi, invece, disponiamo di elementi che portano a una conoscenza piú approfondita delle popolazioni che abitarono quelle regioni… Le recenti scoperte archeologiche, sulle quali sono stati compiuti numerosi studi, ricollocano questa società nella sua traiettoria storica. La complessità dell’antica Tracia è percorsa nella mostra del Louvre attraverso la storia del regno degli Odrisi, da quando si è strutturato dopo la partenza della forze persiane nel 479 a.C. fino all’arrivo dei Celti nel 278 a.C. La prospettiva, infatti, non è quella di una lettura semplicemente locale. Si tratta di inserire la dinastia odrisia in un contesto piú vasto, per comprenderne meglio la storia, il vivere quotidiano e il ruolo avuto nel mondo antico, fra Sciti, Greci e Macedoni. I reperti finora recuperati sono la prova concreta dei contatti che gli Odrisi avevano stabilito con i loro vicini: con le città greche e i popoli confinanti, i Triballi e i Geti. Negli ultimi anni, gli scavi in Bulgaria si sono intensificati. In che modo questa attività ha contribuito ad accrescere le conoscenze sui Traci? Negli ultimi vent’anni c’è stata un’autentica esplosione degli interventi di salvataggio eseguiti in occasione delle numerose opere pubbliche intraprese in Bulgaria dopo il 1989. Ricerche continuate grazie all’ingresso nell’Unione Europea, avvenuta nel 2007. Pur-

In alto: la sezione della mostra allestita al Museo del Louvre in cui è esposta la testa di Seute III. A destra: coppia di schinieri in bronzo con l’immagine della dea Atena scolpita all’altezza del ginocchio, dal tumulo di Golyama Kosmatka. 325-300 a.C. Kazanlak, Museo Storico. Nella pagina accanto: phiale in argento dorato decorata con una scena raffigurante Eracle e la principessa Auge di Tegea, sacerdotessa del tempio di Atena, da Rogozen. 350-325 a.C. Vratsa, Museo Storico Regionale.

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MOSTRE • PARIGI

Elemento di bardatura in argento dorato con scena di ierogamia, da Letnitsa. MetĂ del IV sec. a.C. Lovec, Museo Storico Regionale. 50 a r c h e o


troppo, nello stesso periodo, è andato drammaticamente crescendo anche il fenomeno dei saccheggi, agevolato dall’estrema facilità di localizzazione dei tumuli funerari di cui è punteggiato il paesaggio e dall’affievolirsi dei controlli da parte delle forze di polizia, all’indomani del crollo del regime comunista. Una situazione, dunque, difficile da gestire… Diciamo pure incontrollabile. Un archeologo che è stato contestato per i metodi adottati, ma al quale si devono grandi risultati, lo scomparso Georgi Kitov, era convinto che per il bene della ricerca fosse necessario «essere piú veloci dei saccheggiatori» e quindi introdusse la pratica dello scavo con mezzi meccanici su larga scala. Una prassi discutibile – poiché molte tracce legate ai riti funerari ma reperibili soltanto fuori dalle tombe sono state cancellate –, ma che si è rivelata indubbiamente efficace dato il particolare contesto in cui è stata adottata. Grazie al gran numero di sepolture portate alla luce in questo modo, sono state infatti acquisite informazioni preziose. Per esempio? È stato poissibile appurare che alcune regioni ospitavano unicamente necropoli aristocratiche, con tombe monumentali. Basti pensare a vallate come quella nei pressi di Kazanlak (un’area di 400 kmq), dove, nel 2004, è stato rinvenuto il ricchissimo cenotafio (tomba vuota) di Seute III, un monumento in cui, pur in assenza delle spoglie del sovrano, era stato deposto uno sfarzoso corredo funerario. Un’altra constatazione riguarda i ritrovamenti sporadici di corpi mutilati, deposti in posizione anatomica, che si credevano isolati e all’apparenza inspiegabili. Ora, grazie al moltiplicarsi delle scoperte, sappiamo che l’assenza di arti, o in particolare della testa, corrispondeva a un rituale ben preciso e ricorrente, e che alcune parti del corpo

venivano tagliate intenzionalmente. Altre tombe, poi, conservano tracce di frequentazione e furono in uso per un lungo arco di tempo, tre o quattro generazioni: per questo motivo è stato ipotizzato che potesse trattarsi di tombe-santuario. Nella mostra gli oggetti legati al banchetto sono onnipresenti e accompagnano tutte le sepolture, sia maschili che femminili... Al riguardo è interessante rilevare la differenza fra le sepolture femminili del V secolo a.C. e quelle del IV e III. Si nota una involuzione sociale del ruolo della donna: gli oggetti che un tempo erano in oro compaiono, un secolo piú tardi, in terracotta. Secondo Erodoto, la donna trace era una buona bevitrice e poteva avere amanti prima del matrimonio. E alcune tribú, sempre secondo lo storico greco, praticavano la poligamia. Senofonte (430-354 a.C.) ci ha invece lasciato testimonianza di un bizzarro simposio organizzato nella dimora di Seute, un regnante locale: agli invitati – generali stranieri –, seduti su sedie disposte a semicerchio, i servitori offrivano pane e grandi pezzi di carne, posandoli su tavolini collocati davanti ai commensali. Contrariamente all’uso greco, si mangiava e beveva nello stesso tempo, mentre gli avanzi venivano dati ai membri dell’aristocrazia locale, che aspettavano in piedi. Dopo lo scambio di

doni, Seute cominciò a danzare, ubriaco, in mezzo ai suoi giullari. Le ricerche archeologiche condotte a tappeto sul suolo bulgaro hanno analizzato varie tipologie di siti. Quale bilancio si può trarre da queste indagini? Fino a tempi recenti, ci erano note principalmente le necropoli e i centri urbani. Da quindici anni a questa parte si conoscono meglio i luoghi di culto e le dimore degli aristocratici. Non si trattava di palazzi, ma di residenze disseminate nel paesaggio, dove la sala adibita al banchetto aveva una collocazione strategica. In conclusione si può affermare che gli scavi programmati sul territorio bulgaro, con il supporto di tecniche innovative come quella del Lidar (acronimo di Light detection and ranging, utilizzato per indicare uno strumento ottico detto anche radar ottico, n.d.r.) accanto alle prospezioni geo-magnetiche, costituiscono una «rivoluzione archeologica» che ha appena iniziato a dare i suoi frutti.

Rhyton in argento dorato con protome taurina, facente parte del tesoro di Borovo. 400-350 a.C. Ruse, Museo Storico Regionale.

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MOSTRE • PARIGI

«Quando furono fatti accomodare per il pranzo, i piú autorevoli Traci lí presenti, insieme agli strateghi, ai locaghi e i rappresentanti venuti in ambasceria dalle città, si sedettero in cerchio. Poi vennero portati a tutti dei tavoli a tre piedi colmi di porzioni di carne e, oltre a ciò, erano state infilzate in spiedi grosse forme di pane lievitato (…) entrò un Trace con un cavallo bianco e, tenendo in mano un corno pieno di vino, disse: “Bevo alla tua salute, Seute, e ti dono questo cavallo” (…). Poi fecero il loro ingresso dei suonatori con corni simili a quelli che si usano per mandare segnali e trombe di pelle di bue non conciata (…). Entrarono anche dei buffoni» (Senofonte, Anabasi,VII, 21-33)

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Gli ori di Panagjuriste Ecco, sulle due pagine, alcuni dei manufatti in oro massiccio che compongono il tesoro rinvenuto nel 1949 nei pressi di Panagjuriste. Databili tra la fine del IV e gli inizi del III sec. a.C. gli oggetti sono oggi conservati nel Museo Archeologico Regionale di Plovdiv. Da sinistra: anfora-rhyton con manici in forma di centauro e una scena interpretata come un episodio della saga dei Sette contro Tebe; rhyton in forma di testa di Afrodite; rhyton in forma di testa di daino. Qui sotto: il tesoro attualmente in mostra a Parigi.

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MOSTRE • PARIGI

LA TRACIA NELL’ANTICHITÀ

I Traci erano una delle genti indoeuropee comparse durante l’età del Bronzo. Succedettero a gruppi che avevano dato vita a una cultura nedi Petar Delev olitica balcanica particolarmente fiorente, esito del fruttuoso incontro, agli inizi del VII millennio a.C., tra una popolazione agricola di orier i Greci, la Tracia era l’insie- gine anatolica e gruppi mesolitici me delle regioni poste a nord europei assai dinamici. Questo svidell’Egeo, un paese che im- luppo lungo e ininterrotto subí una maginavano fatto di alte montagne brusca battuta d’arresto nella seconcoperte di neve, ricco di frumento, da metà del V millennio a.C. all’inbestiame e cavalli e abitato dal bellicoso popolo dei Traci. Questa regione occupava l’estremità sudorientale della penisola balcanica ed era delimitata a sud dalle rive del Mar Egeo, a est da quelle del Ponto Eusino (l’attuale Mar Nero) e a nord dai Carpazi. La Tracia, dunque, coincideva con i territori della moderna Bulgaria, del Sud della Romania, del Nord-Est della Grecia e della parte europea della Turchia. A ovest, le valli dell’Axios (o Vardar) e della Morava dividevano le terre dei Traci da quelle degli Illiri. Anche la regione nord-occidentale dell’Asia Minore, oltre il Bosforo tracio e la Propontide (l’odierno Mar di Marmara), era abitata da genti tracie, i Bitini.

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TERRA DI MONTI E FIUMI Le principali catene montuose che innervavano questo spazio erano l’Haimos (l’Haemus latino, oggi denominato Stara Planina o Balcani) e i monti Rodopi, che si allungano piú a est, fino alla costa del Ponto. La Tracia settentrionale, a nord della catena dell’Haimos, era attraversata dalle impetuose acque dell’Istros (il Danubio), mentre la regione meridionale aveva una sua rete idrografica, con corsi d’acqua che si gettavano nell’Egeo attraversando fertili vallate circondate da alte montagne, come lo Strymon (Struma), il Nestos (Mesta), l’Hebros (Marizza o Meriç) e il suo tributario Tonzos (Tundza). 54 a r c h e o

domani dell’avvento, sulle sponde del Mar Nero, della cultura di Varna, capace di darsi un assetto prestatale e che, forte delle prime sperimentazioni nel campo della metallurgia, si distinse per l’inedita accumulazione delle ricchezze, in particolare degli oggetti in oro, prima di conoscere una fine repentina e tragica.

MILLE ANNI CRUCIALI La fase detta «di transizione» fra il Calcolitico e l’età del Bronzo, nel corso del IV millennio a.C., è ancora oggi poco nota archeologicamente. È probabile che l’età del Bronzo abbia avuto inizio non prima della seconda metà di questo millennio e abbia avuto una durata di circa mille anni. Un periodo lungo, scandito da nuovi movimenti di popolazioni, il cui insediamento e la cui fusione si tradussero nell’emergere delle antiche genti della penisola balcanica: i Greci nelle regioni meridionali, gli Illiri a ovest, lungo il Mare Adriatico, i Traci e est. Nell’età del Bronzo Antico fanno la loro comparsa le tombe a tumulo, che si caratterizzano come uno degli apporti culturali piú significativi dei nuovi venuti. Monumenti funerari che in seguito divennero uno degli elementi distintivi del costume funerario dei Traci. Fra i ritrovamenti riferibili all’età del Bronzo, ha una rilevanza particolare il tesoro di Valchitran. Si tratta di un insieme eccezionale di oggetti in oro, che comprende una grande tazza a due anse, un recipiente triplice, tre piccole tazze e una piú grande a un solo manico, due dischi grandi e cinque di formato piú piccolo con prese sferiche, per un peso complessivo di oltre 12 kg d’oro massiccio. I dischi fungevano probabilmente da coperchi di contenitori oggi perduti, suggerendo perciò che una parte del tesoro non sia giunta fino a noi. Sul finire del II millennio a.C., la prima età del Ferro (XI-VI secolo a.C.) succede all’età del Bronzo. La


transizione venne accompagnata da una nuova ondata migratoria, che interessò la maggior parte delle regioni sud-orientali dell’Europa. A questo momento risale un gran numero di spade, di punte di lancia e di asce da combattimento che riproducono i prototipi dell’età del Bronzo e sono fra i piú antichi manufatti in ferro scoperti in Tracia. La ceramica di questa fase presenta forme variegate ed è spesso decorata con motivi geometrici, incisi o stampigliati sull’argilla.Verso la fine della prima età del Ferro essa viene rimpiazzata velocemente da una ceramica monocroma, di colore grigio, solitamente priva di decorazioni e realizzata al tornio. Pochi insediamenti di questa fase sono stati oggetto di indagini sistematiche, ma sembra che il modello di occupazione spaziale fosse imperniato su una rete di villaggi non fortificati, disposti nelle pianure o nelle vallate, nonché di siti adatti a eventuali rifugi posti sulla sommità di rilievi, a volte chiusi da una cinta muraria. In ambito funerario, sono attestate sia la pratica dell’inumazione che quella dell’incinerazione. In un’area che corrisponde grosso modo al Sud-Est della Tracia si diffusero anche dolmen e tombe rupestri che furono i primi casi di sepolture monumentali attestati nella regione. Di particolare interesse è una scoperta compiuta a Kazichene, nei pressi di Sofia. Si tratta di un contesto comprendente tre recipienti diversi, posti l’uno dentro l’altro: una coppa aurea emisferica, una grande coppa in ceramica e un calderone in bronzo. L’insieme, intepretato come una deposizione simbolica, è stato datato, sulla base dello stile del calderone, al VII secolo a.C., mentre la coppa in oro sembra essere piú antica. Altrettanto interessante è la scoperta di una figurina in

bronzo raffigurante un cervo e proveniente da Sevlievo, nella Bulgaria settentr ionale, un capolavoro dell’arte geometrica. I poemi omerici contengono le piú antiche menzioni sull’esistenza dei Traci e della Tracia. Queste epopee, frutto di una redazione protrattasi per un tempo assai lungo, riflettono le conoscenze geografiche dell’epoca in cui vennero composte. E dunque non citano gli Ittiti dell’Anatolia o collocano i Frigi addirittura prima della guerra di Troia. Seguendo un simile criterio, le menzioni omeriche sulla Tracia potrebbero essere piuttosto legate ai contatti «preocoloniali» che i Greci dell’età geometrica stabilirono con i loro vicini stanziati a nord dell’Egeo.

COMUNITÀ AUTONOME All’epoca in cui il loro nome fa la sua prima comparsa, i Traci erano certamente organizzati in comunità autonome. Il gioco delle tendenze unificanti e centrifughe, la colonizzazione greca – che impresse un’accelerazione decisiva allo sviluppo dell’economia –, le successive invasioni di Persiani, Macedoni, Celti e Romani impedirono sempre l’unificazione politica. Il regno

degli Odrisi affermatosi nel VI e V secolo a.C. fu certamente l’esperienza che maggiormente si avvicinò a quell’obiettivo. Nel corso dell’età arcaica, sulle coste della Tracia furono fondate numerose colonie greche. Da quel momento in poi e per un lungo periodo, Greci e Traci intrattennero contatti serrati ed ebbero scambi assai intensi, non soltanto di carattere commerciale, ma anche di tipo intellettuale e culturale. A tale fenomeno va attribuita la ricchezza delle informazioni sulla Tracia offerte dalla letteratura greca, che costituisce una straordinaria fonte di dati su un popolo che, salvo qualche rara iscrizione, è stato privato di qualsiasi tradizione locale scritta. Queste informazioni risultano in ogni caso frammentarie e sottolineano perciò l’importanza del contributo offerto dall’archeologia, dall’epigrafia e dalla numismatica. Nella pagina accanto: schiniere in argento dorato da una tomba scoperta a Zlatinitsa. Metà del IV sec. a.C. Sofia, Museo Storico Nazionale. In basso: il tesoro di Valchitran. Fine dell’età del Bronzo (XIII-XII sec. a.C.). Sofia, Museo Archeologico Nazionale.

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MOSTRE • PARIGI

Tuttavia, il repertorio omerico e mitologico e l’archeologia non sono in grado di offrirci elementi concreti e autentici sui personaggi e gli eventi che scandirono la prima età del Ferro, né consentono la ricostruzione di uno sviluppo storico continuo. Verso la fine di questa lunga fase, lo storico greco Ecateo di Mileto (560 circa-490 a.C.) mise a punto, per la prima volta, una descrizione sistematica delle terre tracie, con le loro montagne e fiumi, le città e le tribú; purtroppo conosciamo soltanto alcuni frammenti di quell’opera, che ci hanno restituito solo qualche decina di nomi, accompagnati unicamente dalle brevi note dei lessicografi: «una tribú tracia» o «una città della Tracia». Solo le Storie di Erodoto fanno registrare l’ingresso della Tracia sul palcoscenico della storia, in un periodo in cui essa corrispondeva con il regno degli Odrisi. Nel V secolo a.C. Erodoto rilevò l’esistenza di un gran numero di Bronzetto raffigurante un cervo, da Sevlievo. Prima età del Ferro. Sofia, Museo Storico Nazionale.

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tribú tracie, alcune dotate di un proprio etnonimo, ma che condividevano costumi e tradizioni simili. Strabone, nel I secolo a.C., annotava ancora ventidue diverse entità tribali: l’assetto geopolitico della regione era instabile e mutevole, riflesso di uno stato di belligeranza continua, di spostamenti periodici e di conquiste o alleanze precarie.

UN MOSAICO DI GENTI Erodoto e Tucidide conoscevano le popolazioni dei Rodopi con il nome di Satri e Dii. I primi possedevano un celebre santuario di Dioniso, i cui sacerdoti erano membri della tribú dei Bessi, verosimilmente stanziata in una regione situata a nord dei Rodopi ed estesa fino all’alto corso dello Strymon verso occidente. Lungo la valle di quest’ultimo corso d’acqua erano inoltre situate le terre degli Agriani, dei Denteleti, dei Medi e dei Sinti; nell’area egea si erano invece insediati i Bisalti, gli Edoni, i Pieri, i Bistoni e i Ciconi. Alcuni di questi gruppi, come i Derroni e gli Orreschi, ci sono noti solo dalle emissioni monetali in argento, battute nella prima metà del V secolo a.C. Erodoto collocò nella Tracia sudorientale i Dolonci, gli Apsinti, i Peti, gli Schirmiadi, i Nisseni e una comunità anonima che abitava la città di Salmydessos; Senofonte, a sua volta, li sostituí con Melanditi, Tini, Tranissi e Melinofagi, mentre in età ellenistica la regione risultava controllata da Caini, Asti e Corpili. I territori che si estendevano fra i Rodopi e l’Haimos, fino alle rive del Ponto Eusino verso est, erano controllati dagli Odrisi, ma, a oggi, ancora si ignora dove fossero effettivamente collocati i loro possedimenti all’interno di quella vasta regione; sappiamo invece che, successivamente, a queste zone è associata la comparsa di altre tribú, come i Breni (o Beni) e i Celaleti. Per le terre

poste al di là dello stesso Haimos, nella Tracia settentrionale, le fonti riportano in prevalenza i nomi dei Triballi, per il settore occidentale, dei Geti a oriente e dei Daci nella regione carpatica. La presenza dei Mesi sembra invece essere frutto di un’invenzione elaborata piú tardi, in epoca romana. Molti autori attribuiscono la guida delle tribú tracie ad altrettanti sovrani, indicati con il termine di basileus. E, in effetti, la monarchia sembra essersi evoluta nel corso del tempo, per effetto di un aumento del potere detenuto dai capi tribali, che ebbe come esito l’affermazione di vere e proprie dinastie. Peraltro, poiché i riferimenti a successioni tra i membri di una medesima schiatta compaiono già nel repertorio dei racconti mitologici, ciò sembra suggerire che la transizione verso il sistema monarchico abbia avuto luogo in età piuttosto antica. Ciononostante, alcuni gruppi sembrano aver adottato soluzioni diverse, come indicherebbero le citazioni esplicite di Traci «senza sovrani». Non conosciamo nel dettaglio l’organizzazione interna del potere reale. Sembra che i monarchi facessero affidamento su una classe aristocratica di cui però è ancora poco definito il ruolo effettivamente giocato nell’ambito del sistema di governo. È tuttavia certo che proprio a questi facoltosi esponenti della nobiltà dobbiamo le numerose testimonianze della ricchezza dell’antica Tracia, attestate in ogni angolo del suo territorio. DOVE E QUANDO «L’epopea dei re traci. Scoperte archeologiche in Bulgaria» Parigi, Museo del Louvre fino al 20 luglio Orario tutti i giorni, 9,00-17,30 (mercoledí e venerdí, apertura serale fino alle 21,30); chiuso il martedí Info www.louvre.fr



SCAVI • SANT’AGATA BOLOGNESE

Sant’Agata Bolognese. Un’immagine del pozzo scoperto all’interno di una villa rustica di età romana in corso di scavo. Nella pagina accanto, sotto il titolo: foto ricordo per una giovane scavatrice, seduta all’interno di uno dei grandi contenitori in terracotta (dolia) utilizzati per lo stoccaggio delle derrate. Allo scavo di Sant’Agata Bolognese hanno infatti partecipato allievi dell’Istituto Statale di Istruzione Superiore «Archimede» di San Giovanni in Persiceto. 58 a r c h e o


QUANDO LA STORIA FINISCE NEL POZZO

UN RECENTE SCAVO CONDOTTO A SANT’AGATA BOLOGNESE SEMBRAVA UN NORMALE INTERVENTO D’ARCHEOLOGIA PREVENTIVA. INVECE, POCO ALLA VOLTA, SONO EMERSI I RESTI DI UNA VILLA RUSTICA ROMANA, CHE, AL CENTRO DEL CORTILE, ERA DOTATA DI UNA PROFONDA CAVITÀ... di Carlo Casi Crevalcore Nonantola Modena

Sant’Agata Bolognese San Giovanni in Persiceto Sala Bolognese Castelfranco Emilia Calderara Budrie di Reno Anzola dell’Emilia

Reno

F

avole e leggende hanno da sempre accreditato l’idea che il fondo di un pozzo sia la collocazione ideale per un tesoro. Ma può anche accadere che la realtà superi l’immaginazione: è successo, per esempio, in occasione di un recente intervento di archeologia preventiva condotto nel Comune di Sant’Agata Bolognese. Qui, infatti, la normale routine dei saggi esplora-

Bologna Casalecchio di Reno

tivi, effettuati in un’area destinata alla costruzione di un complesso residenziale, è stata interrotta dall’emergere delle tracce di una villa rustica d’età romana. L’edificio era composto da una corte quadrata, al cui interno si trovava un pozzo per l’approvvigionamento idrico, prossimo ad altri impianti legati sicuramente a un’attività vinificatoria (torcular, torchio, e pressa a a r c h e o 59


SCAVI • SANT’AGATA BOLOGNESE Muro perimetrale

Doliarium DOLIARIUM Ambienti settore nord

Accesso di servizio Pozzo

Corte

Torcular

POZZO

Ala est

Frase colorata Muromaximai perimetrale onsectiorem fugiam, sanis mi, quoditae. Et expliquis Fase I Focolari olumqui quaerspit omnis Fase II Fase III

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Accumuli posteriori di materiali

Planimetria delle strutture della villa rustica di Sant’Agata Bolognese, abitata tra la seconda metà del I sec. a.C. e il pieno III sec. d.C. Nei riquadri: l’area in cui è stato individuato il deposito dei dolia e una delle brocche in ceramica rinvenute nel riempimento del pozzo.


leva per la spremitura dell’uva). Nei pressi, vi era inoltre una vasta zona porticata nella quale erano alloggiati i grandi contenitori in terracotta (dolia, plurale di dolium), forse utilizzati proprio per la fermentazione del mosto (in questo caso ne sono stati ritrovati 4, ai quali si aggiungono le fosse per l’interramento di altri 6 recipienti). La villa risulta ben inserita nella centuriazione (sistema di ripartizione delle terre basato su una distribuzione in 100 unità, dette appunto centurie, n.d.r.): ed è stata abitata tra la seconda metà del I secolo a.C. e il pieno III secolo d.C., come provano i materiali archeologici recuperati. La scoperta si colloca nel quadro della romanizzazione della pianura

emiliana, che raggiunse il suo apice proprio dalla fine del I secolo a.C. e si tradusse in una vera e propria «presa delle terre» a favore della creazione di piccole e medie proprietà, caratterizzate dalla conduzione familiare diretta, futura base del sistema insediativo e produttivo.

UNA TIPOLOGIA DIFFUSA Le ville rustiche piú diffuse erano a pianta quadrangolare chiusa, organizzate attorno a un ampio cortile interno: a tale tipologia si può sicuramente ascrivere anche il complesso di Sant’Agata Bolognese. Veduta del cantiere di scavo di Sant’Agata Bolognese, con resti di murature in primo piano.

Le indagini hanno dunque riportato alla luce una porzione ingente di un grande complesso produttivo di età romana imperiale, posto vicino a un importante corso d’acqua. Nonostante le murature siano state fortemente compromesse dai lavori agricoli, è stato possibile ricostruire per intero lo sviluppo planimetrico della struttura. Come già detto, al centro vi è una corte quadrata, perimetrata da murature dotate di contrafforti, mentre, a oriente, si sviluppa l’ala legata alle attività produttive (come suggeriscono la grande piattaforma rettangolare per alloggiare probabilmente una vasca e la base del torcular per la spremitura dell’uva); a nord vi sono 4 vani di piccole

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SCAVI • SANT’AGATA BOLOGNESE

dimensioni e di incerta funzione, comunque riconducibili ad attività di servizio e dai quali si accede alla vasta zona porticata caratterizzata dalla presenza dei dolia. Nel corso della sua lunga vita, la villa rustica fu oggetto di rifacimenti e ristrutturazioni e, in particolare, si sono potute individuare almeno due fasi costruttive: l’una comprendente l’intero complesso descritto, l’altra la sola ala orientale.

UN «TESORO» IN 10 METRI Tornando al pozzo, esso fu interamente realizzato con laterizi (tegole e mattoni), a volte adattati all’arco della circonferenza. Ha un diametro interno pari a 1 m circa per quasi 10 profondità; una circostanza, quest’ultima, che ne ha reso particolarmente difficile l’esplorazione. Le difficoltà incontrate dagli archeologi che hanno scavato la 62 a r c h e o

struttura sono però state ampia- nuti: un vero e proprio ripostiglio, mente ripagate dall’estrema impor- che non ha risparmiato sorprese, a tanza e varietà dei materiali rinve- partire dalla molteplicità dei resti vegetali (rami, foglie, fiori, semi, frutti – tra cui ghiande, noci, nocIn alto: ancora un’immagine del pozzo ciole, acini d’uva –, ecc.) e di quelin corso di scavo: si riconoscono vari li animali, che comprendono ossa recipienti in ceramica e, sulla destra, con tracce dei tagli di macellazione, il fondo di un secchiello in legno. Qui sotto: una selezione delle brocche frammenti pertinenti a piccoli roditori e un carapace di tartaruga. restituite dallo scavo del pozzo.


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I reperti archeologici, anch’essi numerosi e in eccellente stato di conservazione, non compaiono prima della metà del pozzo: tra di essi, si segnala la presenza di brocche integre in ceramica, di recipienti in bronzo e rame – alcuni già restaurati in antico – e oggetti in legno e pietra. L’arco cronologico dei materiali attesta un uso del pozzo che si protrasse ben piú a lungo delle fasi abitative della villa (seconda metà del I secolo a.C.-I secolo d.C.): il suo utilizzo per l’approvvigionamento idrico e poi per l’occultamento intenzionale di oggetti in momenti di instabilità politica sem-

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A sinistra: sezione crono-stratigrafica del pozzo di Sant’Agata Bolognese, che fu in uso fino al VI-VII sec. d.C. In basso: pettine in legno di bosso e cestino in rametti di salice recuperati nel riempimento della struttura.

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Roditori e fogliame Recipienti in metallo

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Pettine in legno Roditori

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Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

Brocche in ceramica

Roditori e fogliame -8,00 m Cestino Ganci ad ancora in metallo -9,00 m

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SCAVI • SANT’AGATA BOLOGNESE

IL MUSEO SI FA IN QUATTRO Il Museo Archeologico Ambientale di Terred’acqua (unione intercomunale tra San Giovanni in Persiceto, Sant’Agata Bolognese, Sala Bolognese, Crevalcore, Calderara di Reno e Anzola dell’Emilia) si articola, attualmente, in quattro diverse sedi espositive. Il primo nucleo, inaugurato nel 2004 a San Giovanni in Persiceto, ha sede presso Porta Garibaldi. Eretto nel 1830 sulle rovine della porta medievale, l’edificio è stato utilizzato fino agli anni Sessanta del secolo scorso come carcere mandamentale e mantiene il suo aspetto originario. Il percorso di visita si articola in 3 sezioni dedicate all’età romana, medievale e rinascimentale. L’allestimento, ricco di reperti, immagini, ricostruzioni e testi esplicativi, evidenzia i principali ritrovamenti archeologici del territorio persicetano: dalle ville e fattorie di età romana al villaggio fortificato medievale di Crocetta di Sant’Agata Bolognese, ai laboratori rinascimentali che producevano ceramica graffita nel cuore di Persiceto. L’esposizione di reperti lignei e carpologici permette di comprendere il rapporto uomo-ambiente-territorio nel corso dei secoli. La seconda sede espositiva, inaugurata a Sant’Agata Bolognese nel 2010, raccoglie i risultati degli studi condotti su aspetti insediativi e paleoambientali dei principali siti dell’età del Bronzo rinvenuti nell’area di pianura tra il Samoggia e il Panaro ed espone reperti provenienti da insediamenti terramaricoli indagati nei territori di San Giovanni in Persiceto e Sant’Agata Bolognese. Arricchito da testi esplicativi, disegni ricostruttivi e repliche di oggetti, l’allestimento offre l’opportunità di una lettura coinvolgente dei dati scientifici disponibili, mostrando come il paesaggio tra il Samoggia e il Panaro nell’età del Bronzo fosse densamente occupato e avesse raggiunto una certa prosperità grazie alla fertilità del territorio e a una nuova forma di organizzazione sociale ed economica. La sezione di Anzola dell’Emilia, inaugurata nel 2011, presenta i risultati delle indagini archeologiche condotte dall’inizio degli anni Novanta del Novecento

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su un locale insediamento dell’età del Bronzo. Sulla base dei dati raccolti è stato possibile delineare la fisionomia della terramara nella sua fase di massima prosperità e approfondirne le relazioni non solo con il territorio circostante, ma anche con la realtà europea, mediterranea e vicino-orientale. Particolarmente suggestiva è l’aula didattica che riproduce l’ambiente di una capanna terramaricola (foto in basso, a sinistra). Nel dicembre 2012, infine è stata inaugurata la nuova sezione di Calderara di Reno, dedicata all’età romana. Inserito nella ricostruzione di un edificio rustico, l’allestimento presenta testimonianze archeologiche provenienti dal territorio calderarese, in particolare dal sito di Cave Nord (Lippo di Calderara); le scelte espositive intendono approfondire tematiche legate all’organizzazione territoriale, alle tipologie abitative e alle tecniche edilizie, alle attività produttive e agli oggetti della vita quotidiana. In linea con la vocazione del museo, ampio rilievo è riservato all’aspetto ambientale che, attraverso l’indagine del paesaggio vegetale antico, dell’agricoltura e dell’alimentazione, permette di comprendere il rapporto fra uomo e territorio. L’esposizione vuole rendere facilmente fruibili, attraverso la visione di reperti, ricostruzioni, immagini e testi esplicativi, i dati scientifici scaturiti da indagini storiche, archeologiche e archeoambientali e guidare i visitatori alla riscoperta del passato e del proprio territorio, delle sue trasformazioni e persistenze.

DOVE E QUANDO Museo Archeologico Ambientale Sede di San Giovanni in Persiceto Corso Italia 163, presso Porta Garibaldi Orario domenica, 10,00-12,00 e 17,00-19,00 Sede di Sant’Agata Bolognese via Terragli a Ponente, presso ex casa Pollicina Orario domenica, 10,00-12,00 (invernale) e 16,0018,00 (estivo) Sede di Anzola dell’Emilia via Emilia 87, presso ex caserma dei Carabinieri Orario sabato, 10,00-12,00; domenica, 16,00-18,00 Sede di Calderara di Reno via Roma 12, presso Centro Civico Spazio Reno Orario domenica, 10,00-12,00 Note tutte le sedi sono anche visitabili su richiesta, dal lunedí al sabato Info e prenotazioni tel. 051 6871757; fax 051 823305; e-mail maa@caa.it; www.museoarcheologicoambientale.it


A destra: il Laboratorio Archeoambientale del Centro Agricoltura Ambiente «G. Nicoli» di San Giovanni in Persiceto. In basso: Ipotesi ricostruttiva della villa romana di Sant’Agata Bolognese.

brano infatti protrarsi fino all’età tardo-antica (VI-VII secolo d.C.). Gli strati di riempimento del pozzo hanno messo in evidenza una forte matrice argillosa decrescente, che ha progressivamente lasciato il posto, scendendo verso il basso, a elementi sempre piú limosi e sciolti, che contenevano i resti vegetali e animali.

TUTTE LE TAPPE DELL’INDAGINE In una prima fase, l’indagine archeologica è consistita nella pulitura manuale di tutte le strutture di fondazione conservate e dei relativi piani, al fine di evidenziare al meglio tracciato e tecnica costruttiva; si è quindi proceduto allo scavo, integrale o parziale, dei principali elementi emersi e all’esecuzione di sondaggi mirati al fine di recuperare ulteriori informazioni. La terza fase ha previsto lo smontaggio mirato di alcune strutture significative, anche in vista della loro futura esposizione/musealizzazione (tratti di sottofondazione, basamento di vasca, pilastro, dolia). Infine, è stato effettuato lo scavo integrale del pozzo.

Nell’insieme, sono state identificate piú di 250 unità stratigrafiche e schedati oltre 120 reperti di particolare rilevanza. Sia presso le fondazioni dell’edificio e relativi piani residui, sia nei riempimenti dei dolia e di altre strutture significative sono stati inoltre prelevati campioni di macroresti (legni, carboni, semi, frutti), microresti (pollini) e reperti destinati alle analisi paleobotaniche e alle datazioni al radiocarbonio (C14).Va anche segnalato il recupero integrale della camicia del pozzo e il suo riempimento. Le analisi dei campioni hanno permesso la ricostruzione puntuale e

approfondita del paesaggio dell’area circostante l’insediamento in età romana, evidenziando anche dettagli fondamentali per la comprensione della vita quotidiana e delle attività produttive svolte in questo edificio di 2000 anni fa. E cosí è emersa vivida l’immagine di un’agricoltura quanto mai specializzata e aiutata da un da clima mite e temperato, Didascalia fare Ibusdae dove alle coltivazioni evendipsam, officte erupit cerealicole antesto sono quelle ortive e quelle taturi associate cum ilita aut quatiur restrum tessili come la canapa. eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni VERSO LA MONOCULTURA autatur apic tecesrappresentata enditibus teces. La frutta è ben da ci-

liegie, susine, noci e olive, mentre la vite doveva essere «maritata» a olmo, acero, carpino, corniolo, tiglio e orniello; la presenza poi di alcuni semi di melone attesta che la sua coltivazione nell’area comincia almeno dal I secolo d.C.: si tratta della piú antica testimonianza a oggi nota in Emilia-Romagna. Completano il paesaggio le estese aree a pascolo, circondate da boschi di quercia. A partire dalla tarda età imperiale le culture specializzate tendono a scomparire lasciando il posto a una sempre maggiore cultura cerealicola, chiara testimonianza di una regressione in corso che sfociò nella netta diminuzione delle aree coltia r c h e o 65


SCAVI • SANT’AGATA BOLOGNESE

IL RESTAURO DEL LEGNO BAGNATO Gli scavi archeologici possono talvolta restituire elementi lignei: ciò accade quando tali reperti siano stati disseccati da contesti particolarmente caldi e asciutti, oppure siano imbibiti di acqua o protetti da strati argillosi che garantiscono una umidità costante o, ancora, quando siano immersi in acque dolci o salate. Per i legni saturi di acqua, la loro rimozione dal contesto originario di giacitura determina in tempi brevissimi l’evaporazione del liquido e un relativo, irreversibile sgretolamento della sostanza legnosa, fino alla polverizzazione. Per evitarlo, si deve provvedere, già in corso di scavo, a una continua irrorazione di acqua dei reperti e, dopo la loro rimozione dal contesto, alla subitanea immersione in contenitori appositi, che impediscano l’evaporazione e preservino l’integrità dell’oggetto. Materiali provenienti da acque marine o salmastre devono essere sottoposti a dissalamento. L’immersione conservativa in acqua deve essere mantenuta fino alle eventuali operazioni di restauro. Durante tale fase vengono effettuate analisi diagnostiche preliminari per individuare le essenze legnose e verificare lo stato di conservazione e lo stato di degrado del reperto; vengono effettuate misurazioni dimensionali e ponderali dello stato iniziale del materiale ligneo e viene creata un’apposita documentazione fotografica. Le informazioni cosí raccolte risultano necessarie per mettere a punto il programma di restauro piú adeguato. Il trattamento di consolidamento del legno archeologico bagnato messo a punto a San Giovanni in Persiceto prevede l’impiego di glicole polietilenico (PEG) che, attraverso un processo osmotico effettuato in vasche termoriscaldate, penetra nella struttura del legno, sostituendosi all’acqua e restituendo al reperto consistenza, naturale elasticità e colorazione, nonché la possibilità di essere maneggiato, studiato ed esposto senza il vincolo della conservazione in ambiente saturo di umidità. Tale tecnica di consolidamento consente di restaurare ogni tipo di essenza legnosa, anche con stati di degrado piuttosto importanti, e si applica sia su oggettistica minuta (pettini, elementi torniti, tavolette, fuseruole, cesti e cestini, cordame, ecc.) che su elementi strutturali e di carpenteria (pali, travi, tavole, imbarcazioni, ecc.), nonché su resti naturali (rami e ramaglie, tronchi, ecc.). Info: Laboratorio Archeoambientale del Centro Agricoltura Ambiente «G. Nicoli» di San Giovanni in Persiceto, tel. 051 6871757; fax 051 823305; e-mail palinologia@caa.it; www.caa.it/palinologia

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A sinistra: una zappetta in ferro con manico in legno di carpino nero ancora in situ all’interno del pozzo e dopo il restauro. In basso: reperto ligneo di acero campestre con legatura di rami di pioppo.

vate a vantaggio del propagarsi delle zone umide e paludose accompagnate dal progressivo avvicinamento al sito delle aree boscate.

IL POZZO IN MOSTRA Agli scavi fin qui descritti è dedicata la mostra «La villa nel pozzo. Un insediamento rustico romano a Sant’Agata Bolognese», allestita presso il Comune della cittadina e visitabile nei seguenti orari: martedí, 9,00-13,00, giovedí, 9,00-13,00 e 15,00-17,30, sabato, 9,00-12,30; per visite guidate su prenotazione e per le scuole di ogni ordine e grado è possibile contattare il Museo Archeologico Ambientale (tel. 051 6871757; e-mail: maa@caa.it). Le indagini archeologiche sono state coordinate da Tiziano Trocchi della Soprintendenza Archeologia dell’EmiliaRomagna, in collaborazione con Silvia Marvelli e Fabio Lambertini del Museo Archeologico Ambientale di Terred’acqua e hanno visto la partecipazione del Comune di Sant’Agata Bolognese e della Partecipanza Agraria di Sant’Agata Bolognese, nonché dell’Istituto Statale di Istruzione Superiore «Archimede» di San Giovanni in Persiceto, con il quale, durante lo scavo, è stata svolta un’attività formativa sul campo per studenti dei licei classico e scientifico. Le indagini archeobotaniche sono state coordinate da Marco Marchesini della Soprintendenza Archeologia dell’Emilia-Romagna e svolte presso il Laboratorio Archeoambientale del Centro Agricoltura Ambiente «G. Nicoli» di San Giovanni in Persiceto (BO).



CIVILTÀ CINESE/10 • BENI DI LUSSO

NON È UN’ARTE PER TUTTI

SIN DALLA PREISTORIA, GIADA, BRONZO E ORO, COSÍ COME SETA E LACCA, FURONO SCELTI COME ESPRESSIONE TANGIBILE DI RICCHEZZA, POTERE, MA ANCHE DI SACRALITÀ di Marco Meccarelli 68 a r c h e o


I

l termine «lusso» deriva dal latino «luxus», che ha la valenza di «eccesso», «intemperanza», «dissolutezza» e «mollezza», ma anche di «fasto» e «magnificenza». Già a livello etimologico possiamo dunque riscontrare una sorta di ambiguità, se non addirittura una dicotomia semantica, che comprende sia l’accezione negativa di «opulenza sfarzosa», sia quella positiva di «pregio sontuoso». Sin dall’antichità il lusso, e soprattutto la sua ostentazio-

ne, spesso associati all’Oriente, furono condannati da censori, filosofi e legislatori; nell’antica Grecia, per esempio, Platone (V-IV secolo a.C.) deplorava nella Repubblica il godimento dei piaceri non strettamente necessar i. Tuttavia, le città greche non compresero il «vero» significato del lusso fino alla conquista dell’Asia da Sulle due pagine: particolare di un copricapo in oro, perle e pietre preziose. Epoca Qing, 1644-1911. Collezione privata.

parte di Alessandro Magno (356-323 a.C.). Nella cultura latina l’eccesso dello sfarzo e lo sperpero per i beni preziosi vennero chiaramente denunciati, per esempio dalla lex sumptuaria, e successivamente anche da una certa parte dell’etica cristiana ispirata ai valori del pauperismo. Al di là delle diverse accezioni e delle condanne, il lusso conferisce l’attribuzione di uno status di prestigio (vero o presunto tale) a individui che riescono a goderne i privilegi. Di a r c h e o 69


CIVILTÀ CINESE/10 • BENI DI LUSSO

Il possesso degli oggetti di pregio costituiva una legittimazione del proprio potere politico e sacrale

conseguenza, per essere riconosciuti come simboli iconici di una élite, gli oggetti devono garantire, al di là dell’ostentazione, i caratteri di esclusività e di pregio, e quindi di eccellenza qualitativa e di raffinatezza estetica. Una parte significativa del commercio cinese, almeno nei primi periodi storici, era costituita dai tributi: uno scambio di tipo reciproco o redistributivo, che aveva anche una funzione politica e il cui oggetto del contendere era rappresentato dal bene prezioso. Il lusso, infatti, sembra costituire il filo conduttore che, sin dall’antichità, lega l’intero repertorio artistico cinese. I complessi

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tombali, in particolare, sono divenuti lo «spazio» celebrativo di una élite che ha legittimato il proprio potere, politico e sacrale, anche attraverso il possesso dei numerosi utensili destinati ai rituali, inclusi nel ricco corredo funerario.

PRODUZIONE E CONSUMO Essi rivelano aspetti eclatanti per la quantità, la varietà e la qualità delle superfici decorate. E non solo: la loro produzione ha costituito una rilevante, e in alcuni casi esclusiva, fonte di sostentamento per intere comunità di lavoratori, gestite da un’aristocrazia che deteneva anche il potere economico.

In alto: coppia di draghi in giada. Periodo della dinastia Zhou Occidentale, IX-VIII sec. a.C. Collezione privata. La giada fu utilizzata per la produzione di beni di lusso fin dall’epoca neolitica. In basso: coppia di leopardi in bronzo, con agemine in oro e argento e granati, dalla tomba della principessa Dou Wan, a Mancheng (Hebei). Han Occidentali, II sec. a.C. Figurine come queste venivano usate come pesi da cucire alle maniche degli abiti, in modo da far sí che esse cadessero elegantemente lungo le braccia, senza che il tessuto potesse arricciarsi.


Gli oggetti hanno varcato il confine tra arte e artigianato, ma anche tra sacro e profano, perché si sono arricchiti di un complesso vocabolario figurativo che ha incluso, e spesso sovrapposto tra loro, sia i simboli del potere temporale, sia quelli attinenti al mito e al contesto religioso. Particolare di un grande versatoio rituale Yi per acqua. Bronzo, dinastia dei Zhou Occidentali, IX-VIII sec. a.C. Collezione privata.

E non potrebbe essere altrimenti, perché l’aver concepito il processo creativo non fine a se stesso, ma incline a uno stile decorativo che in realtà si è sempre svincolato dal «semplice» accessorio ornamentale è una delle basi della civiltà cinese. In Cina la decorazione sui reperti archeologici pone grande enfasi nella linea che scombina e ricompone perlopiú soggetti zoomorfi, con ogni sorta di artificio, ai limiti dell’astrattismo.

Ma i soggetti decorativi – come per esempio il drago, la fenice e il taotie (maschera zoomorfa priva di mandibola) – si fanno sempre depositari di molteplici significati politici, culturali, sacri e mitici oltreché estetici, perché sono il risultato della contaminatio, cioè della fusione di attributi di piú animali, già caricati singolarmente di valenze simboliche.

LA FORZA DELLE LINEE A livello compositivo, la grande naturalezza con cui è stato scomposto e riordinato ogni motivo decorativo, favorendone la semplificazione delle forme e l’eleganza dell’ornamento, è il risultato della peculiare visione del mondo cinese, unita al valore che essa ha conferito al «tratto» e al suo prolungamento in «linea»: come accade in pittura e in calligrafia, ma anche in scultura e in architettura, la linea ha conferito la forza espressiva, trasmettendo il valore estetico dell’arte cinese. Nell’ambito di scelte in cui il tatto conta tanto quanto la vista, gli utensili appartenenti al corredo funebre sembrano valorizzare gli attributi intrinsechi della materia e, soprattutto, l’inventiva tecnica, che non è il risultato del genio artistico di un singolo individuo, ma dell’a-

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CIVILTÀ CINESE/10 • BENI DI LUSSO

bilità artigianale di una équipe specializzata in elaborati metodi di lavorazione. La destrezza nella manualità artigianale si estende ai campi della metallurgia, dell’oreficeria, dell’ebanisteria, della tessitura, della ceramica, ecc., facendo rientrare questi arredi nei canoni occidentali delle arti «minori» e/o «applicate» anziché in quelle «maggiori», espressioni oramai in disuso ma che hanno radici lontane anche se discutibili, risalenti almeno alla disputa sul primato delle arti di età rinascimentale.

Con la cultura Liangzhu (32002200 a.C.), nell’area del delta del Fiume Azzurro (Yangzi), si raggiunse l’apice per raffinatezza: la giada utilizzata quasi esclusivamente per La parte sommitale di un bruciaprofumi in bronzo dorato e argento a forma di montagna universale Bo (Bo shan lu), da una delle tombe del mausoleo di Wu, imperatore della dinastia Han, a Xingping. 137 a.C. circa, Xian, Museo Provinciale dello Shanxi.

MITO E RELIGIONE A partire dal Neolitico, la giada, pietra preziosa (nefrite) durissima e difficile da lavorare, divenne il primo materiale scelto per scolpire oggetti di lusso arricchiti da molteplici decorazioni di figure composite che rievocano il ricco patrimonio mitologico e sacrale della Cina antica. La lavorazione di questa pietra prevedeva tempi molto lunghi e l’impiego di abbondante manodopera, la cui abilità sconfina spesso nel virtuosismo.

uso cerimoniale fu elevata a emblema di rango, autorità e ricchezza, inalienabili anche dopo la morte. Tra i reperti si distinguono soprattutto i bi (dischi con un foro al centro), che col tempo si arricchirono di ornati a rilievo, e gli cong (parallelepipedi quadrangolari con un ampio foro al centro), di varie proporzioni (fino a 3,5 kg), spesso decorati con volti simili a maschere antropomorfe e zoomorfe. La loro persistenza nel tempo è documentata dai ritrovamenti che ne attestano l’uso funerario, sebbene in maniera sporadica, fino al periodo Han (206 a.C.-220 d.C.), quando la giada divenne simbolo di immortalità. Pur perdendo il ruolo centrale conseguito nell’ultima fase del Neolitico, la pietra conservò il significato di bene di lusso e si arricchí sempre piú di attributi taumaturgici e magico-sacrali, tanto da diventare il talismano prediletto del popolo cinese, soprattutto durante l’ultima dinastia imperiale (Qing 1644-1911). Alcuni dei suoi principali tratti distintivi confluirono poi su un altro materiale, il

LE TECNICHE La lavorazione della giada prevedeva l’utilizzo di sabbie abrasive, come la quarzite, o pietre piú dure, ma non sempre è possibile individuare con precisione gli strumenti e le tecniche di lavorazione utilizzati. Piú chiari sono i metodi per la metallurgia, come le matrici a sezioni a cui si aggiunse, almeno a partire dal V secolo a.C., la tecnica della cera persa. Il primo metodo si basava su stampi a sezioni, realizzati in argilla refrattaria, tolti dopo che il bronzo liquido versato si era solidificato. La tecnica a cera persa invece, già utilizzata in Occidente, prevedeva un modello realizzato in cera, poi ricoperto di argilla, che,

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una volta sciolto alle alte temperature, veniva «sostituito» dal bronzo colato e poi solidificato. L’intarsio ad agemina prevedeva, prima della fusione, l’introduzione di placchette metalliche che, tenute contro la matrice attraverso appositi sostegni, non venivano ricoperte dal bronzo fuso, trovandosi incastonate nello spessore dell’oggetto. La lavorazione della seta partiva dalla bachicultura con cui veniva nutrito il lepidottero (bombyx mori) in maniera tale che formasse il bozzolo da cui veniva ricavato il finissimo filamento. Oltre alla filatura, la lavorazione includeva anche la tessitura e il ricamo.


bronzo, con cui sono stati celebrati i nuovi canoni del lusso: oltre alla materia prima e alle tecniche di lavorazione, cambiarono anche le dimensioni e i volumi degli oggetti, fino ad arrivare nel XII secolo a.C. al vaso quadrilobato, dall’aspetto monumentale, della «Regina madre Wu» (Houmuwu). Utilizzato per i banchetti presieduti dal capo sciamano, questo bronzo rituale è alto 133 cm e pesa ben 875 kg, è quasi completamente decorato con maschere e animali compositi; per la sua realizzazione, si rese necessario il coinvolgimento di circa 3000 artigiani. Le testimonianze archeologiche sulle origini della lavorazione del metallo risalgono almeno al Neolitico Tardo, come attestano, per esempio, i reperti di alcune culture del III millennio a.C. ( Q i j i a , H o u s h a og o u e Longshan).Tra molti studiosi rimane salda l’ipotesi che la metallurgia sia stata importata, perché piú tarda rispetto ad altri contesti geografici, anche se le tecniche cinesi di fusione, basate su matrici a se-

zione, non hanno nulla a che vedere con la forgiatura comunemente praticata in Medio Oriente.

Se è vero che gran parte del complesso vocabolario figurativo presente sui manufatti in giada venne accolto e riadattato sul bronzo, è altrettanto certo che le forme dei UN IMPATTO DECISIVO Indipendentemente dalle sue ori- vasi in metallo e alcuni motivi degini, è comunque indiscutibile lo corativi recepirono dal Neolitico straordinario impatto che, almeno un’altra grande eredità: quella della a partire dal 2000 a.C., l’arte del ceramica. Non a caso, la bronzistica bronzo ha avuto sul contesto so- e la coroplastica sono comuneciale e culturale della civiltà cinese. mente chiamate le «arti del fuoco», Vasi, armi, strumenti musicali e in quanto dipendono entrambe ornamenti vari furono utilizzati dall’abilità con cui i maestri artiquasi esclusivamente per il culto e le offerte durante le cerimonie rituali, comunque per scopi tendenzialmente inerenti alla sfera del sacro.

La lacca veniva ottenuta da una resina lattiginosa estratta per incisione dalla corteccia di alcune piante (rhus verniciflua), che una volta filtrata, assumeva un aspetto pastoso. Veniva poi lavorata per ricavarne oggetti, o usata come vernice, in strati sottilissimi sovrapposti in gran numero (almeno 30 per gli oggetti di maggior pregio). La porcellana è principalmente composta da un’argilla bianca, refrattaria, chiamata caolino, e da una roccia feldspatica, detta petunzè, che, una volta portate ad alte temperature, fondono e producono il pregiato rivestimento vetroso (invetriatura).

Due esemplari di impugnature di spada ad ajouré in oro, realizzate con la tecnica a cera persa, dinastia Zhou (a sinistra, Londra, British Museum; a destra, Baoji, Missione Archeologica).

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CIVILTÀ CINESE/10 • BENI DI LUSSO

giani sono riusciti a controllare i vari gradi di temperatura. La perizia e l’abilità acquisite nel cuocere le raffinate ceramiche, capaci di resistere a cotture elevate, vennero sfruttate per la preparazione delle matrici in terracotta, destinate alla fusione dei metalli. E non è un aspetto secondario, se si considera che le forme dei vasi sono intimamente vincolate alle loro decorazioni, perché sottostanno alle medesime tecniche di realizzazione e alla maestria artigianale che sconfina spesso nell’estro artistico. Con il metallo furono forgiati oggetti di varie dimensioni, arricchiti da decorazioni che attingono, ancora una volta, alla sfera mitologica, con cui vengono sanciti il potere religioso e quello temporale conseguiti dalla classe dominante. L’apice estetico si raggiunse con l’ultima fase della dinastia Shang (16001050 a.C.), come testimonia il ricchissimo corredo, straordinariamente intatto, della tomba della regina Fu Hao (Anyang, Henan, 1200 a.C.), che comprende 1800 oggetti funerari tra i quali si distinguono, per l’elevata fattura, i 460 bronzi ma anche i raffinatissimi utensili in giada, osso, pietra, avorio e ceramica, spesso decorati con intarsi di turchese, che ci danno la misura di quale dovesse essere il tenore di vita dei nobili dell’epoca. I cinque secoli di divisioni e guerre che precedettero l’unificazione imperiale (221 a.C.), accelerarono i progressi tecnologici che portarono alla scoperta della ghisa malleabile e del ferro, ma anche al perfezionamento dei procedimenti di saldatura, sovrastampaggio e di ribaditura, in concomitanza con la comparsa di Figurina di giada, dalla tomba della regina Fu Hao, scoperta ad Anyang (Henan) 1200 a.C. circa. Il personaggio indossa un’ampia veste, con una stola: a quest’ultima allude probabilmente la curiosa protuberanza sagomata che si nota sulla schiena. 74 a r c h e o

una tecnica che arricchí il repertorio artistico cinese di nuove tendenze stilistiche: l’ageminatura. Il suo virtuosismo, infatti, condizionò il gusto decorativo dai forti caratteri regionali.

RETICOLI SENZA FINE Nella Cina meridionale, per esempio, si distinse l’ornamentazione a intreccio che divenne una sofisticata trama decorativa (texture): le figurazioni mitiche di derivazione faunistica attorcigliarono sempre piú i propri corpi, in un fitto reticolo senza fine, nel quale risulta difficile risalire alle singole decorazioni.

Nel Nord della Cina, invece, i motivi decorativi rafforzarono le influenze stilistiche provenienti dall’esterno. L’arte delle steppe, in particolare, nella sua immensa area di estensione – che dal cuore dell’Eurasia, attraverso la Siberia meridionale, arrivava fino al Nord-Ovest della Cina –, era al servizio di un’aristocrazia guerriera che ostentava un gusto marcato per i metalli preziosi, primo fra tutti l’oro. I motivi zoomorfi iniziarono quindi ad assimilare una particolare vivacità cromatica ottenuta con le diverse tecniche di ageminatura, nelle varianti in oro, rame e argento, con cui ven-


YI E LA SUA «GRANDE ORCHESTRA» Per avere un’idea del lusso degli utensili appartenenti al corredo funebre dell’élite cinese, possiamo prendere come esempio la tomba del marchese Yi di Zeng (a Leigudun, Hubei), databile al 433 a.C. (420 a.C. al 14C). Accompagnato da otto bare e da una contenente un cane, il marchese è stato sepolto dentro sarcofagi laccati e dipinti (posti uno dentro l’altro): quello piú interno conteneva sete e giade distribuite uniformemente attorno allo scheletro del defunto, che porta in vita una cintura d’oro e su un lato un coltello di giada. La bara esterna è circondata da armi, da un carro e da casse per abiti decorati, recipienti d’oro, oggetti di legno laccato (mobili, recipienti, cetre), scatole di vimini e la scultura di un cervo in legno laccato. È stato ritrovato un basso tavolo provvisto di dischi per fusi con seta. Il corredo della sepoltura è costituito da ben 15 404 manufatti, tra bronzi, tessuti, ori, giade, legni laccati, pelli e ceramiche. La camera centrale, che rievoca la sala delle cerimonie di un’abitazione aristocratica, è colma di 125 strumenti musicali di bambú, bronzo, pietra e legno, comprendenti campane, tamburi, strumenti a corda, organi a fiato, flauti, affiancati da ben 1851 accessori, tra cui telai, bacchette e supporti per la sospensione e vasi rituali di bronzo. Sulle pareti ovest e sud è collocato il grande carillon di 65 campane, ognuna provvista di iscrizioni (3755 caratteri in totale), perlopiú con caratteri intarsiati in oro. Non mancano altri reperti di rilievo, come, per esempio, un pendente di giada decorato da un motivo intrecciato e una mappa astronomica su una cassetta di legno laccato.

ne affrontato con frequenza il tema della caccia e del combattimento tra animali selvaggi. Un acuto senso del ritmo e del disegno pervade le decorazioni e i nuovi canoni tengono conto della riproposizione fedele dell’aspetto naturalistico, talvolta arricchito persino da «sculture» a tutto tondo, cosí insolite rispetto alle «forme lineari» dello stile cinese. Pur perdendo la centralità politica, rituale e artistica,

detenuta per oltre un millennio, il bronzo continuò a essere un metallo simbolicamente rappresentativo dell’eleganza e del prestigio: lo attesta l’eccellenza dell’arte plastica di epoca Han (207 a.C.-221 d.C.). A causa del maggior valore conferito ai manufatti in giada e in bronzo, l’oro e l’argento non hanno avuto in Cina lo stesso prestigio di cui godettero in Occidente, anche se i

In alto e qui sopra: un pendente in giada con drago e fenice e una zuppiera in oro appartenenti al corredo del marchese Yi di Zeng. A sinistra: una ricostruzione in scala della sua tomba, scoperta a Leigudun (Hubei) e databile al V sec. a.C.

primi reperti risalgono almeno al III millennio a.C. (culture Qijia e Houshaogou). In epoca Shang l’oro battuto e quello fuso vennero utiliza r c h e o 75


CIVILTÀ CINESE/10 • BENI DI LUSSO

DALLE SEMPLICI GEOMETRIE AI RACCONTI PER IMMAGINI Nel Neolitico Medio (5000-3000) il repertorio decorativo favorisce motivi tendenzialmente ornamentali e geometrici, combinati spesso in modo sorprendente, con elementi figurativi, di origine mitologica. Nell’ultima fase del Neolitico (3000-2000 a.C.) i motivi zoomorfi acquisirono, soprattutto sulla giada, una sempre maggiore rilevanza, e divennero durante l’età del Bronzo (2000 a.C.-VI secolo a.C.), i soggetti prediletti, ritratti praticamente su

tutti gli utensili finalizzati ai riti dell’élite dominante. Col tempo, i bronzi vennero anche istoriati con scene di caccia e di guerra, di leggende e di eventi storici. A seguito della fondazione dell’impero (dal 221 a.C.), spirali e volute, nubi e vortici si muovono tra figure reali o mitiche, creando un dinamico spazio animato. Dai primi secoli dell’era volgare, si intensificano gli influssi provenienti dall’Asia centrale: rosoni, file di

perle, palmette e medaglioni con figure danzanti e leoni documentano il gusto dei Cinesi per l’«esotismo», che si protrae fino al periodo Tang. Con il succedersi delle varie dinastie si distinguono tematiche appartenenti ai motivi decorativi cinesi, come fiori, uccelli, figure umane, paesaggi che si confondono talora con motivi lineari e, dal XVI secolo, con stili e tematiche finalizzate al fiorente commercio per l’esportazione.

zati soprattutto per realizzare gioielli (orecchini e forcine per capelli), ma i ritrovamenti di fogli d’oro aventi uno spessore inferiore al millimetro, in numerose tombe del periodo, conferma la grande abilità degli artigiani cinesi nel sapere modellare anche questo duttile e malleabile metallo. Un’impennata della lavorazione si registra quando, accanto alla creazio-

ne di gioielli, l’uso di metalli preziosi rese comune la tecnica della gemina su bronzo. Ma non è tutto. La gamma delle formule decorative si ampliò ulteriormente con la possibilità di combinare piú metalli (ferro, rame, oro, argento e bronzo), pietre semipreziose (turchese e malachite), ma anche lacca: le conseguenze dell’evoluzione del lusso furono immediate per la formazione

In alto: recipiente dorato con fiori di loto e motivi zoomorfici. Dinastia Tang, VII-X sec. Xian, Museo dello Shaanxi. Nella pagina accanto: incensiere in bronzo parzialmente dorato, opera di Hu Wenming. Dinastia Ming, 1613.

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di uno stile ornamentale che, mediante l’ageminatura, raggiunse alte vette di creatività artistica. Grazie ai contatti instaurati con


l’Asia centrale gli orafi cinesi si impadronirono di lavorazioni piú leggere e raffinate, come la filigrana e la granulazione (piccole sfere d’oro saldate su lamine dello stesso metallo per comporre motivi decorativi). Soprattutto durante l’epoca Tang (618-907) – quando la corte imperiale e la ricca aristocrazia privilegiarono, ancor piú, un gusto profondamente ibrido – brocche e coppe lobate o a stelo presentarono una commistione di motivi decorativi tradizionali cinesi ed elementi stilistici derivati dall’Asia centrale, dall’India e persino dalla Persia sasanide. Il lusso trova un nuovo impulso creativo, soprattutto per le tematiche, che celebrano il carattere multiculturale dell’impero, favorendo anche la coesistenza di motivi e stili eccentrici, siano essi naturalisti-

ci, compositi, geometrici o puramente grafici, in un dinamismo di ritmi che deflagra nell’arditezza di figure dai tratti sorprendenti. Furono realizzate opere ottenute, oltre che per fusione, anche con la lavorazione a cesello, a sbalzo, a ricalco con o senza finto rilievo e a repoussé (combinazione della tecnica a sbalzo e a ricalco), per incisione.

UN’ESCLUSIVA FEMMINILE Il lusso cinese non è visibile solamente sulla scultura litica e sulla metallurgia, ma anche sulla seta. Rispetto alla giada e all’oro, il tessuto serico è un materiale meno prezioso, ma la sua lavorazione richiedeva competenze, esperienze e attitudini specifiche, secondo un’organizzazione del lavoro estremamente rigorosa e un regime dirigistico e gerarchizzato, che ha

trovato nell’abilità muliebre la propria fonte creativa. Tessuta finemente e arricchita con l’evoluzione dei motivi decorativi presenti sui manufatti in giada e in bronzo, la seta ha vestito, impreziosito e contraddistinto l’élite al potere, elevandosi a bene di lusso, particolarmente ambito anche al di fuori dell’impero: Lucano (39-65 a.C.), per esempio, scrisse che Cleopatra, già nel 48 a.C., sfoggiava vesti in seta, e Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) denunciava con severità lo sperpero per le sete cinesi che avrebbe portato l’impero romano alla rovina. Le fonti storiche latine attestano quindi il grande prestigio raggiunto dal prezioso tessuto che, nel corso dei secoli, si trasformò in un abbigliamento regale, una superficie su cui furono raffigurati i simboli sacri e imperiali, un tessuto che avvolse e custodí an-

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CIVILTÀ CINESE/10 • BENI DI LUSSO

che altri oggetti di lusso e ancora un bene tributario, tanto da divenire una voce fondamentale del commercio, come testimonia la famosa «via della seta». Dopo la seta anche la lacca e la porcellana furono considerate in Occidente i «beni del lusso cinese», tanto da conquistare l’epopea artistica del Settecento europeo. Anche in questo caso la loro lavorazione era particolarmente complessa e dispendiosa, perché prevedeva il coinvolgimento di numerosi artigiani specializzati. Col tempo la lacca si arricchí di incrostazioni – dai lapislazzuli, all’avorio, fino al corallo, quarzo, agata, turchese, giadeite –, cosí come la porcellana, nel segno di un ricercato virtuosismo, acquisí le forme e l’intensità cromaticadi altri materiali quali il bronzo, il cloisonné, il vetro e il legno.

ALLA MANIERA CINESE La koinè eurasiatica divenne la bizzarra ispirazione esotica per il fenomeno, tutto europeo, della moda orientale della chinoiserie: collezioni di lacche, porcellane, giade, bronzi e tessuti serici, provenienti dalla Cina, stipate tra intagli dorati, specchi, pitture e stucchi, non possono che testimoniare una radicata cultura cosmopolita, dove l’amore per l’esotico e un’affabulazione creativa assorbita entro categorie ornamentali di conio europeo, unirono il gusto orientalizzante con l’inflessione gioiosa e bizzarra dello stile rococò. 78 a r c h e o

cinesi, in altre parole, imitarne il loro lusso: i committenti delle opere, non a caso, furono i sovrani di tutta Europa, dalle corti alla ricca aristocrazia fino alla borghesia. Al di là delle varie eccezioni, il segreto che ha permesso al prodotto artistico cinese di elevarsi a oggetto di lusso, cosí ambito per lungo tempo, anche al di fuori dei propri confini imperiali, è la contaminatio: le tecniche, ma anche gli stili e i motivi decorativi, cosí come i simboli sacri, politici e popolari, e i contributi provenienti dall’esterno hanno riconosciuto nella commistione di forma e contenuto e nella condivisione delle valenze culturali di cui furono depositari, un’inesauribile fonte di creatività. (10 – fine) In alto: veste in seta ricamata. Epoca Qing (1644-1911). Collezione privata. L’abito presenta una ricca decorazione: nella parte superiore, che rappresenta il cielo, vi sono medaglioni con draghi a cinque artigli (solitamente associati all’imperatore), tra nuvole e simboli di buon auspicio; nella sezione inferiore compaiono le onde stilizzate degli abissi oceanici.

I numerosi e spesso vani tentativi di imitazione da parte degli Occidentali, come testimonia per esempio la «lacca contraffatta» o alla cinese o la «porcellana tenera», erano tutti orientati a carpire il segreto della qualità e del pregio dei prodotti

NELLE PUNTATE PRECEDENTI Ecco l’elenco delle puntate precedenti di questa serie: • 352 Il racconto delle rocce (l’arte rupestre) • 354 Uno, nessuno e centomila (il drago, prima parte) • 355 Trinità imperiale (il drago, seconda parte) • 356 Il rosso e il nero (la lacca) • 357 Sublimi riflessi (la porcellana) • 358 Il potere del baco (la seta) • 359 La forma delle idee (la scultura) • 360 Costruire secondo natura (l’architettura)



GLI IMPERDIBILI • PATERA DI PARABIAGO

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L’UNIVERSO IN UNA

COPPA

RECUPERATA AI PRIMI DEL NOVECENTO, LA SPLENDIDA PATERA DI PARABIAGO PRESENTA UNA DECORAZIONE DEDICATA AL TRIONFO DELLA DEA CIBELE. È DUNQUE UNA TESTIMONIANZA PREZIOSA DELLA SOPRAVVIVENZA, NEI PRIMI SECOLI DEL CRISTIANESIMO, DELL’ANTICHISSIMO CULTO DELLA GRANDE MADRE di Daniele F. Maras

N

el 1929 l’ingegner Guido Sutermeister, infaticabile appassionato delle antichità del territorio milanese, era intento a raccogliere materiale e informazioni per una carta archeologica del Comune di Parabiago. Si imbatté allora nella notizia di un prezioso oggetto archeologico conservato nella collezione privata di Felice Gajo, Senatore del Regno e proprietario di una villa in loco. Si trattava di una coppa d’argento con figurazioni a rilievo che, secondo le informazioni fornite dal possessore, era stata ritrovata nel 1907, durante i

lavori per la sistemazione del giardino intor no alla villa, all’interno di «un ricco loculo», che, in base alle note di Sutermeister, conteneva: «Un’anfora peduncolata contenente alcuni fittili, due cucchiai di bronzo e altri oggetti non ben identificabili (forse due piattini d’argento)». La coppa d’argento faceva da coperchio dell’anfora, la cui imboccatura era stata segata, evidentemente per utilizzarla come urna cineraria. Particolare della decorazione della coppa in argento nota come Patera di Parabiago. IV sec. d.C. Milano, Museo Civico Archeologico. a r c h e o 81


GLI IMPERDIBILI • PATERA DI PARABIAGO

Il vaso fu segnalato prontamente e solenne dio con scettro e mantello, spazio di risulta al di sopra delle all’allora soprintendente, Alda Le- incapsulato nel cerchio dello zodia- divinità marine, danzano quattro vi Spinazzola, che avviò una trat- co, il quale a sua volta è sostenuto da putti con gli attributi delle stagiotativa con la famiglia Gajo, grazie un vigoroso Atlante che spunta a ni in ordine sparso: falcetto e spialla quale esso venne ceduto alle mezzo busto dal terreno. Con ogni ghe per l’Estate; un grappolo d’ucollezioni statali, potendo cosí es- probabilità si tratta del Tempo, sim- va per l’Autunno; un agnello per sere esposto dapprima nella Pina- bolo di eternità per il culto di Cibe- la Primavera; un ramo d’olivo e coteca di Brera (1933) e poi nel le, la «Grande Madre» della tradizio- un mantello per l’Inverno. Museo Archeologico di Milano, ne romana. Alle spalle del dio, un Sembra chiaro che la coppa sia dove tuttora è custodito, dopo corto obelisco, stretto tra le spire di stata l’oggetto di maggior valore di aver subito interventi di restauro un serpente, sembra ribadire il con- un set di suppellettile preziosa utitra gli anni Cinquanta e Sessanta. cetto di eternità e un riferimento lizzato per il culto di Cibele – o Nulla si sa, purtroppo, del restante solare in chiave egiziana; e alla sfera che perlomeno alludeva all’intemateriale del contesto archeologico, simbolica del tempo possono essere resse per la dea – in un contesto rimasto separato dalla coppa e oggi riferiti anche il grillo e la lucertola privato di alto rango della tarda probabilmente andato disperso. riprodotti sotto Atlante. romanità pagana. La Grande MaLa coppa appartiene a una dre aveva un ruolo specategoria di vasi preziosi ciale nel pantheon romaLa coppa era l’oggetto di no, essendo allo stesso decorati a rilievo con scene mitologiche o di traditempo una figura divina maggior pregio di un set zione cristiana e datati nel straniera e in qualche corso del tardo periodo legato alla pratica privata modo aliena dalla norimperiale, con particolare male religione dei padri, del culto di Cibele addensamento fra il IV e il eppure anche una diviniV secolo. Al di là del pretà delle origini troiane, gio del metallo – argento quasi pu- Altre figure allegoriche incorni- percepita come legata alle fasi piú ro, con una modesta percentuale di ciano la scena, al di sopra e al di remote della storia di Roma. rame e con l’aggiunta di alcune sotto del carro di Cibele. In cielo coloriture in oro – la coppa è arric- si susseguono in processione verso DALL’ANATOLIA A ROMA chita da una decorazione a rilievo destra: la quadriga del Sole sorgen- L’introduzione del suo culto a Rorealizzata a fusione piena, che rap- te, lanciata al galoppo secondo ma era stata comandata nel 204 a.C. presenta il trionfo di Cibele nel un’iconografia dell’età di Costan- da un oracolo dei Libri Sibillini, che contesto di un’allegoria cosmica. tino; Phosphoros, la stella del matti- il corpo speciale dei decemviri conno, rappresentato come un putto sultava su ordine del Senato in sialato che solleva una fiaccola in tuazioni di pericolo, tali da richieLA DEA CON LA alto; il carro di Selene, la luna, trai- dere una revisione della religione CORONA TURRITA Il carro della dea, trainato da quattro nato da due tori; Vespero, la stella ufficiale. In questo caso il pericolo, leoni «al galoppo», corre da sinistra della sera, identico a Phosphoros, ma estremamente concreto, era costitua destra, circondato da tre figure di in atto di spingere la fiaccola verso ito da Annibale, che aveva messo in ginocchio le forze di Roma, presucoribanti (sacerdoti orgiastici), che il tramonto. danzano agitando scudi e pugnali. Nella metà bassa della coppa, in- mibilmente grazie alla protezione Cibele è seduta sul carro, avvolta in vece, sono rappresentate le acque degli dèi di Cartagine. un’ampia veste, e sostiene nella de- dolci a sinistra, nella forma di due Consultati in proposito, i Libri Sistra uno scettro, mentre la testa è, ninfe assise, che recano una canna billini avevano prescritto di ripristicome di consueto, coronata di mer- palustre, mentre un’anfora rove- nare un culto delle origini, imporli da fortificazione (corona turrita). sciata allude alla fonte di un fiume. tando dall’Anatolia – che in ultima Al suo fianco siede l’amato Attis Al centro, Oceano e Teti sorgono analisi era la patria di Enea – il si(vedi box a p. 85), che tiene le redini dai flutti, dai quali fanno capolino mulacro della Grande Madre Cibee indossa il tipico berretto frigio; quattro pesci boccheggianti, men- le. Si direbbe che in questo modo suoi attributi sono il flauto di Pan tre a destra è raffigurata la dea si intendesse garantire a Roma la della Terra, mollemente adagiata protezione di una divinità orienta(syrinx) e un bastone da pastore. Meta del loro viaggio sembra essere con la cornucopia in mano e ac- le altrettanto e forse piú grande di un gruppo di figure sulla destra del compagnata da due amorini che quelle cartaginesi. piatto, fra le quali spicca un giovane rappresentano i frutti. Infine, nello La dea fu trasportata dal suo santua82 a r c h e o


CARTA D’IDENTITÀ DELL’OPERA • Nome Patera di Parabiago • Definizione Coppa d’argento con decorazione a soggetto mitologico (diametro 39 cm circa) • Cronologia Seconda metà del IV secolo d.C. • Luogo di ritrovamento Parabiago (Milano) • Luogo di conservazione Milano, Museo Archeologico • Identikit Preziosa suppellettile per il culto privato

Coribante (sacerdote di Cibele) Phosphoros (stella del mattino)

Carro di Selene

Quadriga del Sole Vespero (stella della sera) Attis Aion (tempo assoluto)

Cibele

Coribante (sacerdote di Cibele)

Ellisse dello Zodiaco

Atlante Coribante (sacerdote di Cibele)

Ninfe Tellus (dea della terra)

Allegoria delle Stagioni con putti danzanti con attributi Oceano

Teti

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A destra: Pompei, Casa di Pinarius Cerialis e Cassia. Affresco raffigurante Attis e la ninfa Sangaritide. Nella pagina accanto, in basso: replica di un rilievo raffigurante Cibele e Attis, da un’ara dedicatoria. 295 d.C. Roma, Museo della Civiltà Romana.

rio di Pessinunte sotto forma di una pietra sacra e installata a Roma. Contrariamente all’uso, però, il culto straniero non fu praticato ai margini della città, fuori del circuito sacro del pomerio; bensí, con la scusa che la dea era di casa presso i discendenti dei Troiani, alla Magna Mater fu dedicato un tempio sul Palatino, dove piú tardi divenne una delle divinità protettrici della casa imperiale.

LO SCETTICISMO DEI ROMANI Ciononostante, i Romani non furono mai del tutto convinti dell’appartenenza di questo culto alla propria tradizione; motivo per cui i sacerdoti vennero fatti arrivare dalla Frigia e ai cittadini di pieno diritto fu proibito di prendere parte ai misteri della dea. Ma che cosa, dunque, risultava cosí intollerabile agli occhi dei Romani in questi riti? Di fatto, il culto anatolico di Cibele era terribilmente cupo e sanguinoso, essendo basato su rituali orgiastici sfrenati di autoflagellazione e ferimento, che arrivavano all’autocastrazione dei devoti piú fanatici e dei sacerdoti. 84 a r c h e o

Gli operatori del culto, chiamati galli con una parola di origine orientale (e il loro capo archigallo), praticavano la questua e presiedevano alle festività, che spesso avevano un carattere orgiastico. Fra i riti, al di là dei dettagli masochistici e autolesionisti, si contemplava il taurobolion, che comprendeva una sorta di battesimo nel sangue di un toro sacrificale, e anche una pratica «medica», basata sulla corrispondenza tra le divinità e la musica. L’aspetto musicale, infatti, era parte integrante e fondamentale del culto della dea e strumenti musicali come cimbali, tamburi, flauti e lire caratterizzavano sacerdoti e devoti sin dall’epoca arcaica, in Anatolia come in Grecia e poi a Roma. E forse a cimbali (una sorta di sonagli) vanno ricondotti i «piattini» d’argento menzionati nella notizia del rinvenimento della Patera di Parabiago. L’aspetto esotico di questi riti, con la loro particolare crudezza e brutalità da un lato, e l’ambiguo status dei sacerdoti eunuchi dall’altro (a un tempo menomati e assurti per questo a un rango superiore), era decisamente poco affine alla piú antica tradizione religiosa romana, che in-

tegrava famiglia, religione e politica in un’unica organica sfera rituale. Ciononostante, il culto di Cibele prese piede stabilmente a Roma e venne esportato in tutto l’impero e infine, come anche in altri casi di culti misterici, fu tra gli ultimi resti del paganesimo a scomparire sotto la spinta del cristianesimo.

L’ORAZIONE DI GIULIANO Per questo motivo alcuni hanno voluto vedere nella Patera di Parabiago il frutto della propaganda delle famiglie aristocratiche pagane in opposizione all’evangelizzazione cristiana. Infatti, la cronologia nella seconda metà del IV secolo si pone suggestivamente a metà tra l’età di Costantino, che per primo liberalizzò il cristianesimo, e quella di Teodosio, che ne fece la religione di Stato. In questo lasso di tempo si pose il regno dell’imperatore Giuliano, detto l’Apostata per il suo tentativo di respingere la dottrina cristiana e reintrodurre il paganesimo, sotto l’influsso della filosofia neoplatonica. Non a caso, lo stesso Giuliano si proclamava devoto di Cibele, alla quale aveva dedicato l’orazione Alla madre degli dèi.


IL MITO DI ATTIS Il culto e i riti di Cibele sono strettamente intrecciati con i suoi miti, che vedono protagonista il fanciullo frigio Attis, amato dalla dea e divenuto prototipo dei suoi sacerdoti asessuati. Diverse varianti del mito sono giunte, tutte assai complesse e spesso confuse, a dimostrazione della natura misterica del culto, che solo in parte era svelato ai non adepti. Secondo una variante, Attis aveva promesso a Cibele di conservare la propria purezza fanciullesca, giurando che se mai avesse un giorno agito da uomo, quella sarebbe stata la prima e l’ultima

volta. Quando però il giovane cedette alle lusinghe della ninfa Sangaride, la Grande Madre lo fece impazzire fino al punto di autoevirarsi; in seguito, una volta perdonato, divenne il primo seguace del culto della dea. Un’altra variante introduce l’ambigua figura di Agdistis, un essere ermafrodito nato dal seme di Zeus che aveva fecondato una roccia o la terra: gli dèi tentarono di ripristinare l’ordine naturale evirando Agdistis, ma dall’operazione nacque un mandorlo, che, a sua volta, ingravidò una principessa frigia.

Ne nacque Attis, il quale, fattosi adulto, suscitò l’amore di Agdistis, che ne impedí il matrimonio, facendo uscire di senno tutti coloro che stavano partecipando alla festa organizzata per le nozze. Purtroppo anche Attis cadde preda della follia e finí con l’autoevirarsi; ma Agdistis ottenne di non farlo morire e di conservarlo in una sorta di sonno eterno. A complicare ulteriormente le cose, diverse fonti considerano Agdistis un epiteto di Cibele, mentre altre sembrano indicarle come due figure divine diverse, entrambe innamorate dello sfortunato Attis.

Tuttavia, è difficile che un oggetto di piccole dimensioni come la coppa potesse farsi veicolo di propaganda politica e religiosa. È invece probabile che i committenti della Patera esprimessero con essa la propria

aderenza, almeno nel privato, alla religione pagana e al culto della Grande Madre. La provenienza dai dintorni di Milano indica con buona probabilità la presenza in zona della residenza di una famiglia ari-

stocratica, presumibilmente di rango senatoriale, installata nei pressi della capitale, che già alla fine del III secolo l’imperatore Massenzio aveva spostato da Roma a Mediolanum, per ragioni di ordine strategico. Un diverso problema è invece quello del luogo di produzione, per il quale Luisa Musso ha ritenuto piú probabile un’officina dell’antica capitale, dal momento che Roma continuava a fornire beni di lusso per l’apparato cerimoniale pubblico e privato dell’impero, come informa una lettera dello statista Quinto Aurelio Simmaco nel 394 d.C. PER SAPERNE DI PIÚ • Luisa Musso, Manifattura suntuaria e committenza pagana nella Roma del IV secolo. Indagine sulla lanx di Parabiago, Roma 1983 • Anna Maria Volonté (a cura di), La patera di Parabiago, catalogo della mostra, Parabiago 2010.

NELLA PROSSIMA PUNTATA • Il guerriero di Castiglione di Ragusa a r c h e o 85


SPECIALE • NOME

IL LEONE CACCIATORE Particolare di un sarcofago in marmo bianco lunense con leone e antilope. 270-280 d.C. Roma, Musei Capitolini, Palazzo Nuovo. 86 a r c h e o


QUANDO ROMA VISSE LA SUA ETÀ DELL’ANGOSCIA

UNA BELLISSIMA MOSTRA AI MUSEI CAPITOLINI DI ROMA INDAGA UN’ EPOCA DI CRISI E CAMBIAMENTI NELLA STORIA IMPERIALE, SCRUTANDO L’ESPRESSIONE DEI SUOI PROTAGONISTI contributi di Eugenio La Rocca, Marco Maiuro, Massimiliano Papini e Claudio Parisi Presicce

D

a sempre, il collasso dei sistemi di riferimento sociali ed economici ha avuto come effetto principale quello di compromettere la quotidianità della vita delle persone, che, in modo progressivo e rapido, si trovano ad affrontare l’angoscia del reale. In questi giorni, una mostra ai Musei Capitolini di Roma affronta i grandi cambiamenti che segnarono l’età compresa tra i regni di Commodo (180-192 d.C.) e Diocleziano (284305 d.C.), comunemente ritenuto un secolo di «crisi». Per il III secolo d.C., infatti, le cronache evidenziano alcuni elementi che sembrano richiamare, seppur con le dovute differenze, i problemi della nostra attualità: l’aumento della pressione dei barbari sui confini dell’impero, le spinte secessioniste (si pensi all’impero delle Gallie e al regno di Palmira), i disordini interni (che comportarono riforme strutturali della tradizionale unità militare romana, la legione), carestie ed epidemie (come quelle nel corso dei principati di Marco Aurelio e Gal-

lieno), la crisi del tradizionale sistema economico, l’inflazione e la conseguente necessità di aggiornare continuamente la moneta, e soprattutto, la grave instabilità politica. Tutto ciò ebbe come esito una diffusa crisi spirituale e religiosa che, in un clima di ansia generalizzata, portò a un abbandono delle religioni tradizionali e all’adesione sempre piú massiccia al culto di divinità provenienti dall’Oriente: Iside, Cibele, Mithra, Sabazio. Oltre a loro, naturalmente, Cristo. Ad astrologi, indovini ed oracoli gli uomini e le donne del tempo ripetevano frequentemente le stesse domande: «Mi ridurrò a mendicare?», «Avrò il mio salario?», «Sarò venduto come schiavo?». Ma fu solo un periodo di ansie e paure? Nelle pagine che seguono, i curatori della mostra illustrano come il III secolo d.C. contenesse in nuce anche alcuni dei germogli piú fecondi destinati a mutare per sempre le età successive e ad aprire le porte verso la società tardo-antica… a r c h e o 87


SPECIALE • L’ETÀ DELL’ANGOSCIA

L’ETÀ DELL’ANGOSCIA (O, FORSE, DELL’AMBIZIONE?) È corretto vedere nella scultura del III secolo d.C. l’espressione di un’epocale inquietudine esistenziale? di Eugenio La Rocca

«…i nostri corpi riflettono la nostra condizione: terrestri che implorano la vita eterna con l’impeto infinito di spiriti ansiosi, finiti di fatto ancorché rifiutino d’esser reali».

I

versi contengono uno dei tanti pensieri di Malin (che funge talvolta da alter ego del poeta) nello stupendo, amaro epilogo, che è anche una preghiera, del lungo poema di Wystan Hugh Auden, The Age of Anxiety, pubblicato nel 1947. La Seconda Guerra Mondiale, che aveva definitivamente messo in crisi usi, costumi, mentalità del passato, senza che si potesse almeno fondare la speranza per un mondo migliore, si era appena conclusa. Il poema, che ha come sfondo un bar a New York, durante la guerra, ha per protagonisti quattro personaggi – Quant, Malin, Rosetta e Emble – che esplorano a fondo i faticosi tentativi della società umana di trovare una nuova identità e una ragione di essere in un mondo mutevole e sempre piú industrializzato. L’ansietà prodotta da tale ricerca può essere superata, suggerisce il poeta, non alterando le condizioni geopolitiche – fatto in sé praticamente impossibile –, ma coltivando un rapporto simpatetico tra gli uomini, forse un mutuo affetto che in alcuni casi può divenire amore, anche tra coloro che, dopo essersi incontrati e conosciuti, proseguono la loro strada lungo percorsi differenti, estranei l’uno all’altro. Come ha osservato l’opinionista Daniel Smith sulle pagine del New York Times del 14 gennaio 2012: «Dal momento in cui il poema è stato pubblicato, il suo titolo è stato utilizzato per caratterizzare la coscienza della nostra epoca, la consapevolezza di tutto ciò che è pericoloso nel mondo moderno: il degrado dell’ambiente, l’energia nucleare, il fondamentalismo religioso, le minacce alla privacy 88 a r c h e o

e alla famiglia, droga, pornografia, violenza, il terrorismo. Dal 1990, esso è apparso nel titolo o sottotitolo di almeno due dozzine di libri su argomenti che vanno dalla scienza alla politica ai rapporti tra genitori e figli al sesso.

IL CROLLO DEI VALORI È successo, però, che anche un grande studioso del pensiero filosofico greco, il filologo e grecista irlandese Eric Robertson Dodds, suggestionato dal poema di Auden, desse a una sua raccolta di lectures sull’età di transizione dal paganesimo al cristianesimo nel mondo antico, pubblicato a Cambridge nel 1965, il titolo: Pagan and Christian in an Age of Anxiety. Dodds, profondo conoscitore del neoplatonismo, e interessato ai problemi dell’antropologia e della psicologia, interpretò il periodo compreso tra il principato di Marco Aurelio e la conversione di Costantino – «the age of anxiety» –, come di decadenza economica e di perdita dei valori morali propri della tradizione greco-romana. Tale crisi ebbe come risultato la fioritura di un nuovo e piú profondo sentimento religioso che, all’unisono con una prospettiva intellettuale non piú rivolta verso i valori materiali della vita, diede la spinta definitiva a favore delle religioni monoteistiche e soteriologiche, che ponevano al centro del loro credo la salvezza e l’imCOME UN EROE

Busto in marmo lunense e alabastro che ritrae l’imperatore Commodo con le sembianze di Ercole. 192 d.C. Roma, Musei Capitolini, Palazzo dei Conservatori.


I PRINCIPI DI UN’EPOCA INQUIETA 180-192 Commodo 193 Pertinace 193 Didio Giuliano 193-211 Settimio Severo 211-217 Caracalla 211-212 Geta 217-218 Macrino 218-222 Elagabalo 222-235 Alessandro Severo 235-238 Massimino Trace 238 Gordiano I 238 Gordiano Il 238 Pupieno 238 Balbino 238-244 Gordiano III 244-249 Filippo l’Arabo 249-251 Decio 251-253 Treboniano Gallo 253 Emiliano 253-260 Valeriano 253-268 Gallieno 258-268 Postumo 268 Mario 268-270 Vittorino 268-270 Claudio il Gotico 270-274 Tetrico 270-275 Aureliano 275-276 Tacito 276-282 Probo 282-285 Caro 283-285 Carino e Numeriano 284-305 Diocleziano

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SPECIALE • L’ETÀ DELL’ANGOSCIA

IL III SECOLO D.C., SPECCHIO ANTICO DEL NOSTRO TEMPO Viviamo noi tutti un momento di trasformazione e crisi globale; il mondo conosciuto nell’infanzia e nella giovinezza dalla generazione dei nati nell’immediato dopoguerra non esiste piú, e chi è ora adolescente farebbe fatica anche solo a immaginarlo. Per non parlare del mondo della prima metà del secolo vigesimo, di cui duriamo fatica a comprendere anche solo i linguaggi, figurarsi le aspirazioni o le ragioni profonde. Si potrebbe obiettare che è sempre stato cosí; il tempo cancella i ricordi, e con le generazioni se ne vanno anche le memorie. La storia cambia, in quanto cambiano gli uomini e, come vuole il proverbio, gli uomini somigliano piú ai loro tempi che ai loro padri. Il cambiamento di oggi tuttavia, si potrebbe obiettare, sembra accelerato, qualcosa che sta mettendo in discussione, soprattutto in Occidente, alcuni fondamenti su cui un’intera civiltà si era fondata. Nei primi anni ’70 si poteva ancora scrivere che l’età moderna dell’età antica era il mondo ellenistico, fatto di città, di regni, di pluralità culturali sotto l’egemonia ellenica, di forti spinte progressive, di crescita economica, e soprattutto di un atteggiamento aperto, fiducioso e rivolto al futuro. Un’età del progresso, in cui poteva registrarsi un atteggiamento cosmopolita da parte dei ceti dirigenti delle città. Le scoperte scientifiche, la fondazione delle biblioteche di Alessandria

AUSTERITÀ SENATORIA

Statua raffigurante un personaggio maschile in toga. 253-260 d.C. Roma, Villa Doria Pamphili, Casino del Bel Respiro. L’anello con sigillo e le calzature (non visibili nella foto) suggeriscono si tratti del ritratto di un senatore.

mortalità dell’anima. Come affermò Dodds: «L’idea della bellezza dei cieli e del mondo passò di moda, e fu sostituita da quella dell’infinito». Il libro di Dodds fu pubblicato in italiano nel 1970 con il titolo Pagani e cristiani in un’epoca d’angoscia. È difficile ormai capire perché il termine anxiety, che vuol dire, appunto, «ansietà», «inquietudine», fosse tradotto con una parola tanto piú forte come «angoscia», che forse non rende perfettamente lo spirito né del poema di Auden né delle lectures di Dodds. Fatto sta che, sempre nel 1970, la medesima concezione fu recepita da Ranuccio Bianchi Bandinelli nel suo volume La fine dell’arte antica. Egli 90 a r c h e o


e Pergamo, la fioritura del mecenatismo artistico davano il tono di un’epoca nuova; su tutto, il prevalere della città quale modello universale di civiltà era il suggello ai valori «borghesi» o «civici» dell’Ellenismo. Un’epoca che, di fatti, la storiografia borghese sentiva come consona e vicina, simile alla propria visione del mondo. Solo 20 anni piú tardi circa, era evidente a tutti che il paesaggio intellettuale era radicalmente mutato, e che si era consumato uno straordinario sforzo, oggi ancora in corso, nel dare piena centralità e dignità a quel periodo, la tarda antichità, prima riservato all’acume storiografico di pochi valenti pionieri che avevano osato veleggiare oltre le colonne d’Ercole del II secolo d.C. L’interesse crescente e sempre vivo per questa età di mezzo caratterizzata, nell’immaginario popolare, dallo sfaldamento e dalla lenta putrefazione di quell’immenso e magnifico corpo che era stato l’Impero romano, dal prevalere delle pulsioni piú irrazionali, dall’angoscia per la fine dei tempi e dal fanatismo religioso, dal terrore per l’invasione distruttrice delle orde barbariche, infine dall’evasione e fuga dall’insaziabile avidità dello Stato e dei suoi mandarini, rifletteva come in un gioco di specchi angosce presenti e senso di perdita attuali. Poco rimane della storiografia borghese e delle sue certezze: la tarda antichità ben si presta a essere l’epitome dei tempi moderni. Marco Maiuro

DALLA PANNONIA ALL’URBE

Ritratto di Messio Traiano Decio (su busto non pertinente). 249-251 d.C. Roma, Musei Capitolini, Palazzo Nuovo. Originario della Pannonia, salí al potere per acclamazione e governò con i figli Etrusco e Ostiliano.

vedeva nella scultura di III secolo d.C. «l’espressione di angoscia spirituale», cui si affiancava però una «manifestazione di volontà di potenza che non rifuggirà da nessun mezzo per affermarsi». Secondo la maggioranza degli storici dell’arte antica fino a Bianchi Bandinelli, la trasformazione del gusto avvertibile nella produzione artistica del periodo, che dichiara una pur intermittente rottura con la tradizione greco-ellenistica e con l’abbandono dei canoni classici, avrebbe avuto le sue radici: nell’instabilità politica dell’impero romano, dilaniato dalla lotta per la conquista del potere; nel progressivo svuotarsi delle istituzioni che avevano reso grande Roma; nella pressione delle popolazioni che vivevano ai bordi dell’impero, che costrinse gli imperatori romani ad aumentare il numero delle legioa r c h e o 91


SPECIALE • L’ETÀ DELL’ANGOSCIA IL DIFENSORE DELL’URBE?

Ritratto in bronzo dorato tradizionalmente identificato con l’imperatore Aureliano. 268-275 d.C. Brescia, Musei Civici d’Arte e Storia.

ni anche con il supporto sempre piú maggioritario di ausiliari che non erano cittadini romani; nel preminente potere, anche politico, dell’esercito che aveva la possibilità di elevare i propri generali al rango imperiale e nello stesso tempo di atterrarli a favore di altri pretendenti che si fossero dichiarati piú disponibili ad ampliare il numero delle già consistenti prebende; nello squilibrio tra le spese militari e il bilancio dello Stato, che spinse la moneta entro una spirale inflazionistica, con continue e drammatiche svalutazioni e con un aumento delle imposte a danno specialmente delle province; infine, nel progressivo mutamento dei rapporti d’equilibrio tra città e campagna.

UNA CRISI PROFONDA Secondo Bianchi Bandinelli, persuaso che le opere d’arte fossero espressione di istanze sociali, la forte incertezza nel futuro, mai provata prima dall’impero in tale misura, creò le premesse per una profonda crisi spirituale e «un’azione di straniamento dalla realtà e di slittamento nell’irrazionale, nel mistico e nel magico soprattutto (…) operata dal diffondersi dei culti orientali che avevano a fondamento i “misteri” e il concetto di catarsi, di rigenerazione in una vita migliore». L’angoscia per un’esistenza priva di sicurezze e di punti fermi spinse verso la rinuncia, o verso il conflitto, oppure verso un’evasione dal mondo reale. Molti si rifugiarono nell’irrazionale, o accolsero il messaggio mistico di religioni che promettevano eguaglianza e un futuro migliore non sulla terra, ma nell’aldilà. La fuga dalla realtà, insieme con la scarsa fiducia verso la preesistente visione del mondo, ebbe significative ricadute anche sulle forme artistiche (…). Nell’arte si abbandona poco a poco la veste organica appresa dalla cultura greca a favore di un accentuato espressionismo, nel quale la forma plastica tradizionale sembra subire un’erosione, con un utilizzo sempre piú accentuato di ombre e luci. Bianchi Bandinelli affermava: «La nuova forma dell’arte figurativa, labile, disfatta, fortemente espressiva di stati d’animo depressivi, angosciosi, di tormento interio92 a r c h e o


re, ha la sua esatta spiegazione in questa particolare condizione umana». Ma quanto c’è di vero in questa suggestiva interpretazione del III secolo d.C.? Probabilmente non molto, e comunque le trasformazioni stilistiche avvertibili nell’arco del secolo non possono essere ricondotte, senza un’attenta verifica, a motivazioni di carattere psicologico ed emozionale oppure a un malessere sociale: esse sono sí il risultato di una trasformazione della mentalità e del sistema sociale fino allora vigente, ma anche di un diverso modo di vedere e di comunicare il reale e, quel che è piú importante, di rappresentare figurativamente il rapporto tra coloro che detenevano il potere e i sudditi. Non v’è nessuna certezza che la società romana ai confini del dominio del cristianesimo fosse dominata dalla superstizione, dal male di vivere, da una riduzione del razionalismo piú di quanto non fosse percepibile anche in altri periodi della storia grecoromana. Peter Brown, in una serie di lectures che, pubblicate nel 1978 con il titolo The Making of Late Antiquity, hanno contribuito a mutare in modo considerevole il nostro approccio a questo periodo storico, ha giustamente ricordato che nel III secolo d.C., sotto il profilo religioso, non avviene nulla di cosí dirompente come la «valanga» del movimento dionisiaco che effettivamente mutò la percezione del sacro nel mondo greco, o di cosí improvviso come la costruzione della teocrazia islamica.

LOTTE DI POTERE Naturalmente ciò non significa che la situazione politica e sociale del III secolo d.C. fosse uguale a quella dei secoli passati. Una incredibile concatenazione di eventi creò nel secolo le premesse per una lotta di potere che ebbe drammatiche conseguenze per la stabilità dell’impero. A ciò si devono cer-

PROVE DI FORZA

Ritratto colossale di Probo. 276-282 d.C. Roma, Musei Capitolini, Palazzo Nuovo. Riaffermò l’unità dell’impero vincendo i Goti, i Franchi e gli Alemanni.

tamente aggiungere un bilancio pesantemente squilibrato a favore della difesa, e di qui una continua bancarotta, la svalutazione costante della moneta, le enormi tassazioni per pagare convenientemente gli eserciti stanziati alle frontiere, infine la drastica contrazione di elargizioni da parte dei ceti piú ricchi, una perdita del concetto di philotimia (parola greca che significa «desiderio di gloria», ma anche l’impegno attuato per guadagnarsi il rispetto degli altri con le proprie azioni) che per tutto il II secolo d.C. era stato un motore essenziale per la qualità della vita delle comunità civiche. I centri urbani solo in tal modo, o al massimo con la munificenza imperiale, potevano sostenere le spese per la costruzione di magnifici edifici pubblici, o per la liberale organizzazione di dispendiose feste religiose o di giochi circensi destinati all’intera popolazione.

L’ARTE DEL RIUSO Comunque sia, la riduzione del bilancio statale ebbe come conseguenza una – relativa – contrazione dell’edilizia pubblica e un incremento del fenomeno del riuso. Il risparmio delle spese per l’importazione dei marmi e per i primi lavori di taglio e sbozzatura dei blocchi deve avere giocato indubbiamente un ruolo significativo. Interi edifici monumentali di I e II secolo d.C. furono smontati, forse perché fatiscenti oppure perché non piú funzionali, e i blocchi scolpiti, sia quelli architettonici sia quelli decorativi e/o figurati, furono riadoperati per la realizzazione di nuove strutture. È il caso dell’arco, ora scomparso, davanti la chiesa di Santa Martina nel Foro Romano, dell’Arco di Diocleziano sulla via Lata o dell’Arco di Costantino, per i quali furono adoperati materiali provenienti da edifici di varie epoche. Anche molti ritratti di III secolo d.C. furono ricavati da ritratti preesistenti, di imperatori caduti in disgrazia o di privati la cui a r c h e o 93


SPECIALE • L’ETÀ DELL’ANGOSCIA

memoria non interessava piú nessuno, con un conseguente drastico taglio dei costi. Furono però realizzate le Terme di Caracalla, di Diocleziano e di Costantino, e restaurate – con un restauro che fu un autentico rifacimento – le Terme Neroniane; fu costruito il Settizonio alle pendici del Palatino, fu eretto il tempio di Sol Invictus nel Campo Marzio: e in una città già colma di edifici monumentali e di opere d’arte non era poco. È dubbio che le crisi che coinvolgevano i confini dell’impero, e che talvolta giungevano fino ai bordi del Mediterraneo, fossero avvertite effettivamente nella vita quotidiana della gente non esposta ai pericoli immediati di invasioni. È vero che nel 251 d.C., nella sua lettera a Demetriano, il vescovo di Cartagine Cipriano diceva: «Dalle montagne escavate ed esplorate non si estrae piú con la stessa abbondanza la lastra marmorea; le miniere ormai sono esauste, offrono minor ricchezza d’argento e d’oro e i loro filoni vanno man mano scomparendo (…) scompare l’integrità nel foro, la giustizia nei giudizi, la concordia tra gli amici, l’abilità nelle arti, la disciplina nei costumi (...). Necessariamente declina ogni cosa che, avvicinandosi ormai alla sua fine, vien meno e precipita». Eppure, quanto può essere considerato differente rispetto alla situazione della tarda repubblica, quando si assiste a una lotta senza quartiere tra comandanti di eserciti che erano anche influenti magistrati, e le loro fazioni, e quando, secondo l’opinione pubblica corrente, Roma sembrava destinata a crollare miseramente sotto il peso di tante scelleratezze? In un oracolo sibillino che allude al secondo triumvirato, si dice: «Verrà un santo Signore, che possederà gli scettri di tutta la terra, per tutte le età del tempo che scorre veloce. Ed ecco l’inesorabile ira dei Latini; tre per miserabile destino rovineranno Roma. Tutti gli uomini periranno sotto il loro tetto, quando scorrerà giú dal cielo la cateratta di fuoco (...). Verrà infatti il momento, quando trascorrerà fra tutti gli uomini l’odore dello zolfo. Ma io racconterò le cose a una a una, in quante città gli uomini sopporteranno sventure» (Oracoli sibil94 a r c h e o

QUASI UN COLOSSO

Statua-ritratto in bronzo di Treboniano Gallo. 250 d.C. circa. New York, The Metropolitan Museum of Art.

lini 3, 46-62). Anche allora si vagheggiava la rovina di Roma, e il crollo di città fiorenti e ricche d’oro e d’argento, ma anche la speranza per l’avvio di una nuova età dell’oro, e la nascita di un uomo (un uomo simile a un dio, quasi certamente Ottaviano) che avesse la capacità di riportare ordine e pace sulla terra, purtroppo senza alcun risultato.

VOLONTÀ DI POTENZA A volte si dimentica che, malgrado tutte le difficoltà, l’impero seppe resistere bene alle trasformazioni in atto, sia in età tardo-repubblicana sia nel III secolo d.C.; l’esercito si dimostrò uno strumento efficace contro i nemici, contro le troppo frequenti pressioni barbariche lungo i confini, perfino contro, o a favore dei suoi generali, la cui ambizione era quella di ascendere al soglio imperiale, anche a costo della propria vita, come del resto normalmente avvenne. Non è casuale che Peter Brown abbia considerato il III secolo d.C. piú un’età dell’ambizione che non un’età dell’angoscia, all’unisono con quella «manifestazione di volontà di potenza» di cui aveva già parlato Ranuccio Bianchi Bandinelli. Non si è forse tenuto nel dovuto conto che la maggior parte degli imperatori del III secolo d.C., provenienti dai ranghi militari, erano eccellenti comandanti, capaci di far fronte ai pericoli di invasioni. D’altronde, l’impero ebbe ancora una lunga vita, ben superiore a quanto potesse far presupporre, secondo la lettura tradizionale, un’età dominata dall’angoscia. È vero che la ricchezza si concentrò in poche mani, e che fu ostentata in forme differenti rispetto al II secolo d.C.: in primo luogo con una magnificenza dell’edilizia privata, che gli scavi degli ultimi decenni documentano in modo sempre piú preciso, con un lusso dei monumenti funerari (basti pensare al Sarcofago Ludovisi), e con uno sfarzo di vita fino allora impensabile. Ma tutto sommato il sistema tenne, e la vita nei principali centri urbani si adeguò rapidamente alle nuove situazioni.


L’ARTE PER L’INDIVIDUO DAI SEVERI A DIOCLEZIANO

SUL CAMPO DI BATTAGLIA

Busto in marmo lunense di Marco Aurelio con mantello militare. 172-180 d.C. Roma, Musei Capitolini, Palazzo Nuovo.

Crisi economiche e sovvertimenti sociali furono all’origine di un diffuso desiderio di evasione e di fuga dalla realtà di Cladio Parisi Presicce

I

l periodo di oltre novant’anni che intercorre tra l’anarchia militare successiva all’uccisione di Commodo (31 dicembre 192) e l’ascesa al potere di Diocleziano (20 novembre 284) fu per i fenomeni artistici un momento di rottura rispetto alla precedente tradizione, con lo sviluppo di un nuovo linguaggio e di nuove concezioni che fino ad allora erano stati relegati (con qualche eccezione) ai settori dell’arte denominata plebea e di quella definita provinciale, cioè l’arte praticata dalle classi inferiori o periferiche dell’Impero. Molta presa ha avuto in passato, nella storia degli studi e piú in generale nella percezione di questo periodo, il concetto di «decadenza». In realtà il giudizio negativo è sempre stato legato a una percezione del valore dei prodotti artistici che contrapponeva le opere dell’antichità classica («pure, perfette, apparentemente create senza sforzo») a quelle successive alla rottura («dure, contorte, talvolta grossolane»), sottintendendo un declino di tutte le capacità tecniche e creative. Il giudizio di decadenza, nato nel Rinascimento, è legato a una percezione dei fenomeni molto soggettiva: per gli umanisti del a r c h e o 95


SPECIALE • L’ETÀ DELL’ANGOSCIA

Quattrocento l’inizio della decadenza coincideva con la fine dell’Impero; per gli accademici del Neoclassicismo il momento di passaggio era ancorato alla morte di Alessandro Magno e alla fine dell’arte greca classica (fine del IV secolo a.C.), comprendendo quindi anche quell’arte romana che era stata fonte di ispirazione per gli artisti rinascimentali.

UN CAMBIO DEL GUSTO Lo storicismo ottocentesco è stato il primo a guardare allo svolgersi e all’articolarsi della sequenza storica nel suo insieme. Protagonisti del superamento del modello settecentesco negli studi storico-artistici furono Franz Wickhoff e Alois Riegl, i due fondatori della Scuola viennese di critica d’arte che, tra il 1895 e il 1901, per primi elaborarono la teoria del cambio di gusto (Kunstwollen) contrapposta a quella della «decadenza». Secondo loro, con la fine del II secolo d.C. si registra un passaggio da un’arte basata su una concezione plastica a una di concezione pittorica, da valori tattili a valori ottici, da una visione ravvicinata a una a distanza. In questa prima rivalutazione l’arte romana, e in particolare quella del basso impero, poteva essere considerata alla base dei nuovi «schemi» iconografici trasmessi all’arte bizantina e a quella medievale, preparando il terreno al trapasso tra la civiltà artistica antica e quella dell’età di mezzo. Nei decenni successivi è stato superato anche il modello del «cambio di gusto» e, soprattutto grazie agli studi pionieristici di Ranuccio Bianchi Bandinelli, è stato possibile dimostrare come il linguaggio tardoantico fosse nato da fattori ben piú complessi e stratificati che non una «moda» o un fenomeno intellettualistico. L’esame del quadro storico ha reso evidente che i modi dell’arte classica erano stati considerati del tutto inappropriati al contenuto di una nuova età. I fenomeni artistici sviluppatisi a partire dal III secolo d.C. collimano quindi con i modi di sentire dell’epoca e EROICA NUDITÀ

Particolare di statua maschile in nudità con spada. 253-260 d.C. Roma, Villa Doria Pamphili, Casino del Bel Respiro. 96 a r c h e o


hanno piena validità come espressione del proprio tempo. Ne è indice anche l’uso residuale degli schemi classici in una esangue produzione convenzionale e aristocratica, legata soprattutto all’artigianato artistico e alla suppellettile preziosa (l’arte suntuaria), che la vecchia critica d’arte prese in considerazione per l’esposizione storica, tralasciando come «secondaria» e «decadente» la reale espressione artistica dei tempi ormai mutati e dei nuovi rapporti tra gli uomini. L’inizio delle invasioni barbariche e l’affermarsi del Cristianesimo con i suoi nuovi valori sociali non furono la sola causa dell’abbandono della forma ellenistica, con le sue eleganze e con il suo corretto e spontaneo rapporto anatomico nelle figure umane, come si teorizzava fino alla prima metà del Novecento. La rottura avvenne, in realtà, per un insieme piú complesso di cause, interne ed esterne, e fu innescata innanzitutto (ben prima delle invasioni e del successo dei cristiani) dall’instabilità istituzionale di quella fictio iuris che era stata la Repubblica Romana durante l’impero (di fatto monarchico), originando una serie di molteplici e sempre piú complesse contraddizioni che portarono a ondate successive di crisi. Al momento della successione, gli attriti tra l’autorità effettiva del comandante imperiale (cioè dotato di imperium, di facoltà di comandare l’esercito) e l’autorità fittizia del Senato portavano lo Stato sull’orlo di una crisi, nonostante i vari espedienti messi in campo fin dall’epoca di Augusto mediante le adozioni e le designazioni.

ROTTURA DEGLI EQUILIBRI La rottura degli equilibri politici fece sí che la crisi si aggravasse durante gli scontri tra le legioni stanziate sui confini e i gruppi etnici che premevano dall’esterno (pare ormai appurato un effetto «domino» in quelle popolazioni, dovuto a un peggioramento climatico, che raffreddò l’ambiente e inaridí i pascoli). Il disequilibrio tra le forze in campo nelle campagne belliche sbilanciò il rapporto tra spese militari e bilancio dello Stato, punto di forza della politica di conquista dall’età di Traiano fino ai primi anni del regno di Marco Aurelio LA GUERRA IN POSA

Statua-ritratto in marmo raffigurante un uomo in armi. Metà del III sec. d.C. Roma, Musei Capitolini, Centrale Montemartini. a r c h e o 97


SPECIALE • L’ETÀ DELL’ANGOSCIA

e Lucio Vero. Resasi quindi necessaria la svalutazione della moneta, si sviluppò rapidamente una travolgente inflazione, che rese la pressione tributaria insostenibile, soprattutto nelle province. Sommando le varie cause, nello stadio terminale della crisi, si giunse a una paralisi quasi totale dei commerci. A tutto questo vanno aggiunte le confische di terreni a beneficio dei barbari dislocati stabilmente a difendere i confini dell’Impero, con pesanti contraccolpi sulla classe rurale e sulla media borghesia provinciale. In tale contesto le richieste provenienti da Roma apparivano come un nuovo marchio di soggezione e la presenza dei barbari era ormai vista come una liberazione.

RIFORME POCO EFFICACI Gli imperatori romani cercarono a piú riprese di arginare la crisi, riuscendo, talvolta, anche a invertire temporaneamente la rotta che portava inesorabilmente verso la disgregazione dell’Impero. Settimio Severo (193-211 d.C.) promosse alcune riforme accompagnate da tendenze monarchiche assolute, che non solo non seppero contrastare la crisi, ma accentuarono la rottura col passato; neppure Gallieno (253-268 d.C.) raccolse i frutti sperati dalle sue iniziative; solo con Diocleziano (284-305 d.C.), grazie alla radicale riorganizzazione amministrativa, militare e fiscale e a una nuova politica verso le popolazioni barbariche, si arrivò a una stabilizzazione, anche se lo Stato e la società che uscivano dalla crisi erano, ormai, profondamente cambiati. L’ultimo esperimento, come sistema di successione imSACRO LEGAME

Gruppo in marmo pario di Artemide e Ifigenia. 150 d.C. circa. Roma, Musei Capitolini, Centrale Montemartini. Secondo il mito, la giovane fu sacerdotessa della dea della caccia. 98 a r c h e o


DALL’ORONTE AL TEVERE Egitto (Iside, Osiride, Serapide, Apis), Asia Minore (Magna Mater e Attis, Ma-Bellona), Siria (Dea Syria, Giove, Venere e Mercurio di Heliopolis, Giove Dolicheno), Persia (Mithra), Tracia (Sabazio): ecco le «religioni orientali». Cause economiche, sociali e morali ne favorirono la propagazione: feste e processioni in onore di dèi piú umani che soffrono, muoiono e rivivono, fanatismo ed estasi della contemplazione appagavano i sensi; sacerdoti a tempo pieno, capaci di promettere ai devoti purezza spirituale anche per mezzo di mortificazioni e prove di coraggio, sapevano soddisfare le intelligenze e le coscienze. Al cospetto del culto ancestrale degli dèi, sobrio sí ma scaduto a freddo dovere civico, le «religioni orientali» compiacevano di piú le aspirazioni e il bisogno di protezione di uomini colti e semplici, in vita e dopo la morte; e, secondo uno schema teleologico, rappresentarono come un anello di transizione tra politeismo e Cristianesimo. Questa, all’inizio del Novecento, la visione di un grande studioso, Franz Cumont, nell’ultimo trentennio respinta con qualche eccesso o riletta alla luce dell’esame sistematico e differenziato dei documenti archeologici ed epigrafici e dei testi antichi (vedi lo speciale di «Archeo» n. 349, marzo 2014, Roma e il mistero dei culti imperiali, n.d.r.). Oriens/Orientalis per i Romani fu un concetto geopolitico o astronomico, non religioso: il protagonista della terza satira di Giovenale dichiara la sua insofferenza per una Roma greca, tanto piú che tra quei Greci non tutti erano Achei in quanto «già da un pezzo l’Oronte di Siria si è riversato nel Tevere e ha portato con sé la lingua e i costumi, con i flautisti, le corde oblique, i timpani della propria gente…»; Oronte, senza specifiche tinte cultuali, riassume qui i malsani influssi ellenici in grado di rammollire anche la primigenia romanità contadina. Perciò l’etichetta «orientale» ha oggi adottato le virgolette o è rimpiazzata da «culti stranieri», «nuovi culti» o «culti d’origine orientale», che, non esclusivi, sono studiati in relazione alle modalità di diffusione, adattamento e convivenza tra peregrina e patria sacra. Culti che erano tutt’altro che marginalizzati nei paesaggi urbani (14 i mitrei certi per Ostia, mentre per Roma se ne sono calcolati in via ipotetica circa 600/800, pur se il mitraismo non fu un fenomeno di massa), anche grazie alla presenza temporanea o stanziale di immigrati d’Oriente attaccati ai loro dèi patri; essi non funsero però da missionari e usarono nella prassi votiva il latino o la lingua d’origine a seconda di circostanze di dedica, contesti e destinatari. Massimiliano Papini

IL PICCOLO FRIGIO

Statuetta in bronzo di Attis, il cui mito è legato alla dea Cibele. II-III sec. d.C. Treviri, Rheinisches Landesmuseum Trier.

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SPECIALE • L’ETÀ DELL’ANGOSCIA

La diffusione delle «religioni orientali» nel mondo romano venne favorita da cause di varia natura, innanzitutto economiche, sociali e morali

UNA DIVINA ADUNATA

Rilievo in marmo lunense sul quale compaiono Giove e Giunone Dolicheni, Iside, Serapide, i Dioscuri, il Sole e la Luna. 250 d.C. circa. Roma, Musei Capitolini, Centrale Montemartini. 100 a r c h e o


periale, fu la Tetrarchia, peraltro fallito anch’esso prima di arrivare al semplice principio di ereditarietà con Costantino e la sua progenie. Alla fine il Senato, espressione dell’aristocrazia romana tradizionale, uscí esautorato di qualsiasi potere, salvo quello formale, con le strutture statali ormai in mano alla borghesia rurale italica e provinciale, dalla quale uscivano militari professionisti e perfino gli stessi imperatori. Un tale sovvertimento sociale ed economico produsse incertezza nel futuro, angoscia, disperazione, ma anche senso di rivolta, attesa di un mutamento per talune classi, mentre per altre desiderio di evasione, di isolamento, di fuga dalla realtà tramite l’astrazione nel pensiero metafisico, irrazionale.

IL VOLTO DELLA FOLLIA

Busto in marmo lunense di Caracalla del tipo Imperatore Unico. 212-217 d.C. Roma, Musei Capitolini, Centrale Montemartini.

Riprendendo un’espressione del poeta dell’angoscia moderna W.H. Auden, un fortunato libro di E.R. Dodds ha definito An Age of Anxiety il periodo da Marco Aurelio a Costantino, per indicare l’insicurezza materiale e morale che percorreva in quegli anni l’Impero. Se gli oppositori del vecchio mondo potevano guardare con fiducia e speranza alla sua disgregazione, altri ne rimanevano profondamente angosciati e terribilmente sconvolti. Famosissimo è il caso di Elio Aristide, affetto da nevrosi, sfociata in malattia psicosomatica. Ansia e angoscia, la cui distinzione terminologica è reperibile solo nelle lingue di origine latina (in tedesco e in inglese esiste un unico termine, rispettivamente Angst e anxiety), pervasero la vita della popolazione romana. UN PROGETTO ARTICOLATO «L’Età dell’Angoscia» è il quarto appuntamento del progetto «I giorni di Roma», cinque mostre che alternano esposizioni a carattere monografico («Ritratti. Le tante facce del potere», «Costruire un Impero») e dal taglio diacronico («L’Età della Conquista», «L’Età dell’Equilibrio», «L’Età dell’Angoscia»), dall’età repubblicana fino all’epoca tardo-antica. È un’iniziativa promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Cultura, Creatività e Promozione Artistica-Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, organizzata da Zètema Progetto Cultura e MondoMostre, con la cura di Eugenio La Rocca, Claudio Parisi Presicce e Annalisa Lo Monaco. I testi qui riprodotti, per gentile concessione dell’editore MondoMostre, sono tratti da saggi pubblicati nel catalogo della mostra.

DOVE E QUANDO «L’Età dell’Angoscia. Da Commodo a Diocleziano (180-305 d.C.)» Roma, Musei Capitolini fino al 4 ottobre Orario ma-do, 9,00-20,00; lu chiuso Info tel 060608 (tutti i giorni, 9,00-21,00); www.museicapitolini.org; www.zetema.it; www.mondomostre.it; #GiorniDiRoma Catalogo MondoMostre-Roma Capitale, Musei Capitolini a r c h e o 101


QUANDO L’ANTICA ROMA… Romolo A. Staccioli

…INCORONAVA I RE D’ARMENIA NEL 66 D.C., DOPO BEN TRE ANNI DI PREPARATIVI, UNA SFARZOSA CAROVANA CONDUSSE TIRIDATE A ROMA E, NEL FORO, NERONE CINSE IL CAPO DEL SOVRANO ORIENTALE. L’ATTO SANCIVA IL MOMENTO PIÚ FELICE DEL RAPPORTO TRA LE PARTI. CHE, TUTTAVIA, NON FU SEMPRE IDILLIACO...

P

er lunghi secoli, durante tutto l’impero, una costante della politica di Roma fu quella che oggi definiremmo «questione armena». Essa fu determinata dalla particolare situazione geografica in cui si trovava l’allora regno d’Armenia del quale l’attuale piccola repubblica omonima è solo l’estremo lembo orientale, trovandosi oggi i quattro quinti del suo storico territorio in Turchia. Dopo un «precedente» rappresentato, tra il X e il VII secolo a.C., dal regno di Urartu, seguito dalla dominazione persiana, dalla conquista di Alessandro Magno e da un susseguente periodo piuttosto oscuro, l’Armenia vera e propria era venuta alla ribalta della grande storia agli inizi del I secolo a.C. Giusto alla vigilia della rapida espansione di Roma in Asia Minore a seguito delle folgoranti Mar Nero

Amisus

campagne militari di Pompeo. Da allora, il regno d’Armenia assunse il ruolo di «Stato cuscinetto» tra l’impero romano e il regno dei Parti, erede dell’antico impero persiano. In realtà, esso fu piuttosto motivo di attrito tra le due potenze, giacché entrambe cercarono d’assicurarsene, piú o meno direttamente, il controllo.

SOVRANI «ALLINEATI» C’erano riusciti, da ultimo, i Romani, che, proprio al tempo di Pompeo, nel 66 a.C., avevano imposto all’Armenia il loro protettorato. In seguito, a partire da Augusto, l’impero prese l’abitudine di porre sul trono armeno personaggi graditi e favoriti, sostenendoli con il peso dei distaccamenti legionari.

Colchide

Ib e ria Gogarene

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Impero

Armenia minore Armenia superiore

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102 a r c h e o

Utik Artsakh

Regno di Armenia Taron

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Albania Caucasica

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La situazione mutò a favore dei Parti, dopo una serie di conflitti dinastici e di lotte interne, all’inizio del principato di Nerone. Questi – che già aveva in animo di


A sinistra: Garni. Tempio greco romano dedicato a Mitra. I-II sec. a.C. Nella pagina accanto, a sinistra: cartina che mostra l’estensione del regno di Armenia nel I sec. a.C. Nella pagina accanto, a destra: statua di Tiridate, re dell’Armenia. 1687. Versailles, Castello.

condurre un’energica «Ostpolitik» nei confronti degli stessi Parti che controllavano le grandi vie carovaniere per le quali arrivavano a Roma le merci di lusso dell’Oriente (spezie, profumi, metalli preziosi, sete e legni pregiati) – reagí prontamente. Ne nacque una guerra che si protrasse, con alterne vicende e con gli Armeni divisi tra i due contendenti, per ben nove anni, dal 54 al 63 d.C., fino a concludersi, sul campo, con la vittoria dei Romani (il cui esercito, forte di 60 000 uomini, era al comando di Domizio Corbulone); di fatto, con un compromesso: i Romani accettarono che sul trono d’Armenia restasse l’«usurpatore» Tiridate, fratello del re dei Parti, Vologese I; i Parti riconobbero che i diritti di sovranità sull’Armenia emanavano da Roma, tanto che lo

stesso Tiridate depose la corona regale ai piedi dell’immagine di Nerone, in attesa che questi gliela restituisse di persona. L’accordo dovette soddisfare entrambe le parti, visto che rimase in vigore per i successivi cinquant’anni.

L’ASTUZIA DI NERONE Esso assicurava infatti ai Romani la tranquillità delle frontiere orientali e il prestigio di «ordinatori» del mondo abitato, e ai Parti la dignità di Stato sovrano e indipendente, abilitato a trattare alla pari con Roma (della quale, peraltro, essi divennero alleati). Quanto a Nerone, egli ebbe l’astuzia e la capacità di far apparire il compromesso come una sua grande affermazione. E celebrò l’evento – anche con la ostentata chiusura del sacello di Giano (sempre aperto nei periodi di

guerra) – come la fine dell’unico conflitto esistente nell’impero. Da esso trasse pertanto lustro e popolarità che giunsero all’apice allorché Tiridate si recò a Roma per rendergli omaggio e ricevere da lui la corona del suo regno. Il viaggio del re armeno – come c’informa, tra gli altri, Svetonio (Ner. XIII) – fu preparato per tre anni, dato che Roma dovette avere il tempo di riprendersi alla meglio dalle conseguenze dell’incendio che l’aveva devastata nel 64. Finalmente, esso poté compiersi, nel 66, con un lunghissimo itinerario che dall’Armenia, attraversò l’impero per l’Asia Minore, il Bosforo, l’Illirico e l’Italia meridionale. Lo splendore della carovana – la piú lunga che si fosse mai vista – impressionò gli abitanti delle regioni attraversate, mentre le città via via toccate venivano sontuosamente adornate in onore dell’illustre viaggiatore e facevano a gara nell’offrirgli spettacoli scenici e combattimenti di gladiatori. Particolarmente ammirate erano la bellezza e l’eleganza del re e della moglie e la ricchezza del loro seguito, formato da parenti, principi e dignitari, armeni e parti, accompagnati dai notabili e dalle loro donne, da sacerdoti mazdei e da guardie partiche, armene e romane, mentre tutta la carovana era scortata da trecento cavalieri di Roma al comando del genero di Corbulone. Nerone andò incontro a Tiridate e lo accolse a Napoli; quindi, insieme, essi proseguirono trionfalmente alla volta di Roma, lungo la via

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In basso: busto in marmo di Nerone. I sec.d.C. Monaco, Gliptoteca. Appia, dopo essersi fermati a Pozzuoli per assistere a uno spettacolo di gladiatori etiopi. All’indomani dell’arrivo, posticipato per il cattivo tempo il giorno precedentemente fissato da un’apposito editto imperiale, ebbe luogo la solenne cerimonia dell’incoronazione, nel Foro. Rivestito degli abiti trionfali, Nerone sedeva su un trono al centro della tribuna dei Rostri, tra stendardi e insegne militari, attorniato da dignitari e magistrati. Un senatore diede lettura, nella traduzione latina, della «supplica» del re, il quale poi, saliti i gradini della tribuna, si prostrò ai piedi dell’imperatore. Questi, preso l’ospite con la mano destra e fattolo prontamente rialzare, lo abbracciò e lo baciò, quindi, toltagli la tiara che portava sul capo, gli pose in sua vece il diadema reale che lo stesso Tiridate aveva prima consegnato a Corbulone, presente alla cerimonia a fianco di Nerone. L’imperatore pronunciò infine un indirizzo di saluto, o, piuttosto, un vero e proprio discorso «politico», dai toni cortesi ma fermi, nel quale tenne a sottolineare come soltanto Roma, da lui stesso impersonata, avesse la prerogativa e il potere di fare e disfare i re. Il popolo in delirio acclamava insieme l’imperatore e il re, ma quello che i «cronisti» del tempo definirono un «giorno d’oro», non era terminato. Alla cerimonia nel Foro seguirono infatti i giochi e gli spettacoli nel piú grande e sontuoso dei teatri di Roma,

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quello di Pompeo, addobbato con uno sfarzo straordinario ed è da credere che, in quell’occasione, Nerone non abbia saputo resistere dal mostrare all’illustre ospite i suoi talenti di citaredo e di cantore.

DONI E DANARI Tiridate ripartí per l’Armenia con la promessa di ribattezzare la sua capitale Artaxata (una trentina di chilometri a sud dell’odierna Erevan) col nome di Neronia, ma, soprattutto, portando con sé doni magnifici e un’ingente somma di danaro. È altresí probabile che avesse preso con Nerone l’impegno di partecipare alla spettacolare spedizione che l’imperatore, desideroso di emulare le gesta di Alessandro Magno, progettava di condurre, insieme ai Parti e agli Armeni, nelle regioni transcaucasiche e del Mar Caspio. Dopo Nerone, l’Armenia continuò

nella sua tranquilla situazione di Stato «vassallo» di Roma fino al tempo di Traiano. Questi, ritenendo insicuri i confini orientali dell’impero, nell’anno 114, decise di occuparla sopprimendone il regno e riducendola a provincia romana. Poi scelse di andare anche oltre, muovendo guerra ai Parti. L’esercito romano s’inoltrò cosí in Mesopotamia (l’attuale Iraq), discendendo il corso del Tigri e dell’Eufrate. Conquistò Ctesifonte, capitale dei Parti e, sul finire dell’anno seguente, raggiunse il Mar Caspio e infine il Golfo Persico: mai le legioni s’erano spinte cosí lontano e l’avvenimento non si sarebbe ripetuto. Anzi, pur avendo Traiano ridotta a provincia anche la Mesopotamia, pochi anni dopo, il suo successore, Adriano, abbandonò le conquiste traianee riportando i confini di Roma sull’Eufrate. Il regno d’Armenia fu ripristinato e tornò al ruolo che il destino gli aveva riservato, rinnovandosi, piú o meno, le stesse vicende. Fu ancora altre volte occupato temporaneamente dai Romani, per esempio, con Marco Aurelio, nel 163-166, e con Settimio Severo, nel 197-199. Poi, quando i Parti scomparvero dalla scena sostituiti dai Persiani (che, intorno al 225, instaurarono con Artaserse la dinastia dei Sasanidi), la «questione armena» si fece per Roma assai piú impegnativa e gravosa; non di rado, «amara». L’Armenia continuò cosí a passare in vario modo da una parte e dall’altra, fino a che, sullo scorcio del IV secolo, non andò divisa tra l’impero romano d’Oriente (che ormai stava per diventare bizantino) e quello di Persia. Duecento anni dopo, la sua travagliata storia antica aveva termine con l’invasione degli Arabi.



A VOLTE RITORNANO Flavio Russo

ACQUE CHIARE, DOLCI E... TIEPIDE CHE I BAGNI DEI ROMANI, ALMENO QUELLI DEI PIÚ ABBIENTI, FOSSERO PROVVISTI DI OGNI COMFORT NON È UNA NOVITÀ. NE SONO PROVA ALCUNI PARTICOLARI RUBINETTI, NEI QUALI POSSIAMO RAVVISARE I PRIMI ESEMPLARI DEI MODERNI MISCELATORI MONOCOMANDO

P

er disporre di acqua corrente alla temperatura desiderata tramite la manovra dell’unica leva di un solo rubinetto, non bastò un’invenzione «semplice», ma occorsero l’ideazione e la fabbricazione di un congegno di discreta complessità costruttiva e funzionale, nonché di raffinata estetica. Per noi, che ne disponiamo da pochi decenni, si tratta del miscelatore monocomando, ormai diffuso nei bagni e nelle cucine delle nostre case. Ma, fra i resti di piú d’una sontuosa villa romana, sono stati rinvenuti numerosi esemplari di simili «rubinetti», non di rado in ottime condizioni di conservazione. Il criterio informatore di tali dispositivi fu tratto dalle normali chiavi d’arresto in bronzo che l’idraulica urbana romana utilizzava, producendole in serie, in ogni parte dell’impero, secondo misure standard, che variavano in relazione al loro impiego, negli impianti pubblici e privati, all’esterno delle abitazioni come all’interno, con dimensioni modulari connesse a quelle dei tubi di piombo. La loro struttura si conferma assai semplice e, al contempo, di grande razionalità, poiché consiste, di fatto, in due parti, rispettivamente definite maschio e femmina, che ricordano per larga approssimazione le spine delle botti. Volendo meglio descriverle, la prima, definita anche

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rotore, era realizzata cava, in forma tronco-conica, con un foro centrale passante; l’estremità superiore dopo il montaggio, fuoriusciva dalla femmina, e presentava un alloggiamento quadrato, nel quale si infilava la leva di manovra.

TENUTA PERFETTA Quest’ultima, ottenuta per fusione di bronzo e poi regolarizzata al tornio e lucidata a specchio, non necessitava di guarnizioni, poiché bastava forzarne l’inserimento per ottenere una perfetta tenuta. La seconda parte, definita anche statore, constava di un corpo cavo, munito di un ingresso e di una uscita, rispettivamente destinati agli allacci con l’acquedotto e con l’utenza; la cavità centrale, alesata con estrema precisione in forma tronco conica, di diametro congruo al maschio, ne fungeva da alloggiamento. Una volta inserito fino alla giusta collocazione, il rotore veniva bloccato mediante una punzonatura alla base; poteva

Elaborazione schematica del funzionamento del miscelatore: il rosso indica l’acqua calda e il blu la fredda; in basso sono i tubi di adduzione e, in alto, la bocchetta da cui fuoriusciva il liquido miscelato. cosí ruotare liberamente in entrambi i versi, ma non fuoriuscire. Va inoltre osservato che, grazie al loro particolare disegno, quelle chiavi si potevano allacciare ai due tubi sia a 180° che a 90°, salvo poi chiudere il foro inutilizzato con un apposito tappo in bronzo. La verifica dell’ottima qualità e, al contempo, della straordinaria longevità di queste chiavi d’arresto, prodotte, come i tubi, in otto dimensioni standardizzate, è confermata dalla constatazione che quasi tutti gli esemplari rinvenuti, dopo una pulizia sommaria, sono ancora in grado di funzionare perfettamente! Il miscelatore monocomando era composto dalla medesima coppia di elementi, realizzati però con due


CHIAVE D’ARRESTO

MISCELATORE

Una chiave d’arresto d’età romana, di dimensioni medie. Tali strumenti si componevano di due elementi, genericamente definiti «maschio» e «femmina» – tecnicamente «rotore» e «statore» –, simili alle spine delle botti.

Ricostruzione tridimensionale che illustra le caratteristiche costruttive e il funzionamento di un miscelatore di età romana. L’elaborazione si basa sugli esemplari rinvenuti in vari impianti termali (foto a sinistra, in basso): si tratta di chiavi d’arresto modificate (foto a sinistra, in alto). La rettifica piú importante riguardava il corpo del maschio, che aveva due fori ravvicinati: girando in un verso o nell’altro, variavano le quantità relative di acqua fredda e calda, permettendo cosí di scegliere la temperatura dell’acqua erogata.

CHIAVE MODIFICATA Una chiave d’arresto modificata, cosí da ottenere un miscelatore, le cui prestazioni erano analoghe a quelle degli apparecchi moderni, e permettevano di avere acqua alla temperatura desiderata.

lievi differenze: l’apertura inferiore dello statore, utilizzata nella sua costruzione e lasciata aperta, veniva collegata a una larga bocca a spatola per l’emissione dell’acqua; il rotore poi veniva realizzato anch’esso cavo e aperto sul fondo, per cui il suo foro inferiore, sfogava direttamente sulla bocca a spatola. A differenza della normale chiave

d’arresto, il miscelatore era alimentato da due tubi d’ingresso, uno per l’acqua fredda, proveniente dall’acquedotto, e l’altro per l’acqua calda, proveniente dalla caldaia, che in molte ville patrizie veniva

mantenuta sempre accesa per gli impianti termali domestici. A questo punto, girando il rotore in un verso o nell’altro, si variavano le quantità di acqua fredda o calda che vi venivano immesse, per cui dalla bocca usciva acqua piú o meno calda, a seconda della posizione della levetta di manovra, proprio come negli odierni miscelatori monocomando.

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SCAVARE IL MEDIOEVO Andrea Augenti

UNA TOMBA COME INVESTIMENTO LA SCOPERTA DELLA SEPOLTURA DI CHILDERICO FU, PER CERTI VERSI, IL PRIMO PASSO COMPIUTO DALL’ARCHEOLOGIA MEDIEVALE. MA SONO STATI GLI SCAVI MODERNI A ILLUMINARNE IL SIGNIFICATO PIÚ PROFONDO...

È

il 27 maggio del 1653: una squadra di operai sta ristrutturando una casa presso la chiesa di St. Brice, a Tournai (in Belgio). Alle tre del pomeriggio, ha luogo la scoperta: prima affiora dal terreno una fibula in oro, poi un tesoro di piú di cento monete, anch’esse d’oro. E, procedendo, la terra restituisce due teschi umani, molte ossa, e un teschio di cavallo. Ma soprattutto, una serie stupefacente di oggetti: una spada, una lancia, una Francisca (l’ascia da lancio dell’esercito franco), fibule, orecchini, un cofanetto, circa trecento elementi a forma di ape (o cicala), e molto altro ancora. In piú un anello, che reca un ritratto e la scritta «Childerici regis». Quest’ultimo oggetto sembra sciogliere l’iniziale mistero: il contesto in cui ci si è imbattuti dev’essere la tomba di Childerico, uno dei primi re dei Franchi, morto nel 481 (o 482). Inizia cosí, in circostanze del tutto fortuite, la storia di uno dei piú straordinari rinvenimenti archeologici dell’Europa medievale. Jean-Jacques Chifflet, il medico di corte di Leopoldo Guglielmo (l’allora Governatore dei Paesi Bassi), egli stesso appassionato di antichità, provvede subito a pubblicare i reperti, in un prezioso volume intitolato Anastasis Childerici, che comprende tutti i disegni. Seguendo la mentalità dell’epoca, antiquaria piú che archeologica (e quindi interessata

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agli oggetti, ma non ai loro contesti di appartenenza), Chifflet non pubblica una pianta della tomba, né fornisce alcuna informazione su di essa. Ma il suo lavoro fu comunque prezioso: nel 1831 i gioielli vennero rubati e solo in parte recuperati. Per molti di essi, quindi, le belle tavole di Chifflet costituiscono la sola documentazione disponibile.

DOMANDE CRUCIALI Ma tutto questo non è ancora archeologia: troppe domande restano senza risposta. Solo alcune, tra le molte possibili: la tomba del


A destra: copia dell’anello con la scritta «Childerici regis». In basso: una delle tavole pubblicate da Jean-Jacques Chifflet, affiancata da alcuni degli oggetti del corredo.

personaggio che si vuole presentare come un grande capo militare. Lo dimostrano il ricchissimo corredo, la struttura a tumulo e l’offerta (forse un sacrificio) dei molti cavalli. Ma qual è il significato piú profondo di tutto questo? Perché ricorrere a un tale investimento per una tomba?

re era isolata o faceva parte di una necropoli piú ampia? E di che tipo di sepoltura si trattava? Nessuno, oggi, si accontenterebbe di un simile

UN SEGNALE FORTE tesoro senza tentare di ricostruirne il contesto di appartenenza. E, infatti, nel 1983, nuovi scavi sono stati aperti a Tournai, esattamente nel luogo del rinvenimento, sotto la direzione dell’archeologo belga Raymond Brulet. Molte sono state le novità. È venuta alla luce un’intera necropoli, databile tra il V e il VII secolo, con piú di trecento tombe. Il sepolcro di Childerico non era quindi isolato, bensí circondato da un ampio cimitero. È stato anche possibile stabilire che la tomba del re, la sua camera funeraria, doveva essere sormontata da un grande tumulo, del diametro di ben 25/30 m. Inoltre, il sovrano era stato deposto con il suo cavallo (bardatura

compresa), e, intorno al tumulo, erano stati inumati in tutto altri 21 quadrupedi, se non di piú. La tomba di Childerico è, insomma, un caso esemplare di sepoltura reale del mondo tardo-antico postromano, di tradizione nordeuropea, destinata a un

Molto probabilmente, il problema è politico. Alla morte di Childerico, la famiglia del re non aveva la certezza di riuscire a porre sul trono un suo discendente. E c’era di sicuro un antagonista: il magister militum Siagrio (che nel 464 aveva assunto a Soissons il governo del dominio autonomo costituito dal padre Egidio con i territori tra la Mosa, la Schelda e la Senna, n.d.r.). Non dobbiamo quindi pensare soltanto al sepolcro, perché ciò che troviamo noi archeologi è solo il punto di arrivo di un lungo cerimoniale. La ricchezza della sepoltura di Childerico si spiega meglio pensando a tutti i rituali che ne precedettero l’allestimento: funerali, processioni, il sacrificio dei cavalli, il seppellimento definitivo del re e del suo tesoro davanti a tutti gli astanti… I funerali, nell’Alto Medioevo – soprattutto quelli dei regnanti – erano momenti importanti, in cui si lanciavano messaggi forti a intere comunità riunite per l’occasione, e agli eventuali avversari. Con funerali cosí sfarzosi, cosí altisonanti, la famiglia di Childerico – e in particolare il suo erede, il figlio Clodoveo – deve aver ribadito in modo netto l’intenzione di continuare a regnare, dimostrandolo con la potenza dell’investimento. E cosí la memoria del re ha attraversato i secoli anche grazie alla straordinaria ricchezza della sua tomba.

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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

QUELLA «MACCHINA» PRODIGIOSA... È POSSIBILE IDENTIFICARE CON LA SPETTACOLARE SALA PER BANCHETTI GIREVOLE VOLUTA DA NERONE IL MISTERIOSO EDIFICIO CHE COMPARE SU ALCUNE EMISSIONI BATTUTE AL TEMPO DELL’IMPERATORE «MALEDETTO»?

A

nche un sito che si suppone da sempre ben indagato come il Palatino, centro del potere imperiale romano, può restituire tesori inaspettati. Se ne è avuta la conferma quando scavi condotti nell’area occupata dalla Vigna Barberini hanno riportato alla luce una struttura senza precedenti (vedi «Archeo» n. 297, novembre 2009; anche on line su archeo.it). Si tratta del nucleo di un edificio cilindrico alto 12 m e dal diametro di 16, con il piano di calpestio poggiato su un sofisticato congegno che permetteva al pavimento di ruotare tramite una serie di sfere metalliche che giravano su se stesse, azionate da un meccanismo ad acqua.

BANCHETTO CON EFFETTI SPECIALI Tecnica costruttiva, materiali e lo studio della topografia hanno permesso di datare la costruzione in età neroniana (54-68 d.C.), identificandola, sebbene in maniera interlocutoria, con la coenatio rotante della Domus Aurea, ricordata anche da Svetonio (Nerone, XXXI,1-2): «Si fece costruire un palazzo [che si estendeva] dal Palatino all’Esquilino (...) La sala da pranzo principale era rotonda e girava di continuo, di giorno e di notte, come la terra». La ricostruzione del complesso

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dispositivo antico proposta dagli archeologi che l’hanno scavato è convincente e sembra non ci siano dubbi a collocare la sala da pranzo girevole descritta da Svetonio qui sul Palatino e non piú nella parte della domus sul Colle Oppio, dove finora era stata situata.

Per entrambe le ubicazioni della sala è stata chiamata in causa anche l’iconografia monetale. Il «potere delle immagini», veicolato anche dalle monete, era ben noto a Nerone, in particolare all’indomani dell’incendio che distrusse Roma nel 64 d.C., al quale fece seguito una rinnovata pianificazione urbana, secondo criteri consoni a quelli di una metropoli. L’operazione creò una città piú moderna e funzionale, ma vide crescere a dismisura la mole della Domus Aurea, che, seppure splendida, non era certo popolare tra i Romani.

UN PORTO GRANDIOSO Nerone non trascurò però di ricordare nelle sue emissioni due importanti opere pubbliche da lui realizzate. Innanzitutto, il nuovo porto di Ostia, iniziato da Claudio e raffigurato sui sesterzi battuti nel 64 d.C. L’altro monumento, apposto sui dupondi emessi tra il 63 e il 65 d.C. è una slanciata costruzione a piú piani, conclusa da una grande cupola. L’edificio appare elegante e articolato, con una scalinata d’accesso decorata da due pesci e che immette in un ingresso nel quale troneggia una statua, forse di Nettuno. Al centro si innalza una costruzione con tetto conico, affiancata da un colonnato a due piani. Il complesso va identificato con un Macellum, ovvero un


A destra: ricostruzione ipotetica della coenatio rotunda (sala per banchetti girevole) fatta realizzare da Nerone nella Domus Aurea, e di cui sono stati rinvenuti i presunti resti sul Palatino. In basso: il pilone cilindrico (4 m di diametro) che sosteneva la struttura. Nella pagina accanto: dupondio battuto dalla Zecca di Lugdunum o di Roma. 65 d.C. Al dritto, busto di Nerone; al rovescio, il prospetto di un edificio a doppio colonnato con cupola centrale, scala d’accesso e statua all’ingresso.

Dida digendis poreic tem iust et qui dus eicat pratia dita que omnis nem videlessent aut ut volorat emporit iostia quiasintiur alitatem denimol orepero enihici dellat eicatur? Modi beribus aperior possimos reiciUcil et autectempos sunt illitas

mercato con fontana al centro, in cui un ruolo importante aveva la vendita del pesce. Dione Cassio ricorda il Macellum Magnum neroniano e lo colloca sul Celio, nei pressi della chiesa di S. Stefano Rotondo, anch’essa a pianta circolare. La leggenda MAC AVG è facilmente scioglibile in Macellum Augusti, il mercato fatto costruire da Augusto, ovvero Nerone.

UN’IPOTESI SUGGESTIVA Alcuni studiosi vi hanno voluto invece leggere Machina Augusti, vedendo nella moneta la riproduzione della sala rotante della Domus Aurea, che peraltro non viene mai chiamata «machina» nelle fonti. Machinatores sono bensí detti gli architetti della domus neroniana, ovvero Severo e Celere (Tacito, Annali, XV, 42,1). Sebbene suggestiva, la proposta Machina Augusti non sembra tenere conto della finalità propagandistica della moneta, mirante a creare consenso e a celebrare l’opera imperiale per il bene di Roma e dei suoi cittadini. E, come già detto, la Domus Aurea, che si vorrebbe riprodotta in questi conii sintetizzata nella sua stanza delle meraviglie ruotante notte e giorno, non fu mai gradita ai Romani, che la stigmatizzarono argutamente nella «pasquinata» riferita a Nerone e riportata da

Svetonio: «Roma diventerà la sua casa. Migrate a Veio, cittadini, sempre se questa casa non occuperà anche Veio!». Difficile quindi immaginare una sua impopolare esaltazione sulle monete...

PER SAPERNE DI PIÚ Claudia Perassi, Edifici e monumenti sulla monetazione di Nerone, in Neronia VI (Latomus), Bruxelles 2002; pp. 11-34. Laura David, Marta Fedeli, Françoise Villedieu, La coenatio rotunda della Domus Aurea sulla Vigna Barberini?, in Archeologia sotterranea, 8, maggio, 2013; pp. 5-16.

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Helga Di Giuseppe, Felice Senatore

SIRENE Scienze e Lettere, Roma, 52 pp., illustrazioni di Martina Vanda 13,00 Euro ISBN 978-88-6687-074-6 www.scienzeelettere.com

Seconda uscita della collana Monstra, dedicata ai personaggi della mitologia classica e rivolta a un pubblico di giovani lettori, Sirene «dà la parola» a Partenope, che racconta tutto quel che occorre sapere su

queste figure singolari, che associamo a esseri marini per metà donne e per metà pesci, mentre, in origine, venivano raffigurate e descritte come uccelli con il busto, le braccia e il volto di donna. Soltanto in epoca altomedievale mutarono di aspetto e assunsero quello per noi piú consueto. Nonostante la notorietà, su di loro, nel racconto mitologico, si hanno poche certezze: se ne conosce il padre, il dio-fiume Acheloo; ma non la madre: forse Gea o una delle Muse (Tersicore, Melpomene o Calliope). 112 a r c h e o

Si discute sul loro stesso numero: due, come in Omero, tre o ancora di piú. Non è chiaro neppure quale fosse stato il loro luogo di origine, o la prima sede. Ma accantoniamo queste considerazioni e, seguendo il suggerimento degli autori, prestiamo ascolto al racconto della sirena Partenope. È lei a ricordare il motivo per il quale vennero trasformate in uccelli: essendo le compagne di gioco di Persefone, figlia di Demetra, la persero di vista e non si accorsero del dio Ade che la rapiva. È sempre Partenope a narrare il celebre episodio di Ulisse che – volendo ascoltare il fantastico canto delle sirene, ma non esserne irretito – si fece legare dai compagni all’albero della nave e tappò loro le orecchie con la cera in maniera tale che – non potendo ascoltare le voci melodiose – seguitassero a remare mentre attraversavano il tratto di mare controllato dalle sirene. Mentre proseguiamo nella lettura del volume, corredato dalle belle tavole di Martina Vanda, Partenope continua il suo racconto: ci parla del successo dello stratagemma utilizzato da Ulisse e dello smacco subíto. Una sconfitta che spinse lei e le sorelle a gettarsi in mare per lo sconforto dove subirono una nuova trasformazione: si mutarono in tre bianchi isolotti, che gli

antichi chiamarono Sirenuse e oggi sono noti come Li Galli (nei pressi di Positano). Infine ricorda come, dopo la morte, fosse venerata e intorno alla sua tomba monumentale si sviluppasse la prima Napoli. Giuseppe M. Della Fina

piú come prima. Tra i molti possibili approcci alla questione, Fowler, Harding e Hofmann hanno scelto quello delle grandi tematiche e cosí

DALL’ESTERO Chris Fowler, Jan Harding, Daniela Hofmann (a cura di)

THE OXFORD HANDBOOK OF NEOLITHIC EUROPE Oxford University Press, Oxford, 1200 pp., 197 ill. b/n 125,00 GBP ISBN 978-0-19-954584-1 www.oup.com

Non è un caso che la progettazione di questo nuovo titolo degli Handbook oxfordiani sia stata avviata nel 2007, né che l’opera assommi a oltre 1000 pagine. Anche a molti fra i non addetti ai lavori, ai quali il volume comunque si rivolge, non sfugge, infatti, la complessità del Neolitico, o, meglio, della neolitizzazione. L’avvento dell’economia produttiva si materializzò nel continente europeo intorno alla metà del VII millennio a.C. (in area balcanica) e, come già era accaduto nel Vicino Oriente, l’introduzione dell’agricoltura e dell’allevamento permisero all’uomo di elaborare un modus vivendi del tutto nuovo. E, davvero, nulla fu

il manuale si articola in quattro parti principali: al di là della Introduzione e delle Conclusioni, gli aggiornamenti, le analisi e gli spunti di riflessione si concentrano perciò nelle vastissime sezioni centrali, rispettivamente dedicate a Mobilità, scambio e interazione su larga scala e Mondi e stili di vita. Come si può intuire già dai titoli scelti, dunque, il filo conduttore è quello di una disamina che prende le mosse dall’archeologia, ma – e, soprattutto in un campo quale è la preistoria, non potrebbe essere altrimenti – allarga la propria «inquadratura», cosí da comprendere le «rivoluzionarie» implicazioni di carattere innanzitutto sociale ed economico veicolate dall’affermarsi delle culture neolitiche. Stefano Mammini



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