Archeo n. 314, Aprile 2011

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LE PRIME COMUNITÀ CRISTIANE

IL RATTO DELLE SABINE

L’ETÀ DI OMERO

PIRAMIDE ETRUSCA

SPECIALE PROCESSO A GESÚ

Mens. Anno XXVII numero 4 (314) Aprile 2011  5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria  9,90; Belgio  9,90; Grecia  9,40; Lussemburgo  9,00; Portogallo Cont.  8,70; Spagna  8,40; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

ARCHEO 314 APRILE 2011

CHI HA CONDANNATO DAVVERO

GESU PROCESSO A GERUSALEMME

CHI ERA PONZIO PILATO?

IN PALESTINA CON I PRIMI CRISTIANI

 5,90

IL RATTO DELLE SABINE

ROMA

UNA MISTERIOSA PIRAMIDE

ETRUSCHI

NELL’ ETÀ DI OMERO

GRECIA



Editoriale

Come duemila anni fa... Nel 1881, un piccolo gruppo di cristiani americani giunse a Gerusalemme per fondarvi una comunità di utopisti filantropi, volta ad alleviare le sofferenze della popolazione locale, ebraica, musulmana o cristiana che fosse. Pochi anni dopo, alla Colonia Americana (con questo nome sarà conosciuta in seguito) si aggregano membri della comunità svedese di Chicago e dalla stessa Svezia. Tra questi un ragazzino, Eric Matson, che arriva nella Città Santa all’età di otto anni. A lui dobbiamo la straordinaria documentazione fotografica della Terra Santa di cui, nell’articolo alle pagine 20-39, presentiamo, per la prima volta al pubblico italiano, una scelta. Matson raccoglie le foto scattate dai primi membri della Colonia sin dalla fine dell’Ottocento e inizia egli stesso a fotografare luoghi e persone, a Gerusalemme, nelle campagne e nei villaggi della Palestina (all’epoca, fino al 1917, ancora parte dell’impero ottomano). Negli anni Trenta, quando allo scoppio della rivolta araba la famiglia decide di tornare in America, il corpus di immagini ha raggiunto i 20 000 negativi. Nel 1971, ormai ottantatreenne, Matson dona la sua collezione, Mezzo secolo di fotografia nel Medio Oriente, alla Library of Congress, la Biblioteca Nazionale degli Stati Uniti. Per noi Matson è l’autore del «primo reportage fotografico» dalla Palestina al tempo di Gesú: realizzato un secolo fa, rievoca luoghi e atmosfere di un mondo scomparso, assai piú simile a quello di duemila anni orsono che non a quello di oggi. Pochi elementi dell’architettura islamica (gli edifici a cupola e i minareti) si insinuano in contesti paesaggistici e antropici che possiamo definire millenari. Ne era consapevole lo stesso Matson; come didascalia alla foto riprodotta in questa pagina aveva scelto un passo dal libro dei Salmi (23,1): «Il Signore è il mio pastore (...) su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce». Andreas M. Steiner



SOMMARIO

EDITORIALE

Come duemila anni fa...

STORIA 3

di Andreas M. Steiner

La «costruzione» del popolo romano 54 di Daniele F. Maras

Attualità NOTIZIARIO

Le origini di Roma/4

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SCAVI Un grande sarcofago di età romana rinvenuto alla periferia di Bologna è stato trasferito nel Museo Civico Archeologico, per completarne lo scavo 6 GRANDI EVENTI Torna la Settimana dei Beni Culturali, otto giorni per scoprire (o riscoprire) il patrimonio artistico e archeologico del nostro Paese 8 PAROLA D’ARCHEOLOGO Anche in Veneto l’archeologia preventiva ha portato a scoperte importanti, in un clima generalmente favorevole nei confronti dell’attività di scavo 12

MUSEI Tutto l’impero in un museo

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di Anna Maria Liberati

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STORIA

Storia dei Greci/4

L’età degli uomini nuovi

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di Fabrizio Polacco

MOSTRE Passioni etrusche

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di Giovanna Quattrocchi

70

SPECIALE

La Palestina al tempo di Gesú

Processo a Gerusalemme

20

di Giorgio Jossa

Dopo l’anno 30

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di Romano Penna

Rubriche IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO

INCONTRI E MUSEI Mentre a Roma prende il via il II Salone dell’editoria archeologica a Ravenna fervono i preparativi per l’inaugurazione di TAMO, nuovo spazio espositivo dedicato all’arte del mosaico 14

La Gerusalemme contesa/1

Salomone o Solimano?

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di Daniele Manacorda

ANTICHI IERI E OGGI

DALLA STAMPA INTERNAZIONALE

Uomini e navigazione/2

Sotto il segno dei gemelli

I mosaici di una chiesa bizantina: è forse un santuario in onore del profeta Zaccaria? 14

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di Romolo A. Staccioli

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L’ETÀ DEI METALLI Il mistero della pietra filosofale

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di Claudio Giardino

SCAVI La storia in galleria

MEDEA E LE ALTRE La maga bifronte 84

di Federico Marazzi

STORIA

di Paola Di Silvio

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

Le province in tasca/3

Il pianto dei vinti

Misteri d’Etruria/1

C’è una piramide nel bosco...

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di Francesca Cenerini

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di Francesca Ceci

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LIBRI

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n otiz iari o SCAVI Emilia-Romagna

Una scoperta da 6 tonnellate rcheologi della Soprintendenza per i Beni ArcheologiA ci dell’Emilia-Romagna hanno

coordinato il trasporto presso il Museo Civico Archeologico di Bologna del sarcofago di età romana rinvenuto all’inizio di febbraio alla periferia settentrionale di Bologna nel corso di uno scavo archeologico programmato, realizzato con fondi del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Gli scavi hanno permesso di individuare un nucleo sepolcrale forse collegato alla presenza di un insediamento di tipo residenziale di considerevoli dimensioni, collocato nelle immediate vicinanze, ma per il momento non ancora determinato con esattezza. Il nucleo di sepolture è costituito da un sarcofago di età repubblicana, perfettamente conservato, da almeno altri due monumenti funerari, quasi completamente demoliti in età tardo-antica, e da due tombe in cassa laterizia e cassa lignea. Il piccolo sepolcreto (datato tra il I secolo a.C. e il I se-

Il grande sarcofago scoperto nel corso di indagini condotte alla periferia settentrionale di Bologna: il reperto ancora in situ, dopo il rinvenimento (in alto) e il suo trasporto nel Museo Civico Archeologico della città felsinea (a sinistra e in basso).

colo d.C.) è stato in seguito ricoperto da sedimenti alluvionali che ne avevano finora celato l’esistenza. Al momento del rinvenimento il sarcofago si presentava integro, con il coperchio collocato nella posizione originaria e le grappe in piombo e ferro che sigillavano la cassa ancora posizionata negli incavi appositamente predisposti. Il coperchio presenta, sul lato lungo, un’iscrizione riferita al nome del defunto. Realizzato in pietra d’Au-

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risina fiorita (pietra calcarea cavata dai Romani nel Carso costiero, a partire dall’età repubblicana), il manufatto misura 2,50 m di lunghezza, 1,10 di larghezza e complessivamente 1,00 di altezza. Il peso si aggira indicativamente tra le 5 e le 6 tonnellate. Nel Museo Civico Archeologico sarà effettuato lo scavo microstratigrafico per riportare in luce quanto ancora conservato all’interno del manufatto. (red.)


SCAVI Italia

Quando l’archeologia incontra il paesaggio Associazione Etruria Nova, in collaborazione con «Archeo», L’ propone iniziative di ricerca e di

studio, aperte alla partecipazione di studenti e appassionati di archeologia, dedicate quest’anno anche all’introduzione al restauro e allo studio delle trasformazioni del paesaggio circostante i siti archeologici. I programmi si svolgono a Marsiliana d’Albegna (Grosseto), in collaborazione con la Tenuta Marsiliana dei principi Corsini e hanno il patrocinio della Provincia di Grosseto. 1. Gli Etruschi a Marsiliana. II Campo Internazionale di Introduzione all’Archeologia 30 maggio-12 giugno Il campo, dedicato a chi voglia accostarsi per la prima volta all’archeologia, è articolato in due moduli di una settimana ciascuno, proposti da archeologi professionisti con lezioni frontali, conferenze ed esercitazioni di prospezione e scavo, integrate dalla visita alle principali aree archeologiche dell’Etruria grossetana e viterbese. Le iscrizioni sono aperte fino al 15 maggio. I moduli saranno attivati con un numero minimo di 18 partecipanti. 2. Progetto Marsiliana d’Albegna. Il trattamento della ceramica e dei metalli di età etrusca. I Corso Internazionale di Introduzione al Restauro 12-26 giugno Il corso, diretto dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana e in collaborazione con l’Università degli Studi di Siena, sarà articolato in due moduli di una settimana ciascuno e comprenderà lezioni frontali e attività di restauro in aula didattica sui reperti ceramici e metallici provenienti dalla campagna di sca-

In alto: Marsiliana d’Albegna. La ripulitura del Tumulo di Mezzo, scavato dal principe Corsini alla fine dell’Ottocento.

vo 2010 nella necropoli di Macchiabuia e nella Casa delle Anfore. Il corso è guidato dal restauratore Alberto Mazzoleni ed è rivolto a quanti desiderino iniziare l’esperienza del restauro archeologico. 3. Marsiliana d’Albegna. DeCLaMA 2011: 1st Summer School. Detecting Cultural Landscape in Mediterranean Archaeology (Il Paesaggio Culturale nell’Archeologia del Mediterraneo) 26 giugno-9 luglio Fruitori ideali del corso, che si svolge sotto la direzione scientifica dell’Università degli Studi di Napoli «Federico II» e dell’Università di Siena, sono archeologi, botanici, architetti del paesaggio. Il programma prevede lezioni teoriche e rilevamenti sul campo, con il fine di approfondire la conoscenza delle componenti storiche e archeologiche che ricorrono nel paesaggio culturale mediterraneo: singole piante, quali alberi monumentali e

secolari, antiche varietà di alberi da frutta e vitigni, ma anche manufatti legati all’uso di risorse naturali come terrazzi, carbonaie, vigneti, oliveti e castagneti abbandonati. Il corso prevede un massimo di 30 partecipanti, ai quali sarà rilasciato un attestato di partecipazione con documentazione delle ore di attività per riconoscimento CFU. Scadenza iscrizioni: 10 giugno. 4. Progetto Marsiliana d’Albegna. III Campo Internazionale di Ricerca Archeologica 28 agosto-30 ottobre La campagna di ricerca, che si svolge sotto la direzione della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana e in collaborazione con l’Università di Siena, prevede le seguenti attività: scavo nella necropoli etrusca di Macchiabuia, con tombe a fossa databili tra la fine dell’VIII e gli inizi del VII secolo a.C.; scavo nella «Casa delle Anfore», una grande residenza (oltre 400 mq di superficie) databile tra la fine del VI e la fine del V secolo a.C.; attività di laboratorio (primo trattamento dei reperti e informatizzazione dei dati di scavo). Le iscrizioni saranno aperte fino a completamento dei posti disponibili. Per informazioni e iscrizioni: Associazione Etruria Nova - Vicolo S. Agostino, 12 - 53024 Montalcino (SI); tel. + 39 0577 600917 oppure cell. +39 349 3613406; e-mail: info@etr ur ianova.org; www. etrurianova.org

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n ot iz iario

SETTIMANA DELLA CULTURA Lazio

Un patrimonio da (ri)scoprire orna l’appuntamento, dal 9 al 17 aprile, con la Settimana della T Cultura, l’iniziativa del Ministero

per i Beni e le Attività Culturali che apre al pubblico, gratuitamente, le porte di musei, aree archeologiche, monumenti, archivi e biblioteche. Come di consueto, nei giorni della manifestazione, giunta alla sua XIII edizione, alla possibilità di scoprire (o riscoprire) i tesori grandi e piccoli del nostro patrimonio si accompagna quella di fruire di un ricco calendario di eventi. Ecco, qui di seguito, alcuni degli appuntamenti in programma. Fino al 6 novembre, gli spazi di Villa Adriana (Tivoli, Roma) accolgono la mostra Villa Adriana. Dialoghi con l’antico, un inedito incontro tra l’arte contemporanea e l’arte antica, in particolare con la storia dei luoghi. Infatti, molti dei reperti che ricordano i fasti di Adriano dialogano con oltre cinquanta lavori di venti artisti contemporanei. Oltre che presso l’Antiquarium del Canopo, le opere sono allestite nei luoghi piú significativi della grande residenza tiburtina di Adriano (Teatro Marittimo, Canopo, Pecile, Grandi Terme), a far da coronamento al normale percorso di visita. Nel Forte Sangallo a Civita Castellana (Viterbo), è esposta una selezione dei reperti componenti la Collezione dei conti Feroldi, i quali, negli ultimi vent’anni del XIX secolo, furono i protagonisti principali di un’intensa attività di indagini archeologiche nel territorio dell’antica Falerii Veteres, che portarono alla scoperta di ricche Antefissa in terracotta a testa di sileno, da Falerii Veteres (Civita Castellana, Viterbo). Già Collezione Feroldi. Civita Castellana, Museo Archeologico dell’Agro Falisco.

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necropoli e di complessi santuariali. Oltre a cedere allo Stato i ricchi contesti funerari rinvenuti, i Feroldi crearono anche una cospicua collezione privata, poi confluita anch’essa nel patrimonio dello Stato nel 1912. Al di là del valore dei singoli oggetti, la collezione è una fedele immagine di un particolare momento culturale del piccolo centro dell’allora provincia di Roma negli anni immediatamente successivi all’Unità d’Italia. A Cerveteri (Roma), nel Museo Archeologico Nazionale Cerite, allestito nel Castello Ruspoli, è esposta buona parte del corredo composto da 132 reperti provenienti dalla tomba etrusca di Monte dell’Oro, scoperta nel 1982 lungo la strada Braccianese, facente parte di un tumulo purtroppo non pervenuto. Si tratta di un corredo di grande ricchezza e varietà presumibilmente pertinente a piú deposizioni.

Il Museo Nazionale Preistorico ed Etnografico «Luigi Pigorini» di Roma, ha scelto di richiamare l’attenzione del pubblico sull’importanza del Palazzo delle Scienze, l’edificio in cui il Museo è ospitato dal 1962, realizzato tra il 1938 e il 1943 su progetto degli architetti Luigi Brusa, Gino Cancellotti, Eugenio Montuori e Alfredo Scalpelli in occasione dell’Esposizione Universale di Roma del 1942. Oltre al pregio architettonico e planimetrico, il Palazzo delle Scienze è caratterizzato dalla presenza di alcune opere decorative in rapporto diretto con la sua originaria destinazione, prima, quella di «contenitore» della Mostra della scienza universale, poi del Museo della scienza universale. Verranno quindi presentate le importanti opere decorative progettate per l’edificio, tra cui i dipinti murari raffiguranti Le applicazioni tecniche della scienza e La scuola di Galileo, e la grande vetrata policroma collocata alla sommità dello scalone monumentale d’ingresso, opera di Giulio Rosso. Con l’iniziativa Anche tu archeologo. Dallo scavo al museo, il Museo Archeologico Nazionale di Palestr ina (Roma) apre le porte a quanti, adulti e bambini, vogliano per un giorno indossare i panni dell’archeologo. Il pubblico sarà protago-


A sinistra: Cerveteri (Roma). Il Castello Ruspoli, oggi sede del Museo Archeologico Nazionale Cerite. In basso: Villa Adriana (Tivoli, Roma). Il Teatro Marittimo della grande residenza tiburtina dell’imperatore Adriano, in una foto di Luigi Spina realizzata per la mostra Villa Adriana. Dialoghi con l’antico.

nista, partecipando a tutte le fasi della ricerca archeologica e della documentazione, fino all’esposizione dei reperti nelle vetrine del museo. Una presentazione guidata introdurrà nel mondo dell’indagine archeologica, illustrando le varie metodologie e tecniche di scavo. Poi ci si potrà cimentare nella partecipazione a uno scavo – si-

mulato nel museo –, ritrovando reperti archeologici autentici provenienti da luoghi di culto dell’antica Praeneste; i reperti saranno quindi ripuliti, fotografati e schedati con l’aiuto di archeologi professionisti. L’ultima fase sarà l’esposizione dei reperti scavati in una vetrina del museo e l’elaborazione di testi illustrativi.

La Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma propone un ricco calendario di appuntamenti, con visite guidate, conferenze, laboratori e altre attività che vedono coinvolte tutte le sedi (musei e aree archeologiche) di sua competenza: dal Museo Nazionale Romano (nelle sedi di Palazzo Massimo, delle Terme di Diocleziano, della Crypta Balbi e di Palazzo Altemps) all’area archeologica dell’Appia Antica (con iniziative presso il Mausoleo di Cecilia Metella e la Villa dei Quintili), dalle Terme di Caracalla agli scavi di Ostia Antica. A Nemi (Roma), il Museo delle Navi Romane propone un suggestivo accoppiamento fra archeologia e musica. L’Associazione «Flauto Magico» illustrerà attraverso una visita guidata ai reperti del museo la cultura materiale che ha caratterizzato nelle fasi storiche l’area dei Colli Albani e le figure femminili che dal Neolitico ai giorni nostri sono state oggetto di culto dei popoli succedutisi in questi luoghi. Dopo letture e teatralizzazione sul tema, il discorso si concluderà parlando della devozione alla Madonna di Versacarro, ultima tra le figure venerate nel bacino di Nemi. Infine, le componenti dell’Associazione danzeranno sul piazzale antistante il museo la «tammuriata», il cui ritmo caratterizza la festa popolare che si affianca a quella sacra nelle festività mariane del Meridione italiano. Il programma completo e dettagliato della Settimana è disponibile sul sito internet del Ministero: www.beniculturali.it (red.)

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Parola d’archeologo

di Flavia Marimpietri

D’amore e d’accordo Recenti scoperte a Padova e in altre località del Veneto testimoniano l’importanza degli scavi preventivi. E sottolineano il positivo clima di collaborazione fra gli archeologi, le istituzioni e la cittadinanza. Ne abbiamo parlato con Vincenzo Tiné, Soprintendente per i Beni Archeologici del Veneto ome ogni arteria extraurbana, la via Annia, la strada romana C che collegava Bologna ad Aquileia, era costellata di tombe all’ingresso delle città. E la necropoli romana della via Annia è emersa, a sorpresa, durante gli scavi preliminari alla realizzazione di un parcheggio sotterraneo in piazza Rabin, nei pressi del Prato della Valle, nel cuore di Padova. Della scoperta abbiamo parlato con Vincenzo Tinè, Soprintendente ai Beni Archeologici del Veneto. «L’intervento del parcheggio di piazza Rabin – spiega il Soprintendente (nella foto a sinistra) – ha provocato contrasti, poiché servirà un centro commerciale che verrà a insistere in un punto nevralgico della città. Il complesso si andrebbe a inserire sul frontone del Foro Boario, che chiude architettonicamente il Prato della Valle, luogo-simbolo della città. Alcune istanze cittadine hanno sollevato un problema di tipo architettonico: vorrebbero preservare la piazza cosí com’è. Ma il nostro punto di vista è un altro: per gli archeologi questi scavi sono un’occasione unica». Ma che cosa è emerso dagli scavi di piazza Rabin? «Abbiamo trovato resti di un convento benedettino, di età medievale, e, al di sotto, abbiamo individuato tombe romane con elementi di corredo (tra cui una

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fibula e un unguentario): c’è la concreta possibilità che si tratti dell’area della necropoli dell’antica Padova, che doveva trovarsi appena fuori dalla porta romana. L’area è stata solo parzialmente individuata, in corrispondenza del vicolo Pastori: è stata scavata qualche tomba… ma il grosso della

necropoli sulla via Annia deve essere lí. E questa sarebbe la prima chance, per gli archeologi, di scavarla. Per ora abbiamo seguito tutte le fasi dell’archeologia preventiva: carotaggi e scavi in estensione. Speriamo di poter continuare». Quanto tempo occorrerebbe per scavare la necropoli? «Non molto. Due o tre mesi di lavoro». A volte l’archeologia preventiva viene vista come un intralcio dalla classe politica, oppure è guardata con indifferenza o fastidio dai cittadini. Accade a Roma, per esempio, come ha ricordato Roberto Egidi a proposito della scoperta di un gruppo di statue


A destra: iscrizione riferibile a un monumento funerario romano scoperto nell’area di vicolo Pastori, a Padova. In basso: il cantiere di scavo nell’area di vicolo Pastori. Nella pagina accanto: cippi con iscrizioni in venetico, rinvenuti nel corso dei lavori di ristrutturazione di Palazzo Dondi, a Padova.

imperiali di età antonino-severiana durante la realizzazione del Piano Edilizio di zona «Anagnina1», nel suburbio di Roma (vedi «Archeo» n. 313, marzo 2011). In Veneto come viene vista l’archeologia preventiva, Soprintendente? «Generalmente bene. Soltanto a Verona la realizzazione di tre grandi parcheggi è stata vista con fastidio. A Padova invece no: piazza Rabin, anche se è adiacente alla piazza piú famosa della città, il Prato della Valle, era un’area degradata, talvolta adibita a luna park, un grande piazzale, di fatto inutilizzato, quindi l’intervento non ha avuto impatto negativo dal punto di vista sociale». Un altro importante scavo archeologico urbano, a Padova, è stato quello di Palazzo Dondi, che ha portato alla luce i livelli preromani della città e le testimonianze della civiltà degli antichi Veneti, che abitarono la regione nel corso del I millennio a.C.... «Una scoperta del tutto inedita», racconta Tinè. «L’INAIL, in occasione della ristrutturazione del Palazzo Dondi, ha pagato gli scavi archeologici che hanno messo in evidenza i livelli della città paleoveneta, tra cui diverse strade e strutture. Eccezionale è stata la scoperta di due cippi gemelli, che recano iscrizioni in “venetico”, la lingua del Veneto preromano. I cippi, che servivano a segnare i confini, sono stati trovati in due strade parallele. Siamo nel VI secolo a.C.: in questa regione è l’età del Ferro. Nelle iscrizioni si fa cenno a una classe di donne, una sorta di sacerdotesse che avevano il compito di collocare e dedicare i cippi alla divinità, secondo una

particolare forma di ritualizzazione sacra. Un rito molto antico, ben lontano nel tempo dalla conquista pacifica da parte dei Romani del Veneto, nel II secolo a.C.». Che «città» era Padova allora, nel VI secolo a.C.? «Abbiamo trovato strutture abitative, di cui si conservano tracce negative come le buche dei pali di sostegno: un caso unico perché abbiamo consolidato e valorizzato in situ le buche di palo lasciando un lembo di terra a vista. Gli scavi dimostrano che già nel VI secolo a.C. i Veneti antichi avevano un concetto di urbanistica evoluto: erano dotati di una sorta di magistratura femminile che si

occupava del catasto dei cippi. Come si è detto di recente in un convegno sul tema a Padova, si può immaginare l’enfasi di queste sacerdotesse che regolamentavano lo spazio urbano e insieme tessevano con conocchie di bronzo simili, forse, a quelle trovate a Este». E che «città» è Padova, oggi? La cittadinanza come convive con i suoi resti archeologici? «C’è grande attenzione da parte della popolazione a non toccare le zone nevralgiche. C’è un forte interesse da parte della cittadinanza. Ci sono circoli, gruppi e ogni Comune è geloso del suo museo archeologico». Il contrario di quello che accade in gran parte dell’Italia, centro-sud in particolare, dove l’archeologia viene spesso bistrattata... «Sí, è una cosa che mi ha stupito. In Veneto i cittadini sono molto legati al proprio territorio: a differenza della Campania e del Lazio, se lo tengono stretto. C’è un amore per l’antichità diffuso e radicato. Io ho lavorato dieci anni a Roma, al Museo Nazionale Preistorico Etnografico “L. Pigorini”, e posso dire che la percezione diffusa dell’archeologia nel Veneto è davvero un esempio. Qui non si pianta una carota se non si passa per la Soprintendenza».

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ROMA

Sfogliare il passato

Il Museo Nazionale Preistorico Etnografico «L. Pigorini» ospita, dal 19 al 22 maggio, il II Salone dell’Editoria Archeologica di Roma. Presentazioni di libri, conferenze, lezioni, dibattiti, convegni accompagnano l’esposizione-vendita e, nei giorni del 20 e 21 maggio, avrà luogo la II edizione del convegno «Antropologia e archeologia a confronto: Rappresentazioni e pratiche del Sacro». Info: www.ediarche.it

RAVENNA

Una cittadella per il mosaico Aprirà al pubblico il prossimo 21 maggio, nel complesso di San Nicolò, «TAMO. Tutta l’Avventura del Mosaico». La realizzazione del progetto è al centro dell’attuale stagione della Fondazione RavennAntica, che sta allestendo, nel cuore della città romagnola, un grande centro espositivo innovativo, versatile e multiforme dedicato al mosaico. Info: tel. 0544 213371; www.tamoravenna.it

TRENTO

Antichi metallurgi Alla lavorazione dei metalli nell’antichità, e nel Trentino in particolare, sono dedicati gli incontri di archeometallurgia del ciclo «Rame. Alla ricerca delle miniere perdute», in programma il 6 e 20 aprile e l’11 maggio presso il S.A.S.S., lo Spazio Archeologico Sotterraneo del Sas, a Trento. Info: tel. 0461 492161; www.trentinocultura.net/ archeologia.asp

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Archeofilatelia

a cura di Luciano Calenda

Nei luoghi di Gesú La Terra Santa e la valle del Giordano sono lo scenario della quasi totalità delle vicende legate a Gesú, al suo proselitismo e alla nascita delle prime comunità cristiane. Un bel foglietto emesso da Israele (1) raffigura proprio la parte piú sacra della cristianità: il fiume 2 Giordano che scorre dal Lago di Tiberiade, indicato dalla freccia, e si versa nel Mar Morto. Lungo il suo percorso sono posizionate le località sedi dei primi nuclei di seguaci di Gesú: Tiberiade, raffigurata da un francobollo del Vaticano (2) e da uno israeliano (3) ove appare con il suo nome arcaico, Kinneret. Altro luogo sacro ai cristiani, scendendo verso il Mar Morto, è Nazaret, il cui panorama è mostrato su di un francobollo vaticano (4). Naturalmente si arriva a Gerusalemme, raffigurata da moltissimi francobolli tra i quali abbiamo scelto il Santo Sepolcro (5) e un’altra veduta «antica» della città (6). Infine, poco piú a sud, Betlemme, ancora su due francobolli vaticani che mostrano la basilica (7) e il panorama (8). Ma ci furono altre comunità cristiane al di fuori della Palestina, la piú importante delle quali fu quella di Antiochia di Siria, oggi in Turchia, che si dice sia stata evangelizzata dallo stesso Pietro e poi visitata anche da Paolo di Tarso, la cittadina è ricordata sia da un francobollo siriano (9) che da uno turco (10). Un’altra tra le piú antiche comunità cristiane fu quella di Corinto, luogo che può essere citato, purtroppo, solo con un francobollo greco che mostra il canale navigabile (11). Si può dire che proprio da questi luoghi sia partita la diffusione della parola di Cristo simboleggiata da uno dei primi francobolli commemorativi italiani emesso nel 1923 (12).

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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

Luciano Calenda, C.P. 17126 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it www.cift.it



L’archeologia nella stampa internazionale a cura di Andreas M. Steiner

I

l sito di Khirbet Madras («le rovine di Madras»), 40 km a sudovest di Gerusalemme, è noto agli archeologi come insediamento di una comunità giudaica che vi abitò fino alla sua distruzione da parte delle legioni di Roma, in seguito alle rivolte del 135 d.C. Nel 1980, la scoperta di un architrave scolpito aveva suggerito la presenza di un’antica sinagoga di cui non furono però trovate altre tracce. Lo scorso febbraio, un intervento volto a prevenire scavi clandestini nel sito, ha fatto riemergere l’architrave perduto, insieme ai resti di un vasto edificio pubblico di età bizantina, munito di un magnifico mosaico pavimentale.

Una chiesa per il profeta Zaccaria L’edificio, di cui gli archeologi dell’Israel Antiquities Authority hanno potuto identificare diverse fasi costruttive, presenta la tipica

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Il grande mosaico appartenuto a una chiesa di età bizantina, emerso dagli scavi condotti a Khirbet Madras, in Israele.

struttura a basilica, con un grande atrio, la navata centrale e due laterali. Gli scavi hanno portato alla luce otto colonne di marmo dall’Asia Minore, con capitelli scolpiti, che sorreggevano la copertura della chiesa.Tutti i pavimenti sono decorati con mosaici in ottimo stato di conservazione, raffiguranti animali, motivi floreali e geometrici. In un ambiente sotterraneo, che si estende sotto l’intera superficie della chiesa, sono stati scoperti reperti di vita quotidiana: lampade, vasi e altri recipienti, nonché monete risalenti alla prima e alla seconda rivolta giudaica (66-70 e 132-135 d.C., rispettivamente). Secondo gli studiosi, l’edificio potrebbe essere identificato come luogo sacro dedicato alla memoria del profeta Zaccaria, la cui residenza e la cui tomba vengono collocate - dalle fonti cristiane di età bizantina - proprio nell’area del sito di Khirbet Madras.



Calendario Italia

LEGNAGO (VE)

ROMA

Da qui all’eternità

Palazzo Farnèse

L’uomo e la morte nel Veronese in 2000 anni di storia Centro Ambientale Archeologico, Museo Civico fino al 29.05.11

Dalle collezioni rinascimentali ad Ambasciata di Francia Palazzo Farnese fino al 27.04.11

MONTEFIORE CONCA (RN)

ALTINO

I colori di Montefiore

Altino. Vetri di laguna

Museo Archeologico Nazionale di Altino (Venezia) fino al 31.05.11 BOLZANO

Ötzi20

Mostra per il ventennale del ritrovamento della mummia del Similaun Museo Archeologico dell’Alto Adige fino al 15.01.12 BORGORICCO (PD)

Qui sopra: vasi in vetro da un corredo funerario. A sinistra: moneta da un pozzo dell’antica Opitergium.

Il segreto del pozzo

Ercole il fondatore

Dall’antichità al Rinascimento Museo di Santa Giulia fino al 12.06.11 CHIUSI

Goti e Longobardi a Chiusi

Storia di Clusium tra il VI e l’VIII secolo Museo Nazionale Etrusco di Chiusi fino al 21.08.11

Gli Etruschi dall’Arno al Tevere Palazzo Casali fino al 03.07.11

Il fascino dell’Egitto

Il ruolo dell’Italia pre e post-unitaria nella riscoperta dell’antico Egitto Orvieto, Museo «Claudio Faina» e Palazzo Coelli (Fondazione Cassa di Risparmio di Orvieto) fino al 02.10.11

Nerone

BRESCIA

Le collezioni del Louvre a Cortona

ORVIETO

ROMA

Materiali dallo scavo dei pozzi romani di Opitergium Museo della Centuriazione Romana fino al 15.06.11

CORTONA

Testimonianze archeologiche dagli scavi nella Rocca Rocca malatestiana fino al 25.06.11

Busto femminile in terracotta di Arianna, da Falerii Novi. III sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.

La mostra rivisita la figura di Nerone, fortemente penalizzata ai suoi tempi dalla propaganda dell’aristocrazia, e valorizzare le novità riguardanti due aspetti del regno: l’incendio, che distrusse buona parte della città nel 64 d.C., e la conseguente politica di ricostruzione avviata dall’imperatore a Roma dal 64 al 68 d.C. L’esposizione si svolge nell’area archeologica centrale di Roma, in piú spazi antichi, creando cosí un rapporto diretto con i luoghi in cui lo stesso Nerone visse e intervenne sia prima sia dopo l’incendio. Lo scopo è offrire una nuova lettura dell’ambiziosa attività edilizia dell’imperatore, illustrata anche dalle recenti scoperte condotte negli edifici neroniani nell’area del Palatino e dalla presentazione al grande pubblico degli importanti scavi della valle del Colosseo che hanno permesso di ricostruire nel dettaglio l’incendio. La mostra è accompagnata da un esame piú ampio della figura di Nerone, attraverso i suoi

FIRENZE SPILAMBERTO (MO)

Signori di Maremma

Élites etrusche tra Populonia e Vulci Museo Archeologico Nazionale fino al 30.04.11 GENOVA

L’Africa delle meraviglie Arti africane nelle collezioni italiane Palazzo Ducale, Sottoporticato e Castello d’Albertis fino al 05.06.11

18 a r c h e o

Pittura parietale con il dio Osiride. Firenze, Museo Egizio.

Il tesoro di Spilamberto Figura lignea Mbotumbo. Cultura Baule, Costa d’Avorio. Brescia, Collezione privata.

Signori longobardi alla frontiera Spazio Eventi «Liliano Famigli» fino al 25.04.11 TRENTO

In viaggio verso l’ignoto

L’archeologia fotografata da Elena Munerati Spazio Archeologico Sotterraneo del Sas fino al 30.04.11


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

Germania BERLINO

Dalla seta alla porcellana

Duemila anni du relazioni tra Europa e Cina Museo tridentino di scienze naturali fino al 01.05.11

Gli dèi salvati dal palazzo di Tell Halaf Pergamonmuseum fino al 14.08.11

Belgio

MANNHEIM

BRUXELLES

Gli Etruschi in Europa

Un’esposizione multimediale Musée du Cinquantenaire fino al 24.04.11

Il ritorno degli dèi A sinistra: braciere, da Chiusi. VI sec. a.C. Qui sotto: particolare di una xilografia con Danza macabra.

L’Olimpo nascosto di Berlino a Mannheim Reiss-Engelhorn-Museen fino al 13.06.11

Statuetta di Eros dormiente con una torcia.

Tra il Paradiso e l’Inferno: morire nel Medioevo Musée du Cinquantenaire fino al 24.04.11

MONACO

La guerra di Troia rapporti familiari, la propaganda del tempo e la fortuna che ha reso cosí «famigerato» il nome dell’imperatore fino a oggi. Sono quindi previste una sezione sull’immagine antica e moderna di Nerone, una sezione sui ritratti dei suoi familiari e una sulla propaganda neroniana, che vide l’assimilazione dell’imperatore al Sole e la sua celebrazione come auriga e come vincitore dei Parti. Il Colosseo ospita la ricostruzione dell’incendio, fondata sui materiali rinvenuti negli scavi recenti. Essi hanno permesso di riconoscere la situazione della valle del Colosseo il giorno prima dell’incendio, il giorno stesso della catastrofe (il 18 luglio del 64 d.C.) e poi l’inizio della ricostruzione dell’area. In questa sezione saranno esaminati anche i grandiosi programmi edilizi dell’imperatore e la decorazione architettonica del suo tempo, con un inedito tour virtuale della Domus Aurea. DOVE E QUANDO Area archeologica centrale fino al 12.09.11 Orario tutti i giorni, 8,30-17,30 a un’ora prima del tramonto Info e visite guidate Pierreci, tel. 06 39967700; www.pierreci.it Catalogo Electa

200 anni di Egina a Monaco Glyptothek fino al 31.01.12

Gran Bretagna LONDRA

Afghanistan: crocevia del mondo antico The British Museum fino al 03.07.11

Svizzera BASILEA

L’Egitto, l’Oriente e il modernismo svizzero

Bicchiere in vetro dipinto con scene di mietitura, da Begram. I-II sec. d.C.

La collezione Rudolf Schmidt (1900-1970) Antikenmuseum Basel und Sammlung Ludwig fino al 31.07.11

USA Francia STRASBURGO

Strasburgo-Argentorate

Un campo legionario sul Reno (I-IV secolo d.C.) Musée archéologique L’ubicazione e fino al 31.12.11 l’estensione del campo legionario di Argentorate rispetto all’area urbana di Strasburgo.

NEW YORK

Horemheb, generale e sovrano d’Egitto The Metropolitan Museum of Art fino al 04.07.11 PHILADELPHIA

Segreti della Via della Seta University of Pennsylvania Museum of Archaeology and Anthropology fino al 05.06.11

a r c h e o 19


speciale

GERUS Una veduta di Gerusalemme dal Monte degli Ulivi, in un’immagine scattata intorno all’anno 1900. Le fotografie in bianco e nero che illustrano questo articolo furono realizzate in Palestina tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento da un gruppo di fotografi dell’American Colony di Gerusalemme (vedi l’editoriale di questo numero). È la prima volta che vengono presentate al pubblico italiano.

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ALEMME di Giorgio Jossa

PROCESSO A

Chi erano i principali avversari di Gesú? E di chi la responsabilità ultima della sua condanna? Delle autorità giudaiche o del potere di Roma? Per indagare in chiave storica una vicenda documentata essenzialmente da fonti teologiche è necessario calarsi nel contesto religioso e politico della Palestina dei primi decenni dell’era volgare...

a r c h e o 21


speciale IL PROCESSO A GESÚ

C

hi ha voluto la morte di Gesú? È una domanda che viene periodicamente ripetuta da quasi duemila anni. La morte di Gesú, infatti, continua a essere un enigma. Non soltanto perché le nostre fonti, cioè essenzialmente i Vangeli Canonici di Marco, Luca, Matteo e Giovanni, non offrono una trattazione storica, ma teologica, della vicenda di Gesú, e quindi non si preoccupano affatto di spiegare le ragioni storiche che hanno portato alla sua condanna; ma anche perché gli studiosi troppo spesso trascurano, o interpretano in maniera non del tutto corretta, il contesto storico nel quale tale vicenda si svolge. Una conoscenza migliore di questo contesto può aiutare invece molto a comprendere le circostanze e le ragioni di quella condanna.

La Galilea, un caso a parte Le fonti tradizionali in nostro possesso (e cioè principalmente lo storico ebreo Flavio Giuseppe, ma anche gli stessi Vangeli Canonici) offrono un quadro abbastanza sicuro della situazione politica e sociale della Palestina. Al tempo di Gesú la Palestina era un Paese certamente ricco di tensioni ma, a differenza di quello che spesso si afferma troppo rapidamente, non particolarmente inquieto. «Sub Tiberio quies» scrive Tacito in proposito nelle sue Storie (5,9). E l’affermazione appare fondata.Tra il 14 e il 37, il periodo del governo di Tiberio e della vicenda di Gesú, non conosciamo in effetti rivolte giudaiche di particolare gravità. Alla morte di Erode il Grande, nel 4 a.C., in base al testamento del re, l’imperatore romano Augusto aveva diviso il territorio tra i suoi tre figli: la parte meridionale, comprendente la Giudea, la Samaria e l’Idumea, che era la parte principale del Paese, con la capitale Gerusalemme, era stata assegnata ad Archelao, con il titolo non piú di re, ma soltanto di etnarca (sovrano di una regione formalmente soggetta a una monarchia sovranazionale, n.d.r.); la parte 22 a r c h e o

settentrionale, e cioè la Galilea, con in piú il territorio della Perea al di là del Giordano, era stata assegnata ad Antipa, con il titolo ancora minore di tetrarca (re che esercita il dominio sulla quarta parte di un regno, n.d.r.) e le regioni del nordest, Batanea, Auranitide,Traconitide e Gaulanitide, a Filippo, anche lui col titolo di tetrarca. Nel 6 d.C., in seguito a una rivolta dei sudditi contro Archelao, il sovrano, però, era stato destituito dall’imperatore e la Giudea, la Samaria e l’Idumea erano state trasformate in provincia retta da un prefetto e sottoposte al pagamento di un tributo. Mentre la Galilea quindi aveva conservato un certo

grado di autonomia, restando sotto il governo di Antipa, e fino alla guerra contro il re dei Nabatei Areta del 36 aveva continuato a vivere una vita relativamente tranquilla, la Giudea e la Samaria si trovavano ormai sotto il governo diretto dei Romani. E cominciavano a essere teatro, in particolare proprio al tempo di Pilato, degli incidenti che portarono nel 66 alla guerra contro Roma. Sul piano sociale, la popolazione giudaica conosceva, al tempo di Gesú, le divisioni tipiche di tutto il mondo antico. Al vertice del Paese c’era un’aristocrazia, composta prevalentemente di grandi commercianti e proprietari terrieri, che perseguiva con


maggiore o minore successo la collaborazione con i Romani. Secondo i Vangeli Canonici, sostanzialmente confermati da Flavio Giuseppe, di questa aristocrazia facevano parte innanzitutto i sommi sacerdoti, rappresentanti delle piú potenti famiglie sacerdotali (al tempo di Gesú quella in particolare di Anna o Anano), dalle quali venivano tratte le principali cariche religiose, anzitutto il sommo sacerdote, capo spirituale della nazione; e poi i presbiteri, cioè gli anziani, rappresentanti delle piú influenti famiglie patrizie del Paese; e gli scribi, cioè i dottori della legge, secondo i Vangeli di orientamento prevalentemente farisaico (e che non a caso

Flavio Giuseppe sembra definire amato dalla popolazione, c’era tutto il resto del Paese, formato da piccoinfatti «primi dei Farisei»). li artigiani, contadini e in Galilea, presso il lago di Tiberiade, pescatori. Cos’era il sinedrio? Queste tre categorie costituivano Divisioni, e tensioni, c’erano anche anche il sinedrio (dal greco syne- tra la Giudea e la Galilea, le città e i drion, «seggio comune», consesso, villaggi. Gerusalemme, la Città Sann.d.r.), l’organo principale di auto- ta della Giudea, era la capitale religoverno, religioso e politico insie- giosa del Paese. In essa c’era sopratme, della popolazione giudaica che, tutto il tempio, magnificamente ripur avendo perduto gran parte del costruito da Erode, vero centro suo potere a opera di Erode il Gran- spirituale (ed economico) del giude, conservava, soprattutto a Geru- daismo. E c’era, come già detto, il salemme, la sua influenza sul popo- sinedrio, l’organo di autogoverno lo e questa influenza cercava di religioso e politico. Ma Gerusalemestendere anche alle altre regioni me era anche il luogo in cui si trodel Paese. Di fronte a questa aristo- vava la gran parte dei sacerdoti e crazia, gruppo di potere nel com- degli scribi, le autorità spirituali del plesso rispettato ma non molto giudaismo del tempo. La Galilea era

Ponzio Pilato, governatore romano della Giudea, presenta Gesú al popolo, dalla balconata del Pretorio. Sulla colonna di destra, la moglie di Pilato distoglie lo sguardo dalla scena preoccupata del giudizio della folla. Olio su tela di Antonio Ciseri (1821-1891). 1871. Firenze, Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti.


speciale IL PROCESSO A GESÚ Giis Gis G isca ccal aa

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Nella sinagoga di Cafarnao, la sua città prediletta, Gesú promette il «pane di vita»

Gesú trasforma l’acqua in vino

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Cafarnao diventa il centro della predicazione di Gesú

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Gesú si trasfigura davanti ai tre Apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni

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Città in cui si svolge l’infanzia di Gesú

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Paese natale degli Apostoli Simon Pietro, di suo fratello Andrea e di Filippo

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Il Discorso della montagna

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GESÚ IN GALILEA

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Una regione ad alto tasso di conflittualità Il nome Palestina è la forma greca dell’aramaico Pelishtaijn, l’ebraico Peleshet, e, in origine, designa soltanto l’area di insediamento dei Filistei, lungo la costa del Mediterraneo. Il toponimo piú antico attribuito alla terra oggi compresa entro i confini di Israele è Canaan, la «Terra Promessa» degli Ebrei che, in seguito, verrà a coincidere, dal punto di vista geografico, con la «Terra Santa» della tradizione cristiana. Nell’Antico Testamento questa terra era già chiamata Israele. In seguito alla conquista di Pompeo del 63 a.C., la terra diviene provincia romana con il nome di Giudea, in riferimento all’antico regno di Giuda del VI secolo a.C. L’uso del termine Palestina per designare tutto il territorio in questione risale all’epoca adrianea: venne, infatti, adottato dai Romani nel 135 d.C., dopo la repressione della

invece una regione marginale, vista spesso da Gerusalemme con diffidenza e con sospetto, perché considerata non sufficientemente ortodossa e sottomessa a quelle autorità. E una situazione in qualche modo simile si verificava tra le città e i villaggi. Le città, non soltanto Ge24 a r c h e o

seconda rivolta ebraica, quando l’intera regione venne chiamata Syria Palaestina e, in questo senso, è rimasto in uso sino a oggi. Il nome venne, inoltre, riesumato in età moderna per designare il territorio durante il mandato britannico, dal 1919 fino alla proclamazione dello Stato di Israele nel 1948. Al tempo di Gesú, la Giudea era una regione ad altissima conflittualità sociale: la maggior parte dei suoi abitanti erano Ebrei, ma vi erano anche i Samaritani (una comunità separatasi dai primi per motivi religiosi e che non mancava di sottolineare il suo antagonismo nei confronti dei suoi ex correligionari), gli Idumei (forzatamente convertiti all’ebraismo alla fine del II secolo a.C.) e le popolazioni greche di città come Cesarea Marittima e Samaria, che spesso cercavano lo scontro con gli Ebrei.

rusalemme in Giudea, ma anche Sefforis e Tiberiade, le due successive capitali della Galilea di Antipa, sebbene continuassero a essere in grande maggioranza giudaiche, subivano l’influenza della cultura greca; ed erano inoltre sede del potere politico, con tensioni molto forti tra

i diversi gruppi sociali e i vari partiti politici. Nei villaggi la cultura greca non era invece penetrata affatto e anche le tensioni politiche e sociali erano scarse. C’era, tuttavia, una ostilità latente contro Greci e Romani, e contro gli Erodiani che li sostene-


LA PALESTINA AL TEMPO DI GESÚ

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Deserto del Negev

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vano, che in occasione di eventi eccezionali (la morte di Erode il Grande, la destituzione di Archelao e, piú tardi, lo scoppio della guerra contro Roma) poteva sfociare in rivolte sanguinose. Se la conoscenza delle condizioni politiche e sociali della Palestina,

fondata come è soprattutto su Flavio Giuseppe e i Vangeli Canonici, non è oggi troppo diversa da quella dei decenni passati, le scoperte sensazionali del secolo scorso (principalmente i Manoscritti di Qumran – vedi «Archeo Monografie» n. 1, 2011 e «Archeo» n. 232, giugno

2004 –, ma anche numerosi ritrovamenti archeologici, in particolare in Galilea) hanno invece profondamente modificato la conoscenza della situazione religiosa del giudaismo al tempo di Gesú, provocando addirittura discussioni su ciò che propriamente dovesse intendersi a r c h e o 25


speciale IL PROCESSO A GESÚ

Al tempo di Gesú la popolazione rurale della Giudea abitava in piccoli villaggi composti da basse case in pietra e fango, assai simili a quello di Kafr Malik (Samaria), riprodotto in questa immagine della fine dell’Ottocento.

26 a r c h e o


allora per giudaismo. La ricerca tradizionale, accogliendo, in sostanza, la presentazione dei Vangeli Canonici, e andando anche oltre quella di Flavio Giuseppe, riteneva il fariseismo la corrente spirituale assolutamente dominante del giudaismo dell’epoca e lo considerava come precursore diretto di quel rabbinismo che si sarebbe affermato dopo la distruzione di Gerusalemme del 70 (vedi cronologia a p. 38), e che avrebbe fatto del giudaismo una religione della legge (la religione della Mishna e del Talmud). Opponeva perciò in maniera radicale la predicazione di Gesú alla spiritualità giudaica, identificata tout court con quella farisaica.

tamente un solido fondamento storico. In realtà dei Sadducei sappiamo molto poco. A quel che sembra, essi erano però la parte piú aristocratica e piú chiusa del giudaismo del tempo, alla quale aderiva in particolare la maggioranza dei sommi sacerdoti e che costituiva il gruppo piú influente del sinedrio. Decisamente tradizionalisti nelle questioni religiose e fortemente conservatori in quelle politiche, essi si attenevano soprattutto alla legge scritta cosí come era contenuta nei libri mosaici del Pentateuco (la Torà). Diffidavano, invece, degli sviluppi piú recenti della religione cosí come si erano venuti progressivamente affermando in quella che i Farisei definivano la «tradizione dei padri» e che sarebbe divenuta in Gli orientamenti religiosi Ma la ricerca attuale ha giustamen- seguito la legge orale (come ricorte messo in questione queste con- dano gli stessi Vangeli, non ammetvinzioni. Il fariseismo non è sempli- tevano, per esempio, la risurrezione cemente il precursore del rabbinismo e comunque non era la sola corrente (e forse neppure la corrente dominante) del giudaismo dell’epoca. Già Flavio Giuseppe, che pure afferma l’esistenza di una influenza particolare dei Farisei sulla popolazione, conosce altri dei morti). Aperti alle influenze gruppi religiosi accanto a essi. Nel- della cultura greca e compromessi le sue due opere principali, la Guer- quasi sempre col potere politico, sia ra Giudaica e le Antichità Giudaiche, erodiano che romano, ostili a ogni afferma, infatti, che nel giudaismo forma di messianismo popolare, esdel tempo c’erano tre orientamenti si costituivano una ristretta minoprincipali: quello dei Sadducei, ranza che, se possedeva senza dubquello dei Farisei e quello degli bio un notevole prestigio sociale, Esseni. E, accanto a questi orienta- non godeva tuttavia delle simpatie menti principali, pone un quarto e dell’appoggio del popolo. gruppo: quello costituito dal movi- Contrariamente a un pregiudizio mento fondato nel 6 d.C. da Giuda diffuso, fondato sulla presentazione il Galileo. Ma oggi possiamo dire estremamente negativa che ne dancon certezza che anche Giuseppe no i Vangeli Canonici, i Farisei erasemplifica molto una realtà giudai- no invece, con i loro scribi, la parte ca che, pur mantenendo una sua piú «democratica» e piú viva del unità dal punto di vista sociale, sul giudaismo del tempo e costituivano piano strettamente religioso era il vero elemento di progresso, e le invece assai piú articolata e com- vere guide spirituali (anche piú dei plessa. E non è possibile, quindi, sacerdoti), della religione giudaica. mantenere i giudizi tradizionali Il loro scopo era realizzare una piú fondati soltanto sulle sue opere e completa sacralizzazione della vita sui Vangeli Canonici. Possiamo del popolo, mediante l’osservanza partire comunque dalle indicazioni rigorosa delle regole «sociali» della di Flavio Giuseppe, che hanno cer- legge (come il pagamento delle de-

cime per il culto e il sacerdozio) e l’estensione delle norme di purità prescritte per i sacerdoti anche al resto della popolazione. Estremamente rigidi nel richiedere l’osservanza precisa della legge mosaica, si preoccupavano tuttavia di adattare questa legge alle nuove esigenze del tempo e di arricchirla mediante il ricorso alla tradizione dei padri. E pur essendo sostanzialmente leali al potere politico, anche straniero, attraverso i loro capi (quelli che i Vangeli definiscono «gli scribi»), che dal tempo della regina Alessandra (70-60 a.C.) erano entrati anche a far parte del sinedrio, esigevano con grande vigore da questo potere il rispetto della legge giudaica. Per questi motivi, secondo Flavio Giuseppe, godevano di grande influenza su tutta la popolazione giudaica. Gli Esseni costituiscono il solo gruppo religioso che può legittimamente definirsi una setta (Sadducei e Farisei non lo sono). Essi, o almeno una parte significativa di essi, vengono identificati infatti oggi da quasi tutti gli studiosi con quel gruppo di asceti del quale a partire dal 1947 è stata scoperta a Qumran, sulle sponde del Mar Morto, la ricchissima biblioteca. Il gruppo era sorto quasi certamente agli inizi del II secolo a.C. in seguito a una scissione verificatasi all’interno della casta sacerdotale determinata dal rifiuto, da parte di un nucleo legittimista, del sacerdozio ufficiale di Gerusalemme, considerato usurpatore.

I Farisei erano la parte piú «democratica» del giudaismo del tempo

A Qumran, la vera setta Questo gruppo viveva a Qumran, separato polemicamente dal resto del giudaismo, convinto di costituire il resto santo di Israele, i figli della luce opposti ai figli delle tenebre. Nell’attesa di quello che sarebbe stato lo scontro finale con i Romani sotto la guida del Messia davidico, la guerra escatologica tra le armate del principe della luce e quelle del principe delle tenebre, a r c h e o 27


speciale IL PROCESSO A GESÚ FLAVIO GIUSEPPE, UN CRONISTA D’ECCEZIONE L’ebreo Flavius Iosephus (37-100 d.C. circa) nasce a Gerusalemme da una nobile famiglia sacerdotale. Nel 57 d.C., dopo aver combattuto contro l’occupazione romana, viene fatto prigioniero dai Romani. Graziato dall’imperatore Vespasiano si stabilisce – dopo la presa di Gerusalemme da parte di Tito del 70 d.C. – a Roma, dove scrive, in greco, le sue opere, ancora oggi di fondamentale importanza: la Guerra Giudaica, le Antichità Giudaiche, un’Autobiografia e il Contra Apionem, pamphlet contro l’antisemitismo dell’epoca. In due occasioni Giuseppe fa una, breve, menzione della figura di Gesú. In Antichità Giudaiche XVIII, 63-64 scrive: «Allo stesso tempo, circa, visse Gesú, uomo saggio, se pure uno lo può chiamare uomo; poiché egli compí opere sorprendenti e fu maestro di persone che accoglievano con piacere la verità. Egli conquistò molti Giudei e molti Greci. Egli era il Cristo. Quando Pilato udí che dai principali nostri uomini era accusato, lo condannò alla croce. Coloro che fin da principio lo avevano amato non cessarono di aderire a lui… fino a oggi non è venuta meno la tribú di coloro che da lui sono detti Cristiani». In un secondo passaggio (AG XX, 201 segg.) Giuseppe riferisce che Anano (un sommo sacerdote) avrebbe condannato ingiustamente un «uomo di nome Giacomo, fratello di Gesú, che era soprannominato Cristo». A.M.S.

Lo storico ebreo Flavio Giuseppe (37-100 d.C.) in un’incisione del 1737.

esso viveva in una comunità di forte impronta sacerdotale regolata da norme rigidissime (riti speciali di iniziazione, regole severe di purità, comunione tassativa dei beni, separazione abituale dalle donne), tutto dedito alla lettura e alla meditazione della Scrittura e al compimento di pratiche ascetiche. A questi tre orientamenti principali del giudaismo del tempo Giuseppe aggiunge ancora un quarto gruppo o, come egli anche dice rivolgendosi ai suoi lettori greci, una quarta scuola, quella fondata da Giuda il Galileo con la collaborazione del fariseo Saddok. Questa «scuola» era sorta nel 6 d.C., al momento della riduzione della Giudea a provincia romana, e si caratterizzava, dice Giuseppe, per un invincibile amore della libertà, e piú in particolare per il rifiuto di pagare il tributo a Cesare che in quella occasione era stato imposto agli abitanti della Giudea.

Il tributo a Cesare Il suo assunto fondamentale, religioso quindi prima ancora che politico (Giuda stesso viene definito da Giuseppe «maestro», e «dottore della legge»), era infatti che ai Giudei non era lecito pagare il tributo perché, avendo solo Dio come signore, non potevano riconoscere, accanto a lui, nessun padrone mortale. I seguaci di Giuda, anzi, non soltanto rifiutavano il pagamento del tributo a Cesare, ma invitavano tutti i loro connazionali a negare ogni forma di collaborazione con il sovrano straniero. Col crescere delle tensioni per le vessazioni dei successivi procuratori, i loro discendenti, i famigerati sicari (non, come troppo spesso si afferma, gli zeloti) di cui parla con orrore Giuseppe, sarebbero diventati i piú feroci oppositori del governo romano e nella guerra del 66-73 sarebbero stati infine gli eroici protagonisti della resistenza di Masada. La presentazione di Flavio Giuseppe, per quanto sostanzialmente attendibile, è però, come già detto, fortemente incompleta. Accanto a


CHI GOVERNAVA LA GALILEA Alla morte di Erode il Grande, nell’anno 4 a.C., il regno di Giuda viene diviso tra i suoi tre figli. Mentre due di essi – Archelao ed Erode Antipa – si recano a Roma per far avvalorare il testamento del padre, in Giudea si verificano moti insurrezionali, repressi dall’allora governatore Quintilio Varo. Archelao ottiene la Giudea, la Samaria e l’Idumea, Erode Filippo la Batanea, la Traconitide e l’Iturea, Erode Antipa la Galilea e la Perea. Quest’ultimo deve la sua fama all’orribile morte di Giovanni Battista, tramandata dai Vangeli: Giovanni viene arrestato dopo aver osato criticare il tetrarca, in seguito verrà decapitato e la sua testa offerta alla nipote di Erode Antipa, Salomè. L’episodio è raffigurato nel dipinto di Antonio Romano (1490 circa) riprodotto qui sopra. Sempre secondo i Vangeli, Erode Antipa incontra il Nazareno dopo che Pilato «se ne era lavato le mani» (Luca), una volta appreso che Gesú era della Galilea e, pertanto, sotto la giurisdizione di Antipa. (red.)

questi gruppi ve ne erano molti altri. E alcuni di essi sono particolarmente importanti nella ricerca sul Gesú storico perché, piú di quelli sopra citati, hanno probabilmente influito su Gesú e sulla sua predicazione. Frequente era in particolare la comparsa di gruppi di rinnovamento che chiamavano Israele alla penitenza. E uno di questi è stato certamente il movimento di Giovanni Battista, al quale con ogni probabilità ha aderito in un primo momento anche Gesú: un movimento che, secondo lo stesso Flavio Giuseppe, riscosse tale successo nel popolo da suscitare i sospetti di Erode Antipa, che ne fece mettere a morte il capo. E numerosi, soprattutto, erano i gruppi che si usa definire «apocalittici» e «messianici». Accanto al già nominato gruppo di Qumran basta ricordare il movimento apocalittico enochico, che molti studiosi ritengono avesse larga diffusione e che potrebbe avere

noscere esplicitamente una larga penetrazione nel popolo. Indagare la situazione politica e religiosa della Palestina al tempo di Gesú può essere molto utile, come dicevamo all’inizio, per comprendere le circostanze e le ragioni della condanna del figlio di Dio. Ma se le nostre fonti quasi esclusive sulla sua vita sono i Vangeli Canonici di Marco, Luca, Matteo e Giovanni, il loro carattere, che è influenzato lo stesso Gesú (per teologico e letterario, non storico, esempio con la concezione messia- né tantomeno biografico, non conica cosí rilevante nei Vangeli del stituisce un ostacolo insormontabiFiglio dell’Uomo). Ma non meno le al raggiungimento di questo scoimportanti sono i movimenti piú po? E piú in generale: non è imposstrettamente messianici che com- sibile scrivere una storia di Gesú? parvero per esempio alla morte di Questo, in effetti, è il problema piú Erode il Grande (quelli di Giuda, difficile e delicato della ricerca sul Simone e Atronge) e allo scoppio Gesú storico. della guerra giudaica (quelli di Me- Poiché il Vangelo di Marco è consinahem e Simone bar Giora), ai qua- derato dagli studiosi il piú antico e li infatti Flavio Giuseppe, pur con- storicamente attendibile, tutto (o dannando i loro capi come impo- quasi) dipende dalla valutazione che stori e ciarlatani, non può non rico- si dà della esposizione dell’Apostoa r c h e o 29


speciale IL PROCESSO A GESÚ lo. Oggi si afferma spesso che il Vangelo di Marco impedisce di scrivere non soltanto una vita di Gesú, ma neanche un semplice schizzo della sua vicenda storica. Lo schema cronologico e geografico del Vangelo, si afferma, è teologico e non corrisponde alla realtà storica. E schiettamente teologiche, non storiche, sono le motivazioni offerte da Marco della condanna a morte di Gesú. È perciò molto difficile indicare con certezza le circostanze e le ragioni di questa condanna. Con ogni probabilità esse vanno ricercate però non nei motivi religiosi suggeriti da Marco, ma sostanzialmente in motivi politici.

La versione di Marco Io credo, però, che in queste affermazioni ci sia molta esagerazione. Non c’è dubbio che Marco ha raccolto il materiale della tradizione nel suo Vangelo per temi e con criteri teologici e letterari (le controversie con i Farisei, i racconti di miracoli, le profezie della Passione). Lo schema cronologico e geografico del Vangelo di Marco (ripreso anche da quelli di Luca e di Matteo), secondo cui la predicazione di Gesú è durata circa un anno e si è svolta quasi interamente in Galilea, per concludersi soltanto nell’ultima settimana a Gerusalemme, è tuttavia a mio parere credibile; certamente piú credibile di quello di Giovanni, che sembra indicare invece la durata di circa tre anni e un continuo spostarsi di Gesú tra la Galilea e Gerusalemme. Marco, in realtà, colloca bene i suoi episodi. Sa, per esempio, che la discussione con i Sadducei sulla risurrezione dei morti e la domanda dei Farisei e degli Erodiani sul tributo a Cesare devono avere avuto luogo a Gerusalemme, dove si trovavano quasi tutti i Sadducei e dove si poneva concretamente il problema del tributo. E la durata di un solo anno per il ministero di Gesú che egli suggerisce si accorda molto meglio di quella di Giovanni con la cronologia generale che, sulla base delle indicazioni fornite da Luca all’ini30 a r c h e o

BETANIA. Il villaggio in cui vissero gli amici di Gesú, Marta, Maria e Lazzaro, si trova a est del Monte degli Ulivi, non lontano da Gerusalemme, sulla strada per Gerico. Nel I sec. d.C. non doveva essere molto diverso da come appare in questa immagine dei primi del Novecento. L’odierno nome arabo del villaggio, el-Azariyeh, trasmette quello greco Lazarion, «il luogo di Lazzaro», con il quale era noto ai pellegrini di età bizantina e medievale.

LA TOMBA DI LAZZARO. Il Vangelo secondo Giovanni narra il miracolo della resurrezione di Lazzaro, avvenuto quattro giorni dopo la morte. A Betania rimangono le rovine del suo sepolcro, composto da un vestibolo e una camera interna a volta, meta di pellegrinaggi già dai primi secoli dell’era cristiana.

LA CASA DI MARIA E MARTA. Questi resti di edifici di epoca romana e bizantina sono tradizionalmente attribuiti all’abitazione degli amici di Gesú. Nella casa di Marta e Maria Gesú trova quell’accoglienza e ospitalità che gli sono state rifiutate all’inizio del suo viaggio in Samaria (Luca 9, 53).


NAZARET. Uno scorcio della città nella Galilea ai primi del Novecento. Secondo il Vangelo di Marco, la fonte piú antica e attendibile, Gesú «venne da Nazaret» e questa era la città paterna. Matteo e Luca indicano, invece, come luogo di nascita il villaggio di Betlemme in Giudea. Secondo Matteo, a Nazaret Gesú trascorse l’infanzia, dopo la fuga dall’Egitto. Luca ricorda, invece, che in questo luogo «nel sesto mese l’Angelo Gabriele fu mandato da Dio» per annunciare a Maria la nascita di Cristo.

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speciale IL PROCESSO A GESÚ zio del suo Vangelo, sembra potersi desumere dalle comparse successive di Giovanni Battista e di Gesú. Ma, soprattutto, leggendolo correttamente nel quadro politico e religioso della Palestina che ho rapidamente delineato, Marco offre uno sviluppo credibile della vicenda storica di Gesú, che consente di comprendere con sufficiente chiarezza le circostanze e le ragioni della sua condanna a morte. Gli eventi centrali di quella vicenda – l’adesione iniziale di Gesú al movimento del Battista, l’inizio di un ministero autonomo in Galilea, i conflitti con gli scribi e i Farisei, la confessione messianica di Pietro, la salita di Gesú a Gerusalemme, la purificazione del tempio, l’Ultima Cena con i discepoli, il processo e la condanna a morte – sono, infatti, episodi sostanzialmente certi, che appaiono legati da un preciso filo storico. E il processo e la condanna a morte, in particolare, per quanto presentati da Marco in una prospettiva squisitamente teologica, possono essere ricostruiti con sufficiente certezza.

La «pretesa» di Gesú C’è un punto sicuro da cui bisogna partire. Il prefetto romano Ponzio Pilato condanna a morte Gesú come re dei Giudei. Su questa indicazione di tutti e quattro i Vangeli Canonici gli studiosi sono concordi. Questo significa che il motivo della condanna è politico e consiste nella pretesa di Gesú di farsi re in una regione che era sotto il dominio dei Romani. Gesú è stato quindi condannato da Pilato come ribelle politico, reo del crimen maiestatis. E perciò è stato crocifisso, con la pena romana tipica dei ribelli politici. Ma come mai si è arrivati a questa condanna, che a prima vista appare sorprendente? Una spiegazione strettamente politica dell’azione di Gesú, e quindi della sua condanna a morte, per quanto venga periodicamente ripresa da alcuni studiosi, è in effetti priva di fondamento. La predicazione di Gesú ha carattere schiettamente religioso, ed eventualmente 32 a r c h e o

sociale, non politico. Se crediamo a Marco, essa si è svolta quasi interamente in Galilea. E la Galilea era sotto il dominio di Erode Antipa (ricordiamo, un figlio di Erode il Grande), non dei Romani. Durante il suo ministero Gesú non ha vissuto, perciò, direttamente il problema dell’occupazione romana. Molto probabilmente anzi, finché è stato in Galilea, non ha mai incontrato i Romani. E nell’unico accenno a un problema politico della sua predicazione, che non a caso si trova in un episodio svoltosi a Gerusalemme, nell’ultima settimana della sua vita (l’episodio del tributo, in occasione del quale Gesú pronuncia la celebre frase: «Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio»,

Marco 12, 13-17), egli si allontana chiaramente dalle posizioni sovversive di Giuda il Galileo. L’ingresso trionfale in Gerusalemme, abitualmente indicato dagli studiosi come l’evento piú gravido di conseguenze politiche della sua breve vicenda terrena, è d’altra parte un episodio che la tradizione ha accentuato largamente nelle sue componenti regali e messianiche. Confrontata con quelle degli Evangelisti successivi, la presentazione di Marco fa capire chiaramente che, in origine, esso è stato un evento di modesta entità, che non ha avuto infatti conseguenze pratiche immediate. Gesú è entrato in Gerusalemme per la festa di Pasqua accompagnato da un piccolo numero soltan-


to di pellegrini galilei esultanti. Né le autorità giudaiche, né, tanto meno, quelle romane, a differenza di quanto facevano abitualmente con i movimenti messianici, sono infatti intervenute. Ma se una spiegazione strettamente politica dell’azione di Gesú è priva di fondamento, come si è arrivati a una condanna indubbiamente politica? Si insiste a volte sulla provenienza di Gesú e dei suoi discepoli dalla Galilea.

Una «Terra sospetta» La Galilea, si dice, era infatti sospetta ai Romani. Era la terra di Giuda il Galileo e del movimento rivoluzionario degli zeloti, perennemente inquieta sul piano politico e sempre pronta a ribellarsi. E la sua religiosi-

tà era vista con diffidenza dalle autorità giudaiche di Gerusalemme. La regione era fortemente segnata dalla cultura greca e largamente esposta a influenze pagane. Ma anche queste affermazioni non hanno fondamento. Giuda il Galileo ha agito certamente in Giudea, non in Galilea, perché era la Giudea la regione sottoposta al dominio romano e al pagamento del tributo. Gli zeloti non sono i seguaci galilei di Giuda il Galileo, ma un gruppo sacerdotale sorto a Gerusalemme durante la guerra giudaica del 66. E il racconto di questa guerra che Flavio Giuseppe fa nella sua Vita mostra che la spiritualità dei Galilei non era molto diversa da quella degli abitanti della Giudea. Le città

GESÚ DAVANTI AL SINEDRIO Il dipinto Le jugement du Christ devant le Sanhédrin di Frans Francken il Giovane (1581-1642) conservato nella cattedrale di Saint-Omer (Francia), raffigura Gesú davanti al sinedrio, l’organo giudiziario ebraico preposto a far rispettare la legge e ad amministrare il tempio. A sinistra siede Pilato che indica con la mano sinistra l’accusato. Sul tavolo al centro è posta la brocca con l’acqua per il lavaggio delle mani. I 19 membri del consiglio espongono le tavole su cui sono iscritti i loro giudizi: alcuni di loro esprimono un’opinione favorevole all’imputato (tra cui Nicodemus, seduto direttamente sopra la testa di Gesú), altri si dichiarano colpevolisti e reclamano la condanna del Nazareno. Ai piedi del sommo sacerdote (al centro dell’immagine) si legge la frase attribuita a Pilato: «Io,pagina Pontio Nella Pilato, giudice aaccanto: Gerusalemme foto sotto il potentissimo Cesare satellitare Tiberio… dichiaro… che Gesú di dell’odierno Iraq, neisicui confini è Nazaret… poiché dichiarava figlio di Dio e re compreso dei Giudei,il sito. nonostante provenga da genitori poveri e poiché ha affermato che avrebbe distrutto il tempio di Salomone, che egli venga condannato alla croce insieme a due ladri».

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speciale IL PROCESSO A GESÚ zione di Marco, primo segnale forse di un atteggiamento antigiudaico dei seguaci di Gesú. Ci sarebbe stata tutt’al piú una denuncia dei sommi sacerdoti (come infine dice Flavio Giuseppe), che avrebbero accusato Gesú davanti a Pilato. Ma i motivi della condanna sarebbero comunque sostanzialmente politici, e il vero responsabile della morte di Gesú soltanto il prefetto romano. Ma se la posizione tradizionale, determinata come era sia da una insufficiente conoscenza della situazione religiosa del giudaismo del tempo, sia da un atteggiamento di pregiudiziale ostilità nei confronti della spiritualità giudaica, era indubbiamente semplicistica, la posizione attuale,

Un prefetto in Giudea

La condanna a morte fu eseguita per motivi politici e non religiosi della Galilea, Sefforis e Tiberiade, erano meno aperte alla cultura greca di Gerusalemme. E Gesú, comunque, secondo la tradizione sinottica ha predicato nei villaggi della Galilea, presso il lago di Tiberiade, non a Sefforis o a Tiberiade. La vicenda di Gesú non è quindi strettamente politica, ma innanzitutto religiosa. Ma, ci chiediamo ancora una volta, come si è arrivati a una condanna politica? La ricerca tradizionale, basandosi appunto sul Vangelo di Marco, riteneva che la causa principale della condanna a morte di Gesú fosse stato il suo atteggiamento critico nei confronti della legge mosaica (in particolare le sue violazioni della norma santa del sabato). E che gli avversari principali di Gesú fossero stati perciò i Farisei, tutori rigorosi della osservanza della legge. Divenuto presto mortale, il conflitto con i Farisei sarebbe infine precipitato a Gerusalemme con l’episodio del tempio e avrebbe coinvolto anche i 34 a r c h e o

L’iscrizione rinvenuta da archeologi italiani nel 1961 a Cesarea Marittima, la città voluta da Erode il Grande sulla costa mediterranea, rappresenta l’unica testimonianza archeologica riferita allo storico personaggio incontrato da Gesú. In essa si legge che «Ponzio Pilato, prefetto di Giudea, ha ricostruito il Tiberieum (un monumento in onore di Tiberio, n.d.T.) per gli uomini del mare».

sommi sacerdoti. La condanna sarebbe stata quindi opera del sinedrio nel quale erano rappresentati sacerdoti e scribi, Sadducei e Farisei: ma il sinedrio, non avendo piú il potere di mettere a morte Gesú, lo avrebbe consegnato al prefetto romano Pilato con una accusa, falsa, di carattere politico. La ricerca attuale tende invece, come già detto, a ritenere che, sebbene Gesú non abbia svolto un’azione strettamente politica, sia stato tuttavia condannato a morte per motivi non religiosi, ma pur sempre politici.

determinata come è da una sfiducia esagerata nell’attendibilità di Marco e da una valutazione spesso arbitraria del contesto storico giudaico, appare non meno discutibile. Se Gesú, come dice Marco, ha predicato quasi sempre in Galilea ma, contrariamente a quel che afferma l’Evangelista, non è entrato in conflitto radicale con i Farisei, come si spiega il precipitare improvviso della situazione a Gerusalemme? Bastano l’ingresso in Gerusalemme e l’episodio del tempio a spiegare l’iniziativa dei sommi sacerdoti? Ma se l’ingresso in Gerusalemme è Pilato, il vero responsabile? stato, come ho detto, un episodio Responsabile principale della sua di scarsa rilevanza politica, la purimorte sarebbe stato non il sinedrio ficazione del Tempio lo è ancora di ma Pilato, con la collaborazione dei piú. L’episodio si svolge nel cortile sommi sacerdoti. I motivi principali dei gentili, nella zona quindi del della condanna sarebbero stati l’in- santuario aperta a tutti, non nella gresso trionfale di Gesú in Gerusa- parte del tempio riservata alle funlemme e l’episodio della cosiddetta zioni sacre. E Gesú rovescia le sedie purificazione del Tempio. Il processo e i tavoli dei cambiavalute e dei davanti al sinedrio secondo molti venditori di colombe, non distrugstudiosi è sostanzialmente una crea- ge l’altare o altri arredi sacri. Il suo


MA CHI ERA, VERAMENTE, PONZIO PILATO? Nel 26 d.C. l’imperatore Tiberio nomina un nuovo prefetto della Giudea. Il suo nome è Pontius Pilatus, di famiglia altolocata e appartenente all’ordine equestre, di origine umbra, forse, o abruzzese. L’incarico non era da poco e poteva essere ottenuto solo da chi avesse assolto a una carriera militare in una delle legioni di stanza lungo il limes germanico. All’epoca la provincia della Giudea era suddivisa in tre regioni: a sud l’Idumea, al centro la Giudea vera e propria, al nord la Samaria. Si trattava di un territorio piuttosto circoscritto ma con un potenziale di conflittualità sociale altissimo. Nei dieci anni del suo incarico (dal 26 al 36), Pilato dovette affrontare difficoltà non inferiori ma neanche superiori a quelle dei suoi predecessori, e non ci sarebbe stato alcun motivo in particolare perché il suo nome dovesse essere ricordato. Se non gli fosse capitato il caso di un Ebreo della Galilea, il cui comportamento e i cui enunciati avevano irritato le supreme autorità religiose giudaiche. Sta di fatto che il suo nome irrompe nell’immaginario della nascente civiltà occidentale, al pari di quello della sua illustre vittima. Rimane difficile, però, tracciare un identikit del personaggio, al di là delle innumerevoli leggende nate intorno a lui. Le fonti scritte che lo citano sono poche e tutte «di parte»: i Vangeli Canonici da un lato, Flavio Giuseppe, Filone d’Alessandria e Tacito, dall’altro. Eppure, proprio leggendo Flavio Giuseppe, emergono gli elementi per un giudizio specifico circa il suo operato: contrariamente al comportamento dei suoi quattro predecessori, sempre attenti a non offendere costumi e tradizioni della popolazione locale, Pilato ostentò apertamente un comportamento antigiudaico. Nel 36 d.C., dopo aver ordinato, con una giustificazione pretestuosa, un massacro a danno di un gruppo di religiosi samaritani, fu sospeso dall’incarico e trasferito in Gallia dove, secondo la leggenda, nel 39 d.C. si suicidò. Insomma, non aveva ottemperato a quanto richiesto dall’imperatore Tiberio quando, in una missiva ai suoi prefetti, ricordava che «un buon pastore tosa le sue pecore, ma non le scortica». A.M.S.

Cristo di fronte a Pilato. Dipinto su tavola dall’altare della Schottenkirche a Vienna. 1469.


speciale IL PROCESSO A GESĂš

TIBERIADE. La cittĂ , situata sulla sponda occidentale del lago omonimo, fu fondata da Erode Antipa, figlio di Erode il Grande e tetrarca della Galilea, con lo scopo di farne la capitale del regno.

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GERICO. Il «Monte delle Tentazioni», a ovest della città, visto dalla biblica sorgente di Eliseo dell’oasi di Gerico. È ricordato nel Vangelo di Luca come il luogo in cui Satana tentò Gesú, dopo il battesimo, per quaranta giorni. Le immagini sulle due pagine risalgono ai primi del Novecento.

gesto ha un valore puramente simbolico di protesta contro la profanazione del luogo, e nella enorme estensione del santuario sarà stato notato solo da un piccolo numero di presenti. In realtà in Galilea Gesú, anche se non in maniera cosí radicale come dicono i Vangeli, era già entrato in conflitto con le autorità giudaiche, essenzialmente scribi e Farisei che, per quanto non in gran numero, erano tuttavia presenti nella regione. La sua posizione critica nei confronti di una osservanza della legge mosaica da lui ritenuta spesso formale ed esteriore aveva creato irritazione e sospetti. E la sua pretesa di possedere un’autorità superiore a quella degli stessi scribi e Farisei aveva certamente accentuato questa irritazione e questi sospetti. Gli episodi di Gerusalemme hanno fatto precipitare una situazione già ampiamente logorata. I motivi politici, soprattutto da parte dei sommi sacerdoti, certamente ci sono, ma si sono soltanto aggiunti a quelli religiosi. E l’iniziativa è stata realmente presa dal sinedrio giudaico, nel quale erano rappresentati sacerdoti e scribi, Sadducei e Farisei.

LAGO DI TIBERIADE. Il lago, noto anche come «Mare di Galilea» o «lago di Gennesaret» o «di Kinneret», si trova nella parte settentrionale della Palestina. Nei villaggi intorno a esso (Cafarnao, Corazin, Tabga...) si svolse la predicazione di Cristo. Sullo sfondo la cima del Monte Hermon.

Prima della festa di Pasqua Il problema piú arduo è valutare il significato della iniziativa del sinedrio e la natura precisa della condanna. Preoccupandosi di fornire ai lettori soltanto gli elementi essenziali per una comprensione di fede dell’accaduto, il racconto di Marco presenta qui infatti varie difficoltà: sembra difficile innanzitutto che Caifa, il sommo sacerdote, abbia potuto riunire tutto il sinedrio con tanta rapidità e che il sinedrio abbia potuto tenere una seduta formale durante la notte e nella casa del sommo sacerdote, come vuole Marco. È possibile quindi che non di una riunione formale dell’intero sinedrio si sia trattato, ma della convocazione urgente di un certo numero di sommi sacerdoti e capi dei Farisei, che Marco presenta come la totalità del sinedrio. Una riunione notturna che, per quanto insolita (ma non

NAZARET E IL MONTE TABOR. La città che, secondo il Vangelo di Matteo, diede i natali a Gesú si trova in Galilea, nel nord della Terra Santa. A poca distanza si erge la sagoma caratteristica del Monte Tabor, tradizionalmente identificato (in alternativa al Monte Hermon) come luogo in cui avvenne la Trasfigurazione di Cristo.

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speciale IL PROCESSO A GESÚ I ROMANI IN GIUDEA • 63 a.C.

Pompeo, conquistatore di molte regioni

dell’Asia Minore e della Siria, prende possesso di Gerusalemme e entra all’interno del Tempio. La Giudea diventa uno stato vassallo di Roma. I compiti governativi sono affidati al sacerdote Ircano Licinio Crasso giunge in Giudea come • 54 a.C. proconsole e depreda il Tempio Ircano e l’idumeo Antipatro soccorrono • 47 a.C. Cesare impegnato in Egitto. Questi concede ampi privilegi ai Giudei nelle regioni dell’impero (tra cui l’esonero dall’obbligo di prestare servizio militare) e nomina Ircano etnarca della Giudea e Antipatro procuratore Assassinio di Cesare • 44 a.C. Giunge a Roma Erode, figlio di Antipatro: • 40 a.C. Antonio, in accordo con Ottaviano, lo nomina re di Giudea Erode «il Grande» fa costruire la città di • 22 a.C. Cesarea, cosí denominata in onore di Augusto 2 0-19 a.C. E rode ricostruisce il Tempio di Gerusalemme • • 6 a.C. circa Nascita di Gesú Morte di Erode. Nomina a erede al trono di • 4 a.C. Giudea il figlio Archelao e tetrarchi i figli

proibita dalla legge), era resa necessaria dalla esigenza di concludere la vicenda di Gesú prima dell’inizio della festa di Pasqua. Di una riunione dei sinedriti, e quindi di sommi sacerdoti e capi dei Farisei, deve essersi comunque trattato. Il problema maggiore è la natura precisa della condanna a morte. Secondo Marco il sommo sacerdote chiede a Gesú: «Tu sei il Messia, il figlio del Benedetto?». E Gesú risponde: «Io lo sono, e vedrete il Figlio dell’Uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nuvole del cielo». A 38 a r c h e o

• 6 d.C.

Filippo ed Erode Antipa

Augusto depone Archelao. La Giudea passa

sotto la diretta amministrazione imperiale Coponio diventa il primo procuratore della Giudea. Gli succedono Marco Ambivolo (9-12 d.C.), Annio Rufo (12-15 d.C.), Valerio Grato (15-26 d.C.) Ponzio Pilato diventa quinto procuratore in • 26 d.C. Giudea • 30-31 d.C. Erode Antipa, tetrarca della Galilea, fa uccidere Giovanni Battista e Ponzio Pilato fa crocifiggere Gesú 3 3-34 d.C. Conversione di Paolo di Tarso • • 39 d.C. Erode Antipa viene esiliato in Gallia • 67-70 d.C. Prima rivolta dei Giudei contro Roma • 70 d.C. I Romani, al comando di Tito, conquistano Gerusalemme e saccheggiano il Tempio • 73-74 d.C. I Romani conquistano Masada, l’ultima roccaforte dei ribelli • 131-135 d.C. Seconda rivolta dei Giudei contro Roma, repressa da Adriano Gerusalemme viene trasformata in colonia romana con il nome di Aelia Capitolina. La provincia della Giudea assume il nome di Philistaea

• 6-9 d.C.

questo punto Caifa afferma che Gesú ha bestemmiato e tutti i presenti sentenziano che è reo di morte. Qui i problemi sono tanti. È possibile che il sommo sacerdote abbia fatto questa domanda? Come fa a sapere che Gesú pretende di essere il Messia? Ed è possibile che Gesú abbia dato quella risposta, nella quale sono riportati due passi della Scrittura (il Salmo 110 e Daniele 7,14), che diventeranno due dei testi cristologici fondamentali della comunità primitiva? Non sono piuttosto, la domanda di Caifa e

la risposta di Gesú, una confessione di fede cristiana creata da questa comunità? E inoltre: dov’è la bestemmia che convince i sinedriti a condannare a morte Gesú? Forse è possibile rispondere a questi dubbi. La domanda di Caifa è giustificata dal fatto che Gesú non aveva potuto essere accusato di alcun reato grave. E al sommo sacerdote certamente era giunta la voce che Gesú era ritenuto, e forse si presentava egli stesso, come Messia. Se si esclude il riferimento a un insediamento alla destra di Dio, che sembra realmente una confessione di fede della comunità primitiva in seguito alle apparizioni, la risposta di Gesú, d’altra parte, è del tutto attendibile. Essa riprende la promessa di una venuta futura nel giudizio del Figlio dell’Uomo celeste alla quale Gesú già aveva fatto accenno precedentemente nella sua predicazione. E in questi termini, che non soltanto apparivano assurdi ma suonavano anche minacciosi ai sinedriti, la risposta di Gesú poteva ben essere considerata blasfema. Si obietta a volte che la pretesa di essere il Messia non può essere con-


A sinistra: Cristo guarisce una donna affetta da emorragia, un paralitico a Cafarnao e libera dal demonio un posseduto, particolare di un dittico in avorio. Inizio del V sec. Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto: scavi a Cafarnao, antico centro della Galilea sulle rive del lago di Tiberiade. In primo piano i resti della grande sinagoga del II secolo e, sotto la tettoia, gli scavi della chiesa ottagonale e della cosiddetta casa di Pietro.

siderata una bestemmia. Ma il riferimento al Figlio dell’Uomo celeste e glorioso da parte di una persona nelle condizioni umilianti di Gesú poteva ben esserlo. E, del resto, non è necessario pensare a una bestemmia in senso strettamente tecnico. Può trattarsi benissimo di un’affermazione considerata dai sinedriti «blasfema», perché appunto assurda e ingiuriosa.

Re di Israele o dei Giudei? Soprattutto, però, è questa affermazione messianica che consente di comprendere il prosieguo del processo e la condanna finale di Gesú. Gesú viene condannato da Pilato come re dei Giudei. Ma da dove scaturisce questa sorprendente condanna? Dobbiamo veramente pensare a un falso grossolano dei sinedriti o a un errore giudiziario di Pilato? In realtà, l’affermazione messianica di Gesú dinanzi al sinedrio fornisce precisamente l’anello necessario nello svolgimento del processo. Gesú viene condannato dal sinedrio perché ha preteso di essere il Messia. Ma secondo la concezione piú diffusa della speranza giudaica il Messia è il «re di Israele». Non potendolo condannare essi stessi e dovendo rivolgersi necessariamente al prefetto romano, i sinedriti hanno trasformato, quanto maliziosamente è difficile dire, l’accusa religiosa di voler essere il re di Israele in quella politica di voler essere il «re dei Giudei». E Pilato, convinto o meno che fosse della colpevolezza di Gesú, lo ha condannato a morte come ribelle al dominio di Roma. PER SAPERNE DI PIÚ

Tra le piú recenti opere dedicate dall’argomento trattato in questo articolo segnaliamo, sempre di Giorgio Jossa, professore di Storia della Chiesa antica presso l’Università «Federico II» di Napoli, i seguenti volumi: Gesú, storia di un uomo, Carocci, Roma 2010; Chi ha voluto la morte di Gesú? Il maestro di Galilea e i suoi avversari, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2011 e La condanna del Messia, Paideia, Brescia 2010. a r c h e o 39


speciale I PRIMI CRISTIANI IL PROCESSO A GESÚ 9

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La città di Erode

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Il disegno ricostruisce l’immagine di Gerusalemme nei primi decenni del I secolo a.C. Esso riporta alcune delle straordinarie imprese architettoniche di Erode il Grande (37-4 a.C.), tra cui la Spianata del Tempio (1), visibile ancora oggi, con il nuovo Tempio (2) che egli volle sullo stesso luogo di quello salomonico, a cui si accedeva attraverso l’ampia scalinata (3). Per sostenere la spianata, Erode fece costruire possenti sostruzioni, ancora oggi testimoniate dal celebre Muro occidentale o «Muro del Pianto» (4). Nell’angolo nord-occidentale della piattaforma sorge la Fortezza Antonia (5), cosí denominata da Erode in onore di Marco Antonio. Il Palazzo di Erode (6), sede del pretorio, si trovava in prossimità della porta occidentale. La città erodiana corrisponde a quella che vide le gesta di Gesú, la cui vita si svolse durante il regno di Erode Antipa, figlio e successore di Erode, il cui Palazzo (la reggia degli Asmonei) (7) sorgeva al centro di Gerusalemme. Il Golgota (8), luogo della crocifissione di Cristo, era situato all’esterno della cinta muraria dell’epoca, in corrispondenza della parte nord-occidentale dell’abitato (oggi è racchiuso dalla Chiesa del Santo Sepolcro, all’interno della Città Vecchia). Dopo la morte di Cristo, durante il regno di Erode Agrippa I (37-44 d.C.), la città venne dotata di una piú ampia cinta muraria (9). Nei nuovi quartieri erodiani si trovava anche la residenza del sommo sacerdote Caifa (10).


La città di Gerusalemme al tempo di Gesú (in trasparenza l’attuale Città Vecchia cinta dalle mura costruite da Solimano il Magnifico nel XVI sec.) sco ria) ama ama s o D (S Ver ebaste eS

Sul Monte degli Ulivi Gesú predice la distruzione di Gerusalemme e del Tempio

Mura settentrionali, edificate durante il regno di Erode Agrippa (41-44 d.C.)

Gesú arriva a Gerusalemme, proveniente da Betania

Golgot ota a

Sono due i luoghi in cui la tradizione colloca il Golgota, il luogo in cui Gesú fu crocifisso

Piscina Pis Piscin cin cin i a di Be di Bet etesd da

Piiscin P Pis Piscin cina dell cina ello el o Struth Str uthion uth io on n a F tez Fo For te te ezza za Piscina za dii Is IIsr ssrrael ae a elle e An Ant A nt no oni on n niia d

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Pis iisscin cina ci cina della de del la Tor la Torrrre To e

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Gesú scaccia i mercanti dal Tempio

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Gesú e i dodici apostoli si riuniscono per la cena di Pasqua

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Città alta

Dopo l’arresto, Gesú viene condotto dinnanzi a Caifa. Qui Pietro nega di conoscerlo

V a l l e

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Gesú viene condotto dinnanzi a Pilato, che lo manda da Erode Antipa

42 a r c h e o

Dopo la cena pasquale, si fermano al giardino del Getsemani, dove Giuda tradisce Gesú, che viene arrestato

Luogo di riunione del Sinedrio

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Porta a Tempio di d’Oro o Erode il Grande

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DOPO L’ANNO 30 LA NASCITA DELLE PRIME CHIESE

di Romano Penna

Cosa accade all’indomani della morte di Cristo? Un esame delle prime comunità giudeo-cristiane sorte a Gerusalemme, ma anche a Damasco e Roma, permette di ricostruire la matrice da cui prendono avvio, nei secoli successivi, tutte le forme del cristianesimo

L

a morte di Gesú di Nazaret procurò lo sbandamento generale dei suoi discepoli piú intimi, oltre il tradimento di Giuda e il rinnegamento di Pietro. Fu necessaria una esperienza forte per ricompattarli su un piano superiore rispetto a quello della vita comune degli anni precedenti. Le fonti antiche interpretano questa esperienza come ripresa della vita da parte di Gesú stesso, intesa non tanto come «risurrezione» (come se egli stesso ne fosse il soggetto) quanto come «risuscitazione» (in quanto atto della sua rivendicazione da parte di Il disegno illustra la festività di Pesach («passaggio»), la Pasqua ebraica, all’interno del recinto del Tempio di Gerusalemme, all’epoca di Gesú. Sullo sfondo, la Fortezza Antonia, sede del procuratore romano.

Dio stesso). In ogni caso, dopo la Pasqua dell’anno 30 vennero a configurarsi varie comunità o Chiese (in greco ekklesíai) di credenti in Gesú, dislocate dapprima nella sola terra d’Israele e poi anche trapiantate in altri luoghi. Si trattava di quelli che oggi chiamiamo «giudeo-cristiani», cioè cristiani caratterizzati, sia in senso etnico, in quanto Ebrei di nascita (cosí furono tutti i primi discepoli), sia in senso confessionale, in quanto pagani aderenti alla legge mosaica (come i proseliti). La distinzione è importante, perché un Ebreo come

Saulo/Paolo di Tarso si può dire giudeo-cristiano solo per la sua appartenenza etnica, ma non dal punto di vista della fede da lui confessata, che implicava un certo distanziamento dal giudaismo comune. D’altra parte, sappiamo dal poeta latino Giovenale che, almeno sul finire del I secolo, molti Romani (etnicamente non Ebrei) osservavano il iudaicum ius (Satire 14,101). Considerate le cose da questo punto di vista, occorre comunque prendere atto che il giudeo-cristianesimo, sia in quanto condiviso sia in quanto avversato, è la vera matri-


speciale I PRIMI CRISTIANI pescatori galilei, erano presenti anche ricchi possidenti che provvedevano ai poveri bisognosi della comunità. Vi confluí pure «una grande moltitudine di sacerdoti», anche se dovevano essere appartenenti alle classi piú basse e non alle famiglie dei sommi sacerdoti; uno di loro era Barnaba, levita (membro della tribú di Levi, terzo figlio di Giacobbe e di Lia, a cui era affidato il servizio religioso, n.d.r.) di origine cipriota.Vanno anche calcolati un paio di proprietari di qualche tenuta nei pressi di Gerusalemme: Simone di Cirene e un certo Mnasone di Cipro. Alcune donne, a parte la designazione generica a esse riservata, sono menzionate per nome: Maria madre di Gesú, Saffira, Maria madre di Giovanni Marco, una serva di nome Rode, e poi Tabita a Giaffa.

ce di tutte le forme di cristianesimo. Esso è come il grembo materno, da cui provengono i vari modi di ripensare il significato della persona di Gesú Cristo e di ciò che in lui si è compiuto.

Pescatori e ricchi possidenti In base alla documentazione di cui disponiamo, possiamo individuare almeno tre di queste comunità: quelle di Gerusalemme, di Damasco, e di Roma. Altre Chiese sicuramente giudeo-cristiane non ci sono note, se non per la loro fugace menzione, come quelle che Paolo denomina genericamente come «le Chiese del44 a r c h e o

la Giudea» (in 1 Tes. 2,14 e Gal. 1,22). L’identità di questa «Chiesa» si trova delineata sostanzialmente nei primi sette capitoli degli Atti degli Apostoli, anche se la ricostruzione dei fatti narrati non è comandata da una intenzione propriamente storiografica. La sua composizione, con un nucleo originale costituito da Galilei, doveva essere molto varia. Le cifre fornite dagli Atti sono con ogni probabilità inverosimili, passando in poco tempo da 120 a 5000 nell’arco di pochi anni. Dal punto di vista sociale doveva comprendere delle stratificazioni molto varie. Oltre i poveri

I luoghi e i riti I luoghi di raduno erano di due tipi. Il primo consisteva nell’area templare, doppiamente frequentata, sia per la preghiera comune sia per l’insegnamento degli apostoli, rispettivamente in due spazi diversi: il cortile piú interno riservato agli israeliti, dove Pietro e Giovanni salivano ogni giorno per la preghiera, e il portico di Salomone, esterno al santuario vero e proprio, a sud del cortile dei Gentili, dove già Gesú insegnava. In secondo luogo c’erano le singole case private, dove i cristiani «spezzavano il pane» (2,46), ritrovandosi quindi per un atto di comunione fraterna. Probabilmente esso comprendeva anche l’Eucaristia, poiché «spezzare il pane» significa non tanto il mero inizio di un pasto quanto piuttosto, per sineddoche, l’intero pasto a indicare una celebrazione eucaristica vera e propria. Anche se esteriormente i seguaci di Gesú non si distinguevano dagli altri Ebrei, tuttavia essi introdussero alcune pratiche particolari, che contribuirono a costruire e a segnare in modo profondo la loro identità religiosa. La pratica fondamentale è quella del Battesimo. Il rito dell’immersione in acqua a scopi purificatori era diffuso nel


giudaismo: la conosciamo tra i settari di Qumran; la praticavano Giovanni Battista e un certo Banno, e faceva probabilmente parte dei riti di ammissione dei proseliti. Dopo che Gesú stesso si è sottoposto al Battesimo di Giovanni, i seguaci di Gesú riprendono il rito, che mantiene un carattere purificatorio, ma che acquisisce anche un nuovo significato di iniziazione al nuovo gruppo. Si battezza «nel nome di Gesú» (Atti 2,38; 8,16; 10,48), e questo riferimento a lui diventa anche un forte marcatore di identità, non solo in quanto sanziona l’ingresso e l’appartenenza al gruppo del capo carismatico, ma anche in quanto assicura la remissione dei peccati. La comunità gerosolimitana, considerata da un punto di vista israelitico, appariva come una setta messianica (detta «setta dei nazorei» negli Atti degli Apostoli, 24,5) in quanto proclamava l’avverarsi delle speranze messianiche in Gesú di Nazaret. Certo è al suo interno che si formularono le prime riflessioni sulla figura di Gesú, sulla sua morte e risurrezione e anche qualche arcaica confessione di fede. A questo proposito sono eloquenti alcuni titoli cristologici attestati nei primi capitoli degli Atti, come «servo di Dio», «il santo e giusto», «la guida alla vita». Anche l’invocazione aramaica «Maranthà = Signore nostro vieni», implicante all’evidenza il nuovo titolo pasquale di «Signore».

Statua in marmo di Tiberio, imperatore al tempo di Gesú, da Roma. I sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto: Gerusalemme. Il sito dell’antica «aula del processo», nella Fortezza Antonia, in cui Cristo avrebbe subito l’interrogatorio di Ponzio Pilato e la flagellazione, prima della crocifissione.

Verso la Città Santa L’aggregazione alla comunità cristiana di membri provenienti dal giudaismo della diaspora greca ebbe conseguenze importanti per il movimento di Gesú. A questo proposito, va ricordato che la città di Gerusalemme, soprattutto in occasione delle grandi feste religiose, era meta di numerosissimi pellegrini, provenienti non solo dalla terra di Israele, ma anche da tutta la diaspora e in particolare dalle grandi città ellenistiche del Mediterraneo. È verosia r c h e o 45


speciale I PRIMI CRISTIANI

GIOVANNI IL BATTISTA Figlio del sacerdote Zaccaria e di Elisabetta, nasce «al tempo di Erode, re di Giudea» (Luca, 1,5) ed è, dunque, coetaneo di Gesú. Predicatore messianico, era forse legato alla comunità degli Esseni che praticavano la vita nel deserto e il battesimo come atto purificatore. Giovanni, infatti, impiega il battesimo d’acqua come segno di conversione dei suoi discepoli. Sarà lui a battezzare Gesú nelle acque del Giordano. La vita del Battista finisce drammaticamente nel palazzo di Erode Antipa, figlio di Erode il Grande: arrestato dopo aver condannato la relazione adultera tra quest’ultimo ed Erodiade, moglie del fratellastro Filippo, Giovanni verrà decapitato, secondo quanto richiesto dalla figlia di Erodiade, Salomè, come ricompensa per la sua celebre danza. (red.)


Il battesimo di Cristo. Particolare della decorazione musiva della cupola del Battistero degli Ariani a Ravenna. 493-526 d.C. Al centro, Cristo è raffigurato nella sua giovinezza, con il capo nimbato; a destra, il Battista regge il bastone pastorale e poggia la mano destra sul capo del Cristo per battezzarlo.

mile che alcuni Ebrei della diaspora vi tornassero periodicamente per motivi religiosi o commerciali; altri ancora dovevano aver fissato nella Città Santa la loro residenza abituale. Lo attesta apertamente una iscrizione greca trovata a Gerusalemme all’inizio del XX secolo e risalente al I secolo, dove si legge cosí: «Teodoto, figlio di Vettenos, sacerdote e archisinagogo, figlio di un archisinagogo, nipote di un archisinagogo, ha costruito questa sinagoga per la lettura della Legge e lo studio dei comandamenti, e un ospizio con camere e impianto idraulico per ospitare i b i s o g n o s i p rove n i e n t i dall’estero, che (=la sinagoga) fondarono i suoi antenati, gli anziani e Simonide». In questa iscrizione, a parte l’inusuale funzione di archisinagogo svolta da un sacerdote, sono degni di nota sia i primi due nomi di persona, rispettivamente greco e latino, sia il complemento di provenienza «dall’estero» (= lett. «dalla [terra] straniera»), a indicare appunto la presenza in Gerusalemme di Ebrei di provenienza forestiera, specificamente di ambito ellenistico.

pellegrini giunti a Gerusalemme dalla diaspora in occasione della festa di Pentecoste. Era inevitabile che l’integrazione di questi nuovi membri, con il bagaglio di idee, competenze e sensibilità diverse che portavano con sé, modificasse gli equilibri interni al movimento e ne aumentasse ulteriormente l’articolazione e la complessità. All’interno della comunità cristiana non tardò a nascere un conflitto, che portò dapprima a una separazione con l’istituzione dei «Sette» (Stefano, Filippo, Pròcoro, Nicànore, Timone, Parmenàs, Nicola), responsabili del gruppo degli Ellenisti, in contrapposizione ai «Dodici», responsabili invece del gruppo degli Ebrei, e, in seguito, a una espulsione degli Ellenisti stessi da Gerusalemme. Gli Ellenisti cristiani formula-

re radicalizzata nelle sole sue esigenze etiche. Per una formulazione piú compiuta della critica alla Legge come istanza di salvezza bisognerà aspettare Paolo. Comunque è facile capire perché questa nuova interpretazione della morte redentrice di Gesú potesse essere considerata blasfema e suscitare reazioni anche violente negli ambienti giudaici (vedi l’articolo di Giorgio Jossa alle pp. 20-39).

Giacomo, fratello di Gesú Tuttavia, essa dovette provocare tensioni e contrasti non meno violenti anche all’interno del movimento di Gesú, soprattutto nel gruppo di Giacomo, secondo cui, pur riconoscendo funzione salvifica alla persona di Gesú, questa non poteva che essere complementare, e non sostitutiva, di quella del Tempio e della Legge. Un elemento certamente nuovo a Gerusalemme, infatti, è l’entrata in scena dei familiari di Gesú e in specie di Giacomo, «fratello del Signore». Stando alle informazioni che possiamo trarre dai Vangeli, non sembra affatto che i «fratelli» di Gesú (qualunque fosse l’effettivo grado di parentela) facessero parte della cerchia dei suoi seguaci. È difficile spiegare come mai ora il gruppo dei familiari di Gesú compaia accanto agli apostoli, tenuto conto anche del fatto che non si dice nulla su di una evoluzione del loro atteggiamento nei confronti di lui, non essendo menzionati né al momento della sua morte né della sua sepoltura. Certo è che l’unico di questi fratelli, Giacomo, appare all’improvviso negli Atti (12,17) e si distingue per autorità e importanza nel ruolo di guida della stessa comunità di Gerusalemme. Stando alla testimonianza di Eusebio di Cesarea, storico del IV secolo, questo Giacomo «fu il primo a occupare il trono episcopale della chiesa di Gerusalemme» (Storia 2,1,2-3). La tradizione sul primato di Giacomo come «successore» di Gesú nel-

Il rito del battesimo sancisce l’ingresso al gruppo e assicura l’assoluzione dei peccati

I «sette» contro i «dodici» Del resto, gli Atti annotano l’esistenza a Gerusalemme di varie sinagoghe per i giudei della diaspora greca, dette «dei Liberti, dei Cirenei, degli Alessandrini e di quelli della Cilicia e dell’Asia». Ed è con i loro aderenti che discutevano sia Stefano, sia poi anche Paolo. L’ampliamento del primitivo gruppo dei discepoli di Gesú dev’essere avvenuto molto presto, come si deduce anche dal racconto dell’effusione dello Spirito Santo sui numerosi

rono una interpretazione critica nei riguardi della funzione salvifica del Tempio e della Legge, che condusse Stefano alla lapidazione. Essi, comunque, arrivarono a interpretare la morte di Gesú come un evento escatologico unico e irripetibile, che produce la remissione dei peccati. Ciò rappresentò una vera novità nella riflessione teologica proto-cristiana sul senso della vicenda di Gesú, perché per la prima volta si attribuí un valore salvifico alla sua morte, nella quale si vide una svolta radicale nella storia della salvezza. In seguito a questo evento escatologico il vecchio Tempio, costruito da mani d’uomo, perde la sua funzione. In questa prospettiva la figura redentrice di Gesú tende progressivamente a esautorare le altre istanze mediatrici della salvezza proprie del giudaismo, cioè appunto il Tempio e la Legge. Nella prospettiva di questi Ellenisti, la Legge mosaica non perde il suo valore, ma tende a esse-

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speciale I PRIMI CRISTIANI Nella pagina accanto: Il miracolo della moltiplicazione dei pani. Frammento di lastra sepolcrale in marmo raffigurante scene dal Nuovo Testamento, da Vigna Maccarani, Roma. Fine del III-inizio del IV sec. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme. Qui sotto: San Giacomo Maggiore, di Giovanni di Paolo (1400 circa-1482). Assisi, Museo del Tesoro della Basilica di S. Francesco.

la guida del gruppo dei suoi seguaci è ripresa in varie fonti successive. Tutte esaltano la sua funzione unica e secondo alcune di esse (le Pseudoclementine) la sua autorità si estende sui Dodici e persino su Pietro, che da Giacomo riceve l’incarico di partire per Cesarea a confutare le dottrine di Simon Mago (Samaritano, noto ai propri conterranei come operatore di prodigi, ricevette il battesimo cristiano da Filippo; Pietro e Giovanni gli rimproverarono di aver chiesto per denaro la facoltà di trasmettere lo Spirito Santo con l’imposizione delle mani, donde il termine «simonia», con il quale si indica qualsiasi forma di commercio di cose sacre a scopo di lucro, n.d.r.). Del resto, Giacomo non fu il solo familiare di Gesú a esercitare un ruolo di guida nella primitiva comunità di Gerusalemme. Secon-

do la testimonianza di Eusebio, dopo la sua morte avvenuta nel 62 sarebbe stato eletto vescovo di Gerusalemme un cugino di Gesú, di nome Simeone (Storia 4,22,4); Giuda, un altro fratello di Gesú, sarebbe autore dell’epistola che, sotto il suo nome, è entrata a far parte del Nuovo Testamento; e ancora sotto Domiziano (81-96 d.C.) alcuni nipoti di Giuda erano alla guida di chiese palestinesi in quanto parenti di Gesú (Storia 3,19-20,6). Venne cosí a costituirsi una specie di «califfato», come è stato chiamato da qualche studioso, caratteristico appunto della Chiesa di Gerusalemme almeno fino agli inizi del II secolo.

Una questione controversa Per quanto riguarda la conduzione della comunità, Giacomo era affiancato da un gruppo di Anziani (Presbýteroi), secondo un modello abbastanza diffuso all’interno del giudaismo del tempo. Giacomo doveva essere il primo all’interno del gruppo degli Anziani, cosí come lo erano Pietro all’interno del gruppo dei Dodici, Stefano nel gruppo dei Sette, Barnaba all’interno del gruppo dei Cinque. Un evento significativo svoltosi a Gerusalemme fu il cosiddetto «concilio apostolico», occasionato da una controversia sorta ad Antiochia di Siria nella seconda metà degli anni Quaranta del I secolo d.C. Lo spunto venne fornito dalla richiesta, avanzata da alcuni provenienti dalla Giudea, di sottoporre alla circoncisione i convertiti di origine pagana. La prassi missionaria della comunità antiochena era stata invece, fino ad allora, quella di accogliere i convertiti dal paganesimo senza imporre la circoncisione, e quindi Paolo e Barnaba, responsabili della missione, si rifiutarono di dar corso alla richiesta. Siccome non si riuscí a dirimere la controversia localmente, si decise di inviare una delegazione, con rappresentanti delle due parti, a Gerusalemme, per sottoporre il caso ai responsabili della chiesa-madre. Qui si giunse a un accordo di


compromesso, che prevedeva, da parte del gruppo dirigente della comunità di Gerusalemme, la legittimità della missione paolina alle genti senza l’imposizione della circoncisione e, da parte di Paolo e di Barnaba, il riconoscimento della legittimità della missione ai giudei con il mantenimento delle loro osservanze. In piú, si decise di richiedere ai convertiti dal paganesimo l’osservanza di alcune norme minime di purità, ricalcate su quelle imposte nell’Israele antico agli stranieri residenti, che consentissero la convivenza dei cristiani delle due provenienze nelle comunità miste. È questo il cosiddetto «decreto apostolico», che comprendeva quattro richieste di astensione: dalle carni di animali offerti agli dèi, dal sangue, dalle carni di animali soffocati (da cui cioè non era uscito il sangue), e dalla porneia (probabile riferimento a matrimoni tra consanguinei), che hanno tutte un parallelo in analoghe norme elencate in Levitico 17-18. Nel libro degli Atti, la figura di Giacomo è menzionata per l’ultima volta al capitolo 21, in occasione della terza visita di Paolo a Gerusalemme. Lo scopo di quella visita era di consegnare personalmente il denaro raccolto nelle chiese paoline

SIMON MAGO, UN SAMARITANO SCOMODO Negli Atti degli Apostoli (8, 9-25) appare un’enigmatica figura di nome Simone, un samaritano nato a Gitton, presso Sichem, che visse e predicò a fianco degli apostoli di Gesú: «Vi era da tempo in città un tale di nome Simone, dedito alla magia, il quale mandava in visibilio la popolazione di Samaria, spacciandosi per un gran personaggio… Gli davano ascolto, perché da molto tempo li aveva fatti strabiliare con le sue magie». Simone si trovò a subire la concorrenza di Filippo, il quale aveva cominciato a predicare il Cristo negli stessi luoghi, praticando anch’egli esorcismi e miracolando paralitici e storpi. Riconoscendo le superiori virtú taumaturgiche dei seguaci di Cristo, Simone si convertí, si fece battezzare e divenne il piú assiduo dei seguaci di Filippo, forse con la segreta speranza di carpirne di segreti. Ma l’unico segreto degli apostoli era la capacità di trasmettere lo Spirito Santo e guarire mediante l’imposizione delle mani, diretto dono di Dio. Simone arrivò a offrire denaro per convincere Pietro, Giovanni e Filippo a cedergli parte dei propri poteri, con l’unico risultato di essere maledetto da Pietro («il tuo denaro vada con te in perdizione») e di rimanere bollato d’infamia presso tutti i cristiani dei millenni a venire. A.M.S.

per i poveri di quella comunità. Ma il sospetto e l’ostilità nei confronti di Paolo avevano prodotto una ferita troppo profonda, difficile da rimarginare. Le voci che circolavano su di lui lo accusavano di istigare i giudei ad abbandonare la legge e a non far piú circoncidere i bambini. Quando Paolo venne arrestato nel Tempio e poi preso in consegna dall’autorità romana, nessuno della

comunità di Gerusalemme mosse un dito in suo favore e lo abbandonò al suo destino.

La fine del primato Sulla storia successiva di questa comunità dopo il martirio di Giacomo non siamo molto informati. Per quanto riguarda il suo comportamento durante la prima guerra giudaica (66-70 d.C.) abbiamo la noti-

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speciale I PRIMI CRISTIANI A sinistra: Roma. Un ambiente affrescato della catacomba ebraica di Villa Torlonia, sulla via Nomentana. Il complesso ipogeo è disposto su diversi livelli, corrispondenti a due distinte catacombe con genesi e sviluppo indipendente, raccordate per mezzo di gallerie. A Roma sono state individuate cinque necropoli appartenenti alla comunità ebraica, tutte di tipo catacombale, databili fra il III e il IV sec. Nella pagina accanto: testa in marmo dell’imperatore Claudio con corona civica, dall’Augusteo di Roselle (Toscana). I sec. d.C. Grosseto, Museo Archeologico e d’Arte della Maremma.

zia fornitaci da Eusebio di Cesarea, almeno parzialmente attendibile, secondo cui i cristiani di Gerusalemme fuggirono a Pella in Transgiordania (Storia 3,5,3). Per il periodo che va fino alla seconda guerra sotto Adriano (132-135 d.C.) lo stesso Eusebio ci fornisce una lista di quindici vescovi «tutti Ebrei di origine» (Storia 3,11.35; 4,5,1-4). Ma, nel frattempo, la comunità ge50 a r c h e o

rosolimitana cominciò a perdere gradualmente il suo posto preminente all’interno dell’ormai vasto movimento cristiano. Quanto alla situazione fuori di Gerusalemme, è curioso che gli Atti non raccontino nulla sulla presenza di singole chiese in Galilea.Tuttavia, là furono chiamati i primi discepoli di Gesú, e a essi è inevitabile associare una qualche estensione alle

loro famiglie e parentele; là il ministero di Gesú ebbe le prime risonanze a largo raggio su intere «folle», per non dire di vari luoghi precisi in cui egli ebbe degli incontri (per esempio Cafarnao, Corazin, Nain, Cana, Betsaida); inoltre, il giorno di Pasqua un Angelo ricorda alle donne andate al sepolcro che Gesú avrebbe preceduto i suoi discepoli proprio in Galilea, qualun-


que sia il motivo per cui essi tornarono; là, almeno secondo Matteo, avvennero tutte le apparizioni del Risorto; di là proveniva Giacomo, «fratello» di Gesú, che avrebbe retto la chiesa di Gerusalemme; i discepoli di Gesú vengono detti «Galilei» (sia negli Atti sia in fonti pagane come Epitteto; persino nel Corano i cristiani sono detti nazarâ’, da Nazaret); in piú è del tutto probabile che il Vangelo sia giunto a Damasco partendo proprio da quella regione; inoltre è testimoniata esplicitamente verso la fine del I secolo l’esistenza di chiese in Galilea, di cui erano capi alcuni parenti di Gesú comparsi davanti a Domiziano; e il Talmud babilonese (monumentale opera della letteratura religiosa dell’ebraismo, che contiene la legge orale, complemento indispensabile della Torah, la legge scritta, e che abbraccia un periodo di otto secoli, dal III a.C. al V d.C., n.d.r.) attesta l’incontro avvenuto a Sefforis, capoluogo della Galilea, tra Rabbi Eliezer, vissuto attorno al 100, e un discepolo di Gesú con una disputa sull’identità di Gesú stesso.

Sulla via di Damasco... Molto interessante è il caso di questa città, se non altro per la sua importanza nella biografia di Paolo. Quando egli vi giunge come persecutore, vi si trovava un gruppo di «discepoli» (Atti 9,19.25), tra i quali è menzionato un certo Anania, che probabilmente occupava un ruolo preminente tra di loro e che battezzò Paolo. Questa comunità doveva essere connotata da una interpretazione giudeo-cristiana del Vangelo, dato che lo stesso Anania è qualificato come «devoto osservante della Legge e stimato da tutti i giudei là residenti» (22,12). La comunità cristiana era sicuramente di origine e di composizione giudaica e doveva apparire come una setta messianica. Resta però il problema di sapere quando e a opera di chi l’annuncio evangelico sia pervenuto fin là. Si può pensare che gli inizi rimontino già agli anni della predicazione di Gesú, se è vero che

«la sua fama si diffuse per tutta la Siria» (Matteo 4,24). Oppure è possibile calcolare una missione postpasquale proveniente dalla Galilea a opera di predicatori itineranti. Altri ritengono che siano stati gli «ellenisti» perseguitati a Gerusalemme, che diramandosi verso nord si siano recati anche a Damasco dove, lontani dal rigorismo dell’ortodossia giudaica di Gerusalemme e del suo Tempio, avrebbero trovato migliore accoglienza. Purtroppo di questa chiesa non abbiamo altre notizie nel I secolo.

...e su quella di Roma Quando Paolo scrisse la sua Lettera ai Romani (probabilmente tra il 55 e il 56) esistevano a Roma dei cristiani già «da molti anni». Sulle origini del cristianesimo a Roma la notizia piú antica la dobbiamo allo storico latino Tacito che, scrivendo poco dopo il 115 e riferendosi al supplizio inflitto ai cristiani da Nerone dopo l’incendio nel luglio 64, parla di «grande moltitudine» (Annali 15,44,2-5). In realtà, negli anni 50-60 il numero effettivo doveva aggirarsi attorno a un paio di centinaia (in una città di circa un milione di abitanti, di cui 20-30 000 ebrei). Le notizie piú esplicite sulla loro origine sono di parte cristiana. È Ireneo, vescovo di Lione, che per primo verso la fine del II secolo parla de «la chiesa fondata e stabilita a Roma dai due gloriosissimi apostoli Pietro e Paolo» (Contro le eresie 3,3,2). Tuttavia, l’associazione dei due apostoli come co-fondatori ha solo valore encomiastico, poiché è storicamente insostenibile per semplici motivi cronologici. Infatti, certamente Paolo non può esserne stato fondatore perché i cristiani sono presenti a Roma ben prima che egli scriva la sua lettera (quando egli non era ancora stato nell’Urbe). D’altronde Paolo, nella sua Lettera ai Romani, non fa il minimo cenno a una presenza di Pietro nella città. Infine, va ricorda-

CLAUDIO E I GIUDEI Intorno al 120 d.C. l’erudito latino Svetonio (65-135 d.C.) scriveva, a proposito dell’imperatore Claudio, che egli «cacciò da Roma i Giudei, che a causa di Chrestus creavano molti disordini». Lo scrittore si riferiva verosimilmente ai giudeocristiani e l’episodio dimostra che, ancora molti decenni dopo la morte di Gesú, i Romani non facevano ancora distinzione tra giudei e giudeo-cristiani. Tacito, invece, riporta negli Annali (redatti tra il 115 e il 117 d.C.) che Nerone attribuí la colpa dell’incendio di Roma (18/19 luglio del 64 d.C.) agli odiati cristiani, spiegando ai suoi lettori che «Cristo, da cui deriva il loro nome, venne condannato a morte dal procuratore Ponzio Pilato, al tempo dell’imperatore Tiberio». A.M.S.


speciale I PRIMI CRISTIANI to che il primo commento a questa lettera composto da un anonimo cristiano della stessa chiesa romana verso la metà del IV secolo (l’Ambrosiaster o pseudo Ambrogio), della quale quindi esprime la coscienza propria, dichiara apertamente che i Romani avevano accolto la fede di Cristo «pur non vedendo alcuno degli apostoli»! Sicché, la notizia di San Gerolamo sui 25 anni di episcopato di Pietro a Roma (a partire dal 42) va giudicata senza mezzi termini come «una tradizione leggendaria» (Joseph A. Fitzmyer). In buona sostanza, mentre è moralmente certo che Pietro sia comunque stato a Roma e che là abbia subito il martirio, non sappiamo quando egli vi sia giunto: probabilmente dopo la venuta Paolo. Sicché, con ogni probabilità, la chiesa di Roma nacque e poi visse senza di lui per un periodo che va almeno dai dieci ai quindici anni. Il primo annuncio del Vangelo nella capitale dell’impero va perciò collegato con altre persone, altrimenti sconosciute. Si trattò di oscuri evangelizzatori, la cui identità non passò alla storia, anche se è possibile ipotizzare che i nomi della coppia di Giudei cristiani «Andronico e Giunia», menzionati in Romani 16,7 e qualificati come «insigni tra gli apostoli», forse insieme a Prisca e Aquila, abbiano fatto parte dei «fondatori» della chiesa romana.

Chi era Chrestus? L’ambiente di origine della fede cristiana nella città non va individuato nella grande società pagana del momento, ma all’interno del giudaismo ivi stanziatosi ormai da piú di un secolo, dal tempo di Pompeo.A questo proposito resta fondamentale la notizia di Svetonio, che nella sua opera Vite di dodici Cesari (scritta dopo il 120) attribuisce all’imperatore Claudio (41-54 d.C.) un provvedimento restrittivo nei confronti dei giudei romani: «Cacciò da Roma i giudei che tumultuavano insistentemente per istigazione di Cresto». La discussione maggiore consiste nel 52 a r c h e o

Gli apostoli Pietro e Paolo, copia da un sarcofago del II sec. d.C. Roma, Museo della Civiltà Romana.

chiedersi se si debba intendere il termine grecizzante Chrestus (letteralmente «utile, buono, adatto») come una deformazione di Christus (Gesú) oppure se vada spiegato come designazione di uno sconosciuto sobillatore del momento. Ritengo che la tesi tradizionale di un riferimento a Gesú «Cristo», come comprovato anche da studi recenti, sia la migliore. In ogni caso, ne risulta che all’interno delle comunità giudaiche di Roma l’evangelo di Cristo doveva essere giunto almeno verso la metà degli anni Quaranta del I secolo, se non prima, cioè appena dieciquindici anni dopo la morte di Gesú a Gerusalemme, ed era oggetto di vivaci discussioni tra gli stessi giudei dalla città. Sulla configurazione confessionale della chiesa romana va osservato che il giudaismo è non solo la matrice ma anche il primo ambito di vita del cristianesimo a Roma. Sicché la chiesa di Roma è stata fin dall’inizio connotata in un senso giudaizzante. Ciò è dovuto naturalmente anche al fatto che non fu Paolo a fondarla. E il citato commentatore romano anonimo (l’Am-

brosiaster) della Lettera di Paolo dice apertamente che in quello scritto «l’apostolo impiega tutte le sue energie per toglierli dalla legge (…) per fissarli nella sola fede in Cristo, e quasi contro la legge difende il vangelo, non distruggendo la legge ma anteponendo il cristianesimo». I destinatari della lettera perciò dovevano essere dei giudeo-cristiani, e del resto la chiesa di Roma conservò a lungo questo tratto distintivo, verificabile in piú fonti scaglionate nel tempo, come la cosiddetta Lettera agli Ebrei (probabilmente indirizzata alla chiesa di Roma dopo il 70), la Prima lettera di Clemente Romano degli anni Novanta (dove, tra l’altro, per la prima volta in 40,5 ricorre la categoria di «laici» modellata sulla strutturazione socio-religiosa di Israele e riferita alla realtà cristiana), e poi il Pastore di Erma (prima metà del II secolo). Pur potendo ritenere che almeno alcuni cristiani della città provenissero direttamente dal paganesimo, i battezzati a Roma erano probabilmente tutti dei giudeo-cristiani, come del resto dimostra l’abbondante ricorso alle Scritture giudaiche testimoniato da Paolo nella sua lettera, oltre al suo dibattito sul


concetto di Legge connesso a quello un Grammateús o Segretario, forse di «giustizia» nel senso giudaico anche dottore della legge; l’Archisynágogos che si occupava dell’edifidell’essere giusti davanti a Dio. cio del culto e presiedeva alle assemblee religiose. Sono anche atteLa testimonianza stati alcuni «sacerdoti» (hiereîs, una delle epigrafi Circa l’autonomia e organizzazione volta col femminile hiérisa), che è della chiesa romana, occorre pre- semplice titolo onorifico in rappormettere che essa doveva conoscere to alla discendenza levitica. Come si piú di una comunità o raggruppa- vede, la guida delle comunità è ben mento, rispecchiando in ciò l’orga- articolata ma è essenzialmente laica. nizzazione interna del giudaismo Se poi volessimo identificare quelli locale, da cui di fatto i cristiani pro- che Paolo incontrerà a Roma e che venivano. Ebbene, la fonte primaria negli Atti sono chiamati «i piú in delle nostre informazioni sugli vista tra i Giudei» (28,17), dovremEbrei romani sono le abbondanti mo computare tra di essi almeno i epigrafi sepolcrali delle loro cata- Gherousiárchai, i Grammateîs e forse combe, scoperte tra il XIX e il XX anche rappresentanti dei Presbýteroi secolo (e pubblicate nel 1936). Da e degli Árchontes. esse, per quanto riguarda la metà del Ci resta da dire che, quando Paolo I secolo, possiamo ragionevolmente scrive la sua Lettera ai Romani, i cridedurre l’esistenza di cinque comu- stiani di Roma, sia pur di provenità, la cui organizzazione interna nienza giudaica, non condividono comportava soprattutto le seguenti piú le riunioni sinagogali con colocariche: il Gerusiárches, capo di un ro che erano restati semplicemente consiglio degli anziani, preposto Giudei. Infatti, non solo non conoall’amministrazione della comunità scono le qualifiche giudaiche della e a tutelare i suoi interessi religiosi, loro articolazione interna (tra cui giudiziari, finanziari; i Presbýteroi o spicca l’assenza di «Presbiteri», del Anziani, membri di detto consiglio; resto mai menzionati nelle lettere gli Árchontes, «Capi», che formavano autentiche di Paolo), ma la menzioil comitato esecutivo del consiglio; ne delle assemblee/ekklesíai raduna-

te in case private (Rom. 16) suppone una separazione di fatto, che il sopra ricordato editto di Claudio può ben avere esacerbato. Dobbiamo poi notare che appena un decennio dopo l’invio della lettera, quando si tratterà di mettere a morte i supposti responsabili dell’incendio di Roma del luglio 64, Nerone chiamerà in causa soltanto i cristiani della città, non i giudei: segno che ormai «the parting of the ways» era avvenuta, sicché gli uni potevano essere ben distinti dagli altri persino a livello di pubblica opinione. PER SAPERNE DI PIÚ L’argomento del cristianesimo delle origini è oggetto del recentissimo volume dell’autore del presente articolo, Romano Penna, professore emerito di Origini cristiane alla Pontificia Università Lateranense: Le prime comunità cristiane. Persone, tempi, luoghi, forme, credenze, Carocci, Roma 2011. a r c h e o 53


storia LE ORIGINI DI ROMA/4

La ÂŤcostruzioneÂť del popolo romano di Daniele F. Maras

Le Sabine fermano il combattimento tra Romani e Sabini. Dipinto di Jacques-Louis David (1748-1825). 1799. Parigi, Museo del Louvre.


Fatta Roma, bisognava fare i Romani... Ma alla nuova città, popolata di soli uomini, mancavano le donne. E come reagire al rifiuto delle popolazioni vicine alle «proposte di matrimonio» inviate da Romolo? Ancora una volta, con l’inganno e la violenza...

U

na volta fondata la città, completando i rituali di consacrazione dei luoghi (ved «Archeo» n. 313, marzo 2011), toccava a Romolo disporre l’organizzazione degli abitanti e la costituzione di un vero e proprio corpo civico; e a questo proposito, le fonti letterarie antiche fanno a gara nell’attribuire al mitico fondatore l’introduzione di usanze, tradizioni e istituti, ancora ampiamente funzionanti nella società romana repubblicana e imperiale. Lo scopo, evidentemente, era quello di dare agli usi di Roma una validità fuori da ogni discussione e radicata nel tempo fino alle origini della città: il mos maiorum (letteralmente «l’uso degli antenati», cioè il piú antico patrimonio giuridico e religioso dei Romani) non poteva essere messo in discussione e costituiva il fondamento stesso del vivere civile e della grandezza di Roma. Innanzitutto, una città non si identifica con le mura, che ne sono a un tempo il contenitore e la protezione: Romolo, perciò, si affrettò a predisporre altri due luoghi indispensabili per la fondazione di Roma e per il suo primo popolamento. Fu scavato il mundus, un piccolo santuario sotterraneo sotto forma di una fossa, in


storia LE ORIGINI DI ROMA/4 cui erano seppellite zolle di terra portate lí dai luoghi di provenienza di tutti gli abitanti della nuova città: il ruolo simbolico unificante di questo rituale appare evidente. Sul colle capitolino, non lontano dall’odierno Altare della Patria, un’altra area sacra aveva un ruolo fondamentale, permettendo sotto la tutela del dio Veiove l’accoglimento di stranieri, rifugiati o schiavi ribelli, ai quali veniva conferita la cittadinanza della nuova città. Dal nome di asylum dato a questo santuario, venne cosí istituito il cosiddetto «diritto d’asilo», ancora oggi in vigore nei rapporti internazionali.

…e le Romane? Fatta Roma... bisognava fare i Romani: e Romolo si dedicò allora all’organizzazione della cittadinanza e delle istituzioni. Uno dei primi problemi affrontati dal re fu quello di distribuire gli abitanti della neonata città in gruppi, tenuti assieme da legami di parentela, che dovevano avere un valore sia economico e istituzionale, che militare, per l’assegnazione di compiti e corvée e per il reclutamento dei soldati. A tale esigenza si legava il problema del popolamento della nuova città: per questo motivo Romolo inviò alle popolazioni vicine ambascerie, incaricate di chedere concilia e conubia, cioè alleanze e matrimoni (il cosiddetto ius conubii è il diritto di stringere matrimoni validi per il diritto civile romano, con conseguente nascita di figli legittimi e cittadini romani). L'iniziativa, però, non ebbe successo: alle richieste di intrecciare relazioni matrimoniali con la gioventú di Roma, i popoli vicini opposero solo rifiuti. Una posizione che, secondo Tito Livio, derivava sia dal disprezzo per le umili origini degli abitanti della nuova città, sia dal timore che Roma potesse crescere troppo e diventare pericolosa (cosa che poi puntualmente avvenne). La reazione di Romolo fu terribile e inattesa: fingendo amicizia, i Ro56 a r c h e o

mani organizzarono una grande A destra: Roma. La Rupe Tarpea, festa religiosa estiva a carattere agrisul lato colo, i Consualia, con giochi solenni, meridionale del ai quali vennero invitati i vicini Campidoglio, che abitanti di Caenina, Crustumerium, porta il nome Antemnae e i Sabini che vivevano della giovane che sul Quirinale. avrebbe tradito i Al momento opportuno, mentre Romani e che da tutti seguivano i giochi, disarmati e qui sarebbe vestiti per la festa, i Romani fecero perciò stata scattare la loro imboscata e rapirono gettata nel vuoto, tutte le ragazze presenti alla festa, per poi essere seppellita sotto mettendone in fuga i genitori e una catasta familiari. Questi ultimi, una volta di scudi. tornati a casa, protestarono contro A destra, nel la violazione del diritto di ospitalità riquadro: carta e dichiararono guerra a Roma. del Lazio antico, Per primi si schierarono in campo con, in evidenza, gli abitanti di Caenina, un villaggio le località che doveva trovarsi non lontano protagoniste dall’odierno quartiere di La Rustica della guerra fra a est di Roma: Romolo guidò in Roma e i Sabini. battaglia l’esercito romano e si scaA sinistra:

rovescio di due denari di L. Titurius Sabinus, battuti nell’89 a.C.; in alto: il Ratto delle Sabine; in basso: l’uccisione di Tarpea, sepolta sotto gli scudi sabini.

gliò personalmente contro il re nemico, Acrone, sconfiggendolo in duello e riportandone le spoglie con sé. Vinti i nemici, il fondatore di Roma poté cosí istituire un’altra veneranda usanza militare romana, celebrando il trionfo e offrendo a Giove le cosiddette «spoglie opime», onore che toccava solo a un capo militare in grado di battere in singolar tenzone il comandante dello schieramento avverso. Fu poi la volta del villaggio di Antemnae, dove oggi è il Forte Antenne, nel parco urbano di Villa Ada, e di quello piú lontano di Crustumerium, non lontano da Settebagni, sulla via Salaria; forte di questi successi, Romolo si preparò


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ad affrontare i Sabini. Questi ultimi, però, non si lasciarono trasportare dalla foga e dallo sdegno e non furono sorpresi come i loro alleati dalle rapide azioni militari di Romolo; al contrario, si organizzarono e iniziarono un vero e proprio assedio alla nuova città. Qui si colloca la vicenda di Tarpea, una fanciulla romana che, attratta dalla possibilità di guadagnare una ricompensa dai Sabini (i bracciali che i guerrieri portavano al braccio sinistro), aprí le porte della cittadella fortificata del Campidoglio, consegnandola al nemico. La ragazza fu poi punita per il suo tradimento dagli stessi Sabini, i quali, assieme ai bracciali, gettarono su di lei anche gli scudi, che appunto tenevano al

braccio sinistro, cosí soffocandola, ma di fatto, consegnando ai secoli a venire un’iconografia piú adatta a una dea guerriera, trionfante su una catasta di armi, che non a una traditrice da condannare anche nella memoria.

Da prigioniere a mogli Il teatro dello scontro si spostò pertanto nella valle del Foro Romano, che si estende tra il Campidoglio e il Palatino, ed era sede dell’insediamento di Romolo. Nel frattempo, le fanciulle rapite (generalmente chiamate, nel loro insieme, le Sabine) erano state prese in moglie dai Romani, con un criterio di scelta a un tempo estetico e classista: «Le piú belle erano destinate ai senatori piú importanti»,

come ricorda Tito Livio. E molte di esse erano ormai incinte dei loro mariti. Per questo motivo, quando i due eserciti si scontrarono aspramente nel Foro e i Romani vennero messi una prima volta in rotta, arrestandosi solo in seguito all’intervento di Giove (al quale Romolo promise un tempio per la sua opera di Stator, «che ferma» l’esercito in fuga), le ragazze si gettarono tra gli schieramenti, incuranti del pericolo di essere colpite, e riuscirono cosí a commuovere i mariti e i familiari (padri e fratelli), scongiurando il pericolo di una strage. Il re dei Sabini,Tito Tazio, strinse un patto con Romolo e le due città si fusero in una sola, che venne ad abbracciare Palatino, Campidoglio e Quirinale, e che aveva due a r c h e o 57


storia LE ORIGINI DI ROMA/4 A sinistra: Ratto delle Sabine. Gruppo scultoreo in marmo, opera del fiammingo Jean de Boulogne detto «Giambologna». 1582. Firenze, Galleria dell’Accademia. In basso: Romolo, primo Re dei Romani, abusandosi troppo del suo potere contro li Senatori, viene dai medesimi ucciso, mentre faceva la rivista delle sue truppe, vicino alla palude della Capra. Acquaforte incisa da Bartolomeo Pinelli, da Istoria Romana. 1818.

re di «uguale dignità e pari onori», come dice Dionigi d’Alicarnasso. Ancora una volta, alle origini di Roma, fu instaurata una diarchia (un governo a due), che prefigura il ruolo dei consoli repubblicani (vedi «Archeo» n. 312, marzo 2010). La coabitazione pacifica con i Sabini continuò anche dopo la morte di Tito Tazio, che avvenne a Lavinio passati cinque anni dall’istituzione del regno congiunto.

Le trenta curie L’immissione di nuovi abitanti nella città comportò l’aumento del numero dei senatori, fra i quali venne incluso un pari numero di nobili sabini, e l’incremento dell’esercito. Furono inoltre istituite tre tribú, che abbracciavano l’intero popolo romano e vennero denominate Ramnenses (forse da Romolo), Titienses (presumibilmente da Tito Tazio) e Luceres (nome misterioso, di cui alcuni ipotizzano un’origine etrusca); ogni tribú era a sua volta divisa in dieci curie, che servivano all’amministrazione religiosa, militare e anagrafica del popolo. Secondo la tradizione le trenta curie prendevano il nome da altret-


tante donne sabine rapite, ma, in realtà, almeno alcuni dei nomi che ci sono stati tramandati sembrano piuttosto derivare da luoghi – come per esempio la Foriensis dal Foro e la Veliensis dalla Velia, il colle che univa il Palatino all’Oppio –, mentre altri richiamano nomi di famiglie gentilizie – come la Titia o la Acculeia. E in effetti già Varrone conosceva una versione secondo la quale Romolo avrebbe denominato le parti del popolo a partire in certi casi dai comandanti, in altri dai villaggi. Un recentissimo lavoro di Elena Tassi Scandone ha permesso inoltre di riconoscere nel nome di una delle curie il chiaro riferimento alla leggenda del ratto delle Sabine: infatti, la curia delle Raptae, letteralmente «rapite», non può che essere stata istituita per accogliere le vergini rapite, appunto, assieme ai loro parenti e consanguinei che scelsero di trasferirsi a Roma al seguito di Tito Tazio. Alla divisione amministrativa-religiosa in tribú e curie, si aggiungeva l’ulteriore separazione sociale tra patrizi e plebei: ai secondi spettava la cura del lavoro agricolo e pastorale, essendo esentati dagli affari pubblici (come dice, non sen-

ATTUALITÀ DI UN MITO La Sezione archeologica del Museo Civico di Rieti ospita, fino all’11 dicembre, la mostra «Il ratto delle Sabine. Installazioni artistiche da voci antiche».Vengono presentate installazioni artistiche e lavori (realizzati dai ragazzi dell’Ecole Boulle di Parigi e dell’Istituto d’Istruzione Superiore M.T.Varrone) che rivisitano la leggenda con un linguaggio moderno, ispirato alle opere d’arte antica. Orario ma-gio, 8,30-13,30; ve-sa, 8,30-13,30 e 15,30-18,30; do e festivi 10,00-13,00 e 15,30-18,30: lu chiuso Info tel. 0746 488530; e-mail: museocivico@comune.rieti.it za una certa ironia, Dionigi d’Alicarnasso), mentre i primi erano investiti degli incarichi di assistenza al re nell’amministrazione civile, militare e religiosa. Era d’uso, inoltre, per i plebei scegliersi un patrono nella classe superiore, a scopo di protezione.

L'eredità della terra Un’altra riforma fondamentale a cui Romolo mise mano fu quella dell’assegnazione della terra, che costituiva un primo riconoscimento della proprietà privata e del diritto di eredità da parte dei membri di una stessa famiglia. Con l’espressione familia proprio iure, i Romani identificavano il nucleo fondamentale minimo della società, costituito dalla coppia di sposi con i loro figli e le figlie non sposate, nonché tutti i successivi discendenti in linea maschile e le loro mogli; su tutti esercitava la propria autorità indiscussa il pater familias, il capostipite vivente, fino alla sua scomparsa. Secondo la leggenda fu già Romolo a stabilire che a ogni pater familias di Roma dovesse spettare un appezzamento di terra minimo di due iugeri (lo iugero era una unità di misura agraria romana, circa un quarto di ettaro, corrispondente al tratto di terra che si poteva arare in una giornata con una coppia di buoi aggiogati). Il nome di questi piccoli lotti era heredia (al singolare heredium), a indicare il passaggio della loro proprietà in asse ereditario. L’area prevista, in realtà, era troppo piccola per poter davve-

ro provvedere al sostentamento di un’intera familia, il che ha permesso a Luigi Capogrossi Colognesi di ipotizzare che in realtà i due iugeri fossero l’unità di misura minima delle distribuzioni fondiarie, eventualmente moltiplicabile per i componenti maschi adulti di ciascuna famiglia. Inoltre, va considerato che per le necessità dell’agricoltura e dell’allevamento era possibile già allora fare uso di spazi dell’ager publicus, destinati a coltivazioni e al pascolo, anche se ancora è aperto il dibattito sulla natura della proprietà di questa parte del territorio di Roma, non assegnata in proprietà privata (in latino non divisa et adsignata), ma forse risalente alle antiche proprietà dei grandi clan gentilizi romani e rimasta a disposizione delle famiglie patrizie.

Nascita di un dio Secondo la tradizione, la monarchia di Romolo divenne col tempo sempre piú autoritaria e invisa alla classe patrizia e soprattutto ai senatori, che vedevano limitata la propria capacità di intervento politico. Il re, infatti, tendeva ormai a prendere le sue decisioni senza consultare i senatori patrizi, che potevano soltanto ratificarle formalmente. Per questo motivo, già gli storici antichi mettevano in dubbio la veridicità della tradizione sulla misteriosa scomparsa di Romolo. Si diceva, infatti, che un giorno, mentre passava in rivista l’esercito nella cosiddetta palude «della Capra» in Campo Marzio – non lontano dall’ata r c h e o 59


storia LE ORIGINI DI ROMA/4

Ipotesi ricostruttiva del tempio dedicato a Quirino, il dio dei Romani e delle curie, identificato con il fondatore Romolo,

divinizzato dopo la sua misteriosa scomparsa in Campo Marzio. Nella pagina accanto: elogio di Romolo, figlio di Marte, copia da

PER SAPERNE DI PIÚ Roma. Romolo, Remo e la fondazione della città (catalogo della mostra), Roma 2000; Luigi Capogrossi Colognesi, Cittadini e territorio. Consolidamento e trasformazione della «civitas Romana», Roma 2000; Augusto Fraschetti, Romolo il fondatore, Roma 2002; Luigi 60 a r c h e o

un’edicola dell’edificio della sacerdotessa Eumachia, nel Foro di Pompei. Roma, Museo della Civiltà Romana.

Capogrossi Colognesi, Storia di Roma tra diritto e potere, Bologna 2009, pp. 13-56; Elena Tassi Scandone, Sabinae raptae: usi matrimoniali ed origine della città curiata, in Il ratto delle Sabine. «Installazioni artistiche da voci antiche» (catalogo della mostra), Rieti 2011, pp. 61-65.

tuale via del Corso –, il re fu avvolto da una nuvola oscura, durante una tempesta improvvisa, e scomparve nel nulla. Secondo Tito Livio, anche se i senatori che erano seduti accanto a lui sostenevano che Romolo fosse stato trascinato verso il cielo dalla furia degli elementi, tra il popolo serpeggiava il sospetto che, in realtà, fosse stato barbaramente assassinato dagli stessi senatori e portato via. Contro questa orribile ipotesi, però, si avanzò anche la proposta, ben piú tranquillizzante, che il buon re fosse stato accolto in cielo fra gli dèi; e questa storia acquistò definitiva-


mente credito quando uno dei vecchi compagni di Romolo, Giulio Proculo, affermò pubblicamente di aver incontrato in sogno il re, che gli annunciava come Roma avrebbe dovuto diventare capitale del mondo e che nessuna potenza avrebbe potuto mai resistere alle armi dei Romani. Commentava Livio a riguardo: «È straordinario quanto si prestò fede alle affermazioni di quell’uomo e quanto il dolore della plebe e dell’esercito per la perdita di Romolo fu placato dall’assicurazione della sua immortalità». Come a dire: quando si vuol credere qualcosa, lo

si fa anche contro ogni evidenza… tore dei cittadini romani (detti anDa allora Romolo venne accolto che Quirites) e delle curie, da cui nel pantheon delle divinità di Roma, prendeva il nome. (4 – continua) con il nome di Quirino, dio protetLE PUNTATE DI QUESTA SERIE • Quando Ercole si fermò sul Tevere... • La leggenda del pio viaggiatore • I gemelli del destino (in «Archeo» n. 313, marzo 2011) • La «costruzione» del popolo romano • Numa Pompilio e il calendario religioso • Tullo Ostilio e la supremazia

dei Latini • Anco Marzio e la fondazione di Ostia • Tarquinio Prisco e il tempio di Giove • Gli Etruschi a Roma • Servio Tullio e la riforma dello Stato • Tarquinio il Superbo • La nascita della Repubblica a r c h e o 61


musei ROMA

Tutto l’impero in un museo

di Anna Maria Liberati

I

l Museo della Civiltà Romana venne ideato per illustrare la storia e la cultura di Roma antica. Il 2011 segna il centenario della formazione delle sue prime collezioni, che testimoniano i grandi avvenimenti storico-politici dei primi decenni del Novecento. Le origini del museo risalgono al 1911, quando si decise di organizzare a Roma una Mostra Archeologica nelle Terme di Diocleziano. L'esposizione si inseriva nel quadro delle iniziative promosse per la ce-

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lebrazione del cinquantenario dell’Unità d’Italia. Scopo del suo ideatore, il senatore Rodolfo Lanciani (il grande archeologo e storico a cui si devono importanti scoperte a Roma e opere fondamentali come la Storia degli scavi di Roma e la pubblicazione della Forma Urbis severiana, n.d.r.), era quello di «ricomporre un quadro della civiltà romana, domandando a ciascuna delle sue trentatré province qualche ricordo dei benefici avuti da Roma sotto i vari aspetti della vita civile e

privata e, specialmente, nell’ambito delle opere pubbliche». Era formata quasi interamente da calchi, plastici, disegni e fotografie per la cui esecuzione il comitato organizzatore si era avvalso di vere e proprie spedizioni scientifiche. Le repliche costituivano «pallide immagini viventi dell’effimera vita del gesso: ma preziose e care, quando si pensi al gran numero di Italiani, per i quali le opere originali sono affatto ignote». Conclusa la mostra, gran parte delle opere furono donate allo Stato


Nata come mostra temporanea nel 1911, ancora oggi la straordinaria collezione del Museo della Civiltà Romana documenta la storia della civiltà romana antica, dalla fondazione al tramonto dell’impero, attraverso plastici ricostruttivi, calchi eseguiti su originali e riproduzioni di opere architettoniche ormai scomparse, in maniera assolutamente originale italiano. Giulio Quirino Giglioli, già collaboratore del Lanciani, divenuto rettore per le Belle Arti del Governatorato di Roma, il 21 aprile 1927 inaugurò il Museo dell’Impero Romano, con sede nei locali dell’ex convento di S. Ambrogio al Ghetto, trasferito poi il 24 maggio del 1929 nel Palazzo dei Musei a Piazza Bocca della Verità. Il materiale fu ordinato in 22 sale, secondo il criterio della divisione per antiche province romane. Molti settori vennero incrementati e le opere ne

risultarono quasi raddoppiate ri- In alto: l’ingresso del Museo della spetto a quelle presenti nelle Terme Civiltà Romana, nel quartiere EUR di Roma. Il grande complesso di Diocleziano.

In onore di Augusto Ma il vero impulso alle collezioni che oggi compongono il Museo della Civiltà Romana venne dato da quello straordinario e singolare evento rappresentato dalla Mostra Augustea della Romanità. In occasione della ricorrenza del bimillenario della nascita di Augusto, Carlo Galassi Paluzzi, fondatore

architettonico fu progettato dagli architetti Pietro Aschieri, Domenico Bernardini, Cesare Pascoletti e Gino Peressutti per l’Esposizione Universale di Roma nel 1942, e inaugurato nel 1955. Sulle due pagine: plastico ricostruttivo della Roma imperiale in età costantiniana, realizzato dall’architetto Italo Gismondi in scala 1:250, particolare con il Circo Massimo. Roma, Museo della Civiltà Romana.

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musei ROMA

L’ASIA MINORE NEI GIARDINI DI ROMA Tra gli obiettivi della Mostra Archeologica del 1911 vi era anche quello di documentare le scoperte archeologiche avvenute negli ultimi anni dell’Ottocento e nei primi del Novecento, sia in Italia che all’estero, con l’intento di divulgare gli importanti risultati raggiunti dalla scuola archeologica italiana che in quell’epoca si stava particolarmente distinguendo nel campo delle esplorazioni archeologiche del Mediterraneo Orientale. Particolarmente pregevole fu la riproduzione al vero del pronao del tempio di Roma e Augusto ad Ancyra, ricostruito nei giardini delle Terme di Diocleziano, opera della Missione italiana, guidata da Azeglio Berretti. Fra le tante manifestazioni che nella stessa Roma contraddistinsero il 1911, la mostra archeologica fu l’unica che riuscí a comunicare l’intento di impostare in maniera scientifica i temi della ricerca archeologica e la loro divulgazione. Proprio a seguito del carattere innovativo di tale mostra, ebbero origine o vennero potenziati molti musei. Le stesse Terme di Diocleziano, ampliando un primitivo nucleo espositivo dedicato alle antichità urbane, diedero origine a uno dei principali musei della capitale.

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Sullo sfondo: la Sala delle Gallie, allestita in un’aula delle Terme di Diocleziano di Roma per la Mostra Archeologica del 1911, organizzata da Rodolfo Lanciani nell’ambito delle celebrazioni per il cinquantenario dell’Unità d’Italia. Nella pagina accanto, in alto: Mostra Augustea della Romanità. Formatori all’opera sull’arco di Marco Aurelio a Tripoli per realizzare il calco del fornice nord, attualmente visibile nella sala XIII del Museo della Civiltà Romana; in basso: ricostruzione del tempio di Augusto ad Ancyra. L’opera fu esposta alla Mostra Archeologica del 1911 e alla Mostra Augustea della Romanità nel 1937.


musei ROMA Opere «in viaggio»

La storia del museo inizia nel 1911 con la Mostra Archeologica organizzata presso le Terme di Diocleziano. Conclusa l’esposizione, le opere furono donate allo Stato e, nel 1927, riunite provvisoriamente nei locali dell’ex convento di S. Ambrogio al Ghetto. Il Museo dell’Impero venne inaugurato due anni piú tardi e i materiali trasferiti nel Palazzo dei Musei a piazza Bocca della Verità (foto a destra). Un notevole incremento della collezione si ebbe nel 1937 in occasione della Mostra Augustea della Romanità, allestita nel Palazzo delle Esposizioni. L’attuale museo venne aperto al pubblico, nella sede dell’EUR, il 21 aprile 1955. Città del Vaticano

Terme di Diocleziano

Stazione

Ex convento di S. Ambrogio

Trastevere

Palazzo dei Musei

Secondo Carlo Quirino Giglioli, il Museo dell’Impero Romano avrebbe dovuto essere un’istituzione utile a tutti. Si allineava agli standard di musei europei di nuova concezione e si proponeva di riunire nelle proprie collezioni le testimonianze di Roma nel suo vasto impero, configurandosi come un centro per lo studio della civiltà romana: «Il Museo deve essere Museo e Archivio, Museo in quanto il documento è esposto al pubblico, Archivio in quanto è conservato nella collezione e a disposizione degli studiosi». Il museo fu arricchito con nuove acquisizioni, fra cui la raccolta che Giacomo Boni aveva costituito fin dal 1907 per un’analoga collezione destinata all’Antiquarium del Foro. Fra le varie iniziative si inserivano anche pubblicazioni scientifiche e divulgative, che miravano a porre il museo al centro di una fitta rete di studi sull’impero romano.

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Villa Doria Pamphilj

Palazzo Termini delle Esposizioni

LA CITTÀ E L’IMPERO

Roma Garbatella

Magliana E.U.R. Museo della Civiltà Romana

Cecchignola

e presidente dell’Istituto di Studi Romani, proponeva di celebrare l’evento con una mostra incentrata sulla figura del primo imperatore. La mostra, organizzata con grande perizia ancora una volta da Giglioli, in collaborazione con i maggiori studiosi dell’epoca, fu inaugurata il 23 settembre 1937, nel Palazzo delle Esposizioni di via Nazionale. Fu un lavoro di proporzioni gigantesche, in cui la storia, la vita e la cultura di Roma furono attentamente prese in esame. Indubbiamente, il primo imperatore trovò

un’esaltazione degna della propria grandezza nel particolare clima politico dell’epoca che traeva la propria forza anche dal sogno imperiale. Partendo dalla considerazione che sarebbe stato impossibile rimuovere tonnellate di marmi per portarli a Roma, venne ancora una volta scelto il criterio di eseguire calchi. Oggi tale scelta si è dimostrata vincente se si considera che molti originali hanno subito danneggiamenti o sono andati irrimediabilmente perduti a causa di eventi bellici o d’altra natura. Tale

GLI ANNI DEL REGIME L’esposizione dei materiali non venne improntata seguendo un criterio topografico per province dell’impero, secondo quanto già adottato per la Mostra Archeologica del 1911 e per il Museo dell’Impero Romano, ma fu divisa in quattro grandi settori e 82 sezioni: la storia di Roma, le sue istituzioni, l’ingegneria, l’urbanistica e le opere pubbliche e infine la vita privata. Fra le opere di maggior richiamo figurava una rappresentazione di Roma all’età di Costantino in scala 1:250. Tale ricostruzione, all’epoca di 80 mq, fu eseguita a cura del Governatorato a opera dell’architetto Italo Gismondi ed ebbe come base, oltre alla Forma Urbis severiana, anche quella di Rodolfo

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Lanciani, aggiornata in base alle ultime scoperte topografiche. Particolare fu inoltre la ricostruzione di una casa d’epoca augustea, perfettamente arredata. Inevitabilmente molto forti furono i richiami politici, a iniziare dalla nuova facciata addossata al palazzo di Pio Piacentini, riproducente l’arco dioclezianeo di File, interpretato secondo le nuove tendenze moderniste e irrigidito in un freddo classicismo. Alcune sale, inoltre, costituivano un esplicito richiamo al clima dell’epoca, come l’Atrio della Vittoria, la Sala dell’Impero e, soprattutto, quella dedicata all’Immortalità di Roma e alla rinascita dell’Impero nell’Italia fascista.


Bassorilievi e calchi in una sala della Mostra Augustea della Romanità , allestita nel 1937 all’interno del Palazzo delle Esposizioni di Roma, da Giulio Quirino Giglioli, per celebrare il bimillenario della nascita di Augusto.

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musei ROMA importante attività di ricerca costituisce un patrimonio storico eccezionale per il Museo della Civiltà Romana, che conserva migliaia di disegni, foto e negativi su lastra di vetro relativi alle missioni archeologiche incaricate di predisporre il materiale destinato ai calchi e ai plastici da realizzare.

DOVE E QUANDO

Una collezione diversa Nel 1938, una volta smontata la mostra, alcune opere furono nuovamente esposte presso il Museo dell’Impero Romano, che continuava a rappresentare un punto di riferimento notevole per le varie iniziative culturali della città, altre vennero immagazzinate in attesa di una nuova mostra sulla vita e la cultura di Roma antica, da inaugurarsi il 21 aprile del 1942 in un grandioso edificio in fase di costruzione nel nuovo quartiere dell’Esposizione Universale, il futuro Museo della Civiltà Romana. Il sopraggiungere della guerra pose però fine a tali progetti, ripresi solo al termine delle ostilità, depurati da tutto ciò che poteva richiamare alla mente il passato regime. Nel 1946 le collezioni passarono completamente al Comune di Roma, con il compito di curarne la riorganizzazione. Il Museo della

Civiltà Romana, ultimato nel 1952 A destra: sala con e inaugurato il 21 aprile del 1955, i calchi dei rilievi della Colonna divenne quindi l’erede di quanto Traiana. Roma, era stato realizzato fino ad allora in Museo della merito alla ricostruzione della stoCiviltà Romana. ria e della civiltà dell’antica Roma. In basso: il Tutto il materiale della Mostra Aucolonnato gustea fu riallestito nel nuovo muesterno del seo, rispettando criteri di obiettiviMuseo della tà, privi di enfatizzazioni di natura Civiltà Romana. politica, conservandone unicamente la parte scientificamente piú valida. Si tratta certamente di un museo diverso, che si propone di ricostruire la civiltà romana esemplificandola attraverso plastici al vero o in scala, calchi di statue, rilievi, iscrizioni, i cui originali si trovano nei siti piú disparati dell’impero romano. Sono inoltre numerosi gli esempi di monumenti smembrati e ricomposti nel museo. L’interesse che muove ancora oggi il visitatore a frequentare le sale del Museo

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Museo della Civiltà Romana Piazza G. Agnelli, 10 - Roma Orario ma-sa, 9,00-14,00; do, 9,00-13,30 (la biglietteria chiude 1 ora prima); lu chiuso Info tel. 060608 info.museociviltaromana@comune.roma.it


della Civiltà Romana è la curiosità del confronto tra le forme del vivere antico rispetto all’attuale, nonché l’opportunità di riuscirne a intendere anche gli aspetti meno comprensibili, grazie a un linguaggio immediatamente percepibile. Tale approccio, apparentemente semplice, offre in realtà vari livelli di lettura, da quelli piú elementari a quelli collegati all’approfondimento e alla ricerca.

I rilievi della Colonna Una delle opere piú note è il grande plastico ricostruttivo d+i Roma nel IV secolo d.C., ampliato rispetto al 1937, che si presenta come un’affascinante finestra aperta sulla città antica. Altra opera d’incredibile valore sono i calchi del

fregio marmoreo della Colonna Traiana, disposti orizzontalmente in quattro allineamenti paralleli. Antecedenti al 1911, risalgono al 1861, anno in cui Napoleone III diede avvio alla realizzazione delle repliche dei rilievi. Negli ultimi anni il museo è stato purtroppo afflitto da rilevanti problemi di carattere strutturale, che hanno influito sulla sua funzionalità, sensibilmente compromessa anche dagli esiti di passate scelte gestionali. Ma tanto è grande e tuttora valida la valenza culturale del museo, che esso porta avanti il suo ruolo con una solidità concettuale e scientifica che sfida i tempi, adattando la propria funzione alle esigenze della società attuale. a r c h e o 69


storia STORIA DEI GRECI/4

Lorem ipsum L’età degli dolor sitnuovi amet uomini di Fabrizio Polacco

Il Museo Archeologico Nazionale di Napoli sviluppa il tema della ricerAl di là delle piú importanti scoperte archeologica e della tecnologia nell’antichità, che, è Omero l’unico vero testimoneillustrando in grado dii saperi sviluppati nella Grecia ellenistica, quali ancoara oggi dobbiamo le basi di molte aiutarci a decifrare ai il significato di una svolta delle nostre discipline scientifiche epocale: quella che segnò la nascita della civiltà greca dalla prima, radicale crisi attraversata dall’Occidente al tempo dei «secoli bui»

SA

e la mostra “Homo Faber”, aveva raccontato ccade di radoladitecnologia esordire nell’antichità (vedi “Archeo” con un capolavoro: anzi, n. 170, aprile 1999), quella con due. Come un attualartista mente in corso al Museo dal talento precoce, la Archeolociviltà elgico Nazionale di Napoli si pone lenica si affaccia sul proscenio un programma ambizioso. della storia conben duepiú opere di al“Eureka!” intende infattie presentare tissimo livello, l’Iliade l’Odissea, il pensiero scientifico delladell’età Grecia che risalgono al principio ellenistica: il nuovo arcaica, l’VIII secolomondo a.C. nato dalla conquista di Alessandro Ma«Arcaico» significa antico, anzi, gno, che parlava ampliò «originario» (dagreco archè:e che «origine»). straordinariamente la sfera didefinire conoTuttavia, nessuno oserebbe e sperimentazioni scientifiiscenze due poemi come «letteratura delche. le origini»: Omero è già un vertice, polo di diffusione di eCentro i suoi ecapolavori non sono un questabalbettante, scienza furono le nuove avvio ma manifestano cittàpiena ellenistiche, una maturità. specialmente Sono il punto Alessandria dallo di arrivo di d’Egitto, una lungafondata evoluzione, stesso Alessandro non il suo inizio. nel 332 a.C. L’espressione del suo alto Abbiamo già massima avuto modo di parlivello Biblioteca, lare deiculturale Minoici eera deilaMicenei (in nei cui scaffali pieni di volumi si «Archeo» nn. 312 e 313, febbraio eriuniva marzoallora 2011)il lecompendio cui civiltà dello hanscibile umano inquella tutte le discipline no preceduto greca sullo conosciute, e nelle cui aule si constesso territorio, assimilandosi frontavano gli scienziati. infine a vicenda. Il loro declino Al pubblicoattorno colto è al nota, di questa cominciò 1200 a.C., sapienza,sisoprattutto la parte lette-e quando aprí un’epoca lunga raria e artisticache (chilanon conosce il travagliata, storiografia poeta Callimaco, il commediografo indica come «secoli bui» o «MeMenandro, lo scultore il dioevo ellenico», e cheLisippo, terminò, mosaico dicon Alessandro?) appunto, la fiorituramentre dell’ar-è assai menoMa diffusa la conoscenza del caismo. capolavori come settore omerici, scientifico. quelli che paiono usciti E invece, in equei pochi secoli forche già maturi perfettamente 70 a rch arc heeoo

nata a Eugenio Lo Sardo, docente Achille cura le ferite Patroclo, di museologia e didistudi storicodecorazione interna di una artistici all’Università “Lakylix Sapienza” (coppa a due manici) atticacurato l’aldi Roma. Egli ha anche a figure rosse, da Vulci, lestimento, con la partecipazione di attribuita al Pittore di Sosia. molti studiosi e archeologi e con 500 a.C. circa. Berlino, l’impegno di tutto il personale delStaatliche Museen. L’amicizia la Soprintendenza, del Museo, fra i due personaggi è uno dei dell’Associazione Civita e di Electa temi centrali dell’Iliade. Napoli. La mostra è nata come un L’epilogo del poema omerico ampliamento e un narra del ritorno sul approfondimencampo di to indispensabili alla già ricordata battaglia dell’eroe degli Achei, mostra “Homo Faber”: dopo che combatte sotto le mura di la tecTroia proprio pernon vendicare la nica romana, si poteva non morte didel Patroclo, compagno parlare genio suo greco, che ne avee scudiero, in quella va posto lee,premesse. circostanza, uccide Ettore, l’eroe La speculazione scientifica precede dei Troiani, figlio del re Priamo. e supera la tecnologia, e questa attua solo alcune delle molte, non del tutto sfruttate potenzialità di quella. mati «come Atena dalla testa di Zeus», non possono certo essere il risultato di un periodo semplicemente «oscuro» o «intermedio», con tutte le connotazioni riduttive che tali aggettivi comportano. Dobbiamo perciò fare attenzione a non lasciarci fuorviare dalle nostre stesse definizioni. L’aggettivo «buio» ha un significato tecnico: in Grecia viene a mancare la scrittura, sicché noi non possiamo piú rifarci neppure alle scarne tavolette d’archivio che avevano parzialmente rischiarato il mondo miceneo. La

separano la conquista di Alessandro dalla battaglia di Azio (31 a.C.; vedi “Archeo” n. 246, agosto 2005), che segna di fatto l’inizio dell’impero romano, si ebbero scienziati di grande spessore, intuizioni geniali e scoperte geografiche, astronomiche, geometriche, matematiche, tecnologiche tali che solo in pochissimi altri periodi della storia dell’uomo furono uguagliate; conquiste che si persero in parte nei secoli seguenti, per risorgere poi, almeno in Occidente (gli Arabi fecero assai prima tesoro della scienza greca) solo nel Rinascimento, da cui ebbe inizio la moderna scienza e sperimentazione.

I mille volti dell’ellenismo Il Museo Archeologico Nazionale di Napoli è un luogo particolarmente adatto per una mostra del genere. Le sue collezioni, infatti, piú che in ogni altro museo del mondo, posseggono esempi unici di strumenti e macchinari nei quali si possono vedere applicate le tecnologie suddette, reperti che per la maggioranza provengono dalle città dell’area vesuviana; ma anche testimonianze storiche: ritratti, busti, dipinti, vasi che esemplificano visivamente, plasticamente, pittoricamente la cultura ellenistica. L’idea di questa manifestazione è


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tà del mondo antico che si è evoluta con maggiore rapidità e con risultati decisivi per noi contemporanei: quella classica. In realtà, attribuire le fondamentali mutazioni della nuova epoca a un fattore esterno (che tra l’altro di estraneo non avrebbe né l’etnia né la lingua, visto che i Dori erano una popolazione ellenica che parlava uno dei tanti dialetti greci) è una spiegazione semplicistica, che non fa che rimandare il problema, e, soprattutto, non tiene conto di un dato di fatto dirimente: le innovazioni principali non si avviarono nelle zone che risultano occupate da Dori, ma in quelle non toccate dall’invasione.

Un nuovo stile La lavorazione del ferro viene introdotta in Grecia dall’isola di Cipro o dall’Asia Minore. Il nuovo stile di pittura vascolare, detto «geometrico» – quasi un manifesto programmatico della mentalità razionale e ordinatrice poi sviluppatasi nel mondo classico –, si afferma soprattutto in Attica, ad Atene: città che avrebbe respinto i Dori, accogliendo quegli «Achei» micenei da essi scacciati dal Peloponneso e che poi andarono a colonizzare le coste dell’Asia Minore con il nome di Ioni. Inoltre, all’alba dell’arcaismo,

Anfora funeraria del Pittore di Dipylon, con decorazione in stile geometrico a meandro continuo, losanghe e reticolati, dalla necropoli del Dipylon ad Atene. Sulla fascia figurata centrale compare una scena di prothesis con esposizione e lamentazione del defunto (particolare in alto). 750 a.C. circa. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

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storia STORIA DEI GRECI/4 A sinistra: busto di Omero in marmo, da un originale del II sec. a.C. Età antonina. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto: elmo bronzeo, da armatura oplitica. Età geometrica (900-700 a.C.). Argos (Grecia), Museo Archeologico.

IL RACCONTO DELL’IRA L’Iliade, il piú antico dei poemi omerici, prende le mosse nella fase cruciale dell’assedio che da quasi dieci anni gli Achei guidati dal re di Micene, Agamennone, stringono attorno alla città di Troia (Ilio), situata in Asia presso lo Stretto dei Dardanelli. Il re di Troia è l’anziano Priamo. Suo figlio, Paride, ha scatenato la guerra seducendo e portando con sé a Troia la bellissima Elena, moglie di Menelao re di Sparta e fratello di Agamennone, e rifiutandosi poi di restituirla. Tuttavia, la guerra nel suo complesso non è il vero argomento dell’Iliade, che, infatti, si interrompe ancor prima della caduta della città. Essa sarà causata, secondo la leggenda, dallo stratagemma di Ulisse: il cavallo di legno carico di guerrieri achei, fatto introdurre con scaltrezza all’interno delle mura troiane. Piuttosto, il poema è incentrato su Achille, giovane re di Ftia (figlio di Peleo, un mortale, e di una dea, Teti) e sulla sua «ira funesta» verso Agamennone: un rancore sordo, che a lungo lo terrà lontano dal campo di battaglia, e che determinerà gravi perdite nell’esercito acheo, mettendo addirittura in forse la prosecuzione dell’impresa. Agamennone, infatti, ha ferito Achille nel suo onore (timè), sottraendogli Briseide, prigioniera di guerra che gli era stata assegnata nella spartizione del bottino come

L’EDUCATORE DEI GRECI Al termine dei cosiddetti «secoli bui» e all’inizio dell’età greca arcaica, tra l'VIII e il VII secolo a.C., il mondo ellenico si presenta alla storia dell’umanità con due capolavori assoluti, entrambi attribuiti dalla tradizione al poeta Omero. Non si tratta di semplici opere letterarie, almeno come le intendiamo noi oggi. Infatti, l’ascolto e l’apprendimento dei due poemi epici (l’èpos è un racconto in versi, a quei tempi recitato oralmente) costituiva la base dell’educazione del

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giovane greco, specie se appartenente a famiglia nobile. I protagonisti (Achille per l’Iliade; Odisseo o, alla latina, Ulisse per l’Odissea) facevano parte del mondo degli eroi illustri, rinomati per le imprese compiute in un passato considerato ancora non troppo lontano, e che la tradizione collocava nel periodo conclusivo della civiltà micenea (XIII-XII secolo a.C.). Il filosofo Platone, che visse circa quattrocento anni dopo Omero, dichiarava,

confrontandole, che le virtú di Achille – l’eccellenza in battaglia e il coraggio – erano preferibili a quelle di Ulisse, l’astuzia e la pazienza. Il dibattito tra i Greci su questo punto rimase a lungo vivo e aperto, a dimostrazione che i due eroi erano pur sempre considerati modelli umani degni di emulazione e rispetto. Non è quindi escluso che Omero abbia usato per primo la nuova scrittura alfabetica per comporre compiutamente le due grandi opere.

all’avanguardia nei viaggi di colonizzazione d’oltremare (dall’Occidente mediterraneo fino al Mar Nero), nei progressi dell’arte architettonica e figurativa, nella elaborazione di nuovi sistemi sociali (innanzitutto la polis, la città-stato ellenica) troviamo soprattutto regioni non doriche, come l’Eubea, l’Eolia, la Ionia. Per non parlare dello stesso epos omerico (nel quale i Dori non vengono quasi mai citati), la cui elaborazione ebbe luogo nelle zone costiere dell’Asia Minore al confine tra Ionia ed Eolia. Insomma, seppure un rimescolamento e una ricollocazione delle stirpi greche è avvenuto – e non vi è motivo di dubitarne – e quand’anche la sua causa principale vada ricercata nell’avvento dei Dori, non è stato ancora questo il fattore decisivo della svolta scaturita dai secoli della transizione (vedi box a pagina 72). Abbiamo visto, dunque, che alcune delle innovazioni sono state


di Patroclo, di cui Ettore indossa poi premio per la sua eccellenza in battaglia. orgogliosamente le armi. Il risentimento di Achille, che si prolunga Appresa la tragica notizia, l’antico per tutta la prima metà del poema, nasce rancore di Achille nei confronti di anche dalla sua amara consapevolezza di Agamennone viene soppiantato dalla aver scelto per sé, proprio combattendo a disperazione per la morte dell’amico, Troia per Agamennone e Menelao, un accentuata dall’inconfessabile destino certo glorioso, ma che gli sarebbe consapevolezza di averne, pur non anche costato la vita, come Teti gli volendo, causato la morte. Nella aveva predetto. parte conclusiva del poema, Achille Achille, che al contrario di quanto si fa perciò consegnare dalla dea talvolta si afferma, è un eroe capace Teti nuove armi dorate, con le quali di conflitti interiori, dapprima rifiuta rientra finalmente in guerra per le offerte di riparazione rivoltegli da vendicare Patroclo. Si riappacifica Agamennone, poi, alla lunga, non con Agamennone, e inizia a far sa resistere alla preghiera strage di Troiani, finché, trovandosi appassionata del suo piú caro solo di fronte a Ettore, lo sfida a compagno e scudiero, Patroclo, di duello e lo uccide. concedere almeno a lui di scendere in inserire ombra Ma Achille sa bene che questa vittoria, con battaglia per dare sollievo agli esausti l’immensa gloria che gli procura, segna anche guerrieri achei, fingendosi Achille dopo la prossimità dell’ora della sua morte. Perciò, averne indossato le armi. Achille cosí dopo avere a lungo straziato il corpo del nemico acconsente, pur col presentimento che vinto nella vana ricerca di un sollievo impossibile, preso qualcosa di terribile stia per avvenire. da un moto di compassione lo rende al padre Priamo, Patroclo, infatti, dopo aver compiuto giunto supplice fino al campo acheo per scongiurare splendide gesta, non si accontenta di rinfrancare gli Achille di restituirglielo. Con i funerali solenni di Patroclo Achei, come Achille gli aveva fatto promettere, ma sfida e quelli di Ettore, i cui corpi sono inceneriti su due pire in duello il massimo eroe troiano, Ettore, figlio di Priamo funebri da parte dei rispettivi eserciti, si chiude il poema. e fratello di Paride. Lo scontro si conclude con la morte

introdotte dall’esterno (lavorazione dei metalli, sistema di scrittura), il che non meraviglia in un mondo insulare e peninsulare da tempo aperto ai contatti. Ma la civiltà greca che esce dai secoli bui sotto vari aspetti già pienamente formata (come rivela la maturità indiscutibile dell’epos omerico) si presenta fin dal principio nettamente diversa da tutte quelle preesistenti. Perciò il fattore determinante della svolta difficilmente potrà essere pervenuto dall’esterno: andrà piuttosto ricercato in qualcosa di peculiare, in un’evoluzione originale realizzatasi lungo quei secoli. Purtroppo l’archeologia, in assenza di ritrovamenti di testi scritti, non può aiutarci molto a risolvere l’enigma. Per fortuna, ci resta Omero. Nonostante il poeta – o chiunque altro abbia composto l’Iliade e l’Odissea – sia vissuto nell’VIII secolo a.C., le vicende e i personaggi di cui tratta

non appartengono alla sua epoca, ma all’inizio di quella immediatamente precedente (la guerra di Troia era collocata da alcuni nel 1194/84 a.C.). Quindi la tradizione mitica orale di cui egli si fece collettore e cantore era stata elaborata nel corso dei secoli su cui stiamo indagando. E se Omero non può considerarsi fonte storica per una civiltà irrimediabilmente perduta già molto prima di lui (quella palaziale micenea), il mondo che ci racconta, e proprio negli aspetti non materiali piú avvolti dal silenzio delle altre fonti, è quello in cui avvenne la formazione della civiltà ellenica.

Gli uomini del poeta Non a caso ci si è a lungo concentrati su molteplici aspetti dell’epos per individuarvi i segni del passaggio alla nuova èra: la crisi della regalità e i grandi viaggi alla scoperta del Mediterraneo nell’Odissea, l’avvento di nuove tattiche militari (gli Achei che

in una occasione muovono all’assalto in falangi ordinate contro i Troiani) e la nascita di organismi civili piú moderni (la città dei Feaci è la prima polis di cui abbiamo una descrizione). Tutti questi sono certo aspetti rilevanti, ma ancora parziali del mutamento: nessuno di essi ci riporta il fattore determinante. Occorre quindi considerare i due poemi con distacco, per vedere se per caso il principale elemento di novità non ci sia sfuggito, magari perché tanto macroscopico e a tal punto acquisito dalla mentalità odierna da risultare, a noi uomini occidentali, come trasparente: e perciò quasi invisibile. Nei poemi omerici compaiono due protagonisti, Achille e Ulisse, che, seppur delineati dalla creatività di un poeta, sono due grandi individui. Piú esattamente, i primi individui veramente liberi di cui si abbia traccia nella memoria del mondo antico. Al di là dei loro ruoli sociali a r c h e o 75


Ulisse acceca il ciclope Polifemo. Particolare di un vaso a figure rosse. Età geometrica (900-700 a.C.). Argos, Museo Archeologico. L’episodio è una delle molte prove che il re di Itaca deve superare nel suo lungo viaggio di ritorno da Troia, che è argomento dell’Odissea.

IL LUNGO VIAGGIO DI ULISSE L’Odissea si apre quando il protagonista, Odisseo (alla latina, Ulisse), re dell’isola di Itaca, attraversa la fase conclusiva delle sue decennali peripezie che hanno fino a quel momento ostacolato il suo ritorno in patria da Troia. Durante la sua lunga assenza, la moglie Penelope e il figlio Telemaco hanno tenuto a freno con sempre maggiore difficoltà l’arroganza dei nobili locali, i quali, ritenendo già morto il re, vorrebbero che la regina scegliesse tra di essi un nuovo marito. Mentre Telemaco si reca a Sparta, da Elena e Menelao, e poi a Pilo, dal re Nestore, per cercare notizie sulla sorte del padre, Odisseo abbandona su una zattera l’isola sperduta della ninfa-amante Calipso, e, dopo un naufragio, giunge presso i Feaci, popolo favoloso e cortese, dove l’eroe viene accolto e ospitato dal re Alcinoo e dalla sua giovane figlia Nausicaa. Dopo aver assistito a feste e partecipato a giochi atletici, nel corso di un banchetto in suo onore, Odisseo svela infine la propria identità e narra ai Feaci le fantastiche vicende che ha attraversato in dieci anni di navigazione. Ciconi, Lotofagi, Ciclopi, Eolo dio dei venti, Lestrigoni, la maga Circe, la discesa nell’oltretomba (l’Ade), Sirene, Scilla e Cariddi, Trinacria, Calipso: queste le famose avventure di Odisseo, narrate dal protagonista come se fosse egli stesso un aedo (cantore epico), e che daranno alla parola «odissea» il suo attuale significato di

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viaggio periglioso e interminabile. Terminato il suo lungo e affascinante racconto (che però occupa solo 4 dei 24 libri del poema), Odisseo viene aiutato dagli stessi Feaci a raggiungere Itaca. Vi arriva in incognito e viene trasformato dalla dea Atena, a lui alleata, in un vecchio mendicante, cosicché possa introdursi senza essere riconosciuto nella reggia e preparare la rivincita, mettendo contemporaneamente alla prova l’obbedienza dei sudditi, ma anche la fedeltà di Penelope. La reggia gli appare in balía dei pretendenti (Proci), che dilapidano i suoi beni in banchetti e divertimenti. Fattosi riconoscere da Telemaco, Odisseo si prepara gradualmente alla vendetta. Questa si attua quando Penelope, consigliata dallo stesso mendicante straniero, decide di offrirsi in sposa a chi vincerà una gara di tiro con l’arco. Sorprendendo tutti, sarà proprio Odisseo a tirare meglio di chiunque altro. Ormai i Proci, sbigottiti dall’impresa e in precedenza opportunamente disarmati da Telemaco, sono nelle sue mani: egli ne farà strage, nella stessa sala in cui erano riuniti a banchetto. Riconosciuto ora anche da Penelope, Odisseo deve però ancora affrontare il desiderio di vendetta dei parenti infuriati dei Proci. La guerra civile verrà evitata per un soffio, grazie all’intervento finale di Atena, che garantisce al suo protetto la pacificazione con gli avversari e il rientro in possesso della sua antica dignità regale.


Statuette di cavalla e puledro in bronzo. Età geometrica (900-700 a.C.). Atene, Museo Archeologico Nazionale.

(re a Itaca e a Ftia), o di parziali ascendenze divine (Achille, figlio di Teti), sono finalmente rappresentati come uomini a tutto tondo: spogliati – nelle azioni, nel dolore, nelle sventure – di ogni attributo sovrumano (Achille è fin dal principio destinato a morire in guerra e consapevole di esserlo; Ulisse giunge a definirsi, nel celebre episodio del Ciclope, come «Nessuno»).

LE PUNTATE DI QUESTA SERIE Ecco alcuni dei capitoli principali di questa storia dei Greci: • Grandi migrazioni e primi legislatori • Sparta fuori dagli schemi • L’avanguardia ionica e la scommessa attica • Tirannidi e democrazie • Le guerre persiane

Uomini nuovi e liberi Si tratta senz’altro di personalità connotate da un modo di pensare e di agire libero e controcorrente: Ulisse, per la sua tenace volontà di restaurare un mondo passato che parrebbe negargli il «ritorno» – al suo ruolo, alla sua dignità, alla «sua» Itaca –; Achille, per quel suo tragico rinunziare e poi riprendere a combattere sulla base di motivazioni squisitamente personali, che nulla hanno piú a che vedere, se non l’occasionale spunto di partenza (una lite con Agamennone per il possesso della schiava Briseide), con le tradizionali convenzioni dell’onore e della gloria (vedi box alle pagine 74/75 e 76). Concludiamo. Il crollo di una civiltà, quella minoico-micenea, di cui si continuò a serbare una memoria intrisa di nostalgia e ammi-

razione, coinvolse tutte le strutture economiche, sociali, politiche, e quindi anche le coordinate ideali dell’uomo post-miceneo: lasciando emergere, in una situazione di epocale rimescolamento e di smarrimento, l’uomo ellenico.Vediamo cosí apparire un individuo, l’eroe, che, per la prima volta nella storia, è marcatamente libero, poiché glielo consente il venir meno di vincoli tradizionali e di autorità superiori (in ambito sia religioso che politico), ed è perciò spinto a scelte autonome: da compiersi, va notato, spesso in totale solitudine e comunque in assenza degli abituali punti di riferimento. È questa la svolta fondamentale, impossibile da rintracciare in uno scavo archeologico, intervenuta nei secoli bui. Il mondo greco arcaico con i caratteri profondamente innovativi che vedremo non è dunque il prodotto di un qualche fattore esterno (non per nulla cosí difficile da individuare), ma nasce negli spazi di libertà e a seguito dell’epocale disorientamento derivanti dal crollo delle strutture e delle tradizioni che sorreggevano il mondo che lo ha preceduto. La civiltà ellenica si pone alle radici della modernità proprio perché scaturisce da una crisi radicale: la prima mai verificatasi su suolo europeo. (4 – continua) Desideriamo ringraziare le Edizioni il capitello di Torino per aver gentilmente concesso la pubblicazione dei testi inseriti nei box alle pp. 80, 81 e 82, tratti da L’onda del passato, Corso di storia per il biennio della Scuola secondaria di secondo grado, vol. 1. a r c h e o 77


mostre CORTONA CORTONA

Lorem ipsum Passioni etrusche dolor sit amet di Giovanna Quattrocchi

Giovanni Pietro Campana fu un collezionista accanito, al punto da finire in rovina pur di arricchire la sua raccolta di di antichità etrusche. Che fu poiricervenIl Museo Archeologico Nazionale Napoli sviluppa il tema della duta e in larga partesviluppati acquisitanella dal ca e della tecnologia nell’antichità, illustrando i saperi Louvre. Una sceltalesignificativa di Grecia ellenistica, ai quali ancoara oggi dobbiamo basi di molte delle nostre discipline scientifiche quegli oggetti è attualmente in mostra a Cortona

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e la mostra “Homo Faber”, aveva raccontato la tecnologia nell’antichità (vedi “Archeo” n. 170, aprile 1999), quella attualmente in corso al Museo Archeologico Nazionale di Napoli si pone un programma ben piú ambizioso. “Eureka!” intende infatti presentare il pensiero scientifico della Grecia ellenistica: il nuovo mondo nato dalla conquista di Alessandro Magno, che parlava greco e che ampliò straordinariamente la sfera di conoscenze e sperimentazioni scientifiche. Centro e polo di diffusione di questa scienza furono le nuove città ellenistiche, specialmente Alessandria d’Egitto, fondata dallo stesso Alessandro nel 332 a.C. L’espressione massima del suo alto livello culturale era la Biblioteca, nei cui scaffali pieni di volumi si riuniva allora il compendio dello scibile umano in tutte le discipline conosciute, e nelle cui aule si confrontavano gli scienziati. Al pubblico colto è nota, di questa sapienza, soprattutto la parte letteraria e artistica (chi non conosce il poeta Callimaco, il commediografo Menandro, lo scultore Lisippo, il mosaico di Alessandro?) mentre è assai meno diffusa la conoscenza del settore scientifico. E invece, in quei pochi secoli che 78 a r c h e o

Tutti gli oggetti

riprodotti separano la conquista di Alessandro appartengono alla dalla battaglia di Azio (31 a.C.; vedi collezione di antichità “Archeo” n. 246, agosto 2005), che etrusche del Museo segna di fatto l’inizio dell’impero del Louvre di Parigi e romano, si ebbero scienziati di sono attualmente in grande spessore,mostra intuizioni geniali e a Cortona, nel scoperte geografiche, astronomiche, MAEC, Museo geometriche, matematiche, tecnodell’Accademia logiche tali che solo Etrusca in pochissimi e della altri periodi della storia Città dell’uomo di Cortona. furono uguagliate; conquiste che si persero in parte nei secoli seguenti, per risorgere poi, almeno in Occidente (gli Arabi fecero assai prima tesoro della scienza greca) solo nel Rinascimento, da cui ebbe inizio la moderna scienza e sperimentazione.

I mille volti dell’ellenismo Il Museo Archeologico Nazionale di Napoli è un luogo particolarmente adatto per una mostra del genere. Le sue collezioni, infatti, piú che in ogni altro museo del mondo, posseggono esempi unici di strumenti e macchinari nei quali si possono vedere applicate le tecnologie suddette, reperti che per la maggioranza provengono dalle città dell’area vesuviana; ma anche testimonianze storiche: ritratti, busti, dipinti, vasi che esemplificano visivamente, plasticamente, pittoricamente la cultura ellenistica. L’idea di questa manifestazione è

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a moda di collezionare ognata agetti Eugenio Lo Sardo, docente antichi, nata sull’onda di museologia di studi storico-a dei primie scavi condotti artistici all’Università Sapienza” Pompei alla metà del“La Settecento e di Roma. Egli ha anche curato della scoperta dell’Egitto dopol’alla lestimento,napoleonica, con la partecipazione di conquista nell’Ottomolti studiosi e archeologi e cone cento, si trasformò in una vera l’impegno di tutto il personale delpropria «etruscomania», alimentata la Soprintendenza, dalle scoperte e dagli del scaviMuseo, che si dell’Associazione Civita e nell’Alto di Electa effettuavano in Toscana Napoli.alla La ricerca mostra di è nata come un Lazio, tombe ricche ampliamento e un approfondimendi oggetti preziosi. to indispensabili alla già ricordata Un commercio che inizialmente mostraavuto “Homo Faber”: dopo la coltecaveva come protagonisti nica romana, non soprattutto si poteva non lezionisti stranieri, inparlare del genioche greco, che neinteraveglesi e francesi, mediante va postoinviati le premesse. mediari in Italia, Grecia,TurLa speculazione scientificatutto precede chia, Egitto acquistavano ciò e supera tecnologia, e questa attua che avevalaun valore antiquario, fu in solo alcune delledamolte, non del seguito praticato una piú ampia tutto sfruttate potenzialità di quella. schiera di persone: antiquari, archeologi responsabili degli scavi e scavatori «fai da te», collezionisti alla ricerca del capolavoro, mercanti, orafi e perfino studiosi.

Caccia al tesoro Anche i proprietari terrieri dell’Italia centrale, avendo ormai compreso che le aree un tempo occupate dagli Etruschi nascondevano tesori, si dedicavano a scavi nei loro territori, là dove ritenevano vi fossero necropoli e tombe, spinti dal desiderio di recuperare reperti di alto valore commerciale.Tra le


Kantharos (tazza a due manici, usata per bere nei banchetti) gianiforme a figure rosse, composto da due teste: un satiro barbuto e una menade. Proveniente da Chiusi. 320 a.C. circa. Nella pagina accanto: busto in terracotta di Arianna, da Falerii Novi (odierna Santa Maria di Falleri, Roma). III sec. a.C.

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mostre CORTONA

La grande Piramide in vetro, ingresso principale al Museo del Louvre di Parigi. Nel 1861, il governo francese acquistò gran parte della Collezione Campana di antichità etrusche, oggi esposta nel museo parigino.

GLI ETRUSCHI A PARIGI Già prima di acquisire i materiali della Collezione Campana il Museo del Louvre si era dotato di reperti etruschi, in seguito all’acquisto della raccolta di Edme-Antoine Durand. Questi era un mercante francese che aveva accumulato migliaia di reperti di ogni tipo e provenienza, dall’Italia meridionale, ma anche dai centri etruschi: anche se, sugli inventari e cataloghi allestiti per la vendita, le provenienze sono rare e incerte. A questa prima acquisizione seguí appunto quella della Collezione Campana, nel 1861, che arricchí notevolmente la sezione etrusca del museo, ma anche quella della ceramica greca, con i vasi attici trovati nelle tombe etrusche. In seguito il Louvre continuò a effettuare acquisti anche da collezioni straniere, con l’aiuto di intermediari; per l’Italia, Alessandro Castellani orafo e mercante fece giungere a Parigi reperti di ingente valore.

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molte raccolte che si andavano formando in Toscana e nel Lazio, una delle piú ricche era quella di Giovanni Pietro Campana, a Roma (vedi box nella pagina accanto). Ma l’audace collezionista, a causa della cattiva conduzione del Monte di Pietà, cadde in disgrazia nel 1863 e gli oggetti che aveva accumulato furono acquisiti e messi in vendita dallo Stato Pontificio, e poi divisi fra numerosi acquirenti, il piú fortunato dei quali fu il Museo del Louvre, che se ne aggiudicò la parte principale. Oggi il museo parigino riporta a Cortona una ricca selezione dei


LA PASSIONE DEL BANCHIERE

Qui sopra: catena e pendente in oro con testa del dio fluviale Acheloo, raffigurato come un toro dal volto umano, da Chiusi. 480 a.C. A destra: ritratto di Giovanni Pietro Campana.

reperti etruschi di Campana, la cui composizione riflette l’eterogeneità che caratterizzava allora le scelte dei collezionisti: vi si trovano, infatti, vasi greci ed etruschi, statue, rilievi, vasellame in bucchero, sarcofagi e piccole urne cinerarie, bronzetti e pitture, ma, soprattutto, la «merce» piú ricercata, i gioielli in oro.

Grande valore, poca scienza Collezionisti come Campana non acquistavano materiali archeologici perché mossi da un interesse scientifico, ma per entrare in possesso di

Nato a Roma nel 1808, Giovanni Pietro Campana apparteneva alla buona borghesia romana: la famiglia era affidataria della gestione del Monte di Pietà, e qui il giovane Giovanni entrò come assistente, nel 1831. La sua carriera fu rapidissima: nel 1833 era già direttore generale del Monte, e nel 1835 fu fatto cavaliere da papa Gregorio XVI. Campana però alternava la gestione del Monte con la sua passione per la civiltà etrusca, e condusse scavi archeologici a Cerveteri e a Veio, ma anche a Frascati, nel 1829, dove la famiglia aveva l’uso di immobili della Camera Apostolica. Parallelamente grazie ai contatti con antiquari e scavatori, riuscí in poco tempo a raccogliere una collezione notevole di gioielli, vasi, sculture, bronzi e terracotte, monete, medaglie e molto altro. La sua raccolta, di cui aveva redatto un primo catalogo, divenne famosa in tutta Europa e lui stesso un personaggio molto in vista, benvoluto dal papa e divenuto marchese di Cavelli, per volontà di Ferdinando II di Napoli. Era un privilegio poter visitare la collezione, aperta nel suo palazzo presso piazza del Popolo un giorno solo alla settimana e solo dietro una lettera di presentazione. Tuttavia, per comprare tanta bellezza, Campana si rovinò: attingeva a piene mani dalle risorse del Monte di Pietà, e, nel 1854, per difficoltà finanziarie dovette impegnare la collezione di gioielli. Tre anni dopo fu accusato di malversazione, peculato e abuso d’ufficio, fu condannato a venti anni di carcere e poi all’esilio. La raccolta fu sequestrata dallo Stato Pontificio, affidata alla casa dell’antiquario Castellani che ne preparò il catalogo, e fu messa in vendita: Russia e Inghilterra acquisirono del lotti, ma la maggior parte fu acquistata da Napoleone III per il Museo del Louvre, dove è esposta dal 1863.

tesori che avessero un notevole valore commerciale: il fatto che tali oggetti fossero privati del loro valore storico e archeologico, decontestualizzati e spesso mancanti anche della provenienza, non aveva molta importanza ai loro occhi, e anche se alcuni scavatori avevano cura di redigere elenchi e cataloghi degli oggetti rinvenuti, e talvolta anche di registrare informazioni sul luogo di rinvenimento, il tipo di inumazione e il sistema di scavo, le notizie sul ritrovamento erano sempre assai scarse. Il saccheggio del patrimo-


mostre CORTONA Late La L at a ate t rin rina ina na n a

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nio archeologico continuò fino al 1860, quando la Toscana fu annessa al Regno d’Italia; ma anche dopo quella data la ricerca era spesso affidata all’iniziativa privata, e le leggi di tutela non furono veramente attive fino alla decisione dell’Amministrazione Generale delle Antichità, al tempo di Giuseppe Fiorelli e di Felice Barnabei, di stabilire la competenza esclusiva dello Stato sugli scavi e sui reperti rinvenuti. Un provvedimento che, tuttavia, non ha messo fine alla ricerca e alla vendita clandestina,

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In alto: l’area tosco tosco-laziale, con l’ubicazione di Cortona. A sinistra: pisside (scatola per unguenti) in avorio con decorazione a rilievo di animali fantastici, dalla necropoli di Fonte Rotella, Chiusi. Fine del VII-inizio del VI sec. a.C. A destra: askos (attingitoio) a figure rosse a forma di anatra, attribuito al Pittore di Montediano. 320 a.C. circa.

UNA LEGGE PER OGNI STATO Il territorio etrusco che si sviluppa lungo la riva destra del Tevere apparteneva al granducato di Toscana a nord e allo Stato della Chiesa a sud, fino alle porte di Roma. La legislatura sugli scavi e i monumenti antichi era diversa da Stato a Stato. Nel granducato la legge in proposito, promulgata dal granduca Pietro Leopoldo nel 1780, non prevedeva l’autorizzazione preventiva per gli scavi, ed era possibile vendere ed esportare il materiale estratto se il direttore delle Gallerie Fiorentine, che ne aveva la prelazione, ne rifiutava l’acquisto. Il territorio, ricchissimo di necropoli, comprendeva siti etruschi

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come Perugia, Orvieto, Chiusi, Bolsena, Civita Castellana. Lo Stato pontificio aveva una legislatura in apparenza piú severa, in quanto gli scavi realizzati dal governo pontificio andavano in parte ad arricchire il Museo Gregoriano Etrusco, creato nel 1836; tuttavia, anche qui la normativa era molto favorevole al commercio antiquario e in ambedue gli Stati non solo i responsabili degli scavi, ma anche i proprietari terrieri, i commercianti d’arte, gli antiquari e gli stessi amministratori si dedicavano alla vendita e allo scambio


come dimostra anche la cronaca recente.Il prestito del Louvre per la mostra di Cortona comprende quaranta oggetti di alto pregio che provengono da un territorio che va da Chiusi a Cortona, a Fiesole, a Perugia a Civita Castellana.

La sposa di terracotta E appunto a questa città è stato attribuito, grazie a un disegno conservato nell’Archivio di Stato, il magnifico busto di donna, un capolavoro della coroplastica etrusca del IV-III secolo a.C. che raffigura Arianna, Qui accanto: kouros in bronzo, dal deposito scoperto sul monte Falterona. Secondo quarto del V sec. a.C.

A destra: la facciata di Palazzo Casali, sede del MAEC, Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona.

di oggetti e di favori per incrementare un mercato divenuto fiorente e attivo in tutte le città, con una nascita continua di ricche collezioni private. Basta citare a Chiusi le collezioni Camuccini e Paolozzi, il Museo Guadagni a Firenze, a Cortona quella del marchese Venuti; dovunque fiorivano le antichità private di canonici, borghesi, proprietari terrieri intenti a perforare come talpe i loro possedimenti, come il principe di Canino Luciano Bonaparte, che scavò per anni a Musignano, nella proprietà presso Vulci donatagli dal papa.

la sposa di Dioniso: la terracotta fu scoperta nel 1829 a Falerii Novi, tra le rovine di un piccolo edificio vicino al teatro, e fu citata nel Bullettino dell’Instituto di Corrispondenza Archeologica. Importanti sono anche i quattro bronzetti del V-IV secolo a.C. raffiguranti due kouroi, una kore e un efebo, rinvenuti in un deposito votivo del monte Falterona, nell’Etruria settentrionale: scoperto per caso nel 1838, il deposito restituí oltre 200 statuette e molti altri frammenti in bronzo. Le Gallerie Granducali non vollero acquistare l’insieme dei materiali, che fu messo in vendita e smembrato, ricomparendo in musei e collezioni di vari Paesi europei. Altri oggetti interessanti sono una pisside in avorio dalla necropoli di Fonte Rotella presso Chiusi e un canopo chiusino, un monumento funerario in pietra, un attingitoio (askos) a figure rosse da Bomarzo, un pregevole vaso in bronzo in forma di testa femminile del III-II secolo. Dei numerosi gioielli appartenuti a Campana e ora esposti al Louvre, solo due sono arrivati a Cortona, ma sono esempi sufficienti a mostrare la splendida tecnica degli orafi etruschi: due orecchini a pendente di elaborata fattura e una catena con ciondolo a forma di testa di Acheloo. DOVE E QUANDO «Le collezioni del Louvre a Cortona. Gli Etruschi dall’Arno al Tevere» Cortona, Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona, Palazzo Casali fino al 3 luglio Orario tutti i giorni, 10,00-19,00 Info tel. 0575 637235; e-mail: info@cortonamaec.org, www.cortonamaec.org Catalogo Skira a r c h e o 83


scavi ALIFE

La storia in galleria Costruito in epoca augustea come ambiente di servizio per l’edificio soprastante, il grande criptoportico rinvenuto al centro di Alife fu riutilizzato nel corso dei secoli come discarica per lo smaltimento dei rifiuti. Oggi, liberato dalle millenarie colmate di detriti e di fango, restituisce la lunga storia della città campana e del suo territorio, attraverso centinaia di reperti ceramici e frammenti architettonici

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N

ella primavera del 2007 ad Alife, un piccolo centro ai piedi delle montagne del Matese, nella parte piú interna della provincia di Caserta, prendeva il via un’avventura archeologica appassionante che, indirizzata al recupero di un importante monumento di età romana, il Criptoportico, dimostrava che la struttura era stata utilizzata per secoli come discarica dagli abitanti della città. Un recupero archeologico della «monnezza», dunque, che da problema colossale, in Campania, per una volta si trasforma in grande opportunità per conoscere ciò che siamo stati, attraverso lo studio di ciò che abbiamo utilizzato e, alla fine, scartato. Il Criptoportico di Alife è una grande struttura ipogea costruita in età augustea: è stato costruito a formare una «U», dai cui estremi si dipartono due bracci identici. Alla fine dei due bracci corti si dipartono due stretti cunicoli, esplorati solo in parte, che probabilmente costituivano gli accessi originali. Sia il braccio principale, sia quelli secondari sono divisi in due navate, poste in comunicazione fra loro da

archi poggianti su pilastri in mattoni a base quadrata. Il Criptoportico fu realizzato per funzionare come soccorpo di una sontuosa residenza privata o, forse, di un edificio pubblico soprastante.

Rifiuti, cocci e... ostriche Mentre dell’edificio esistente in superficie quasi nulla si è potuto riportare alla luce, poiché l’area che esso occupava è oggi invasa da edifici moderni, la struttura sotterranea è invece rimasta miracolosamente intatta. Lo scavo si è rivelato sin dall’inizio irto di difficoltà tecniche e logistiche, ma anche enormemente promettente per la quantità di reperti che le stratigrafie accumulatesi nei secoli (dal II secolo d.C. sino ai giorni nostri) hanno da subito iniziato a restituire. In effetti, il monumento fu utilizzato solo per un breve periodo nella funzione originaria per la quale era stato edificato, e cioè come ambiente di servizio per l’edificio soprastante. A questa fase iniziale dell’esistenza della struttura risalgono alcune curiose testimonianze della vita quotidiana di Alife.

Criptoportico di Alife, Caserta. Nella pagina accanto: una delle navate interne della struttura ipogea, interessata, a partire dalla seconda metà del II sec. d.C., dallo scarico di materiali di risulta costituiti da elementi architettonici e oggetti d’uso comune (particolare in alto). L’ambiente era stato realizzato in età augustea come corridoio di servizio a uso di un grande edificio soprastante.

Sull’intonaco ancora fresco di uno dei pilastri che dividono le navate, due persone – probabilmente due schiavi – tracciarono una scritta in ricordo di un’allegra bevuta di vino amineo, proveniente dai colli alle spalle di Alife. E su un pilastro attiguo, apparentemente sempre gli stessi personaggi ricordarono invece le qualità amatorie di una certa Elena. Poco distante, sotto una delle finestre che permettevano alla luce del sole di filtrare all’interno del criptoportico, è stato trovato lo scarico di decine di gusci di ostriche, che evidentemente ad Alife si riusciva a consumare fresche, forse recapitate in città dagli allevamenti dei golfi di Napoli e Pozzuoli. a r c h e o 85


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In basso: foto aerea della città di Alife, il cui assetto urbanistico moderno ricalca la suddivisione degli spazi definita in età antica.

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A sinistra: carta del territorio di Alife, in provincia di Caserta. La città, di origine sannitica, sorge sul luogo della colonia romana di Alliphae.

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Già nella seconda metà del II secolo d.C., una delle navate interne fu interessata da un poderoso scarico di materiali di risulta, costituiti da elementi architettonici e da grandi quantità di oggetti d’uso quotidiano, quali vasellame in ceramica e vetro e anfore.

Accumulo e abbandono Dopo il livellamento di queste macerie e la creazione di un nuovo piano di calpestio in terra battuta, il monumento conobbe un’ulteriore fase di utilizzo, fra il III e il V secolo d.C., in corrispondenza di un momento in cui Alife è ancora un vivace polo di aggregazione della vita economica e sociale del territorio circostante. È stato particolarmente interessante rilevare che, in questo periodo, ad Alife affluivano ancora beni d’importazione, come ceramiche da mensa di produzione nordafricana e orientale. In un momento non meglio precisabile, ma che possiamo collocare fra la seconda metà del VI e il VII secolo, gli ambienti del Criptoportico sono invasi da uno spesso strato di fango, su cui si deposita poi un consistente accumulo di macerie edilizie, in cui spiccano cospicue quantità di frammenti di intonaco dipinto, originariamente pertinenti al soffitto decorato forse di una domus urbana. Questi due eventi costituiscono la prova indiretta del collasso strutturale e funzionale del86 a r c h e o

la città antica, e del radicale cambiamento delle condizioni di vita che la caratterizzavano. La colata di fango, infatti, è il segno, oltre che dell’ abbandono definitivo del Criptoportico, anche, ormai, dell’incapacità della comunità alifana di gestire, dal punto di vista logistico, le emergenze derivanti dalle periodiche esondazioni dei

corsi d’acqua che discendevano dal Matese. Gli accumuli di macerie, a loro volta, sono il risultato del concomitante processo di abbandono (e di conseguente fatiscenza) degli edifici in muratura che caratterizzavano il paesaggio urbano dell’Alife classica e tardoantica, e della loro intenzionale demolizione da parte degli abitanti superstiti della città,


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Planimetria di Alife e localizzazione del criptoportico, nella zona che corrisponde all’attuale «Quarto di Castello». Si nota lo schema urbanistico a pianta regolare dell’impianto romano, con le strade che, ancora oggi, rivelano l’antico percorso di cardini e decumani.

per ricavare spazi da destinare alle attività agricole o per realizzare costruzioni piú semplici, spesso edificate con materiali deperibili, quali legno, frasche e terra cruda. La profonda modificazione del paesaggio urbano delle città italiane, con l’abbandono dell’architettura di pietra e mattoni, caratteristica dell’età antica, è il frutto dell’ado-

LEGENDA mura di cinta della città

area del foro

area del castello

torri visibili

incrocio tra cardo e decumano

torri non visibili

zione di un’architettura realizzata in materiali piú «leggeri» e che, soprattutto, chiunque poteva procurarsi in proprio, senza dipendere da una catena di produzione, lavorazione e distribuzione dei componenti dell’edilizia che, con il collasso economico, sociale e amministrativo dell’impero romano, doveva essere ormai venuta meno.

Questo processo, che raggiunge il suo culmine fra il VI e il VII secolo, «segna» il passaggio dall’antichità all’Alto Medioevo, ed è la spia – ad Alife come altrove – del determinarsi di condizioni socio-economiche assai difficili, nonché di un drammatico regresso demografico. Vaste aree abbandonate, interne alle cinte murarie urbane, divennea r c h e o 87


scavi ALIFE

ro cosí disponibili, per gli abitanti superstiti, per nuove destinazioni, prima fra tutte quella agricola, determinando cosí il fenomeno della «ruralizzazione» dello spazio urbano, che rimase caratteristico di molte città fiorite nell’antico orbis romanus sino oltre il tornante del secondo Millennio. Alife in questo senso non fece eccezione e le stratigrafie del Criptoportico mostrano un significativo iato fra l’VIII e il X secolo, che si può agevolmente interpretare come il segno della scarsa frequentazione di quella parte dell’area urbana ove il Criptoportico è collocato, oggi nota come «Quarto di Castello». Il concomitante processo di accumulo di crolli non rimossi di edifici caduti in disuso, il periodico verificarsi di alluvioni di cui era impossibile rimuovere i detriti e l’intenzionale conversione di spazi edificati in aree rurali è alla base del fenomeno, osservabile un po’ ovunque nella città di Alife, dell’innalzamento progressivo, durante l’Alto Medioevo, dei livelli stradali e, piú in generale, dei livelli di frequentazione delle aree urbane. Ciò non significa che la città fosse in abbandono. Innanzitutto esistono, dalla metà dell’VIII secolo, documenti che attestano la presenza di 88 a r c h e o

persone abitanti in città e di nuovi insediamenti monastici sorti nel suo suburbio. Ma a ciò si deve aggiungere che, in seguito a scavi archeologici di emergenza condotti in piú punti dell’area urbana, sono stati ritroti materiali ceramici databili al periodo in cui le stratigrafie del Criptoportico appaiono «silenti».

L’insediamento «a isole» Assolutamente chiara è, invece, la vicenda evolutiva dell’uso dell’Anfiteatro romano, indagato dalla Soprintendenza contestualmente al Criptoportico, che ha mostrato come, nelle rovine del monumento, fra il VII e il IX secolo si fossero insediate abitazioni e piccole strutture produttive. Quello che dobbiamo immaginare, perciò, è un insediamento urbano non piú compatto, ma organizzato «a isole», intervallate da ampi spazi agricoli o, semplicemente, da rovine e aree inutilizzate, con un abitato costituito, perlopiú, da capanne in legno ed edifici costruiti con materiale di risulta, recuperato dalle numerose fabbriche antiche, ormai in disuso. È da ricordare, a questo proposito che, allo stato attuale, resta un’incognita assoluta l’articolazione della topografia cristiana della città tra la fine dell’antichità e l’Alto Medioe-

vo. È ancora incerta la localizzazione della primitiva cattedrale, che la tradizione erudita locale colloca in posizione diversa da quella in cui si trova quella attuale, edificata nel secondo quarto del XII secolo. E, con la cessazione della diocesi – presumibilmente alla fine del VI secolo – le uniche presenze cristiane di cui si ha notizia nell’Alto Medioevo sono costituite principalmente da insediamenti monastici dislocati al di fuori del perimetro urbano. Il ripristino della diocesi alla fine del X secolo, a cui si collega temporalmente anche la nascita di una contea ormai semi-indipendente dai principi di Capua e di Benevento, sembra corrispondere all’avvio di una fase di ripresa demografica ed economica complessiva di Alife, o piuttosto essere l’effetto di un processo di rinascita materiale che potrebbe aver conosciuto già prima i suoi inizi. Nel Cr iptoportico, a partire dall’inizio dell’XI secolo, riprendono – facendosi progressivamente piú cospicui – gli scarichi di materiali di risulta, segno di un recupero di quest’area all’utilizzo abitativo e, forse, anche dell’inizio della sua destinazione a caposaldo della struttura difensiva cittadina, elemento che avrà una sua secolare continuità


A sinistra: deposito di materiali edilizi. Gli ambienti del criptoportico, tra la seconda metà del VI e il VII sec., risultano invasi da un consistente strato fangoso, su cui si deposita un grosso accumulo di macerie. Qui sotto: frammento di maiolica decorata, databile al XIII sec., proveniente dal criptoportico. Tra il XIII e il XIV sec. gli ambienti della struttura furono probabilmente adibiti a immondezzaio del vicino castello. Nella pagina accanto: archeologi al lavoro all’interno del criptoportico.

di Roma, vuole fare dei suoi spazi il contenitore per un museo insolito, dedicato agli scarti della nostra vita quotidiana: oggetti e materiali che, come ci ricorda il sociologo Zygmunt Bauman, raccontano di noi spesso molto piú delle parole e delle immagini che costruiamo volontariamente per rappresentarci. Un’idea positiva della «monnezza», insomma, che da un piccolo centro della Campania vuole ricordare a tutti che i rifiuti non sono solo un qualcosa che cerchiamo di dimenticare, ma sono lo specchio della nostra civiltà, con cui saper fare saggiamente i conti giorno dopo giorno.

Il recupero del Criptoportico è avvenuto nell’ambito di un piú vasto programma di valorizzazione del patrimonio archeologico di Alife. Un programma con la formazione del nucleo promosso dal Comune, di concerto fortificato del castello bassocon la Soprintendenza per i Beni medievale. Archeologici delle province di SaCon il XII secolo, l’orizzonte lerno,Avellino, Benevento e Caserta delle produzioni ceramiche e con il sostegno dei fondi regionali recuperate dalle stratigrafie del programma POR Campania. del Criptoportico mostra Allo scavo del Criptoportico ha la ricomparsa di prodotti contribuito direttamente anche di origine non esclusival’Università Suor Orsola Bemente locale, come invece nincasa di Napoli, che ha curato era accaduto durante tutto il coordinamento scientifico degli l’Alto Medioevo. Sono stati scavi, sotto la direzione della recuperati, infatti, materiaSoprintendenza. E chi scrive li di provenienza abruzzese, desidera inoltre ringraziare tutmolisana e di altre aree delti coloro che hanno reso possibile il la Campania, inclusa la stesrecupero: gli ex sindaci del Comune di sa Napoli. La ricchezza della Alife Roberto Vitelli e Fernando Iancultura materiale si accresce nei nelli; Alessandro Parisi, già assessore secoli successivi, il XIII e il XIV e si potrebbe pensare che gli spazi Rainulfo III Drengot, arrivò perfi- alla cultura del Comune di Alife; Madell’antico monumento romano no a sfidare con successo, per diversi ria Luisa Nava, soprintendente BA di Salerno, Avellino, Benevento e Caserta; abbiano potuto costituire l’immon- anni, il re Ruggero II d’Altavilla. Mario Pagano, già soprintendente BA dezzaio del vicino castello che, andi Caserta e Benevento; Enrico Stanco, che al tempo degli Angioini, ha Da discarica a museo conservato un’importante funzione L’esplorazione del Criptoportico si direttore dell’Ufficio Scavi di Alife della militare e amministrativa. è conclusa in tempi rapidi, grazie a Soprintendenza BA di Salerno, AvelIl castello oggi si presenta come un’ottima collaborazione fra Co- lino, Benevento e Caserta; Donatina una struttura databile al XIII se- mune, Soprintendenza, Università Olivieri, archeologa coordinatrice delle colo, ma è certo che – se esplorato e le imprese che hanno gestito il indagini archeologiche, con il supporto – potrà rivelare una storia assai piú cantiere. Il futuro del monumen- di Alessia Frisetti, Raffaella Martino, complessa e interessante, di cui una to – che il Comune ha da subito Ilaria Ebreo, Roberto Vedovelli, Luigi tappa fondamentale potrebbe essere reso accessibile al pubblico – però Di Cosmo, Graziana Santoro, Daniele costituita dal periodo normanno, attende nuove sfide. Il Comune, Ferraiuolo e Pasquale Salamida; le ditte quando Alife divenne una potente sulla base di un progetto predispo- Cogeme e Termotetti, che hanno operato contea che, sotto la guida del conte sto dagli architetti dello «Studio n!» sul cantiere. a r c h e o 89


storia MISTERI D’ETRURIA/1

C’è una piramide nel bosco... di Paola Di Silvio

Nascosto nel fitto della vegetazione, a Bomarzo, in un territorio costellato da presenze di epoca etrusca, sorge un imponente altare piramidale a gradoni scavato nella roccia. Un monumento misterioso, ma non unico, nel cuore della Tuscia

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a civiltà etrusca esercita un fascino irresistibile e molti continuano a volerla circondata dal mistero.A questa visione fantastica hanno contribuito non poco i letterati «romantici», che hanno tradotto le emozioni provate nello scoprire i «tesori» della Maremma, a partire dall’inizio del XIX secolo. Comincia allora il romanzo d’Etruria: il fantasticare sui suoi paesaggi, sulle sue rovine, sulle sue memorie e sui suoi tanti… «misteri». E quanto piú l’archeologia ha cercato di diradare le nubi intorno a questa antica civiltà, tanto piú l’opinione comune si è ostinata nell’incredulità, rimanendo fedele ai propri convincimenti, quasi che una certezza, una «verità» assoluta, potesse mortificare il fascino dell’enigma. In realtà la fisionomia del popolo etrusco ci appare ormai sufficientemente ben delineata nel quadro delle civiltà dell’Italia antica, tra l’esperienza dei Greci e quella dei Romani, con i suoi legami con le altre culture del Mediterraneo e i suoi tratti originali. Per gli etruscologi, il «mistero» è solo un problema irrisolto, una questione aperta, e in questa accezione il termine viene riabilitato e inserito nel titolo di questa nuova serie che propone in una visione scientifica, ma non per questo meno avvincente, testimonianze controverse della terra d’Etruria. 90 a r c h e o

«Voi che pel mondo gite errando vaghi / di veder meraviglie alte e stupende / venite qua»...: cosí recita uno degli enigmatici messaggi che, incisi sulla pietra, accompagnano il visitatore nel celebre e stravagante «Parco dei Mostri» (vedi box a p. 96), costruito nella valle sottostante l’attuale abitato di Bomarzo, per volontà del principe Pier Francesco Orsini, detto Vicino, originale ed eclettico personaggio del Rinascimento italiano. Bomarzo, un tempo appartato centro dell’estrema zona orientale del Viterbese, oggi al centro di un nodo stradale di importanza nazionale – l’Autostrada del Sole –, si estende su uno degli ultimi speroni di roccia vulcanica (peperino) protesi verso la valle del Tevere, originati dalle colate laviche dell’apparato cimino.

La città di Marte Il nome attuale, Bomarzo, evoca il dio romano della guerra e deriva da quello latino di Polimartium, la città di Marte appunto, che sembrerebbe accreditare un sempre sostenuto, ma mai documentato, diffuso culto di questa divinità nel territorio. Al tempo degli Etruschi l’abitato piú importante della zona sorgeva pro-

babilmente sul colle di Pianmiano, che si eleva poco piú a nord di Bomarzo, proprio di fronte al Tevere, fondato secondo la leggenda da Tirreno, il re dei Meoni. Sul finire del Quattrocento il frate domenicano Annio da Viterbo, autore di «fantasiose» teorie che influenzarono molti eruditi del passato, interpretando secolari leggende, localizzò per primo con estrema precisione nel planum Meonianum (Pianmiano) il sito della città antica. Tale indicazione, oggi non piú unanimemente sostenuta, sembrò trovare conferma nelle indagini archeologiche e nei ritrovamenti effettuati nella prima metà dell’Ottocento, quando, nelle immediate vicinanze del pianoro, tornarono alla luce vasti settori di una necropoli etrusca, i cui corredi attestano una frequentazione compresa tra il VI secolo a.C. e l’età imperiale. L’abitato era probabilmente nato con funzioni di controllo sulle vie commerciali che, dall’Etruria marittima, penetravano, attraverso la valle del Tevere e dei suoi affluenti, nella parte centrale della Penisola. I gentilizi attestati nelle necropoli di Pianmiano, ma, soprattutto, l’abbondante materiale dei corredi, do-



storia MISTERI D’ETRURIA/1 In basso: Salvatore Fosci, il volontario, originario di Bomarzo, che, tra il 2008 e il 2009, ha «riscoperto» la Piramide di Bomarzo. Nella pagina accanto: la tagliata etrusca che conduce alla Piramide e, nel riquadro, l’iscrizione latina, incisa sul lato nord della roccia, che ricorda il nome dei fratelli Domitii, proprietari della strada nel I sec. d.C.

cumentano continui rapporti con Velzna (Orvieto), sotto la cui giurisdizione cadeva l’intera area, e con i centri di Perugia e Chiusi. Non meno intensi erano gli scambi con le città a valle del Tevere e in particolare con Falerii Veteres (Civita Castellana). Lo sviluppo del centro etrusco continuò interrotto fino all’epoca della penetrazione romana. Nel 283 a.C., presso il lago di Vadimone (oggi ridotto a uno stagno di acqua sulfurea, nelle vicinanze di Mugnano, frazione di Bomarzo), si combatté una battaglia decisiva tra Romani ed Etruschi, alleati

con i Galli Boi, che segnò fatalmente l’inclusione di Pianmiano e del suo comprensorio nella sfera di influenza romana.

Le ville rustiche in rovina È facile supporre, dai resti risalenti all’età romana, che in età imperiale il territorio andasse progressivamente caratterizzandosi come agglomerato di comunità rurali. Le ripetute lotte che si svolsero in seguito alle calate barbariche causarono, con ogni probabilità, la rovina delle numerose ville rustiche sparse nella zona, costringendo la popolazione a ritirarsi in un centro facilmente difendibile, quale è appunto l’odierno paese di Bomarzo, che già noto nel VII secolo con il nome di Polimartium, offriva, con il suo alto sperone di peperino, notevoli garanzie di sicurezza. Le testimonianze archeologiche di questo lungo e ininterrotto trascorso sono disseminate per tutto il comprensorio: i siti di Montecasoli,

Pianmiano, Pian della Colonna documentano l’esistenza di vari nuclei abitati etruschi, posti a breve distanza l’uno dall’altro e prossimi alla confluenza del torrente Vezza nel Tevere. Nelle immediate vicinanze – ma già territorio del limitrofo Comune di Soriano – si trova la Selva di Malano (vedi box alle pp. 9495), anch’essa costellata di presenze antiche, che, sebbene spesso nascoste dalla vegetazione, lasciano bene intendere che la «bizzarria» delle creazioni del Sacro Bosco di Vicino

Orsini non è altro che l’apogeo di un fenomeno che ha avuto numerosi e antichissimi precedenti. Tutto nasce dalle caratteristiche geologiche e fisiche di questi luoghi, che hanno offerto, nel corso dei secoli, spunti irresistibili. La vallata intorno a Bomarzo, infatti, è cosparsa di giganteschi e informi blocchi di peperino, a cui si è cercato, sin dalla preistoria, di attribuire un uso, economico, sociale o religioso, modellandoli in forme a volte inconsuete e di difficile lettura. Questi massi, diffusi su una vasta area, si sono originati perché i piani di argilla, su cui poggia un esiguo strato di roccia vulcanica, sottoposti ai margini a costante erosione, han92 a r c h e o


no iniziato inesorabilmente a disgregarsi, determinando la fessurazione della roccia sovrastante e il crollo a valle dei grandi blocchi. Ci si può cosí imbattere in monumenti interessanti e «misteriosi». È questo il caso del colossale monolito di peperino noto come la Piramide di Bomarzo, in località denominata Tacchiolo, singolare opera rupestre, di forma pressoché piramidale, frutto di una lavorazione lunga e accurata. Anche il percorso di avvicinamento al manufatto è ricco di incontri interessanti. Una profonda tagliata, usata nell’antichità come passaggio pedonale per scendere a valle, mostra, poco prima del suo termine, in

alto sul lato nord, un’epigrafe latina articolata su quattro righe, in cui si legge: Iter/privatorum/duorum/Domitiorum: l’iscrizione documenta che la strada era privata e apparteneva ai due fratelli Domitii. E le fonti letterarie ci tramandano i nomi di Cneus Domitius Lucanus e Cneus Domitius Tellus, proprietari in zona di un’importante fornace di età imperiale per la produzione di materiale edilizio e di ceramica pesante, la cui attività, favorita dall’abbondanza di argilla affiorante, è documentata da numerosi bolli laterizi del periodo compreso tra il 59 d.C. e il 94 d.C. Poco distante dalla tagliata, tra altri monoliti franati dalla rupe, si rivela

la mole poderosa della cosiddetta «Piramide», un masso erratico di peperino, che, nel lato impostato a valle, raggiunge i 16 m di altezza.

Pali per una tettoia? La costruzione si articola su due piani, raccordati da scalinate. La prima scala parte dalla base del monumento e ne occupa il lato orientale. È formata da 26 gradini, interamente ricavati nella roccia, alcuni larghi 1 m, altri successivamente ampliati fino a raggiungere i 4 m. Salendo, sulla sinistra, si notano quattro fori, probabili alloggiamenti di pali per il sostegno di strutture lignee, forse riconducibili a semplici parapetti, o piú verosimilmente a una tettoia di a r c h e o 93


storia MISTERI D’ETRURIA/1 copertura di questo tratto centrale della scala. Per i primi gradini una protezione è invece assicurata da un masso rozzamente sagomato a volta. La scalata conduce a un primo piano scoperto. Sul lato di fondo di questo ambiente, al centro, e alla sua estremità occidentale, si innalzano altre due rampe, entrambe di nove gradini, che ascendono a un secon-

do livello: qui, nella roccia, sono stati ricavati un’area rettangolare, e, in corrispondenza del suo lato occidentale, un parapetto. Da rilevare, lungo il fianco occidentale della Piramide, un elaborato sistema di canalizzazione, messo in evidenza dai recenti interventi di ripulitura, oltre a nicchie, incassi, vaschette e tratti di gradoni, sparsi un po’ ovun-

que sulla superficie del monumento. Ai piedi del masso sono stati recuperati frammenti di tegole e ceramica, che documenterebbero una frequentazione del luogo almeno a partire dall’età ellenistica fino al periodo tardo-repubblicano. Ma a che cosa serviva questo originalissimo manufatto, che non sembra al momento avere confronti stringenti con altri contesti rupestri noti? Sono stati documentati in Etruria monumenti funerari, caratterizzati dalla sistemazione a gradini, datati in età repubblicana e concettualmente collegati agli altari gradinati di età arcaica di cui, nell’iconografia etrusca, esistono numerose attestazioni. Ma, in questo caso, mancano sia gli incassi per le urne cinerarie, sia le epigrafi funerarie destinate a tramandare il ricordo dei defunti.

L’Etruria degli altari Alcuni indizi potrebbero portare a identificare questa curiosa creazione come un altare rupestre di epoca etrusco-arcaica. L’altare, nel panora-

LA SELVA DI MALANO E IL «SASSO DEL PREDICATORE» A pochi chilometri da Bomarzo, ma già proprietà del Comune di Soriano nel Cimino, si estende la Selva di Malano. Anche qui l’uso di modellare i massi erratici di roccia vulcanica (peperino) con finalità diverse, è stata una pratica diffusa fin dalla preistoria, e ha lasciato l’impronta dell’opera umana in numerose testimonianze di epoca etrusca, romana e paleocristiana, che costituiscono un documento storico di eccezionale rilevanza ed esclusivo di questo selvaggio territorio. Nei pressi della Selva è possibile imbattersi nei pittoreschi ruderi del complesso medievale di San Nicolao, che domina la valle del Torrente Serraglio, di cui fanno parte le fondamenta di una piccola chiesa romanica, l’annesso cenobio, e l’imponente rudere di un edificio fortificato, forse una piccola abbazia benedettina, collocato sulla sommità, opportunamente spianata, di un enorme macigno roccioso, sul cui lato orientale furono ricavate tre tombe in epoca romana. La Selva di Malano, i cui interessanti e originali resti archeologici sono tuttora scarsamente noti, vanta due primati: la massima concentrazione di are rupestri del periodo etrusco-romano e la piú alta testimonianza di monumenti epigrafici latini rupestri. I blocchi di peperino sono stati utilizzati per ricavarne

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tombe antropomorfe, are, monumenti funerari romani, con iscrizioni latine e fossette cinerarie, tombe a camera di vario tipo ed epoca, sarcofagi e pestarole. Dalle utilizzazioni di piú agevole lettura si discostano due blocchi di roccia vulcanica a cui, per la somiglianza con i pulpiti cristiani, la tradizione popolare ha imposto il nome di «sassi del Predicatore». Il primo è un masso ovoidale, al cui centro dieci gradini consentono di accedere alla sommità, parzialmente spianata, dove sono riconoscibili i resti di tre presunte are. Ancora piú interessante è il secondo «sasso del Predicatore», un cubo monolitico, artificialmente tagliato, sovrapposto a una cornice modanata e a una base aggettante a guisa di ballatoio. Sul suo lato sinistro poggia una scaletta che conduce a un ampio ripiano, fornito di basso parapetto, creato a risparmio nella roccia. L’elemento di maggiore suggestione è rappresentato da una croce incisa sul ripiano, interpretata come croce di orientamento, indicante le direzioni NO-SE e NE-SO, ideale congiunzione dei quattro punti cardinali che, secondo l’etrusca disciplina, originavano i quadranti riproducenti schematicamente la volta celeste. Lo spazio cosí diviso e consacrato doveva rappresentare il templum etrusco, il luogo in cui


ma dell’architettura sacra etrusca, è forse la categoria che meglio rispecchia il carattere cerimoniale di quella civiltà. La vitalità dell’arte etrusca li realizzò in una pluralità di forme, con ampia diffusione topografica, fondendo tratti autoctoni ad altri recepiti dall’esterno. Con riferimento agli aspetti funzionali si distinguono quattro tipologie di altari etruschi: dedicati al culto dei morti; relativi a divinità infere e terrene (ctonie); legati alla sacralità e terapeuticità delle acque; e, infine, tributati a figure eroiche, spesso mitici fondatori di città. Una categoria di altari rupestri, attinenti al mondo funerario etrusco, anche se non sempre individuati nell’ambito di una necropoli, sono i cosiddetti «altari a gradini», in cui la scala, presente su piú lati, è parte integrante dell’altare stesso, con funzione decorativa oltre che pratica. Si presentano generalmente con tre lati verticali e uno dotato di gradinata, per consentire l’accesso al piano superiore. La singolare Piramide di Bomarzo si discosta da

questo modello per la concezione piú monumentale e complessa e per il diverso orientamento delle scale – ricavate a nord-est – mentre negli «altari a gradini» sono sempre impostate sul lato sud-orientale, un dato di non secondaria importanza, che implica per il sacrificante lo sguardo rivolto a nord-ovest, la regione abitata, secondo gli Etruschi, dalle divinità infernali, e quindi un sacrificio-offerta per il mondo dei morti. Nel caso della Piramide sarebbe stato impossibile realizzare la

era possibile divinare il futuro (auguraculum). Al centro dello spazio sacro prendeva posto l’àugure, il sacerdote preposto al rituale dell’auspicio, la pratica divinatoria dedita all’interpretazione del volere degli dèi attraverso l’osservazione dei segni celesti. Il termine «auspicio» deriva da avis (uccello) e spicére (osservare), e indica una delle piú diffuse pratiche dell’ars divinatoria etrusca, che consisteva nel suddividere lo spazio celeste in sedici parti, corrispondenti alle sedi delle diverse divinità, e nell’osservare il volo degli uccelli. Dal tipo e numero di uccelli, e dalla direzione da cui provenivano, l’àugure deduceva a quale divinità si riferiva il messaggio e se era favorevole o meno. Ma quella dell’auguraculum etrusco è solo un’ipotesi interpretativa e il «sasso del Predicatore» è un’altra piccola sfida per l’archeologia.

Il primo «sasso del Predicatore» (qui sopra) e il secondo (in alto) in località Selva di Malano. Nella pagina accanto: la croce di orientamento incisa sul secondo sasso.

scalata di accesso sul versante sudorientale, a strapiombo sulla vallata, ma il parapetto, ricavato a risparmio sulla sua sommità, e non a caso rivolto a nord-ovest, potrebbe rappresentare la base destinata alle pratiche cultuali. Un altro tratto distintivo «essenziale» degli altari funerari «a gradini», è la presenza di canali di scolo, destinati a convogliare e raccogliere i liquidi sacrificali, ampiamente attestata sulla superficie della Piramide. Altari simili vengono generalmente fatti risalire al VI secolo a.C. Se la datazione ipotizzata per un frammento di dolium (giara), ritrovato alla base del masso, risultasse corretta, si potrebbe avere conferma di una prima frequentazione del sito, e di un culto qui praticato, già in età arcaica. Ma non si può accettarne come esclusiva la valenza funeraria.

Il culto delle acque Altre suggestive proposte interpretative sono suggerite dalla presenza, nelle immediate vicinanze del monolito, della sorgente del Fosso Tacchiolo. Nel mondo etrusco i culti legati alla presenza delle acque erano molto diffusi. La credenza nelle proprietà terapeutiche dell’acqua, e la convinzione che dietro la sua abbondanza si celasse una qualche manifestazione divina, costituivano un aspetto rilevante della religione etrusca, perpetuatosi nel mondo romano. Scriveva, infatti, Seneca (Lettere a Lucilio, IV, 41, 3): «Noi veneriamo le sorgenti dei fiumi; vengono innalzati altari là dove a r c h e o 95


storia MISTERI D’ETRURIA/1 A sinistra: la Piramide di Bomarzo, alta 16 m circa, presenta due piani collegati attraverso rampe di scale scavate nella roccia. Ventisei gradini conducono al primo livello della costruzione, da cui partono altre due rampe, di nove gradini ciascuna, che portano al livello superiore.

IL PARCO DEI MOSTRI E LA CASETTA PENDENTE Il Sacro Bosco di Bomarzo, o Parco dei Mostri, fu ideato, a partire dal 1552, dal grande architetto Pirro Ligorio, su commissione del principe Vicino Orsini. Nella valle sottostante l’abitato di Bomarzo, si trovava una sorta di anfiteatro naturale, disseminato di blocchi di peperino, di varie forme e dimensioni. Il principe fece scolpire questi blocchi nel luogo in cui si trovavano, ricavando da ognuno di essi strane e misteriose sculture, intorno a cui costruí terrazze, piazzole, scalinate e fontane. Ovunque nel parco si trovano iscrizioni, spesso a carattere gnomico e oscuro, oltre a sedili di pietra ideati per consentire la meditazione. Una delle «invenzioni» piú incredibili e bizzarre è la famosa Casetta Pendente, tutta inclinata su un fianco. Lo storico dell’arte tedesco Horst Bredekamp suggerisce una spiegazione molto sofisticata dell’edificio: chiunque abbia fatto un giro all’interno, sia salito al primo e secondo piano, si sia soffermato nelle stanze malridotte e poi sia tornato al mondo esterno, barcollando davanti alla realtà del filo a piombo, sarà piú propenso ad accettare le meraviglie che seguono, come qualcosa di simmetrico e proporzionato nel loro significato. Bredekamp, per chiarire il suo concetto, ricorre all’immagine della chiusa su un canale: la casetta di Bomarzo sarebbe una chiusa tra il bacino della realtà e quello del sogno. Dopo la morte di Vicino Orsini nessuno si curò piú di questo gioiello dell’arte rinascimentale che, dopo secoli di abbandono, è stato restaurato e reso di nuovo disponibile al pubblico. Dove e quando il Parco è aperto tutti i giorni dell’anno, con orario continuato: dalle 8,30 alle 19,00 (01/04-31/10) e dalle 8,30 al tramonto (01/11-31/03); info: tel./fax 0761 924029; e-mail: info@parcodeimostri.com

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d’improvviso scaturisce dal sottosuolo una copiosa corrente; onoriamo le fonti di acque termali, e il colore opaco e la smisurata profondità hanno reso sacri certi luoghi». In Etruria molti luoghi in cui scaturivano sorgenti vennero dotati di apprestamenti cultuali, in cui poter praticare i riti e depositare le offerte. Le divinità del pantheon etrusco che presiedevano a questo particolare aspetto del sacro erano Aplu, corrispondente di Apollo, MenervaMinerva, Hercle-Eracle e soprattutto Vei, identificata con Demetra. La pratica rituale piú comune doveva essere la libagione, perché nei depositi associati a questo tipo di culto è sempre massiccia la presenza di forme vascolari di tipo aperto, per attingere e versare liquidi. Un altare, un luogo in cui la devozione dei fedeli si concretizzava in liturgia, di forma piramidale, per assecondare la sagoma del macigno di pietra che la natura aveva loro messo a disposizione: questo probabilmente gli antichi frequentatori della valle di Bomarzo vollero realizzare, modellando il gigantesco e ascendente masso. Piú difficile stabilirne l’esatta cronologia e l’ambito di riferimento, se funerario o santuariale. La questione, per ora, rimane aperta.



Il mestiere dell’archeologo La Gerusalemme contesa/1

Salomone o Solimano? L’archeologia nella Città Santa è malata di ideologia, politica e religiosa. Lo denunciano gli stessi archeologi israeliani, stretti nella morsa degli opposti fondamentalismi

di Daniele Manacorda

l conflitto israelo-palestinese è una delle tragedie del nostro Itempo. In essa operano

drammaticamente i sentimenti di identità e di appartenenza e l’archeologia (anzi, la sua strumentalizzazione) gioca un ruolo di primo piano. Infatti una parte significativa del contenzioso tra Paesi arabi e Israele passa ancora oggi, e sempre di piú, attraverso le interpretazioni dei siti archeologici e delle culture arcaiche presenti in Palestina duemila o tremila anni fa. In particolare a Gerusalemme (vedi «Archeo» n. 311, gennaio 2011), i problemi sollevati dalle ricerche archeologiche si mescolano a quelli derivanti dalla progressiva occupazione da parte dei coloni israeliani delle terre abitate dai Palestinesi. Oggi come tremila anni fa? Le argomentazioni addotte per giustificare l’espansione dei quartieri ebraici sono queste: «Il popolo ebraico – ha dichiarato l’attuale premier israeliano Netanyahu – costruiva a Gerusalemme tremila anni fa e il popolo ebraico costruisce a Gerusalemme oggi». Ma non tutti la pensano cosí. Secondo Menachem Klein, professore di scienze politiche all’Università Bar-Ilan, i coloni israeliani si sono spostati all’interno dei quartieri palestinesi con il proposito di prevenire la divisione della città secondo il parametro fissato a suo tempo dal presidente Clinton, in cui si stabiliva che «le aree arabe sono dei Palestinesi e quelle ebraiche sono israeliane». Il controllo del territorio passa anche attraverso la progettazione di parchi archeologici a tema biblico, che dovrebbero creare una cintura tra la Città Vecchia e i quartieri arabi. E in questo contesto si capisce come anche le campagne di

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scavo abbiano assunto un ruolo sempre piú delicato. Attraverso l’archeologia si afferma, infatti, quello che si chiama «uso pubblico del passato». Ma, indipendentemente dalle varie posizioni politiche in merito, il modello di archeologia prestato a questi obiettivi fa discutere, innanzitutto all’interno di Israele. Raphael Greenberg, archeologo dell’Università di Tel Aviv, scrive: «La maggior parte delle ricerche archeologiche a Gerusalemme è oggi soggetta alle pressioni di gruppi politicamente interessati, che hanno come scopo di “provare” i nostri diritti storici nella città oppure di sgombrare un’area per costruirvi sopra. Il risultato è una fast archaeology, che soddisfa la fame del consumatore, ma danneggia i beni che si trovano sotto la responsabilità israeliana. Molta dell’archeologia nel centro del “Bacino Sacro” di Gerusalemme è un’archeologia veloce, che ingoia piú di quanto sia in grado di digerire. Non è una fortuita coincidenza il fatto che i piú importanti istituti archeologici di questo Paese si stiano ben guardando dal prendere parte agli scavi di Gerusalemme. Questa archeologia, futile e brutale, è condizionata dai desideri di finanziatori che non sono studiosi, ma organizzazioni religiose, ideologizzate o turistiche».

A destra: l’archeologo israeliano Dan Bahat verifica eventuali danni strutturali al Muro del Pianto (Gerusalemme), il luogo piú sacro dell’ebraismo, testimonianza del Tempio distrutto dai Romani nel 70 d.C. Nella pagina accanto: Gerusalemme, Israele. Scavi nella «Città di David», situata in un quartiere arabo appena fuori le mura della Città Vecchia.

Una petizione contro l’ideologia E infatti un anno fa un gruppo di accademici di tutto il mondo ha firmato una petizione per chiedere al governo israeliano di porre fine a questa pericolosa politicizzazione dell’archeologia. Come stanno le cose? Non ho la competenza, né l’autorità per scandire verità opinabili. Lascio la parola a osservatori locali che vivono quel dramma direttamente da molti anni. Per quanto riguarda Gerusalemme, anni fa il presidente Clinton aveva proposto un accordo che riconosceva il controllo

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Nella pagina accanto: pianta della Città Vecchia di Gerusalemme, racchiusa dalla cinta muraria fatta costruire da Solimano il Magnifico nel XVI sec., e suddivisa in quattro quartieri: cristiano, ebraico, musulmano, e armeno. A sud della Spianata del Tempio (o della Moschea), si trova la Città di David. In basso: gli scavi archeologici israeliani sotto la piazza del Muro del Pianto, davanti al Monte del Tempio, al centro di Gerusalemme. L’apertura del tunnel sotterraneo, nel 1996, fu causa di tensioni e scontri violenti tra la componente araba e quella israeliana.

palestinese sopra i luoghi sacri della religione islamica, ma nel rispetto delle convinzioni del popolo ebraico. Quello che si intendeva dire – spiega lo storico israeliano Benny Morris – era che gli Ebrei avrebbero avuto sovranità sul Muro del Pianto e mantenuto una qualche forma di controllo sulle parti interne del Monte, che probabilmente contengono i resti del Primo e del Secondo Tempio, mentre agli Arabi sarebbe spettata la sovranità sull’area superficiale del Monte (Haram al-Sharif), nella quale si trovano le due sacre moschee. Ogni opera di scavo «al di sotto dell’Haram o dietro il Muro» avrebbe richiesto un «mutuo consenso».

Troppo semplice, verrebbe voglia di dire. Il fatto è che tutti i progetti che riguardano l’archeologia a Gerusalemme, soprattutto nel cosidetto ‘Bacino Sacro’, sono legati ai possibili usi geopolitici di quanto viene scavato e devono fare i conti con l’ostacolo rappresentato dalle pretese identitarionazionalistiche delle due parti. L’archeologia è, insomma, parte di una piú ampia partita sulla legittimità storica dei diritti relativi non solo ai siti sacri, ma alla città nel suo complesso. Parlare di archeologia a Gerusalemme – come osserva l’archeologo israeliano Dan Bahat – è come mettere le mani in una pentola bollente, dove tutti gli ingredienti – storia,


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Il «partito di Dio» È qui che si insinua il fanatismo, peraltro coerentemente bipartisan. Il direttore del Centro studi di Hezbollah, il «partito di Dio» libanese, ha recentemente dichiarato che «la Gerusalemme storica è dove si trovano i luoghi santi dei musulmani e dei cristiani». Per aggiungere: «Qualcuno potrebbe chiedersi se ci siano luoghi santi anche per gli Ebrei. Il tema è controverso – sostiene –, perché non ci sono testimonianze storiche di questa presenza, tanto che i sionisti devono ancora riuscire a dimostrare, per esempio, che il Tempio di Salomone sia davvero esistito». Dall’altra parte della barricata, sin dalla conquista militare del 1967, il Gran Rabbinato e l’Università ebraica si trovarono in contrasto circa gli scavi da effettuare attorno alla Spianata. L’ateneo decise di concentrarsi nell’area a sud del Muro, per mettere in luce gli strati del tempo di Erode e i resti della

Monte degli Ulivi

400 mt Porta di Erode

Quartiere musulmano Piscina di Betesda

Porta di Damasco

Porta del Leone (Porta di Santo Stefano)

Orto del Getsemani

Fortezza Antonia

Quartiere cristiano

a os lor Do Arco ElWa Via dell’Ecce d Homo a ros o l Do Via

Haram al-Sharif Fontana di Qaitbay Duomo della catena

d Wa El-

politica, religione, urbanistica e molto altro ancora – s’incontrano e scontrano continuamente. «L’Islam – scrive Bahat – ha su Gerusalemme indiscutibili diritti storici, che partono dalla conquista della città e del Paese in epoca relativamente tarda. Nessuno pensa di mettere in discussione questi fatti, oltretutto ben visibili e degni di ogni ammirazione. Invece il mondo islamico minimizza il legame del moderno Israele con i siti storici e religiosi di Gerusalemme. L’esistenza dei templi è negata, considerata pura invenzione. Qualsiasi tentativo di effettuare scavi archeologici nei nervi sensibili della zona incontra un’opposizione assoluta. Le organizzazioni islamiche fanno tutto il possibile per bloccare la ricerca storico-archeologica relativa ai siti sacri».

S

Porta Nuova Chiesa del Santo Sepolcro

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Cupola della Roccia

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Muro del Pianto

Quartiere ebraico

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Quartiere armeno

Valle di Kidron Porta del Letame

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Chiesa di San Giacomo

Fonte di Gihon

Città di David

Porta di Sion Chiesa della Dormizione Piscina di Siloe Cenacolo dell’Ultima Cena e Tomba di David

Valle di Hinnom

città del periodo del Primo Tempio. Il Rabbinato obiettò che, trattandosi di un luogo sacro, i lavori erano proibiti dalla legge religiosa. Ma lo stesso Rabbinato si accinse subito dopo a scavare quasi segretamente lungo il Muro, in direzione nord, con l’intenzione di riportarne alla luce nuove porzioni (in gran parte nascoste sotto il quartiere musulmano) e dare l’opportunità agli Ebrei ortodossi di avvicinarsi al Santo dei Santi senza commettere il sacrilegio di calpestarlo. La cosa si complica ancora quando il problema archeologico non riguarda solo il millennio di presenza ebraica a Gerusalemme (dal regno di Davide alla diaspora del 70 d.C.), ma le tracce di chi l’ha abitata nei duemila anni successivi, specie dopo la conquista araba. I lavori condotti dal Centro «Simon

Wiesenthal» per realizzare un «Museo della tolleranza» a Gerusalemme Ovest (quindi in Israele) subirono, per esempio, un lungo ritardo a seguito del ritrovamento di alcune ossa nel cimitero musulmano di Mamilla, risalenti ai tempi di Saladino. Da allora, il progetto è diventato famoso come «Museo dell’intolleranza». L’accusa in questa occasione è stata quella di voler cancellare ogni traccia della storia degli Arabi a Gerusalemme Ovest. Il progettista, il celebre architetto Frank Gehry, si è ritirato dall’iniziativa. L’archeologia, insomma, invece di aiutare a guardare le cose con la consapevolezza della profondità del tempo, sembra accentuare la divisione degli animi e complicare ciò che è già infinitamente complesso. Ci ritorneremo. (1 – continua)

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Antichi ieri e oggi

di Romolo A. Staccioli

Uomini e navigazione/2

Sotto il segno dei gemelli Riti, offerte, preghiere...: per assicurarsi il favore degli dèi del mare, i naviganti dovevano rispettare proibizioni e regole, non di rado insolite ell’andar per mare, un pericolo da non trascurare N – soprattutto in certe zone e in

determinati periodi storici – era quello dei «cattivi incontri», cioè dei pirati. Perfino Cesare vi incappò: viaggiando verso Rodi, dove andava per ascoltare le lezioni di Apollonio Molone, celebre maestro d’eloquenza, nei pressi dell’isola di Farmacussa (l’odierna Farmakonisi), la sua nave fu intercettata dai pirati cilici che, a quel tempo (prima d’essere sgominati da Pompeo, nel 67 a.C.), «dominavano il mare – secondo Plutarco (Kais. 1-2) – con grandi mezzi e un gran numero di navi». Per il riscatto gli furono chiesti venti talenti, ma egli ne promise cinquanta, che pagò dopo che ebbe

mandato alcuni dei suoi a raccoglierli a Mileto e in altre città della costa che erano tenute a farlo, in caso di sequestri avvenuti nel tratto di mare affidato alla loro sorveglianza. Cesare però, una volta liberato, organizzò una spedizione punitiva e sorpresi, a sua volta, i pirati, li catturò quasi tutti recuperando la somma pagata.

pena prevista, facendoli crocifiggere. In presenza di tanti... inconvenienti, è facile immaginare quanto fossero diffuse tra chi era costretto a mettersi in mare, le superstizioni e le pratiche religiose. Tra le prime, ve ne erano di singolari, veri e propri «tabú», come quello di non potersi tagliare unghie e capelli, a bordo, né avere rapporti sessuali. Ma, per tenere lontana la mala sorte, si ricorreva Gli scherzi di Cesare anche alla magia, e una precisa Poi, mentre il governatore della provincia, a cui spettava il compito funzione apotropaica era affidata ai grandi occhi dipinti, quasi sempre, della condanna, tergiversava (forse ai due lati della prua. Quanto alle con l’intento di vendere i pratiche religiose, esse erano dirette prigionieri come schiavi), Cesare inflisse loro – come aveva promesso alle diverse divinità marine, a cominciare da Nettuno, e ad altre durante i trentotto giorni di prigionia, «fingendo di scherzare», che col mare potevano avere come scrive Svetonio (Ces. IV) – la variamente – e spesso localmente –


a che fare, come s’è già detto per Iside (che in età imperiale diventa la dea del mare per eccellenza). Cosí per Venere (specialmente quella di Cipro), per Minerva, per Vulcano e soprattutto per i Dioscuri, Castore e Polluce, i divini gemelli figli di Zeus e di Leda, forse perché la loro costellazione era molto utile ai marinai per stabilire la rotta notturna e perché si riteneva che essi si manifestassero col caratteristico fenomeno che fu poi chiamato «fuoco di Sant’Elmo»: le «fiammelle» che, per la particolare presenza di elettricità nell’atmosfera, apparivano in cima all’albero o ai lati del pennone, considerate come annuncio della protezione divina e della fine di una tempesta. In onore di queste divinità – i cui nomi erano molto spesso dati alle stesse navi, per impetrarne la protezione –, si facevano sacrifici, libagioni e preghiere (e non di rado voti) prima della partenza, per iniziativa dei singoli, nei templi che non mancavano presso i luoghi d’imbarco. Poi, raggiunto l’alto mare, e a cura del comandante per tutta la comunità, su piccoli altari portatili sistemati a poppa, come appare in raffigurazioni scultoree e pittoriche giunte fino a noi. Altri se ne facevano quando in viaggio si Particolare del fregio sul monumento sepolcrale di Cartilio Poplicola a Porta Marina, Ostia Antica. 25-20 a.C. circa. Il rilievo rappresenta due fasi di un’azione bellica (alla quale, forse, partecipò lo stesso Poplicola): a sinistra alcuni soldati schierati, sulla terraferma, e, a destra, una battaglia navale.

passava in vista o nei pressi di un santuario piú o meno famoso, oppure quando ci si avvicinava a un sito notoriamente pericoloso (scogli, promontori, coste rocciose, fondali bassi e sabbiosi, secche), magari tristemente famoso per precedenti naufragi. Come era, per esempio, il famigerato Capo Malea, la piú orientale delle tre «punte» meridionali del Peloponneso, tanto pericoloso, per via dello scontrarsi dei venti provenienti da nord-ovest con quelli di nord-est, da aver dato luogo a un proverbio, come riferisce Strabone (VIII, 6,20: «Quando doppi il Capo Malea, dí addio alla tua casa»). Ma c’era chi, in un’epigrafe, era ricordato per averlo fatto per ben settantadue volte! Ovviamente, si pregava in caso di tempeste o durante le prolungate bonacce. «Dèi del mare e del cielo – che altro rimane se non la preghiera – fate che non si disuniscano le membra della nave squassata», invoca Ovidio nei Tristia. Per «grazia ricevuta» Anche San Paolo, cercò di rincuorare i suoi compagni di sventura ricorrendo all’aiuto divino: «Questa notte mi è apparso un angelo di quel Dio che io seguo e al quale appartengo: Egli mi ha detto:“Non temere Paolo (...) e, nella sua bontà, ti dona anche la vita dei tuoi compagni”». Finalmente, all’arrivo, quando si provvedeva anche all’assolvimento degli eventuali voti, c’erano le preghiere per... grazia ricevuta. Quanto alla lunghezza dei viaggi, essa variava, naturalmente, a seconda delle situazioni e, prima di tutto, a seconda che si scegliesse il cabotaggio (su piccole navi chiamate per questo naviculae orariae, da ora, la «costa») o la traversata diretta (su navi d’alto mare). In genere si viaggiava a una velocità media di 5 nodi orari, cioè per circa 100 miglia al giorno, ma le grosse navi onerarie, a pieno carico, e pure col vento a favore, non superavano i 3 nodi.Tanto per

fare qualche esempio a proposito delle rotte principali, in condizioni ottimali, la traversata da Ostia a Cartagine si faceva in due giorni; da Pozzuoli ad Alessandria d’Egitto, in nove; da Ostia a Cadice, in sette; da Ostia a Tarragona, in quattro; da Ostia a Narbona, in tre; da Pozzuoli a Corinto, in quattro. Ma questi erano tempi da primato. Di solito, per un motivo o per l’altro, essi erano molto piú lunghi. Bastava incappare in una burrasca o restare fermi col mare in bonaccia. Sicché, mai come partendo per un viaggio di mare, si poteva dire che lasciando un porto si sapeva quando si partiva, ma non si sapeva quando (e se...) si sarebbe arrivati. Plinio il Giovane, all’inizio degli anni 100 della nostra era, impiegò tre o quattro settimane per raggiungere la Bitinia, sul Mar di Marmara, dove andava per insediarsi come governatore di quella provincia. E di quel viaggio abbiamo un sintetico resoconto nel carteggio da lui scambiato con l’imperatore Traiano (Epist. X, 15-17): «Ti informo che sono arrivato per mare a Efeso (...) superando il Capo Malea, nonostante un ritardo per i venti contrari. Ora ho intenzione di raggiungere la provincia servendomi in parte di navi di cabotaggio, in parte di vetture (...) perché i venti etesi impediscono di fare tutto il viaggio per mare»; «Avendo di nuovo ripreso il mare su navi da cabotaggio, trattenuto da venti contrari, arrivai in Bitinia alquanto piú tardi di quel che sperassi». A volte, tuttavia, la lentezza della navigazione poteva dar luogo a qualche insperato vantaggio. Come fu per il governatore della Giudea, Petronio, al quale toccò la buona sorte di vedere arrivare al porto di Cesarea (presso l’odierna Haifa) prima la nave che recava la notizia dell’assassinio di Caligola e poi quella che portava l’ordine di ucciderlo, dato dallo stesso imperatore. (2 – fine)

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L’età dei metalli

di Claudio Giardino

Il mistero della pietra filosofale Incorrutibile e puro, in grado di trasformare la materia vile in oro, il leggendario oggetto rappresenta una grande metafora del pensiero magico-religioso legato alle origini della metallurgia primo racconto della saga di Potter, che ha reso celebre IlalHarry scrittrice inglese Johanne K.

Rowling, aveva come titolo Harry Potter e la pietra filosofale, a riprova di quanto la magica sostanza sia ancora oggi un potente richiamo per l’immaginario collettivo. Secondo gli antichi alchimisti, la pietra filosofale consentiva di fabbricare sinteticamente l’oro, trasformando il metallo vile in prezioso, attraverso un processo di trasmutazione che gli toglieva ogni impurità, rendendolo cosí incorruttibile. La magica pietra era anche in grado di togliere le impurità dal corpo dell’uomo, impedendone il decadimento: poteva quindi guarire ogni malattia e persino restituire la giovinezza perduta. Al sogno di creare la pietra filosofale si sono dedicate generazioni di alchimisti, apparentemente senza successo. Secondo un’antica leggenda, nella Roma del Settecento, un sapiente sarebbe riuscito nell’impresa mentre era ospite nella villa sull’Esquilino del marchese Massimiliano Palombara, un personaggio vissuto fra il 1614 e il 1680, anch’egli dedito alle scienze occulte. Prima di scomparire misteriosamente, avrebbe lasciata scritta la ricetta di preparazione, che il nobiluomo fece scolpire, a futura memoria, sulla porta in marmo della sua dimora. I ruderi di quella soglia sono ancora visibili nei giardini della centralissima piazza Vittorio, non lontano dalla Stazione Termini: la cosiddetta

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«Porta Magica», affiancata da due statue del dio egizio Bes, reca incisa, infatti, una serie di oscuri simboli cabalistici assieme a iscrizioni sibilline in latino ed ebraico. La «maturazione» dei minerali Il concetto di trasmutazione dei metalli è assai antico. Una letteratura alchemica che ne trattava fiorí già attorno al II-I secolo a.C. nell’Egitto ellenistico; i suoi scritti sono pieni di avvertimenti e giuramenti che ne proibiscono la divulgazione ai profani. L’idea che l’uomo possa agire sulla natura stessa dei metalli, modificandola, è però ancora precedente e affonda le radici nella preistoria, risalendo verosimilmente agli albori dell’età del Rame, con gli inizi della metallurgia. Dai testi di età classica

sappiamo come Greci e Romani credessero che i metalli, a somiglianza delle piante e degli animali, obbedissero a un ritmo temporale, crescendo nelle viscere della terra. Plinio riferisce che le miniere di piombo, una volta abbandonate, rinascevano piú ricche dopo un certo tempo. La concezione di base era che nel sottosuolo i minerali, lungo il tempo geologico, «maturassero», divenendo sempre piú perfetti. L’uomo esperto di metallurgia, nel suo forno fusorio, si sostituiva alla natura grazie alle sue conoscenze tecniche, accelerando il processo di crescita e trasformando cosí in breve tempo, con l’aiuto del fuoco, la pietra dei minerali in brillante metallo. Le stesse miniere, cosí come le caverne, non erano altro che il grembo della Madre Terra. Non a caso le grotte – sia naturali


A sinistra: la forgiatura del metallo presso i Tuareg, tribú nomade del deserto del Sahara. Abili nella fabbricazione di utensili, armi e talismani, i fabbri, presso alcune popolazioni africane, sono temuti e rispettati perché considerati detentori di straordinari e oscuri poteri magici, collegati al mondo degli spiriti. Nella pagina accanto: particolare di una fornace decorata con seni in argilla, prodotta dagli Oromo, antica popolazione etiope.

che artificiali – erano ritualmente utilizzate nella preistoria come luoghi di sepoltura. Ne sono significativi esempi, in area mediterranea, l’Hypogeum di HalSaflieni a Malta, o, in Italia, le Domus de Janas sarde, e le tombe a grotticella siciliane e dell’Italia centrale (rispettivamente appartenenti alle culture di Castelluccio e di Rinaldone). Il ritorno mistico nell’utero della Dea Madre avrebbe permesso e favorito la rinascita del defunto nel mondo spirituale. Cosí come il morto, deposto nella profondità delle caverne, sarebbe stato rigenerato a nuova vita, cosí il minerale rimasto nelle miniere avrebbe continuato a crescere e a svilupparsi, sino a divenire dapprima umile ferro, e poi, alla fine, nobile oro. La pietra filosofale, assai piú di ogni tecnica fusoria, era

in grado quindi di accelerare, in maniera esponenziale, questo lentissimo processo «naturale». All’origine delle leghe? In passato, veniva comunemente sottolineata la presunta correlazione fra la nascita degli esseri umani e quella dei metalli, espressa attraverso un simbolismo dai forti connotati sessuali. Non a caso, presso molte culture antiche, l’interpretazione antropomorfa della natura arrivò al punto di ritenere che gli stessi metalli avessero una loro propria sessualità. Non si può escludere che tale concezione animistica, di cui troviamo indizi nell’alchimia, abbia trovato una concreta applicazione nella prima creazione delle leghe, combinazione di due metalli diversi. Il bronzo sarebbe cosí frutto dell’unione del rosso

rame (verosimilmente maschile) con il pallido e argenteo stagno (verosimilmente femminile).Tale pensiero si ritrova anche in Estremo Oriente: secondo le leggende cinesi,Yu il Grande, mitico imperatore fondatore della dinastia Xia, nonché minatore e fonditore primordiale, distingueva i metalli maschi da quelli femmina; sposo della dea della saggezza Nüwa, qualificata come Imperatrice Divina e Grande Saggia, sarebbe vissuto intorno al XXII secolo a.C. Anche i riti di passaggio che scandiscono la vita umana, come la nascita e il matrimonio, sono riflessi nella fusione del metallo e, in particolare, nella fornace: questo è il luogo magico in cui avviene la trasmutazione e a esso sono legati miti, tabú e rituali carichi di sacralità ed esoterismo. In Africa,

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Miniatura di scuola francese, raffigurante Aristotele e la pietra filosofale, da una raccolta di testi magici e scienze occulte del XIV sec. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal.

le fornaci sono di norma considerate femminili: vengono spesso decorate a imitazione di giovani spose e sulle loro pareti sono talora modellati seni in argilla. L’ugello, che porta all’interno del forno l’aria che permette l’innalzamento della temperatura, è generalmente un cilindro di grandi dimensioni; sia nell’aspetto che nel nome ricorda l’organo maschile. Presso numerose tribú africane il metallurgo deve inoltre astenersi, nel periodo in cui opera l’estrazione dal minerale, da ogni attività sessuale. Oggi sappiamo che il metallo viene prodotto attraverso una complessa reazione chimico-fisica: sottoponendo in ambiente riducente (cioè privo di ossigeno) il minerale metallico a una temperatura sufficientemente elevata (generalmente attorno o sopra i 1000 °C), si ottiene il metallo, mentre i residui vengono eliminati come scorie e gas. Questa spiegazione moderna tende però a farci sottovalutare o addirittura ignorare lo stupore che dovettero provare i primi metallurgisti quando si resero conto che, mettendo in una fornace pietre colorate – i minerali metalliferi lo sono quasi sempre:

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verde la malachite, azzurra l’azzurrite, rossa la cuprite – e sottoponendole al calore del fuoco, ottenevano il prezioso, brillante e malleabile metallo assieme a un residuo, la dura e nera scoria. Non è improbabile che la stessa pratica funebre dell’incinerazione, che si diffonde in Europa proprio con l’avvento dei metalli, sia connessa con l’imitazione di questo processo: come i metalli sono trasformati grazie all’opera magica delle fiamme, cosí anche il defunto, sottoposto all’azione del rogo – che ne distrugge il corpo –, diviene puro e perfetto, tanto da potersi innalzare al cielo lasciando le ceneri come scoria. I Signori del fuoco Il significato del rituale è ben evidenziato dal mito di Ercole: l’eroe, quando giunse il momento di morire, salí sulla pira funeraria e si fece bruciare vivo, eliminando cosí la sua parte mortale e ascendendo quindi all’Olimpo come figlio di Zeus.La trasformazione del sasso in metallo non poteva che essere un fenomeno soprannaturale e i popoli del passato ne avvertivano tutto il fascino magico e misterioso, attribuendo un connotato esoterico e divino alle

fornaci, ai luoghi delle fusioni e ai metallurghi stessi. I custodi del segreto della trasformazione, veri e propri «signori del fuoco», erano considerati alla stregua di potenti sciamani e spesso, nella preistoria, le operazioni fusorie avvenivano in luoghi discreti e riparati. Presso molte popolazioni d’interesse etnologico, i lavoratori del metallo sono tuttora reputati esseri misteriosi, isolati dal resto della comunità, poiché detentori di poteri e conoscenze oscuri, potenzialmente pericolosi.Tali concezioni e comportamenti si registrano ancora in talune tribú africane. Per esempio in Congo, presso alcuni gruppi della provincia del Katanga, i metallurghi costituiscono società religiose segrete, alle quali si accede con una specifica iniziazione, mentre fra i Ba Yeke del sud del Paese il maestro fusore opera sempre in stretta collaborazione con lo sciamano. Anche in Asia si ritrovano atteggiamenti analoghi: i vecchi proverbi degli Jakuti - etnia della Siberia settentrionale anche nota come «Sacha» – affermano che «fabbri e sciamani sono dello stesso nido» e che se «la donna dello sciamano va rispettata, quella del fabbro va venerata»!



Medea e le altre La maga bifronte Crudele incantatrice o dea benigna, amante e madre di eroi, Circe è una creatura dai molti volti, capace di rivelare la vera natura degli uomini l mito di Circe compare nell’Odissea e nelle leggende Irelative al ciclo degli Argonauti. È

una maga, figlia del Sole e di Perseide, quest’ultima figlia di Oceano, oppure, secondo alcuni autori antichi, della dea Ecate. Come nel caso di Medea, si tratta dell’Ecate infernale e maga che, come le figlie, conosce i veleni e i filtri magici, d’amore e di morte, le metamorfosi e le vendette. Circe è sorella del re della Colchide, Eete (famoso in quanto custode del Vello d’oro, ambita preda della spedizione degli Argonauti) e di Pasifae, moglie del re di Creta Minosse e madre del Minotauro. Omero ci racconta che Ulisse e i suoi compagni, dopo le avventure nel Paese dei Lestrigoni, risalgono le coste italiane e giungono nell’isola di Ea, identificata con l’attuale promontorio laziale del Circeo, località in cui, in età romana, è attestato il culto della dea Circe. Ulisse decide di inviare in avanscoperta metà del suo equipaggio, estratto a sorte, sotto il comando di Euriloco. Quando giungono a un magnifico palazzo, i marinai greci sono ben accolti dalla

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signora che lo abita, tutti tranne Euriloco, rimasto prudentemente nascosto, poiché sospettava un inganno. Circe invita i compagni di Ulisse a un banchetto, somministra loro un potente phármakon, che li trasforma, al tocco di una bacchetta magica, in maiali, ma soltanto per l’aspetto esteriore, perché la loro

di Francesca Cenerini

sensibilità umana rimane immutata, anche se gli autori moderni molto discutono sul valore da attribuire a questa affermazione di Omero. I Greci sono quindi rinchiusi nel porcile e gli vengono dati da mangiare i cibi consueti dei maiali, cioè ghiande e frutti del corniolo. L'antidoto divino Euriloco, allora, torna indietro per avvertire del pericolo Ulisse, il quale decide di andare personalmente da Circe, per tentare di salvare i suoi compagni, ma, mentre sta per giungere al suo palazzo, viene fermato dal dio Hermes, che gli fornisce un antidoto alle droghe magiche di Circe, cioè quelle che avevano trasformato i suoi uomini in maiali: è un'erba officinale, chiamata môly, nera nella radice e bianca nel fiore, che soltanto gli dèi possono estrarre dal terreno. Ulisse diviene cosí immune dai sortilegi di Circe, diventa l’amante della maga, riesce a ottenere la liberazione dei suoi compagni e rimane per un anno nell’isola di Ea, prima di ripartire e scendere nell’Ade alla ricerca della profezia dell’indovino Tiresia. Prima di congedarlo Circe gli fornisce istruzioni rituali che consentiranno all’eroe itacese di portare a termine con successo anche la sua missione nell’Ade: con l’aiuto della maga il mare sarà sicuro e Ulisse e i suoi compagni potranno approdare nel regno di Ade e Persefone e compiere i sacrifici in maniera corretta. La maga Circe dell’Odissea non è un personaggio totalmente negativo, ma è sicuramente ambigua, come i farmaci che prepara. Come scrive Cristina Franco (Il mito di Circe, Einaudi, 2010, p. 27): «È una figura


In queste pagine: i due lati di una oinochoe (brocca utilizzata durante i banchetti per versare il vino attingendolo dai crateri) attica a figure rosse raffigurante Ulisse e Circe. L’eroe omerico, armato di spada e lancia, insegue la maga, ritratta sulla faccia opposta del vaso, con una bacchetta e una pozione in mano. V sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.

complessa e cangiante, che trasforma e si trasforma; che è maligna e poi benigna, che droga e poi rigenera, umilia ed esalta, ostacola e aiuta, trattiene e accompagna». Alcuni autori antichi sostengono che l’unione tra Circe e Ulisse fu prolifica: sarebbero nati numerosi figli, maschi e femmine, tra cui Agrio e Latino, eroe eponimo dei Latini. Agrio, il selvaggio, è detto da Plinio il Vecchio capostipite dei Marsi, indomita popolazione italica, e potrebbe essere stato anche identificato con il dio latino Fauno, nella complessa operazione di raccordo tra le saghe del mito omerico e la tradizione italica. I figli dell'eroe Ma il figlio piú famoso è Telegono: cresciuto con la madre nell’isola di Ea, come in ogni mito che si rispetti, una volta diventato adulto, parte alla ricerca del padre, ma lo uccide con un aculeo avvelenato che la madre gli aveva dato.Telegono riporta il cadavere del padre nell’isola natale, assieme a Penelope e a suo figlio Telemaco. A questo punto, le due famiglie di Ulisse, accomunate dal dolore, decidono di unirsi:Telegono sposa Penelope e Circe Telemaco. Anche queste unioni sono prolifiche. Secondo Igino (Miti, 127), gli eroi capostipiti delle popolazioni latine e italiche nascono proprio da questi matrimoni: Latino da Circe e Telemaco, Italo da Penelope e Telegono. Secondo questo mito, dunque, le genti italiche sarebbero legate da una comune origine greca, rappresentata dall’eroe omerico Ulisse. Il complesso patrimonio mitico

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greco ha consegnato ai posteri un’intera serie di diverse «Circi», di cui quella omerica è quella piú compiuta e autorevole. Anche la Circe omerica, però, è stata interpretata in modi diversi: incarnerebbe la tentazione (in vesti femminili) rappresentata dai sensi, sia sotto l’aspetto del piacere sessuale che di quello legato al cibo, una seduzione che, allettando l’uomo, minaccia di trasformarlo nella bestia piú ripugnante. Può rappresentare, cioè, le conseguenze nefaste dell’attività di una donna che, svincolata da ogni forma di controllo maschile, femme fatale o dark lady che sia, può sottomettere l’uomo e costringerlo a vivere come una bestia. Il tutto nell’ottica di una società androcentrica che, come piú volte sottolineato nel corso di questa rubrica, aveva come referente identitario il cittadino maschio, adulto e atto alle armi, mentre la componente femminile costituiva una alterità con la quale occorreva confrontarsi allo scopo di perpetuare la specie, ma che era necessario controllare, proprio a causa della sua diversità. Da strega a fata Ma la storia della maga può essere interpretata, come già quella di Medea, come comune figura folclorica. Nel caso di Circe si tratta della temuta strega delle fiabe di tutti i tempi: personaggio letale e in grado di preparare e somministrare veleni, è alla fine sconfitta da un eroe (maschio) buono e coraggioso e muore, oppure si trasforma in fata buona e soccorrevole. Inoltre, Circe può rappresentare Lekythos (ampolla per oli profumati e per unguenti; di dimensioni maggiori era di uso funerario) attica a figure rosse raffigurante i compagni di Ulisse trasformati in maiali dalla maga Circe. V sec. a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

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quella figura, tipicamente femminile, capace di mediare tra la sapienza umana e quella divina, ed è pertanto, come ce la descrive Omero, temibile, ingannatrice e dotata del dono della profezia. Ma la storia della Circe omerica ha anche lo scopo di esaltare la virilità eroica di Ulisse, contrapposta a

quella svilita dei suoi compagni, trasformati in maiali, cioè in animali completamente addomesticati dall’uomo, secondo l’interpretazione della Franco. Le prove che il re di Itaca deve superare sono molteplici: viene aiutato dalla magia, ma, soprattutto, deve dimostrare di essere un eroe coraggioso, in grado di sguainare la spada dal fodero, tipico gesto dalle chiare valenze di sottomissione sessuale femminile (come l’hasta caelibaris, cioè lo spillone con cui le spose romane dovevano fermare i capelli il giorno delle nozze, in una complicata acconciatura chiamata seni crines). La sconfitta del «mostro» La venuta di Ulisse ha posto termine a un anomalo regno di donne, non un matriarcato storicamente esistito, come vorrebbero alcuni studiosi contemporanei, ma la proiezione psichica di un timore maschile. La vicenda finisce bene perché Ulisse ha posto ordine in un mondo dominato dal caos, assegnando a ciascuno – uomini, donne e animali – il posto che gli spetta. Il racconto omerico sull’incontro fra Circe e Ulisse rappresenta pertanto uno di quei «miti di civilizzazione», legati alla navigazione greca già a partire dall’età micenea, in cui l’eroe deve sconfiggere il mostro per portare l’ordine che gli appartiene. La figura di Circe è stata utilizzata da numerosissimi autori, antichi e moderni, che la hanno ridisegnata alla luce delle loro interpretazioni personali, primi fra tutti Virgilio, Ovidio e Plutarco. Un aspetto, però, non manca mai in queste reinterpretazioni: è quello della trasformazione degli uomini in animali compiuta da Circe, vista sempre come forma di degradazione, anche grottesca. Per Omero, un vero uomo non può trasformarsi in maiale.



L’altra faccia della medaglia Le province in una tasca/3

Il pianto dei vinti Tra le province personificate in atteggiamento afflitto primeggia la raffigurazione della donna dolente, che medita affranta sul proprio destino a progressiva conquista romana delle regioni che poi L formarono l’impero, iniziata in età

repubblicana, trovò una naturale espressione artistica e ideologica nelle immagini di barbari sottomessi e di personificazioni di popoli che in gran numero decoravano i monumenti innalzati nelle città romane.Tali figurazioni riproponevano anche ciò che i cittadini di Roma potevano ammirare durante la cerimonia del trionfo concessa ai generali vittoriosi, in occasione della quale, oltre a ostentare il bottino conquistato, venivano fatti sfilare i prigionieri, uomini, donne e bambini, tutti nell'attesa di un destino che, nel migliore dei casi, era quello della schiavitú. L’impronta trionfale di tale programma politico trovò un mezzo di divulgazione ad ampio raggio nelle emissioni

monetali. Se nella monetazione adrianea si riscontra, come visto nelle puntate precedenti, una ricerca di carattere quasi etnografico e anche celebrativo delle particolarità nazionali, con le province ritratte nobilmente sdraiate circondate da attributi chiaramente riferiti al proprio ambiente geografico, in altre epoche dell’impero si scelgono caratteri iconografici assai diversi. Spesso furono scelte tipologie piú crude e di segno opposto a quelle adottate dal principe-viaggiatore. Un esempio eclatante della Roma trionfante è quello della provincia

di Francesca Ceci

dolente, resa di regola come un barbaro inginocchiato o, piú spesso, e con esiti artistici piú notevoli, nella figura di una donna scarmigliata, in alcuni casi discinta, seduta, e in atteggiamento di profonda afflizione. Di particolare interesse risultano le tipologie monetali di età flavia, riferite a due importanti operazioni belliche condotte da Vespasiano,Tito e Domiziano. Il trionfo sui Giudei Vespasiano, con il figlio Tito, combatté, tra il 67 e il 70 d.C., la cosiddetta prima guerra giudaica, drammatico conflitto contro gli insorti giudei conclusosi con la distruzione del Tempio di Gerusalemme e il trionfo a Roma di Tito, celebrato nel 71 d.C., nel quale sfilarono settecento prigionieri, insegne e arredi sacri depredati nel santuario gerosolimitano e ben riproposti all’interno del fornice dell’arco innalzato in onore del principe. Questa vittoria, ottenuta dopo battaglie cruente, che, stando alle fonti, causarono un numero enorme di caduti tra combattenti e civili, nonché il dilaniare di una guerra intestina alle varie fazioni giudaiche e infine la riduzione in schiavitú di 97 mila Ebrei, è riportata da Giuseppe Flavio nella sua opera conosciuta come Guerra giudaica, il cui titolo originale era Storia della guerra dei Giudei contro i Romani, del 75 d.C. Lo storico partecipò alla rivolta in prima persona, battendosi contro i

Qui sopra: rovescio di un aureo di Domiziano, con la Germania dolente seduta su uno scudo. 87 d.C. A sinistra: rovescio di un sesterzio di Tito, con la Giudea dolente sotto una palma e un Giudeo prigioniero con le braccia legate dietro la schiena, accanto uno scudo e un elmo. 80/81 d.C. Nella pagina accanto: Roma, arco di Tito. Particolare del rilievo con il trionfo giudaico di Vespasiano e Tito, con i soldati di Roma che trasportano gli arredi sacri del Tempio di Gerusalemme. 81 d.C.

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Romani, per poi divenire un protetto degli imperatori vittoriosi, convinto che la sconfitta del suo popolo fosse dovuta alla punizione divina. La portata politica e ideologica dell’evento dovette avere un’eco enorme, tanto che la sua commemorazione ricorre sulla monetazione dei tre Flavi per ben venticinque anni. Questa serie, conosciuta in decine di varianti battute in tutti e tre i metalli (oro, argento e bronzo) e diffusa in tutto l’impero, compresa la stessa Giudea, consta di un tipo principale, contraddistinto da una figura femminile ammantata e seduta, che poggia la testa affranta sulla mano o ha le mani legate dietro la schiena. Pressoché onnipresente è la palma, alla quale la donna si appoggia. Questa pianta, raffigurata carica di datteri, è tipica della regione e ben si prestava a simboleggiarla, come testimonia anche il passo di Plinio

che definisce la Giudea incolta ma ricca di grandi palme (Storia Naturale, XIII, 26). La donna, forse simbolo anche di Gerusalemme oltre che della regione, può essere sola, con un Giudeo prigioniero, un soldato romano trionfante, l’imperatore, la Vittoria, trofei e trionfi d’armi dei vinti. Una lancia spezzata Domiziano affrontò tra l’83 e l’85 d.C. una serie di guerre contro alcune popolazioni germaniche sollevatesi contro Roma, conclusasi con la sconfitta degli insorti e la prima realizzazione del limes germanico, a difesa dei territori conquistati. Ricevuto il titolo di Germanicus, appunto, nell’83/84 d.C., la vittoria fu celebrata con una bella serie di aurei, contraddistinti al dritto dalla testa imperiale circondata dalla titolatura e, al rovescio, da una

plastica figura di donna a seno scoperto e bracae, cioè il tradizionale pantalone in lana, sia maschile che femminile, che ricopriva le gambe e lasciava parte del busto scoperto, come descritto anche da Tacito (Germania, 17.3). La pettinatura è scarmigliata, il viso atteggiato al pianto e sorretto dalla mano sinistra, poggiata sul ginocchio rialzato. La barbara è seduta su un grande scudo decorato e la scena si chiude con una lancia significativamente spezzata al centro, chiaro simbolo della completa resa della popolazione vinta. L’incisione del conio è di buona resa artistica e accurata nei particolari, come nell’espressione del volto e nella resa dell’atletica muscolatura della donna germanica, usa a combattere e a morire insieme agli uomini della sua tribú. (3 – continua)

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I Libri di Archeo DALL’ITALIA Valeria Cortese e Guido Rossi (a cura di)

DALLA TERRA NERA ALLA TERRA DI PONENTE La collezione egizia del Museo di Archeologia Ligure Collana Segni del Tempo, 1 Il Portolano, Genova, 130 pp., ill. col. 25,00 euro ISBN 88-95051-06-8

Il volume presenta la collezione di antichità egizie del museo di Archeologia Ligure e i suoi reperti piú rappresentativi: il sarcofago, la mummia e il corredo funerario di Pasherienaset, sacerdote del dio Horu e della dea Hathor nel tempio di Edfu, importante centro religioso dell’Alto Egitto, sulla riva occidentale del Nilo. L’identità, i titoli e la genealogia del sacerdote, vissuto in epoca saitica, sono noti grazie alle iscrizioni geroglifiche dipinte sul sarcofago ligneo – donato al museo di Genova da una famiglia di viaggiatori e collezionisti liguri nel 1931 – e incise sul pilastro dorsale della statuetta funeraria che ne ritrae idealmente le fattezze. Dopo l’introduzione, che ripercorre la storia della collezione, nella prima parte del catalogo – integrata da brevi saggi sui costumi funerari nell’antico Egitto – sono illustrati i geroglifici e le scene dipinte sul

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sarcofago antropoide. A seguire, vengono presentati le fasi del restauro, concluso nel 1999, e i risultati delle indagini antropologiche sul corpo, avvolto in bende di lino e protetto da una «corazza magica» in perline di faïence azzurre, completa di scarabeo del cuore. Una sezione è dedicata alla piccola scultura funeraria in steatite, recuperata sul mercato antiquario statunitense

nel 2004 e oggi esposta, come nella sepoltura originaria, insieme al corredo. La seconda parte è dedicata alle acquisizioni minori della raccolta, che comprende bronzetti raffiguranti divinità, frammenti di sculture regali e amuleti. L’«egittomania» esplosa in Europa sulla scia della spedizione napoleonica, è oggetto di una riflessione conclusiva. Stefania Sapuppo Alberto Pozzi

MEGALITISMO Architettura sacra della preistoria Società Archeologica Comense, Como, 268 pp.,

ill. col. e b/n 45,00 euro ISBN 978-88-85643-44-4

Che si tratti di singoli grandi monoliti o di strutture articolate e complesse come gli allineamenti bretoni o i circoli anglosassoni, le testimonianze ascrivibili al fenomeno del megalitismo sono terreno fertile di studi e speculazioni da almeno tre secoli. E, spesso, non sono mancate congetture a dir poco originali sui motivi avrebbero stimolato la realizzazione di opere generalmente imponenti o sull’identità dei loro artefici. Il volume di Alberto Pozzi, invece, ha il merito di riportare il tema, che pure è intriso di una innegabile aura di fascino, sul piano della logica e dell’oggettività scientifica, approcciandolo, innanzitutto, con una ricognizione attenta e aggiornata (sono comprese, per esempio, anche le recenti scoperte di Göbekli Tepe) di tutte le testimonianze piú

importanti a oggi note. Ne risulta un vero e proprio atlante ragionato del megalitismo, grazie al quale è possibile cogliere la vastità del fenomeno e le molte possibili declinazioni di un soggetto solo all’apparenza banale e piuttosto rozzo. Corredate da un buon apparato iconografico, si susseguono trattazioni sistematiche sulle caratteristiche, i possibili significati, le tecniche di costruzione delle opere e le soluzioni architettoniche di volta in volta adottate, e sulla diffusione dei monumenti megalitici nel mondo. Queste sezioni analitiche pongono le basi per le conclusioni finali, alle quali fa da corollario un ampio apparato documentario, con indici, glossario e una vasta bibliografia. Nel complesso, l’opera si apprezza soprattutto per la misura con la quale l’autore illustra l’argomento, che ben si coglie proprio in sede di conclusioni, quando si legge della consapevolezza di «avere enunciato piú problemi che soluzioni, consci dell’impossibilità di dare risposte convincenti a ogni aspetto del megalitismo» e del volersi aggiungere a quanti non vogliono veder classificate come «misteri» tante antiche imprese. Stefano Mammini



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