Archeo n. 468, Febbraio 2024

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VILLA DI PLINIO IL VECCHIO TROIA E LA ROTTA DI ENEA

GORE VIDAL

IBERI

ARABIA FELIX

DACIA

SPECIALE DACIA L’ULTIMA FRONTIERA

L’ULTIMA FRONTIERA

CIVILTÀ DEGLI IBERI

ROMA E L’ARABIA FELICE

LETTERATURA

PAROLA D’ARCHEOLOGO

GIULIANO L’APOSTATA RIVISITATO

KUWAIT

È QUI LA VILLA DI PLINIO?

www.archeo.it

IN EDICOLA IL 9 FEBBRAIO 2024

.it

OR TR M OIA ED S EL UL ww M LE w. ITO a rc he o

2024

Mens. Anno XXXIX n. 468 febbraio 2024 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

ARCHEO 468 FEBBRAIO

BASILEA

€ 6,50



EDITORIALE

INVIDIE IMPERIALI Strano destino quello del ponte sul fiume Danubio, fatto costruire da Traiano intorno al 104 d.C. su progetto di uno di piú importanti architetti dell’antichità, Apollodoro di Damasco. Ancora oggi è considerata una delle massime realizzazioni dell’arte ingegneristica romana, anche se il monumento non esiste piú da lungo tempo. Gli storici antichi – il contemporaneo Plinio il Giovane, Cassio Dione e, secoli dopo, Procopio di Cesarea – ne parlano con somma ammirazione. Mettendo insieme i dati che possiamo ricavare dalle loro testimonianze – piuttosto scarne, in verità –, il ponte misurava oltre 1000 m di lunghezza, era largo 15 e l’altezza dei 20 pilastri «in pietra quadrangolare» era di circa 45 m. Numeri che, per l’epoca, ne fanno un assoluto capolavoro ingegneristico e architettonico. Dal punto di vista strategico, la struttura divenne un crocevia fondamentale in funzione dell’occupazione e dell’amministrazione della nuova provincia. L’immagine del ponte ci è nota dalle numerose raffigurazioni monetali e, soprattutto, da quella scolpita sulla Colonna Traiana, eretta a Roma nell’omonimo foro, anch’esso progettato dallo stesso Apollodoro, a celebrazione dell’avvenuta conquista romana della Dacia. Ma che fine ha fatto quell’opera straordinaria, da taluni studiosi considerata simbolo della penetrazione della civiltà di Roma nell’Europa centrale? Il ponte contribuí sicuramente alla gloria di Traiano (durante il cui regno l’impero raggiunse la sua massima estensione), e fu forse proprio questo il motivo per cui, appena qualche decennio dopo, venne distrutto? Di ritorno dalla campagna contro i Parti, nell’agosto del 117, Traiano muore a Selinunte, in Cilicia, nell’odierna Turchia. Gli succede Adriano il quale, secondo alcuni, soffriva della popolarità di cui godeva il suo predecessore grazie ai suoi successi politici e territoriali. E, a proposito del celebrato ponte – cosí riferisce Cassio Dione – il nuovo imperatore lo considerava piuttosto un pericoloso varco in grado di favorire l’accesso al cuore dell’impero da parte dei barbari del Nord. Fece, dunque, dare alle fiamme la struttura lignea del ponte, del quale rimasero soltanto i venti massicci pilastri in pietra. E oggi? A parte alcuni resti dei piloni d’accesso, ancora visibili sulle due sponde del Danubio (che qui segna la frontiera moderna tra Romania e Serbia), ne rimane ben poco: indagini subacquee intraprese nei primi anni del Duemila hanno dovuto constatare come quanto rimaneva degli originari pilastri fosse destinato a dissolversi nelle acque del grande fiume. Una vita breve, quella del glorioso ponte di Traiano, ma – come leggiamo nello speciale alle pp. 82-105 – dalla rilevanza storica ancora tutta da scoprire. Ricostruzione del ponte sul Danubio realizzato da Traiano su progetto di Apollodoro di Damasco (disegno di Radu Oltean).

Andreas M. Steiner


SOMMARIO EDITORIALE

Invidie imperiali

3

di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

SCAVI Ultimissime dalla città delle Tavole

6 6

INCONTRI Piacere, potere e ozio creativo 28 ARCHEOFILATELIA Splendori della Dacia 30 di Luciano Calenda

10

Con Virgilio e Omero fra storia e leggenda 36 di Daniela Fuganti

ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/13 Un americano a Roma

54

di Giuseppe M. Della Fina

Signori dell’oro e dell’argento

66

a cura di Stefano Mammini

MOSTRE

Alla conquista degli aromata 74

12

di Francesco d’Errico

FRONTE DEL PORTO Per il dio barbuto

54

MOSTRE

REPORTAGE

di Alessandra Randazzo

SCOPERTE Il senso per il design dei cacciatori di cavalli

20

di Flavia Marimpietri

di Giampiero Galasso

ALL’OMBRA DEL VULCANO Umili ma non ultimi

PAROLA D’ARCHEOLOGO Un indizio non fa una prova, però...

di Sabina Antonini

14

di Giusy Castelli

16

di Mara Sternini

18

74

36

Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

SPECIALE DACIA L’ULTIMA FRONTIERA

Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it

ARABIA FELIX

Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it

IBERI

Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it

In copertina l’elmo di Cotofenesti, un copricapo principesco in oro rinvenuto nel villaggio omonimo nel 1928. Prodotto della cultura geto-dacica, risale alla metà del V sec. a.C.

Presidente

Federico Curti

Comitato Scientifico Internazionale Mens. Anno XXXIX n. 468 febbraio 2024 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

GORE VIDAL

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 – 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it

€ 6,50

VILLA DI PLINIO IL VECCHIO TROIA E LA ROTTA DI ENEA

Anno XL, n. 468 - febbraio 2024 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

IN EDICOLA IL 9 FEBBRAIO 2024

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ARCHEO 468 FEBBRAIO

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MOSTRE Era d’agosto...

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A TUTTO CAMPO Egitto, che passione!

DACIA

L’ULTIMA FRONTIERA BASILEA

KUWAIT

CIVILTÀ DEGLI IBERI

ROMA E L’ARABIA FELICE

LETTERATURA

PAROLA D’ARCHEOLOGO

GIULIANO L’APOSTATA RIVISITATO

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Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Venceslas Kruta, Henry de Lumley, Javier Nieto

È QUI LA VILLA DI PLINIO?

29/01/24 17:42

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Carla Alfano, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Giulio Paolucci, Sergio Pernigotti, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Jacopo Tabolli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Sabina Antonini è archeologa e storica dell’arte dell’Arabia Meridionale. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Giusy Castelli è archeologa ALES in servizio presso il Parco archeologico di Ostia antica. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Francesco d’Errico è direttore di ricerca presso il CNRS-Université de Bordeaux e professore all’Università di Bergen. Luciano Frazzoni è archeologo. Daniela Fuganti è giornalista. Giampiero Galasso è giornalista. Flavia Marimpietri è giornalista. Alessandra Randazzo è giornalista. Mara Sternini è professoressa associata di archeologia classica all’Università degli Studi di Siena.


Rubriche TERRA, ACQUA, FUOCO, VENTO

Con pochi oboli lo porti a casa

106

di Luciano Frazzoni

106 L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

Al centro dell’universo 110 di Francesca Ceci

LIBRI

112

82 SPECIALE

L’ultima frontiera della Romanità

82

a cura di Andreas M. Steiner

Illustrazioni e immagini: Cortesia Ufficio Stampa del Museo Nazionale Romano: pp. 85, 94, 95 (basso), 96 (sinistra), 97, 98, 101; MNIR: copertina e pp. 83, 92 (basso), 92/93, 93, 102 (destra), 103, 104-105; Radu Oltean: disegni ricostruttivi alle pp. 3, 88/89, 99, 100/101, 102; MINAC: p. 90 (primo piano) – Cortesia Direzione Regionale Musei Umbria: pp. 6-9 – Cortesia Parco Archeologico di Pompei: pp. 10-11 – Cortesia degli autori: pp. 12-13, 16 (basso), 17, 110-111 – Cortesia Parco archeologico di Ostia antica: pp. 14-15 – Shutterstock: pp. 16 (alto), 48/49, 50/51, 58-59 – Cortesia Ufficio Stampa del Museo d’Arte Cicladica, Atene: p. 18 – Cortesia Comune di Bacoli: pp. 20 (basso), 22/23, 23 (basso) – Doc. red.: pp. 21, 24-27, 28, 55, 56, 63 – Cortesia Soprintendenza ABAP per l’area metropolitana di Napoli: p. 23 (alto) – Cortesia Ministero della Cultura e del Turismo della Repubblica di Turchia: pp. 36/37, 38 (alto), 39, 4047, 51 – Mondadori Portfolio: Ulla Montan/Opale.photo: p. 54; Cortesia Everett Collection: p. 61 – Alamy Stock Photo: p. 60 – Cortesia Ufficio Stampa e Comunicazione del Museo di antichità e Collezione Ludwig, Basilea: pp. 66-72 – Cortesia The al-Sabah Collection, Dar al-Athar al-Islamiyyah, Kuwait: pp. 74-81 – Andreas M. Steiner: pp. 82/83, 84/85, 90 (riquadro), 91, 92 (sinistra), 95 (alto), 96 (destra), 99 (alto) – da: Maria Chiara Monaco, «Con un obolo la prendi, ed è bellissima». Sui prezzi della ceramica attica in Annuario della Scuola Archeologica di Atene e delle Missioni Italiane in Oriente, Suppl. 2, 2019: pp. 106-108 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 62, 86.

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia srl Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Il Servizio Arretrati è a cura di: Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Srl - 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito: https://arretrati. pressdi.it

L’indice di «Archeo» 1985-2023 è disponibile sul sito https://ulissenet.comperio.it/ Registrandosi sulla home page si ottengono le credenziali per la consultazione di prova


n otiz iari o SCAVI Umbria

ULTIMISSIME DALLA CITTÀ DELLE TAVOLE

R

ecenti indagini geofisiche condotte nell’area archeologica di Iguvium (Gubbio, Perugia) hanno fornito importanti contributi alla comprensione dell’impianto urbano della città di epoca romana, ancora poco conosciuto. Già in passato, sia in occasione di lavori pubblici, sia grazie a interventi di scavo sistematici condotti in concessione dall’Università degli Studi di Perugia, era stata intercettata l’area forense e messi in luce i resti di un tempio e di un basolato stradale con orientamento nord-est/sudovest. In prossimità di queste strutture era stata scoperta e recentemente anche musealizzata parte di una domus, nota come «del Banchetto», databile alla fine del I secolo a.C. e caratterizzata da ambienti dotati di raffinati pavimenti musivi. Le nuove ricerche, condotte da

Laura Cerri (archeologa professionista), sono state possibili grazie a un finanziamento ottenuto dal Ministero della cultura (Direzione generale Musei, Legge 190/2014 per il triennio 2022-2024), destinato alla valorizzazione dei resti romani di Gubbio e richiesto da Ilaria Venanzoni (funzionaria archeologa, direttrice del Teatro Romano di Gubbio). «La metodologia utilizzata in prevalenza nel corso delle prospezioni geofisiche – spiegano Cerri e Venanzoni – è stata la magnetometria, grazie alla quale è stato possibile ricostruire gran parte della planimetria della città romana. Le indagini hanno chiaramente definito la pianta e la disposizione del nucleo urbano che presenta un’urbanistica di tipo ortogonale con isolati di forma rettangolare (70 x 35 m circa), in particolare nel settore a sud del

A destra: immagine satellitare del Teatro di Iguvium (Gubbio), con anomalie nella crescita della vegetazione in corrispondenza del quadriportico individuato con le indagini geofisiche. In basso: prospezione magnetica nell’area del Teatro romano. Nella pagina accanto, in basso: indagine georadar nella domus del Banchetto.

Teatro, con alcuni cambi di orientamento chiaramente distinguibili nella zona circostante il Teatro e nell’area della Guastuglia. I risultati delle ricerche hanno rivelato che la rete stradale si estendeva fino ai limiti della città e che le insulae periferiche ospitavano strutture che, a loro volta, suggeriscono come l’abitato si estendesse fino ai margini della città. È stata indagata, inoltre, una porzione del suburbio meridionale in corrispondenza del mausoleo di Pomponio Grecino, intorno al quale l’indagine magnetica ha permesso di localizzare un’ampia necropoli e un quartiere artigianale con fornaci,

6 archeo


In alto, a destra: le cavità ricavate sui blocchi del bordo della vasca. A destra: bronzetto raffigurante un offerente. Epoca etrusca.

archeo 7


n otiz iario

quest’ultimo da considerarsi verosimilmente di epoca precedente l’area sepolcrale. Alcuni approfondimenti sono stati condotti con il georadar, come nell’area della Guastuglia, all’interno della cosiddetta domus del Banchetto, dove l’indagine ha permesso di individuare tracce riferibili a una fase precedente i mosaici attualmente visibili in situ. Buche e spoliazioni murarie rinvenute grazie al georadar al di sotto dei mosaici della domus spiegherebbero poi i cedimenti e le irregolarità createsi sui piani pavimentali. Attraverso l’utilizzo della geofisica, le indagini hanno dunque svelato nel sottosuolo numerose strutture, A sinistra: pianta dell’antica Iguvium ricostruita grazie alle prospezioni geofisiche. A destra, sulle due pagine: il quadriportico individuato alle spalle del Teatro.

8 archeo


prevalentemente di carattere residenziale localizzate, come detto, nella parte meridionale della città, a ridosso dei resti della cinta muraria, che risulta ancora in parte visibile sul terreno e in parte individuata attraverso l’indagine geofisica. Tuttavia, particolare attenzione è stata dedicata a un importante elemento: alle spalle del Teatro, infatti, è stata individuata una struttura quadrangolare (52 x 52 m), interpretata come quadriportico con un tempio posizionato sul lato meridionale. L’abbinamento di edifici teatrali e religiosi è ben attestato in numerosi casi e sotto diverse tipologie e affonda le radici nell’essenza della rappresentazione scenica, che doveva avvenire sub

conspectu deorum, cioè sotto lo sguardo degli dèi. A differenza di altri casi noti, i due edifici, quadriportico e teatro, si presentano contigui, ma non in asse fra loro, circostanza che potrebbe lasciar ipotizzare la loro non contemporaneità. Menzionato anche in alcune fonti antiquarie, il portico appare, grazie alla geofisica, conservato almeno nelle sue strutture murarie, anche se forse non nelle pavimentazioni. Questa scoperta, oltre a fornire nuovi dettagli sulla struttura della città romana, assume un significato cruciale in relazione al rinvenimento delle famose Tavole Eugubine, scoperte nel Quattrocento nei pressi del Teatro,

in ambienti sotterranei finora non identificati (in subterranea concameratione). Finora, in effetti, è stato ipotizzato che le Tavole potessero essere esposte all’interno della basiliche pertinenti alla struttura teatrale, circostanza apparentemente non del tutto compatibile con la sacralità del contenuto dei loro testi». Le nuove scoperte gettano, dunque, una luce inedita sia sul ritrovamento delle note Tavole di Gubbio, documenti di importanza straordinaria per la conoscenza degli antichi culti religiosi, sia sullo sviluppo e sull’organizzazione urbana della stessa città romana di Iguvium. Giampiero Galasso

In alto: doluptu sanduntium eossint quaesto do dolorest lorest, ut exereca taspisci.

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ALL’OMBRA DEL VULCANO di Alessandra Randazzo

UMILI MA NON ULTIMI UNA MOSTRA ALLESTITA NELLA PALESTRA GRANDE DEGLI SCAVI DI POMPEI RICOSTRUISCE LA VITA QUOTIDIANA DELLE CLASSI SERVILI. ESCONO COSÍ DALL’OMBRA LE ESISTENZE DI UNA COMPONENTE ESSENZIALE DELLA SOCIETÀ, MOTORE PRIMO DEL SUO BENESSERE ECONOMICO

L

a Palestra Grande degli scavi ospita, per tutto il 2024, la mostra «L’altra Pompei. Vite comuni all’ombra del Vesuvio», che, articolata in sette sezioni e forte di oltre 300 reperti, racconta la vita e la quotidianità della fascia piú povera della popolazione, di cui, in assenza di dati archeologici certi, è tuttora difficile stimare la consistenza. Il percorso espositivo consente di seguirne, idealmente, l’intera esistenza: dalla nascita fino alla morte, dalle attività quotidiane all’alimentazione, dalle relazioni personali ai costumi e agli svaghi, ma anche il rapporto con il mondo esterno e con la fede religiosa. Ne scaturiscono il confronto con la società ricca e opulenta di una città della Campania Felix quale era Pompei, ma anche uno spaccato delle condizioni di vita degli schiavi, che la società romana impiegava nei lavori domestici, nelle campagne e, in generale, in tutte le attività che alimentavano l’economia. Spesso, peraltro, si dimentica che queste persone potevano essere colte ed essere impiegate nell’istruzione oppure lavorare come medici, architetti, procuratori; solo la loro posizione giuridica era diversa: erano infatti uomini e donne non liberi e proprietà dei padroni.

10 a r c h e o

Affresco raffigurante un venditore di pentole nel Foro di Pompei. Molti di loro erano prigionieri di guerra oppure provenivano dal mercato degli schiavi di Delo, il piú famoso del Mediterraneo.

SCHIAVI FIDATI Tra padrone e schiavo si instauravano spesso rapporti di fiducia, soprattutto se il secondo era amministratore della domus, delle proprietà, degli affari del dominus; ma le fonti, la storia e l’archeologia ci raccontano anche altre di queste vite, fatte di storie brutali, crudeli, di sfruttamento e reclusione, di punizioni corporali;

storie che possono ricordare situazioni, anche moderne, di sfruttamento e atrocità, tipiche dei domini imperialistici. Come molte città antiche, anche Pompei aveva il suo mercato degli schiavi, in cui bambini, donne e uomini venivano venduti e scelti dai padroni o dai loro amministratori. Lo stesso Trimalcione, il protagonista del Satyricon di Petronio, è uno schiavo liberato, divenuto ricchissimo e, a sua volta, padrone di schiavi. Egli è testimone di una condizione schiavistica non del tutto negativa e


In alto: la ricostruzione della cosiddetta Stanza degli Schiavi della villa rustica di Civita Giuliana, nella quale avevano trovato posto brande, anfore, brocche e altri contenitori, nonché il timone di un carro. A destra: apparati multimediali dedicati al cibo e alla prostituzione. pesante come schiavo domestico capace di «rimanere a galla» (Satyricon, 57 10), fino a essere dichiarato addirittura coerede con l’imperatore delle favolose proprietà del suo padrone. Tuttavia, vi erano schiavi che subivano condizioni ben peggiori, soprattutto quelli impiegati nelle proprietà agricole, sottoposti a una sorveglianza ferrea e dove, in caso di fuga, le punizioni erano all’ordine del giorno. Altre attività schiavistiche, come quelle necessarie per il funzionamento delle macine dei panifici o delle macchine idrauliche delle terme, dovevano essere particolarmente dure e odiose, mentre gli schiavi di città e di alcune proprietà terriere in campagna, anche se forse relegati negli spazi angusti dei piani superiori del tutto cancellati dall’eruzione, vivevano in condizioni anche invidiate da persone libere ma povere. Non è la tipologia di casa, infatti, a rendere l’immagine della popolazione che viveva in una città antica e della sua condizione, e la stessa casa ad atrio, quella che comunemente, a volte, è indicata come casa di Pompei, è solo una delle diverse tipologie abitative in città, dove sono piuttosto la

dimensione degli spazi e la loro insalubrità a rispecchiare le condizioni di povertà dei suoi abitanti, siano essi schiavi o liberi.

UNO SPAZIO BUIO La ricostruzione della cosiddetta Stanza degli Schiavi della villa rustica di Civita Giuliana, a nord di Pompei, mostra un ambiente di circa 13 mq, abbastanza ampio per ospitare tre brande, anfore, brocche e altri contenitori, un timone da carro: uno spazio buio, illuminato da una finestrella e visitato da topi di campagna, ma affacciato sull’ampio cortile porticato della villa, funzionale per le attività di stallaggio e di accudimento dei cavalli e del bellissimo carro cerimoniale ritrovato nell’ambiente poco distante e ora esposto all’Antiquarium di Boscoreale. Le brande fatte con pali di legno e di canna, le corde che formavano la rete a sostegno dei pagliericci, i resti delle fodere di questi ultimi rimaste sulle corde dopo aver perso il contenuto di paglia

rivivono dallo scavo archeologico grazie alla tecnica del calco, mediante la colatura di gesso liquido nelle cavità che la decomposizione degli stessi oggetti ha lasciato nello strato di cinerite delle ultime fasi dell’eruzione. Distrutta e poi riportata alla luce, Pompei raccoglie le storie di tutti, siano essi ricchi e poveri, in un contesto in cui la livella della morte e della distruzione da parte del Vesuvio non hanno fatto distinzioni in base allo status sociale. Per notizie e aggiornamenti su Pompei: pompeiisites.org; Facebook: Pompeii-Parco Archeologico; Instagram: PompeiiParco Archeologico; X: Pompeii Sites; YouTube: Pompeii Sites.

DOVE E QUANDO «L’altra Pompei. Vite comuni all’ombra del Vesuvio» Pompei, Parco archeologico, Palestra Grande fino al 15 dicembre Info www.pompeiisites.org

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n otiz iario

SCAVI Napoli

IL SENSO PER IL DESIGN DEI CACCIATORI DI CAVALLI

L’

origine e la dispersione mondiale della nostra specie, Homo sapiens, sono tuttora argomenti fra i piú controversi negli studi sull’evoluzione umana. Le informazioni fossili, genetiche e archeologiche confermano oggi

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Bifacciale in osso sceggiato scoperto nel sito di Shiyu (Cina settentrionale). Questo e altri strumenti rinvenuti nell’insediamento furono fabbricati da una comunità che praticava la caccia e la macellazione selettiva di cavalli. Nella pagina accanto: foto e restituzione grafica (in basso) del frammento di un disco di grafite scoperto a Shiyu, attualmente il piú antico oggetto ornamentale cinese. Alle immagini del reperto sono associate le ricostruzioni del suo utilizzo come ornamento o bottone (prodotte con NightCafe AI a partire da testi di Francesco d’Errico). l’esistenza di molteplici movimenti di popolazioni di Homo sapiens fuori dall’Africa e verso l’Eurasia. Rimane, tuttavia, piú di un interrogativo sulla cronologia di questi movimenti e sull’entità degli scambi biologici e culturali con le cosiddette popolazioni arcaiche – neandertaliane e denisoviane (appartenenti cioè alla specie di Neandertal e a quella distinta sulla base dei resti rinvenuti nella Grotta di Denisova, in Siberia, n.d.r.) –, che vivevano in Eurasia al momento dell’arrivo delle popolazioni moderne. Pochi fossili di Homo sapiens sono stati ritrovati nell’Asia settentrionale. Ust’-Ishim, nell’Altai russo, che rappresenta uno dei primi esseri umani moderni in questa regione, è datato a circa 45 000 anni da oggi. L’analisi di un resto umano scoperto a Tianyuandong indica che Homo sapiens era presente nel Nord-Est della Cina circa 40 000 anni fa. In uno studio appena pubblicato su Nature Ecology & Evolution, un’équipe internazionale a cui appartiene chi scrive, modifica il quadro

cronologico normalmente accettato per la prima colonizzazione della Cina da parte delle popolazioni moderne. Combinando nuove datazioni al radiocarbonio, per luminescenza e una nuova analisi della stratigrafia del sito di Shiyu, nella Cina settentrionale, gli autori dell’articolo hanno scoperto che questo sito, che ha restituito un cranio umano moderno ora perduto, è datato a circa 45 000 anni fa, facendo di Shiyu il piú antico sito archeologico che testimonia l’arrivo della nostra specie in Cina. Il sito presenta una serie di caratteristiche che mettono in discussione la nostra visione degli adattamenti culturali che hanno accompagnato l’espansione della nostra specie. Ha restituito sia utensili in pietra prodotti con il metodo Levallois (una tecnica di scheggiatura della selce che prende nome dal sito francese di Levallois-Perret, riconosciuta e descritta tra XIX e XX secolo da Victor Commont, n.d.r.), generalmente associati al Paleolitico Medio, sia lame

prodotte da nuclei prismatici, generalmente associati a industrie del Paleolitico Superiore. Le analisi per identificare la fonte degli utensili in ossidiana rivelano che il materiale proveniva da formazioni geologiche lontane, localizzate a 800-1000 km da Shiyu. I cacciatori che frequentavano il sito praticavano la caccia e macellazione selettiva di cavalli adulti, utilizzando lance con punte in pietra dal design particolarmente avanzato. Scheggiavano anche l’osso per produrre strumenti bifacciali e producevano dischi di grafite, probabilmente usati come ornamenti o come bottoni. Si tratta dei piú antichi oggetti di ornamento cinesi conosciuti. In breve, il sito sembra riflettere un processo di creolizzazione culturale, che mescola tratti ereditati con innovazioni esogene, un processo che potrebbe riflettere l’intensità dei contatti che le primie popolazioni moderne ebbero con quelle denisoviane o neandertaliane nella regione. Francesco d’Errico

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FRONTE DEL PORTO a cura di Claudia Tempesta e Cristina Genovese

PER IL DIO BARBUTO IL SERAPEO DI OSTIA, LA CUI CONSACRAZIONE FU CELEBRATA COME UNO DEGLI EVENTI PIÚ IMPORTANTI NELLA STORIA DELLA CITTÀ, TORNA OGGI A TESTIMONIARE LA DIFFUSIONE DEI CULTI DI ORIGINE EGIZIANA

N

el II secolo d.C., il quartiere nord-occidentale di Ostia, sviluppatosi a nord del Decumano e a ovest del Cardine Massimo tra l’ansa del Tevere e l’antica linea di costa, si contraddistingue per un impianto urbanistico a prevalente vocazione abitativa, caratterizzato da caseggiati a piú piani e complessi come le cosiddette Casette Tipo e le Case a Giardino, esempi pressoché unici di edilizia residenziale romana. La posizione di rilievo, vicina al mare e alle principali attività

14 a r c h e o

commerciali e politiche della città, sembra fosse motivo di attrazione per le famiglie benestanti.

REGALO DI COMPLEANNO Qui, tra il 123 e il 127 d.C. fu edificato un tempio dedicato a Giove Serapide, insieme alle Terme della Trinacria, al Caseggiato di Bacco e Arianna, e al cosiddetto Caseggiato del Serapeum, tutte costruzioni strettamente interconnesse e sviluppatesi a est e ovest di un nuovo asse stradale. Costruito a spese del liberto Caltilio,

il Serapeo fu consacrato il 24 gennaio 127 d.C., in concomitanza con il compleanno dell’imperatore Adriano: l’evento ebbe tanta enfasi da essere annotato anche nei Fasti Ostienses, i calendari ufficiali dei principali eventi della città. Serapide è una divinità sincretica grecoegizia, il cui culto fu introdotto ad Alessandria d’Egitto da Tolomeo I. Il dio è raffigurato barbuto, con un moggio di grano in testa e seduto sul trono; regge in una mano lo scettro e spesso tiene l’altra su Cerbero. L’animale a lui sacro è il


In alto: l’iscrizione che probabilmente decorava il frontone del Serapeo, ora conservata sulla facciata del bacino idrico nell’aula sacra del tempio. A destra: particolare del mosaico che orna l’aula del Serapeo, con scene nilotiche: in primo piano, un ibis. Nella pagina accanto: il Serapeo dopo gli interventi di messa in sicurezza. toro Api. Il suo culto ebbe una grande diffusione in tutto il Mediterraneo: a Roma, tra i numerosi santuari a lui dedicati, si ricorda il Serapeo costruito nel 43 a.C. in Campo Marzio, la cui sopravvivenza è attestata fino al V secolo d.C. Con il tempo, il culto si diffuse anche tra i cristiani, come testimonia lo stesso imperatore Adriano in una sua lettera scritta durante un viaggio in Egitto: «Tutti coloro che qui adorano Serapide sono cristiani, e persino quelli che vengono chiamati vescovi sono legati al culto di Serapide. Non v’è capo rabbino, samaritano, sacerdote dei cristiani, matematico, indovino, bagnino, che non adori Serapide. Lo stesso patriarca degli ebrei adora indifferentemente Serapide e il Cristo. Questa gente non ha altro dio che Serapide: è il dio dei cristiani, degli ebrei e di tutti i popoli» (Flavio Vopisco, Historia Augusta, VIII, Vita di Saturnino). Il santuario ostiense si sviluppa all’interno di un «recinto» con accesso dalla strada; l’aula

principale è impreziosita da due portici colonnati che fanno da quinta scenica al tempio, realizzato su un alto podio e fronteggiato da un altare. Nella sua prima fase di costruzione il santuario è strettamente connesso, tramite passaggi interni e nascosti, agli edifici adiacenti destinati probabilmente a banchetti rituali e al ricovero dei pellegrini.

UN’AULA IMPONENTE La lunga vita del complesso è attestata dalle diverse trasformazioni apportate tra il III e IV secolo. L’aspetto dell’aula sacra doveva essere imponente: scalinata, altare e pareti erano rivestiti in marmo, i pavimenti erano in opus sectile e in mosaici a tessere bianche e nere con raffigurazioni di scene nilotiche. Quello piú emblematico si trova all’ingresso e rappresenta un toro: appunto la personificazione del dio Api. Il frontone del tempio ospitava probabilmente l’iscrizione Iovi Serapi, ancora visibile nell’aula. Nell’angolo nord-est dell’edificio si trova un

bacino idrico: un serbatoio di distribuzione d’acqua che riforniva gran parte dell’isolato e la strada; non è da escludere che l’impianto idrico servisse anche per i riti sacri per il cui svolgimento era necessaria l’acqua, come tramandato dalle fonti. Questo settore della città antica è stato messo in luce durante i lavori per l’Esposizione Universale del 1942, sotto la direzione di Guido Calza; negli anni successivi si sono avvicendati scavi e restauri, che hanno permesso di preservare quanto piú possibile gli apparati strutturali e decorativi del complesso. La Escuela Española de Historia y Arqueología en Roma vi ha condotto una serie di saggi e indagini negli anni Ottanta, grazie ai quali si è acquisita una visione d’insieme del progetto urbanistico e delle fasi di costruzione delle strutture, potendosi cosí ricostruire la storia del paesaggio urbano di questa parte della città. Oggi il Serapeo riapre al pubblico dopo alcuni mesi di chiusura, necessari alla realizzazione di interventi di messa in sicurezza e restauro che hanno consentito di recuperare la leggibilità delle strutture e la fruibilità di un’importante testimonianza architettonica e religiosa di Ostia. Giusy Castelli

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A TUTTO CAMPO Mara Sternini

EGITTO, CHE PASSIONE! L’EGITTOMANIA «NASCE», UFFICIALMENTE, NELL’OTTOCENTO. IN REALTÀ, LA CIVILTÀ DEI FARAONI HA ESERCITATO IL SUO FASCINO FIN DALL’ANTICHITÀ. E TUTTORA CONSERVA, INALTERATO, IL SUO POTERE ATTRATTIVO

T

ra le grandi imprese napoleoniche, la campagna d’Egitto (1798-1801) ricopre certamente un ruolo di primo piano, non soltanto per l’organizzazione militare della spedizione, ma anche per la presenza di scienziati e studiosi al seguito dell’esercito francese. Il loro compito principale era documentare i monumenti antichi identificati in Egitto: un incarico che fu svolto con molta cura, come dimostrano i primi nove volumi, pubblicati tra il 1809 e il 1818, dell’opera La Description de l’Égypte, ou recueil des observations et des recherches qui ont été faites en Égypte pendant l’expédition de l’Armée française. Proprio durante quella campagna, nel 1799, venne scoperta la famosa stele di Rosetta, oggi conservata al British Museum di Londra; si tratta di una lastra in granodiorite che conserva un testo inciso in tre diverse scritture: il geroglifico, il demotico e il greco antico. Il testo riproduce un decreto risalente al 196 a.C., che celebra il primo anniversario dell’incoronazione del giovane faraone Tolomeo V Epifane, ma la sua importanza risiede tuttavia nel fatto che, attraverso quella stele, lo studioso JeanFrançois Champollion (1790-1832) riuscí a decifrare i geroglifici egizi.

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In alto: la Tomba di Gaio Cestio (18-12 a.C.) a Roma, in forma di piramide. A destra: il Tempietto egizio nei giardini del Museo Stibbert a Firenze.


La campagna napoleonica, quindi, diede un forte impulso a questi studi, ma il fascino esercitato dall’antico Egitto cominciò a diffondersi anche in altri settori della cultura occidentale del XIX secolo, in particolare nelle arti visive, nelle manifatture, nell’architettura civile e funeraria, dando vita a un fenomeno noto come egittomania, ritornato prepotentemente in auge nella prima metà del XX secolo grazie alla clamorosa scoperta della tomba di Tutankhamon, avvenuta nel 1922 a opera dell’archeologo inglese Howard Carter (1874-1939).

UNA PIRAMIDE PER SEPOLCRO Sarebbe tuttavia riduttivo circoscrivere tale fenomeno al XIX-XX secolo, perché il fascino del mondo egizio è già documentato in epoca romana e in qualche modo si può dire che abbia attraversato tutte le epoche fino ai nostri giorni. Lo scontro tra Ottaviano (63 a.C.-14 d.C.) e Marco Antonio (83-30 a.C.), ormai legato a Cleopatra (70/69-30 a.C.), si concluse infatti con la sconfitta di questi ultimi nella battaglia di Azio del 31 a.C. e portò alla definitiva conquista dell’Egitto, ma anche alla penetrazione della sua cultura nel mondo romano. Si pensi all’introduzione di alcuni culti egizi nell’Urbe, come dimostra la costruzione del tempio dedicato a Iside, inaugurato già nel 43 a.C. nel Campo Marzio; o alla tomba di Gaio Cestio in forma di piramide, costruita tra il 18 e il 12 a.C., inglobata poi nella cinta delle Mura Aureliane; o ancora ai numerosi obelischi trasportati nella capitale, entrati a far parte del paesaggio urbano.

Il fenomeno dell’egittomania ha quindi origini lontane, e non è mai passato del tutto di moda. Nell’architettura europea del XIX secolo troviamo numerosi esempi legati a questo fenomeno, come il famoso Tempietto egizio nel giardino del Museo Stibbert a Firenze, o nelle manifatture piú esclusive come il prezioso orologio da tavolo disegnato da Cartier nel 1927 e ispirato dal Tempio di Khonsu a Karnak. Per non dire di esempi contemporanei come la piramide di vetro del Museo del Louvre, opera dell’architetto cinese In basso: orologio da tavolo di gusto egittizzante firmato dalla gioielleria parigina Cartier (1927), che ricorda il portale del dio Khonsu nel Tempio di Karnak.

Ieoh Ming Pei (1917-2019), inaugurata nel 1988. L’egittomania si manifesta, purtroppo, anche in forme piuttosto discutibili, quando non addirittura di cattivo gusto, come nella statunitense Gold-Pyramid House a Wadsworth (Illinois), un’abitazione in forma di piramide, tutta rivestita in oro 24 carati, nella quale i visitatori dell’edificio potevano acquistare oggetti di vario genere in stile piú o meno egittizzante, con grande successo di pubblico, motivato dalla forte attrazione e dal fascino emanato dalle antichità egizie. Proprio per questo oggi chiunque può lucrare sul fenomeno, come dimostra anche il singolare caso del Museo di Tutankhamon, allestito con riproduzioni in legno e in plastica, aperto dalla società Museum nel mese di agosto 2023 all’interno di un appartamento situato di fronte al Duomo di Firenze, poi chiuso poche settimane dopo l’inaugurazione, non certo per mancanza di visitatori, ma, al contrario, per le proteste dei condomini infastiditi dal continuo viavai di turisti. E che dire della mostra «Da Tutankhamon a Cleopatra», inaugurata il 4 novembre scorso nel «Wow Side» all’interno dello Shopping Center di Fiumicino, che promette coinvolgenti esperienze virtuali, insieme a numerose riproduzioni di sarcofagi e gioielli? Non è facile valutare l’impatto culturale di simili iniziative, non necessariamente supportate da rigore filologico, ma che incontrano ogni volta un grande successo di pubblico, sempre piú bulimico di novità, ma non sempre consapevole della validità culturale di ciò che gli viene proposto. (mara.sternini@unisi.it)

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n otiz iario

MOSTRE Grecia

ERA D’AGOSTO...

I

n un giorno d’agosto del 338 a.C., nei pressi della città di Cheronea, in Beozia, l’esercito macedone di Filippo II combatté contro le forze, numericamente superiori, delle città greche confederate, sotto la guida di Tebe. Il re di Macedonia affidò al figlio Alessandro, allora appena diciottenne, il comando della sua cavalleria, corpo che ebbe un ruolo decisivo nell’esito dello scontro, risoltosi con la vittoria sua e di suo padre. Il futuro Magno si affacciava cosí alla ribalta della storia e di qui prende le mosse il nuovo progetto espositivo del Museo d’Arte Cicladica di Atene. Le conseguenze della battaglia ebbero un impatto formidabile sulla storia della regione greca, ma non solo: dopo Cheronea, l’esercito di Filippo e, soprattutto, di Alessandro, raggiunsero i confini del mondo conosciuto e inaugurarono una stagione di straordinaria prosperità. Il periodo ellenistico vide la rottura degli equilibri politici tradizionali delle città greche e la ridefinizione delle strutture sociali. Le città-stato furono assorbite in una nuova struttura amministrativa, quella del regno, nella quale le decisioni non sono piú prese esclusivamente a livello locale. La mostra permette di «toccare» archeologicamente Alessandro Magno, grazie a una selezione di poco meno di 250 reperti e opere d’arte, la cui testimonianza documentaria viene incrociata con le notizie ricavabili dalle fonti. Oltre a presentare i due mondi che si scontrarono, l’esposizione documenta le pratiche di sepoltura delle due armate: il Polyandrion (sepolcro collettivo) dei 254 membri dell’alleanza guidata da Tebe e il Tumulo dei Macedoni.

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Ricostruzione degli schieramenti che si affrontarono nella battaglia combattuta presso Cheronea, in Beozia, nell’agosto del 338 a.C. In basso: leone marmoreo posto sulla tomba collettiva dei caduti tebani. Un’attenzione particolare è stata anche posta sulle ricerche dedicate agli effetti della battaglia, evidenziando il lavoro di due pionieri dell’archeologia greca alla fine del XIX e all’inizio del XX secolo, ovvero Panagiotis Stamatakis e Georgios Sotiriadis. Tra i manufatti in mostra, spiccano la panoplia del guerriero di Igoumenitsa con la sua corazza di ferro e l’elmo argentato, lo scudo macedone con l’iscrizione «di Re Alessandro», stateri aurei di Filippo, Alessandro e dei loro successori, e

il materiale proveniente dalla tomba di Tanagra, simbolo tangibile dell’importanza della battaglia nella piú ampia regione di Beozia. (red.)

DOVE E QUANDO «Cheronea, 2 agosto 338 a.C.: un giorno che ha cambiato il mondo» Atene, Museo d’Arte Cicladica fino al 31 marzo Info www.cycladic.gr; Facebook: CycladicArtMuseum Instagram: Cycladic_museum



PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri

UN INDIZIO NON FA UNA PROVA, PERÒ... UN INTERVENTO DI RIQUALIFICAZIONE AVVIATO DAL COMUNE DI BACOLI, SUL GOLFO DI POZZUOLI, HA RIPORTATO ALLA LUCE I RESTI DI UNA GRANDE VILLA ROMANA, CERTAMENTE APPARTENUTA A UN PERSONAGGIO DI SPICCO. COSICCHÉ, DATA LA SUA UBICAZIONE, È STATO SUBITO SUSSURRATO IL NOME DI PLINIO IL VECCHIO. UN’IPOTESI SUGGESTIVA, SULLA QUALE ABBIAMO RAGIONATO CON MARIANO NUZZO, SOPRINTENDENTE ARCHEOLOGO PER L’AREA METROPOLITANA DI NAPOLI

F

orse proprio da una terrazza della domus romana appena venuta alla luce a Bacoli, sul litorale flegreo, Plinio il Vecchio avvistò la prima densa nube levarsi dal Vesuvio, il 24 agosto del 79 d.C., quando il vulcano eruttò e

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sommerse Pompei, come racconta il nipote (Plinio il Giovane, Epistola VI, 16, 4-21). E da questa villa affacciata sul mare, forse, l’allora capo della flotta romana stanziata a Capo Miseno si affrettò a imbarcarsi per soccorrere gli

abitanti di Stabia, prima di morire a causa dell’aria resa irrespirabile dalle esalazioni. Impossibile saperlo con certezza, per ora, ma l’ipotesi rimane suggestiva per gli archeologi che hanno messo in luce un’ampia villa


«Era a Miseno e teneva direttamente il comando della flotta. Il 24 agosto, verso l’una del pomeriggio, mia madre lo informa che spuntava una nube fuori dell’ordinario sia per grandezza che per aspetto. Egli dopo aver preso un bagno di sole e poi un altro nell’acqua fredda, aveva fatto uno spuntino stando nella sua brandina da lavoro e attendeva allo studio; si fa portare i sandali e sale in una località che offriva le migliori condizioni per contemplare quel prodigio (...) Si elevava una nube, ma chi guardava da lontano non riusciva a precisare da quale montagna (si seppe poi che era il Vesuvio)». (Plinio il Giovane, Epistola VI, 16, 4-21) di I secolo d.C., nei pressi di Punta Sarparella, in occasione della riqualificazione effettuata dal Comune di Bacoli dell’area occupata prima dall’ecomostro dell’ex Lido Piranha e poi da una discarica abusiva di rifiuti. Ce ne parla Mariano Nuzzo, Soprintendente Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Napoli, che ha seguito i lavori con il Comune di Bacoli. Professor Nuzzo, dal degrado, si è passati alla rinascita e poi alla scoperta, non è vero? «Si tratta di una zona di grande valenza archeologica e paesaggistica, disseminata di resti archeologici – il teatro romano di Misenum, il Collegio degli Augustali, il bacino del porto antico – e sottoposta a vincolo ministeriale di tutela, che era abbandonata da anni, dopo l’abbattimento, nel 2007, dello stabilimento abusivo dell’ex Lido Piranha, costruito nel 1982 e rimasto in funzione per oltre vent’anni. L’area era divenuta una discarica: per sversamento di rifiuti speciali, nell’ottobre del 2021 scattarono i sigilli della Guardia di Finanza».

Il naturalista Plinio il Vecchio in una calcografia settecentesca. Nella pagina accanto: veduta a volo d’uccello che permette di cogliere la relazione visiva fra il sito della villa romana di Bacoli (i cui resti sono visibili in basso, a ridosso del mare) e il Vesuvio, riconoscibile sullo sfondo. Con il dissequestro e la bonifica del sito, sotto a rifiuti e detriti, sono affiorati i resti della villa antica... «Con i lavori di bonifica, avviati nel

2021 dal Comune di Bacoli nell’ambito un progetto di recupero e valorizzazione dell’area, mirato a restituire alla pubblica fruizione uno degli accessi piú spettacolari alla spiaggia di Miseno, reso inaccessibile da rifiuti e sterpaglie, è stato rimosso uno strato di circa 70-80 cm di detriti. Sotto al materiale di risulta del lido abusivo, sono emerse le strutture antiche, completamente rasate dalla piattaforma di cemento dello stabilimento moderno. I resti archeologici erano parzialmente noti: agli inizi del Novecento erano state scattate fotografie in cui era visibile l’opus reticolatum; nel 1979 era stato pubblicato da Mariarosaria Borriello e Antonio D’Ambrosio un rilievo del sito. Ma durante le operazioni di sistemazione del piano di campagna, destinato a panchine e area giochi per bambini, sono emersi i resti delle mura di questa monumentale villa romana, databile intorno al I secolo d.C., realizzata in opera reticolata con cubilia di tufo di ottima fattura, che

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si estende senza soluzione di continuità fino alla spiaggia e ai fondali antistanti. Si compone di circa 15 ambienti e doveva dunque appartenere a un personaggio importante». Che cosa si è conservato della villa, dopo che è stata rasata e sommersa dal cemento? «È possibile leggere buona parte dell’impianto planimetrico. Siamo al livello dei piani pavimentali, mentre l’alzato è stato distrutto dal lido moderno. Si conserva la pavimentazione in cotto e tratti di mura in opus reticolatum, che datano la struttura al I secolo d.C.».

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Cosa porterebbe pensare che si tratti proprio della residenza di Plinio il Vecchio? «Non ci sono conferme scientifiche a quest’ipotesi, al momento. Ma nemmeno smentite. Per ora tutte le ipotesi rimangono aperte. Sappiamo che Plinio il Vecchio vide l’eruzione dalla sua villa sulla costa flegrea: questo è un sito che guarda esattamente il Vesuvio. Si tratta, inoltre, a quanto pare, di una struttura imponente, dotata, come già ricordavo, di una quindicina di ambienti degradanti verso il mare (10 dei quali visibili) che lasciano pensare a una

In alto, sulle due pagine: ortofoto dell’area di scavo con i resti della villa affioranti. Nella pagina accanto, in alto: l’area di scavo al termine della ripulitura. Nella pagina accanto, in basso: foto aerea che permette di apprezzare la presenza delle strutture attualmente giacenti sotto il pelo dell’acqua. residenza non comune. L’ipotesi che sia quella di Plinio il Vecchio è da verificare ed è ciò che faremo nei prossimi mesi». Anche perché va ancora scavata… «Abbiamo effettuato una pulitura delle strutture visibili fino al livello


dei pavimenti, con l’assistenza archeologica della Soprintendenza, che ci ha consentito di intercettare l’estensione planimetrica. Le murature sono state erase dagli interventi abusivi moderni. Il Comune di Bacoli ha garantito che completerà lo scavo indagando la porzione di terreno verso il mare, un’area di circa 7-8 m, nella quale si conserva uno spessore di resti archeologici piú consistente. Lí è necessario e sarà forse piú proficuo scavare. Piú che indagare in profondità, sarebbe utile avanzare in estensione, fino al mare e alle strutture sommerse». Avete rinvenuto materiali archeologici durante lo scavo?

«No, se non piccoli frammenti ceramici. Si tratta di uno scavo già alterato, purtroppo. Era coperto da una piattaforma di cemento, che tagliava le strutture antiche. Ma nei 7-8 m ancora da indagare, dove la villa degrada verso il mare e i resti si conservano per un’altezza maggiore, potrebbero emergere elementi interessanti. Attendiamo di valutare il progetto di scavo della villa che deve arrivare dal Comune di Bacoli, comprensivo anche dei resti archeologici sommersi. Auspichiamo, a questo punto, che il Comune faccia un passo avanti, proponendo un progetto piú ampio che interessi l’intera Punta Sarparella».

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n otiz iario

IN CROCIERA CON «ARCHEO»

STORIE MILLENARIE A DUE PASSI DALL’ARTICO

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artirà il 4 giugno, da Dublino, Sulla scia dei Celti e dei Vichinghi, la crociera ideata da Swan Hellenic per scoprire l’eredità lasciata da due delle piú importanti civiltà dell’Europa antica. Accompagnati da archeologi ed esperti di storia e tradizioni locali, i partecipanti, ripercorrendo le rotte seguite da esploratori e monaci, potranno visitare siti di eccezionale rilevanza e ammirare paesaggi incantevoli, popolati da una fauna ricca e variegata. Patria di scrittori famosi del calibro di Oscar Wilde e James Joyce, Dublino, capitale della Reubblica d’Irlanda, mescola senza soluzione di continuità il suo forte carattere con la bellezza dei luoghi, fra piazze d’epoca georgiana, parchi e canali. La città vanta un ricco patrimonio letterario, nel quale spicca la Biblioteca del Trinity College, dove, fra gli altri, è custodito il prezioso Evangeliario di Kells, realizzato intorno all’anno 800 a Iona, l’isola delle Ebridi Interne che è la seconda tappa dell’ititnerario. L’isola, che conta oggi una popolazione di appena 100 abitanti, è famosa per la sua abbazia, fondata da san

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Ísafjördur Isola di Vigur Scogliere di Látrabjarg

Isola di Grímsey

Akureyri Cascate di ISLANDA Dynjandi

Reykjavík

Djupivogur Tórshavn

Lerwick Stromness Ullapool Portree, Isola di Skye Iona Dublino

IRLANDA

Le tappe della crociera «Sulla scia dei Celti e dei Vichinghi». A destra, sulle due pagine: l’abbazia dell’isola di Iona (Isole Ebridi, Scozia), fondata nel VI sec. In basso: veduta panoramica di Reykjavik, capitale dell’Islanda. Svetta, al centro, il profilo inconfondibile della Hallgrímskirkja. Colombano e dai suoi seguaci irlandesi nel 563. Il complesso monastico è uno dei siti storici e sacri piú importanti della Scozia e vanta uno spettacolare lapidario,

REGNO UNITO


A sinistra: la Christ Church, la piú antica cattedrale protestante di Dublino. In basso: pulcinelle di mare (Fratercula arctica) sull’isola islandese di Grímsey, che ospita una delle popolazioni piú numerose di questa specie.

nel quale si conservano oltre 150 pietre e croci intagliate. Terzo scalo è Portree, la città piú grande, la capitale e la porta d’accesso all’Isola di Skye nelle Ebridi Interne. Affacciato sulle scogliere, il porto, il cui molo fu realizzato nel 1818-1820 su progetto dell’ingegnere Thomas Telford, è circondato da case colorate e offre un suggestivo colpo d’occhio. Da qui, oltre ad ammirare il pinnacolo roccioso noto come Uomo di Storr, si può raggiungere il castello di Dunvegan, una delle piú grandi e rinomate fortezze delle Ebridi. L’itinerario tocca quindi il suggestivo villaggio di Ullapool, sulla costa occidentale della Scozia, affacciato sul fiordo chiamato Loch

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n otiz iario Broom. La campagna circostante serba numerose attrazioni: la Gola di Corrieshalloch, ripida e stretta, nella quale l’acqua scorre fragorosa; la Spiaggia di Achmelvich, che, protetta da affioramenti rocciosi, regala uno spettacolare contrasto fra la sabbia candida e le acque turchesi; le Grotte delle Ossa, nelle quali sono stati trovati resti di renna e orso polare. Da Ullapool si può inoltre effettuare l’escursione che conduce alla riserva naturale di Knockan Crag, dove si possono vedere le rovine della Calda House e il Castello di Ardvreck. Quinta tappa è Stromness, nell’arcipelago delle Orcadi, dove il porto marittimo in pietra del XVIII secolo è rimasto pressoché immutato dai tempi in cui, nel 1780, vi fecero scalo le navi di James Cook. Una decina di chilometri a nord della cittadina si conservano i resti del villaggio preistorico Skara Brae, l’abitato neolitico meglio conservato dell’Europa del Nord, occupato da una comunità di agricoltori e allevatori 5000 anni fa circa. Alla stessa epoca risale il Ring of Brodgar, un circolo megalitico situato nei pressi di Stenness.

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La crociera raggiunge quindi Lerwick. Piú vicina alla Norvegia che alla terraferma scozzese, è la capitale e l’unica città delle Isole Shetland, un arcipelago subartico della Scozia la cui storia s’intreccia con quella del popolo vichingo. Il porto mostra un singolare tocco olandese, conferitogli dal seicentesco Forte Charlotte. A sud dell’isola, il sito archeologico preistorico e norreno di Jarlshof ha rivelato una lunga sequenza

insediativa, che abbraccia oltre 5000 anni di storia. Al giro di boa della prima settimana si approda a Tórshavn, la capitale portuale delle Isole Fær Øer, arcipelago autonomo nel Regno di Danimarca, isolato nell’Atlantico, a metà strada tra la Scozia e l’Islanda. Fuori dalla portata della maggior parte dei viaggiatori, le Fær Øer stanno diventando sempre piú conosciute per la loro splendida bellezza e il patrimonio culturale.


Il Ring of Brodgar, un circolo megalitico situato nei pressi di Stenness (Scozia), la cui realizzazione si data a circa 5000 anni fa.

Con l’ottava tappa, la crociera raggiunge l’Islanda, facendo scalo a Djupivogur, un tranquillo villaggio di pescatori attualmente abitato da meno di 500 abitanti, che vanta origini vichinghe e deve oggi la sua notorietà all’installazione artistica The Eggs at Merry Bay, che presenta 34 uova di granito rappresentanti specie di uccelli locali. Nelle vicinanze, si trova il Parco Nazionale di Vatnajökull, che copre il 14% Le spettacolari scogliere di Látrabjarg, con pareti rocciose che toccano i 400 m d’altezza, lungo il margine occidentale dell’Islanda. Nella pagina accanto, in alto: i resti dell’insediamento neolitico di Skara Brae nelle Isole Orcadi (Scozia).

dell’Islanda, offre una vasta estensione con la piú grande calotta glaciale d’Europa, il ghiacciaio Vatnajökull, fiumi glaciali fragorosi e vulcani attivi. Ci si sposta quindi a Grímsey, un’isola remota, al largo della costa settentrionale islandese. È meta abituale di tutti quelli che ambiscono a mettere piede nel Circolo Polare Artico, poiché si tratta dell’unico luogo in Islanda dove è possibile farlo. L’isola è abitata da meno di un centinaio di persone, ma ospita, in compenso, oltre un milione di uccelli marini. Grazie alla mancanza di predazione delle uova e ai mari circostanti ben forniti di risorse alimentari, Grímsey accoglie uno dei piú grandi siti di nidificazione delle sterne e una delle piú popolose colonie di pulcinelle di mare. Decima tappa è Akureyri, che si vanta d’essere la «Capitale del Nord» della Terra del Fuoco e del Ghiaccio. È la porta d’accesso a alcune meraviglie naturali, tra cui la regione di Myvatn, la cascata di Dettifoss, la cascata di Godafoss e la gola di Asbyrgi. Immersa tra i fiordi nella regione dei Westfjords, Ísafjördur è invece

una vivace cittadina di pescatori nel nord-ovest dell’Islanda, con case colorate in legno del XVIII e XIX secolo nel suo centro storico, Neskaupstadur. Da qui si può andare alla scoperta della storia della Valle di Stadardalur, uno dei primi luoghi d’Islanda colonizzati dai Vichinghi. Ancora nel comprensorio dei Westfjords, si fa scalo a Vigur, la seconda isola, per grandezza, della regione che è un vero e proprio santuario per gli uccelli marini. Fra le attrazioni locali vi sono anche il solo mulino a vento dell’Islanda e il piú piccolo ufficio postale del Paese. La penultima tappa prevede due mete principali. Dapprima le spettacolari cascate di Dynjandi, nelle cui vicinanze si trova Hrafnseyri, luogo di nascita di Jón Sigurðsson, leader del movimento per l’indipendenza islandese nel XIX secolo. E poi le scogliere di Látrabjarg, alte 400 m, che corrono per poco meno di 15 chilometri lungo il margine occidentale dell’Islanda. Scalo finale della crociera è Reykjavík, che, nell’874, fu il primo insediamento scandinavo nell’isola. Per avere un’idea della città, si può prendere l’ascensore che raggiunge la cima della Hallgrímskirkja, la grande chiesa realizzata su progetto dell’architetto islandese Gudjón Samuelsson, che è uno degli edifici simbolo della capitale. Fra le molte attrazioni, meritano una visita il Museo Marittimo, nell’area del porto, e il Museo Nazionale. Info e prenotazioni: e-mail, enquiries@swanhellenic.com

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n otiz iario

INCONTRI Roma

PIACERE, POTERE E OZIO CREATIVO

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rosegue con successo, al Teatro Argentina di Roma la decima edizione di «Luce sull’Archeologia», che quest’anno ha per titolo «La “villeggiatura” nell’antica Roma: l’otium come sentimento sublime di bellezza ed esperienza di civiltà». Fino al prossimo 14 aprile l’appuntamento con la rassegna di storia e arte si rinnova con gli incontri della domenica mattina, alle ore 11,00, introdotti da Massimiliano Ghilardi, pensati per approfondire il rapporto dei Romani con la terra e la natura, quando, alla fine dell’età repubblicana, ragioni storico-politiche e culturali determinano la trasformazione della mentalità e del costume delle élites, che prediligono sempre piú una vita lontano dalla città e dal centro del potere. «Luce sull’Archeologia» è un progetto del Teatro di Roma a cura di Catia Fauci, in collaborazione con la Direzione generale Musei del Ministero della Cultura, con il contributo dell’Istituto Nazionale

di Studi Romani, di «Archeo» e della società Dialogues Raccontare L’arte, arricchito dagli interventi di storia dell’arte di Claudio Strinati e dalle Anteprime del passato di Andreas M. Steiner. Questa decima edizione aggiunge agli incontri un contributo per una prospettiva multifocale, dal titolo Affresco con scena di banchetto, da Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

«La parola oltre il sipario», un momento di riflessione e approfondimento del tema da un punto di vista letterario, teatrale, giornalistico. Questi i prossimi appuntamenti. 11 febbraio Ivano Dionigi, Università di Bologna, Lucrezio: un rivoluzionario a Roma; Francesco Sirano, Direttore del Parco Archeologico di Ercolano, Elogio del tempo perso: la Villa dei Papiri di Ercolano; Dacia Maraini, scrittrice, L’ozio della lettura con lo sguardo contemporaneo. 25 febbraio Alberta Campitelli, storica dell’arte e dei giardini, L’eredità del passato nelle ville romane tra Rinascimento e Barocco: modelli e stili di vita; Tiziana Maffei, Direttore della Reggia di Caserta, Dal piacere al potere: l’evoluzione dei giardini alla Reggia di Caserta; Lina Bolzoni, Scuola Normale Superiore di Pisa, L’ozio creativo della lettura e della conversazione. 3 marzo Francesca Romana Berno, Sapienza Università di Roma, Le smanie per la villeggiatura. Seneca in vacanza, tra ville al mare e riflessione filosofica; Filippo Demma, Direttore della Direzione Regionale Musei Calabria e del Parco Archeologico di Sibari, Eno/ oìno. E dove non è vino non è amore, né alcun altro diletto hanno i mortali; Ritanna Armeni, scrittrice, La rivoluzione dell’ozio femminile.

DOVE E QUANDO «La “villeggiatura” nell’antica Roma: l’otium come sentimento sublime di bellezza ed esperienza di civiltà» Luce sull’Archeologia-X edizione Roma, Teatro Argentina fino al 14 aprile Info www.teatrodiroma.net

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ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

SPLENDORI DELLA DACIA 2

Le Terme di Diocleziano, una delle sedi del Museo Nazionale Romano, ospitano la mostra 1 «Dacia, l’ultima frontiera della Romanità», che ripercorre la storia della conquista di quella 3 ricca regione da parte di Roma, completata dall’imperatore Traiano (1) nel 106 d.C. All’esposizione è dedicato lo Speciale di questo numero (vedi alle pp. 82-105) e qui documentiamo filatelicamente alcuni dei tesori riuniti per l’occasione. L’esordio del percorso 5 espositivo è affidato al calco (2, foto) di uno dei rilievi del fregio della Colonna Traiana, 4 6 raffigurante tre arcieri daci che tengono sotto tiro i soldati assediati in una guarnigione romana; la stessa scena è ripresa da uno degli 8 oltre 50 interi postali di Romania dedicati alla colonna (3). Accanto sono esposti capolavori quali il Serpente Glykon da Tomi (4), 7 raffigurazione in marmo di un «demone buono»; il magnifico elmo d’oro di Cotofenesti 10 9 di manifattura tracia (5), con scene di sacrificio; il tesoro gotico di Pietroasele del IV secolo d.C. con le grandi fibule (6), l’eccezionale coppa d’oro lavorata a sbalzo (7) e altri oggetti quali 11 una patera (8) ed un’anfora (9). E poi ancora 12 armi (10), vasi (11) e monete (12). La prima sezione, della mostra è dedicata alla Dacia romana e all’epopea di Traiano sintetizzata 13 dalla già citata colonna eretta in onore delle sue gesta (13) e documentata da manufatti e 15 14 monetazione dell’epoca (14) e dal famoso ponte sul Danubio (15). La seconda sezione riporta la Dacia all’età del Ferro e all’inizio della sua cultura sotto gli influssi della cultura e dell’arte dei Traci e dei Greci; significativo è il tesoro dei Traci risalente al V-IV a.C. (16). La terza 18 parte copre il periodo dei primi contatti con i 16 17 popoli mediterranei e le vicende belliche con Alessandro Magno, i Celti, i Geto-Traci, IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); nonché l’apparire di Roma, con la per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o conquista della Macedonia (17, antiche al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi: piastrelle macedoni di terracotta). Segreteria c/o Luciano Calenda L’epilogo affronta la dissoluzione Sergio De Benedictis C.P. 17037 - Grottarossa dell’impero, la sempre maggiore Corso Cavour, 60 - 70121 Bari 00189 Roma segreteria@cift.club lcalenda@yahoo.it cristianizzazione (18) e la contemporanea oppure www.cift.it diffusione della lingua latina.

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CALENDARIO

Italia ROMA Caere

Storie di dispersione e di recuperi Museo delle Antichità Etrusche e Italiche, «Sapienza» Università di Roma fino al 28.02.24

La Roma della Repubblica

La Colonna Traiana

Il racconto di un simbolo Colosseo fino al 30.04.24

Fidia

Musei Capitolini, Villa Caffarelli fino al 05.05.24

Il racconto dell’archeologia Musei Capitolini, Palazzo Caffarelli fino al 24.03.24 (prorogata)

ASCEA (SALERNO) Elea: la rinascita Spina etrusca a Villa Giulia

Un grande porto del Mediterraneo Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia fino al 07.04.24

Splendori Farnesiani

Il Ninfeo della Pioggia ritrovato Parco archeologico del Colosseo fino al 07.04.24

Parco Archeologico di Velia fino al 30.04.24

CERVIA (RAVENNA) La Chiesa Ritrovata

Le indagini a Prato della Rosa MUSA-Museo del Sale fino al 24.03.24

LEGNANO Alle radici del territorio La necropoli dell’età del Bronzo di Canegrate a 70 anni dallo scavo Palazzo Leone da Perego fino al 17.03.24

MILANO Tesori etruschi

La collezione Castellani tra storia e moda Fondazione Luigi Rovati fino al 03.03.24

Dacia

L’ultima frontiera della Romanità Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano fino al 21.04.24

Lo sguardo del tempo

Il Foro Romano in età moderna Foro Romano, Tempio di Romolo fino al 28.04.24 32 a r c h e o

Le vie dell’acqua a Mediolanum

Civico Museo Archeologico fino al 31.03.24

MODENA DeVoti Etruschi

La riscoperta della raccolta di Veio del Museo Civico Museo Civico fino al 24.03.24


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

NAPOLI Gli dei ritornano

I bronzi di San Casciano Museo Archeologico Nazionale di Napoli fino al 30.06.24

POMPEI L’altra Pompei

Germania BERLINO Derubate-Saccheggiate-Salvate (?) Le tombe di Qubbet el-Hawa Staatliche Museen, Neues Museum fino al 10.03.24

Vite comuni all’ombra del Vesuvio Parco Archeologico di Pompei, Palestra grande fino al 15.12.24

Grecia

RIO NELL’ELBA Gladiatori

Un giorno che ha cambiato il mondo Museo d’Arte Cicladica fino al 31.03.24

Museo Archeologico del Distretto Minerario fino al 01.11.24

ATENE Cheronea, 2 agosto 338 a.C.

SESTO FIORENTINO Archeologia svelata a Sesto Fiorentino

Momenti di vita nella piana prima, durante e dopo gli Etruschi Biblioteca Ernesto Ragionieri fino al 31.07.24

TORINO Trad u/i zioni d’Eurasia

Frontiere liquide e mondi in connessione. Duemila anni di cultura visiva e materiale tra Mediterraneo e Asia Orientale MAO-Museo d’Arte Orientale fino all’01.09.24

TRENTO-SAN MICHELE ALL’ADIGE Sciamani Comunicare con l’invisibile Palazzo delle Albere (Trento) METS-Museo etnografico trentino San Michele (San Michele all’Adige) fino al 30.06.24

Francia PARIGI Nella Senna

Ritrovamenti dalla preistoria ai giorni nostri Crypte archéologique de l’île de la Cité fino al 31.12.24

Il Met al Louvre

Dialoghi di antichità orientali Museo del Louvre fino al 29.09.25 (dal 29.02.24)

NANTES Gengis Khan

Come i Mongoli hanno cambiato il mondo Château des ducs de Bretagne Musée d’histoire de Nantes fino al 05.05.24

Paesi Bassi LEIDA L’anno Mille

I Paesi Bassi alla metà del Medioevo Rijksmuseum van Oudheden fino al 17.03.24

Regno Unito LONDRA Legionari

La vita nell’esercito romano British Museum fino al 23.06.24

Stati Uniti NEW YORK L’Africa e Bisanzio

The Metropolitan Museum of Art fino al 03.03.24

Svizzera BASILEA Iberi

Museo delle antichità di Basilea e Collezione Ludwig fino al 26.05.24 a r c h e o 33


GR FU AN RT DE I D AV ’A VE RT NT E UR A LA

LA NUOVA MONOGRAFIA DI ARCHEO

LA GRANDE RAZZIA di marco di branco

L’AVVENTUROSA STORIA DEI FURTI D’ARTE DALL’ANTICHITÀ AI GIORNI NOSTRI


La caduta di Costantinopoli, dipinto del Tintoretto (al secolo Jacopo Robusti). 1580 circa. Venezia, Palazzo Ducale, Sala del Maggior Consiglio

S

econdo recenti stime dell’UNESCO, il traffico clandestino di opere d’arte e reperti archeologici è uno dei piú fiorenti business illegali praticati nel mondo e l’attività dei molti attori che alimentano la filiera è ben lontana dalla visione un po’ romantica e avventurosa dei cacciatori di tesori sette/ottocenteschi. D’altro canto, il desiderio di impossessarsi – anche con soprusi e violenze – delle piú felici espressioni dell’ingegno e della creatività di pittori, scultori e maestri artigiani ha radici antiche e proprio da questa considerazione prende spunto la nuova Monografia di «Archeo», che ripercorre la storia millenaria di una passione per l’antico che non ha esitato a trasformarsi in autentica razzia. Potrà forse sorprendere, ma le prime testimonianze a oggi note di simili pratiche si collocano nell’antica Mesopotamia, dove il principio secondo il quale «il bottino spetta al vincitore» fu a piú riprese applicato da tutte le grandi civiltà che si succedettero in quelle terre. Una logica alla quale non si sottrassero, piú tardi, gli eserciti di Roma e poi, per esempio, i Veneziani impegnati nella quarta crociata, responsabili, nel 1204, di uno dei piú colossali saccheggi della storia: quello perpetrato ai danni di Costantinopoli. Pagine poco gloriose di una vicenda destinata ad avere una folta schiera di epigoni anche in epoche piú vicine alla nostra, come provano le spoliazioni napoleoniche ai danni del patrimonio italiano o la sistematica caccia al tesoro scatenata dal regime nazionalsocialista, solo in parte risarcita dopo la caduta del Terzo Reich e la fine del secondo conflitto mondiale. Una storia, dunque, assai lunga, che la Monografia ripercorre con ritmo avvincente, forte di un ricco e spesso inedito corredo iconografico.

GLI ARGOMENTI

• MESOPOTAMIA • IN EGITTO, I PRIMI «TOMBAROLI» • GRECIA E ROMA • CROCIATE E RAZZIE • LE CAMPAGNE NAPOLEONICHE

in edicola

• L’ARTE COME PREDA DI GUERRA • UN BUSINESS PLANETARIO a r c h e o 35


REPORTAGE • TURCHIA

CON VIRGILIO E OMERO

FRA STORIA E LEGGENDA Il sarcofago marmoreo ornato da rilievi raffiguranti la vicenda di Polissena, figlia di Priamo, sgozzata per vendetta da Neottolemo, figlio di Achille, davanti alla tomba del padre, dopo la caduta di Troia. VI sec. a.C. Troia, Museo. 36 a r c h e o


CON IL SUO NUOVO, AVVENIRISTICO MUSEO, TROIA È IL PUNTO DI PARTENZA DI UN PERCORSO ALLA SCOPERTA DI UN TERRITORIO RICCO DI GLORIOSE E SPETTACOLARI TESTIMONIANZE. MA È ANCHE UNO DEI POLI PIÚ IMPORTANTI DELLA ROTTA DI ENEA, UNO DEGLI ITINERARI CERTIFICATI DAL CONSIGLIO D’EUROPA, CHE SI SNODA FRA TURCHIA, GRECIA, ALBANIA, TUNISIA E ITALIA di Daniela Fuganti a r c h e o 37


REPORTAGE • TURCHIA

U

na brezza leggera muove le foglie degli ulivi che circondano le antiche rovine, sulla collina di Hissarlik (Turchia). Dalla parte piú alta della collina, dove un alberello indica il punto in cui Heinrich Schliemann aveva scoperto il famoso «Tesoro di Priamo», si indovinano in lontananza le navi che solcano i Dardanelli. Per chi visita Troia, la prima tangibile impressione è quella di trovarsi in un luogo sacro. «Dopo l’incendio di Troia/Ilion e la distruzione della città nel 1180 a.C. (presunta data della guerra di Troia) – spiega Rüstem Aslan, attuale direttore degli scavi – il sito fu abbandonato per molto tempo. Ma con la ripresa, nell’VIII secolo a.C., degli scambi commerciali in tutto il Mediterraneo, i Greci approdarono nella città in rovina di Hissarlik Tepe (Troia/Ilion), della quale si potevano

Il Museo di Troia, realizzato su progetto dell’architetto Ömer Selçuk Baz. Nella pagina accanto: tavoletta recante il testo di un accordo tra Alaksandu, re di Wilusa (nome ittita di Troia), e il re ittita Muwatalli II, da Hattusa. 1280 a.C.

vedere i resti che oggi sappiamo essere databili alla tarda età del Bronzo, e lo considerarono un sito sacro.Vi si veneravano le tombe dei personaggi omerici, intorno alle quali erano sorte molte della tradizioni mitiche locali».

In effetti, sulle tracce delle vestigia di un passato eroico, da qui passarono Serse di Persia nel 480 a.C., e Alessandro Magno nel 334 a.C. Vi approdò anche Augusto, che commissionò a Virgilio il grande poema epico dell’impero romano, l’Eneide

Mappa della Rotta di Enea. Certificato dal Consiglio d’Europa, l’itinerario, che attraversa i paesaggi del Mediterraneo, è stato promosso nel 2018 dall’Associazione Rotta di Enea, in collaborazione con il Comune di Edremit (Turchia), con la Fondazione Lavinium (Italia) e con numerosi enti e istituzioni a livello internazionale.

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REPORTAGE • TURCHIA

In alto e nella pagina accanto: altre vedute del sarcofago di Polissena, recuperato nel 1994 grazie a un intervento di scavo di salvataggio a Gümüsçay, nei pressi di Biga (un centinaio di chilometri a nord-est di Çanakkale). Scolpito in marmo proconnesio, misura 3,32 m di lunghezza, è largo 1,60 m, mentre l’altezza massima è di 1,78 m.

A destra: un particolare dell’allestimento del Museo di Troia. Al centro, una statua di Adriano, rinvenuta nel 1993 nell’Odeon, individuato al livello Troia IX. L’imperatore visitò Ilium nel 124 d.C. e promosse interventi di rinnovamento e abbellimento della città. 40 a r c h e o


Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

(30-19 a.C.), nel quale l’autore canta un mito dalle radici remote: Enea, figlio del mortale Anchise e della dea Afrodite, in fuga da Troia in fiamme, intraprende un lungo viaggio per mare verso l’Occidente. Il suo destino, stabilito dal Fato, è quello di raggiungere una nuova patria

per i Troiani e di dare vita a una nuova stirpe.Virgilio identifica Ascanio, figlio di Enea, con Iulo, progenitore della gens Iulia, in modo che Giulio Cesare e il suo figlio adottivo Ottaviano, poi Augusto, possano vantare una prestigiosa discendenza semidivina originata da Enea.

Emblema dell’incontro possibile fra culture diverse e dunque di speranza nel futuro, il periplo dell’eroe troiano fa parte degli itinerari culturali del Consiglio d’Europa (finora quarantotto, il primo dei quali fu il Cammino di Santiago di Compostella nel 1987). La Rotta di Enea a r c h e o 41


REPORTAGE • TURCHIA

segue l’ordine narrato da Virgilio e, partendo da Troia-Antandros, unisce le sponde di Turchia, Grecia, Albania e Tunisia, per approdare a Lavinio in Italia. Rüstem Aslan sottolinea l’importanza strategica della città, all’incrocio tra due continenti (Europa e Asia), e due mari (Egeo e Mar Nero): «Sia l’architettura che i reperti risalenti alla tarda età del bronzo – spiega – mostrano che questa era una delle principali città commerciali dell’Anatolia, situata tra l’impero ittita a est e il regno miceneo in Grecia». Gli scavi hanno portato alla luce dieci insediamenti principali e centinaia di fasi di ricostruzione. Oggi il mare si trova a cinque chilometri di distanza, ma i resti della rocca e del magnifico palazzo di Priamo identificati nel livello Troia VI, cioè quello dell’insediamento denominato omerico, circondati dalle possenti mura, sono ancora visibili camminando sulla passerella in legno che si snoda nell’area archeologica. Cosí come lo sono le 42 a r c h e o

mura con le porte monumentali (le porte Scee), e i fossati anticarro della città bassa, che si sviluppava verso sud, con vie pavimentate, canali di drenaggio delle acque, e nella quale risiedeva una popolazione calcolata intorno ai diecimila abitanti. Una rete di tunnel garantiva la fornitura di acqua da una fonte sotterranea.

QUASI COME UN’ASTRONAVE I preziosi reperti rinvenuti nei dieci livelli sovrapposti della città raccontano i miti e le leggende che in cinquemila anni di storia si sono succeduti in questi luoghi, e dal 2018 sono custoditi nel nuovo museo a forma di cubo, rivestito di pannelli in acciaio color ruggine, innalzato a un chilometro dal sito archeologico. Il progetto del futuristico edificio, che ha il suo ingresso nel sottosuolo proprio come Troia, è del giovane architetto turco Ömer Selçuk Baz: potrebbe ricordare un’astronave, proponendosi come un oggetto atemporale, piovuto dal cielo o scavato nel terreno...

Il sogno iniziale di veder confluire in questo meraviglioso scrigno tutti i manufatti trovati a Troia ma esposti altrove – primo fra tutti il celebre Tesoro di Priamo, esportato illegalmente da Heinrich Scliemann – non sembra per il momento potersi realizzare. Alle numerose richieste di rimpatrio, ha risposto affermativamente solo il Penn Museum della University of Pennsylvania (Philadelphia, USA), restituendo ventiquattro oggetti in oro. Al momento, quindi, la maggior parte dei reperti esposti proviene da quattro musei turchi: Çanakkale, Smirne, Ankara e Istanbul. All’interno dell’edificio, una scala elicoidale conduce agli spazi espositivi – che raccontano anche la storia delle antiche città della Troade come Asso, Alessandria Troade, Chrisa – e alla terrazza sul tetto, dalla quale si gode della suggestiva vista sui campi e sulle rovine di Troia. Ma la guerra di Troia è stata combattuta veramente? Il professor Aslan si sofferma davanti a una preziosa tavoletta d’argilla proveniente


In alto e in basso: materiali facenti parte del ricchissimo corredo rinvenuto all’interno del Tumulo di Dardanos, composto da poco meno di 500 oggetti, tra cui monili, resti di sandali in cuoio, unguentari e strumenti musicali. Nella pagina accanto: il lungo corridoio di ingresso del Tumulo di Dardanos, databile al VI sec. a.C.

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REPORTAGE • TURCHIA A sinistra, a destra e in basso, sulle due pagine: ghirlande e corone in oro facenti parte del corredo rinvenuto nel Tumulo di Dardanos. I preziosi manufatti mostrano evidenti somiglianze con quelli rinvenuti nelle tombe di Verghina, in Macedonia.

dall’archivio imperiale di Hattusa ed esposta al museo, poiché – spiega – i documenti scritti attestanti che la guerra di Troia avrebbe potuto essere un evento storico non provengono da Troia, ma appunto da Hattusa, capitale dell’impero ittita (1700-1200 a.C.). Scritta in lingua luvia nel 1280 a.C., questa tavoletta sancisce un accordo di vassallaggio, alleanza e protezione tra Alaksandu, re di Wilusa (nome ittita di Troia), e il grande sovrano ittita Muwatalli II. Ora, Alessandro era il secondo nome di Paride, figlio di Priamo... Il ParideAlessandro di Omero può dun-

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que essere assimilato a Alaksan- colari del museo è senza alcun du, re di Wilusa? dubbio il sarcofago in marmo detto di Polissena. Scoperto UN’EPOCA TORMENTATA pressoché intatto nel 1994, in «I documenti dell’archivio ittita un tumulo situato a Gümüsçai, – sottolinea il professore – di- vicino a Biga, è ornato da riliemostrano che il periodo 1400- vi, scolpiti verso la fine del VI 1200 a.C. fu segnato da tensioni secolo a.C., che raffigurano una e conflitti.Tuttavia, nessun testo solenne processione religiosa e fornisce una prova incontrover- la straziante scena di Polissena, tibile che l’epopea della guerra figlia del re di Troia Priamo, omerica sia stata davvero un sgozzata per vendetta da Neotevento storico. Le prove che tolemo, figlio di Achille davanAchei e Troiani si siano scontra- ti alla tomba del padre dopo la ti a Hissarlik Tepe vanno quindi caduta di Troia. ricercate nel corrispondente Un capolavoro dal valore inestrato di materiale danneggiato stimabile, che rivaleggia con il tesoro principesco rinvenuto al livello corretto». Uno dei manufatti piú spetta- nel 1959 in un tumulo nei pres-


si dell’antica Dardanos, cioè nel luogo in cui, secondo la tradizione, nacque Enea. Arrivando a Dardanos, si scopre che la città antica non esiste piú, ma si può rimediare alla delusione con... un tuffo nelle acque trasparenti di un mare meraviglioso. Il tumulo si trova a circa un chilometro, in piena campagna. Si tratta di uno dei piú importanti ritrovamenti nella storia della regione, secondo solo alla stessa Troia. La tomba in pietra, lunga 12,40 m e alta 3,45, risale al VI secolo a.C. Ne segnala la presenza un cartello un po’ scolorito, che recita: Dardanos Tümülüsü.

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

A destra: statuetta in terracotta della dea Afrodite, con serpenti attorcigliati attorno alla gamba e al braccio sinistri, dal Tumulo di Dardanos. II sec. a.C.

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REPORTAGE • TURCHIA

Il sepolcro non è custodito e vi si penetra facilmente: si compone di un corridoio, un vestibolo e una camera funeraria, ed è orientato lungo gli assi nord-ovest e sud-est. Nella parete di fondo e ai lati, tre pietre incavate dovevano ospitare i resti umani ritrovati, fra cui 42 teschi e diverse urne cinerarie.

SIMBOLI DI SAGGEZZA E DI GLORIA Composto da ben 470 oggetti, il corredo funerario che accompagnava i defunti è oggi uno dei fiori all’occhiello del nuovo museo: figurine in terracotta, fra cui una magnifica Afrodite; lampade a olio e bottigliette per profumi; resti di indumenti in lana; bottoni in osso; frammenti di sandali in cuoio; ce46 a r c h e o

stini, strumenti musicali; frammenti di mobilio; utensili in oro, argento, bronzo, ferro e piombo. Ma la parte piú spettacolare è la collezione di gioielli in oro che comprendeva corone e ghirlande, medaglioni e orecchini, quasi tutti del periodo ellenistico. Le ghirlande in oro ritrovate sono simili a quelle di Filippo II di Macedonia, tanto ammirate nel suo tumulo di Verghina, e mostrano che il loro uso non era limitato alla Macedonia e ai re: erano leggere da indossare, probabilmente simbolo di saggezza e gloria. Un premio per gare atletiche per esempio, piú che un simbolo di potere o di sovranità. «Nonostante l’importanza di questo sito, e i suoi inestimabili contenuti – commenta Salin, la nostra guida

turca –, esistono pochi studi sistematici sull’argomento». Il tumulo di Dardanos prende nome dal mitico fondatore di Troia, come recita Virgilio nell’Eneide: «Dardano primo fondatore e padre della città iliaca» (libro 8.134). La struttura dell’Eneide riposa in effetti su una certezza: Enea ripercorre a ritroso, da Troia verso l’Italia, il viaggio compiuto dall’avo Dardano, partito dall’etrusca Corito (oggi Cortona, «Madre di Troia e nonna di Roma», secondo un antico proverbio) alla volta della Troade, presso lo stretto dei Dardanelli, che da lui prende il nome. Seguendo la litoranea che per alcune decine di chilometri punta verso sud per raggiungere Antandros (l’odierna Avcilar) nel golfo di Edremit, dove Enea aveva costruito i suoi


Sulle due pagine: veduta aerea e un particolare della decorazione del tempio di Apollo Sminteo a Chrisa (oggi Gülpinar). Il curioso epiteto qui assegnato ad Apollo, «Sminteo», è legato al vocabolo smínthos, che in greco antico vuol dire «topo», e deriva da uno dei miti sulle origini della Troade.

battelli, s’incontrano tre gioielli dell’antica Misia. Alessandria Troade, di fronte all’isola di Tenedo, è un porto naturale, simmetrico a Istanbul. In epoca romana era cosí importante che Costantino ipotizzò di elevarla a capitale dell’impero prima di optare per Bisanzio. Fondata da Antigono, generale di Alessandro, e da lui popolata con gli abitanti delle città asiatiche vicine, fu colonizzata da Augusto. Circondati dalle mura, ma ancora visibili, i resti di colonne e fregi cospargono il suolo. Una stele indica che Aristotele e Seneca erano passati da qui. Al centro del foro la base di un tempio, costruito da Augusto e, accanto, tracce di una fontana circolare. Vi è anche un teatro (ancora da scavare), che poteva accogliere fino a 15 000 spettatori.

LE REGOLE DEI GIOCHI Nel 2003 è venuta alla luce una lapide dell’epoca di Adriano, che investí molto sulla città: contiene le regole per i concorrenti dei vari agones (gare), relative alla distribuzione dei premi in denaro ai vincitori e alle sanzioni contro i responsabili delle violazioni. A qualche

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REPORTAGE • TURCHIA

centinaio di metri, una grande arcata indica l’ingresso delle fastose terme finanziate dal ricco Erode Attico. Dalle acque del porto, costruito da Augusto e situato a un paio di chilometri, affiorano resti di colonne sommerse; accanto, un lago artificiale, destinato al parcheggio dei navigli in attesa che i venti dei Dardanelli si placassero, è chiamato Pink Lake a causa dei micro-organismi che in certi periodi lo colorano di rosa. Secondo gli Atti degli Apostoli, Paolo di Tarso salpò proprio da qui alla volta dell’Europa.

APOLLO E I TOPOLINI Camminiamo su una strada sacra lastricata, nella quale scavi recenti hanno portato alla luce iscrizioni votive, che i pellegrini percorrevano a piedi per raggiungere il santuario di Apollo Sminteo, che si trova circa 30 km a sud, nei pressi di Chrisa, sul capo Baba Burnu. E questo è un luogo di culto davvero mitico, celeberrimo nell’antichità. La vista sul mare è splendida, e un silenzio magico avvolge i resti del tempio del II secolo a.C. – unico esempio di stile ellenistico nell’Anatolia occidentale – che sorge su un sito antichissimo, presso l’odierno villaggio di Gülpinar. Su un angolo della gradinata del tempio, nel 2018, è stata realizzata un’installazione consistente in un nugolo di topolini che sembrano volersi arrampicare verso la cella, a evocare il fatto che l’Apollo qui venerato è il signore dei topi, un culto proveniente dall’isola di Creta. Sui resti delle colonne e sulle lastre del fregio, custoditi nel piccolo museo adiacente, sono scolpite scene del ciclo troiano. La memoria della divinità in questione affonda le radici nella tradizione omerica, poiché, secondo i versi dell’Iliade, questo era il santuario oracolare votato ad Apollo Smintheus, amministrato dal sacerdote Crise. Fu quest’ultimo, infatti, a invocare lo Sminteo affinché diffondesse un’epidemia di peste nell’accampamento degli Achei, 48 a r c h e o

Assos. I resti del tempio di Atena, eretto, in stile dorico, intorno al 530 a.C. Poggiava su uno stilobate di 30,31 x 14,03 m, con 6 colonne sui lati brevi e 13 su quelli lunghi. Sullo sfondo, è parzialmente visibile l’isola di Lesbo.


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REPORTAGE • TURCHIA

dopo che Achille aveva rapito sua figlia Criseide, e l’aveva consegnata come bottino di guerra ad Agamennone. L’epidemia poi scatenata contro gli Achei da Apollo, sdegnato per il rapimento, costrinse il condottiero a renderla al padre; ma lo indusse a pretendere in cambio Briseide, già assegnata ad Achille, e la conseguente ira funesta dell’eroe sarà il punto di partenza narrativo dell’Iliade. Al potente centro anatolico – nel quale scavi compiuti negli anni Ottanta hanno portato alla luce molte strutture con bagni, residenze e strade sacre – erano collegate altre località della regione. Sicuramente la piú spettacolare è Asso, all’interno del golfo di Edremit. Tra ulivi e pa-

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scoli si ergono sull’acropoli che domina la città le rovine del tempio dorico (530 a.C.) consacrato ad Atena. La vista assolutamente unica sul Mar Egeo, sul golfo e sull’isola di Lesbo vale da sola l’intero viaggio. A sud dell’agorà, le possenti mura e le porte monumentali sono ancora in piedi; sulle pendici rocciose della collina sorge il teatro, rinnovato in epoca romana, ancora utilzzato per rappresentazioni estive.

LA CITTÀ DEI FILOSOFI Ad Asso Aristotele trascorse tre anni della sua vita, fondando, dopo la morte di Platone nel 347 a.C., la sua prima scuola filosofica. Sposò Pizia, la nipote di Ermia, signore e tiranno

della città, divenuto suo amico dopo averlo conosciuto ad Atene alla scuola di Platone. Ad Asso nel 331 a.C. era nato anche Cleante, successore di Zenone e fondatore della scuola filosofica degli stoici. Ultima tappa del nostro periplo è Antandros, oggi Avcilar, non lontano da Edremit. Qui – narra Virgilio – alle falde del monte Ida, sacro alla dea Cibele, Enea e i suoi compagni costruirono la flotta di venti navi che li condusse in Italia. Sul monte Ida, luogo dal fascino straordinario, ricco di cascate e vegetazione lussureggiante, Paride figlio di Priamo ed Ecuba, fu chiamato dagli dèi a dare un giudizio su quale delle tre dee – Era, Atena


In alto: l’elegante mosaico policromo che orna il pavimento di un ambiente della «Villa Marittima» riportata alla luce ad Antandros. A sinistra, sulle due pagine: resti di strutture facenti parte del complesso residenziale di epoca romana scoperto ad Antandros.

e Afrodite – fosse la piú bella, creando cosí l’antefatto che portò alla guerra di Troia. Ma anche Anchise si giocò il proprio destino su questo monte, teatro dei suoi amori con la dea Afrodite. Per averli rivelati ed essersene vantato in un momento di ubriachezza, Zeus lo puní e lo rese zoppo.

VILLA CON VISTA MARE I primi tentativi di individuare Antandros, di cui non si conosceva l’esatta ubicazione, risalgono a Heinrich Schliemann. Ma solo dal 2001 sono state avviate campagne di scavo sistematiche, dirette da Gürcan Polat dell’Università di Smirne, il quale ha identificato Antandros nel sito di Altinoluk, vicino a Edremit. Gli scavi sono in corso, e il professor Polat ci accompagna a visitare la maestosa villa residenziale di epoca romana che lui e la sua équipe hanno portato alla luce: costruita nel IV secolo d.C., e utilizzata fino al VI-VII secolo, si estende su 1800 mq, e tutti gli ambienti affacciano su una spettacolare terrazza che guarda il mare. Decorate con marmi, mosaici e pitture parietali, le sei stanze principali della villa – di cui la prima, il triclinio, conserva un magnifico pavi-

mento in mosaico e pareti decorate con figure di servitori – si allineano su trenta metri di porticato. Sviluppata su tre livelli, collegati da scale semicircolari, la «Villa Marittima» era dotata di un sistema di fognature perfettamente conservato. Le terme erano collegate a un pozzo, situato al centro del cortile della terrazza inferiore, che raccoglieva l’acqua fredda della montagna. È probabile che alla residenza appartenessero anche sette botteghe, allineate l’una accanto all’altra. Con il professore raggiungiamo la spettacolare necropoli individuata a sud del sito, sui bordi dell’autostrada che costeggia il mare. Su una superficie di 1400 mq sono state scoperte, a oggi, 529 tombe, facenti parte di un sepolcreto che fu in uso per per 700 anni, dall’VIII al I secolo a.C. Sotto una tenda al riparo dal sole, il professor Polat illustra i suoi progetti per l’immediato futuro: un percorso «immersivo», con effetti visivi, da realizzare entro il 2025. Ma anche un altro progetto gli sta a cuore. Ricostruire la nave di Enea, con il legno e le resine che vennero utilizzate all’epoca, e che si trovano ancora oggi sul monte Ida. La Fondazione Borghese di Roma ne sarà forse il generoso mecenate. a r c h e o 51




ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/13

UN AMERICANO A ROMA

AUTORE ECLETTICO E PROLIFICO, GORE VIDAL SI CONCESSE RIPETUTE INCURSIONI NEL MONDO ANTICO, CONFEZIONANDO, FRA GLI ALTRI, UN RITRATTO DI GIULIANO L’APOSTATA. LA SUA BIOGRAFIA DEL PRINCIPE «ERETICO» SI BASA SU UN’INVENZIONE LETTERARIA, CHE PERÒ, FORTE DI UNA SOLIDA DOCUMENTAZIONE, OFFRE UNA RICOSTRUZIONE PIÚ CHE CREDIBILE DEL PERSONAGGIO E DEL SUO TEMPO di Giuseppe M. Della Fina Lo scrittore Gore Vidal (1925-2012), in una foto scattata nell’anno della morte. Nella pagina accanto: busto in marmo cosiddetto «di Giuliano l’Apostata». IV sec. Roma, Musei Capitolini.

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L

o scrittore e saggista Gore Vidal incontrò lo storico del mondo antico Moses I. Finley a Roma nella biblioteca dell’American Academy. Fu un incontro casuale: tra mucchi di libri posizionati su un tavolo comune, all’improvviso, si trovarono faccia a faccia. Erano i mesi in cui lo scrittore stava scrivendo Creation (Creazione, nella successiva edizione italiana), pubblicato poi nel 1982. Si riconobbero e lo storico gli disse di avere molto apprezzato il suo romanzo Giuliano (Julian, nell’edizione originaria in lingua inglese, data alle stampe per la prima volta nel 1964, mentre la prima traduzione italiana, per i tipi di Rizzoli, è del 1969), e Gore Vidal confidò che lo stava «impietosamente saccheggiando» per la stesura del suo nuovo romanzo. L’episodio è raccontato dallo scrittore nell’introduzione a un’edizione italiana del romanzo dedicato all’imperatore romano del IV secolo d.C. (Fazi Editore). L’incontro fu l’occasione per lo scrittore di chiedere allo storico se un suo collega, che si era occupato di Zoroastro, fosse attendibile. Al che Finley rispose: «Il migliore in quel campo. Naturalmente, come


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ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/13

L’impero di Roma nel IV secolo (le date tra parentesi indicano gli anni di regno)

Ritratto in marmo dell’imperatore Costantino I. 305-306 circa. Copenaghen, Ny Carlsberg Glyptotek.

Elena

Flavio Costanzo (305-306)

Costantino I

Minerva

Fausta

(306-337)

Costantino II

Crispo

(337-340)

Costante (337-350)

Costanza

Costanzo II

Faustina

(337-360)

Graziano (367-383)

Costanza Elena

Qui sopra: solido di Graziano con, al dritto, la testa diademata dell’imperatore. 375-383 circa. Collezione privata. A destra: medaglione in oro di Costanzo II, con elmo, lancia e scudo. 353-361 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Qui accanto: solido di Giuliano l’Apostata, con diadema di perle, corazza e paludamento. 361-363 circa. Collezione privata.

tutti noi, inventa quasi tutto quello che scrive». Una risposta che colpí Vidal e lo fece riflettere sul fatto che: «senza l’immaginazione storica, anche la storia convenzionale è priva di valore». Un’affermazione che si può condividere o meno, o anche solo parzialmente, ma, per intenderla, occorre ricordare che Vidal, come segnala a conclusione dello scritto, lavorò cinque anni, dall’aprile 1959 al 6 gennaio 1964, per por56 a r c h e o

Giuliano (360-363)


approfondite r icerche svolte sull’imperatore e sugli anni in cui visse: Giuliano era nato a Costantinopoli nel 331 e morí a Maranga, presso Ctesifonte, nel 363 d.C. Gli altri due protagonisti del romanzo – Libanio e Prisco – si scambiano e commentano quei documenti accettandoli nella sostanza, ma anche introducendo interpretazioni diverse dei fatti narrati dall’imperatore e nuovi accadimenti. In questo modo lo scrittore ricava una lettura su piú piani della figura di Giuliano, delle sue scelte e del periodo storico in cui si trovò a vivere e a operare: un accorgimento che consente, al conMEMORIE PERICOLOSE Nella trama romanzesca, Prisco tempo, d’inserire interpretazioni dis’impadronisce di entrambi appena verse sul personaggio e sui decenni dopo la morte di Giuliano, temen- in esame e dare una forza narrativa maggiore al rodo che possano manzo, che nei caessere distrutti. pitoli finali assume Test imoni anz e i contorni di un che Libanio vorgiallo, destinato a rebbe pubblicare risolversi solo nelad anni di distanle ultime righe. za dagli avveniLa vita di Giuliamenti e con Teono è narrata dalla dosio sul trono. fanciullezza e i Gli indirizza una primi ricordi evirichiesta in propodenziati sono un sito, ma il nuovo i n c o n t ro c o n imperatore non lo l’imperatore Coconsente, ritenenstantino, di cui do quelle memoera nipote («Ho rie ancora troppo ancora il vago ripericolose: «L’Aucordo di un gigusto ha letto la g a n t e, m o l t o tua lettera, con profumato, con l’interesse che meindosso una veste rita ogni tuo scritto. Mi ha ordinato di dirti La copertina della rigida, tempestata di gemche in questo momento prima traduzione me»), e l’arresto del padre Giulio Costanzo: «A meznon è possibile pubblicare italiana di una biografia del defunto Giuliano (Rizzoli, zo isolato di distanza, vidi mio padre camminare in Augusto Giuliano». Un 1969) e quella mezzo a un manipolo di compito che Gore Vidal dell’edizione soldati, guidati da un gio– a grande distanza di curata da Fazi vane tribuno. Gridando, tempo – vuole riprendere. nel 2003 Si tratta – come già ram- (in alto, a destra). lo seguii. I soldati non si fermarono, ma mio padre mentato – di documenti si voltò, continuando a immaginari, che lo scritcamminare. Il suo viso era tore ricostruisce sulla base piú pallido della cenere di della sua sensibilità e delle tare a termine il romanzo su Giuliano. Non era quindi un invito a scrivere in fretta, senza approfondimenti e con faciloneria. Il romanzo racconta la figura dell’imperatore dalla sua giovinezza sino alla morte attraverso la testimonianza di tre personaggi principali: lo stesso Giuliano e i filosofi Libanio e Prisco. La testimonianza dell’imperatore è affidata a immaginarie memorie della sua vita e a un diario, anch’esso d’invenzione, in cui descrive la campagna intrapresa contro i Persiani.

MENO TAXI PER VIDAL! In Italia l’opera di Gore Vidal è legata soprattutto all’editore Fazi, che ha pubblicato numerosi suoi libri. Nel caso di Giuliano, nel 2003, è stata proposta un’edizione che si avvale della traduzione di Chiara Vatteroni e di una postfazione di Domenico De Masi (piú volte ristampata). In un articolo sul Foglio (13 giugno 2022), scritto in occasione dei dieci anni dalla morte dello scrittore statunitense, Michele Masneri ricostruisce il rapporto con l’editore italiano attraverso il ricordo di Elido Fazi, che lo conobbe e frequentò. Quando per motivi professionali si recava Roma, lo scrittore alloggiava soltanto all’Hotel d’Inghilterra, a pochi passi da piazza di Spagna, che era il suo preferito. Vi si rammenta anche una sorta di rivolta sindacale scoppiata in casa editrice al motto: «meno taxi per Vidal!». La notizia fu riferita allo scrittore, che si divertí molto.

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ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/13

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Suggestive vedute di Istanbul sotto la neve (a sinistra, S. Sofia; a destra, l’Ippodromo): un’atmosfera simile, seppure con un paesaggio urbano completamente mutato, a quella descritta nelle pagine di Giuliano, quando l’imperatore racconta del suo arrivo nella città sul Bosforo.

FIOCCHI DI NEVE COME PIUME NELL’ARIA Lo scrittore ha immaginato l’ingresso di Giuliano, divenuto Augusto, nella sua capitale imbiancata dalla neve: «L’11 dicembre 361 entrai a Costantinopoli come imperatore romano. Nevicava, di tanto in tanto, e i grossi fiocchi erano come piume nell’aria, immobile come in un giorno d’estate (...) La natura era grigia, quel giorno; l’unica nota di colore la davano gli uomini: e che colore!».

un fuoco di legna». Il padre venne d.C.] e io vivemmo con il vescovo poi ucciso con l’accusa di aver par- Eusebio a Nicomedia e, successivamente, a Costantinopoli». tecipato a una congiura. La descrizione degli anni di formazione di Giuliano offrí a Gore Vidal SOPRAVVISSUTO l’occasione per dipingere il clima di A SORPRESA Una sorte che sarebbe potuta tocca- una corte chiusa, sospettosa, nella re a Giuliano stesso, seppur giova- quale si è pronti a ogni nefandezza nissimo: «Quella notte non dissi per difendere il potere raggiunto, o nemmeno una parola. E, anche se per cercare di scalarlo. Lo sguardo è avevo solo sei anni, continuavo a concentrato sulla corte imperiale ripetermi: stai per morire (...) Con romana, ma fa riferimento chiaranostra grande sorpresa, sopravvi- mente ad altri ambienti chiusi e vemmo. Per cinque anni, Gallo [de- oppressivi piú vicini cronologicastinato a divenire Cesare per l’O- mente a lui e a noi. riente nel 350 e poi ucciso nel 354 Lo scrittore segue la formazione a r c h e o 59


ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/13

iniziale cristiana di Giuliano e poi l’allontanamento progressivo da essa, sino a divenire l’imperatore che cercò di rivitalizzare la religione greco-romana e tentare di fermare

l’avanzata del cristianesimo guadagnandosi l’epiteto di Apostata. Nella scelta di Giuliano – portata avanti tra lo scetticismo di alcune delle persone piú vicine a lui –

Una foto scattata sul set di Ben Hur, nel 1959. Da sinistra: il regista William Wyler; Christopher Fry e Gore Vidal, che collaborarono alla sceneggiatura; l’attore Charlton Heston.

STATUNITENSE DOC, MA CON L’ITALIA NEL CUORE Gore Vidal era nato a West Point, nello Stato di New York, nel 1925. Diplomato alla Phillips Exeter Academy, si arruolò in Marina durante la seconda guerra mondiale. Terminato il conflitto, iniziò la sua intensa attività di scrittore e saggista. Non si deve dimenticare che fu anche sceneggiatore per il cinema e per la televisione e autore di testi per il teatro. La collaborazione alla sceneggiatura del film Ben Hur gli offrí l’occasione per stabilirsi in Italia, dove ha vissuto a lungo, tra Roma e Ravello. Nipote del senatore democratico Thomas Gore, imparentato con

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la famiglia Kennedy, ebbe anche interessi politici durante tutta la vita: nel 1960 si candidò senza successo per la Camera nel seggio di New York e, nel 1982, corse per un seggio da senatore della California, anche in questo caso senza riuscire a essere eletto. Nella sua opera ha posto attenzione soprattutto alla storia degli Stati Uniti d’America dai suoi albori sino agli anni a lui contemporanei. I romanzi storici – come Julian – sono in fondo il racconto e l’esame critico di un’egemonia esercitata prima di quella statunitense. Gore Vidal è morto a Los Angeles nel 2012.


ROMA, CAPITALE DELLE ILLUSIONI Gore Vidal e Federico Fellini si conobbero negli studios di Cinecittà: il regista vi stava girando La dolce vita e lo scrittore seguiva le riprese di Ben Hur, essendo stato chiamato per lavorare alla sceneggiatura del film. Tra i due nacque un’amicizia e Fellini lo volle in una scena nel suo film Roma (1972):

influirono, a giudizio dello scrittore, il peso della tradizione, ritenuta la colonna portante dell’impero; l’osservazione delle divisioni e delle lotte presenti nel mondo cr istiano e i compor tamenti tutt’altro che in linea con il messaggio evangelico tenuti da persone convertite al cristianesimo. L’attenzione nei capitoli successivi si sposta sui tempi e sui modi della conquista del trono. Il titolo di Cesare gli venne confer ito dall’imperatore Costanzo II: «Inaspettatamente, mi si riempirono gli occhi di lacrime. Non saprò mai se desideravo davvero il mio destino. Tuttavia, quando arrivò, dentro di me si ruppe un segreto ormeggio, e il viaggio periglioso cominciò». Era il 355 d.C.

lo scrittore è seduto su una sedia mentre attorno a lui si svolge la Festa de Noantri a Trastevere, riflette sulla città e afferma: «Roma è la capitale delle illusioni: la Chiesa, il cinema e la politica. Morta e rinata tante volte, è il posto perfetto per vedere se la fine del mondo arriva veramente, oppure no».

Un viaggio periglioso che lo portò inizialmente in Gallia, dove la situazione era deteriorata al punto che Giuliano arrivò a pensare che la nomina fosse stata una trappola per metterlo in seria difficoltà, o condurlo alla morte in battaglia o in una congiura di palazzo.

IL REGNO DELL’IPOCRISIA Una congettura verosimile dato che: «Una corte è il luogo piú deprimente del mondo. Ovunque ci sia un trono, si possono osservare in dettaglio tutte le follie e le malvagità di cui è capace l’uomo, coperte dallo smalto delle buone maniere e indorate dall’ipocrisia». Di nuovo, con chiarezza, lo scrittore non pensava soltanto al IV secolo d.C.

Federico Fellini durante le riprese del film Roma (1972), nel quale comparve anche Gore Vidal, che aveva stretto una solida amicizia con il regista.

Dalla Gallia, anni dopo, nel 360 d.C., ebbe inizio la ribellione di Giuliano: «Fu cosí che venne eletto Augusto: non dai romani, né secondo l’uso romano, ma dai barbari, secondo i loro rituali». Piú avanti, lo scrittore fa affermare a Giuliano: «non volevo usurpare il trono, desideravo solo essere riconosciuto da Costanzo come legittimo Augusto d’Occidente». La richiesta non era da poco e lo scontro divenne inevitabile, ma non ebbe luogo, dato che Costanzo II morí a seguito di una malattia e cosí Giuliano poté assurgere a r c h e o 61


ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/13

Ma r N e ro

Costantinopoli 10 giugno 362

Nicomedia Ancyra

Sardi

Artaxata

Armenia

Impero

Pessinunte

romano Amida

Mileto Carre 18 marzo

30

Tarso

Cipro

00

Callinicum 27 marzo Cercusium 1° aprile

Palmira Damasco

M ar Mediterraneo

Singara Tigri

Antiochia 5 marzo 363 65 000 uomini

ni mi Nisibis

o 0u

21 giugno 363 Battaglia di Maranga

Douras Europos Anatha 14 aprile Thilitha 17 aprile Diacira Eu

fra

Ctesifonte 26 maggio

te

Babilonia

Gerusalemme

3 giugno Partenza verso i territori interni della Persia

sassanide

Alessandria

Eliopoli

Petra

Spedizione fatale Giuliano intraprese la campagna sassanide al fine di conquistare il regno di Shapur II. Il 5 marzo 363, l’imperatore mosse da Antiochia, con 65 000 uomini. Poco meno di due settimane piú tardi, a Carre, divise le forze in due corpi d’armata, uno dei quali, guidato da Procopio, si sarebbe dovuto unire alle forze del re d’Armenia e quindi scendere lungo il Tigri. Dopo aver preso diverse città e fortezze nemiche, Giuliano, giunto fino a Ctesifonte, si ritirò per l’impossibilità di porre sotto assedio la capitale sassanide. Sulla strada del ritorno in patria, l’esercito romano sconfisse ancora le truppe di Shapur II, ma l’imperatore morí negli scontri.

Nella pagina accanto: l’imperatore Giuliano, detto «l’Apostata», particolare della Rinuncia alle armi di San Martino, affresco di Simone Martini. 1315-1318 circa. Assisi, basilica di S. Francesco, Chiesa inferiore, Cappella di S. Martino.

al trono: «Miracolosamente – solo perché il respiro di un uomo s’era fermato – ero diventato l’unico Augusto, l’imperatore di Roma, il signore del mondo. Con mio grandissimo stupore, piansi». Era il 361 d.C. Nei capitoli seguenti del romanzo si segue l’azione politica di Giulia62 a r c h e o

Regno

16 giugno Ritirata verso Corduene

bunali. Uno scrittore cristiano Rufino di Concordia (345 circa-410 d.C.), nella Storia ecclesiastica, lo evidenzia: «fu un persecutore piú astuto degli altri, poiché non ricorse alla violenza e ai tormenti». Poi procede narrando, attraverso l’immaginario diario ricuperato da Prisco, la campagna dell’imperatore Giuliano contro i Persiani, che avrebbe dovuto farne un nuovo Alessandro Magno, un mito sempre presente nel mondo antico, o avvicinarlo, almeno, a figure vincenti come Giulio Cesare o Traiano. Durante il suo svolgimento, dopo alcuni successi iniziali, trovò invece la morte nel corso di un combattimento. Era il 363 d.C., aveva 32 anni. Un anno in meno di Alessandro Magno.

no, sempre piú propensa a non fermare l’avanzata del cristianesimo tramite una repressione feroce, ma con provvedimenti capaci di limitarne la libertà di azione, come la rimozione degli insegnanti cristiani dalle scuole, o l’impossibilità per un NELLA PROSSIMA PUNTATA cristiano di governare le province e di amministrare la giustizia nei tri- • Gustave Flaubert


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SIGNORI DELL’ORO E DELL’ARGENTO PER CIRCA MEZZO MILLENNIO GLI IBERI FURONO LA PIÚ IMPORTANTE ETNIA DELLA SPAGNA PREROMANA E LA LORO CULTURA VISSE UNA STAGIONE DI GRANDE FIORITURA ANCHE GRAZIE AGLI SCAMBI CON ALTRI POPOLI DELLA REGIONE MEDITERRANEA. UNA VICENDA ORA RACCONTATA A BASILEA DA UNA MOSTRA CHE SI AVVALE DELLE ACQUISIZIONI RESE POSSIBILI DA RECENTI RICERCHE ARCHEOLOGICHE a cura di Stefano Mammini

N

el vasto panorama delle civiltà affermatesi in Europa in epoca preromana, gli Iberi ebbero un ruolo di indiscusso rilievo. La loro storia è attualmente ripercorsa dalla mostra realizzata dal Museo delle antichità e Collezione Ludwig di Basilea, in collaborazione con il MAC, Museo di Archeologia della Catalogna di Barcellona. Visitabile fino al prossimo 26 maggio, l’esposizione riunisce oltre 200 reperti, provenienti da una quarantina di siti archeologici, grazie ai quali 66 a r c h e o

viene documentata la ricchezza culturale delle genti iberiche. Gli studi piú recenti suggeriscono che gli Ibèri furono l’esito finale di un processo che ebbe per protagoniste le popolazioni stanziate in un’area che si estendeva fra l’Andalusia e la Linguadoca (oggi territorio francese). Poste dunque al crocevia tra il Mediterraneo e l’Atlantico, questi gruppi fusero le proprie tradizioni autoctone con influenze straniere provenienti dall’Oriente e posero le basi per l’avvento di una

civiltà che si sviluppò fra il VI e il I secolo a.C. Fin dagli esordi, la società iberica presentava una notevole complessità: l’archeologia ha infatti provato l’emergere di classi principesche che vivevano in residenze signorili separate e stabilivano contatti privilegiati con i mercanti fenici. In cambio di materie prime preziose, principalmente minerali, ricevevano vino e oggetti di lusso. In ogni caso, quando si parla «Iberi», non si deve intendere un’etnia unica, quanto piuttosto immaginare un


L’allestimento di una sezione della mostra «Iberi», in corso a Basilea, presso il Museo di antichità e Collezione Ludwig fino al prossimo 26 maggio. A sinistra, si riconosce la replica della Dama di Elche, la piú famosa scultura iberica.

paese non conta un gran numero di città, poiché il suolo è povero, la posizione poco centrale e l’aspetto selvaggio (...) la selvatichezza è tipica delle popolazioni che vivono sparse nei villaggi e la maggior parte degli Iberi sono selvaggi» (Geografia III, 4, 13). Come già accennato, la Penisola Iberica fu teatro di interazioni culturali e scambi transmediterranei e, in questo quadro, svolsero un ruolo GENTI SELVAGGE Emblematica, al riguardo, è questa particolarmente significativo i Feniaffermazione di Strabone, che cosí ci, che vivevano lungo la costa descrive l’Iberia e i suoi abitanti: «Il orientale del Mediterraneo (nelle mosaico di comunità accomunate dai medesimi tratti culturali. I loro nomi – Turdetani (gli antichi Tartessi), Ausetani, Ilergeti, Bastetani, solo per citarne alcuni – ci sono pervenuti principalmente attraverso autori greci e romani, che spesso descrivono in modo tendenzioso e pieno di pregiudizi le diverse tribú.

regioni oggi comprese fra Libano e Siria). Città-stato fenicie come Tiro e Sidone erano interessate ad acquisire nuovi mercati e, soprattutto, procurarsi materie prime, cosicché la Penisola Iberica, ricca di metalli – quali rame, ferro, oro e argento –, divenne l’obiettivo delle loro mire espansionistiche. La creazione di avamposti fenici sulla costa meridionale spagnola, sia sotto forma di quartieri in colonie esistenti (Huelva), sia sotto forma di nuove fondazioni (Gadeia r c h e o 67


MOSTRE • SVIZZERA

ra/Cadice), costituí la base di scambi che furono intensi e fiorenti per diversi secoli. Grazie a questi contatti giunsero nella Penisola Iberica merci di origine orientale, ma si diffusero anche acquisizioni tecnologiche decisive, come il torNella pagina accanto, in alto: spada in ferro a lama ricurva (falcata), dalla necropoli di Can Rodon de l’Hort, Cabrera de Mar (Barcellona). IV-III sec. a.C. Barcellona, MAC, Museu d’Arqueologia de Catalunya. Nella pagina accanto, in basso: anforetta in ceramica, dalla necropoli di Can Rodon de l’Hort, Cabrera de Mar (Barcellona). III sec. a.C. Barcellona, Museu d’Arqueologia de Catalunya. In basso: statuetta in calcare raffigurante una donna ibera, probabilmente utilizzata come ex voto, da Murcia. 400-200 a.C. Barcellona, Museu d’Arqueologia de Catalunya.

CRONOLOGIA ETÀ DEL BRONZO TARDO 1200-800 a.C. ultura dell’età del Bronzo C nel Sud-Ovest della Penisola Iberica PRIMA ETÀ DEL FERRO (800-550 A.C.) X secolo a.C. Esplorazioni fenicie Fine del IX secolo a.C. Enclaves fenicie a Huelva e La Rebanadilla (Málaga) Inizio dell’VIII secolo a.C. Fondazione di ‘gdr/Gadeira (Cadice) Prima metà Fondazione delle prime colonie fenicie dell’VIII secolo a.C. nel Sud della Penisola Iberica. 814 a.C. Fondazione di Cartagine da parte dei Fenici 753 a.C. Fondazione di Roma 725 a.C. circa Arrivo dei Fenici a Ibiza VII secolo a.C. Apogeo dell’espansione fenicia; cultura di Tartesso orientalizzante 600 a.C. circa Fondazione di Massalia (Marsiglia) da parte dei Focei IBERICO ANTICO (550-400 A.C.) Inizio del VI secolo a.C. Sviluppo urbano nel Sud della Penisola Iberica 550 a.C. circa Fondazione di Emporion (Empúries) da parte dei Focei 500 a.C. circa Fine della cultura di Tartesso V secolo a.C. Prime attestazioni della scrittura iberica IBERICO MEDIO (400-175 A.C.) IV secolo a.C. Apogeo della cultura iberica 264-241 a.C. Prima guerra punica tra Cartagine e Roma 229/226 a.C. Fondazione di Carthago Nova da parte del punico Asdrubale 219 a.C. Conquista di Sagunto da parte del punico Annibale 218 a.C. Sbarco romano a Emporion 218-202 a.C. Seconda guerra punica tra Cartagine e Roma 197 a.C. Creazione delle province romane Hispania Ulterior e Hispania Citerior Dal 195 a.C. Romanizzazione dell’Est e del Sud della Penisola Iberica IBERICO RECENTE (175-10 A.C.) 155-153 a.C. Spedizioni romane contro i Celtiberi 133 a.C. Conquista di Numancia da parte di Roma 123 a.C. Conquista delle Isole Baleari da parte di Roma 82-72 a.C. Guerra sertoriana nella Penisola Iberica 49-44 a.C. Cesare e Pompeo si scontrano nella Penisola Iberica 19 a.C. L’intera Penisola Iberica è sotto il dominio romano

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Per «Iberi» non si deve intendere un solo popolo, bensí un mosaico di genti nio per la ceramica e nuovi processi di lavorazione dei metalli, nonché l’alfabeto fenicio, che costituí la base della scrittura iberica.

TRE ALFABETI L’ibero è un idioma non indoeuropeo che scomparve come lingua scritta piú di due millenni fa. Nonostante gli sforzi dei ricercatori e il fatto che sia stata realizzata una trascrizione fonetica approssimativa dei testi, rimane essenzialmente incomprensibile, a causa dell’assenza di una lingua strettamente correlata. La lingua iberica era scritta in tre alfabeti diversi a seconda delle regioni: nord-orientale, sud-orientale e greco-iberico. Il primo di questi tre alfabeti è quello piú utilizzato nelle iscrizioni a oggi note, oltre duemila, conservate su supporti di diversa natura. I testi indicano spesso il nome del proprietario su vasi in ceramica oppure nomi di luoghi sulle monete. Vi sono anche iscrizioni funerarie su stele in pietra, testi di natura religiosa, timbri su anfore e iscrizioni dipinte su ceramiche. Particolare importanza ha anche il repertorio epigrafico conservato sulle tavolette in piombo. Grazie al confronto con documenti greci dello stesso tipo, è stato possibile identificare alcune di queste iscrizioni come lettere legate alle attività commerciali. In questi casi il nome del destinatario veniva solitamente scritto sulla faccia esterna delle tavolette, poi arrotolate. Altri esemplari potrebbero rappresenta-

Qui sopra: teschio perforato da un chiodo in ferro, prova dell’uso di esporre come trofeo le teste mozzate dei nemici, dal sito del Puig Castellar (Santa Coloma de Gramenet). 300-200 a.C. Barcellona, MAC, Museu d’Arqueologia de Catalunya.

re testi contabili con elenchi di persone e relative somme. Nel campo delle espressioni artistiche, la scultura è uno dei tratti peculiari della civiltà iberica. Le opere a oggi note vengono attribuite ad artisti indigeni, sebbene sia comunemente riconosciuta l’importanza degli influssi fenici (e piú in generale di matrice orientale) e di quelli greci. Le sculture in pietra provengono soprattutto dalle regioni meridionali della Penisola Iberica, in particolare dall’Andalusia e dalle province del Sud-Est. Esse raffiguravano animali fantastici e reali – tori, leoni, sfingi, grifoni – e la loro produzione era, verosimilmente, legata al rituale funebre.

LA DAMA DEI MISTERI Non mancano, tuttavia, figure antropomorfe, la piú nota delle quali è la «Dama di Elche», della quale a Basilea è esposta una replica (l’opera originale, rinvenuta nel 1897 a L’Alcudia de Elche, si conserva nel Museo Archeologico Nazionale di Madrid). L’interpretazione di questo ritratto femminile è tuttora dibattuta e ci si chiede se la misteriosa Dama sia una dea, una sacerdotessa o una donna di alto rango. Cosí come ci si interroga sul significato dello sfarzoso copricapo che indossa. Ciò che però maggiormente colpisce della scultura iberica è la brusca e repentina interruzione della sua produzione, che si verifica ancor prima del tramonto della civiltà iberica. Si tratta di un enigma che, soprattutto alla luce a r c h e o 69


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della piú che verosimile funzione funeraria delle opere, appare davvero inspiegabile. La ceramica è una delle espressioni piú significative della produzione artigianale degli Iberi. Le prime attestazioni risalgono al VI secolo a.C. e, da allora in poi, si moltiplicano le botteghe e le officine, che in molti casi sviluppano produzioni tipologicamente assai ben identificabili. Le forme venivano lavorate al tornio e, in rapporto alle diverse epoche e aree geografiche, è possibile riscontrare differenze notevoli nel tipo di impasto impiegato. Le scelte degli artigiani e l’evoluzione tecnologica della loro attività hanno dato luogo a un campionario assai variegato. Anche lo studio della ceramica ha ribadito i forti legami che si stabilirono fra la civiltà iberica e quelle dei Fenici e dei Greci, ma ha ancora una volta ribadito lo sviluppo di una tradizione originale e fortemente segnata da una comune matrice autoctona.

dell’area di provenienza. L’equipaggiamento difensivo comprendeva solitamente un elmo (di cuoio o metallo), una corazza o un pettorale, gambali e uno scudo rotondo o ovale. Le armi d’attacco includevano lance, pugnali e diversi tipi di spade. Le lance, che potevano essere LANCIA IN RESTA Riflesso di un mondo fortemente impugnate o scagliate contro il neconnotato dalle attività metallurgi- mico, erano importanti dal punto di che è poi la produzione delle armi. vista tattico. Le piú leggere potevaI guerrieri iberici utilizzavano di- no essere lanciate a lunghe distanze. verse armi difensive e offensive, le Tra le lance pesanti c’erano giavelcui tipologie variano a seconda lotti interamente in ferro, chiamati In alto: askos in ceramica recante un’iscrizione, dal sito del Puig de Sant Andreu (Ullastret). 500-400 a.C. Ullastret, Museu d’Arqueologia de Catalunya. A sinistra: rilievo raffigurante il Signore dei Cavalli (Despotés Híppôn), da Villaricos. III-II sec. a.C. Barcellona, MAC.

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soliferrum, e picchetti con una lunga punta in ferro. Le punte delle frecce erano generalmente realizzate in bronzo e potevano essere utilizzate anche per la caccia. È attestata anche la produzione di proiettili di piombo, lanciati con la fionda.

MACABRI TROFEI All’attività bellica si lega una pratica attestata archeologicamente da piú di un ritrovamento. Si tratta dell’uso, praticato dalle tribú stanziate nel Nord-Est della Penisola Iberica, di esporre le teste mozzate dei nemici sconfitti come trofei di guerra, insieme alle armi catturate e rese inutilizzabili. Venivano esposte in luoghi pubblici frequentati, sulle facciate delle case o sulle mura e fissate con lunghi chiodi di ferro. Prove di questa usanza, che gli Iberi condividono con i Celti, sono state fornite dagli scavi condotti nell’insediamento del Puig Castellar a Santa Coloma de Gramenet e nell’oppidum di Ullastret. A quest’ultimo abitato, occupato fra il VI e il II secolo a.C., è dedicata una delle sezioni piú importanti della mostra. L’oppidum sorse nel Nord-Est della Penisola Iberica, in una regione in cui i contatti econo-


A sinistra: l’omphalos di una coppa in argento raffigurante la testa di un lupo, facente parte del Tesoro di Tivissa, da Castellet de Banyoles. 250-195 a.C. Barcellona, MAC.

mici e culturali con Fenici, Etruschi e, soprattutto, Greci furono particolarmente intensi. Ullastret, che molto probabilmente era la capitale degli Indigeti, si componeva di due grandi nuclei urbani: la città alta, situata sulla collina del Puig de Sant Andreu, e la città bassa, Illa d’en Reixac, che si trovava su una piccola isola nel mezzo di un lago, prosciugato nel XIX secolo. La città bassa era probabilmente collegata al mare da un sistema di lagune, che consentiva la navigazione dalla costa alla città con barche a fondo piatto. I due centri urbani occupavano una superficie di oltre 15 ettari all’interno delle mura della città, con una popolazione che potrebbe aver raggiunto i 6000 abitanti. Il sito è stato oggetto di ricerche interdisciplinari condotte negli ultimi anni dal Museo di Archeologia della Catalogna, in parte in collaborazione con altre istituzioni di ricerca nazionali e internazionali, e che hanno restituito informazioni preziose sulle strutture urbane e difensive dell’agglomerato. E su questi studi si basa la ricostruzione virtuale di Ullastret che si può vedere in mostra.

Bronzetto raffigurante un’offerente, dal santuario della Cueva de la Lobera (Castellar, Jaén). IV-II sec. a.C. Barcellona, Museu d’Arqueologia de Catalunya. a r c h e o 71


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Nel III secolo a.C., le tensioni tra Roma e Cartagine, le principali potenze militari e commerciali del Mediterraneo, sfociarono nella prima guerra punica (264-241 a.C.), che si concluse con la vittoria romana. Vent’anni anni piú tardi, il generale cartaginese Annibale Barca cercò la sua rivincita. Lasciò Qart Hadašt (Cartagena), la sua base operativa nella Penisola Iberica, con l’intenzione di attaccare Roma. Assediò prima l’iberica Sagunto, alleata di Roma. Successivamente attraversò il fiume Ebro, costringendo Roma a dichiarare guerra a Cartagine. Le truppe romane sbarcarono a Emporion nel 218 a.C. e sconfissero i Cartaginesi vicino all’attuale Tarragona nel 216 a.C.

ANNIBALE IN ITALIA Nel frattempo, Annibale aveva attraversato i Pirenei e le Alpi con fanteria, cavalleria ed elefanti.Tra il 218 e il 216 a.C., condusse una vittoriosa campagna in Italia, ma dopo le sconfitte subite a Siracusa e Capua, cercò rifugio in Africa del Nord nel 211 a.C. Allo stesso tempo, Publio Cornelio Scipione trionfò nel Sud della Penisola Iberica. Alla fine, dopo essere stato inviato in Africa del Nord, Scipione sconfisse Annibale a 72 a r c h e o

In alto: il Tesoro di Tivissa, da Castellet de Banyoles. 250-195 a.C. Barcellona, MAC. In basso: stele funeraria iscritta, da Santa Perpètua de la Mogoda (Vallès Occidental). II sec. a.C. Barcellona, MAC.

Zama, nel 202 a.C., risolvendo il conflitto a favore di Roma. Il confronto tra Roma e Cartagine sconvolse la Spagna. Nel 197 a.C., i Romani vittoriosi divisero la Spagna in due province, mentre gli Iberi del Nord-Est si ribellarono al loro dominio. Il console Marco Porcio Catone riuscí a sottometterli due anni dopo. Furono costretti ad abbandonare città e villaggi. I Romani fondarono altre città e gli Iberi adottarono gradualmente le usanze romane. La forte resistenza degli altri popoli iberici non impedí a Roma di completare la conquista alla fine del I secolo a.C. Le culture locali finirono per scomparire sotto la pressione della lingua, della religione e della legislazione romane. DOVE E QUANDO «Iberi» Basilea, Museo delle antichità e Collezione Ludwig fino al 26 maggio Orario ma-me, 11,00-17,00; gio-ve, 11,00-22,00; sa-do, 10,00-17,00; lu chiuso Info www.antikenmuseumbasel.ch



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ALLA CONQUISTA DEGLI AROMATA TERRA RICCA DI MATERIE PRIME PREGIATE E RICERCATE, L’ARABIA, NON A CASO DETTA «FELICE», ENTRÒ NEL MIRINO DI ROMA IN ETÀ AUGUSTEA. IL COMPITO DI ASSOGGETTARLA ALL’IMPERO VENNE AFFIDATO A ELIO GALLO, GIÀ PREFETTO D’EGITTO, MA LA SUA SPEDIZIONE SI RISOLSE IN UN FALLIMENTO. UNO SMACCO CHE, TUTTAVIA, NON OSTACOLÒ LA PROGRESSIVA ROMANIZZAZIONE DELLE REGIONI AFFACCIATE SUL MARE ERITREO di Sabina Antonini

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uwait City ospita, dall’ottobre scorso, la mostra «Arabia Felix and Rome. A Passage Across Three Seas», allestita al Dar al Athar al Islamiyyah, presso il Centro Culturale Amricani. L’iniziativa è nata dalla volontà di consolidare i rapporti tra l’Italia e il Kuwait, ripercorrendo antiche relazioni diplomatiche ed economiche che esistevano già duemila anni fa tra Roma e gli abitanti dell’Arabia. I materiali sudarabici fanno parte della Collezione al-Sabah e comprendono oggetti di lusso – argenteria, gioielli e statue in bronzo –, la cui qualità indica una committenza sofisticata ed esigente, un’élite benestante attenta alle tendenze dell’aristocrazia del mondo romanizzato. Si tratta, in prevalenza, di contenitori di diverso tipo e provenienza, dai piú semplici a quelli con elaborate decorazioni figurative lavorate a sbalzo e cesello. Fra tutti, spiccano uno specchio, pissidi e utensili, molti dei quali appartenevano a donne, come indicano le iscrizioni impresse sugli oggetti stessi (in musnad, la scrittura sudarabica).

Tutti gli oggetti illustrati in queste pagine appartengono alla Collezione al-Sabah, che ringraziamo, e sono esposti nella mostra «Arabia Felix and Rome. A Passage Across Three Seas», in corso a Kuwait City. In alto: coperchio di una pisside raffigurante una centauromachia intorno al medaglione centrale con Gorgone. 100 d.C. circa. Nella pagina accanto: particolare del manico in argento dorato di uno specchio decorato a sbalzo con l’immagine di un genio femminile alato. 150-200 d.C.

Decorati con temi ispirati alla tradizione greco-romana e databili tra il II secolo a.C. e il II secolo d.C., i materiali selezionati per la mostra sembrano aver avuto in origine scopi diversi: alcuni erano votivi, dedicati alle divinità dei templi locali; altri erano puramente funzionali, utilizzati in ambito domestico o religioso. Come riferiscono le fonti classiche, questi beni di lusso venivano importati in Arabia Meridionale, ma poteva trattarsi anche di opere copiate e riprodotte localmente, e le differenze sono evidenti dallo stile e dalla tecnica di produzione.

UN’INFLUENZA PROFONDA Sebbene l’Arabia Meridionale non avesse fatto parte dell’impero di Alessandro Magno, né dei suoi successori, né, tanto meno, dell’impero romano, le correnti artistiche greche e romane esercitarono una profonda influenza sulla produzione figurativa sudarabica dal II secolo a.C. in poi. Influenze che si diffusero nell’Arabia Meridionale a r c h e o 75


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attraverso il movimento di oggetti In basso: i due e calchi che abili artisti e scultori lati di uno – sia Greci itineranti, sia artisti inspecchio con digeni – iniziarono a copiare e a manico in argento riprodurre, interpretando e adat- dorato decorato a tando le opere per conformarsi al sbalzo: a sinistra, gusto e stile locali, e alle esigenze un satiro ebbro e della committenza sudarabica. nudo e, a destra, Le statue loricate in bronzo della Ercole, ciascuno Collezione al-Sabah (I secolo d.C.) di fronte a un gettano nuova luce sui rapporti tra genio alato. i Sudarabici e il mondo greco-roSotto la scena mano, e dimostrano quanto si fosse dionisiaca corre trasformato il linguaggio comunil’iscrizione che cativo delle élite locali. menziona la I regni dell’Arabia Felix devono la proprietaria dello loro fama e ricchezza alle resine specchio. aromatiche. L’incenso appartiene 150-200 d.C. alla famiglia delle Burseraceae, e la piú pregiata Boswellia sacra cresceva in Arabia Meridionale. La mirra

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In alto: mappa del probabile percorso della spedizione di Elio Gallo in Arabia Felix.


(Commiphora myrrha) è conosciuta sin dai tempi piú antichi come medicinale e base per unguenti. Nonostante tali resine si trovassero anche in Africa Orientale, dove gli Egiziani si rifornivano sin dall’Antico Regno (III millennio a.C.), già nei primi secoli del I millennio a.C. l’Arabia Meridionale si era affermata come regione produttrice ed esportatrice di queste resine tra le piú pregiate e richieste. Per le loro peculiari proprietà, erano usate in molte pratiche in tutto il mondo antico: nel processo di imbalsamazione in Egitto, per ricavarne profumi, medicine, unguenti e, ancor piú importante, venivano bruciate durante i rituali nei templi e nelle pratiche funerarie.

PIÚ COSTOSO DELL’ORO L’incenso che arrivava in Grecia o a Roma, dopo un viaggio tanto lungo (secondo Plinio il Vecchio, ben 65 erano le tappe da Tamna‘, capitale del regno di Qataban, sino a Gaza; Nat. Hist. XII, 32.63-65) e difficile, costava piú dell’oro. I dazi riscossi per tutelarne il passaggio dovevano comportare entrate notevoli per Hadramawt, Qataban, Ma‘in e Saba, i regni dell’Arabia Felix. Inoltre, Plinio il Vecchio afferma che proprio i Minei, la cui terra era attraversata dalla via carovaniera, ne avevano avviato il commercio, tanto che presso i Romani l’incenso era detto mineo (Nat. Hist. XII, 30.54). Il lucroso e non piú sostenibile

profitto in favore dei Sudarabici fu probabilmente la ragione del successo della via alternativa, quella marittima, adottata dai Romani tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. Verso la fine del I millennio a.C., il commercio via terra – la via carovaniera – fu gradualmente abbandonato a favore del commercio marittimo, attraverso il Mar Rosso e l’Oceano Indiano, chiamato Mare Eritreo dai geografi e storici grecoromani. Grazie alla sua posizione strategica e alle ambite materie prime, l’Arabia Meridionale era pienamente inserita nella rete di scambi commerciali che collegava il Mediterraneo con la costa occidentale dell’India. Questa rete era dominata dai Romani, dal momento che l’Egitto fu uno dei piú importanti territori dell’impero a partire dal 30 a.C., Mestolo in argento con iscrizione, e manico con terminazione a testa felina. II sec. d.C.

quando fu acquisito d a O t t av i a n o Augusto, dopo la morte della regina tolemaica Cleopatra. Il geografo e storico greco Strabone osservava che ogni anno 120 navi mercantili salpavano per l’India dai porti egiziani del Mar Rosso (Geografia II, 5.12), e Plinio il Vecchio lamentava che ogni anno si spendessero almeno 100 milioni di sesterzi per commerciare con l’India, con gli Arabi e con i Seres (Nat. Hist. XII, 84).

TRAFFICI INTENSI Scritto in greco, probabilmente da un mercante egiziano di epoca romana intorno alla metà del I secolo d.C., il Periplo del Mare Eritreo, un manuale per marinai e commercianti, testimonia l’intenso commercio marittimo tra l’Egitto e i lontani empori dell’India, passando per le coste africane del Mar Rosso e dell’Arabia Meridionale (cfr. paragrafi 24, 27 e 28 dell’edizione di Lionel Casson, The Periplus Maris Erythraei, Princeton University Press, 1989). Il Periplo elenca le località portuali lungo le coste arabe del Mar Rosso (Mouza, oggi al-Mukha’; Ocelis, oggi Bab al-Mandab; Arabia Eudaimon, oggi Aden) e dell’Oceano Indiano (Kane, Qani’, oggi Bi’r‘Ali in Hadramawt), dove da una parte venivano sbarcati vasi d’oro e d’argento, statue, tessuti pregiati, vino e cavalli destinati alle corti dei regnanti locali, e, dall’altra, caricati sulle navi i prodotti locali, soprattutto le preziose resine. Questo commercio transarabico rimase particolarmente attivo nei secoli successivi, come attestano le statue e le argenterie in metallo prezioso e i sontuosi corredi funerari rinvenuti nel Wadi Dura’ (Hadramawt), costituiti da argenti con dediche incise in caratteri sudarabici. a r c h e o 77


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Particolari di una pisside decorata a sbalzo, facente parte di un corredo nuziale. 100 d.C. circa. A destra: un uomo con tirso e con recipiente coperto da un panno; al centro è un cinghiale e, a destra, una menade danzante che suona i cembali.

La fama e la ricchezza di questi popoli e terre, nonché la loro posizione strategica lungo la rotta commerciale tra il Mare Mediterraneo e l’India, indussero Augusto a concepire un piano per conquistare anche l’Arabia Felix. Nel 30 a.C. egli aveva annesso l’Egitto, che divenne parte dell’impero romano, e, pochi anni piú tardi, da qui partí una spedizione militare comandata da Elio Gallo, prefetto d’Egitto, il cui scopo era quello di ampliare la conoscenza geografica delle terre che si affacciavano sul Mare Eritreo, assumere il controllo della produzione e del commercio di aromata, beni molto redditizi, e raggiungere agevolmente le coste occidentali dell’India, e probabilmente anche il paese dei Seres. L’Arabia Felix, infatti, costituiva anche il passaggio per raggiungere via mare la terra dei Seres, citata da Plinio il Vecchio (Nat. Hist. XII.84). Questo nome si riferiva ai produt78 a r c h e o

tori di seta e deriverebbe direttamente dal latino sericum e dal greco serikòs, la seta, materiale che i Romani molto apprezzavano e credevano di origine vegetale (Virgilio, Georgiche, II, 118-121). Con un esercito che contava un totale di 210 navi e 10 000 uomini, compresi i contingenti nabatei e giudei (rispettivamente 1000 e 500 uomini), nel 25 a.C. la spedizione entrò in Arabia attraverso il porto nabateo di Leuke Kome e attraversò l’intera penisola, conquistando molte città dell’Arabia Felix, ma fu sconfitta dalla malattia e dalla sete, crollando fuori Marib, la capitale del regno di Saba. Il geografo Strabone di Amasia (60 a.C.-24 d.C. circa), contemporaneo di Augusto e amico di Elio Gallo, racconta (Geografia II, 5.12) che, fin dai primi giorni della spedizione, l’esercito romano fu in difficoltà con la flotta nel Nord del Mar Rosso, con le truppe rimaste bloccate per molti mesi nel porto

nabateo di Leuke Kome per malattie, e con la lunga e sfibrante traversata del territorio nabateo.

SETTE GIORNI DI ASSEDIO Dopo la conquista di Nagran, le città caddero una dopo l’altra. Elio Gallo guidò il suo esercito fino a Marib, assediandola per sette giorni prima di ritirarsi. Strabone sottolinea la scarsa capacità militare degli abitanti dell’Arabia, affermando che molti uomini del contingente romano non erano morti in combattimento, ma per malattia, fatica, fame e strade dissestate. Quanto all’Arabia Felix, e, in particolare, agli abitanti della regione del Jawf, il resoconto è ancora piú «propagandistico», per cui i «barbari», schiacciati dalla superiorità tecnica dei Romani, furono annientati, e ne caddero circa 10 000, contro solo 2 Romani (Geografia XVI, 4.22–24). Elio Gallo accusò di tradimento il ministro nabateo Silleo, che aveva organizzato la spedizione, sottraen-


A sinistra: ai piedi di un letto sta una donna con in mano una corona, molto probabilmente la sposa; al centro un cantaro su un tripode con piedi leonini, e a destra, stante su un plinto, è un uomo barbuto, con elmo, forse una divinità, che tiene con la mano destra due spighe di grano e due melograni.

dosi cosí a ogni responsabilità per il fallimento della campagna militare. I resoconti della spedizione furono riportati sia da Strabone nella sua Geografia – per la quale ebbe le informazioni direttamente dallo stesso Elio Gallo e, con l’occasione, raccolse molte notizie sui regni d’Arabia –, sia dallo stesso Augusto nelle sue Res Gestae Divi Augusti (Tabula V, 26), l’iscrizione in latino e in greco scolpita, prima della sua morte nel 14 d.C., sulle pareti del tempio di Augusto e della dea Roma (Monumentum Ancyranum) nell’odierna Ankara (Ancyra) in Turchia: «Su mio ordine e sotto i miei auspici, due eserciti si portarono piú o meno alla stessa epoca in Etiopia e nell’Arabia detta Felice. (...) In Arabia il nostro esercito raggiunse il territorio dei Sabei e la città di Mariba». Due iscrizioni frammentarie rinvenute in Arabia Meridionale (una in qatabanico dagli scavi italiani di Tamna‘, e l’altra in sabaico dagli scavi statunitensi del tempio Awam

a Marib) menzionano i «Romani», e sembrerebbero riferirsi alla spedizione, anche se non implicano necessariamente uno scontro militare. Inoltre, a Yathill (Athrula in Strabone, oggi Baraqish) è stato ritrovato un frammento di una ste-

le funeraria di un certo Publius Cornelius Eques, scritto sia in greco che in latino. L’ipotesi che Publio fosse un soldato dell’esercito romano di Elio Gallo sembra essere rafforzata dal fatto che il sito di Baraqish fu abbandonato poco dopo

Sulla sinistra di questa scena, un genio femminile alato reca un cesto rettangolare, da cui pende un pezzo di stoffa che viene offerto alla sposa.

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In alto: statua loricata in bronzo di un principe sudarabico. I sec. d.C.

il passaggio dell’esercito romano. Nonostante la disfatta patita a Marib, l’operazione militare serví probabilmente a stringere alleanze, se un secolo dopo, come è scritto nel Periplo del Mare Eritreo, i re di Saba e dhu-Raydan erano ancora alleati dei Romani, con cui si scambiavano ambasciate e doni. Sembrerebbe che soltanto i Nabatei avessero approfittato della spedizione romana per promuovere i propri interessi commerciali. È probabile, infatti, che in quella occasione guarnigioni romano-nabatee siano rimaste nella regione, e che abbiano appoggiato una dinastia di principi dell’Arabia Meridionale, i banu dhu-Raydan, per impadronirsi del trono di Saba. Dunque, alleanze politiche e relazioni diplomatiche tra Roma e i Sudarabici per il controllo del commercio tra Oriente e 80 a r c h e o

Occidente attraverso le province orientali dell’impero romano, cioè Siria, Giudea, Arabia Petrea ed Egitto. Tra la fine del I secolo a.C. e l’inizio del I secolo d.C. i Sudarabici battono un nuovo conio monetale, sul cui dritto è raffigurato il ritratto di Augusto, mentre al rovescio persiste l’immagine della civetta, simbolo di Atena, propria della monetazione qatabanita. Il Periplo del Mare Eritreo fornisce alcuni dati sulla situazione politica dell’Arabia Meridionale dopo la spedizione di Elio Gallo, e testimonia l’intensa attività commerciale marittima lungo le coste del Mar Rosso e dell’Oceano Indiano sotto i re di Saba’ e dhu-Raydan, che all’epoca (metà I secolo d.C.) erano ancora alleati dei Romani. Un’iscrizione latina trovata nei recenti scavi di una missione archeologica franco-saudita nell’isola di Farasan (Arabia Saudita) testimonia la presenza di una legione romana con i suoi ausiliari distaccata nel Mar Rosso e in Arabia Meridionale nella metà del II secolo d.C. Il commercio marittimo, infatti, si intensificò a partire dal II secolo grazie alla politica espansionistica di Traiano.

UNA NUOVA MODA Come dimostra il Periplo, la direttrice commerciale tra il Mare Mediterraneo e i mari Eritreo e Arabico era reciproca. Come, infatti, nel Nord della Penisola Arabica c’era bisogno d’incenso e mirra per cerimoniali nei templi, rituali funerari, imbalsamazioni, profumi e medicamenti, cosí nel Sud occorrevano stoffe pregiate, statue, vasellame d’argento, vino e cavalli per raffinare il tenore di vita dei molles Sabaei, cosí definiti da Virgilio nelle sue Georgiche (I, 57). La via marittima quindi garantiva


Statua in bronzo di Atena, con iscrizione sulle braccia e sulla scollatura, evidenziata nella foto di dettaglio, a destra. I-II sec. d.C. Nella pagina accanto a destra: statua in bronzo di Afrodite con corona a palmette e falce lunare di importazione, probabilmente dalla Siria. 50-10 d.C.

un interscambio non solo commerciale, ma anche culturale. E, infatti, le corti sudarabiche procedevano, progressivamente, ma inesorabilmente, verso un gusto e una moda sempre piú vicini a quelli di ambiente greco-romano. Si può osare parlare di una «globalizzazione» ante litteram, che, se non altro, indica l’ampia portata dell’influenza del mondo mediterraneo in quello periferico sudarabico. Ecco che per i ricchi e nobili Sabei, Qatabaniti, Hadramiti e Himyariti Il Centro Culturale Amricani, a Kuwait City, sede della mostra «Arabia Felix and Rome. A Passage Across Three Seas».

si importavano, ma si copiavano anche localmente, oggetti di lusso in metallo prezioso, come vasellame da mensa, specchi, contenitori per gioielli, per cosmetici, arricchiti di figure del repertorio mitologico greco-romano e personalizzati da propri nomi in caratteri sudarabici. Anche le donne e gli uomini sudarabici, dunque, seguivano le mode delle corti dei loro contemporanei che vivevano nelle limitrofe regioni dell’impero romano, come dimostrano le magnifiche opere della

Collezione al-Sabah esposte nella mostra «Arabia Felix and Rome». La mostra è stata curata da chi scrive, esperta in archeologia e storia dell’arte dell’Arabia Meridionale. Il progetto espositivo si deve agli architetti Roberto Fabbri, Claudia Cagneschi e Enrico Mambelli; le grafiche sono di Marco Camorcia (Italia ed Emirati Arabi Uniti). La mostra è stata patrocinata dal Dar al Athar al Islamiyyah/The al-Sabah Collection, National Council for Culture, Arts & Letters, Ambasciata d’Italia in Kuwait, e sponsorizzata da Burgan Bank, Alghanim Industries, Fondazione Leonardo e Gulf Museum Consultancy Co. DOVE E QUANDO «Arabia Felix and Rome. A Passage Across Three Seas» Kuwait City, Dar al Athar al Islamiyyah, Centro Culturale Amricani fino al 15 ottobre Info https://darmuseum.org/ a r c h e o 81


SPECIALE • ROMA

L’ULTIMA FRONTIERA DELLA ROMANITÀ LE MAGNIFICHE AULE DELLE TERME DI DIOCLEZIANO A ROMA, OSPITANO UNA GRANDE MOSTRA DI TESORI ARCHEOLOGICI: CIRCA MILLE OGGETTI, PROVENIENTI DAI PRINCIPALI MUSEI DELLA ROMANIA E DAL MUSEO NAZIONALE DI STORIA DELLA REPUBBLICA DI MOLDAVIA, DOCUMENTANO LO SVILUPPO STORICO E CULTURALE DELL’ANTICA DACIA, DALL’ETÀ DEL FERRO ALLA CONQUISTA ROMANA E OLTRE… a cura di Andreas M. Steiner

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e centocinquanta scene scolpite sul piú impor tante monumento dell’arte imperiale romana, la Colonna Traiana – posta nell’area dell’omonimo Foro a Roma –, narrano la vittoriosa impresa bellica dell’esercito dell’imperatore Traiano contro i Daci: con la prima guerra (101-102 d.C.), la nazione viene ridotta a Stato cliente

dell’impero; a conclusione della seconda (105-106 d.C.), la Dacia è proclamata provincia romana. Sfortunatamente la documentazione letteraria relativa a queste vicende storiche è quasi interamente perduta: i bassorilievi della famosa colonna, dunque, offrono oggi la piú completa illustrazione delle campagne militari contro le genti che abitarono le

Sulle due pagine: l’ingresso alla mostra «Dacia. L’ultima frontiera della Romanità», introdotta dal calco di una scena della Colonna Traiana. A destra: vaso in argento e oro con figura umana, dal corredo principesco di Peretu, cultura geto-dacica. Seconda metà del IV sec. a.C. a r c h e o 83


SPECIALE • ROMA

terre a nord del Danubio, corrispondenti all’odierna Romania. Quando Roma mosse contro i Daci – prima di Traiano, già Domiziano e, ancor prima, Nerone avevano marciato contro di essi – questi erano già da diversi secoli dotati di una complessa struttura statale, capeggiata da un re e distinta in due grandi classi sociali, quella dei nobili (i tarabostes o pileati, contrassegnati da un berretto, il pileus) e quella del popolo comune (i comati o capillati). Cosí, infatti, i Daci appaiono sulla Colonna Traiana, in particolare nelle ultime scene, verso la sommità del monumento: qui alcuni tarabostes sono raffigurati in atteggiamento di resa di fronte a Traiano, mentre truppe di comati continuano il combattimento contro l’esercito di Roma. Gli avvenimenti ripresi dalle immagini della Colonna Traiana segnano la fine del periodo della Dacia regale, definito – archeologicamente – come periodo «getodacico classico». L’epoca in questione si estende tra il regno di Burebista (80-44 a.C. circa), il «piú grande re dei Geti» come lo definisce un’iscrizione rinvenuta nella colonia greca di

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Dionysopolis, sul Mar Nero, e quello di Decebalo, ultimo re dacio, suicidatosi nel 106 dopo che i Romani avevano conquistato la sua capitale, Sarmizegetusa Regia. Ma qual era l’origine dei Daci? E quale la differenza tra Geti e Daci, denominazioni variamente impiegate dagli storiografi greci e romani per designare le popolazioni che abitavano il vasto territorio compreso tra il fiume Tisa a ovest e il Mar Nero a est? Quali erano, infine, i rapporti con le altre civiltà vicine e coeve, i Greci in prima istanza, ma anche le popolazioni «barbariche» quali i Celti, i Traci e gli Sciti?

PIÚ DI MILLE ANNI DI STORIA La mostra allestita nelle Aule delle Terme di Diocleziano, dal titolo «Dacia. L’ultima frontiera della Romanità» (curata da Ernest Oberländer e Stéphane Verger), offre un ampio e approfondito ventaglio di risposte, ripercorrendo lo sviluppo storico e culturale del territorio dell’attuale Romania lungo un arco di oltre millecinquecento anni, dall’VIII secolo a.C. all’VIII secolo d.C., espo-

Calco di un rilievo della Colonna Traiana (scena XXXII, spirale V), che ritrae tre arcieri daci che tengono sotto tiro i Romani assediati all’interno di una città. Agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso, l’archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli fece colorare il calco, dimostrando cosí l’esistenza del colore nell’architettura dell’antichità imperiale romana.


A destra, in alto: maschera in bronzo, facente parte di un elmo da parata romano, da Carsium. II sec. d.C. A destra, in basso: testa in bronzo di una statua raffigurante l’imperatore Traiano Decio, da Colonia Ulpia Sarmizegetusa. 249-251 d.C.

LE SEZIONI DELLA MOSTRA La mostra è articolata in quattro sezioni: la prima è dedicata alla Dacia romana e illustra la conquista del territorio all’epoca dell’imperatore Traiano (101-106 d.C.), evidenziando lo stretto legame e le analogie tra i reperti provenienti dai musei rumeni e quelli del Museo Nazionale Romano. La sezione evidenzia una romanità di frontiera, che si rispecchia nei contesti di epoca romana presentati in mostra, ma assolve anche alla duplice funzione di introduzione e di spartiacque: le guerre daciche segnano, infatti, la conquista romana e l’annessione all’impero, ma anche «un prima» e «un dopo». Cosí, le altre sezioni sono strettamente legate al contesto storico del «prima» e del «dopo» rispetto alla romanizzazione, evidenziando le specificità culturali di questa regione tra Oriente e Occidente. Dall’età del Ferro fino all’età bizantina, la Romania è stata un incrocio di culture e la mostra permette di seguire appieno lo sviluppo e le caratteristiche attraverso un percorso cronologico: la seconda sezione racconta infatti la formazione della cultura dacica nell’età del Ferro con l’influsso dei Traci, degli Sciti e dei Greci delle colonie sul Mar Nero. La terza sezione illustra il confronto tra civiltà urbane mediterranee e le civiltà tribali e i nomadi continentali; descrive l’inserimento della Dacia nelle reti culturali ellenistiche mediterranee e continentali, segnate dall’avvento di nuove popolazioni centro europee quali i Celti, i Geto-Traci, i Bastarni di origine germanica. È il momento in cui Roma, a partire dalla conquista della Macedonia (con la

battaglia di Pidna nel 168 a.C.), comincia a esercitare un peso politico sulla regione. La quarta sezione si concentra sull’epoca della dissoluzione dell’impero, segnata dalla difficoltà di mantenere sicuri i confini, l’avvento di nuove popolazioni come gli Unni, in un periodo in cui il potere di Roma si sposta a Oriente, con Bisanzio. In questa sezione viene sottolineato anche il ruolo svolto dalla cristianizzazione e dalla diffusione della lingua latina, punti forti dell’eredità di Roma ed elementi che determineranno, preannunciandoli, alcuni tratti culturali costitutivi della Romania in età moderna e contemporanea.

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SL LOV OVA ACCH AC CHIA IA SPECIALE • ROMA

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Sighisoara Sfantu Gheorghe

Pianta della Romania con l’indicazione dei principali siti archeologici e la suddivisione territoriale in età romanaimperiale.

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DAGLI ANTENATI DI DECEBALO ALLA CADUTA DEL LIMES PREISTORIA E PROTOSTORIA 100 000 a.C. circa Paleolitico Inferiore. 100 000-25 000 a.C. circa Paleolitico Medio. 25 000-10 000 a.C. circa Paleolitico Superiore. 10 000-9500/9000 a.C. circa Epipaleolitico. 9500/9000-7500/6500 a.C. Mesolitico. 6500-3500 a.C. Neolitico ed Eneolitico. 3500-1150 a.C. circa Età del Bronzo. 1150-450 a.C. circa Prima età del Ferro. TRACI E GRECI 550 a.C. circa Fondazione di Tomi (oggi Costanza) da parte dei Milesii. 480/470 a.C. Creazione del regno dei Traci Odrisi sotto Teres. 335 a.C. Spedizione di Alessandro Magno contro i Geti della Muntenia. 323 a.C. Dopo la morte di Alessandro Magno, Lisimaco governa la Tracia. 281-278 a.C. Grande invasione celtica nella Penisola Balcanica e in Asia Minore. ETÀ GETO-DACICA CLASSICA 109-106 a.C. Minucio Rufo, governatore della Macedonia, respinge Daci e Scordisci a sud del Danubio. 80-44 a.C. circa Regno del dacico Burebista. 61 a.C. Rivolta delle città pontiche contro la sovranità romana. Le forze armate di Hybrida sono sconfitte dai Greci 86 a r c h e o

affiancati da Bastarni e Geti. 60 a.C. Burebista annienta le tribú celtiche dei Boii e dei Taurisci. 55-48 a.C. Burebista conquista le città greche della sponda ovest del Mar Nero. 44 a.C. circa Muore Burebista. Il suo Stato è diviso in quattro e poi in cinque parti. 4 luglio 27 a.C. M. Licinio Crasso celebra a Roma il trionfo ex Thracia et Geteis. 15 d.C. Creazione della provincia di Moesia. 46 d.C. Il regno di Tracia è trasformato in provincia romana. LA CONQUISTA ROMANA 85-89 d.C Guerre daciche di Domiziano 86 d.C. Divisione della Moesia in Superior e Inferior. 89 d.C. Pace fra Domiziano e Decebalo. 99 d.C. Traiano visita le province danubianobalcaniche. 101-102 d.C. Prima guerra dacica di Traiano. 102 d.C. Sconfitta dei Daci nella battaglia di Adamclisi. Si conclude la pace fra Roma e il regno dacico. 105-106 d.C. Seconda guerra dacica di Traiano. Conquista definitiva di Sarmizegetusa Regia. Suicidio di Decebalo. La Dacia è provincia romana. 108-110 d.C. Fondazione della capitale Ulpia Traiana Augusta Dacica.


nendo circa mille reperti provenienti da 47 musei rumeni, oltreché dal Museo Nazionale di Storia della Repubblica di Moldavia, insieme ad alcuni reperti del Museo Nazionale Romano. Reperti che riflettono la straordinaria varietà della produzione artistica e artigianale, che si riflette anche nei molteplici termini impiegati per distinguerne le fasi e gli stili: tracio-getico, dacio-getico, greco, celtico, scitico, illirico... Apre il percorso il calco di una scena scolpita sulla Colonna Traiana (scena XXXII, spirale V) che ritrae tre arcieri daci che tengono sotto tiro i Romani assediati all’interno di una città (il calco fu fatto colorare dall’archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli agli inizi degli anni Settanta del Novecento, per dimostrare l’esistenza del colore nell’architettura dell’antichità imperiale romana). Accanto sono esposti capolavori come il Ser-

ivisione della provincia in Dacia D Superior e Dacia Inferior. 166-175 d.C. Prima guerra marcomannica. 168-169 d.C. Terza riorganizzazione della Dacia: Dacia Apulensis, Dacia Porolissensis e Dacia Malvensis. 238-242 d.C. Primo attacco dei Goti, alleati con i Carpi, in Dacia, Mesia e Tracia. 250-476 d.C.circa I Goti si stabiliscono a sud del Danubio. 267 d.C. Attacco per mare di Goti ed Eruli che annienta le coste della Dobrogea. 269 d.C. Goti, Gepidi, Eruli, Bastarni invadono le province balcaniche dell’impero. 271 d.C. Aureliano dispone il ritiro dell’esercito e dell’amministrazione romani dalla Dacia. 284-305 d.C. Creazione della provincia di Scizia con capitale Tomi sotto Diocleziano. 306-337 d.C. Sotto Costantino il Grande, l’impero annette un importante territorio a nord del Danubio. 332 d.C. Trattato di alleanza (foedus) fra Goti e impero romano. 361-363 d.C. Sotto Giuliano l’Apostata, l’impero adotta misure per fortificare le città della diocesi tracica e soprattutto le fortezze sul Danubio. 367-369 d.C. Spedizioni di Valente contro i Goti del nord del Danubio. 369 d.C. A Noviodunum (Isaccea, prov. Tulcea, 119 d.C.

pente Glykon da Tomi – raffigurazione in marmo di un «demone buono» che guarisce dalle epidemie – il magnifico elmo d’oro di Cotofenesti di manifattura tracia, decorato con varie scene di sacrificio, l’elmo celtico di bronzo da Ciumesti, con il suo sorprendente cimiero a forma di aquila che stupisce per l’unicità della fattura e progettualità; il tesoro gotico di Pietroasele del IV secolo d.C. con l’eccezionale phiale (coppa) d’oro lavorata a sbalzo e le grandi fibule; e ancora alcuni bracciali d’oro daci, le tavolette in bronzo della Lex Troesmensium e il donarium di Biertan. La mostra espone, inoltre, un’ampia selezione di reperti – tra cui armi, vasi, ceramiche, monete, gioielli e corredi per i riti di magia – attraverso i quali è possibile documentare la religione, l’arte, l’artigianato, il commercio e la vita quotidiana della antica Dacia. (segue a p. 90)

Romania), Valente chiude la pace con Atanarico, re dei Visigoti. L’ETÀ DELLE MIGRAZIONI 376 d.C. Dopo aver sconfitto il regno ostrogoto, guidato da Ermanarich, gli Unni attaccano le tribú dei Visigoti. 408-450 d.C. circa Gli Unni, guidati da Attila, controllano un territorio vastissimo, dall’Europa Centrale alle steppe nord-pontiche. 453 d.C. Attila muore. 454-567 d.C. Dopo la sconfitta degli Unni a Nedao, i Gepidi assumono il controllo di vasti territori dell’area intracarpatica. 471 d.C. Gli Ostrogoti si insediano nella Moesia Secunda e in Scizia. 527-565 d.C. Regno di Giustiniano. Si ricostruiscono numerose fortezze e città della Dobrogea. 559/562 d.C. Arrivo degli Avari a sud del Danubio. 580-587 d.C. Incursioni avaro-slave in Scizia e Moesia Secunda. Definitiva distruzione di Tropaeum Traiani. 602 d.C. Caduta del limes danubiano e insediamento degli Slavi nella parte meridionale del Danubio. 626 d.C. Assedio avaro-slavo-persiano di Costantinopoli. 679 d.C. Insediamento di proto-Bulgari guidati da Asparuch a sud del Danubio. a r c h e o 87


SPECIALE • ROMA

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Disegno ricostruttivo (di Radu Oltean) del Ponte di Traiano, un’imponente struttura fortificata fatta costruire dall’imperatore per attraversare il basso corso del Danubio, presso le odierne città di Drobeta (Romania) e Kladovo (Serbia). Il ponte fu realizzato negli anni 103-105, durante la campagna di conquista romana della Dacia, dall’architetto Apollodoro di Damasco.

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SPECIALE • ROMA

Tra le principali finalità del progetto espositivo, vi è quella di documentare, come in un viaggio millenario, l’evoluzione dagli antenati geto-daci a quello che saranno le popolazioni dei Geti e dei Daci e, successivamente, la trasformazione di una parte della Dacia in provincia romana. Altri temi fondamentali riguardano le forme di integrazione della provincia nel piú ampio contesto del mondo romano e la sopravvivenza culturale e civile del territorio dacico anche dopo l’abbandono da parte dell’esercito e dell’ammiScultura in marmo raffigurante il dio Glicone, divinità a forma di serpente con testa umanoide, da Tomi (Costanza). Inizi del III sec. d.C.

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In alto: foto del ritrovamento delle sculture di Tomi al momento della loro scoperta, nel 1962.


Un veduta della mostra allestita nelle aule delle Terme di Diocleziano con, in primo piano il volto della statua di Glicone e, sullo sfondo, stele funerarie di epoca imperiale.

nistrazione di Roma. Un altro grande tema che emerge dalla mostra è quello della convivenza degli abitanti del territorio con le popolazioni migranti. Il particolare significato della mostra emerge dall’intreccio e dall’influsso reciproco delle civiltà, dalle trasformazioni profonde, dal processo di formazione e adattamento che ha portato alla creazione di un’identità culturale, per un lasso di tempo che va dalla fine della prima età del Ferro e fino agli albori della civiltà europea attuale, in uno spazio percepito dai contemporanei del millennio delle migrazioni come «ultima frontiera della Romanità», luogo in cui il fondamento linguistico gettato dalla lingua latina e il nome dei

Romani sono sopravvissuti, nonostante le vicissitudini, fino ai nostri giorni.

LE ORIGINI Tra i secoli IX/VIII e il VII secolo a.C., il territorio dell’odierna Romania era abitato dai Traci settentrionali, parte di un piú vasto gruppo di popolazioni indoeuropee che abitava la metà orientale dei Balcani. Per la maggior parte delle regioni dell’area dei Carpazi e del Basso Danubio, sono noti reperti tipici della cosiddetta cultura Basarabi, caratter izzati dallo stile distinto dell’ornamentazione ceramica, ma anche da oggetti in bronzo e ferro (armi, accessori, parti e pezzi dei finimenti). a r c h e o 91


SPECIALE • ROMA

L’ELMO D’ORO DI COTOFENESTI Q

uesto elmo principesco in oro (rinvenuto casualmente nel 1928 nell’omonimo villaggio) è un manufatto

eccezionale, che getta luce sul mondo dell’élite tracia a nord del Danubio nel V secolo a.C. e fornisce preziose

A sinistra: due vedute dell’elmo in oro di Cotofenesti, esposto nella mostra alle Terme di Diocleziano. Cultura geto-dacica, metà del V sec. a.C.

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In alto e a sinistra: altri particolari degli elementi che decorano il paranuca dell’elmo in oro di Cotofenesti; qui accanto, la scena sul lato sinistro del prezioso manufatto, raffigurante il sacrificio di un ariete.

informazioni sull’evoluzione delle armi locali e delle arti figurative sotto influenze orientali e greche. La parte anteriore è decorata a sbalzo e raffigura una coppia di occhi apotropaici (elemento tipico dei copricapi getici principeschi dei secoli

V-IV a.C.), e sul dritto sono raffigurate scene che presentano il sacrificio di un agnello da parte di un personaggio in costume di stile orientale. Il paranuca, diviso in due registri, è decorato con animali fantastici – grifoni e sfingi –, separati da una banda a volute e spirali.

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SPECIALE • ROMA

IL CAVALLO, SEGNO DEL POTERE Una caratteristica dei Traci settentrionali, tra cui i Geti, era l’uso di finimenti per cavalli riccamente decorati le cui forme zoomorfe, astratte e composite, si ispirano all’arte nomade del Ponto settentrionale. Nell’immagine a sinistra, elemento in oro di un finimento, dal ripostiglio getico di CucuteniBaiceni, IV sec. a.C.; in basso, ricostruzione dei finimenti di un cavallo.

Documentato attraverso gli scavi archeologici all’interno della sua area di diffusione (negli attuali territori di Serbia, Bulgaria, Romania e Repubblica di Moldavia), questo stile segna il passaggio dalla preistoria alla protostoria. Con l’insediamento dei coloni greci sulla costa nord-occidentale del Mar Nero, intorno al 650 a.C., le terre abitate dai Traci settentrionali entrarono nella storia. Ma, al di là di queste peculiarità regionali, c’è anche un fenomeno storico di impatto globale per questa parte del mondo, ma non solo: una migrazione su larga scala di popolazioni orientali, dalle steppe dell’Asia centrale alla zona a nord del Mar Nero, e ancor piú lontano, all’antica Persia. Tradizionalmente, le antiche popolazioni locali dell’Europa centrale e meridionale, alla 94 a r c h e o


In alto: la sezione della mostra dedicata all’importanza del cavallo nella Dacia del VII-VI sec. a.C. Considerato animale nobile e dai poteri soprannaturali, il cavallo divenne un simbolo di potenza e di rango sociale e politico dell’élite guerriera. A destra: un altro elemento di finimento in oro, dal ripostiglio getico di Cucuteni-Baiceni. IV sec. a.C.

fine della prima età del Ferro, combattevano a piedi, con lance, asce a doppio taglio, pugnali e spade (corte), ma molto probabilmente anche protetti da scudi, con corazze ed elmi di cuoio, marciando in file serrate. Solo pochi

nobili dell’élite guerriera indossavano corazze ed elmi di bronzo, alcuni addirittura usavano i carri di combattimento. Scoperte archeologiche relative ai secoli VII e VI a.C. indicano l’uso di un nuovo stile di combattimento

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SPECIALE • ROMA

I POPOLI VICINI: ILLIRI, SCITI E GRECI Gli artefici della cultura detta di Basarabi erano in costante contatto con le popolazioni vicine. Nei secoli IX/VIII e VII secolo a.C. i rapporti piú importanti furono quelli stabiliti con le tribú illiriche che vivevano nei Balcani occidentali. Nei secoli VII e VI a.C., le popolazioni a nord del Basso Danubio interagirono piú frequentemente con le tribú nomadi delle steppe orientali, i cosiddetti Sciti, che migrarono verso ovest e si stabilirono nelle aree orientali e centrali dell’attuale territorio della Romania (in Dobrugia, Moldavia, Transilvania). Queste popolazioni nomadi ebbero un impatto decisivo sullo stile di combattimento delle comunità locali, sia in termini di tipologie di armi che di tecniche di combattimento. Tra il V e il I secolo a.C. l’influenza delle civiltà greca ed ellenistica si diffuse in tutta la regione, comprese le zone a est e a sud dei Carpazi e fino al Basso Danubio.

nella regione dei Carpazi e del bacino del Basso Danubio, nella fase tarda della cultura Basarabi: guerrieri a cavallo, che usavano archi e frecce, ma anche una spada corta (chiamata akinakes), che i nomadi avevano «importato» dalla Persia achemenide. Cosí, il cavallo divenne un simbolo dello status sociale (e successivamente politico).Utilizzati sia in battaglia che per esibizione di potenza e rango, i cavalli erano dotati di ricchi corredi di finimenti in bronzo, argento e oro.

GETI E DACI Diviso in diverse unità linguistiche (Triballi, Moesi, Getae, Daci), il mondo tracio, situato a nord dei Balcani, era, nei secoli V-III a.C., politicamente frammentato in varie tribú bellicose e dalla fluida dinamica dei rapporti di potere. Gli elementi naturali che piú influenzarono lo sviluppo delle società getiche furono il Danubio, nel suo tratto inferiore importante arteria di circolazione europea, nonché il Mar Nero, sulle cui coste si erano stabiliti i Greci a partire dalla metà del VII secolo a.C. Le opportunità strategiche offerte dal controllo di queste città portuali greche e delle foci del Danubio, in generale, hanno attirato nel corso dei millenni l’attenzione di numerose entità politiche e culturali, talvolta molto lontane, come gli Achemenidi, i Macedoni e, piú tardi, i Romani. Collocati nell’area di confluenza della civiltà del Mediterraneo meridionale con quella nomade delle steppe nord-pontiche, le tribú getiche hanno delineato un discorso identiA sinistra: elmo celtico in bronzo e ferro, sormontato da un uccello, da Ciumesti. Seconda metà del III-inizi del II sec. a.C.

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RELIGIONE E MAGIA In assenza di fonti scritte, si sa molto poco del pantheon delle popolazioni della Tracia settentrionale. I reperti del VII e VI secolo a.C. forniscono solo informazioni parziali sulle loro credenze. Questi materiali documentano in prevalenza le pratiche funerarie, come la deposizione di oggetti personali, ornamenti, armi e offerte di cibo e bevande, con cadaveri inumati, o, piú raramente, cremati sotto tumuli. Pratiche magiche sono suggerite dagli idoletti antropomorfi o zoomorfi di argilla. Il mondo spirituale e religioso dei nomadi della steppa del periodo protostorico che si stabilirono nell’attuale territorio della Romania è evocato da pezzi singolari, come i grandi calderoni di bronzo, interpretati come oggetti rituali utilizzati per sacrifici animali, o le stele sepolcrali in pietra (erette sui tumuli funerari) con raffigurazioni di guerrieri, muniti di pugnali akinakai, archi e asce. Raramente menzionati

tario strettamente legato ai modelli politicoculturali dominanti dell’antichità classica ed ellenistica – quelli diffusi dai Greci, dai Macedoni, dagli Odrisi, dagli Sciti e dagli Achemenidi. Proprio questa sovrapposizione di influenze, sintetizzate e reinterpretate, ha costituito la base del carattere originale della loro civiltà. Possiamo riconoscere tali connessioni sovraregionali soprattutto nelle armi, nelle armature e nei servizi da tavola utilizzati dagli aristocratici locali. I capi della Tracia settentrionale facevano parte delle grandi reti diplomatiche e militari che strutturavano la politica dalla Grecia settentrionale alle foci del Danubio. Ricevevano e offrivano doni prestigiosi di metalli preziosi e partecipavano a banchetti collettivi: mec-

nelle fonti antiche (assire, persiane, greche), questi nomadi provenienti dalle steppe dell’Asia centrale sono genericamente conosciuti come «Sciti»: sull’onda di grandi movimenti di popolazioni, si spostano nei territori delle odierne Russia meridionale, dell’Ucraina, della Repubblica di Moldavia, della Romania e della metà orientale dell’Ungheria.

In alto: insieme di figurine in terracotta, probabilmente di uso magico, da Poiana. Cultura geto-dacica. Fine del I sec. d.C. Nella pagina accanto, in basso: un pannello della mostra con ricostruzione di una scena di caccia.

canismi sociali aristocratici per rafforzare alleanze militari. Allo stesso tempo disponevano di una forza economica e politica sufficiente a reinterpretare i simboli di potere vicini, come testimonia la produzione di armature cerimoniali in metalli preziosi nelle botteghe locali, alla metà del IV secolo a.C., o la realizzazione di una complessa iconografia di impronta mitologica.

GRECI E MACEDONI Veso la metà del VII secolo a.C. i Greci della Ionia (nell’ovest dell’Asia Minore) fondarono le prime città portuali a ovest e a nord del Mar Nero, che chiamarono Pontos Euxeinos – il mare accogliente. Le foci del Danubio che si immettono nel Mar Nero costituirono ina r c h e o 97


SPECIALE • ROMA A sinistra: applique in bronzo dorato raffigurante la Gorgone Medusa, da Colonia Ulpia Sarmizegetusa. II sec. d.C. In basso: bracciale in oro, da Sarmizegetusa Regia. Cultura geto-dacica. Metà del I sec. a.C.

SARMIZEGETUSA BASILEON IL REGNO TRA LE MONTAGNE Il piú significativo centro religioso, politico ed economico della Dacia preromana si sviluppò nella seconda metà del I secolo a.C. in una selvaggia area montuosa, situata a 1000 m di altitudine nella Transilvania sud-occidentale. Si tratta del regno governato, un secolo piú tardi, dal re Decebalo e perno principale delle guerre di conquista romane condotte dall’imperatore Traiano nel 101-102 e successivamente nel 105-106. Centinaia di ettari di pendii montuosi furono terrazzati dai Daci con un colossale sforzo di monumentalizzazione del paesaggio, prova dell’attuazione di un programma di organizzazione unitaria dello spazio elaborato da un’autorità centralizzata. Grazie al coinvolgimento di artigiani greci e, in seguito, alle sovvenzioni romane, l’insieme dei siti montani comprendeva cittadelle fortificate con mura ellenistiche e torri abitate, diverse aree sacre che custodivano templi in pietra con un’architettura varia e complessa, strade lastricate, scale monumentali, officine, cisterne d’acqua e

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abitazioni. Il sito venne distrutto durante la prima guerra dacica quando sulla precedente area sacra fu costruito un castrum o forse addirittura una sede imperiale. Funzionò fino alla seconda guerra dacica, dopodiché il nome Sarmizegetusa insieme allo statuto di sede dei governatori consolari furono assunti dalla nuova città romana Colonia Ulpia Traiana, situata alle pendici delle montagne, nell’area precedentemente abitata dai Daci di Decebalo.


A sinistra: situla in ferro (parte di un grande deposito di reperti in ferro) dalla Terrazza VIII di Sarmizegetusa Regia. Sullo sfondo, la scoperta del deposito in una foto del 1952.

dubbiamente un’attrattiva fondamentale: qui, la città greca piú importante, una colonia di Mileto, prese anche il nome del fiume, Istros. La presenza dei Greci alle foci del Danubio agí come da catalizzatore per le comunità getiche locali che fiorirono nell’entroterra, adottando rapidamente il consumo di prodotti greci, come il vino dell’Egeo, e imitando i loro tipi di ceramica. I reperti archeologici suggeriscono che sia i Geti che i Greci interagissero strettamente, frequentando insieme gli stessi luoghi sacri. Nel periodo ellenistico (340-30 a.C.) la città greca piú importante del Ponto occidentale era Callatis, una colonia dorica. Callatis svolse

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

Disegno ricostruttivo (di Radu Oltean) di Sarmizegetusa Regia.

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SPECIALE • ROMA

un importante ruolo di mediazione nelle interazioni politiche e militari tra i Geti e i regni greco-macedoni, sfruttando allo stesso tempo il gusto per il lusso nato con la conquista dell’Asia da parte di Alessandro Magno. La religione continuò a essere un fattore che univa l’aristocrazia getica e i gruppi ricchi e influenti dei Greci costieri. Nel III secolo a.C. entrambi i popoli costruirono elaborate tombe a camera sotto tumuli monumentali, sull’esempio di quelle macedoni. Durante il periodo ellenistico si diffusero, sempre sotto l’influenza macedone, i culti misterici, come quelli praticati in onore di Dioniso, di Eros e della Dea Madre.

L’ETÀ D’ORO DELLA CIVILTÀ GETICA L’espansione del regno di Macedonia sotto Filippo II e Alessandro Magno portò a una profonda riconfigurazione degli equilibri di potere in Grecia e nell’intera Penisola Balcanica. Dalla metà del IV secolo a.C. i Macedoni diventano il principale attore politico e militare anche nel Nord-Est dei Balcani, spazio in cui hanno cercato per un secolo alleanze con i re locali per mantenere, in realtà, il controllo sulle città greche alle foci del Danubio. In questo contesto, attraverso la mediazione delle città greche del Ponto, gli aristocratici geti entrarono in possesso di grandi quantità di monete d’oro macedoni, come sussidi o pagamenti per mercenari; allo stesso modo, gli artigiani del Sud vengono coinvolti nella realizzazione di set di gioielli o nella costruzione di elaborate tombe locali. Questo è il periodo in cui la cultura getica conosce il suo massimo sviluppo. Il numero di insediamenti aumenta in modo esponenziale. Le fonti antiche ricordano per la prima volta un regno centralizzato dei Geti, quello di basileus Dromichaites. In questo periodo gli oggetti di prestigio che prima erano realizzati in argento (elmi, finimenti, vasi) iniziarono a essere realizzati in oro, un lusso specifico del periodo ellenistico. UN MONDO IN MOVIMENTO A partire dalla metà del IV secolo a.C., la civiltà greca e romana dell’area egea, caratterizzata dalle città e dai grandi santuari e, soprattutto, dalla continua lotta per il potere nei Balcani, in Grecia e nell’Asia Minore – scatenatasi dopo la morte di Alessandro il Mace100 a r c h e o

done –, esercitarono una forte attrazione su molte popolazioni insediate nella zona settentrionale e occidentale del continente europeo. Alcuni gruppi di queste popolazioni si insediarono per diverse generazioni nei territori adiacenti al Basso Danubio: i Celti nella Grande Pianura Ungherese, dalla metà del IV secolo a.C., per arrivare, nel III secolo a.C., in Transilvania; i Bastarni nell’est dei Carpazi alla fine del III secolo a.C.; i Sarmati nel Basso Danubio verso la fine del I secolo a.C. Tutti questi popoli interagirono in varia misura tra loro con le popolazioni locali nordtraciche, pur conservando alcune usanze e influenze culturali dalle loro aree d’origine. Tuttavia, il risultato fu la formazione di nuove identità collettive, formatesi anche sotto l’impatto della cultura ellenistica.

Disegno ricostruttivo (di Radu Oltean) raffigurante guerrieri sarmati. Nella pagina accanto, in basso: anello in oro con applicazioni di turchesi e granati, da Mocra (Repubblica di Moldavia). Cultura dei Sarmati Rossolani, fine del I d.C.-inizi del II sec. d.C.


I SARMATI AI CONFINI DELL’IMPERO ROMANO

A destra: spada (akinakes) decorata con ageminature in argento e rame, cultura dei Sarmati Rossolani. II-III secolo d.C.

I Sarmati erano un insieme di popolazioni di origine iraniana che si stabilirono nell’area del Basso Danubio con il consenso e sotto la supervisione dell’impero romano. Nella parte occidentale, nella Pianura del Tibisco, all’inizio del I secolo a.C. entrarono i Sarmati Iazigi, mentre all’est, in Moldavia e Valacchia, si insediarono i Sarmati Rossolani. L’insediamento dei Sarmati vicino al confine dell’impero romano portò ad alcuni cambiamenti nelle manifestazioni dello status delle élite locali. I corredi funerari dei tumuli datati alla fine del I secolo a.C. suggeriscono l’accesso privilegiato ai prodotti dell’impero romano. Tra i manufatti tipici delle popolazioni sarmatiche dell’epoca si possono menzionare pugnali con anello sul manico, ceramica lavorata a mano e, come accessori per l’abbigliamento, una vasta varietà di perline e specchi con simboli araldici.

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SPECIALE • ROMA

CELTI ORIENTALI E BASTARNI Sebbene i primi coloni celtici orientali fossero organizzati attorno a guerrieri con ampio raggio di spostamento e alle loro famiglie, cosí come testimoniano i corredi funerari – che includono oggetti provenienti dalla Baviera o dall’Italia settentrionale –, questi gruppi furono ritrovati successivamente in Transilvania come piccole

comunità rurali sedentarie, prive di gerarchia sociale. I loro cimiteri e i loro insediamenti in Transilvania cessarono nei primi decenni del II secolo a.C., momento in cui iniziò a svilupparsi in questo territorio anche la cultura dacica. Nell’effervescenza militare creata dalle ambizioni espansionistiche del re macedone Filippo V, alleato di Annibale e in conflitto

IL TESORO BARBARICO DI PIETROASELE Scoperto nel 1837 da alcuni contadini all’interno di un tumulo nei pressi del villaggio di Pietroasele e originariamente composto da ventidue pezzi, ne sono sopravvisssuti dieci, conservati al Museo Nazionale di Bucarest. Tra questi figurano le due fibule in oro e pietre semi-preziose e il magnifico piatto modellato con figure orfiche intorno a una dea seduta (disegno ricostruttivo di Radu Oltean).

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Qui sotto e in basso: oggetti del tesoro aureo di Pietroasele. Cultura della Confederazione Unnica. Prima metà del V sec. d.C.


In alto: statuetta in marmo raffigurante il dio Liber Pater, da Apulum. II-III sec. d.C. A destra: statuetta in bronzo raffigurante il dio Giove, da Potaissa. Seconda metà del I sec. d.C.

con i Romani, si intravedeva un nuovo mondo che culminerà, tre secoli piú tardi, con la conquista romana della Dacia. Fu l’inizio del coinvolgimento di Roma in Grecia e nei Balcani. In questi conflitti furono probabilmente coinvolti anche i Bastarni, una popolazione di origine germanica, menzionata come alleata di Filippo V contro i Romani. Essi migrarono alla fine del III secolo a.C. nell’area orientale dei Carpazi, sostituendo la cultura getica locale.

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

L’AVVENTO DI ROMA: UN NUOVO EQUILIBRIO DI POTERE I procedimenti di riconfigurazione politica iniziati durante le guerre di Filippo V sarebbero proseguiti con la trasformazione della Macedonia in provincia romana nel 148 a.C. Tuttavia, la nuova provincia era soggetta alle incursioni dei Traci, oltre che dei Celti Scordisci e dei Bastarni. Per proteggere i propri interessi, Roma cercò di creare una zona di protezione estesa fino alla periferia settentrionale della nuova provincia, sia con la a r c h e o 103


SPECIALE • ROMA In questa pagina e nella pagina accanto, in alto: alcuni oggetti (una fibula e decorazioni di finimenti) in oro e pietre semipreziose, provenienti dalle tombe principesche di Apahida (Transilvania). Cultura della confederazione gepicida Apahida. Seconda metà del V sec. d.C.

forza delle armi sia con pagamenti dei tributi che rafforzavano le alleanze. In questo crogiolo militare multietnico si formarono anche le nuove identità aristocratiche dei Geti e dei Daci, del II-I secolo a.C. Gli oggetti utilizzati durante le feste collettive riflettono il legame tra i gruppi aristocratici della Dacia preromana con le reti di potere e i mercati dei prodotti greco-romani. Emblematiche sono le coppe locali per bere, riproduzioni dei vasi in ceramica a rilievo (le cosiddette «coppe megaresi»), o le coppe d’argento sul fondo delle quali vi era un medaglione con ritratti a rilievo, una tipologia attestata presso le corti reali macedoni. Con la tarda repubblica romana, l’utilizzo dei vasi di metallo e di altri oggetti compresi nel vasellame romano cresce in modo considerevole, in sostituzione dei modelli di ispirazione ellenistica

DACIA AUGUSTI PROVINCIA L’inclusione dell’attuale Romania nella sfera della civiltà piú avanzata dell’epoca, l’impero romano, cambiò per sempre il destino di questa parte del mondo. La Dacia e la Mesia Inferiore erano province imperiali governate da un governatore (legatus Augusti pro praetore), nominato tra gli ex consoli romani. Successivamen104 a r c h e o

te, la provincia di Dacia subí una serie di riorganizzazioni, sotto Adriano (Dacia Superior e Dacia Inferior) e sotto Marco Aurelio (Dacia Porolissensis, Dacia Apulensis e Dacia Malvensis). La difesa della provincia richiedeva un grande sforzo militare (circa 30 000-40 000 soldati). In Dacia erano stanziate due legioni (la XIII Gemina e la V Macedonica) e numerose unità ausiliarie (coorti, aleae e numeri), i cui soldati, al termine del servizio militare, acquisivano la cittadinanza romana e ricevevano appezzamenti di terreno nella provincia in cui avevano prestato servizio.


A destra: calderone rituale in bronzo, da Desa. Cultura della confederazione unnica Desa. Prima metà del V sec. d.C.

Sono attestati coloni provenienti dall’Italia, dal Norico e dalla Pannonia, dall’Illirico, dalla Tracia, cosi come anche dal mondo grecoorientale. La convivenza con la popolazione indigena produsse, cosí, una sintesi in cui giocarono un ruolo determinante lo stile di vita romano, la lingua latina, un sistema economico articolato e collegato al resto del mondo, una moneta unica, la tolleranza e il potere di assimilazione della mentalità romana. Dopo le guerre contro i Daci, la maggior parte del loro regno fu assegnata alla nuova provincia chiamata Dacia. L’esercito, l’amministrazione e i coloni influirono notevolmente sulla trasformazione della Dacia in una provincia romana, costruita in breve tempo «a fundamentis». La provincia fu oggetto di una massiccia colonizzazione, diretta dall’autorità centrale. Sono attestati «ex toto orbe Romano» coloni che convivevano con la popolazione autoctona. Un ruolo particolare ebbero le città, veri centri di irradiazione della civiltà romana. Le incursioni barbariche costrinsero gli imperatori della seconda metà del III secolo a.C. ad abbandonare la provincia della Dacia. Il ritiro dei Romani a sud del Danubio si completò durante il regno dell’imperatore Aureliano (270-275 d.C.). Sul territorio dell’ex provincia della Dacia rimase una popolazione di lingua latina, con uno stile di vita e una cultura materiale definitivamente influenzati dalla romanità; cosí, nonostante tutti gli sconvolgimenti e le trasformazioni dei secoli successivi, a nord del Danubio sopravviveva l’ultima frontiera della romanità. DOVE E QUANDO «Dacia. L’ultima frontiera della Romanità» Roma, Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano fino al 21 aprile Orario martedí-domenica, 9,30-19,00 Info tel. 06 684851; e-mail: mn-rm@cultura.gov.it; https:// museonazionaleromano.beniculturali.it/ La mostra è a cura di Ernest Oberländer, direttore del Museo Nazionale di Storia della Romania, e di Stéphane Verger, direttore del Museo Nazionale Romano a r c h e o 105


TERRA, ACQUA, FUOCO,VENTO Luciano Frazzoni

CON POCHI OBOLI LO PORTI A CASA AMBITI IN ETÀ MODERNA DA COLLEZIONISTI E MUSEI, QUALE VALORE POTEVANO AVERE, IN ORIGINE, GLI SPLENDIDI VASI GRECI FIGURATI?

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musei archeologici di tutto il mondo espongono preziosi vasi greci figurati, opera di ceramografi famosi che tra il VI e il V secolo a.C. hanno realizzato autentici capolavori, come Exechias, Eufronio o il Pittore di Berlino. Le inchieste giudiziarie avviate a fronte di sospetti sempre piú pesanti sulla sua provenienza accertarono che il famoso cratere con la rappresentazione della morte di Sarpedonte, opera di Eufronio (che, dopo essere stato restituito all’Italia, fa ora bella mostra di sé nel Museo Nazionale Archeologico Cerite di Cerveteri), era stato acquistato illecitamente dal Metropolitan Museum di New York, dopo che il reperto era stato trafugato a Cerveteri, e pagato la considerevole cifra di 1 milione di dollari negli anni Settanta del secolo scorso. Oggi, quindi, i vasi greci, soprattutto quelli di produzione attica, a figure nere e rosse, oltre a un valore artistico e archeologico fondamentale per la conoscenza dell’arte greca classica, hanno anche un enorme valore economico. Ma qual era il costo di questi oggetti per i contemporanei? Come ha spiegato Maria Chiara Monaco in uno studio pubblicato nel 2019, possiamo farcene un’idea (che sicuramente sorprenderà) dalle poche fonti antiche di cui disponiamo. Le fonti letterarie non accennano al prezzo del vasellame

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ceramico, eccezion fatta per alcuni passi di Aristofane, che, nelle Rane (405 a.C.), descrive un alterco che si svolge nell’Ade tra Euripide e Eschilo: Dioniso interviene per porre fine alla discussione, dicendo tra l’altro a Euripide di ricomprare una lekythos, ossia una boccetta per profumi, a Eschilo, affermando «con un obolo la prendi (ossia la lekythos) ed è bellissima». Con una minima spesa, dunque, si poteva comprare un piccolo vaso (non specificato se dipinto o solo verniciato), ma anche bellissimo. Per avere un’idea di quanto valesse un obolo, possiamo ricordare che la paga giornaliera di un oplita ateniese (ossia un soldato semplice) nel V secolo a.C. era di una dracma, equivalente a 6 oboli.

UNA CIFRA ESAGERATA Sempre Aristofane, nella Pace (421 a.C.), scrive che, con la liberazione della Pace, un fabbricante di falci poteva vendere i suoi prodotti per 50 dracme, mentre un ceramista poteva vendere i suoi kadoi (al plurale, dunque non possiamo dire quanti) per 3 dracme. Per kados si intende un contenitore d’argilla alquanto grezza, caratterizzato da un corpo di forma ovoidale e con due prese impostate sulla spalla, utilizzato come secchio per attingere acqua dai pozzi in campagna. Il passo aristofaneo non stabilisce quanti pezzi si potessero

Stamnos attribuito al Pittore di Nicia e restituzione grafica dell’iscrizione commerciale graffita sotto il piede del vaso. 420-410 a.C. circa. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. acquistare da una bottega per 3 dracme, ma la cifra sembra comunque esagerata per contenitori cosí rozzi. Nelle colonie della Magna Grecia, almeno a partire dal III secolo a.C., i kadoi venivano anche utilizzati come contenitori per la pece e per le conserve di frutta e di pesce. Una tavoletta dell’archivio dell’Olympieion di Locri ci informa che il santuario traeva un’entrata economica di 120 stateri dalla vendita di 40 kadoi di pece a 3 stateri al kados (1 statere equivale a 2 dracme). Tuttavia, in questo caso non è tanto il contenitore a


generare un guadagno per l’amministrazione del santuario, quanto la vendita del contenuto, ossia la pece, e il kados è indicato solo come unità di misura. Durante la Guerra del Peloponneso (431-404 a.C.), la notte prima della partenza della flotta ateniese per la spedizione in Sicilia avvenne ad Atene un fatto misterioso: vennero mutilate dei genitali le Erme sparse per la città. Il fatto, conosciuto come «scandalo delle Erme» e riportato tra gli altri da Tucidide, fu considerato sia come un atto per sovvertire il governo della città, sia come un cattivo presagio. Fu quindi avviata un’indagine per scoprire i colpevoli. Alcune epigrafi, conosciute come «stele attiche», scritte in seguito a tale vicenda, riportano i nomi di chi fu coinvolto in questo «scandalo», ma anche gli incassi ottenuti dalla confisca e dalla vendita all’asta delle loro proprietà. Tra queste ultime, ciò che qui ci interessa, sono i prezzi di alcune forme ceramiche, benché in alcuni casi sia difficile associare una forma al termine greco

corrispondente. Tra i manufatti ceramici sequestrati ai colpevoli e messi all’asta figurano: un pithos di medie/piccole dimensioni (corrispondente alla capacità di 12 anfore), che aveva un valore all’asta compreso tra 4 e 11 dracme; un bacile d’argilla (karpodos) utilizzato per impastare i cibi, valutato 2 dracme; ma lo stesso recipiente, realizzato in pietra, ha un prezzo piú alto, di 7 dracme e 5 oboli; un mortaio (olmos) aveva un prezzo di 1 dracma e 5 oboli; anche in questo caso, lo stesso oggetto, se in pietra, registra un costo di 8 dracme e 5 oboli, mentre un mortaio in legno oscilla addirittura tra 3 dracme e 3 oboli e 14 dracme e 1 obolo. Come si vede, per lo stesso oggetto il prezzo varia secondo il materiale con cui è realizzato, a tutto svantaggio dei prodotti in argilla. Va inoltre considerato che i prezzi sono riferiti a oggetti già usati, pertanto inferiori rispetto a quelli di mercato per oggetti nuovi. Tra il vasellame da mensa, figurano le idrie (brocche per l’acqua), forse figurate, messe all’asta in uno stock di numero imprecisato di pezzi, al prezzo di 14 dracme; è probabile che il costo unitario di una idria (hydria) potesse essere di 12 oboli, ossia due dracme (pertanto lo stock poteva essere composto da sette idrie). Piú basso è il costo dei crateri, forse del tipo a campana e Cratere a campana del Pittore di Pothos e restituzione grafica dell’iscrizione commerciale graffita sotto il piede del vaso. 430-420 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.

figurati, messi all’asta per 4 dracme; da altre iscrizioni sappiamo che il costo di un cratere a campana poteva oscillare tra 4 e 4 oboli e mezzo (dunque lo stock poteva essere composto di 6 vasi). Ancora piú basso era il prezzo degli stamnoi, vasi per contenere il vino, anch’essi probabilmente figurati, il cui prezzo unitario variava tra 3 oboli e mezzo e 7. Le anfore panatenaiche, che costituivano il premio nelle gare atletiche che si svolgevano in onore di Atena, raffigurata sempre su uno dei lati di questi vasi, avevano un costo molto basso, tra 2,4 e 3,7 oboli (ma si deve considerare che il valore del premio era costituito dall’olio contenuto in queste anfore e non dal recipiente vuoto), mentre un’anfora di Eretria piena di vino poteva avere un costo di non meno di 3 oboli.

DETTAGLI «NASCOSTI» Ma le notizie piú importanti sui prezzi dei vasi figurati, opera di ceramografi famosi, sono fornite da alcune annotazioni di tipo commerciale graffite sotto il fondo di alcuni manufatti di produzione attica, destinati all’esportazione. Tali iscrizioni, la cui datazione va dagli inizi agli ultimi decenni del V secolo a.C., individuano stock di vasellame che doveva essere imbarcato sulle navi, e che costituivano probabilmente precisi ordinativi di ceramiche da mensa e per il simposio. Prendiamo un esempio di tali stock con i relativi prezzi: nel fondo di una pelike attribuita al Pittore di Nicia databile al 420-410 a.C., l’iscrizione graffita elenca le forme con i relativi prezzi: 3 stamnoi (forma equivalente alla pelike, anforetta per contenere vino) = 3 dracme e 3 oboli; 11 oxides (contenitori per aceto, forse chiamati anche askoi) = 1 obolo e mezzo; 50 lekythia mikra (piccole bottiglie) = 3 oboli; 6 lekythoi dikaioi (lekythoi di dimensioni normali, da identificare forse come

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Le due facce di un cratere a campana del Pittore del Dinos e, in alto, la foto dell’iscrizione commerciale graffita sotto il piede del vaso. 430-410 a.C. circa. Philadelphia (USA), Museum of the University. oliere da mensa) = 3 oboli; 13 oxybapha (ciotoline) = 1 obolo. Prezzi molto bassi, dunque, se consideriamo il valore unitario delle singole forme (una singola oxis costa per esempio 1/8 di obolo, equivalente a 1 chalkus). Altre iscrizioni graffite indicano che vasi di dimensioni maggiori, come i crateri e le hydriae, avevano un prezzo piú alto, che agli inizi del V secolo superava la dracma per un singolo vaso. Una hydria proveniente da Vulci, opera di un ceramografo vicino al Pittore di Berlino, ora al Louvre, costava

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intorno al 480 a.C. 1 dracma e 1 obolo; per lo stesso prezzo si poteva acquistare un’anfora del Pittore di Berlino (anch’essa da Vulci, ora al Louvre), mentre ancora piú caro era un cratere a colonnette del Gruppo di Polignoto, del costo di 10 oboli (1 dracma e 4 oboli).

IL CROLLO DEI PREZZI Se confrontiamo questi prezzi con quelli di alcuni crateri a campana opera di maestri come il Pittore di Cadmo, il Pittore del Dinos e il Pittore di Pothos, eseguiti negli

ultimi decenni del V secolo, il cui costo era di appena 4 oboli, si nota un notevole crollo dei prezzi alla fine del secolo. Ciò è dovuto, piú che a fattori storico-politici legati all’esportazione di ceramica dalla Grecia verso l’Etruria dopo le guerre tra Etruschi e Greci, a un cambiamento nelle tecniche di fabbricazione. Da forme a profilo spezzato come i crateri a colonnette, a volute o a calice, che richiedevano l’assemblaggio di parti diverse del vaso, dunque un maggior tempo di esecuzione, si passa a forme come i crateri a campana, piú rapidamente eseguibili. L’abbattimento dei prezzi delle ceramiche, che ad Atene dovevano essere ancora piú contenuti (i prezzi delle iscrizioni si riferiscono infatti a vasellame destinato all’esportazione), si può giustificare con il basso costo della materia prima, l’argilla, con la quale veniva realizzata anche la pittura, e con la rapidità di esecuzione dei manufatti. Il guadagno delle botteghe di ceramisti derivava pertanto dalla maggiore quantità di ceramica attica, figurata e non, che poteva essere prodotta in tempi minori, e poi essere largamente esportata in tutto il bacino del Mediterraneo, e di cui oggi i musei di tutto il mondo espongono preziosi esemplari. Se pertanto il valore per noi moderni deriva dalla qualità dei vasi, per i ceramisti antichi derivava soprattutto dalla loro quantità.

PER SAPERNE DI PIÚ Maria Chiara Monaco, «Con un obolo la prendi, ed è bellissima». Sui prezzi della ceramica attica, in Giovanni Marginesu (a cura di), Annuario della Scuola Archeologica di Atene e delle Missioni in Oriente, Supplemento 2, Studi sull’economia delle technai in Grecia dall’età arcaica all’ellenismo, 2019



L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

AL CENTRO DELL’UNIVERSO STELLA PRINCIPALE DEL COSMO, IL SOLE ASSUNSE BEN PRESTO UN FORTE VALORE SIMBOLICO. RIBADITO ANCHE DA EMISSIONI MODERNE, COME QUELLE DI CRISTINA DI SVEZIA

C

on le sue speculazioni matematiche e l’osservazione dei moti celesti, Nicolò Copernico (1473-1543) aprí la strada all’attuale concezione dell’universo a noi noto, consegnando la sua posizione fissa e centrale nel cosmo al sole, intorno al quale si muovono tutti i pianeti del nostro sistema, terra compresa. Al geniale astronomo polacco è stata di recente dedicata una mostra («Copernico e la rivoluzione del mondo», Roma, Parco Archeologico del Colosseo, Curia Iulia, 21 ottobre 2023-29 gennaio 2024), che, fra gli altri, esponeva un magnifico cratere a figure rosse della fine del V secolo a.C. ritrovato nella necropoli etrusca di Poggio Sommavilla

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(Collevecchio, Rieti) e raffigurante alcuni satiri che ammirano estasiati l’epifania del Sole, raffigurato con volto umano di profilo entro un disco radiato.

VALENZA REGALE Il sole ricorre con varie iconografie sulle monete romane, a partire dalle once del 217-215 a.C. con il busto radiato e frontale di Sol, cosí come su alcuni denari a nome di L. Mussidius Longus, battuti nel 42 a.C. Il bello e nobile profilo radiato del Sol Invictus compare poi con frequenza nella monetazione imperiale, data la valenza regale dell’immagine solare. Un severo volto del Sole

In alto: il busto del Sol raffigurato su un denario battuto a nome di L. Mussidius Longus. 42 a.C. In basso: la raffigurazione del dio del Sole, tra raggi dorati, dipinta su un cratere a calice di produzione etrusca proveniente dalla necropoli di Poggio Sommavilla (Rieti). Fine del V sec. a.C. Parma, Complesso della Pilotta, Museo Archeologico. sovrastante il segno zodiacale del Leone si ritrova anche sui dirham di Kaykhusraw II (1246), sultano del regno anatolico selgiuchide Rum. Sulle monete e medaglie di età moderna il sole raggiante con volto umano diviene un’immagine molto usata, simbolo, per esempio, dei Gonzaga, duchi di Mantova, che la utilizzarono tra il XIV e la fine del XVIII secolo. Tra le piú belle ed eclatanti apparizioni del Sole in campo numismatico si annovera senza dubbio quella realizzata su alcune medaglie create per la regina Cristina di Svezia (1626-1689) – celebre non soltanto per il film del 1933 nel quale fu la


connazionale Greta Garbo a vestirne i panni –, ma per essere la piú celebre, eccezionale e sapiente convertita dal luteranesimo al cattolicesimo del suo tempo. Già in tenera età, Cristina abbandonò la religione patria, rinunciando al freddo trono svedese nel 1654 per trasferirsi nella solare Roma, dove visse sino alla sua morte, spezzando il lungo soggiorno con numerosi viaggi. Donna coltissima, raffinata intellettuale e spirito libero, conscia del suo ruolo di regnante per nascita e quindi per volontà divina, la regina segnò profondamente, e a tutto tondo, la vita culturale della Roma dell’epoca.

FILOSOFIA E MUSICA Mecenate e collezionista d’eccezione, fondò nel 1674 l’Accademia Reale (da cui trasse origine, alla sua morte, l’Accademia dell’Arcadia) nella sua splendida residenza in Palazzo Riario (oggi Galleria Corsini alla Lungara), dove riuniva spiriti eletti ed eruditi che vi intrattenevano ragionamenti filosofici accompagnati da intermezzi musicali e teatrali: l’Accademia era di fatto un potente mezzo di esaltazione della regalità innata di una sovrana che aveva rinunciato a regnare per inseguire sí la vocazione religiosa, ma, fondamentalmente, per poter cosí perseguire una vita all’insegna della piú completa libertà e volontà personale. Nel palazzo alla Lungara Cristina raccolse le sue splendide raccolte d’arte pittorica e statuaria, l’eccezionale biblioteca e una ricchissima collezione di antichità. Volle poi far realizzare una serie di

Medaglia in bronzo attribuita a Massimiliano Soldani Benzi (1656-1740), con, al rovescio, il Sole sormontato dal motto NEC FALSO NEC ALIENO (in alto) e la regina Cristina di Svezia al dritto (in basso). 120 medaglie, create dai maggiori incisori dell’epoca tra cui Giovanni Martino Hamerani, Massimiliano Soldani Benzi e Giovanbattista Guglielmada, che dovevano celebrare la sua vita, con il suo busto al dritto variamente abbigliato e, al rovescio, una serie di immagini allegoriche accompagnate da motti latini, il

tutto mirante a esaltarne la figura di regnante per grazia divina. In alcuni esemplari attribuiti al Soldani Benzi, Cristina è raffigurata «alla romana», con pettinatura terminante in uno chignon retto da un filo di perle e vestita di un’egida con la testa di Medusa sul petto e drappeggio sulle spalle e sul busto, una sorta di leggera corazza che ricorda il suo considerarsi la «Minerva del Nord». Al rovescio rifulge, frontale, un Sole raggiante dal serafico volto umano, sormontato dal motto Nec falso nec alieno, da tradursi «Né con falsa, né con estranea luce». Come il Sole, principe del cosmo, brilla di vera e propria luce che non gli deriva da altro corpo celeste, cosí lo splendore regale di Cristina è innato e non proviene da altra luce, ovvero da un marito re.

IMMOBILE E RADIOSO Questa immagine del Sole, chiaramente inteso come la stella principale (e immobile aggiungiamo oggi) del cosmo, che dà luce e vita all’Universo, ci riconduce all’inizio, ovvero a Copernico: come l’astronomo polacco, anche Cristina di Svezia si interessò alla filosofia pitagorica e alle scoperte che avvenivano al suo tempo riguardo il cosmo. Tra i suoi corrispondenti epistolari vi fu poi il presbitero, filosofo e astronomo Pierre Gassendi, che scrisse una biografia di Copernico ed è quindi possibile che Cristina conoscesse le teorie copernicane, che ponevano il Sole, uno dei suoi emblemi, nel quale si riconosceva, fisso, al centro dell’universo, brillante di luce propria.

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Marco Chioffi, Giuliana Rigamonti

WADI HAMMAMAT I «Inscrizioni del visir Amenemhat nell’anno 2 del IV Montuhotep» Prefazione di Nigel Strudwick, Editrice La Mandragora, Imola (BO), 243 pp., ill. col. e b/n 32,00 euro ISBN 978-88-7586-738-6 www. editricelamandragora.it

Da oltre un decennio, Marco Chioffi e Giuliana Rigamonti si dedicano alla pubblicazione di importanti porzioni del patrimonio epigrafico dell’antico Egitto. Quest’ultimo titolo si sofferma su una serie di testimonianze localizzate nello Wadi Hammamat (letteralmente, la Valle delle Colombe), una località del Deserto Orientale che ebbe grande importanza sia per la presenza di numerose miniere e cave, sia per essere uno snodo nevralgico nella carovaniera che 112 a r c h e o

collegava il Nilo al Mar Rosso. L’attenzione degli autori del volume si concentra, in particolare, su una serie di iscrizioni rupestri che fanno riferimento a una spedizione effettuata durante il regno del faraone Montuhotep IV, dell’XI dinastia, e diretta dal visir Amenemhat. Scopo dell’operazione era quello di procurare blocchi di pietra dura, pregiata, da utilizzare per il sarcofago del sovrano e per il suo coperchio. Seguendo una prassi consolidata, di ciascun testo viene presentata la restituzione grafica dell’originale, redatto con segni geroglifici, alla quale fa seguito la traduzione commentata. Per ogni iscrizione, inoltre, vengono fornite, nelle pagine finali, fotografie a colori di dettaglio e del contesto nel quale sono situate. Un’opera di taglio specialistico che, come scrive l’egittologo inglese Nigel Strudwick, non ha soltanto il merito di rendere leggibili le varie testimonianze, ma offre un’idea della pratica di fare della pietra cavata in siti come lo Wadi Hammamat anche un supporto per iscrizioni, in questo caso con il fine di annotare i lavori svolti. Consegnando a noi posteri una preziosa fonte documentaria. Stefano Mammini Elisabetta Villari

LE TRAPPOLE DI TUCIDIDE

Assedio, guerra ed epidemia nell’Atene del V secolo a.C. LEG; Rimini, 206 pp., ill. b/n 18,00 euro ISBN 978-88-6102-902-6 www.estoria.it

Il grande storico ateniese Tucidide (460-395 a.C. circa) dedicò la sua intera esistenza alla redazione di una storia della lunga guerra del Peloponneso (431-404 a.C.), della quale fu testimone diretto. Scelse di non attribuire un titolo all’opera – che nelle tradizioni manoscritte giunte sino a noi è divisa in otto libri –, alla quale è stata convenzionalmente assegnata la stessa denominazione del conflitto e che, da sempre, è considerata una delle pietre miliari della storiografia. Tuttora molto vivo è l’interesse degli studiosi nei confronti della Guerra del Peloponneso, ma, in anni recenti, è stato soprattutto il suo autore a godere di una popolarità inaspettata, quando il politologo statunitense

Graham Tillet Allison Jr ha coniato la locuzione alla quale è ispirato anche il titolo scelto da Elisabetta Villari per il suo saggio. Secondo Allison, «la “trappola di Tucidide” è un’espressione usata per descrivere la tendenza di una potenza dominante a ricorrere alla forza per contenere una potenza emergente» e certo lo storico greco non avrebbe mai potuto immaginare che il suo nome, e le dinamiche dello scontro fra Atene e Sparta, sarebbero finiti in bocca a Xi Jinping per esortare gli Stati Uniti d’America e la Cina a evitare il confronto... Per Villari, l’innesco alla redazione del volume che qui presentiamo è stata la pandemia che il mondo intero ha sperimentato a partire dal 2020, che ha indotto la studiosa ad analizzare come Tucidide avesse descritto la peste che flagellò l’Attica nel secondo anno della guerra del Peloponneso e che ai suoi occhi costituisce «il punto di partenza e la causa di quella corruzione della democrazia e della polis a cui Tucidide ascrive la responsabilità finale della sconfitta». S. M. Marilù Oliva

ATLANTE DELLA MAGNA GRECIA Italia del Sud e Sicilia tra Mito e Archeologia Rizzoli, Milano, 223 pp., ill. col.


29,00 euro ISBN 978-88-918-3433-1 www.libreriarizzoli.it/

Questo Atlante è un invito a conoscere o riscoprire un patrimonio di straordinaria ricchezza, vale a dire quello concentrato nei territori della Magna Grecia, oggi corrispondenti alle regioni dell’Italia meridionale peninsulare, a cui Marilú Oliva ha scelto di aggiungere la Sicilia, «visti i solidissimi vincoli culturali, religiosi, economici e politici che la legavano alle città meridionali della Penisola e visto che molte fondazioni sono il risultato di spedizioni che giungevano dalle medesime realtà imparentate con l’antica Grecia». Corredato da un ricco apparato iconografico, il viaggio prende avvio in Campania, da Cuma, per concludersi quindi nel Parco Archeologico di Segesta. Sebbene sintetiche, le descrizioni dei siti e dei musei offrono un inquadramento

esauriente di ciascun contesto e possono costituire un’utile lettura preparatoria alla visita. S. M.

DALL’ESTERO Graeme Barker, Tom Rasmussen

IN THE FOOTSTEPS OF THE ETRUSCANS Changing Landscapes around Tuscania from Prehistory to Modernity British School at Rome Studies, Cambridge University Press, Cambridge, 382 pp., ill. col. e b/n 100,00 GBP ISBN 978-1-00-923002-5 www.cambridge.org

Fin dalla sua fondazione, la British School at Rome ha avuto nei progetti di studio del territorio uno dei suoi tratti distintivi. In questa lunga tradizione si è inserito, fra il 1986 e il 1990, il Tuscania Project, un piano di ricognizioni di superficie i cui esiti vengono ora pubblicati, colmando un’attesa protrattasi piú a lungo del previsto, dopo che, già nel 2000, un primo

abbozzo dell’opera era stato assemblato dai responsabili della ricerca e da quanti hanno firmato i contributi poi confluiti nel presente volume. In the Footsteps of the Etruscans è un lavoro di taglio senz’altro specialistico, ma che merita l’attenzione anche di quanti non abbiano fra i propri ambiti di studio le problematiche affrontate da Graeme Barker, Tom Rasmussen e dai loro collaboratori. Si tratta, infatti, di una pubblicazione esemplare dal punto di vista metodologico, per la linearità del suo impianto e per come riesce a trasmettere l’efficacia che la ricognizione può avere ai fini della ricostruzione storica e archeologica di un determinato contesto. Nel caso specifico, l’équipe coordinata dalla BSR ha operato in un’area avente come centro la città Tuscania (Viterbo), per un raggio di 10 km. Come si legge nelle pagine del capitolo introduttivo, la scelta cadde sulla cittadina altolaziale e sul suo territorio per tre motivi principali: la disponibilità di una consistente mole di dati archeologici e storici acquisiti nel tempo; la posizione geografica e le caratteristiche del paesaggio che la circonda. L’obiettivo delle campagne di ricerca – alle quali anche chi scrive ha avuto il privilegio di partecipare – è stato, fin dall’inizio, quello di definire un quadro

di lunga durata: pur nella consapevolezza dell’importanza assunta da Tuscania in epoca etrusca, si puntava infatti a documentare la frequentazione e l’utilizzo del territorio prescelto dalla preistoria ai giorni nostri. Un’impostazione che si riflette nell’articolazione del volume, nel quale ampio spazio è dedicato anche all’illustrazione dei criteri adottati durante il lavoro sul campo e poi alle considerazioni sulle caratteristiche ambientali dell’area indagata e sulla sua storia geologica, corredate dai dati offerti dalle scienze archeometriche. Seguono quindi le rassegne dei materiali recuperati, presentati in ordine cronologico, dalla preistoria al Medioevo. Reperti grazie ai quali le carte di distribuzione diventano «parlanti» e compongono l’intelaiatura che fa da supporto al quadro storico del territorio tuscanese nell’arco di molti secoli. E questo orizzonte di lunga durata trova la sua sintesi nelle pagine finali, significativamente intitolate Un paesaggio mediterraneo dalla preistoria alla modernità. Piace infine ricordare che il Tuscania Project ha avuto fra i suoi animatori due brillanti studiosi, troppo prematuramente scomparsi: Helen Patterson e Marco Rendeli. Stefano Mammini a r c h e o 113


presenta

MARCO POLO LA GRANDE AVVENTURA

Il 9 gennaio del 1324, dopo aver dettato le ultime volontà al sacerdote Giovanni Giustinian, Marco Polo si spegneva a Venezia, nella casa di famiglia. Si chiudeva cosí la vicenda terrena di uno dei massimi protagonisti dell’età di Mezzo e della storia di ogni tempo, al quale, nel 700° anniversario della scomparsa, è dedicato il nuovo Dossier di «Medioevo». Oltre cinquant’anni prima, poco piú che diciottenne, Marco era partito con il padre Niccolò e lo zio Matteo per un viaggio alla volta dell’Oriente, destinato a trasformarsi in un’esperienza straordinaria: il giovane Veneziano, infatti, si spinse fino al Catai (l’odierna Cina) e il suo soggiorno in quelle terre si protrasse ben piú a lungo di quanto aveva probabilmente immaginato, concludendosi solo nel 1295, con il ritorno nella natía Venezia. Qualche tempo dopo, cadde prigioniero dei Genovesi – probabilmente all’indomani della sconfitta patita dalla Serenissima a Curzola, nel 1298 – e, rinchiuso in Palazzo San Giorgio, decise di dettare il resoconto del suo viaggio in Asia a Rustichello da Pisa, che con lui divideva la cella. L’esito di quell’impresa si trasformò in uno dei primi bestseller della storia, Il Milione, un’opera che ancora oggi affascina e sorprende per la sua modernità, soprattutto grazie alle molteplici notazioni di carattere etnografico. Dell’intera vicenda dà conto questo nuovo Dossier, che ricostruisce la biografia del grande viaggiatore ed esploratore, inserendola nel contesto politico, sociale ed economico del tempo, con ampi richiami alle peculiarità della cultura mongola e di quella cinese.

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