the trip magazine n°2

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the trip

N°2 / marzo-aprile 2010 / free press




Utopia In realtà basta poco. Ti carichi un po’ di cemento, sposi un ingegnere, smonti il motore di una Fiat 500, scegli una lingua tipo l’Esperanto e fondi il tuo Stato! La parola “utopia” mi è sempre stata simpatica. È una di quelle prime parole difficili che impari quando sei ragazzino e che ricordi grazie al suo gusto irraggiungibile. Probabilmente l’ingegner Rosa ha preso troppo alla lettera l’inventore di questa parola. E la cosa veramente assurda è che scopro solo ora di averlo fatto anche io. Perché questa storia comincia con un viaggio. Il viaggio che Tommaso Moro nel 1516 fa intraprendere al protagonista del suo libro verso un'isolaregno abitata da una società ideale chiamata Utopia. Il viaggio che l’ingegnere bolognese quattro secoli dopo affronta per fondare egli stesso la sua Utopia. L’avventura 04

che “the trip” sta vivendo. Una sfida dai connotati irreali che oggi si rivela più vera che mai. Una scommessa che siamo decisi a vincere, e che mi porta a raccontarvi di cosa l'uomo è capace quando crede fermamente in un progetto. Mare Adriatico. Largo delle coste italiane. All'inizio degli anni '60 Giorgio Rosa decide di creare un'isola artificiale in acque internazionali per dichiararla Repubblica indipendente. Sul molo di Rimini sorge una piccola baracca da dove l'utopico bolognese segue i lavori della sua isola. Ci mette otto anni a finirla. La base è come quella di una petroliera, ottocento metri quadri in tutto, costruita su due piani, più un'area di sbarco per i battelli, denominata "Il Porto Verde". Rosa scrive la Costituzione, sceglie l'inno nazionale che riprende da un'opera di Wa-

gner e disegna la bandiera. Tre rose rosse che si intersecano tra loro su uno sfondo arancione. Il primo maggio del 1968 la Repubblica Esperantista dichiara la sua indipendenza. Sembra una follia eppure il signor Rosa si proclama Presidente e la risonanza è tale che il governo italiano dopo soli cinquantacinque giorni decide di inabissare l'isola facendola saltare in aria dalla marina. L'accusa è quella di aver trovato uno stratagemma per raccogliere proventi turistici senza pagare le tasse. Spine. Non è sempre facile riuscire a portare a termine un impegno preso. Acqua. Non è sempre scontato saper innaffiare i propri pensieri. Foglie. Loro ingialliscono cadono e poi rinascono. È la fotosintesi. È la natura. Per l’uomo di questo millennio hanno inventato un prodotto che va decisamente alla grande: il Lexotan!

Non è filosofia spicciola ma considerazioni di chi si ritrova alle prese con la sua seconda grande sfida. Chiudere questo numero è stato più difficile che creare il primo. Perché so che comincia a crearsi una certa aspettativa. Perché ci tengo. Perché quella che era inizialmente un'utopia si è trasformata in realtà. Grazie alle vostre parole abbiamo scoperto isole inesplorate. Grazie alle vostre immagini abbiamo conosciuto repubbliche e paesi lontani. Come la tribù dei Saharawi, come le credenze hindu, come la pioggia che cade su Tokyo. Penso alla Repubblica delle Rose che oggi si è trasformata nell'Isola che non c'è. Il sogno di Rosa finisce. Quello di “the trip” è appena cominciato. Valentina Diaconale


sommario

04

08 eventi dal mondo

editoriale

intervista

Saharawi

inviati

36

26 Tokyo in the rain

52

42 Alpha Blondy

58 Berlino

54 Stoccolma

60 libri

64 seduzione di massa

38 Mark Ryden

Damnoen Saduak

Nepal

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15 pagina del fotografo

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62 balli proibiti

68 nel prossimo numero

70 the chic trip

redazione the trip N° 2 marzo/aprile 2010 direttore responsabile Valentina Diaconale direttore editoriale Lorenzo Verrecchia lorenzoverrecchia@thetripmag.com vicedirettore Veronica Gabbuti capo redattore Francesca Rosati art director Andrea Bennati responsabile marketing Luca Salice lucasalice@thetripmag.com editore Associazione di promozione sociale “ELLE” centro stampa ATI Arte Tipolitografica Italiana srl Via Nicaragua 8 – 00040 Pomezia (RM) atispa.com

sede legale Via Gasperina 188 – Roma sede redazione Via Apollo Pizio 13 – Roma Registrazione Tribunale di Roma n. 329 del 6 ottobre 2009 hanno collaborato Gabriele Anesin, Tyler Andre, Fabrizio Bandinelli, Claudia Bena, Paola Cambiaghi, Claudio Cassio, Marco Costa, il negozio “Darklands”, Valeria Di Biagio, Cecilia Gatti, Giulia Giovanelli, Alessandra Iodice, Ilaria Izzo, Jessica Lacombe, Merritt Moore, Schuyler Moore, Marianna Kuvvet, Chiara Rimoldi, Stefano Romita, Alexandra Rosati, Tim Smit, Rebecca Vespa, Valerio Vittozzi.

foto Gabriele Anesin - gabrieleanisin.com Alessandro Bonci - alex@alexbi.com Elisa Chiu - flickr.com/photos/elisa/sets Marco Dormino - ocram2001@libero.it Lorenzo Ferraro - info@lorenzoferraro.com Alfie Goodrich - alfiejapanorama@gmail.com Riccardo Malberti – somewhenelse.com Valerio Vittozzi - behance.net/valeriovittozzi Daniele Zedda - astragony@gmail.com La foto in copertina è di Alfie Goodrich L’illustrazione dell’editoriale è di Kero kerokarousel@gmail.com contatti info@thetripmag.com thetripmag.com


eventi dal mondo ANTIGUA GUATEMALA (GUATEMALA) 24 MARZO – 3 APRILE “SEMANA SANTA” Più che un rito sembra un carnevale. La Semana Santa non è una mera cerimonia religiosa ma è soprattutto uno spettacolo impressionante, dove il Cattolicesimo si sovrappone ai riti Maya, senza sostituirli. A fare da cornice a questa celebrazione è Antigua, situata su un altopiano al centro del Guatemala circondato da vulcani, e parte del Patrimonio dell’umanità dell’UNESCO. I festeggiamenti iniziano il Mercoledì delle Ceneri (24 marzo) per raggiungere il momento saliente durante il Venerdì Santo (che quest’anno sarà il 2 aprile), quando le strade si popolano di processioni variopinte. Durante l’intera settimana, i guatemaltechi (e non solo) creano delle vere e proprie opere d’arte sul manto delle strade. Le "alfombras de accerin" sono composizioni di segatura colorata, aghi di pino e petali, che sembrano tappeti e che tutte le mattine vanno ricostruiti, trasformando la città in un labirinto policromatico. visitguatemala.com GIAPPONE 8 APRILE “HANA MATSURI” Nacque duemilacinquecen08

to anni fa dal re Suddhodana e dalla regina Maya nel giardino di Lumbini, a Kapilavastu, un piccolo regno ai piedi della catena himalayana. Fu chiamato Siddhartha e, in seguito, Shakyamuni Buddha. Hana Matsuri (la festa dei fiori) è la celebrazione del suo compleanno e si festeggia in tutto il paese. In tutti i templi del Giappone, la statua del piccolo Buddha viene bagnata con tè dolce e coperta da un piccolo padiglione decorato con fiori. Hana Matsuri non si vive solo nei templi. È un vero e proprio evento pubblico che contamina tutti i luoghi. seejapan.com NEPAL 8 APRILE – 14 APRILE “NAVAVARSHA” Oltre al Navavarsha (il capodanno secondo il calendario nepalese), gli abitanti del Nepal ne festeggiano altri due: quello del calendario gregoriano e quello del calendario tibetano. Il Navavarsha rimane comunque il più importante e ha luogo quasi sempre durante la seconda settimana di aprile. L’intero paese rinasce e diventa terra ancora più ospitale per lo straniero, che oltre alla bellezza intrinseca del Nepal potrà assaporare anche la gioiosità delle sue celebrazioni. Il giorno di capodanno le persone

si riuniscono per fare dei picnic e delle grandi feste, ma anche per compiere i loro riti religiosi. La mattina i nepalesi vanno al tempio per recitare il puja, un’offerta rituale ai loro dei. Poi camminano intorno al tempio in senso orario, suonando, durante il percorso, le campane che sono attaccate ai muri. welcomenepal.com LONDRA (INGHILTERRA) 20 APRILE – 25 APRILE “LONDON BURLESQUE WEEK” Con la reputazione di essere uno degli epicentri culturali del mondo, Londra è il palcoscenico ideale per questa celebrazione del Burlesque. Londinesi e amanti del genere, provenienti da ogni parte del globo, assisteranno a diversi spettacoli creati ed eseguiti dai migliori artisti del momento, distribuiti durante sei serate davvero glam nei quartieri più trendy della città. Saranno infatti più di cento gli artisti che giungeranno dagli Stati Uniti, dall’Australia, dal resto dell’Europa e, ovviamente, anche dal Regno Unito stesso, e che si cimenteranno in stuzzicanti ma ironici striptease. londonburlesquefest.com LISBONA (PORTOGALLO) 22 APRILE – 2 MAGGIO “INDIE LISBOA ’10” Un festival coraggioso, che vuole promuovere il cinema

“indie”, quello più a rischio a livello distributivo. L’IndieLisboa presenta duecento opere tra lungometraggi e corti inediti, soffermandosi nella celebrazione di due cosiddetti eroi “indie”. Oltre a mostrare i suoi documentari (tutti pluripremiati), il festival mostrerà opere inedite della regista Heddy Honigmann, partendo dai film d’inizio carriera e passando attraverso alcuni episodi di una serie televisiva che ha diretto. La regista sarà a Lisbona per presentare i suoi film e discuterli con il pubblico. L’altro eroe “indie” è il berlinese “International Forum of New Cinema”, che ha festeggiato il suo quarantesimo compleanno l’anno scorso. Focalizzandosi su giovani registi, il Forum è senza dubbio la sezione più audace del Festival di Berlino. IndieLisboa proietterà una selezione di film usciti dalle ultime quattro decadi del festival berlinese. indielisboa.com BERGEN (NORVEGIA) 27 APRILE – 2 MAGGIO “BERGENFEST” Detta anche “la porta ai fiordi”, Bergen, la seconda città più grande della Norvegia, ospita dal 1993 un festival musicale rinomato nel paese come nel resto del mondo, che copre tutti i generi musicali, spaziando dal rock, al blues, dall’elettronica, alla

Hana Matsuri - Giappone

musica folcloristica. Ben visto dalla stampa mondiale, il festival ha vinto numerosi premi e riconoscimenti e riceve fondi dal governo sia a livello regionale che nazionale. In più di dieci locali (piccoli club, teatri e auditorium), situati nel cuore della città, si esibiranno guest star norvegesi ed internazionali. Il palco principale sarà quello della Grieg Hall, che può contenere fino a duemilatrecento persone. Bergen è ben attrezzata per ospitare le decine di migliaia di partecipanti che assistono ogni anno al festival

(per questa edizione ne sono attesi cinquantamila). Sede di un’importante università, è una città giovane e, soprattutto, una terrazza sullo spettacolo naturale dei fiordi norvegesi. bergenfest.no EUROPA DEL NORD 30 APRILE – 1 MAGGIO “WALPURGISNACHT” La notte delle streghe (Walpurgisnacht in tedesco, letteralmente la Notte di Valpurga) si celebra nei paesi dell’Europa settentrionale tra il 30 aprile e il 1 maggio. Come ad

Halloween, le persone si travestono da streghe e girano per le strade in pieno spirito carnevalesco. Ma, al contrario della festa americana, nel nostro continente la notte delle streghe celebra l’arrivo della primavera. In Estonia, dove la festività si chiama Volbriöö, i festeggiamenti sono particolarmente vigorosi nella cittadina universitaria di Tartu, dove gli studenti aprono le danze con la marcia tradizionale, per poi passare di festa in festa nelle confraternite universitarie. Il giorno dopo è detto Kaa-

tripäev, il giorno dell’hangover. La notte delle streghe si festeggia anche in Finlandia (dove è detta Vappu), in Germania (Walpurgisnacht, appunto), in Svezia (Valborg), e nella Repubblica Cieca, dove, per rappresentare la fine dell’inverno, si bruciano streghe di pezza o di paglia e scope di legno, e si mangia, si beve e si festeggia intorno al fuoco.

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il re del deserto di Paola Cambiaghi

Max Calderan nasce come sportivo estremo nell’arrampicata e nello sci alpinismo, ma la sua passione è correre da solo in mezzo al deserto, dove le temperature sono proibitive e le condizioni di vita estreme. Veneto di nascita, vive tra Pordenone, Roma e la Penisola Araba. Parla, legge e scrive in arabo ed è un profondissimo conoscitore della cultura del Medio Oriente e del mondo islamico in tutti i suoi aspetti. Max è tra quegli uomini che hanno superato il confine più estremo, quello che ogni giorno impedisce a molti di noi di essere veramente liberi: il condizionamento, la paura, la convinzione di non potercela fare. Max, come nasce l’amore per una disciplina così estrema? Quello che mi ha spinto a sostenere prove così dure è il desiderio di sperimentare ciò che non è stato ancora tentato. Non amo definire sport quello che faccio ma esplorazione estrema, soprattutto dell’anima. Hai attraversato a piedi i deserti inesplorati arabi. Quanti chilometri riesci a percorrere e in quanto tempo? È difficile calcolare una media: la durata di ogni traversata dipende soprattutto dal tracciato. In Oman ho percorso 437 km in novanta ore: per 270 km ho corso su pietraie appuntite, poi per 80 km ho affrontato la sabbia finissima del deserto e infine un terreno misto. Lo scorso dicembre ho percorso 150 km in ventiquattr’ore nel deserto del 12

Sinai, dal Golfo di Suez, dove Mosè divise le acque, fino al Monastero di Santa Caterina: un tracciato non battuto ma fatto di pietre, rocce, sabbia e saliscendi molto impegnativi con temperature che nelle ore notturne si avvicinavano a zero gradi. Che tipo di preparazione segui per poter sostenere prove così impegnative? Non seguo tabelle di allenamento né uso un cardiofrequenzimetro, non assumo carboidrati e sono contrario a qualunque tipo di integratore. Quando sono in Friuli, tra le mie montagne, corro in pantaloncini corti a petto nudo anche a meno 10 gradi e poi mi immergo nelle acque gelide dei torrenti. Occorre avere, innanzitutto, una forte condizione fisica che però va ricercata non solo nell’esercizio, ma anche nella vita di tutti i giorni. Se controlli il tuo corpo puoi andare oltre: la prima vera sfida è quella di superare i condizionamenti e le sovrastrutture che normalmente ci limitano. Ad accompagnare le tue corse hai solo un GPS per orientarti e nessuna assistenza medica. Ma come fai a nutrirti e a riposarti? Riesco a correre quasi ininterrottamente grazie a micro cicli di sonno di venti, venticinque minuti. Mi nutro di farine, latte in polvere, frutta energetica come i datteri e integratori alimentari. Ma soprattutto ricorro a un trucco: sfrutto tutto il potenziale del mio dna. Originariamente, l'uomo riu-

sciva a percorrere chilometri senza cibo né acqua: noi possediamo lo stesso patrimonio genetico, quindi abbiamo un potenziale, inespresso, ma che si trova dentro di noi. Con l’allenamento e la forza di volontà si riescono a superare sonno, fame e fatica. Ma come si fa a resistere alle temperature torride del deserto che superano i cinquanta gradi? Mi sono sottoposto a un test genomico, un esame che permette di individuare i difetti del nostro dna e migliorare il nostro benessere anche con semplici gesti quotidiani. Tutto è nato da un incontro con la ricercatrice Liane Maria Ledwon che vive e opera in Toscana. Il risultato del test? Sono un uomo comune. La differenza sta nella mente: io sfrutto la capacità del nostro corpo di abituarsi a qualsiasi condizione climatica. E questo possono farlo tutti. Ti è mai capitato di trovarti in difficoltà? Ovviamente sì, ma ho eliminato dal mio vocabolario le parole "problema", "difficoltà", "ostacolo", e le ho sostituite con "opportunità". Rimanere senz'acqua, trovarsi un serpente dentro il sacco a pelo, vedersi puntare contro un mitra a un check point sono le occasioni più grandi che ci possano capitare nella vita: solo in quei momenti si può comprendere quanto valiamo e quanto poco influenti siano le cose materiali se abbiamo trovato il nostro equilibrio interiore.

A breve partirai per una nuova traversata desertica. Quale sarà il percorso? Completerò il coast to coast del Sinai, sulle orme del profeta Mosè: la mia prossima traversata vedrà la presenza delle telecamere che documenteranno la vita dei beduini nella loro quotidianità. Hai dovuto attraversare anche territori segnati da conflitti e con una situazione geopolitica precaria: quali sono gli ostacoli che hai incontrato a livello politico-istituzionale? Non ho avuto il permesso per entrate nella striscia di Gaza: la politica ha impedito l'accesso a questo territorio. In generale, però, devo dire che sono stato ricevuto con grande accoglienza da tutti i paesi arabi. Quali sono i prossimi progetti? A dicembre partirò per un’impresa mai tentata prima, la traversata del deserto dell’Empty Quarter (Rub Al-Khali) in Arabia. Si tratta dell’ultimo luogo totalmente inesplorato del nostro pianeta, fatto di sola sabbia e incognite, dove gli stessi beduini, anche con una guida esperta, si rifiutano di entrare. Mi accompagneranno mia moglie Krista, il mio punto di riferimento, e il nostro bambino, il piccolo Aissa che ha cinque mesi. Sarà davvero una grande avventura! crossingemptyquarter.com a sinistra: Max Calderan nel deserto del Sinai


Foto d'arte: diventa protagonista di questa pagina. Firenze 2008, foto di Lorenzo Ferraro, lorenzoferraro.com


Saharawi una voce tra le dune di Claudio Cassio e Gabriele Anesin foto di Gabriele Anesin

Questa è la storia di un incontro. L’incontro tra un antropologo e un fotoreporter. Tra un africanista e la sua Africa. Tra un fotografo e il miraggio del Sahara. Tra culture conosciute e solamente sognate. La scoperta di un popolo dimenticato ma più vivo che mai. Il racconto di cosa significa sopravvivere. Un viaggio destinato a diventare testimonianza e passione. Una centrifuga di sabbia ed asfalto. È l’una di notte. Sono più di dieci ore che Claudio aspetta la coincidenza per Tindouf. Affamato, si aggira per l’aeroporto di Algeri. Arrivato al bar,

incontra un ragazzo molto giovane, barba lunga, macchina fotografica a tracolla e un bambino che tiene in braccio. Sta mangiando un qualcosa di non ben identificato. Claudio: “Che mangi?” Gabriele: “Non lo so ma qualsiasi cosa sia fa schifo! Meglio aspettare di arrivare nei campi”. Claudio a questo punto rimane esterrefatto: “Campi? Anche tu dai Saharawi?”. È così che inizia la loro avventura alla scoperta del deserto sahariano. Un’esperienza destinata a cambiare le loro convinzioni.


donne Saharawi

Africa, quasi un miliardo di persone, novantasei stati indipendenti, due stati senza patria: Somaliland e Sahara Occidentale. La questione Saharawi è l'unico esempio vivente di uno stato africano riconosciuto a livello internazionale da più di novanta paesi, che si trova ad esercitare la propria indipendenza in esilio. Dopo l’innalzamento del cosiddetto Muro della Vergogna negli anni ’80 da parte del Marocco, il popolo Saharawi si è trovato a vivere diviso in diverse zone. Da una parte i campi per i rifugiati saharawi

che si trovano nel deserto di Hamada nei pressi della città di Tindouf in Algeri, città che dista solo 100 km dal confine con il Sahara Occidentale. Dall’altra, nella zona liberata nel Sahara Occidentale, le città sono diventate accampamenti militari. Ma qui ci vive solo una piccola percentuale del popolo Saharawi visto che la maggior parte di loro continua ad abitare nelle città occupate dal Marocco. L’aereo atterra all’aeroporto militare di Tindouf verso le tre del mattino. Non vi è alcuna traccia dei massicci controlli

della polizia algerina, solamente alcuni funzionari Saharawi che si preoccupano di indirizzare i nuovi arrivati sulle auto e sui bus (autobus dell'Atac anni '80) per arrivare finalmente nei campi profughi. Nel tragitto il silenzio è irreale. L’oscurità sembra non finire mai. Ma il cielo è pieno di stelle e la luna sembra guardare proprio noi. Sembra che qui anche la terra dorma di notte. Non c’è nessuno ad accoglierci ma presto scopriamo quale sarà il nostro alloggio. Le case sono costruite con un impasto di sabbia e

acqua lasciato ad essiccare al sole per circa sette giorni. I tetti sono fatti di lamiere e di travi di legno che sorreggono la struttura. L'escursione termica rende le case caldissime durante la giornata e freddissime durante la notte. In media ogni casa ha una vita di cinque anni a causa delle erosioni dovute dalle difficili condizioni atmosferiche. La nostra permanenza durerà solo un mese intero. L’erosione è l’ultima cosa che ci preoccupa. Considerato uno dei luoghi più inaccessibili del Sahara, il deserto di Hamada, dove deserto di Hamada

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bambino nei campi profughi Saharawi

d’estate si raggiungono anche i cinquanta gradi, ospita quasi trecentomila rifugiati di cui il 70% sono donne e bambini, dislocati in diversi “wilhaye” (villaggi). Nei primi anni della guerra, le case erano semplici buche scavate nella sabbia. Successivamente con l'aiuto del governo algerino le abitazioni iniziarono ad essere costruite in mattoni di sabbia e vennero introdotte le “cajhme”, le tipiche tende saharawi. La mattina dopo, appena alzati, rimaniamo subito colpiti da ciò che il buio di qualche ora prima aveva nascosto. Il

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ospedale Saharawi

villaggio è circondato da una montagna di rifiuti. Non esiste infatti alcun tipo di smaltimento per quanto riguarda vetro, metallo, carta e plastica e le carcasse di animali vengono gettate nelle zone limitrofe, trasformando il deserto in una discarica a cielo aperto. Una donna anziana ci racconta che soltanto nei dintorni di Dahjla ogni venerdì (per loro giorno di festa) viene svolta una raccolta dei rifiuti. Questo perché Dahjla è l’unico villaggio ad avere un’oasi naturale. La donna anziana ci guarda, ascoltiamo le sue pa-

role notando un timido tono di fierezza. Ci dice che sono le donne ad occuparsi di tutto. Sono loro che organizzano lo smistamento dei rifiuti a Dahjla, ad esempio. Ed è proprio questa la scoperta maggiore: le donne saharawi. I loro occhi nascosti dai veli, la loro disponibilità ad accogliere ogni straniero nelle loro case, l’enorme forza di carattere che ogni giorno sono costrette a tirar fuori. A loro è riservata l'organizzazione e la distribuzione degli aiuti umanitari all'interno dei campi profughi. Ogni villaggio ospita una sede

dell’Associazione Nazionale delle Donne Saharawi che ha carattere decisionale all’interno del parlamento. Sono state sempre le donne che dal 1975 in poi hanno dato vita a questi accampamenti. Capiamo il tono dell’anziana saharawi. La sua società rappresenta una delle rare realtà matriarcali di tutto il continente africano. Deserto, sabbia, aiuti umanitari, escursione termica catastrofica. È sorprendente la scoperta del tasso di alfabetizzazione del popolo Saharawi: pari al 97%. Quanto è in Italia?! È commo-

vente osservare questa miriade di bambini svegliarsi alle sette del mattino, prepararsi per andare a scuola e il pomeriggio preoccuparsi anche di svolgere i compiti a casa insieme agli altri compagni. È straordinario vedere che la povertà dei campi non pregiudica la loro voglia di imparare e di migliorarsi. Se non ci sono i banchi si siedono per terra. Se non ci sono fogli si esercitano scrivendo sulla polvere dei loro banchi. Sono ormai un paio di settimane che giriamo per villaggi. Abbiamo conosciuto uomini e donne

che ci hanno raccontato le loro storie. Vecchi e bambini che ci hanno ospitato nelle loro case per condividere insieme il sapore del tè. Storie e verità amare, come quella di Mohammed. Oggi ha ventotto anni. All’età di undici è stato adottato da una famiglia italiana. Prima di arrivare nel nostro paese ha contratto la poliomelite, per fortuna in forma lieve. Sono molti i ragazzi saharawi che, avendo avuto la sua stessa malattia, si vedono costretti all’utilizzo delle stampelle. Questo perché negli anni '80 fu distribu-

ita una partita di medicinali scaduti proveniente dagli aiuti umanitari. Episodio che fu sempre negato dalle autorità competenti, ma causa della piaga che più affligge il popolo Saharawi: la disabilità fisica. Stiamo nel wilhaye 27 de Febrero, a scattare delle foto vicino al pozzo chiuso. Il nostro accompagnatore si avvicina e ci invita ad assistere ad uno strano incontro. All’inizio non afferriamo il motivo di questo invito, ma quando ci ritroviamo di fronte a lunghi abbracci e pianti di gioia capiamo l’importanza

di questo momento. Due famiglie si sono riunite dopo più di trent’anni grazie all’aiuto dell’Onu che organizza dei voli speciali dai territori occupati all’aeroporto di Tindouf. Il Marocco non permette alcun contatto tra le famiglie che sono divise dal muro. Per far fronte a questo embargo mediatico la R.A.S.D. (la Repubblica Araba Saharawi Democratica, fondata nel 1976) ha creato un'agenzia di stampa ufficiale per comunicare con l'esterno (la “Sahara Press Service”), una radio nazionale che trasmette in ogni wilhaye

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campi profughi Saharawi

e clandestinamente nei territori occupati, e un giornale prodotto dai Saharawi stessi nei campi (“Il Sahara Libre”). È quasi un mese che viviamo con questo popolo ed è sempre più facile rendersi conto dell’importanza delle loro tradizioni osservando le loro piccole conquiste. Come ad esempio la cerimonia del tè, che accompagna ogni giornata saharawi, dove regna come sempre l'ospitalità, carattere predominante della loro cultura. In ogni casa, in ogni negozio, dal gommista al fornaio, nel deserto o nel-

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le scuole il kit per la preparazione del tè è immancabile. Ovunque tu sia ti offriranno del tè. Chiunque tu incontri ti offrirà del tè. Ed è maleducazione rifiutare. Il calcolo delle “litrate” di tè alla fine del viaggio è decisamente elevato. La preparazione ha un lento e particolare procedimento che può durare anche un'ora. Sono tre i tè che vengono serviti in tutto, ognuno dei quali con un sapore e una simbologia differente: il primo amaro come la vita, il secondo dolce come l'amore e il terzo soave come la morte. Un trittico che

racchiude la forza, il fascino e l’amarezza di un popolo che ogni giorno si trova di fronte ad un deserto che non gli appartiene. Per secoli i Saharawi hanno abitato il territorio del Sahara senza identificarsi in uno stato sul modello degli stati-nazione con gli elementi di popolo, territorio e sovranità. La nascita dello Stato Saharawi (R.A.S.D.) diventò necessaria proprio a partire dall’esilio, quando vennero minacciate l’identità e l’appartenenza del popolo al territorio. A dispetto di tutto ciò, il Sahara Occidentale in questo

momento è considerato “terra nullis”. Torniamo a casa con tantissimi interrogativi. Ci aspetta un duro confronto con la nostra realtà da occidentali. Immagini indelebili di un popolo dalla forza inesauribile. Emozioni che sicuramente ci hanno cambiato e per questo non dimenticheremo mai. Difficile scordarsi di aver calpestato l’unico confine dell’intera mappa del continente africano ad essere solamente tratteggiato.

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inviati

?

Schuyler Moore DA LOS ANGELES stelle negli occhi

Ilaria Izzo DA LONDRA ballare in un teatro

Alessandra Iodice DA SYDNEY Watson’s Bay

Tyler Andre DA PORTLAND Linger & Quiet

Merritt Moore DA BOSTON 10° Viewpointe di danza

Tim Smit DA BRUXELLES poco sole, tanta musica

Cecilia Gatti DA BUENOS AIRES uno sguardo a La Boca

Nonostante il mio atteggiamento annoiato nei confronti dei turisti, c’è una zona della mia città che mi fa capire pienamente l’attrattiva di Los Angeles: un’unica strada, meglio conosciuta come Hollywood Boulevard, contiene tutto il glamour oltraggioso della Città degli Angeli. Inizia come una strada innocua, con qualche negozietto lungo i marciapiedi, ma arriva un punto in cui segnali al neon intermittenti e luminosi catturano l’attenzione promettendo divertimento infinito. A qualsiasi ora ci sono persone che passeggiano travestite da personaggi del cinema (occhio a Winnie the Pooh! Userà tattiche aggressive per sollecitarvi a fare una foto insieme). La musica è incessante. Per farsi strada sarà necessario dribblare gli artisti che ballano o cantano o suonano tamburi su secchi capovolti. Oggi capisco l’allure di questo posto che lascia souvenir nelle tasche e stelle negli occhi dei suoi turisti. È imprevedibile ed incredibile. È folle ed eccitante. È Los Angeles.

Camden Town è una delle zone di Londra che preferisco. Si trova nella parte settentrionale, nel London Borough di Camden, e, nonostante sia ormai conosciuta e turistica, mantiene ancora quel “vibe” (atmosfera è la traduzione che più ci si avvicina) che tanto mi piace di questa città. Le tipiche case a mattoncini, gli innumerevoli locali, i ristorantini economici ed i negozi alternativi fanno da cornice al mercato più famoso della capitale, il Camden Lock Market, ormai circondato da diversi mercati satelliti. E dopo una giornata trascorsa in giro per bancarelle, a Camden Town si può anche andare a ballare in un teatro! Il Koko è il paradiso dell’Indie Rock. Anzi, visto il rosso acceso dei balconcini e delle gallerie, direi piuttosto che sembra di scendere negli inferi della musica. La platea si è trasformata in pista da ballo, mentre sul palcoscenico oggi si esibiscono gruppi e musicisti dal vivo.

Capitale del New South Wales, Sydney è da tutti la meta più conosciuta per trovare divertimento e novità dall’altra parte del mondo. Non esiste solo Bondi Beach a Sydney, che rimane la spiaggia migliore per praticare il surf. La capitale infatti nasconde bellissime baie lungo le sue insenature. Watson’s Bay è tra le mie preferite. Questo sobborgo, culla di graziosi cottage di pescatori, possiede tra i punti panoramici più belli della città, come il cosiddetto Gap. Famoso per spiacevoli salti nel vuoto è invece il posto migliore dove farsi sventolare i capelli dalle correnti dell’oceano. Sotto le grandi scogliere nascono magnifiche rive frequentate da famiglie ma anche da giovani hippie. La più variopinta e meno vestita è Lady Bay, famosa per i suoi nudisti. Dopo una scorpacciata di fish and chips avrai di sicuro voglia di scoprire quale sarà la prossima spiaggia.

Portland è una città conosciuta per il suo stile di vita alternativo. Ma ad un certo punto il troppo alternativo diventa normale. Grazie ad un duo di DJ c’è un nuovo sostituto: il Nightclubbing! Matthew Kwiatkowski e Genevieve Dellinger – meglio conosciuti come Linger & Quiet – sono i creatori di Nightclubbing, una festa dance che si tiene tutti i mesi a Holocene, nella zona est di Portland. Nightclubbing ha portato la musica dance in una città consacrata al rock. Quando Linger & Quiet non mixano per conto loro, invitano i loro amici, come Hot Chip, Prins Thomas, Thomas Fehlmann, Justice, Hercules & Love Affair e Simian Mobile Disco. Spesso condividono il palco con alcuni dei personaggi più in voga a Portland, come Glass Candy, Chromatics e Arohan. Grazie a loro ci sono molte orecchie e piedi felici a Portland! Per sentire i loro mix e scoprire dove si esibiranno prossimamente, andate sul loro sito lingerandquiet.com: sarete felici di averlo fatto.

Essendo al terzo anno di Fisica ad Harvard, ci si aspetterebbe che io stessi tutto il giorno in biblioteca ma, incredibilmente, ho l’opportunità di dedicarmi alla danza a livello professionale. Il decimo anniversario del concerto Viewpointe di Harvard, in debutto il 26 marzo, celebra l’assortimento di lavori artistici creati dagli studenti nell’ultimo decennio. Tra le performance clou abbiamo un medley del coreografo Alvin Ailey, un duetto originale di Trey McIntyre, e pezzi di Jody Leigh Allen e Elizabeth Bergmann. Potete immaginare la mia sorpresa quando l’ufficio del programma di danza ha commissionato a McIntyre di creare un assolo originale per me. È come avere una macchina fatta su misura dal miglior designer della Ferrari. Trey è uno dei coreografi più richiesti del momento, ha creato lavori per l’American Ballet Theater, il New York City Ballet e il Teatro del Balletto di Mosca. Ed io, una studentessa, ho un assolo fatto apposta per me!

Nonostante il cupo inverno, il Belgio rimane sempre una lucente crocevia di culture. Luogo natale di Toots Thielemans (uno dei più famosi armonicisti al mondo, che ebbe la fortuna di suonare insieme ai veri grandi del jazz come Dizzy Gillespie, Charlie Parker e Oscar Peterson), il Belgio è da qualche tempo una piattaforma importante per gli amanti del jazz. Anche la capitale offre tanto jazz. Sono numerosi i locali dove praticamente tutta la settimana si possono ascoltare gruppi locali o star internazionali: sono degni di nota The Village e l’Archiduc, tutti e due vicini a Bourse, nel cuore della città. Uscendo dal centro si trova anche The Jazz Station: una delle tappe della famosa Brussels JazzMarathon, che giunge quest’anno alla sua quindicesima edizione. Durante la maratona non si contano i palchi, sia nei locali sia all’aperto in tutte le piazze della città, dove questa musica coinvolgente è come sempre accompagnata da qualche buona birra locale.

Un anziano con un basco scozzese calato sulla “capoccia” che si trova seduto sulla soglia della porta di casa; lo sguardo perso verso un punto di una strada affollata nel quartiere di La Boca. Una coppia di giovani che balla un tango appassionato al bordo di Calle Florida: lei, gli occhi chiusi, si lascia portare con leggerezza. Sa che il suo uomo la guiderà nella miglior maniera. Suona un campanello e due bambini escono correndo dalla scuola tra risate e spintoni. Vanno al chiosco per comprare caramelle senza il permesso delle madri, scambiandosi sorrisi di complicità. Passione scatenata dall’unione di diverse nazionlità fuse in un’epoca in cui l’Argentina era terra del mondo. Senso di famiglia e d’amicizia. E il mondo continua. E Buenos Aires prosegue, restando fedele alla sua gente, con una magia che incanta. Impossibile non innamorarsi di lei.

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Tokyo in the rain reportage fotografico di Alfie Goodrich

Nel 2007 Goodrich ha fondato la scuola di fotografia "Japanorama", che, oltre a photowalk e corsi settimanali, organizza anche tour fotografici per i turisti. japanorama.co.uk






Damnoen Saduak di Giulia Giovannelli foto di Elisa Chiu

Alzarsi presto la mattina: l’unico sacrificio da fare per vivere la quotidianità e le usanze dell’antico mercato galleggiante Damnoen Saduak di Bangkok. Detto anche Talat Naam, è localmente chiamato Klong Latphli ed è una delle più originali ed autentiche espressioni del rapporto dei thailandesi con l’acqua Damnoen Saduak, situato a 110 km a ovest di Bangkok, oggi è teatro di immagini di antica vita quotidiana degli agricoltori thailandesi. Nei piccoli canali “khlongs”, con le prime luci dell’alba, la foschia lascia spazio al caos: barche piccole, piatte, di legno, dalla forma lunga

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e stretta, dotate di un minimotore e chiamate “long tail boat”, vengono ricoperte da fiori, frutta, verdura e cibi cotti preparati nelle cucine, anche loro galleggianti, che colorano ed animano la scena. Donne autoritarie e scaltre al timone. Uomini anziani con il cappello in stile thailandese chiamato Ngop, per ripararsi dal sole. Tutti con indosso gli abiti tipici degli agricoltori, quasi sempre blu. Tutti che si danno da fare per conquistare un posto sulla riva, pronti a fermarsi per contrattare ad ogni cenno di richiesta. Vendere e comprare i prodotti freschi della terra dalle piccole imbarcazioni è un’esperienza divertente che attrae i

turisti di tutto il mondo. I colori, i rumori, le urla ed i bisbigli confondono e stordiscono tutti gli attori. Uno spettacolo straordinario fatto di piroghe cariche di merce di ogni genere, dagli alimentari all’artigianato, di imbarcazioni precarie che si spostano dolcemente lungo i canali, come in una danza. Un pollo in gabbia, una stoffa, mele e banane si susseguono in vetrina. La traversata in barca offre non solo imbarcazioni e acquisti, ma anche il fascino dei giardini, delle case di tek, delle palafitte lungo le risaie dove vivono gli agricoltori, e degli altari animisti, dove, su piccole pagode, vengono

offerti fiori e cibo come dono per gli spiriti. Si lavano panni e stoviglie lungo la riva. Tutto diviene testimonianza di una Thailandia antica. Sono proprio gli scorci della vita locale che nobilitano questo mercato, ormai riservato solo al circuito turistico ma ancora protagonista di un mondo magico, affascinante ed evocativo. a destra: Damnoen Saduack il mercato galleggiante di Bangkok


nuovi miracoli del pop di Rebecca Vespa

Per chi sostiene che la pittura bidimensionale è morta, che nello spazio ormai troppo angusto della tela tutto è stato già detto, l’incanto del pittore avant-garde Mark Ryden fornisce nuovi spunti di riflessione. Protagonista assoluto della scena New Pop californiana, Mark Ryden nasce il 20 gennaio del 1963 nella cittadina di Medford, nell’Oregon, ma cresce nel sud della California, in una famiglia di creativi. “Quando ero un bambino - racconta l'artista - i miei insegnanti volevano capire perché mai i cani che disegnavo avessero le budella di fuori o perchè i ritratti delle persone avessero un terzo occhio. Loro disapprovavano ma la mia famiglia mi incoraggiava, così imparai a godere della confusione e della paura che provocavo negli insegnanti con i miei disegni. I bambini non hanno inibizioni quando fanno la loro arte”. Affatto intimorito di fronte allo stordimento provocato dai suoi quadri, nel 1987 Ryden si laurea alla Art Center College 38

of Design di Pasadena dove riceve nello stesso anno un Bachelor of Fine Arts (BFA). Nonostante una lunga e versatile carriera di artista e illustratore, solo negli anni ’90 Mark Ryden raggiunge il pubblico più raffinato dell’arte che ne decreta il successo definitivo. Prima di essere riconosciuto quale assoluto protagonista di quel New Pop che si sta ritagliando uno spazio notevole nel panorama figurativo americano, aveva già catturato l’attenzione di un pubblico eterogeneo, illustrando copertine di riviste commerciali o di famose band come i Red Hot Chili Peppers o I Butthole Surfers, o vere e proprio icone come Michael Jackson (sua la bellissima copertina di “Dangerous”). Mark Ryden mescola pop art e gusto retrò, da Hieronimous Bosch a Salvador Dalì, dando vita ad uno spregiudicato ed inquietante universo cartoonesco, invaso da vecchi personaggi dei fumetti, del cinema, della tv e della pubblicità. Un’arte barocca, fantastica e

visionaria, con vari riferimenti all’alchimia e alla numerologia, che sembra figurare al meglio la cacofonica realtà e la rassicurante mitologia pop del nuovo millennio. Protagonisti assoluti dell’alchimia dei suoi quadri sono sia personaggi di brillanti fantasie come l’Alice di Lewis Carrol o la Dorothy del Mago di Oz, sia riferimenti più popolari della cultura americana (Abramo Lincoln primo su tutti). La sua estetica comprende anche la giocosa presenza di personaggi cinematografici come Leonardo Di Caprio e Christina Ricci, o di protagonisti di serie televisive fortunate come “Buffy” e i “Tele Tubbies”. Nel suo mondo deliziosamente onirico, bistecche e braciole si trasformano in piedistalli, palcoscenici, regali o decorazioni. In questo suo delirio creativo la lingua russa si mescola al giapponese, il simbolo del Tao si sovrappone alle icone pacifiste, Gesù e Jimmy Hendrix si caricano della stessa forza evocatrice insieme a Ken e Barbie, a Joseph Cam-

pbell e a Nostradamus. Un’impronta visionaria quella di Ryden, capace di catturare il gusto di collezionisti di tutto il mondo nonché quello di alcuni celebri nomi come Stephen King, Ringo Star, Bridget Fonda e tanti altri. In più interviste Ryden ha sostenuto di possedere una ricetta segreta per la sua pittura ad olio, che avrebbe ereditato da antichi maestri e che sembra avere qualità trascendenti. Attualmente Mark Ryden crea e dipinge nel Castle Green Hotel a Pasadena, Los Angeles. Nella sua abitazione - vera e propria “cabinet of curiosities”, sommersa da una collezione di gingilli, ciondoli, scheletri, statue, libri, quadri e giocattoli antichi - vivono con lui Marion Peck, compagna nonché rappresentante della scena new pop, e i due figli Rosie e Jasper. a destra: Princess Sputnik1998


LA REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL

CONGO in collaborazione con la regione sicilia

ArcheoAfrica project

Cultura * Imprese * Formazione * SolidarietA© www.regione.sicilia.it


Nepal da paura testo e foto di Valerio Vittozzi


Varanasi - gaits sul Gange

Siamo io, Andrea, mio fratello Pietro e Nic. Per risparmiare abbiamo comprato due biglietti senza calcolare bene gli scali e le tratte eccessive. Io e Andrea abbiamo un volo diverso da mio fratello e il suo amico. Ci diamo un vago appuntamento a Mumbai sotto l’orologio della stazione Victoria Terminus. Roma - Milano, Milano - Londra, Londra - Bahrain, Bahrain - Mumbai. Lo scalo a Londra è solo di un’ora e mezza e il nostro volo è già in ritardo. Dobbiamo pure cambiare terminal e Heathrow assomiglia più

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in treno da Mumbai

ad una città che ad un aeroporto. Comincia il panico, sono convinto di perdere la coincidenza. Avverto l’hostess del problema. Lei mi sorride e gentilmente mi fa notare che ho ancora un’ora a mio favore considerando il fuso orario. Viste le premesse comincio seriamente a pensare che in India col cazzo che ci sarei arrivato. Mumbai: 3gg circa Impatto assurdo. Specialmente per Pietro e Andrea che non sono mai stati in paesi così poveri. Impatto assurdo

soprattutto per il casino, l’inquinamento, il numero di persone, lo stile di vita che hanno gli indiani. Mumbai è una città sconfinata: dall’aeroporto ci sono voluti cinquanta minuti di treno per arrivare in centro. Per non parlare della temperatura. Caldissimo e super umido. Trascorriamo tre giorni girovagando e conosciamo Lucky e Wassim, due ragazzi indiani che lavorano in un’agenzia di viaggi. Ci portano a fare un giro negli slum, le baraccapoli indiane. La gente vive nello schifo più totale, senza luce, acqua o

qualsiasi comodità. Mumbai - Varanasi 1500 km circa da percorrere in treno. Scegliamo la classe più costosa per paura di dover viaggiare scomodi (trenta ore sono tante!). Scelta sbagliata. L’aria condizionata per poco non ci uccide. Ma il viaggio è una bomba, i paesaggi stupendi. Varanasi è considerata la Città Sacra per gli indiani hindu, il posto perfetto dove morire e farsi cremare. Ogni hinduista, almeno una volta nella sua vita, deve essersi recato qui per immergersi nel

Gange, almeno da cinque diversi ghats (cosa che per noi sarebbe letale visto lo schifo che ci sta dentro). I ghats sono delle rampe di scale di pietra che terminano nell'acqua. Monumenti e templi stupendi cascano a pezzi dovunque. La gente muore di fame per strada. All’alba del mattino dopo facciamo un giro sul fiume sacro. Un’idea che hanno moltissimi turisti e infatti la cosa non mi entusiasma per niente. Per questo il pomeriggio decido di rifarmi inoltrandomi con Nic nei vicoletti della città vecchia. Ecco questa

è la vera India. Impazzisco, scatto almeno cinquecento foto. Il caldo è soffocante, per questo decidiamo di spostarci più al nord per andare direttamente in Nepal. Secondo il piano saremmo dovuti entrare in Nepal da est (Siliguri) e non da sud (Lumbini) ma il giorno prima di partire Andrea comincia a stare male: febbre, tosse, debolezza. Varanasi - Sunauli La mattina non riusciamo a trovare subito l’autobus giusto per Sunauli. Fa troppo caldo e nonostante il paesaggio sia

incredibile non riusciamo a godercelo. Andrea sta malissimo. Per fortuna dorme tutto il tempo. Anche se il “simpatico” autista non fa altro che suonare il clacson. 150 km in dieci ore. Come ciliegina anche a Pietro viene la febbre. Ma uno si imbottisce di tachipirina e passa la paura! Arrivati a Sunauli, città di confine, paghiamo venticinque dollari il visto per entrare in Nepal, valido per quindici giorni. Decidiamo di rimanere qui per un po’. In teoria saremmo dovuti andare subito a Tansen, ma con Pietro e Andrea

in stato quasi catatonico decidiamo di fermarci. La temperatura è leggermente più accettabile e si notano subito i lineamenti differenti delle persone. Ci fermiamo al primo hotel e il proprietario si rivela molto disponibile e gentile. Per non parlare dell’economicità (€ 1,50 a notte!). La sera ordiniamo da mangiare un pollo squisito, veramente pazzesco. Peccato che Andrea e Pietro non se lo possano godere. La tachipirina va bene per la febbre, ma il cagotto come lo fermi? Mentre i due moribondi cer-

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Bhaktapur - campi di riso

cano di rimettersi in forze, io e Nic decidiamo di fare una gita di un giorno a Lumbini. Lumbini è il posto dove è nato Lord Buddha ed è considerato un luogo sacro per i buddisti. Ci sono incredibili templi finanziati dall’occidente e dalla Cina. Tenuti e mantenuti alla perfezione, guarda caso. Eccezionale. Comincio a stare male anche io, ma faccio finta di niente. Sarei andato in giro anche con quaranta di febbre in Nepal! Il viaggio tra Sunauli e Lumbini (un’ora e mezza 25 km) si rivela molto interessante. La gente vive

come nel Medioevo. Capanne e campi di riso sconfinati. Sunauli - Tansen Anche se il tragitto è di due ore e mezza scegliamo un taxi per le condizioni abbastanza gravi di Pietro. La strada comincia a farsi ripida e la cosa che ci colpisce di più è che non ci sono guardrail. Solamente burroni sul ciglio della strada. Arrivati a Tansen finalmente si respira. Però, mentre Andrea è guarito, sia io che Pietro continuiamo a stare male. A Tansen ci facciamo subito un’idea più chiara del

Nepal. Ci troviamo nel bel mezzo di una festa locale, circondati da vestiti svolazzanti di ogni tipo di colore. La piazza principale è strapiena di gente e sia io che Andrea apprezziamo molto i volti e i lineamenti delle nepalesi. Sono decisamente più belle rispetto alla media indiana. La gente quando mi guarda scoppia sempre a ridere. All'inizio penso sia un modo gentile di approcciare con gli stranieri, ma mi spiegano che il vero motivo è un altro: qui il piercing tra le narici lo portano solo le donne anziane!

Tansen - Pokhara Prendiamo come sempre l’autobus locale ma questa volta è veramente pieno. Andrea si caga sotto per la guida spericolata dell’autista e per la strada al limite del percorribile, con il burrone sul nostro lato (anche in Nepal hanno la guida inglese). Spettacolare cittadina sul lago, Pokhara è decisamente più grande di Sunauli e Tansen ma anche molto più turistica. Qui si trovano addirittura dei negozietti per turisti. La vera attrattiva? Il tramonto sul lago. Assurdo! Bhaktapur

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Darjeelling

Pokhara - Bandipur Riusciamo per la prima e ultima volta a osservare la catena dell’Himalaya, giusto un minuto prima di salire sul pullman e ripartire. Sembra che tocchi il cielo. Arrivati a Bandipur, ho subito l’impressione che sia una città tenuta molto meglio rispetto alle altre che abbiamo visitato. Riesco ad entrare nell’unica scuola del posto dove vengo accolto calorosamente e dove scatto un miliardo di fotografie ai bambini... e alla maestra, che si mette sempre in mezzo!

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Kathmandu

Kathmandu - Bhaktapur Kathmandu è decisamente più turistica ma anche punto di partenza per tutte le spedizioni, passeggiate, trekking e avventure che si possono fare in Nepal. lo e Andrea decidiamo di andare a visitare il famoso tempio hindu di Pashupatinath sulle rive del fiume Bagmati. L’entrata costa l’equivalente di sei euro. Dopo venti giorni immersi nella cultura indiana, ci sembra un’enormità. Decidiamo di non entrare anche perché le foto non sono ammesse. Uno strano tipo si avvicina e

ci dice che per la metà del prezzo ci fa entrare da un'altra parte. Dice di essere una guida del posto con autorizzazione. Non gli crediamo ma lo seguiamo ugualmente. Attraverso un sentiero nascosto pieno di scimmie riusciamo ad entrare nel complesso. Gli stranieri in realtà non sono ammessi nel tempio. Possono osservarlo solo dall’altra sponda del fiume. Incontriamo sguardi inquisitori di vecchietti colorati che fumano un cilum dopo l’altro. Rimaniamo ad ammirare alcuni hinduisti che fanno la brace con un

loro familiare (letteralmente bruciano i morti per il loro rito funebre). A Bhaktapur facciamo forse la passeggiata più bella del viaggio. Decidiamo infatti di raggiungere un tempio che a sentire la gente del luogo dista solo 3 km. Dopo quattro ore e mezza non siamo ancora arrivati e ogni volta che chiediamo indicazioni ci rispondono sempre allo stesso modo: mancano solo 2 km. Strana concezione delle distanze. Arriviamo stanchi morti ma ne è valsa decisamente la pena.

Kathmandu - Kakarbhitta Un viaggio al limite della realtà. Partiti sotto la pioggia di notte rimaniamo fermi per il traffico dopo appena cinque minuti (probabilmente qualche camion si è rovesciato). Superato l’intoppo, l’autista comincia a guidare ad una velocità preoccupante per recuperare il tempo perduto. Kakarbhitta - Siliguri Darjeeling Siliguri è probabilmente il posto più brutto che abbiamo visitato. Povertà, inquinamento e sporcizia sono le sue ca-

ratteristiche principali. Darjeeling, la capitale mondiale del tè, si trova a duemila metri d’altezza. Finalmente ci godiamo aria pulita, paesaggi mozzafiato e un tè strepitoso. Darjeeling - Phuentsholing Abbiamo raggiunto la città di confine tra il West Bengala e Phuentsholing, che è la prima cittadina al confine ovest del Bhutan. Sulla guida leggiamo che potremmo stare un giorno all’interno della cittadina senza alcun visto e senza pagare nessuna tassa. Per stare dentro i confini del Bhutan, in-

vece, devi sborsare duecento dollari al giorno. Ma non solo non ci fanno superare il confine, ci minacciano anche: se ci beccano in Bhutan ci arrestano e così rimaniamo nella cittadina al confine indiano. È terribile. Una delle peggiori mai viste. Sporca, brutta, povera all’inverosimile e senza alcuna attrazione. Ma basta uscire di qualche chilometro che il paesaggio diventa bellissimo: si intravedono in lontananza le montagne himalayane e sterminati campi da tè.

Mumbai - Londra- Roma Il viaggio è terminato. Torno in Italia con quasi millecinquecento foto scattate e immagini incredibili nella mia testa. Rischio anche di perdere tutto: sia le foto che la testa, visto che, sempre per l’ansia di fare tardi e perdere l’aereo, sbaglio fermata del treno che mi sta portando all’aeroporto. D’istinto salto giù dal treno che però sta ancora viaggiando. Plano sulla banchina con la macchina fotografica in mano. Siamo salvi tutte e due!

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il filosofo del reggae di Alexandra Rosati

Avevo più o meno sedici anni quando, durante una delle mie tante trasferte a Parigi, in una sala prove per musicisti, sono stata travolta dal ritmo dolce ma deciso della musica di Alpha Blondy, che si preparava per un concerto. Il mio viaggio nel mondo del reggae africano cominciava dividendo con lui il mio primo “purino” d’erba, persa nell’abisso dei suoi occhi neri e nella vicenda personale di un uomo che stava facendo la storia della musica. Seydou Koné, questo il suo vero nome di origine mandinga, nasce a Dimbokro in Costa d’Avorio nel 1953, dove viene cresciuto dalla nonna, che gli insegna perfettamente il dioula, lingua ivoriana che prevede una forma di comunicazione estremamente diretta e molto schietta, a dispetto delle conseguenze: principi culturali fondamentali di quella che diventerà, in seguito, la sua filosofia di vita. Compiuti nove anni, finalmente raggiunge sua madre a Korhogo, dove, qualche anno dopo, crea il suo primo gruppo musicale: gli Atomic Vibrations. Dopo un breve passaggio in Liberia, la 52

sua innata curiosità e vivacità intellettuale, che lo costringono inevitabilmente al movimento, lo portano nel 1976 a New York, dove perfeziona il suo inglese alla Columbia University. Rapito dalle “pulsazioni” della Grande Mela, Seydou studia e lavora a pieno ritmo. Finché, affascinato dal talento di Burning Spear e sempre più dalla filosofia Rasta, cavalcando l’onda del suo entusiasmo, progetta di registrare il suo primo disco. Il suo tentativo, però, per motivi legati alla produzione, fallisce. Sprofondando in una forte crisi depressiva, fa ritorno ad Abidjan, dove il suo “viaggio” prosegue per ben due anni in un istituto d’igiene mentale. Ma grazie alla musica e alle sue canzoni, Seydou esce dall’inferno, cambia il suo nome in Alpha Blondy, sinonimo di “bandito” (letteralmente, nell’argot di Abidjan, “ragazzo di strada”), e registra nel 1983 il suo album d’esordio: "Jah Glory", una miscela d’immensa spiritualità e tagliente critica sociale. Icona del disco il brano “Brigadier Sabari”, contro la repressione della polizia operata ai

danni dei giovani mandinghi della capitale. Il suo successo varca le frontiere del “Bob Marley africano”: i suoi testi scritti in dioula, francese e inglese, ma a volte anche in arabo e in ebraico, non solo conquistano l’Europa, ma soprattutto la Jamaica. Impresa, per altro, favorita dalla sonorità che contraddistingue le lingue dell’Africa dell’Ovest, e dall’elemento melodico ivoriano, che ben si adattano all’estetica musicale del reggae. Nel 1984, infatti, la realizzazione del suo nuovo album, “Cocody Rock”, avviene grazie a un contratto con una casa discografica francese ma - cosa fondamentale -, in collaborazione con i Wailers. Ecco che quest’uomo dolcemente insicuro ma fortemente deciso, riporta il reggae nella sua terra d’origine. Sempre con la band di Bob Marley, Alpha Blondy inciderà nel 1986 l’album “Jerusalem”, d’impronta fortemente mistica. I suoi testi gli hanno fatto guadagnare la fama di cantante molto impegnato, politicamente e socialmente: indimenticabili, in questo senso, il disco “Apartheid is

Nazism”, e il singolo del 1999 “Journalistes en danger”, in difesa della libertà di stampa e d’opinione. Da sottolineare anche il fatto che il filosofo del reggae, soprannominato “fulosofo” dal francese “fou” (che significa folle), altro elemento fondamentale della sua poliedrica personalità, viene nominato durante la guerra civile in Costa d’Avorio Ambasciatore della Pace per le Nazioni Unite. Del resto, il primo a giocare con le parole “fou” lui, coniando il termine “democrature”: un mix tra democrazia e dittatura, con cui definì alcuni governi africani. L’ultimo album dell’artista è “Akwaba”: un "the best" pubblicato nel 2005, con la partecipazione di numerosi cantanti, che aiutano il profeta visionario del reggae africano a reinterpretare alcune delle sue immortali gemme musicali. La sua uscita è stata l’occasione per Alpha Blondy e il suo gruppo, i “Solar System”, per intraprendere quello che al momento è stato il loro ultimo tour mondiale.


a Stoccolma con Fantozzi di Fabrizio Bandinelli foto di Daniele Zedda

In una celebre scena di "Fantozzi contro tutti", Fantozzi e Filini si cimentano in un improbabile telefonata al loro capo ufficio per non partecipare ad una temuta gara ciclistica. Con un inverosimile accento svedese, il ragioniere finge di essere un luminare della medicina che vieta loro di gareggiare. Neanche a dirlo, è Fantozzi che impugna la cornetta mettendo in atto il maldestro tentativo. Una patata in bocca, una molletta sul naso, il viso avvolto da un panno bagnato e la testa infilata in un pentolone: non appena rispondono dall’altro capo del telefono, il mitico impiegato se ne esce con un alterato “Buondì”, ma viene immediatamente smascherato. “Fantozzi, è lei?”, si sente dire dalla cornetta, e i piani dei

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due amici/colleghi, dopo lunghi e laboriosi preparativi, vanno immediatamente in fumo. A Stoccolma non abbiamo fatto altro che ripetere quel “Buondì” mattina e sera, notte e giorno, all’aperto e al chiuso. In loop costante, quasi fosse un suono campionato che, anzichè farci ballare, era in grado di farci ridere. Buondì. Siamo partiti il primo gennaio. I voli costavano meno e a noi poco importava del capodanno. Ad accoglierci, un’ora di pullmann dall’aeroporto al centro città e un freddo pungente. Il gelo era decisamente più intenso di quanto ci aspettassimo e le nostre tenute super pesanti non erano sufficienti a fare fronte al clima impietoso dell’inverno

svedese. Dai finestrini scorreva un paesaggio vuoto, desolato. Era tutto bianco. Ipnotico e affascinante al tempo stesso. Diverso. Poi, a poco a poco, le prime case, le luci della periferia, un ponte e finalmente la città. Eravamo in otto: quattro coppie ben assortite e dagli impieghi più disparati. Comunicazione, fotografia, design, architettura, ristoranti, giornalismo, perfino Onlus e missioni umanitarie. In quei giorni ci siamo conosciuti tutti un po' meglio. Bastava dire “Buondì” e una ventata di buonumore ci invadeva, incondizionatamente, ben predisponendoci al prosieguo del viaggio. L’aria era sempre più fredda, ma non ci importava. Meno quindici, meno diciotto, addirittura meno venti. Per quel

che potevamo, imbacuccati come non mai, cercavamo di resistere passeggiando all’aria aperta. Gamla Stan, la città vecchia, è stata l’unica zona che ci ha deluso. C’erano poche cose da vedere. Anzi quasi niente. Solo boutique per turisti, super care e con merce davvero scadente. Buondì. Tutta un’altra storia, invece, Sodermalm, il quartiere più trendy della città. Camminando per le sue ampie strade, cosparse di negozi alla moda e gradevoli bar, ogni tanto, dalle finestre dei palazzi più decadenti e industriali, ti imbattevi nelle note di rock band emergenti, che provavano con ostinazione propri pezzi e cover di gruppi più famosi. Intanto ci abituavamo al freddo e alla neve.


Gamla Stan

Anche di venerdì o sabato sera, non c’era molta gente in giro. Nei mesi invernali, nel Nord Europa si esce poco, molto meno di quanto non avvenga d’estate. Addirittura esiste una sorta di depressione stagionale, dovuta al freddo, alle poche ore di luce, e al fatto che dopo le quattro del pomeriggio non c’è quasi più niente da fare in tutta la città. Non che molti ristoranti e bar non fossero pieni, ma nulla a che vedere con quanto avviene in estate. Per questo, pur stando a Stoccolma, avevamo già voglia di

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Skeppsholmen

ritornarci per vedere la città illuminarsi sotto la luce del sole primaverile. - “Tutto un altro posto”, si leggeva sulle guide, “quando orde di giovani si tuffano nelle acque dell’arcipelago e raggiungono in motoscafo le isole in cui si concentrano le attività notturne estive”. Buondì. Ma intanto ci godevamo la suggestione della città in letargo, sepolta sotto una coltre di neve e ghiaccio. La giornata raggiungeva il suo apice quando eravamo seduti intorno ad un tavolo per la cena. Una serie di ottimi pasti ha

scandito le giornate del nostro soggiorno svedese. Tipici e abbondanti e tutti intorno ai cinquanta euro a cranio. La filosofia che ci animava d’altronde era la seguente: viaggiare significa anche mangiare ciò di cui abitualmente si cibano gli abitanti del luogo visitato. Tanto meglio allora se in Svezia la cucina è ottima. Aringhe, salmone, carne molto grassa e stracondita e l’immancabile pane e burro salato. L’unica cosa da evitare a tavola è il vino. Il più scadente supera i quaranta euro a bottiglia ed è lo stesso che si

beve in ogni ristorante romano al costo di quindici euro. Buondì. Non abbiamo dedicato la stessa attenzione che abbiamo riposto verso i ristoranti alla visita dei club della città. Anzi. Di locali ne abbiamo visti solo alcuni. Vuoi per il freddo, vuoi per le abbondanti scorpacciate, verso l’una di notte eravamo sempre colti da un’irrefrenabile voglia di andare a dormire. E poi il giorno dopo c’era la colazione dell’hotel, ottima e abbondante, fino alle dieci del mattino. Il più strano club che ho visto si

chiamava “Bruno”, un locale improvvisato nell’atrio di un centro commerciale di Sodermalm. La musica rock selezionata dal dj non era il massimo, tanto che, chi riempiva la pista, si ciondolava senza ritmo ed energia. Lo stesso dj non era affatto credibile: si trattava di un cinquantenne con i capelli da paggetto e un paio di occhiali da sole stile Lou Reed (quelli con le lenti rotonde). Ma un locale delimitato dalle serrande chiuse dei negozi, da cui si intravedono le scarpe e i vestiti esposti, era comunque

una cosa strana. Non l’avevo mai visto. Buondì. Se c’è un luogo della città che ai miei occhi ne riassume tutti i principali aspetti (per lo meno per quanto riguarda la versione invernale di Stoccolma), si tratta dei Mills Gardens. I giardini dello scultore Mills si trovano un po' fuori città: il curatissimo parco e la villa dell’artista oggi ne ospitano le numerose opere, esposte sullo sfondo di un panorama mozzafiato di mari ghiacciati. Lì, tutte le caratteristiche di Stoccolma prendono forma e

si manifestano: lo spirito artistico, le impalcature industriali, i paesaggi naturali intersecati con le strade e i palazzi decisamente urbani. Mancava solo il design, ma per quello bastava tornare in centro, dove ogni strada era costellata di negozi di arredamento e oggettistica. Del resto c’è da aspettarselo dalla nazione che ha dato i natali ad Ikea. A proposito. Sono rimasto di sasso nel sapere che l’opera più stampata al mondo è il catalogo annuale di Ikea. Non la Bibbia, nè “I promessi

sposi” o “On the road” di Jack Kerouac, ma la rivista di una multinazionale. E visto che ci siamo, Ikea è protagonista anche di un altro dato stupefacente: un europeo su dieci oggi è stato concepito su uno dei suoi letti! Incredibile. Buondì.

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effetti berlinesi di Marianna Kuvvet foto di Riccardo Malberti

Scendete alla fermata della metro “Hackescher Markt” e avviatevi lungo Rosenthaler Strasse. Pochi metri dopo vi troverete sulla sinistra il “Cafè Cinema”, un posto piccolo, scuro, fuori dal tempo, apparentemente trasandato. Uno dei miei bar preferiti. Non ha nulla di particolare, se non l'atmosfera, che mi permette ogni volta di entrare nello spirito della città tedesca. La fredda capitale, fino a vent'anni fa divisa da un muro, oggi è una delle città più affascinanti e stimolanti d'Europa. Con i suoi scenari post-industriali e il suo minimalismo, è stata e continua ad essere casa di artisti e designer, e fonte di ispirazione per musicisti - da Lou Reed ai Ramones, passando per il nostro Franco Battiato. D'altra parte non sono certo io a dovervi dire che Berlino è una città creativa. Statistiche ufficiali prevedono che entro il 2015 (si, va bene, sempre che il mondo non finisca nel 2012) la cosiddetta creative class, ufficialmente riconosciuta e supportata dalle istituzioni anche economicamente, arriverà a contare la bellezza di 200.000 persone. Epicentro di questo movimento continua ad essere il Mitte, per quanto i quartieri vicini - primo fra tutti Kreuzberg - si stiano dando da 58

fare. E il quartiere della creatività non può che essere il quartiere della moda. Non sto parlando della moda di Karl Lagerfeld o Jil Sander, tedeschi famosi in tutto il mondo, ma della moda dei designer giovani, dei negozi nascosti che rappresentano le strade, i colori, la gente e le atmosfere berlinesi. Io personalmente sono stata a Berlino non so quante volte e continuo a non ricordare i nomi delle strade. Non solo perché spesso sono difficili da pronunciare, quanto piuttosto perché solitamente arrivo al Mitte e inizio a vagare senza meta. Fra un giro e l'altro è doverosa una tappa da˘ “Apartment”, negozio che può permettersi di essere assolutamente invisibile (e di aprire a mezzogiorno). Dall'esterno non si vede altro che uno spazio bianco, completamente vuoto, a volte adibito a galleria. Per entrare nel negozio si deve scendere una scaletta a chiocciola, sulla quale fa bella mostra un cartello che invita gentilmente a spegnere macchine fotografiche e cellulari. Al piano inferiore ecco il negozio vero e proprio: nero, con una scelta di designer che spazia da April 77 a Maison Michel. Accanto ad “Apartment” c'è “Cash”, negozio second hand

minuscolo e disordinato che vende abiti di designer del calibro di Ann Demelemeester e Martin Margiela: per entrare bisogna suonare il campanello e sperare che all'interno vi sia qualcuno che venga ad aprire. Ma è un altro lo store che, a mio avviso, rappresenta alla perfezione l'estetica berlinese: “Darklands”. In un palazzo che risale all'epoca della Prima Guerra Mondiale, uno spazio senza tempo, con candelabri antichi e candele consumate, vecchie pagine di giornali, vestiti (per lo più neri) appesi lungo le pareti e scarpe di pelle buttate in terra. Ma attenzione, non durerà. Inaugurato a luglio con un party che ha coinciso con la fine della Fashion Week, il negozio seguirà le orme di altri guerrilla store, spostandosi e cambiando location più o meno regolarmente. ˘La gamma di designer è di tutto rispetto, da Carol Christian Poell a Julius, da Boris Bidijan Saberi a Damir Doma. Proprio quest'ultimo è uno dei più rappresentativi designer tedeschi di questa generazione. Nato in Croazia ma cresciuto in Germania, ha concluso i suoi studi a Berlino nel 2004. Dopo aver collaborato con Raf Simons e Dirk Schoenberger, ha lanciato nel 2006 la linea ma-

schile che porta il suo nome e solo un anno dopo ha fatto la sua prima apparizione sulle passerelle parigine. Le sue collezioni sono caratterizzate da materiali semplici e puri, capi oversize che pongono una distanza fra il corpo e gli abiti, silhouette fluide e drappeggiate. La moda di Damir Doma è semplice e riflessiva. Il designer elimina gli elementi in eccesso e i colori hanno un significato ben preciso: il bianco è la purezza, il nero la riflessione. E proprio il bianco e il nero sono forse i colori che meglio rappresentano la città tedesca, gli stessi che Hedi Slimane, ex mente geniale di Dior Homme, ha scelto per il suo libro di fotografie intitolato, appunto, Berlin. Una raccolta di intense immagini che immortalano luoghi grigi, ordinari e proprio per questo affascinanti; una generazione di giovani pallidi dall'estetica inconfondibile e impeccabile, pur mantenendo una distanza da tutto ciò che può definirsi glamour. Queste immagini ritraggono semplicemente Berlino.


libri

a cura di Claudia Bena Immaginate una forte luce diretta a rischiarare la notte. Tutto ciò che resta nell'ombra è nero, conosciuto ma nascosto dall'oscurità. È qui che si aggirano gli antieroi, rappresentati sempre dai giusti. Questo è il noir francese.

"Y" di Serge Quadruppani

“Piovono morti” di Jean-Patrick Manchette Anno: 1976 Editore: Einaudi Euro: 9,50 Pagine: 157

“Morte a Saint Michel” di Léo Malet Anno: 1957 Editore: Fazi Euro: 12,00 Pagine: 161 La massima espressione dello sciovinismo francese come risposta al belga Maigret è Nestor Burma, ex poliziotto poi detective privato, che fa del suo lavoro la sua vita. Anarchico e politicamente scorretto, si aggira per i cosmopoliti arrondissements parigini, inciampando, più che rincorrendo, casi apparentemente semplici da cui emergono amare realtà. Nevica e fa freddo. Incontra bellissime donne e scazzottate ad ogni angolo, dove spesso scappa il morto. La città, elemento fondamentale nel noir metropolitano, in questa serie è protagonista. La Senna, dall’aria così tranquilla, sta lì proprio per nascondere cadaveri. 60

"Il buon Dio se ne frega" di André Héléna Anno: 1945 Editore: Aìsara Euro: 14,00 Pagine: 191 Può un uomo riprendere la propria esistenza dopo l'esperienza del carcere? Può fuggire dalla galera e ritrovarsi imprigionato nella vita? In tutto ciò che fa Dio, invece di aiutare i deboli? Se ne frega. Sta a guardare mentre tutto va a rotoli, aspetta la fine dei conti, tanto tutti tornano a lui. Non certo a lieto fine, il finale buonista un po’ stride con il cupo esistenzialismo dell'autore, dove il carnefice è vittima di se stesso prima che della società. È arrivato in Italia il maestro del noir francese.

“È amaro dare la caccia a dei poveri imbecilli quando i trafficanti siedono in parlamento”, ragiona tristemente nel finale il protagonista, due braccia rotte e una dose robusta di droga nelle vene. Antieroe leale e disincantato, l’investigatore privato Tarpon è coinvolto in due casi che nascondono un pesante segreto. Si tratta di eroina, anticipando la violenta incursione in Europa della fine degli anni Settanta, e di sette semi-mistiche che occultano ben altro. La scrittura è lineare e sintetica. Militante di sinistra, situazionista, Manchette usa perfettamente il mezzo del noir per il proprio scopo: una fredda critica della società, che affiora attraverso le azioni e i comportamenti dei suoi personaggi.

Anno: 1991 Editore: Marsilio Euro: 16,00 Pagine: 255 Una videocassetta rubata che richiama la lettera di E. A. Poe. Una nuova droga sul mercato che interessa arabi, politici francesi, mafia italiana, ex gendarmi e una giovane giornalista d'inchiesta, tutti convinti che Claude ne sappia più di quanto faccia credere. Peccato che per il giovane il problema quotidiano si riduca all'eroina. In balia degli eventi, tra visioni apparentemente inspiegabili e gazze che volano in cielo, il protagonista si ritrova a combattere contro tutti e contro se stesso. Cade e si rialza innumerevoli volte fino alla fine, che risulterà essere una prova d’amore estrema. L'autore, traduttore di grandi classici americani e importatore del New Italian Epic in Francia, riscrive i racconti del genere inserendoli nel mondo attuale, consacrandosi tra i più importanti scrittori del neo polar francese.


balli proibiti di Chiara Rimoldi foto di Alssandro Bonci

Rubata alla foresta e incastonata tra la splendida Baia di Guanabara e la Mata Atlantica, Rio de Janeiro è una città che non passa inosservata. Propulsore di nuove tendenze giovanili, si muove da protagonista in un Brasile che sempre più sta dettando legge al resto del mondo in materia di moda, di calcio, di musica, di danza e di savoir vivre. Non è un caso che questa città sia diventata palco incontestato del movimento funk carioca, figlio bastardo del Miami bass e colonna sonora dei ghetti della città. Considerato la voce della favela, il funk carioca ha conquistato il ruolo rappresentativo della marginalità urbana che una volta era del samba, musica che si sta distaccando sempre più dall'immaginario popolare, vittima della commercializzazione selvaggia del carnevale e dell'interesse mostrato dalla classe medio-

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alta nell'appropriarsi di quelle che nel principio erano semplici storie della periferia carioca. Servendosi di un ritmo incessante e orecchiabile, il funk carioca racconta la quotidianità della favela, la convivenza con il traffico di droga, gli abusi della polizia, le punizioni per i delatori (chiamati in gergo X9), le guerre tra le diverse fazioni criminose che controllano la città, l'adulazione per i boss del crimine locale, l'infedeltà tra i sessi, l'iniziazione sessuale di ragazze giovanissime. È facile comprendere come la maggior parte dei testi siano considerati proibidão (illegali) dalle autorità e si possano comprare solamente nelle favela, durante i bailes, o per strada, da venditori ambulanti. Tutti i fine settimana, il traffico di droga organizza feste illegali nella maggior parte

delle favela di Rio (che ne conta più di settecento). Vecchi campi di pallacanestro si trasformano in veri e propri “funk rave”, con muri coperti di speaker e dj e Mc che si disputano gli elogi della folla. Le ragazze si preparano per ore: profumatissime, vestite con corpetti aderenti e minigonne inguinali, seducono gli uomini con pose provocanti e mimando orgasmi e posizioni sessuali. I ragazzi, invece, creano complicate coreografie e formano il bonde (il trenino), simboleggiando i gruppi armati che attaccano una favela nemica. I “soldati” del traffico armati con AK47 e M15 difendono l'entrata del baile e solitamente stazionano vicino al dj e davanti agli speaker. Il pubblico è locale, la festa è fatta per gli abitanti della favela stessa e per i sostenitori della fazione criminosa che comanda, sia Commando

Vermelho, Terceiro Commando, T.C.P. (Terceiro Commando Puro) o A.D.A. (Amigos dos Amigos). Nessuno può andare alla festa organizzata da una fazione avversaria. La pena è la morte: solitamente i nemici vengono bruciati vivi nel mezzo di vecchi copertoni. Il funk carioca acquista con gli anni un ruolo scomodo. Comincia come funk melody, un funk sensuale e innocuo, e arriva ai giorni nostri come pura apologia del crimine, fomentando guerre tra favela rivali ed elogiando le gesta di violenti criminali. Per questo motivo, diversi Mc di funk sono stati recentemente processati per i loro testi e la loro associazione con fazioni criminose. Ordini disciplinari che tentano di contenere un fenomeno culturale che sta esplodendo, dimenticando che il funk è solamente il portavoce di una realtà creata da quella stessa società che lo sta demoniz-

un baile in una favela di Rio de Janeiro

zando. Il crimine non sarebbe un’opzione così allettante se lo stipendio minimo consentisse di sopravvivere, le favela non sarebbero armate fino ai denti se la polizia smettesse di vendere fucili ai trafficanti di droga, la cocaina non entrerebbe così facilmente nel paese se non ci fossero autorità corrotte che ne facilitano la circolazione. Mr. Catra, considerato uno dei precursori del movimento funk carioca, spiega che “il vero problema del Brasile è l'ostinatezza nel conferire posizioni autorevoli a chi in real-

tà sta sfruttando le ricchezze del paese per fini personali, minandone così l'economia. Tu pensi che il criminale analfabeta che controlla la favela lavori da solo?”, alludendo al coinvolgimento di politici nel giro miliardario di droga che ruota attorno alla città. “Quello che viene dalla favela deve rimanere dentro la favela, o così per lo meno vorrebbero”, assicura Catra, “è per questo che il funk è proibito. Perché racconta di realtà che la società brasiliana ha nascosto sotto il tappeto, ha deciso di non vedere.

Il funk è scomodo, crudele, sconcio, volgare, usa un portoghese non corretto, ma è il prodotto di una società che è stata lasciata nella miseria e nell’ignoranza”. Mr. Catra è responsabile del recente successo europeo del funk, che ha spopolato in Svezia, Inghilterra, Francia, Germania, Danimarca. Una volta fuori dal suo contesto nazionale, il funk carioca diventa esotico, addirittura chic. Tutti lo associano al film “Cidade de Deus”, e diventa un fenomeno di facile accesso, parte di quel brasilianismo

che sta coinvolgendo l'Europa negli ultimi anni. Come già successo in passato con altri generi musicali, sta iniziando un processo di rivalutazione e valorizzazione del funk carioca come strumento di cultura popolare. Mc e dj di funk sono impazienti di suonare la loro musica in un bloco (gruppo di strada) al prossimo carnevale. Hanno ragione, ormai il ritmo della città è un altro.

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Tom & le armi di seduzione di massa di Marco Costa

New York. Studio 54. Da qualche parte sul finire degli anni ‘70. Una piuma viola si stacca dall’eccentrico vestito di una ballerina scatenata in pista, piroettando in una selva di spalle, scolli e mani al cielo, volteggia in quel caleidoscopio di glitter, disco music e impossibili acconciature fino a posarsi lieve sul bavero della giacca di un giovane intrigante texano che proprio sul più bello abbandona il party e sgattaiola in una caffetteria lì vicino, dove sfodera blocchetto e matita e inizia a disegnare schizzi d’alta sartoria. Il suo nome è Tom Ford, anni dopo sarà capace di fatturare alla guida di Gucci qualcosa come tre miliardi di dollari, ma per adesso si gode il suo caffè all’alba, cullato nei suoi sogni di gloria. L’ultimo exploit di Mr. Ford in ordine di tempo è stato il sorprendente esordio alla regia con “A Single Man”, tratto dall’omonimo romanzo di

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Isherwood, con Colin Firth e Julianne Moore, film che ha vinto la Coppa Volpi a Venezia per la struggente interpretazione di Mr. Firth, attualmente candidato agli Oscar 2010. È un film che parla d’amore il suo. Di un professore universitario nella California di inizio anni ‘60, George Falconer, distrutto dal dolore per la morte del compagno in un incidente d’auto. L’insostenibile peso di tutta una vita rivissuta in un giorno: l’ultimo. Un sopravvissuto in abito scuro, protetto da un solenne paio di occhiali dalla montatura spessa e nera, che, spogliatosi del suo ossessivo self control, dell’impeccabile discrezione del suo sentire, scopre di provare tutte le emozioni umane possibili, dal desiderio alla disperazione, dalla compassione all’empatia. Sebbene la validità definitiva del film sia stata contestata da qualche purista del settore, nessuno ha potuto

negare l’impronta seduttiva di quelle immagini, rigorose e sensuali. Ma chi è davvero questo multiforme cinquantenne talento texano che ha fatto del suo nome un sinonimo di stile, un marchio sopraffino che coniuga l’edonismo al business? Nato nel 1961 a Austin, Texas, Tom trascorre gran parte della sua infanzia negli anonimi sobborghi di Houston, quindi, ad undici anni, si trasferisce con la famiglia a Santa Fe. Annoiato dalla letargia estetica della provincia americana, all'età di diciasette anni Tom prepara le valigie e si trasferisce a New York, dove studia design e storia dell'arte e dove comincia davvero la sua nuova vita. Sono anni incredibili quelli da vivere a New York. Tom fertilizza la sua creatività frequentando la leggendaria discoteca Studio 54 dove conosce Andy Warhol e gli altri creative boy della factory in

nottate memorabili. La sua gavetta passa attraverso uno stage nell’ufficio stampa di Chloè, quindi entra a far parte dello staff creativo della designer Cathy Hardwick, e un paio d’anni dopo passa alla Perry Ellis come Direttore del Design sotto la supervisione di un'altra figura fondamentale del mondo della moda: Marc Jacobs. E fin qui nulla di trascendentale. Sarebbe potuto diventare uno dei tanti stilisti talentuosi che alimentano il mondo della moda senza fare ombra, ma ecco che nel 1990 Tom si trasferisce a Milano, entrando nel sontuoso & comatoso marchio Gucci, come direttore creativo della linea donna. Il resto è storia. Una delle più incredibili ascese che il mondo del fashion ricordi, un effetto viagra sul fatturato dell’azienda che nel giro di pochi anni gli consente di diventare Creative Director, con responsabilità onnicom-


dal film “A single man” di Tom Ford

prensiva sulla produzione e sull' immagine della compagnia, che viene rilanciata nel gotha del lusso grazie alle ruggenti campagne pubblicitarie in collaborazione col fotografo Mario Testino. È la nascita di uno stile unico, imperioso, che ridefinisce il concetto di nero, di abito da sera; c’è uno spregiudicato erotismo che permea ogni sua creazione: dalle scarpe ai mobili ai profumi, tutto è spudoratamente bello, prezioso, ammaliante e devastante. Il marchio Gucci da brand per matrone snob e un filo

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conservatrici alla Sophia Loren, si ricolloca sul mercato come l’oggetto del desiderio delle nuove star, delle giovani femmine rock e di certe signore più consapevoli della propria femminilità come una certa Miss Veronica Ciccone. Nel giro di un decennio o poco più, Tom, in collaborazione con Domenico De Sole, il vero deus ex machina dietro l’espansione economica del gruppo, ha solidificato a colpi di scandali e celebri collezioni un brand che fa rima col suo nome, tanto che dopo esser uscito dal gruppo Gucci nel

1994 ed aver lasciato la direzione creativa di Yves Saint Laurent, ha fondato proprio con l’ex socio la società Tom Ford™. Inizialmente attivo nel campo della cosmetica e degli occhiali, attraverso campagne fotografiche firmate dal nasty boy Terry Richardson, la sua Weltanschauung si riconferma come oggetto del desiderio dei luxury victim. Ciò che colpisce di questo simil modello un po’ Ken un po’ beefcake da spogliarello in un femmineo addio al celibato, è la capacità d’inventare favolose esigenze, magari

falsi bisogni, ma con una lucidissima interpretazione delle regole del mercato che ricorda molto la parabola ascendente di un Damine Hirst nel mondo dell’arte. Alexander Mc Queen, col suo gravissimo e inaspettato suicidio, ci ha insegnato che tutto l’oro e la gloria del mondo non servono a prevenire i disastri dell’anima, ma Tom Ford, proseguendo il suo personalissimo percorso professionale, ci lascia sperare che inseguire un sogno di bellezza, di questi tempi, sia già di per sé una ragione per cui vivere.


NEL PROSSIMO NUMERO... foto di Marco Dormino


I panorami più affascinanti? Quelli che si vedono dai grattacieli dei migliori alberghi. Le escursioni più faticose? Quelle per negozi e centri commerciali e vi giuro che farlo sulle mie Jimmy Choo è davvero un’impresa. Usanze locali? Non è che abbia ben capito cosa intendeva quel tipo della redazione. Conosco bene i locali, non le usanze. Anche un po’ di cultura quando vengo invitata ai vernissage (non ricordo bene di chi fosse l’ultimo ma si beveva ottimo champagne!) La Miss

the chic trip a Miami come a Rimini Miami è stata sulla cresta dell'onda per quasi tutti gli anni ‘90, diffondendo la moda dei nightclub a South Beach. Da allora nuovi hotel e locali notturni sono spuntati come funghi insieme alla costruzione infinita di condomini altissimi. L'uragano Andrew del 1992 ha colpito poco l'industria turistica, che rappresenta la spina dorsale della città. Miami infatti continua ad essere considerata la terza città americana più popolare per il turismo internazionale, dopo Los Angeles e New York. Nonostante l'omicidio di Gianni Versace nel 1997 e il clamo70

re generato dal caso di Elian Gonzales, il ragazzino cubano che fu salvato dal mare dopo che sua madre era annegata nel tentativo di condurlo in Florida, Miami continua a prosperare ma... in effetti non è un granché. Secondo me è una specie di Riccione della East Coast. Anche se qualcosa da salvare c’è sicuramente, perché ci sono stata almeno sei volte e mi sono sempre divertita. Lo shopping è l’argomento che preferisco, quindi inizierò da quello. I mall di Miami sono più o meno tutti uguali, pieni di catene (Abercrombie & Fitch, GAP, Forever XXI) e di ristoranti dai menu ipercalorici. Vale la pena di fare un salto a Bal Harbour, una Via Condotti al chiuso frequentata da signore con cagnolini ingioiellati, in cui ogni volta non posso fare a meno di capitare “per caso”.

Il mio negozio preferito si trova al 650 di Lincoln Road, la minuscola Fly Boutique, praticamente il regno del vintage. Lì una volta sono addirittura riuscita ad aggiudicarmi una deliziosa e minuscola pochette di Chanel anni ‘80! Per quanto riguarda gli alberghi, fino a qualche tempo fa il più prestigioso era il Delano, ma ormai il Setai ha decisamente conquistato il primo posto. La Spa di questo splendido hotel in stile orientale è qualcosa di incredibile. I loro trattamenti di bellezza hanno nomi complicatissimi che sanno di mistico e rilassante (adorabile il Tibetan Elements Ritual). Cedete alla tentazione di provarne uno! Stavo quasi per dimenticarmene: ha aperto da poco il W South Beach, ancora più lussuoso del Delano e del Setai messi insieme. Da vedere assolutamente!

A cena o anche solo per bere qualcosa bisogna assolutamente provare il B.E.D., strano ma divertente. Si mangia sdraiati su comodi divani bianchi praticamente al buio (così nessuno può vedere quanto magnifico budino ai tre cioccolati hai divorato!). Il Chakra invece ospita sempre eventi esclusivi, concerti dal vivo (attenzione perché una volta sono capitata ad un concerto di quella cariatide di Gloria Gaynor) e sfilate di moda, ovviamente accessibili solo con invito. No categorico a Nikki Beach, ormai frequentata da turisti e donne troppo siliconate. Cosa manca? Monumenti non ne ho visti. Giuro, neanche uno. Credo a Miami non ce ne siano proprio.


distribuzione FABRICA Via Girolamo Savonarola 8

PIFEBO Via dei Serpenti 141

CAPE TOWN CAFÉ Via Vigevano 3

FLANEUR Via Flaminia Vecchia 730/A

PIFEBO Via dei Volsci 101/B

CIRCUSTUDIOS Via Pestalozzi 4

FLU CAFÈ Via Alessandro Scarlatti 4

RASHOMON CLUB Via degli Argonauti 16

EMPORIO 31 Via Tortona 31

FRENI E FRIZIONI Via del Politeama 4/6

RGB46 Piazza di Santa Maria Liberatrice 46

EXPLOIT Via Pioppette 3

GOA CLUB Via Giuseppe Libetta 13

RRTREK (Il Rifugio Roma) Via Ardea 3/A

FRIP Corso di Porta Ticinese 16

IL BARETTO Via Garibaldi 27

SALOTTO 42 Piazza di Pietra 42

INTRECCI Via Larga 2

JARRO Piazzale di Ponte Milvio 32

SOCIÉTÉ LUTECE Piazza di Montevecchio 17

JARRO SHOWROOM Piazzale di Ponte Milvio

SUPER Via Leonina 42

LA CASA 139 associazione culturale A.R.C.I. Via Ripamonti 139

KOOB LIBRERIA Via Luigi Poletti 2

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L'ALTRO CHIOSCO Piazzale di Ponte Milvio

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LE TESTE MATTE Via dei Baullari 113/114

TREE BAR Via Flaminia 226

CONTESTA ROCK HAIR Via del Pigneto 75 Via degli Zingari 9/10

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ROMA 40 GRADI Via Virgilio 1 ALTROQUANDO Via del Governo Vecchio 80 ARCHIMEDE 80 Via Archimede 80 ATELIER 35 Via Valpolicella 35 BAR DEL FICO Piazza del Fico 26 BARNUM CAFÈ via del Pellegrino 87 BOHEMIENNE Via dei Cappellari 98 BUCAVINO Via Po 45 CAFFÈ FANDANGO Piazza di Pietra 32/33

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MILANO 10 CORSO COMO Corso Como 10 BOND Via Pasquale Paoli 2 CALIFORNIA BAKERY Piazza Sant’Eustorgio 4 Viale Premuda 449 Largo Augusto Via Verziere ang. Via Merlo 1

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