The trip n°16 - Russia

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Transiberiana

Mosca

Siberia

villaggio di Alexandrovka

lago Bajkal

Igort

Biennale di Venezia

the the trip trip summer 2013

N째 16 summer 2013

N째 16


UN' ESTATE CON CORNETTO UN VIAGGIO NEL GUSTO

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tutti i gusti di Vienna

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esplorando la russia Q

uando dall’aeroporto si arriva a Mosca, già sul taxi senti odori diversi, non più quelli dell’Unione Sovietica. Per entrare in città ci vuole molto tempo, ma guardare i boschi che formano delle barriere uniformi di alberi tutti alti uguali e diritti mi fa sentire l’aria della Russia, che mette addosso uno strano stimolo, una voglia di andare, andare dappertutto, affrontando il vasto territorio, l’orizzonte che s’allontana tutte le volte che ci s’avvicina. Però non si può passare oltre, lasciare Mosca senza la rituale visita alla Piazza Rossa, quel posto unico dove oriente e occidente si mischiano nei forti toni delle cupole di San Basilio, quell’insieme di chiese nate attorno alla tomba di un folle di Dio, un veggente come lo fu molto tempo dopo Rasputin, anche se in modo molto meno ascetico di Vasilij. I russi sono un po’ come questi strani santi: imprevedibili. Questo non è un tratto negativo, anche se può disorientare. Lasciata la città sembra di piombare in un altro paese, in quello vero, dove la sensibilità dei suoi abitanti è rimasta quella dell’Unione Sovietica; i russi stanno meglio di prima, ma i loro problemi non sono affatto finiti, anzi. Percorrere la Russia in lungo e in largo come ho fatto io è un’impresa fantastica: steccati di alte e schiette betulle dal fusto bianco luminescente sfilano lungo i finestrini del treno. Quando si va in macchina si attraversano quei muri e sembra di essere inghiottiti per sempre dalla taiga, il bosco siberiano, fitto e profumato di funghi, fragole e mirtilli; un bosco profondo, interrotto solo da qualche cupola azzurra, dorata o bianca, capace di spezzare quella continuità senza fine. Si viaggia sulle tracce di chi ci ha preceduto verso la Siberia. Michele Strogoff, il corriere dello zar di Jules Verne: le mie avventure per fortuna non sono così spericolate e pericolose. La mitica traversata su Fiat Itala Pechino-Parigi del 1907, documentata dal giornalista del Corriere Luigi Barzini. Immagino anche un mondo di spie intelligenti, e penso all’arroganza del potere, mai finita, nonostante il crollo della cortina di ferro. Non è più Solzhenicyn il dissidente a interessare, ma Limonov il politico astuto, artefice di se stesso. Le vie fluviali della Russia sono tante, fiumi rigogliosi color fiordaliso trasportano merci e persone. Sempre in movimento, sono state le vie di comunicazione più battute: attraversano campi di lupini viola intenso, d’erba medica gialla, ondeggiante al fresco vento del Nord. A frenare lo scorrere delle acque è il freddo: il ghiaccio trasforma tutto in una distesa bianca, punteggiata di corvi neri e cornacchie, grandi e chiassose. Vedere la Russia d’inverno è un’altra esperienza che non ha uguali. Il bianco domina, acceca e mimetizza cose e uomini. Solo il cielo a volte è blu, ed è la luce della speranza. La meta d’oriente è Irkutsk, una vera città, non lontana dal lago Bajkal; un centro culturale dove Mosca e San Pietroburgo si sono incontrate agli estremi del territorio russo. In questa località furono esiliati i decabristi, un gruppo di nobili che tentarono una rivoluzione che fallì. Gli zar, per niente teneri con i politici, giustiziarono i capi, nobili o non nobili, e spedirono in Siberia gli altri. La loro traversata della Russia fu epica e sofferta e molte mogli seguirono le sorti dei mariti. Lontano dai salotti dei nobili nacquero nuovi amori, più sinceri, più spontanei. Allo scadere della condanna molti rimasero a vivere in quel lontano avamposto dell’Impero Russo, studiando il territorio, istituendo scuole. Il Bajkal non ha rivali, bello in estate e in inverno. Eccezionale la pesca quando si fora il ghiaccio e si resta in muta ammirazione delle sottili lame trasparenti, simili a vetri lanciati sul lago da un vetraio impazzito. Ho esplorato l’isola di Sakhalin con il libro di Anton Čhekhov, un reportage di inizio Novecento su quella terra di deportati, dove la natura è esuberante e sgargiante solo pochi mesi l’anno. Undici fusi dall’Italia per sbarcare in Kamchatka, una terra bellissima di vulcani e boschi che in autunno si tinge di gialli e rossi, dove goffi orsi bruni pescano enormi salmoni argentati nelle acque spumeggianti dei torrenti. Nella Valle dei Geyser queste sorgenti lanciano altissimi soffioni verso il cielo, spruzzando in aria un caleidoscopio di colori. La Kamchatka s’esplora in elicottero, è dall’alto che tutto diventa reale in una terra che sembra appartenere all’altrove. Se per Mandel’štam «Ulisse fece ritorno / stanco di tempo e di spazio...», io mi perdo con gioia negli spazi spopolati della grande Madre Russia, mia amatissima terra.

Gabriella Pittari Autrice per Polaris di due guide, Russia Europea e Le capitali della Russia: Mosca, San Pietroburgo e l’Anello d’Oro, Gabriella Pittari ha fatto del viaggiare la sua professione. Dopo anni passati alla Olivetti come interprete di russo decide di sfruttare la conoscenza della lingua per esplorare in lungo e largo la Russia e osservare e raccontare i suoi luoghi e i suoi cambiamenti. «Questa guida della Russia europea vorrebbe portare il viaggiatore a conoscere la sconfinata pianura russa, sepolta nella neve invernale e nel freddo che la isola ancora una volta dal resto del mondo, contribuendo a rafforzare la propria identità». RUSSIA EUROPEA Polaris - 2009 - 27,20€ 6 | editoriale

illustrazione di Enrico Riposati


sommario 06.

27.

12.

editoriale di gabriella pittari

pussy riot

eventi russia ed ex urss

17.

27.

14.

my trip transiberiana

mosca

intervista a igort

33.

30.

63.

reportage fotografico di alisa resnik

lago bajkal

in italia santa caterina

50.

52.

fuji presenta gianluca colla

siberia

64. l ’ arte danaë

58.

66.

il villaggio di alexandrovka

il cinema la corazzata potemkin

67. medioevo occipitale discovery of russia

68. cornetto islands into the streams

redazione the trip n°16 summer 2013 direttore responsabile Valentina Diaconale valentinadiaconale@gmail.com direttore editoriale Lorenzo Verrecchia lorenzoverrecchia@thetripmag.com direttore artistico Valentina Gruer valgruer@gmail.com responsabile di redazione Francesca Rosati francescarosati7@gmail.com redazione Claudia Bena claudiabena83@gmail.com photo editors Annalisa D’Angelo e Valeria Ribaldi responsabile web Veronica Gabbuti veronicagabbuti@thetripmag.com coordinatore tecnico Damiano Mencarelli responsabile marketing Luca Salice lucasalice@thetripmag.com

editore The Trip s.r.l. Via Apollo Pizio 13 - Roma centro stampa Pignani printing Via degli Imprenditori snc Zona industriale Settevene – Nepi (VT) sede legale Via Gasperina 188 – Roma Registrazione Tribunale di Roma n. 329 del 6 ottobre 2009 contatti info@thetripmag.com thetripmag.com

hanno collaborato Pier Gabriele Barbato, Fulvio Benelli, Paolo Cagnan, Marco Costa, Alessandra Cristofari, Federico Di Vita, Edoardo Giancola, Viola Gurioli, Giovanna Fazzuoli, Gabriella Pittari, Ilaria Rondina, Nico Tucci, Rebecca Vespa immagini Gianluca Colla | gianclucacolla.eu Andrea Dapueto|andradapueto.it Igort | igort.com Jaroslav Konečný Francesca Masarié| francescamasarie@gmail.com Timofey Kolesnikov | timdiary.com Alexey Pivovarov/Prospekt | alexeypivovarov.com La foto di copertina è di Alisa Resnik/Prospekt alisaresnik.com L’illustrazione dell’editoriale è di Enrico Riposati enricoriposati.over-blog.it


III edizione del festival internazionale di fotografia in viaggio Cortona, 18 luglio - 29 settembre 2013 Jeroen Toirkens | Nomad

Come ogni anno Cortona sarà, da luglio a settembre, il cuore pulsante della fotografia contemporanea con l’edizione 2013 del festival Cortona On The Move: il primo festival a sviluppare il tema del Viaggio in tutte le sue forme e sfumature svelando all’interno delle meravigliose location di Cortona tutte le esperienze. Tra i vicoli della città toscana, nel vecchio ospedale o nell’antica fortezza medicea il Viaggio si trasformerà in condivisione, divertimento, scoperta, dramma o sogno. Nel silenzio degli antichi palazzi l’unica voce sarà quella dei fotografi, viaggiatori per eccellenza, che racconteranno terre lontane e profondi momenti di vita. Dopo il successo della scorsa edizione e per il secondo anno consecutivo Arianna Rinaldo è stata confermata direttore artistico del festival dall’Associazione Culturale ONTHEMOVE. Ricerca, talento, contemporaneità sono le parole chiave che hanno guidato la sua selezione delle mostre di questa edizione. cortonaonthemove.com

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Patrocini con l’adesione del Presidente della Repubblica:


eventi inviaci anche il tuo scrivi a : info@the trip mag.com

ex URSS 12| eventi

San Pietroburgo da fine maggio a inizio luglio le notti bianche

Kamchatka terza settimana di settembre Itel’men Festival

Mosca settembre - ottobre Art Moscow e Biennale di Arte Contemporanea

Murmansk fine marzo Prazdnik Severa

San Pietroburgo è bella sempre, ma durante il periodo delle notti bianche la città si manifesta nel suo massimo splendore. Per quasi due mesi il sole sembra non tramontare mai e il giorno dura fino a diciotto ore. La città dorme poco, i musei restano aperti più a lungo e si può girare tutta la notte per le strade che si colorano di luci suggestive.

Questa festa tribale del raccolto delle tribù indigene dei Koriak, degli Itel’men e dei Sunda si svolge nella gelida tundra della Russia del Nord. Parte del rituale è un’escursione di quarantatre miglia fino alla cima del Monte Elvel, dove una scultura di legno è lasciata in dono agli antenati. Altri festival russi si verificano nel mese di agosto per festeggiare i raccolti di miele, mele e noci.

Quest’anno si svolgono nello stesso periodo rendendo Mosca meta imperdibile per gli amanti dell’arte. Con partecipanti provenienti da tutto il mondo e una lunga serie di progetti paralleli al programma principale, le due fiere sono entrambe luoghi d’incontro esclusivi per operatori del settore e non. art-moscow.ru 5th.moscowbiennale.ru

Appassionati di sport e di cultura raggiungono la regione di Murmansk, ogni anno alla fine di marzo, per celebrare le prime luci della primavera. Il Festival del Nord dura diversi giorni, comprende vari concorsi tradizionali come le corse con le renne, e si conclude con una maratona di sci. Tutto questo nel bel mezzo del Circolo Polare. prazdniksevera.ru

Trenčín (Slovacchia) 11 - 14 luglio 2013 Pohoda Festival

Burgas (Bulgaria) 27 - 28 luglio 2013 SPIRIT of Burgas

POPIVKA (CRIMEA, UCRAINA) 31 LUGLIO - 14 AGOSTO 2013 KAZANTIP REPUBLIC

Ozora (Ungheria) 6 - 11 agosto 2013 O.Z.O.R.A.

Il Pohoda Festival nasce nel ’97 ed è l’evento multiculturale open-air più visitato in Slovacchia. Si svolge nell’aeroporto di Trenčín e offre più di dieci palchi e due zone camping. La musica comprende diversi generi e il programma include esibizioni teatrali e di danza, incontri letterari e installazioni di design e visual art. pohodafestival.sk

La spiaggia principale di Burgas, che si affaccia sul Mar Nero, ospita uno dei più apprezzabili eventi musicali estivi d’Europa. Il programma è poliedrico e offre diversi stili artistici toccando tutti i generi musicali, dal reggae all’hip hop, dal drum‘n’bass al punk, dal soul all’hardcore e al dubstep. spiritofburgas.com

Detto anche Repubblica Arancione, il festival di Popivka è un evento annuale di musica elettronica che si svolge sul Mar Nero. Tra i più famosi del settore nei Paesi dell’ex Unione Sovietica, Kazantip ospita dj di caratura mondiale appartenenti a diversi stili del genere elettronico. kazantip-republic.com

Ogni anno, tra le verdeggianti valli vicino a Ozora, si materializza un mondo parallelo, un universo fantastico dove migliaia di persone si uniscono per celebrare, condividere e festeggiare. È un festival colorato e pieno di energia che congiunge danza, trance, creazione, invenzione, trasformazione e pace, tutto nel rispetto dell’ambiente e del prossimo. ozorafestival.eu eventi |13


intervista a igort

pagine nomadi di Claudia Bena illustrazioni di Igort | igort.com immagini tratte dal libro “Pagine nomadi” © Igort e per l’edizione italiana Coconino Press 2012

N

egli ultimi anni si sta sviluppando un filone di grafic novel che racconta nel profondo la realtà. Tra questi le opere di Igort, reportage disegnati. È informazione sotto forma di arte, è il desiderio di condividere le proprie emozioni. Di cosa parliamo quando parliamo di Russia oggi? Visitare i luoghi è sempre un calarsi nelle atmosfere che quei luoghi evocano. Per me la Russia è la patria del romanzo, nella forma contemporanea. Io cercavo questo, e le icone, che ho trovato dopo un peregrinare senza sosta, nelle basiliche dentro il Cremlino, nel cuore di Mosca. Lì ho visto il punto di congiunzione tra le icone russe e l’arte italiana di Beato Angelico, di Giotto. È stata un’emozione fortissima. Poi certo Mosca è anche molto altro. Una sensazione di violenza che si trova di rado in altre metropoli. E quando parliamo di Cecenia? La Cecenia è il cuore del Caucaso, l’incrocio dei traffici di petrolio, una terra di religione musulmana alle porte dell’Europa. Ultimamente è stata devastata da due

guerre con la Russia, che ne hanno modificato l’aspetto. C’è stata la ricostruzione, e si finge che tutto vada bene, che siamo in pace. Il discorso sarebbe lungo, le cose non sono quel che sembrano. Il Caucaso, terra dura e fiera, ha coltivato un giardino di pensiero mistico impareggiabile. Varrebbe la pena di approfondire le figure che ci sono cresciute come Pavel Florenskij e Georg Ivanovich Gurdjieff. Quanto ha influito nella tua arte la cultura russa? Molto, credo. Sono cresciuto in una famiglia di cultura russofila, e questo ha creato in me un senso di appartenenza a quelle terre del racconto e del sentire. Poi le Russie sono tante. Quando ero bimbo, la Russia era quella dei racconti di mia nonna e di mio padre. Mi dicevano di Cechov, Turgeneev, di Borodin, Rimskij-Korsakov, di Stravinskij. A vent’anni era la terra dei miei amati artisti plastici: Malevich, Rodchenko, El Lissitzky, Majakovskij. Da uomo ci sono tornato per vedere come le persone comuni hanno vissuto l’esperienza del sogno comunista. E mi sono sentito male, a registrare i loro racconti. Ti sei ispirato a qualche tradizione iconografica per rappresentare la sofferenza? Come si fa a disegnarla? Per rappresentare qualunque cosa bisogna sentirla, lasciarsi attraversare. Altrimenti si produce finzione. Perché la scelta di sospendere il giudizio, nonostante nelle tue opere tu sia molto esposto dal punto di vista emotivo? L’autore, il narratore, nella mia concezione, espone le cose. Partecipa con il cuore, nel senso umanistico del termine. Quanto all’emettere dei giudizi, credo che stia al lettore trarre le conseguenze, farsi un’idea. È una questione etica. Significa rispettare chi mi legge, non invadere il campo, per come la vedo io. In che settore collochi il tuo lavoro? I miei sono semplicemente dei libri. Tra un secolo non si riuscirà a credere che si facesse distinzione tra un libro raccontato con le sole parole o con i disegni e le parole. Sono racconti stampati. Libri dunque.

14| intervista

Cos’è la “ricostruzione fumettistica dell’universo”? Un gioco di parole con la “ricostruzione futurista dell’universo”, che professava un’arte totale. Chi racconta con le immagini, chi fa fumetti, sa bene che occorre essere registi, scenografi, direttori della fotografia, trovarobe, costumisti. Per me il fare fumetti è questo, il privilegio di lavorare con un’arte povera. Che non costa niente. Basta un foglio, un pennino e qualcosa da dire. Questo ti permette di andare lontano. E perfino di raccontare viaggiando, cosa che io amo fare. Disegnare e scrivere è il mio modo per capire i luoghi che visito. Lo spunto per fare degli incontri. Cosa hai trovato durante il viaggio e cosa quando sei tornato a casa è cambiato? Sono un uomo fortunato, ho viaggiato per tutta la vita. Ma questo viaggio di quasi due anni, tra Ucraina, Russia e Siberia, mi ha cambiato profondamente. Ho visto la vita difficile che le persone comuni vivono ogni giorno. Ho abitato nei loro palazzi alveare, ho visto cosa significa il razionamento del gas in pieno inverno. Con i bollettini che annunciano la lista dei morti, città per città. Ho visto cosa significa il razionamento dell’elettricità, le vie buie, a turno, con meno venti e il vento che gela la neve sui marciapiedi. È stato un viaggio importante, tornare a Parigi, dove abito, o in Italia mi faceva male. Vedevo la nostra propensione alla lamentela, senza speranza. Dove loro, soffrono senza dire una parola, cercando di sopravvivere. Sono rimasto stordito, forse ho capito delle cose. Perché andare in Russia? Perché no? La Russia e gli ex paesi dell’impero sovietico portano a pensare delle cose gigantesche, come il rapporto dell’uomo con la natura. Ho attraversato la Siberia in treno. Sette giorni. Mi ha aperto gli occhi vedere un continente ghiacciato che non prevede chiaramente l’uomo. Se ti poni delle domande, quelle coordinate geografiche sono il luogo da attraversare, per lasciarsi attraversare dalla vita. Un consiglio in particolare a chi vuole visitare la Russia. Dimenticare ogni pregiudizio e aprire il cuore al vero sentire.

intervista |15


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Mercati di Traiano - Museo dei Fori Imperiali: Via IV Novembre 94 - Roma ORARIO APERTURA Mart-Dom 9:00-19:00 (ultimo ingresso ore 18:00) info 060608 - www.mercatiditraiano.it

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Platskart, terza classe, può ospitare 54 persone

trip di Paolo Cagnan foto di Francesca Masarié Prendete un mappamondo, cercate Mosca e poi tracciate una linea discendente fino a Pechino. Sono quasi ottomila chilometri: Russia, Mongolia, Cina. Nessuno che parli inglese. Quasi centocinquanta ore di treno, più le soste. my trip|17


30 7

Nei vagoni ristorante si mangia insalata di pomodori e cetrioli e poco altro

15

Non fate gli spiritosi con le provodnitse, possono essere molto poco simpatiche

8

punti

Regola non scritta: negli scompartimenti si divide tutto, dalle caramelle alla Vodka. Ovviamente, voi sarete quelli delle caramelle

12| eventi

9

I treni viaggiano con l’ora di Mosca sino a Pechino: attenti ai fusi orari, o li perderete

2

Un sorriso risolve il 70% delle situazioni; per le altre, fuggite o nascondetevi

10 Attenti alle fermate, perché

Ad ogni stazione, c’è qualcuno che cercherà di fregarvi: mettetevela via (la borsa coi soldi)

nei piccoli paesi il treno si ferma anche solo un minuto. E riparte anche senza di voi

non sapete cosa 17 Rispettate i vecchi, non irri- 18 Le minestre (o le paste) liofi16 Quando lizzate russe sono immangiafare, gesticolate - e incrodeteli per nessun motivo al mondo

ciate le dita

23 Spegnete il cellulare, alme- 24 Gli no qui: siete in culo al mondo, godetevelo

1

alberghi sono perlopiù casermoni senz’anima, cercate la sistemazione B&B e non la rimpiangerete

25

Se potete e avete tempo, non fermatevi solo nelle grandi città, ma osate uno stop in un luogo piccolo e insignificante: sarà un’esperienza

bili: siete avvisati...

26 Sui

treni si dorme (e si dormicchia) a tutte le ore, anche in pieno giorno

3

Fate abbondanti fotocopie di documenti, specialmente i voucher dei treni

4

Russo, mongolo, cinese: se non sapete nessuna di queste tre lingue, benvenuti nel Club dei gesticolanti

5

Portatevi dietro alcune cartoline della vostra città e mostratele ai compagni di viaggio occasionali: tutti sono curiosi di vedere dove abitate

6

Freddissimo d’inverno, ma caldissimo d’estate: adeguatevi

Se siete sopra i trenta e single, inventatevi una moglie - o un marito - e almeno un paio di figli (con foto) altrimenti vi guarderanno con aria sbalordita

eventuali incursioni 12 11 Contro ladresche è possibile chiu-

I russi di una certa età sono tutti melomani, studiatevi almeno le trame di un paio d’opere italiane per non fare figuracce

13

14

Sui treni a lunga percorrenza, cercate di non ricreare il Club degli stranieri in viaggio ma di mischiarvi con i viaggiatori locali, sarà molto più divertente

19 Su molti treni la filodiffusione 20 di muzikapopsa sparata a

La zona del lago Bajkal è forse la più bella: non trascuratela

21 A volte sui treni avvengono 22

Le babuske vendono pelmeni (ravioloni ripieni di carne o verdure) caldi in brodo alle fermate: assaggiateli

dersi dentro gli scompartimenti lasciando aperto solo uno spiraglio (sì, se vogliono vi addormentano ma poi non riescono a entrare...)

tutto volume vi darà la sveglia

27 Da

Mosca a Ekaterinburg, il paesaggio dai finestrini è noiosissimo, ma non sarà sempre così

strani traffici: giratevi dall’altra parte

risposta 28 Leggete qualche polpetto- 29 Un coltellino svizzero vi sarà 30 La comunque ne russo dell’Ottocento

utilissimo

è: sì, troverete modo di lavarvi decentemente anche in treno

my trip |19


I preparativi L’ultima fissazione «Ma sai che palle?» era la frase più ricorrente. «Tutte quelle ore in treno, e da solo...». Più una selva di domande, alle quali, a dire il vero, non sapevo come rispondere. «La fai tutta difilato o ti fermi?». «Come fai a organizzarti? E poi, scusa, tu parli il russo?». «Farà un freddo cane, perché non te ne vai su una bella isoletta dei Caraibi? Tanto anche lì ti puoi sdraiare e leggere, se è quello che ti interessa». «Ma cosa cavolo c’è d’interessante da vedere laggiù?». A quel punto, invariabilmente, mi sentivo bofonchiare qualcosa di poco convincente. Così poco convincente che la conclusione di amici, parenti e sconosciuti occasionali era sempre la stessa: una scrollata di spalle e la frase fatidica: «Mah! Con tutti i posti che ci sono!».

La dotazione base «Che cosa mi porto dietro?». Scelta sempre difficile. Contro la noia: libri, carte da gioco, settimane enigmistiche, iPod. Contro la fame: biscottini, scatolame, frutta secca e intrugli vari. Contro i ladri: lucchetti, portafogli segreti, marsupi invisibili e armi improprie (anche le posate di plastica possono essere utili, all’occorrenza). Contro l’isolamento: il telefonino. E il caricabatterie. E l’auricolare. E la scheda Sim di riserva. E la seconda batteria. E le istruzioni sullo streaming. E un secondo cellulare, ché se il primo non prende...

a donna in divisa non ha tempo per i convenevoli. Fa cenno di sì con la testa restituendomi il carnet di biglietti. Posso salire, il treno è quello giusto. È fatta. Mai stato tanto puntuale in vita mia. Neppure in aeroporto, in barba alle fatidiche tre ore d’anticipo vivamente consigliate per i voli internazionali. Ma avevo una fottuta paura di perdere il treno. Perdi il primo, mi sono detto, e li perdi tutti: effetto domino. Addio alle coincidenze. Alle prenotazioni. Al viaggio stesso. Il taxi, o meglio una carcassa di Zigulì travestita da taxi, così come il tassista è travestito da Schumacher (venti chilometri in un quarto d’ora, saltando i pochi semafori in funzione), mi ha depositato qui due ore prima della partenza dell’Ural express, il treno numero 16, diretto inesorabilmente verso il nulla siberiano. C’è tutto il tempo di conoscerla bene, la stazione Kazanskaja. Sorella minore della più nota Yaroslav, situata sull’altro lato della strada, è enorme. Decine di scritte, tutte in cirillico. Il mio treno va a Ekaterinburg. Ma forse dovrei cercare Sverdlovsk, il vecchio nome della città degli zar. A destra, una galleria commerciale. A sinistra, un atrio con scale mobili. Davanti, sale d’attesa e ristoranti. Mostro il biglietto a un tale in divisa, che per dieci minuti si profonde in spiegazioni, ovviamente in russo. Intuisco che devo andare a sinistra. Dopo le scale mobili, un salone centrale solo appena più piccolo della Piazza Rossa. Centinaia di viaggiatori bivaccano sulle pensiline. Nessun tabellone elettronico. Calma, calma. Manca un’ora. Ce la puoi fare. «Ekaterinburg?». «Da, da».

Contro qualsiasi accidente fisico, dal raffreddore alla contaminazione nucleare, niente paura: c’è sempre la “farmacia portatile”. Ci sarà anche qualcosa che effettivamente non serve. Anzi, diciamolo pure: quasi tutto non servirà a nulla, ma vuoi mettere l’effetto rassicurante? Il paradosso è non riuscire a distinguere tra comodità ed emergenza; non capire, cioè, se la priorità sia avere con sé il dentifricio con il fluoro per lavarsi ogni sera i denti o essere pronti a suturare una ferita con lo spago, a mo’ di Rambo.

Il meteo “percepito” Che tempo fa in Siberia? Freddo cane tutto l’anno, verrebbe da rispondere. Siberia è sinonimo di gelo e desolazione, di paesaggi infiniti dominati dalla neve. O forse quella è l’Alaska? Be’, in ogni caso la Siberia è ghiacciata, sennò perché ci mandavano tutti per punizione? E invece no. L’inverno è al limite della sopravvivenza, ma l’estate pare sia molto calda e afosa; la primavera sarà perfetta, ne deduco. Se non fosse per la rasputitsa, un fango talmente speciale che gli hanno persino dato un nome proprio: non può che essere un brutto segno. La scheda on line della Mongolia è ancora peggio: «Il clima del paese è tra i più continentali del mondo, caratterizzato da inverni freddissimi (spesso, in gennaio, di notte il termometro scende a meno quaranta) e secchi».

Vabbè, ma in primavera... «Un altro dato costante di questo clima rigido è costituito dalla violenza dei venti che, per tutto l’anno ma ancor più in primavera, provocano terribili tempeste di sabbia. Nulla resiste al karaburan, la tormenta nera del deserto del Gobi che porta l’oscurità in pieno giorno». Bene: sabbie mobili in Siberia, tempeste di sabbia in Mongolia. Preferisco non cercare informazioni sui treni: viste le premesse, potrei scoprire che i deragliamenti sono all’ordine del giorno.

omul affumicato e tè

In questo viaggio mangerò da schifo: è l’unanime pronostico della vigilia. In ogni caso trascorrerò un mucchio di ore sui treni con tre sole opzioni possibili: acquistare cibi precotti dai venditori ambulanti nelle stazioni (rischio igienico), farmi spennare nelle carrozze ristorante (rischio economico) o sopravvivere a colpi di scatolame, insaccati e dolcetti vari acquistati in Italia (rischio colesterolo). A giudicare dalla valanga di materiale ammonticchiato sul tavolo della cucina, devo avere inconsciamente scelto la terza via. Una cosa, adesso, mi appare certa: nel supermercato ho seriamente temuto di morire di fame e di orribili stenti.

ragazzo buriato, tra Khabarovsk e Komsomolsk-na-Amure

La cambusa

Kupe, seconda classe

Transiberiana da inseguire

L

Ural express: l’esordio

Ecco, ci siamo! L’Ural express è composto di quattordici carrozze, più due vagoni ristorante. La “controllora” che accoglie i passeggeri (ce n’è una per ogni carrozza) ha l’aria simpatica e sfodera sorrisi ricoperti d’acne ma sinceri. È sui vent’anni e indossa la divisa: calze nere, gonna blu sopra il ginocchio, gilet senza maniche della stessa tinta, camicia bianca con collo a “V”. È una provodnitsa: una via di mezzo tra bigliettaia, cuccettista, hostess, cameriera e donna delle pulizie. Il tutto con molta dignità e gentilezza, ovviamente senza conoscere una sola parola d’inglese. Anzi, no, non esattamente: fino a hello ci arriva.


22|my trip

Baikal express, la svolta

C

onviene mettersi il cuore in pace. Il treno 10 Baikal express percorrerà la tratta Novosibirsk - Irkutsk in trentadue ore: due notti e un giorno. Più o meno è così: parti la sera tardi, dormi a bordo, hai un’intera giornata davanti a te,

poi sopraggiunge la seconda notte e la mattina successiva sei arrivato. Al km 4079 un cippo lungo i binari pare segnali il punto situato a metà percorso tra Mosca e Pechino. Da semiveterano della Transiberiana sto iniziando a regolare il mio orologio interno. Prendiamo questa mattina: a che ora mi sono svegliato? La risposta è: alle 6,30 di Roma, alle 8,30 di Mosca, alle 11,30 di Novosibirsk e alle 12,30 di Irkutsk. La conclusione, dopo un po’, è una sola: chissenefrega. Hai fame? Mangi. Hai sete? Bevi. Hai sonno? Dormi. C’è un che di gioiosamente primordiale in questa filosofia... atemporale. Il paesaggio si fa finalmente più vario. Al risveglio, ecco le prime colline boscose che, dopo giorni e giorni di betulle, sembrano quasi massicci himalayani. Il tempo dà i numeri: sole e cielo plumbeo, nuvole e nevischio, pioggerella e arcobaleni. Ci sono più case, ora, vicino alla ferrovia. Nei cortili, altalene e dondoli arrugginiti. C’è più vita. Ma c’è più vita anche sul treno, ed ecco la vera novità: non sono più solo. Come straniero, intendo.

in calzini, c’è la moquette. L’abbigliamento (unisex) più comodo è una tuta da ginnastica. Sdraiato con la testa rivolta verso la finestra, mi accorgo della retina a metà della cuccetta. «Asciugamano, sapone, dentifricio e spazzolino», elenca Luda con disinvoltura. Le cose da tenere a portata di mano, insomma. Io ci metto anche penna e diario, una torcia, la borraccia, un libro.

T

Sibiriak, taiga a oltranza

reno 26, carrozza 13, letto 19. Mi sono svegliato presto, saranno state le sette o giù di lì. Angosciato dai mostri deformi, rinfrancato dalla scoperta che li ho solo sognati, riesco a riaddormentarmi per un po’, prima del soprassalto. È pop melodico russo sparato a tutto volume dalla filodiffusione, o meglio dal gigantesco altoparlante nascosto dalle tendine, appena sopra la finestra. Sono le otto e un quarto e la giornata inizia bestemmiando. Mi aggrappo alla manopola, che è al massimo. Colpa mia: ieri sera devo averla girata dalla parte sbagliata, a impianto spento. Nicolaj era già sveglio e non si lamenta. Se ne sta sdraiato sul fianco destro, ogni tanto apre un occhietto e mi scruta. Sono stato fortunato: è la seconda volta che condivido una carrozza da quattro con una sola persona. Nessuno salirà da qui a Novosibirsk: ne sono quasi certo. È un personaggio, Nicolaj. Classe 1936, fa il fisarmonicista errante. Con lui la lingua, più che ostacolo, diventa sfida e divertimento. Luda, la mia prima compagna di viaggio, sapeva l’inglese. Lui no, parla solo russo. Per capirsi bisogna ricorrere al linguaggio universale dei segni. Che poi così universale non è. Sfregare pollice e indice indica i soldi, ma mica dovunque. Scrolli la testa in segno di assenso, e in alcuni paesi significa “no”. Al contrario, in India sembra che dicano “no” e invece quello stesso movimento significa “va bene”. E così via. Molti non comprendono il gesticolare italiano. E allora, se non ci si intende né a parole né a gesti, che si fa? S’improvvisa. Parlando ognuno nella propria lingua, e chissà che non ci scappi qualche possibilità d’intesa, una scintilla d’intuizione. Gesti & suoni: l’alchimia alle volte funziona. Io e Nicolaj ci intendiamo così. Scopro, dopo ore di interminabili quiz lessicali, che è vedovo e ha studiato al conservatorio. Che suonare la fisarmonica è tutta la sua vita, da sempre. Che ha due figlie e le pezze al culo. Viene da Vyborg, una città sul mar Baltico. Guardo fuori dal finestrino. Così come le casette basse, di legno, con il tetto di lamiera si sposano ai boschetti di conifere, i palazzoni a schiera brutti e squadrati sono il dna delle città cresciute lungo la linea. Poi prati secchi, rigagnoli asciutti e fabbriche e ciminiere e cave e depositi di legname a interrompere la smisurata taiga. E auto abbandona-

coppia Tatara, tra Novosibirsk e Yekaterinburg

Nello scompartimento c’è una donna che sta armeggiando attorno a una valigia. «Goodmorning». «Goodmorning». Sa l’inglese. Perfetto! «Hi, I’m Paul». «Luda». Nuda? Oddio, ha detto “nuda”? «Lu-da». «Ah, yes. Luda, yes...». Davanti al finestrino c’è un tavolino. Uno. Non ripiegabile. Su una tovaglietta cerata poggiano una teiera di porcellana con acqua bollente, quattro eleganti bicchieri con un sostegno di stagno, un cestino di vimini intrecciato contenente zucchero, tè, Nescafé e biscottini, alcune lattine di acqua naturale e un opuscolo del treno. Le tendine alle finestre sono di un rosa pallido, le tende più spesse sono cremisi. C’è un buon odore. Di pulito. È uno scompartimento a quattro posti, ma siamo solo in due, Luda e io. E i bagagli? Il sedile si può alzare con una maniglia e fissare a un gancio: sotto, come fosse una cassapanca, c’è uno spazio dove mettere la propria valigia, accanto a cuscini e coperte di riserva. Certo, ci vuole un po’ di esperienza: prima che Luda mi mostrasse il gancio che fissa il sedile alla parete mi sono quasi spaccato la schiena per tenerlo alzato, cercando di sistemare la sacca. C’è un altoparlante per la radiodiffusione, e speriamo che sia rotto. Il sedile è morbido, ma non troppo. Non ci si sprofonda dentro, insomma. La provodnitsa bussa, entra, distribuisce a ciascun passeggero una rivista delle ferrovie russe, un quotidiano di tre giorni prima e un giornale di parole crociate in cirillico. Ora ha in testa una sorta di basco blu con un’aquila dorata al centro. Prende i biglietti, poi torna con due sacchi contenenti lenzuola, sottolenzuola e federe per i cuscini. Ci fa uscire e prepara i letti. Soddisfatta, ci fa rientrare, sorride e se ne va. Un lievissimo scossone e l’Ural express si mette in moto. Ore 15,57. Partiti. L’opuscolo del treno 16 è ovviamente in cirillico. Gli orari sono scritti in alfabeto latino, le città no. «My name is Ludmilia... Luda», dice la mia compagna di viaggio. È una donna minuta, sui trent’anni. Veste piuttosto dimessa, vive a Ekaterinburg e mastica un po’ d’inglese perché l’ha studiato a scuola. Lavora in un ufficio statale e ha una figlia di sette anni. Mi sembra anonima come il paesaggio che ora, lasciata alle spalle la cintura moscovita, si apre verso la pianura. «Come? Ah sì, certo. Luda, yes. I’m Paolo. Italian». Non ho gran voglia di fraternizzare, adesso. Il tempo è l’unica cosa che qui non manca. Guardo attorno, avido di particolari. Tra i due letti, sul pavimento, c’è un grazioso tappetino finto persiano. Qui le scarpe sono bandite: si sta

Estremo Oriente Russo

fine turno, vagone ristorante

te - o forse solo catorci ancora utilizzati - e motocarrozzelle che fingono di sfrecciare a lato della massicciata, sulla strada parallela al doppio binario, perché qui si può andare solo verso est o verso ovest. Sfilano mandrie al pascolo, campi di granturco, operai con giubbotti fosforescenti che sistemano i binari, baracche con l’orto e fabbriche in rovina, con i tetti e i muri sfondati e chissà se qualcuno ci vive dentro. Non so che ore siano, ma è il momento di un tè. Mentre preparo l’occorrente, Nicolaj tira fuori da un involto pane nero, formaggio e una specie di paté, oltre alle zollette di zucchero. Poi, tocco magico, estrae dal suo cilindro una bottiglietta di plastica: vodka di pessima qualità. Vuole mettermela dentro il tè e mi sa tanto che non potrò dirgli di no.

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my trip


leggere la russia prima, durante e dopo di Claudia Bena «Ripetere Lenin significa accettare che ‘Lenin è morto’, che la soluzione specifica da lui indicata ha fallito, anche in modo mostruoso, ma che dentro c’era una scintilla utopica che vale la pena di tenere accesa. Ripetere Lenin significa individuare la differenza tra quel che Lenin ha fatto realmente e il nuovo orizzonte che ha aperto. Non vuol dire ripetere ciò che Lenin ha fatto, ma ripetere i suoi tentativi mancati, le sue possibilità perdute». Da Tredici volte Lenin, di Slavoj Zizek - Feltrinelli Anna Karenina di Lev Tolstoj

L’ultima favola russa di Francis Spufford

Leggete Anna Karenina, come nel 1930 ogni cittadino russo ambizioso era tenuto a fare. Una donna adultera che non si presta all’ipocrisia dell’epoca, ma affronta il suo destino. Di imprevedibile non c’è niente. Non c’è bisogno che la sua sia una sofferenza diversa dalle altre, per averne compassione. In quest’opera è il come e non il cosa che ha valore. Si dice infatti che tutti sanno come finisce Anna Karenina ancora prima di leggerlo, perché l’importante di questo libro non è la storia, non è il finale, ma è l’opera d’arte nella sua completezza. Einaudi - 1877 - 11€

Le favole russe, a differenza di quelle occidentali, non avevano una distanza temporale, ma di luogo. In un reame lontano c’erano tovaglie sulle quali il cibo appariva per magia, c’erano tappeti volanti e ponti magici. Questo libro racconta di quando la realtà sovietica si unisce all’utopia delle favole per arrivare all’obiettivo dell’URSS, il raggiungimento del benessere, della felicità, della scienza, della supremazia. Nel XX secolo i russi ascoltano l’ultima favola. Il samolet, il tappeto magico delle favole, “che vola da se”, è sinonimo di aereo. C’è più cibo, c’è la possibilità di scalata sociale. Ci sono le case per ogni cittadino. C’è lo Sputnik. Il tutto dura fino al crollo del comunismo. Bollati Boringhieri - 2010 - 19,90€

Nato in URSS di Vasile Ernu “L’Unione Sovietica non è stato solo un paese. È stata il più grande progetto politico utopico della modernità”. Quando a dirlo è la memoria di un bambino non puoi non crederci. Ogni capitolo di questo libro è filtrato dalla dolcezza dei ricordi infantili, forti quanto il desiderio, veri quanto la voglia di crederci. L’autore affronta la storia del suo paese come si ripercorrono le proprie stanze interiori. Senza giudizi, giusto forse con un poco di nostalgia. Hacca - 2006 - 14€ Limonov di Emmanuel Carrère Ho sempre pensato che durante il comunismo niente potesse prescindere da questo pensiero politico. Leggere Limonov me l’ha confermato. Questo è un libro sulla Russia prima che su uno dei suoi personaggi. C’è la realtà, c’è l’avventura. C’è un pensiero forte, quello di un uomo puro, nostalgico. C’è la poesia della narrazione e la potenza della storia. C’è tutto quello che deve esserci in una biografia. C’è la verità sotto forma di esperienza umana. Qualsiasi cosa abbia fatto e continui a fare, sappiate che Eduard Limonov vi piacerà da impazzire. Adelphi - 2011 - 19€

Dostoevskij di Stefan Zweig Un’ode al maestro indiscusso della letteratura russa. Un’analisi dettagliata della vita che non tiene conto dei documenti, ma dell’amore; un’introduzione ai personaggi che invece non prescinde dal periodo storico in cui sono catapultati. Un’esaltazione dei vizi e degli estremi, perché se «l’uomo perfetto è in sé anche finito, in Dostoevskij tutto tende all’infinito». Uscito alla fine della Prima Guerra Mondiale insieme alle biografie di Balzac e Dickens con il titolo di Drei Meister, tre maestri, questo libro è difficile da affrontare e altrettanto difficile da abbandonare, e ha molto poco della biografia, siete avvertiti. Castelvecchi -1919 - 14,50€ Vecchie che cadono illustrato da Joanna Neborsky L’arte del collage ben si adatta a illustrare i racconti brevi di Charms, tra i quali la Neborsky ha scelto il mio preferito. Storie apparentemente incompiute, o addirittura senza senso, che non pretendono di insegnare nulla ma che restano sospese, come questa, dove vecchie cadono perché, curiose, si sporgono troppo. Cadono finché chi racconta non si stufa di starle a guardare e se ne va. Chissà, forse ne stanno cadendo ancora delle altre. Corraini - 2011 - 10€

Con tutti i posti che ci sono… di Paolo Cagnan Il sottotitolo vi mette in guardia: sono cronache semiserie lungo la Transiberiana. L’autore, convinto viaggiatore indipendente, riuscirà a ironizzare, dal momento del concretizzarsi della decisione fino all’ultima stazione, su questa parte del mondo solcata dalla storica ferrovia. La sua esperienza personale risulterà abbastanza universale da fare di questo libro non un semplice diario, ma una piccola guida e sicuramente uno sprone per coloro che già ci pensavano ma avevano mille - giustissimi - dubbi. Scegliere di salire su questo treno vuol dire innanzitutto accettare cheil viaggio è anche solo lo spostamento. Perché dalla Transiberiana si può anche non scendere mai. Vallecchi - 2009 - 10€

24| my trip


le mie notti sono più belle dei vostri giorni di Pier Gabriele Barbato foto di Timofey Kolesnikov | timdiary.com

D

ieci centimetri di ghiaccio che ricoprono il marciapiede, piccoli respiri per non sentire il gelo nei polmoni che ti lascia senza fiato, punto i piedi uno alla volta e mi aggrappo al muro e agli alberi per non rotolare giù per la discesa. Mi hanno detto che qui si trova il locale più famoso, quello frequentato dalle famiglie della Mosca bene, quelle con la mentalità chiusa, che credono nelle regole militari e hanno i figli che nel weekend scendono in piazza a cantare Москву москвичам (Mosca ai moscoviti), oppure che scappano di casa disgustati dalla rigidità dei padri che li comandano a bacchetta; omosessuali dichiarati, che ancora mandano alle mamme le foto con le amiche, e raccontano che sono fidanzati con la più bella per non essere giudicati. Doveva essere dietro il Teatro Na Taganke. Il locale era il vecchio dietro le quinte della compagnia teatrale degli anni Sessanta. Spesso mi dimentico che questa città ha più teatri che chiese, e che almeno una volta a settimana ogni moscovita va a

teatro. Vedo degli scalini in fondo alla via e una luce sotto una pensilina. Busso. Certo, coi guanti non si sente nulla. Riprovo, ma pur di non esporre la mano al gelo dei meno ventiquattro uso la punta dello stivaletto. Mi aprono due omoni, e come al solito dalle loro spalle arrivano musica, luce, urla e risate. Nel poco spazio lasciato libero dai loro corpi intravedo un locale a due piani, tutto in legno scuro e, soprattutto, caldo. Comincia così la serata a una tavolata di russi: ognuno ha vicino a sé la propria bottiglia di vodka, che sorseggia diligentemente a bicchierini, mentre s’infila in bocca una processione di cetrioli salati. E ancora devono ordinare. Se voglio evitare di sentirmi escluso non posso che fare come loro. Sul palchetto la musica jazz del complesso dal vivo aumenta il ritmo, come se seguisse gli effetti della vodka dentro di te (o forse è il contrario), fino a che non ti trascina a ballare appena dopo il primo piatto. Ed è solo l’inizio. Verso l’una di notte comincia la serata, dicono qui. Mi danno l’indirizzo di un locale dall’altra parte della città dove altri amici mi

aspettano, e ricomincia l’avventura. Infilo uno sull’altro giacchetta e giaccone, quindi cappello, sciarpa, guanti, ed esco dalla porticina sfidando i meno ventiquattro, il vento e lo strato di ghiaccio insidioso. Seguo le luci dei grandi palazzi, quelle del lungo fiume Moscova o quelle più luminose del Cremlino, punto di riferimento anche di notte, per raggiungere uno dei grandi viali dove poter fermare una macchina, una qualsiasi. Qui tutte le auto sono taxi potenziali, basta mettersi d’accordo sulla cifra prima di salire, se vanno nella tua stessa direzione meglio ancora. Così l’ennesimo armeno, turco, ceceno, siberiano o azerbaijano che si ferma sarà un nuovo amico da conoscere, col quale parlare della sua e della tua vita, perché almeno una mezz’ora in macchina con lui te la devi fare in questa metropoli gigante. E devi sperare che non fumi. Altrimenti terrà i finestrini aperti e sarà come andare in motorino con del ghiaccio secco sparato in faccia che ti brucia la pelle. Anche quest’altro appuntamento si trasforracconto di viaggio |27


ma rapidamente in un’inquietante ricerca della meta: ti lasciano correttamente all’isolato che corrisponde al nostro numero civico, ma questo ha almeno quattro lati e per trovare la porticina agognata c’è da camminarci intorno, e fa sempre più freddo e continui a tremare. Ti circondano alte ragazze moscovite che si librano con disinvoltura sui tacchi a spillo. Sembra una presa in giro quando tu stai con le mani sempre pronte ad afferrarsi al muro per non cadere sul ghiaccio, ma in fondo vi separano anni e anni di esperienza. Le donne amano divertirsi, sono lontane dalla nostra mentalità maschilista. Combattono ogni giorno con gli uomini che le maltrattano, con il clima, con la società che non le riconosce del tutto, con i figli, e tra di loro, nella cura quotidiana del proprio corpo. Mai viste ragazze in tuta al supermercato o sudate in palestra. Sono sempre tiratissime e curate in ogni particolare, con forza e autostima, proprio per essere riconosciute. Il sesso e il concedersi facilmente per molte è un divertimento come un altro, per evadere dallo stile della loro cultura. Non vi è nulla di scandaloso che le segna come succederebbe nella società occidentale influenzata dalla mentalità della Chiesa. I palazzi, in mattoni rossi e con le finestre tutte uguali, sembrano fabbriche sovietiche in abbandono; da fuori non si vede nulla. Devo trovare la porticina, anonima, senza insegna e spesso nemmeno una luce. È una caccia al tesoro, ma dietro quella giusta c’è la festa. Questa volta va meglio. Davanti a un’entrata chiusa da un pesante sportello di acciaio nero staziona un gruppo di modelle altissime, tacchi e minigonne, gambe sconfinate e capelli fluenti. Sorrido, pensando alla mia bella calzamaglia sotto i jeans, mentre loro non sembrano nemmeno accorgersi

28| racconto di viaggio

del freddo, prese come sono a imprecare perché, prive di invito, sono costrette a restare fuori. In questa città succede anche questo, tutto sembra andare al contrario. Si affaccia un barbone, mi guarda e mi studia in silenzio. Io gli dico il nome dell’amico che mi ha invitato. Sono obbligato a parlare russo, qui l’inglese è ancora la lingua del nemico. Per il resto non hanno pregiudizi, puoi vestirti come vuoi e avere un brutto aspetto, ma l’inglese o la donna che si fa pagare no. La porticina si spalanca, ma per me solo. Il barbone mi tira dentro e sbatte la porta, lasciando fuori il ghiaccio e le ragazze. Lo seguo lungo un corridoio buio, dove altri barboni mi sorridono e mi invitano a togliermi i vari strati. C’è un bel caldo infatti: mi rilasso e sento della musica elettronica assordante che arriva dal fondo del corridoio. Sposto la pesante tenda nera tipo sipario e di fronte a me si apre uno spazio gigantesco, affollato di gente. È proprio un’ex fabbrica dell’epoca sovietica, coi muri in mattoni rossi, i soffitti altissimi e scale su ogni lato che conducono ad altre terrazze e ad altre sale che si susseguono a perdita d’occhio. In fondo c’è il palco col dj, davanti a lui tremila persone di ogni razza e colore che ballano, bevono e ammirano i ballerini che danzano e si contorcono. I russi sono alti ma anche bassi, biondi ma anche mori, di carnagione chiara ma anche olivastra, con occhi di ghiaccio ma anche scuri. È la capitale dell’unico Stato che copre un quinto del mappamondo, dove accorrono in molti a cercar fortuna. Nelle salette si ordina da bere e da mangiare: c’è di tutto, non solo snack ma anche piatti caldi, dolci e salati, ogni genere di bevanda e cocktail ricercati. Sono appena le tre del mattino, ma nel frastuono qualcuno mi dice che il locale non chiude, la festa va avanti per altri due

giorni, senza interruzione. Senza regole né dimensioni, come tutto qui a Mosca e in Russia. Perché tutto è più grande, più lungo, più largo, tutto è eccessivo e smisurato. Una volta un russo attempato al bancone di un bar mi disse: «ехать на поезде из Милана в Бари 3 часа, но идти от Москвы до Владивостока 1 неделя». («Per andare in treno da Milano a Bari ci metti sei ore, ma da Mosca a Vladivostok ti ci vuole una settimana»). Finalmente incontro i miei amici russi e come di rito sono loro ospite, mi mettono totalmente a mio agio offrendomi qualsiasi tipo di vizio e assicurandosi che stia bene ogni quindici minuti. Il russo è così, una volta che conquisti la sua fiducia diventi suo fratello, ti prende sotto la sua ala e ti segue ogni momento, ti dà tutto, ciò che è suo è tuo. La nottata passa e non ti accorgi di che ore siano, i locali sono attrezzati con coperture di ferro che oscurano le vetrate, anche se le ore di luce sono solo quattro o cinque in inverno. A un tratto tutti insieme decidiamo di andar via e di prendere le macchine, ma non si torna a casa, si va fuori città, nella dacia, la casa in campagna nella steppa. Tutti ne hanno una, povera o ricca, dalla baracca alla villa di lusso. Casette di legno rigorosamente con la bania russa (né sauna finlandese né bagno turco), l’idromassaggio, il bosco e il giardino. Si mangia e ci si rilassa in gruppo per riprendersi dagli sforzi della settimana e dal delirio dei locali. Il rituale che viene eseguito è idromassaggio, bania, shot di vodka al peperoncino, corsetta in costume nella neve. Sensazioni forti, rigeneranti e fortificanti. È una città estrema, cattiva, gelida, ma quando la conosci e la scopri ti offre tutto ciò che vuoi. Mosca è passionale, ti entra dentro. Come il freddo, e come il caldo.

racconto di viaggio

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sulle rive del lago di Rebecca Vespa | traintocopenhagen.org foto di Jaroslav Konecný v

I

o ci sono arrivata di notte. Sono lì ad aspettare che albeggi per vederlo. «Sarà come prendere fiato, un lungo e profondo respiro», mi dice Vladimir, fido capo-vagone assieme a Oxana, di cui ancora custodisco il ricordo palatale di pasti a base di cipolla. In realtà siamo tutti in trepidante attesa. Io, Roberto, Margarete, Olga, Richard, Eugene e Ivan. Tutti parte di un equipaggio straordinario che, partito da Vladivostosk in direzione di Mosca, tappa dopo tappa, viaggia per raccogliere testimonianze sugli effetti del cambiamento climatico in Russia, per portare un messaggio di sostenibilità alla COP 15, l’incontro internazionale delle potenze mondiali per ridiscutere lo stato ambientale del pianeta che quell’anno si sarebbe tenuto a Copenhagen. Il treno procede veloce. Perché se di giorno sembra che si muovano per inerzia, la notte i treni della Transiberiana sfrecciano da tenersi saldi ai letti nelle carrozze. Fuori è buio pesto. Forse a Nord non incombono più su di noi le montagne della Repubblica autonoma della Buriazia, abitata da un condensato di umanità. Russi, tatari, ucraini, bielorussi ma soprattutto buriati, una minoranza etnica di origine mongola da cui prende il nome la Repubblica autonoma. Ulan Udé, capitale della regione e snodo ferroviario centrale tra la Transiberiana e la Transmongolica, ce la siamo lasciata alle spalle già da un pezzo. A Sud immagino ancora il profilo ondulato della vicina Mongolia. Alla fine è un tuffo. Dopo novanta ore, quattromila chilometri percorsi, occhi pieni di steppa ghiacciata e innevata, piccoli villaggi con case dai comignoli fumanti e tapparelle azzurre alle finestre, Lenin, mezzi Lenin, Lenin decapitati, le sculture dell’uomo mito della rivoluzione russa che sono il benvenuto e l’arrivederci di ogni stazione transiberiana, la monotonia del paesaggio - che con la monotonia poi non ha niente a che fare - all’improvviso è solo acqua. Davanti a me, a tutti noi, si allunga placida la distesa senza orizzonte del lago Bajkal.

È fine novembre e il ghiaccio, nelle sue forme più varie, si limita a ispessirne le anse. Fuori fanno meno venti gradi, il lago ancora non è del tutto ghiacciato (il congelamento dell’intera superficie si verifica a dicembre inoltrato). Lasciamo il nostro treno nella stazione di Sludyanka, dove ad attenderci c’è la nostra guida, Marina, una russa dalla faccia ghiotta. Ci imbarchiamo sulla Circumbaikalica, la linea ferroviaria che connette la cittadina di Sludyanka con Port Bajkal e che costeggia la riva Sud Est del lago. La Circumbaikalica è parte dell’antica linea ferroviaria della Transiberiana. Viene anche chiamata la fibbia dorata della Transiberiana perché collega le parti della Transiberiana divise dal Bajkal. D’oro per gli alti costi di costruzione. Durante il tragitto è possibile scendere dal treno e camminare attraverso uno dei tanti tunnel che fiancheggiano la Circumbaikalica. Oltre ai tunnel è possibile trovare una serie di ponti e muri di supporto, tra i quali quello costruito da operai italiani, il cosiddetto“muro italiano”. Per una notte ho la fortuna di dormire in un meraviglioso cottage proprio a ridosso delle rive del lago, il Business Relations Center of Eastern Siberia Railways. Mi dicono che è qui che Boris Eltsin passava parte delle sue estati. Lui che è stato il primo presidente della Russia post URSS. Dopo mezzanotte Eugene decide di farsi un bagno nel lago. L’acqua deve essere gelata. Lui convinto e sorridente dice che non sa se gli ricapiterà mai di tornare a fare visita al grande lago Bajkal, che le acque sono purificatrici e lui vuole ricevere il suo battesimo. Il giorno dopo, durante il tragitto in barca che da Port Bajkal tira dritto verso la cittadina di Listvianka per andare a visitare il Museo Limnologico, Marina mi racconta del battesimo del lago: il giorno del natale russo persone di tutte le età si immergono per tre volte per purificarsi. Dopotutto il lago Bajkal è anche il Dalai-Nor, il lago sacro. È così che viene chiamato dal popolo dei buriati.

Al confine fra i territori dell’Oblast’ di Irkutsk e della Repubblica della Buriazia, il lago Bajkal è geologicamente una frattura della crosta terrestre prodotta dal movimento di placche tettoniche. Lungo 636 km, largo fino a ottanta, la sua forma ricorda quella di una gigantesca banana. Una Danimarca fa un lago Bajkal, più o meno. Non parliamo delle profondità, davvero oceaniche. Con una massima di 1.642 metri nella parte centrale, il lago Bajkal contiene circa il venti per cento della riserva d’acqua dolce del pianeta. L’acqua è così trasparente da permettere una visibilità fino a trenta metri di profondità ed è talmente pura da essere potabile. Riconosciuto come patrimonio dell’Unesco nel 1996, è abitato da più di millecinquecento specie animali e vegetali, per la maggior parte endemiche. Grazie all’alta concentrazione di ossigeno,

queste forme di vita sopravvivono a profondità impensabili, fino a trecento metri. Il pesce omul è il più noto, una specie di storione che vive solo qui. Purtroppo a causa del riscaldamento globale si sta verificando un accorciamento del periodo di congelamento della superficie del lago che danneggia parte del suo ecosistema. Questo fenomeno di congelamento, che prima si verificava da inizi dicembre fino ad aprile, ora inizia tardi e il suo scioglimento avviene troppo presto. A pagarne le spese soprattutto la nerpa, foca del lago Bajkal, o meglio i suoi cuccioli. I piccoli nerpa nascono a cavallo tra febbraio e marzo, quando il lago è ancora ghiacciato. Lo scioglimento anticipato della superficie non permette ai cuccioli di terminare lo svezzamento e di crescere abbastanza. I piccoli nerpa cadono in acqua e, incapaci di nuotare, annegano.

30|curiosità

Czechoslovakia expedition Baykal 90

curiosità |31


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Un viaggio nell'infanzia dispersa reportage fotografico di Alisa Resnik | alisaresnik.com I russi non hanno paura del freddo, si dice. Le strade impraticabili, coperte dalla neve dura, spesso nera per i gas di scarico, i ghiaccioli sui tetti minacciosi come armi, il buio continuo e la gente che si muove dal punto A al punto B, velocemente. Sotto i diversi strati di cotone, lana, sintetico o pelliccia, le anime nervose, contratte. La solitudine fa sentire freddo, e il freddo fa sentire la solitudine. Ho vissuto in Russia fino ai quattordici anni e ho cominciato a ritornarci tanti anni dopo. Cercavo di accogliere dentro di me quella nuova realtà, ma non riuscivo ad abbandonare la città della mia infanzia. Cercavo allora di ritrovare quello che era sparito nel tempo o, sogno nostalgico, che non era neanche esistito. La macchina fotografica diventava una macchina del tempo e le fotografie fatte in Russia senza avere neanche lontanamente una pretesa di oggettività diventavano piuttosto le riproduzioni di un ricordo invernale. Così, tramite l’obiettivo, spariva tutto ciò che non lo rappresentava, impallidivano le facciate, si sfaldava lo strato appena colorato, tornava l’odore dell’umidità e del bruciato. Si aggiungevano le voci: parla piano, non attaccare la lingua alla barra metallica gelata dell’altalena, come mai sei riuscita di nuovo a sbucciarti le ginocchia? Ancora non l’ho capito.

reportage |33









bio Alisa Resnik nasce a San Pietroburgo, Russia, nel 1976. Nel 1990 la sua famiglia lascia l’Unione Sovietica in dissoluzione e si trasferisce a Berlino. Studia Storia dell’Arte e Filosofia presso la Humboldt Universität di Berlino e l’Università di Bologna. Inizia a fotografare nel 2008, viaggiando in giro per l’Europa e tornando in Russia e Ucraina per raccontare le strade di San Pietroburgo e Odessa. Ha esposto a Roma, Milano, Madrid e Arles. È stata selezionata al PHotoEspaña tra i Descubrimientos nel 2009 e tra i nuovi fotografi di talento al Musée Suisse de l’Appareil Photographique. Nel 2009 si aggiudica il secondo premio al Winephoto. Nel 2013 vince il prestigioso premio European Publishers Award con il suo libro One Another. Dal 2011 è parte della Reflexions Masterclass di Giorgia Fiorio. In Italia è rappresentata dall’agenzia Prospekt.

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GIANLUCA COLLA

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uci, ombre e colori sfacciati, toni puri e violenti, contrasti forti, saturazioni intense. Spingo sempre le immagini al limite per ricercare la resa cromatica in cui più mi identifico.Amo molto fotografare con discrezione, cercando di entrare in punta di piedi nella vita e nella quotidianità altrui: è un dono che viene conquistato attraverso il rispetto ed il sapersi guadagnare la fiducia delle persone che si stanno fotografando. Proprio per questo fotografo con Fujifilm X100S, perché abbina una eccelsa qualità d’immagine a una discrezione e una compattezza che difficilmente sono ottenibili con altre fotocamere. Il mezzo non fa il fotografo, ma è sicuramente molto importante perché è il tramite tra ciò che il fotografo vede e quello che potrà comunicare a chi guarda le immagini. Gianluca Colla Gianluca Colla è nato a Reggio Emilia nel 1976. Dopo aver frequentato le scuole superiori, ha studiato alla facoltà di Ingegneria Civile ed Architettura di Bologna. La conoscenza approfondita nel campo della fotografia, e in particolare nel settore digitale, lo portano a lavorare in campi molto diversi, incluse collaborazioni con la National Geographic Society, Blockbuster, World G old Council, Wind, United Bank of Swiss, Toyota, Saatchi&Saatchi, The Blue Zones, Bloomberg. Le sue foto sono apparse su varie pubblicazioni internazionali, tra cui National Geographic Magazine, New York Times, Los Angeles Times, Newsweek, Condè Nast. Ha fotografato campagne pubblicitarie per clienti quali Canon e UBS, e per agenzie quali Saatchi&Saatchi. Le sue immagini sono rappresentate dalla National Geographic Creative. Tiene corsi e insegna fotografia e reportage all’Istituto Europeo di Design, ai Toscana Photographic Workshop e presso Cruise Photo Factory. Quando non è on assignment, vive tra le foreste della Svizzera mangiando lasagne e tortellini.

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otografare è per me un pretesto... Un pretesto per guardare il mondo con occhi diversi, un pretesto per giustificare la mia curiosità, un modo di esplorare genti, luoghi e culture, ma ancor di più è un modo per esplorare l’anima. Quella di chi fotografo, ma soprattutto la mia. Come tanti ho iniziato a fotografare paesaggi, ma mi sono ben presto ritrovato a interessarmi alle persone, che sono diventate sempre più essenziali e magnetiche. Viaggio per lavoro e fotografo e documento la vita delle genti più diverse nei luoghi più lontani, ma in realtà non faccio altro che cercare gli elementi che mi accomunano a chi vive dall’altro lato della terra così come a chi vive dietro casa. Fotografare è fermare un attimo per sempre, congelare un istante in un’immagine e raccontare il microcosmo di chi popola quell’attimo». gianlucacolla.eu

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cacciatori di stelle di Fulvio Benelli foto di Andrea Dapueto | andreadapueto.it

Youri, 12 anni, studente della “Kadetski korpus” . Barnaul, Sud Siberia, Russia. Febbraio 2013

Vladimir, 22 anni, studente e snowboarder. Barnaul, Sud Siberia, Russia. Febbraio 2013

Viaggio in Siberia alla ricerca di un asteroide caduto dal cielo. Dentro un circo di soldati dalla vodka facile, capanne abbandonate nel ghiaccio, orsi, saune e sciamani. Segregati nel freddo cuore della madre Russia.

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l 30 giugno 1908 alle 7.14 del mattino un meteorite cadde nel bel mezzo del niente. Una località chiamata Tunguska, dal nome del fiume che vi scorre, sperduta tra le indefinite coordinate dell’immensa taiga siberiana. Per lo sconquasso, un convoglio della Transiberiana che transitava seicento chilometri a Sud deragliò. Le lancette del sismografo dell’osservatorio d’Irkutsk, ai confini con la Mongolia, s’impennarono fino a rompersi. Sul luogo dell’impatto, l’apocalisse. Ottanta milioni di alberi abbattuti nel raggio di duemila chilometri. La notizia, ovviamente, suscitò scalpore. E lasciò una traccia. Venti anni dopo l’illustre minerologo Leonid Kulik riuscì a mettere in piedi una spedizione; grazie all’aiuto della Scuola di Cinematografia di Mosca realizzò persino delle riprese aerofotografiche, per l’epoca impresa eccezionale. Alla prima spedizione ne seguì una seconda, un’altra e poi un’altra ancora. Alla fine, il luminare tornò a San Pietroburgo confuso e con le mani vuote. Il meteorite non è stato mai localizzato, né scoperte le tracce del cratere. Come a dire: il delitto è stato consumato, ma non c’è traccia dell’arma.

È il 5 giugno 2008 e mi trovo nell’aula magna del Dipartimento di Fisica all’Università di Bologna. Davanti a me il rettore, Pietro Longo. Un distinto signore di quasi ottant’anni, indossa una maglia beige a collo alto e un paio di occhiali di tartaruga. Il padre è stato Luigi Longo, il partigiano divenuto negli anni Sessanta segretario generale del Partito Comunista Italiano. Al piccolo Pietro è stato fatto studiare il russo che ancora portava i pantaloni corti. Oggi lo esibisce fluentemente così come fa con l’italiano, con un’ accurata e magniloquente scelta di parole. Il professor Longo sta per guidare una spedizione a Tunguska. È stato lì già quattro volte, ma stavolta è convinto di poter risolvere il mistero. Il meteorite sarebbe sepolto nelle profondità del Cheko, un piccolo lago che sorge tra gli alberi caduti. Il professore mi ha convocato perchè vuole che io parta con la sua equipe al fine di documentare la spedizione, lavoro che sarà poi trasmesso dalla Rai. Partiremo prima della fine del mese, in perfetta concomitanza con il centenario. «Se deve procurarsi il sacco a pelo», mi consiglia, «lo prenda pesante». 28 giugno. Aeroporto Domodedovo di Mosca, siamo in racconto di viaggio |53


Zhanna, 18 anni con il suo cavallo, Barnaul, Sud Siberia, Russia. Febbraio 2013

attesa del volo che ci condurrà in Siberia. Una cometa di ragazzone con tacchi chiassosi e spalle scoperte si accompagna a energumeni con catene d’oro e mocassini. Per la prima volta mi sento in un posto di là del muro. Il muro dell’Occidente, il muro dell’America, il muro del pensiero unico. Un muro che, volente o nolente, porto dentro anch’io. I condizionamenti culturali, la matrice che si eredita, eccetera. «Qui è come se una poderosa forza contraria», sostiene Longo nei termini che gli sono propri, quelli della Fisica, «generi una costante spinta di resistenza». E se in altri luoghi puoi sentire la forza della terra: il Brasile, l’India, la Sardegna; qui sono le persone a caricare l’aria di una feroce inclinazione alla fierezza. I russi hanno gli occhi di chi, vivendo in un grande manicomio criminale en plein air, non arretra mai. Li guardo andare verso i propri voli con lo stesso passo martellante dell’Armata Rossa. Cinque ore dopo siamo a Krasnojarsk. Un colossale agglomerato di case, strappato al Grande Nulla intorno, che ospita un milione di abitanti. Il silenzio che tira da queste parti è irreale. È come se le persone, abituate a camminare sulla neve tutto l’anno, abbiano imparato l’arte di non far rumore anche nei brevi periodi in cui il cemento riaffiora. Siamo in attesa del professor Alexei Plekhanov, la guida che già altre volte ha accompagnato Longo nella taiga.

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coppia di credenti ortodossi, prima del bagno dell’epifania nel fiume O’B. Barnaul, Sud Siberia, Russia

È in volo da Tomsk, la città delle Università Siberiane, dove vive e insegna. Mentre lo aspettiamo sul piazzale antistante all’aeroporto, ci guardiamo intorno. Durante lo stalinismo la città fu sede di gulag. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, il governo decise di trasformarla in un polo industriale. Fu avviata la costruzione di diverse fabbriche, per lo più armi e plutonio. Questo gli è valso il nome di città proibita: fino al 1991 nemmeno i cittadini sovietici potevano metterci piede, se non autorizzati. Plekhanov esce dall’aeroporto accompagnato dai suoi due figli, Pavel e Luba. Il professore, a primo impatto, non corrisponde all’idea che da noi si ha di un accademico. Alto, robusto, gli occhi di ghiaccio. Pavel, diciottenne di fresco, gli assomiglia, anche se i tratti del viso e il fisico sono più minuti. Luba, la piccola, è una quindicenne dalla bellezza abbacinante. Sul suo viso si congiungono, come volute di fumo, la spensierata malizia dell’adolescente e il piglio maturo di chi è stato costretto a crescere in fretta. In fondo al sorriso gentile con il quale ci saluta, non si può non notarla, c’è una cosa chiamata tristezza. Sono quattro ore che voliamo. Sotto di noi, ancora e sempre, la Siberia. La terra che dorme, come recita la traduzione letterale. Una chiazza mastodontica che si spande per diecimila chilometri, dagli Urali all’Oceano Pacifico. L’ae-

reo che ci trasporta è un biplano a motore Antonov An2, l’unico apparecchio della Seconda Guerra Mondiale cui è consentito ancora di solcare il cielo. Viene usato perché non ha bisogno di piste lunghe, e il carrello è costruito per atterrare anche sul ghiaccio e sulla neve. All’interno non c’è uno spazio separato per i bagagli, così le valigie con tutta l’attrezzatura sono stipate sotto i sedili, come sul bus nell’ora di punta. Seduta di fianco a me viene a sedersi la hostess, che a bordo di quest’apparecchio deve accomodarsi dove trova posto. È una donna sui quaranta, con un merletto di capelli biondi e il seno ben esibito. Mi racconta che abita in una casa di calce viva con tre cani e un figlio. Il marito è scomparso durante la guerra in Cecenia. Senza giri di parole, mi chiede se sono interessato al matrimonio. «In generale?» le domando. «Con me», risponde. Non è mai stata in Italia, è affascinata dalla prospettiva. Quando atterriamo, mi lascia un foglietto con il suo numero di telefono, nel caso cambiassi idea. A Vanavara, l’ultima località abitata che incontriamo, facciamo scorta di provviste prima di inabissarci nella taiga. D’ora in avanti saremo accompagnati da due soldati armati. Alle autorità sovietiche non piace avere estranei che girano per il loro territorio, specialmente se uno di loro imbraccia una telecamera. La faccia dei due militari è

per metà caucasica e per l’altra mongola: appartengono all’etnia Evenka, i nomadi paleo-siberiani che occuparono nel passato questa terra fino alla Manciuria. Indossano entrambi un berretto, uno si nasconde dietro a un paio d’occhiali da sole vistosi e fuori moda. Hanno l’aria di chi non è abituato al galateo, e nemmeno a cianciare troppo. I loro bagagli, a parte i due fucili arrugginiti, consistono in una sacca di iuta piena zeppa di bottiglie di vodka. Non appena inizia ad albeggiare, ci dicono che l’elicottero è pronto. Decolliamo. In volo mi diverto a seguire l’ombra sparpagliata che passando lasciano le eliche sugli abeti, le betulle, i larici. La vista da quassù è magnifica, stetoscopica. Dopo circa mezz’ora avvistiamo il lago, la nostra destinazione, un piccolo specchio a forma di fagiolo che accoglie, nel riflesso, nuvole e sole. I soldati ci consegnano i paracadute. La taiga è talmente fitta che per gli elicotteri non sono state costruite basi d’atterraggio. Perciò non c’è altra scelta che saltare. «Anche lei è ortodosso?» mi chiede Plekhanov sardonico. «Cattolico», rispondo. «Il dio è lo stesso. Le consiglio di pregarlo». Un attimo prima di affidarmi al vuoto, mi ricordo che oggi è il 30 giugno. Cento anni dopo, un corpo estraneo cade di nuovo sul suolo siberiano. La taiga, vista da terra, è una sconfinata palude oppressa dalle zanzare. L’inverno il termometro tocca quota meno racconto di viaggio |55


cinquanta perciò non ci sono predatori naturali capaci di sopravvivere. Le larve aspettano nel guscio che la stagione vegetativa apra i battenti, poi colonizzano l’intero territorio. Barricati dentro uno speciale copricapo-zanzariera, simile a quello degli apicoltori, allestiamo il campo base su un’ansa del lago. Il capo spedizione ha un gps, per il resto nessun contatto con il mondo fuori. Rimarremo qui dieci giorni. La squadra di Longo esce il mattino solcando la superficie del lago a bordo di un kayak. Gettano delle sonde sul fondo e rimangono lì ore a monitorare i risultati. La sera, intorno al fuoco per scaldarci dal freddo, beviamo un tè fatto con la bollitura delle foglie nell’acqua della palude. Converso con Luba, sotto un fiammeggiare di stelle. Mi racconta che sta studiando il francese. «Non appena finisco la scuola, vado via», afferma in tono dolce ma risoluto. «Cos’è che non va qui?» le domando. «Mio nonno fu confinato qui dall’Estonia, ce l’ha mandato Stalin in persona». Luba attira spontaneamente la tenerezza che si può provare nei riguardi di una sorella minore. La sorella che non ho avuto. «La nostra è una storia comune, discendenti di deportati. In questo luogo costretti a vivere, e morire».

Mig militare diventato monumento. Barnaul, Sud Siberia, Russia. Febbraio 2013

Stalina nel villaggio di Aya nella regione del Gorno Altaysk. Sud Siberia, Russia. Febbraio 2013

Al quinto giorno veniamo circondati dagli orsi. Stamattina uno di loro si è affacciato sul confine dell’accampamento e ha provato a spaventarci, alzandosi sulle zampe e rugliando tonante. Ma più che aggressivo sembrava sorpreso. Deve essersi chiesto cosa diamine siamo venuti a fare quaggiù. «Con gli orsi non si scherza», mi rimbrotta uno dei due soldati. «Corrono più veloce, nuotano meglio, si arrampicano sugli alberi più agilmente di noi. Non c’è via di fuga». L’uomo per non correre rischi voleva aprire il fuoco, ma ci siamo opposti con fermezza. I due soldati non incutono più il timore dei primi giorni. Sono divorati dalla vodka che bevono fino a tarda notte mentre cantano a squarciagola vecchie canzoni russe. Il giorno si trascinano ritti a malapena. Lasciamo il campo base. Risalendo la palude, due giorni di cammino e raggiungiamo la cascina di legno che fece costruire Kulik negli anni Venti. Ovunque, nel tragitto, alberi riversi a terra, come fedeli prostrati verso il proprio luogo sacro. Il cammino è massacrante e le uniche oasi per ristorarci dalla fatica e dal tormento delle zanzare sono le saune. Palafitte di legno sul corso dei fiumi, il viandante può usufruirne lasciando un’offerta. Tra i vapori sciolgo la stanchezza e penso a casa. È tempo di tornare. Longo ha finito di raccogliere i dati ed è molto soddisfatto. È convinto che riuscirà a pubblicare la ricerca su Science. «Professore, ha trovato il meteorite?» gli chiedo perplesso. Lui sorride pacato e mi spiega che quello che gli occorre è che i dati raccolti siano compatibili con le ipotesi di partenza. «Alla scienza basta questo», conclude. Già, l’essere umano trova solo quel che sta cercando. Scopro che la scienza, su cui si è eretto un culto al pari della religione, poggia su basi non molto diverse da quest’ultima. Plekhanov ha già contattato la base di Varanara per farci venire a prendere. Mentre aspettiamo, m’imbatto in un’anziana donna che compie un rito sciamanico adagiata su una grossa pietra di basalto nero. Il viso obliquo, lo sguardo intorpidito. Sbucata fuori dal nulla, come se fosse la figlia degli orsi. Le chiedo se conosce il mistero di Tunguska. «Certo», risponde. «è stata un’astronave aliena». Giugno 2013. Cinque anni esatti sono passati dalla spedizione siberiana. Sono alla stazione Termini, aspetto il treno per casa, è pomeriggio inoltrato. È nel mezzo dell’andirivieni, che la vedo. Arrampicata su tacchi prominenti, ha la nuca scoperta e indossa un gilet di pelle nera. Non riesco a crederci ma sì, è proprio lei. Luba, da grande. Luba diciannovenne. Ci abbracciamo, come superstiti scampati a un disastro. «Che ci fai qui?» le domando strabiliato dagli schemi del destino. «Aspetto la coincidenza per Parigi. Ho vinto una borsa di studio per la facoltà d’Ingegneria». È ancora più bella di come la ricordavo, completamente sbocciata. Alla fine anche lei ha scavalcato il muro. Prendiamo un caffè, conversando del più e del meno. Poi deve andare. I treni, si sa, non aspettano. «Ciao Luba», la saluto, «buona fortuna». Il tempo della deportazione è finito.

imbarcazione sul fiume O’B. Barnaul, Sud Siberia, Russia. Febbraio 2013

56| racconto di viaggio

di Alessandra Cristofari M’immagino il film di fantascienza socialista: produzione DDR. Fotografia vintage, messe in piega delle donne molto rigide. Gli attori col camice. Le Pussy Riot legate a delle macchine con delle ventose sulle tempie. Gli psichiatri, due uomini e una bionda, osservano il diagramma su un computer che occupa tutta la parete e ha un enorme bottone rosso. Gli scienziati si guardano tra loro: «Le Pussy Riot stanno dicendo la verità», commenta uno di loro. «Stanno facendo tutto questo perché vogliono la libertà e la giustizia». «Non dire sciocchezze», fa quello più anziano. «Questo test non ha valore scientifico, le ragazze volevano offendere la religione. Non possiamo permettere che chiunque entri in una cattedrale e faccia un concerto Punk». La bionda stringe lo scienziato onesto per un braccio: «Non lo scriverai vero sul rapporto?». Lo scienziato onesto si libera dalla stretta e se ne va sbuffando. Estratto dalla prefazione di Sabina Guzzanti da Free Pussy Riot! Viaggio nella Russia di Putin di Alessandra Cristofari, Editori Internazionali Riuniti 2013

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a cupola dorata della Cattedrale di Cristo Salvatore squarcia il cielo di Mosca e tronfia si eleva da buon edificio più alto di tutti gli altri. Da Alessandro I che l’ha pensata alle Pussy Riot che l’hanno oltraggiata e/o fatta rivivere sono punti di vista - il passo è breve anche se la Madonna non ha ascoltato l’invocazione delle ragazze dal colbacco colorato. «Madre di Dio, Vergine, caccia via Putin!» cantavano le Riot russe, brandendo le chitarre dal centro nevralgico ortodosso, poco prima delle elezioni che avrebbero consegnato per la terza volta il Paese nelle mani di Vladimir Putin. Due delle tre Pussy Riot sono ancora in carcere a scontare due anni di detenzione per aver “offeso i sentimenti dei religiosi” dopo la performance di Punk Prayer.

Dai fasti dell’oro di Cristo Salvatore agli istituti di massima sicurezza siberiani: ecco come si muove la vertigine di chi denuncia i poteri forti della politica. Marya Alyokhina e Nadezhda Tolokonnikova si svegliano alle cinque del mattino ogni giorno e sono costrette ai lavori forzati, come la nobile arte del cucire ininterrottamente divise militari. Le immagini che arrivano dalle colonie penali - definite come le peggiori di tutta la Russia - le mostrano avvolte in pesanti cappotti, mentre marciano in cortile nell’ora d’aria. Sono pallide, stanche e lontane dai loro figli, ma vive, perché se si fossero chiamate Anna Politkovkskaja avrebbero una pallottola al cuore e tre in testa. Bang, bang, bang, bang e benvenuti in Russia. curiosità |57


dove il tempo scorre pi첫 lento di Francesca Rosati foto di Alexey Pivovarov/Prospekt | alexeypivovarov.com


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ima e Olga sono arrivati d’estate. Hanno scelto un villaggio abbandonato, circondato dalle montagne, e hanno costruito una piccola isba. Da allora sono passati otto anni, la piccola isba oggi è la bania e tutt’intorno è sorta la casa più grande, secondo il tipico modello russo. Dima e Olga non sono più soli, con loro abitano più di dieci famiglie in altrettante case o yurte buriate disseminate in una vallata fiabesca. La maggior parte di loro viene da Čeljabinsk, la città più vicina, che dista duecentosettanta chilometri. Altri sono russi di origine ma tornano dagli Stati Uniti, dalla Germania, anche dall’Italia dopo avervi vissuto per molti anni. Siamo nella oblast di Čeljabinsk, ad Alexandrovka, uno dei tantissimi ecovillaggi che sono sorti in Russia dagli inizi del Duemila, in una valle incantata incorniciata dalle catene montuose di Nurgush e Bakhty, immersa nella natura siberiana, la taiga, fatta di alberi alti e sottili, montagne e fiumi. Raggiungere il villaggio non è facile, anche i 4x4 spesso faticano perché gli ultimi venti chilometri sono insidiosi a dir poco. Solamente i grossi camion militari Ural hanno la certezza di arrivare. Gli Urali sono una zona nucleare ma Alexandrovka è circondata da diverse città segrete con regime militare che quindi tengono lontano l’inquinamento ambientale e umano. Tutto sembra voler accrescere il suo mistero e la sua magia. Il trend degli ecovillaggi in Russia si diffonde con il libro Anastasia di Vladimir Megre, che racconta di una donna bionda che vive nella taiga siberiana da sola, comunica con gli animali e mantiene una forza spirituale che le permette di capire come cambiare la vita sulla terra per il benessere dell’intera umanità. La sua idea centrale è quella del bisogno della terra, minimo un ettaro per

ogni famiglia, che consente di mantenere una famiglia numerosa e di vivere bene. Oggi non tutti gli abitanti di Alexandrovka sono discepoli di Anastasia ma tutti sono alla ricerca della loro spiritualità. Sono persone romantiche, sognatrici, per lo più provenienti dalle grandi città abbandonate perché non offrono più i due beni più preziosi: lo spazio e il tempo. La Russia ha zone sconfinate che non vengono utilizzate, dove puoi prendere il tuo pezzetto di terra e creare il tuo mondo, il tuo universo. E così hanno la terra, e hanno il tempo. Il tempo di pensare, di godere, di amare. Ad Alexandrovka non c’è elettricità, l’acqua è quella della sorgente, l’energia quella del sole. Fino a pochissimo tempo fa non c’era nemmeno il telefono, solo da qualche mese è stata alzata un’antenna nuova a venti chilometri dal villaggio. Si vive a stretto contatto con la natura e nel rispetto di essa (quasi tutti gli abitanti sono vegetariani), lavorando i campi e producendo (quasi) tutto quello di cui si ha bisogno. Pomodori, cetrioli, zucche, zucchine, melanzane, peperoni, tutti ovviamente biologici, con semi raccolti dai nonni contadini o dai frutticoltori urali. Alcune famiglie seguono gli insegnamenti di Sepp Holtzer su un tipo di agricoltura biologica, la permacultura, per progettare e gestire paesaggi ad altitudini elevate, e riescono a produrre fino al settanta per cento del loro fabbisogno. Una giovane famiglia produce un buon miele di epilobio che qui cresce in abbondanza. La frutta non si riesce a coltivare così come le patate, ad esempio, ma quello che manca si può comprare nei villaggi vicini con le entrate economiche che la maggior parte delle persone ha da affitti o da vendite delle case cittadine.

racconto di viaggio |61


in Italia

L’estate c’è un fervore contagioso, si lavora tutto il giorno con grande entusiasmo, nei campi, nelle serre, nelle case e nelle yurte che vanno rinnovate in vista dell’inverno. Nelle serre si installano delle grandi stufe che permettono di prolungare il periodo di vegetazione, mentre le yurte devono essere adibite con un secondo strato di voilok (lana cotta) sulle pareti, un buon forno a legna e un pavimento rialzato. In più si costruisce un sotterraneo profondo circa due metri (profondità di congelamento negli Urali) per conservare i prodotti. Il 22 giugno è il giorno di Ivan Kupala (San Giovanni Battista), o la festa del solstizio estivo, quando le notti sono le più corte dell’anno. Si compiono riti slavi sul fiume e il cielo si riempie di un’esplosione di farfalle. Si respira un’atmosfera speciale ad Alexandrovka, e si sente l’energia che sprigionano i bambini di cui il villaggio è pieno. I piccoli giocano con giochi inventati, improvvisati, costruiti da loro stessi o dai genitori, lontani mille miglia dai giocattoli imposti dalla società consumistica. E ogni anno nascono nuovi cuccioli, nonostante la mancanza dell’ospedale. Le donne che hanno già partorito nelle strutture pubbliche russe non vogliono più ripetere questa esperienza e preferiscono seguire i metodi alternativi come quelli di Igor Charkovsky, partorendo in acqua in ambienti calmi e rilassati senza alcun tipo di anestesia o assistenza medica vera e propria. In tutti gli aspetti della vita e della quotidianità c’è l’esigenza di fuggire dalle imposizioni del mondo moderno e di tornare ai cicli e ai metodi naturali, antichi, autentici. Ma nemmeno qui è sempre tutto facile. L’inverno è rigi-

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do. E mantenere l’ecovillaggio, farlo crescere e perdurare, è sicuramente più difficile che crearlo. Alcuni abitanti sono estremisti, religiosi, fanatici, e vogliono chiudersi nel loro mondo piccolo, accettando solo le persone che seguono i loro stessi princìpi, neopagani per esempio; altri sono aperti alla diversità. Eppure, nonostante le difficoltà di comprensione, stranamente, il villaggio vive e cresce. E d’inverno, nonostante le temperature da Polo Nord, l’atmosfera è magica. Si sta a casa, ci si improvvisa artigiani, ci si riscalda intorno alla grande stufa. Anche i grandi giocano, e parlano, e si ascoltano. Forse è questa la soluzione. Fermarsi, tornare alla natura, alla semplicità delle piccole cose, e riuscire così a ritrovare i rapporti, ad ascoltare noi stessi. O forse è solo un’altra tipologia di fuga dall’insoddisfazione intrinseca dell’animo umano. Venire in un ecovillaggio per scappare dai propri problemi è inutile perché essi prima o poi ti troveranno e saranno ancora più grandi e profondi rispetto a come erano in città, dove ci si poteva confondere tra le persone e le cose, dove non si aveva tempo. Tempo di pensare, di soffrire, di odiare. Ne parlo con Alexey, un fotografo che ha costruito la sua casa nel villaggio, ma che sta per partire per l’India. Con la sua voce calma e lenta mi racconta che dopo averne costruita una con le sue mani gli è passata la voglia di avere una casa, come in un ciclo che si è concluso. Game over, new game. Tutto il mondo è sacro ed è la nostra casa, mi dice. Ho capito qual è il mio posto e sono felice nel profondo, non solo qui.

santa caterina martire di Claudia Bena stcaterina.org

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aturalmente all’inizio ero un po’ inquieto, perché non ero riuscito a soddisfare il mio desiderio di andare a Gerusalemme, ma poi pensai che nemmeno questo era accaduto al di là del volere di Dio, e mi tranquillizzai con la speranza che Egli, nella sua immensa bontà, avrebbe considerato le mie buone intenzioni e non avrebbe permesso che il mio viaggio sventurato risultasse privo di significato e di valore spirituale. Il pellegrino russo continua il suo racconto. Da un manoscritto del monte Athos.

Quella che vedete qui sopra è Santa Caterina, grande martire di Alessandria. Niente di meno che la sposa di Cristo, per merito della quale moltissimi romani si convertirono intorno al quarto secolo d.C. Vennero anche quasi tutti torturati e martirizzati per questo ma, come si dice, impervia è la via che ti condurrà al Signore. A lei è dedicata la chiesa ortodossa di Roma, costruita all’interno dell’ambasciata russa, a due passi dal Vaticano, alla fine del secolo scorso. Cinque cupole azzurre tagliano il cielo che protegge la cristianità, sottolineando che il dio sarà lo stesso, ma le differenze ci sono eccome. Erano i tempi delle scomuniche e degli anatemi, di imperi che si sfaldavano, di crociate. Era l’inizio dell’irreversibile divisione tra la lingua e la cultura greca da quelle latine. Era il medioevo, uno dei periodi più bui della nostra storia. Era il 1054, l’anno del Grande Scisma. La Chiesa Ortodossa Orientale prende le distanze dalla Chiesa Cattolica Occidentale. Sono le nove del mattino ma già fa caldissimo. Affronto la salita abbagliata dal bianco della chiesa che riflette il sole di inizio giugno, temo di non essere riuscita a interpretare bene giorno e orario quando finalmente giungono alle mie orecchie voci di donne che intonano inni di chiesa. Entro. Bianco e oro e il muro delle icone che divide i credenti da chi officia messa. Il rito è più vicino alle tradizioni religiose orientali che alle nostre: la Divina liturgia è quasi completamente cantata; le icone hanno una potenza catartica ed evocativa. Lontane dal ruolo principalmente educativo di quelle nelle chiese occidentali, sono un mandala, un ponte con il divino. Posso contare le persone sulle dita di una mano. D’altronde è sempre giovedì mattina, probabilmente qualsiasi chiesa romana sarebbe semivuota. Come al solito ho sbagliato abbigliamento. I pantaloni dove tutte portano la gonna, anche corta. C’è un bambino che corre per l’unica navata (le chiese ortodosse sono a croce greca o circolari) e si diverte ad accendere e spegnere le luci. Non vede l’ora di mangiare il dolcetto offerto alla fine della cerimonia. Si chiude la tenda rossa, le donne baciano una per una le immagini dei santi, le candele vengono spente e un profumo di cera riempie la stanza. Ite, missa est (forse, io non lo capisco il russo). I miei impegni mi costringono, una volta uscita, a passare davanti San Pietro. Una folla informe occupa la piazza, scatta foto ricordo, aspetta il suo turno davanti al metal detector per entrare, consumare ulteriormente il piede del primo padre della Chiesa e poter ammirare le opere che rendono grande questo luogo. La chiesa d’Oriente non crede nell’infallibilità del papa. Questa storia del primus inter pares non gli è mai tornata. Ma questi sono altri tempi, tempi di strette di mano e sorrisi per la stampa. Nel 1964 Paolo VI e Atenagora I annunciano la riconciliazione. Un nemico più pericoloso si sta affacciando sul Mediterraneo. È tempo di nuove crociate.


l’ arte

DANAË di Giovanna Fazzuoli

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ue grandi antenne paraboliche sulla facciata dello storico padiglione, la cui costruzione iniziò oramai cento anni fa, attirano subito la mia attenzione. Seguo la folla e salgo al primo piano. Una scala poggia sulla trave sottostante il tetto di vetro del primo ambiente e su questa trave siede un giovane uomo vestito distintamente, con le gambe penzoloni. Guardando con più attenzione, noto che l’uomo siede su una sella che aderisce alla trave come al dorso di un cavallo. Sta masticando, e con le mani spezza e lascia cadere qualcosa a terra: sono noccioline. Di tanto in tanto l’uomo si ferma, avvicina la mano al volto e guarda nel vuoto, come se stesse meditando. Un pensatore moderno, un pensatore paradossale. Proseguo nel corpo principale dell’edificio. La luce pervade l’ambiente. Una balaustra disposta a formare un quadrato consente di affacciarsi sul piano terra. Un inginocchiatoio di velluto rosso percorre il perimetro dello stesso quadrato. Centinaia di monete d’oro tappezzano il pavimento e un gruppo di donne passeggia con degli ombrelli trasparenti. Dopo pochi istanti una pioggia di monete le investe. Un altro ambiente svela il meccanismo: le donne ripongono le monete in un secchio che viene sollevato con una corda attraverso un buco nel pavimento. Una rosa bianca fa cadere a terra i suoi petali, imprigionata in una struttura lignea il

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cui significato sfugge a un primo sguardo distratto. Scendo al piano terra, mi viene consegnato un ombrello ed entro nella caverna. L’accesso è consentito alle sole donne. Un intenso gioco di sguardi mette in rapporto gli uomini affacciati, o meglio inginocchiati, e le donne che guardando il cielo attendono la pioggia d’oro. Una fontanella che sembra fuoriuscire da un moderno raccoglitore per documenti reca la scritta categorie di peccati. Prendo anche io un pugno di monete e leggo su entrambe le facce una serie di parole: fiducia, unità, libertà, amore. Le lascio cadere nel secchio. Solo allora noto sul pavimento l’immagine di un dipinto di Rembrandt danneggiato da un uomo con l’acido. È il mito di Danae. Danae era un’eroina della mitologia greca. Suo padre Acrisio, re di Argo, la rinchiuse in una torre dopo aver saputo dall’oracolo di Delfi che sarebbe morto per mano di un figlio della giovane. Il potente Zeus però la fecondò sotto forma di pioggia d’oro e la rese madre di Perseo. La scelta di un mito greco che sia un riferimento alla Grecia dei nostri giorni, una Grecia che Vadim Zakharov vorrebbe salvare restituendo nuova vita al mito. Noi abbiamo sostituito il mito dell’antichità con la tecnologia, con le parabole e i satelliti di cui abbiamo ricoperto l’atmosfera terrestre, abbiamo corrotto l’uomo con il denaro

l’ arte Vadim Zakharov Padiglione russo alla Biennale di Venezia|1 giugno - 24 novembre 2013 Curatore: Udo Kittelmann Commissario: Stella Kesaeva

e abbiamo ridotto la forza imperscrutabile di Zeus a quella del Mercato invisibile, spiega. Cadono a terra le monete, le noccioline, anch’esse riferite a piccole somme di denaro nell’inglese colloquiale, e i petali della rosa bianca. Una rosa che porta con sé la ricca simbologia che diverse culture le hanno attribuito e che rimanda prima di tutto all’idea di purezza incontaminata. Qui la ritroviamo all’interno di una struttura lignea che costituisce un’opera precedente dello stesso artista: Execution Chair of Love. Zakharov racconta di aver visitato il piccolo museo di una cittadina tedesca e di essersi soffermato su una struttura che serviva a punire i bambini. Era una sorta di sedia di legno con una barra che tratteneva le loro gambe. Dice di aver in qualche modo associato questo oggetto agli strumenti di tortura cinese tra i quali una seduta similare su cui era piantato un bambù che lentamente cresceva fino a penetrare il torturato. L’artista immagina quindi una rosa, inizialmente rossa, simbolo dell’amore che si impadronisce del corpo e lo penetra fino al cuore. Le infinite sfumature di significato non consentono una definizione precisa dell’opera di cui lui stesso non riesce a fornire una lettura unitaria. L’uomo che siede sulla sella senza il cavallo esprime ancora il paradosso della realtà attuale, l’epicentro del nonsenso, a

differenza dei grandi pensatori del passato, come Il Pensatore di Rodin. I suoi vestiti alludono a quelli di un lavoratore in vesti formali, un uomo di banca forse, che siede nel vuoto, lontano dalla realtà della vita, indifferente ai problemi degli altri. Le donne si proteggono dalle monete, eppure solo loro possono mantenere attivo il meccanismo, il loro intervento è indispensabile. Sono loro a vedere le prime ombre della caverna di Platone e a raccontarle agli uomini una volta tornate alla luce del sole; si tratta pur sempre di copie, ma sono più vicine alla realtà. Il mio occhio da storica dell’arte legge infinite citazioni, meno evidenti: il quadrato di Malevich, Fontaine e ancora Étant donnés di Duchamp in quel buco sul pavimento che lascia risalire il secchio pieno di monete e che costringe il visitatore a chinarsi per guardare, cercare, come un voyeur, la nuda Danae distesa. Un’esperienza lontana dalla vita reale, sospesa nel tempo e nello spazio, ricca di implicazioni filosofiche, psicologiche, culturali e di genere. Senza cercare l’esotismo che tanto affascina lo spettatore occidentale, la Russia riscopre le radici europee attraverso il mito di cui noi siamo protagonisti. Un’opera che parla a tutti, indistintamente.

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il cinema

Medioevo Occipitale (diciamo)

la corazzata potemkin (non) è una cagata pazzesca

di Federico Di Vita

di Marco Costa

T

utta colpa del ragionier Fantozzi. È lui la vera nemesi del cinema d’autore bolscevico. Dopo il suo diktat, scagliato ormai nel lontano 1976, con i suoi novantadue minuti di applausi in risposta allo scatologico giudizio sulla pellicola del povero Sergej M. Ėjzenštejn, nessuno è più riuscito a relazionarsi con La corazzata Potëmkin senza avvertire anche solo in sottofondo l’eco di quel binomio: cagata-pazzesca. Ma cos’avrà mai questa pellicola del 1926, punta di diamante nella storia del cinema russo e non solo, per essersi trasformata ingiustamente nello stereotipo del mattone indigeribile da ostinato cinefilo feticista? La trama, questo sì, ancorché una testimonianza storica, non è delle più allettanti. Narra, con qualche licenza, dell’ammutinamento dei marinai dell’incrociatore corazzato K. T. Potëmkin, scoppiato a Odessa il 27 giugno - uno degli episodi che si svolsero in Russia durante i movimenti rivoluzionari del 1905 - cui si aggiunsero i cittadini di Odessa che per solidarietà ai lavoratori rivoltosi si riunirono sulla celebre scalinata del porto dove furono trucidati dai soldati cosacchi. Eppure travalicando l’intento propagandistico del soggetto, accantonando per un attimo l’occhio della madre, la carrozzina e lo stivale del soldato, quest’opera portava in sé già all’epoca della sua uscita i germi del cinema sensazionalisticocontemporaneo, di certe sue astrazioni simboliste e di azzardi linguistici. Nel montaggio in special modo. Per infondere dinamismo e frenesia alla materia cruda di una rivolta repressa nel sangue, il geniale regista e teorico sviluppò ulteriormente il montaggio delle attrazioni, un metodico assem-

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blaggio fra le inquadrature volutamente frammentario, scomposto e disturbante, volto a scardinare le desuete strutture percettive e a procurare nello spettatore un lavorio d’intelletto. Sarà che all’epoca dall’arte cinematografica ci si aspettava uno slancio educativo quando non una catartica guarigione, e in tal senso i funzionari del Partito non erano certo dei dabbenoni. E fu così che nel corso del Novecento questo ambizioso pamphlet rivoluzionario, erroneamente considerato prolisso ed ermetico, si trasformò nella bandiera dei cineasti più irriducibili, primo fra tutti il megadirettore del ragionier Fantozzi: Professor Guidobaldo Maria Riccardelli. Un peccato originale che a cascata s’è riversato fino ad oggi, passando per autori d’ingegno e d’impegno quali Andrej Tarkovskij, regista tra gli altri di Solaris, e Andrej Rublëv, autentico radicale del cinema poesia, o Nikita Michalkov, impegnatissimo autore de Il Sole Ingannatore, che gli valse il Premio Oscar come migliore film straniero nel 1995. Il discorso sarebbe più ampio, ma in fondo, a chi interessa intrattenersi col cinema sovietico quando puoi scaricarti Una notte da Leoni 3? A ben vedere la Russia di oggi è un gassoso baraccone sideralmente distante dall’ardore intellettuale del passato, dove la sobrietà è sostituita dall’ostentazione, il rigore dal clamore, l’essenziale dal superfluo e a sollevarsi contro l’imbastardimento culturale, che sia imbracciando una macchina da presa o stringendo in pugno una penna, sono rimasti in pochi e di pazzesco non s’evidenzia che l’indifferenza dormiente di un popolo, che a protestare sulle scalinate, col cavolo ci torna più.

Mi chiamo Sergei Ostrogoro’v, scrivo da quella che era una delle più isolate città chiuse dell’Unione Sovietica. Il nostro avamposto, in Siberia, credo che fosse il più a Nord in assoluto, almeno tra quelli segreti. La città dove sono nato sorge per metà sul versante settentrionale del continente e per metà su di un’isola che si distende davanti alla costa. La divisione degli spazi urbani è definita benché, di fatto, solo teorica, essendo le due parti della cittadina unite da una calotta di ghiaccio perenne che ricopre il braccio di mare disteso tra le sponde. Alla fine degli anni Ottanta il mondo sapeva della chiusura di una quarantina di avamposti, ben più numerosi quelli la cui ubicazione o, meglio ancora, la cui esistenza, doveva restare assolutamente ignota. Tra queste la mia. C’erano diversi motivi per cui le popolazioni di alcune città venivano segregate, le ragioni potevano essere militari, i centri erano usati come basi per esperimenti atomici; oppure commerciali – venivano chiusi diversi porti; erano isolate, a volte, città poste lungo confini considerati pericolosamente permeabili; o ancora, come nel nostro caso, le ragioni della separazione erano geologiche. In pochi anni nel fazzoletto delle nostre tundre, da sempre generose solo di fondi minerari, saltarono fuori, tra le altre, le cave di due metalli rarissimi: il torio e una particolare qualità di afnio. Rarissimi e, per quanto ne sapevamo allora, sostanzialmente inutili. Ma tanto bastò ai maggiorenti del Partito per sancire la nostra separazione. Dal giorno in cui la città venne chiusa nessuno avrebbe potuto più entrarvi, se non per mezzo dei permessi centellinati dal Ministero. Le poche vie di accesso vennero ridotte a una che passava per una stretta gola, presidiata dall’esercito. Il nome del nostro villaggio fu cancellato da tutte le mappe, per scriverci occorreva indirizzare le lettere al lontano capoluogo dell’immensa regione, il nome della provincia doveva essere seguito da una misteriosa indicazione postale: per mandarle a noi bisognava spedire le buste a Норильск-079. Le nostre corrispondenze venivano monitorate. Per ovvie ragioni le popolazioni delle città chiuse tendono a sviluppare una certa autonomia, dalle nostri parti pesce e patate non mancano, e con verdure e tuberi della tundra mettiamo insieme una minestra nutriente. Forse è per questo che quando a metà degli anni Novanta venne rivelata l’esistenza di tanti di questi centri – e molti furono addirittura riaperti – non ci fece particolare impressione l’arretrare del posto di blocco. Tempo dopo ne constatammo la sparizione e la strada occlusa da una frana. Eravamo isolati, non cambiava niente: lo eravamo da anni. Credo che nel trambusto delle riorganizzazioni territoriali qualcuno si fosse semplicemente scordato di noi, un paesino segretato per precauzione, rivelatosi superfluo, quindi dimenticato. Pochi mesi dopo scoprimmo come fare l’oro. Il sogno degli alchimisti ce l’avevamo sotto i piedi, ci è bastato mescolare insieme i metalli delle nostre miniere, bombardarli di radiazioni, fonderli ancora e aspettare che si raffreddassero. Ero bambino la prima volta che successe, allora era chiaro a tutti il miracolo, ma il paradosso dell’immensa fortuna si schiantò contro le pareti della nostra bolla. Avevamo l’oro, avevamo tanto oro che presto cominciò a non valere niente. Ricordo, da piccolo, i discorsi sulle difficoltà statali di coprire il valore della carta-moneta, da noi il difficile era procurarsi la cellulosa per scambiarci il costo in picchiata del metallo dei re. Quando la calotta tra i due lati della città dette segni di cedimento, costruimmo un ponte in cui per cemento armato e tiranti producemmo una lega di acciaio e aurum: per risparmiare il primo. Negli ultimi anni, certe volte, abbiamo sostituito i mattoni delle case e le lastre di pietra dell’impiantito urbano con lingotti, ci era più comodo produrre quelli, in centro, che spaccare pietre nella steppa. La lettera che state leggendo è incisa su una lamina dorata, e anche il vetro della bottiglia in cui l’ho affidata ai flutti è soffiato insieme al metallo. Tanti, come me, hanno provato a consegnare un messaggio alle onde, tentare di raggiungere qualcuno è un rito e l’unica speranza di uscire al mondo. Prima di fondere la lastra finite di leggere, abbiamo molto da offrirvi, se riuscite a liberarci; sul retro di questo foglio ho inciso le nostre coordinate:

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islands into the stream

Dagli spot degli anni ’60 ad oggi sono state tante le occasioni in cui Cuore di Panna ci ha accompagnato con le sue iniziative. Oggi Cornetto decide di rimettersi in viaggio seguendo il nuovo motto ENJOY THE RIDE. LOVE THE ENDING - se ti godi ogni momento del viaggio, amerai ancora di più il finale - seguendo il progetto in divenire di Giaguaro Architettiper la riqualificazione dei fiumi che uniscono il Mar Baltico al Mar Nero.

City fragments drifting from the Baltic to the Black Sea and beyond

u

di Edoardo Giancola, Ilaria Rondina e Viola Gurioli “Giaguaro architetti’’

na città che si affaccia su un fiume o un mare aperto è uno di quei luoghi evocativi, in bilico tra lo stato di abbandono nostalgico e il dolce naufragare verso l’inaspettato. È un luogo alla deriva, se per deriva si intende mutazione, frammentazione, dissolvenza. Deriva è trasformazione. Trasformazione che l’acqua innesca sulla città, a seconda del significato che le si attribuisce. Una città lambita dall’acqua subirà sempre una trasformazione fisica dovuta alla bassa o alta marea, ai periodi di congelamento o di scioglimento dei ghiacci, ma anche una trasformazione metaforica. Dentro questa visione nasce Isole nella corrente - frammenti di città alla deriva dal Mar Baltico al Mar Nero, indagine sulla riqualificazione del collegamento fluviale tra i due mari attraverso un network di architetture galleggianti, intenta a trasformare l’acqua e i territori da essa attraversati in un nuovo spazio di relazione e interscambio. La connessione fluviale, che si snoda per oltre duecentoventi chilometri attraverso Polonia, Bielorussia e Ucraina, ha attualmente perso la sua importanza strategica acquisita nei secoli, a causa dell’impoverimento delle strutture esistenti,tratti spesso non navigabili e dismessi, presenza di aree a rischio ambientale e scarsa informazione in merito. Un potenziamento della connessione permetterebbe la rinascita di scambi commerciali, sociali e turistici lungo il suo corso,

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costituito a tratti da fiumi di media o grande portata, canali artificiali, contesti urbanizzati e naturali. Punti cardine della connessione, Danzica, Kiev e Istanbul, rispettivamente il porto sul Mar Baltico, il baricentro e il punto di incontro tra oriente e occidente. Kiev, baricentro e punto di interscambio tra la connessione fluviale e il corridoio paneuropeo 5 Lisbona-Kiev, ne è sicuramente la realtà più significativa. Città costituita da barriere, divisa in due macro-aree dal fiume Dnipro, lungo il quale la presenza di numerose isole costituisce un limite più che una risorsa e dove il centro è nettamente separato dalla periferia dall’anello ferroviario. Un modello di città zonificata che non rispecchia più i canoni contemporanei. Kiev è un insieme di realtà a se stanti, di isole dentro altre isole, Kiev è frammentazione, una città che guarda all’acqua come un luogo distante, come un limite.Una città dallo spazio pubblico annichilito, una città che non si relaziona con il fiume. Sulla base di questi presupposti, perché non immaginare che l’acqua, da barriera, possa assumere un significato opposto, diventando l’elemento propulsore per la rigenerazione urbana? È possibile immaginare una città che si riversi su acqua, inizi a navigare, dissolvendosi in frammenti per creare nuove interazioni all’interno del tessuto ur-

«Il naviglio è l’eterotopia per eccellenza. Nelle civiltà senza battelli i sogni inaridiscono, lo spionaggi o rimpiazza l’avventura, e la polizia i corsari» Michel Foucault bano tradizionale? La risposta si trova nell’ipotesi di una città inondata dove accanto alla ferrovia attuale prenda posto un nuovo canale artificiale. Il canale potrebbe diventare una nuova infrastruttura di comunicazione all’interno della città per unirsi al sistema fluviale esistente, rendendo la città una nuova Venezia dove poter dissolvere le barriere esistenti. Al suo interno, un network di architetture galleggianti, composto da piattaforme trasportanti programmi per la città che si muovono su acqua da un posto all’altro, andrebbe a promuovere con la loro natura itinerante commercio, turismo ed economia lungo il suo percorso. Per la natura effimera delle architetture galleggianti e la fluidificazione delle vie di trasporto, situazioni urbane temporanee e inaspettate si verificherebbero all’interno della città tradizionale. Uno scenario di frammenti urbani che iniziano a dissolversi, altri che diventano nuove identità, come una città che perde le proprie certezze, luoghi che ne incontrano di nuovi, portando con sé le loro storie, generando un vero e proprio arcipelago di isole, una città alla deriva. La trasformazione urbana di Kiev ha la potenzialità di potersi estendere oltre i suoi confini lungo tutta la connessione fluviale dal Mar Baltico al Mar Nero. Ogni luogo lungo il percorso potrebbe diventare un possibile spunto per l’incontro di programmi galleggianti e

programmi su terra, secondo il principio di crossprogramming. Analogamente al contesto urbano, il medesimo principio è attuabile in contesti nettamente opposti, dove prevale il contesto naturalistico. All’interno della connessione fluviale, il tratto lungo il canale artificiale Dniepr-Bug e il fiume Pripyat, a Sud della Bielorussia, ne è sicuramente un esempio. Canale immerso nella natura, dove le piattaforme galleggianti possono assumere un’indipendenza maggiore diventando la possibile alternativa per vivere su acqua e vivere lungo il fiume, fornendole di strutture ricettive, alberghi, spazi di sosta per vivere immersi nella natura. Se tutto il collegamento fluviale potesse andare alla deriva assumerebbe un’identità mutevole e migratoria, mai uguale e in continuo divenire lungo la quale le principali città si trasformerebbero, come Kiev, in città-hub, nodi di interscambio tra sistema ferroviario e fluviale, approdi di un grande porto diffuso. Questa perdita di univocità e centralità a favore di una frammentazione di centri è un modo per leggere il corso d’acqua non solo come un punto di transito univoco ma un luogo di sosta e in continua trasformazione in cui città e luoghi coinvolti vengono stravolti e ripensati, concedendo parte delle proprie identità e assimilandone di nuove. Un luogo dell’eterotopia, un flusso incessante di isole nella corrente. rubrica |69



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