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Un viaggio nell'infanzia dispersa reportage fotografico di Alisa Resnik | alisaresnik.com I russi non hanno paura del freddo, si dice. Le strade impraticabili, coperte dalla neve dura, spesso nera per i gas di scarico, i ghiaccioli sui tetti minacciosi come armi, il buio continuo e la gente che si muove dal punto A al punto B, velocemente. Sotto i diversi strati di cotone, lana, sintetico o pelliccia, le anime nervose, contratte. La solitudine fa sentire freddo, e il freddo fa sentire la solitudine. Ho vissuto in Russia fino ai quattordici anni e ho cominciato a ritornarci tanti anni dopo. Cercavo di accogliere dentro di me quella nuova realtà, ma non riuscivo ad abbandonare la città della mia infanzia. Cercavo allora di ritrovare quello che era sparito nel tempo o, sogno nostalgico, che non era neanche esistito. La macchina fotografica diventava una macchina del tempo e le fotografie fatte in Russia senza avere neanche lontanamente una pretesa di oggettività diventavano piuttosto le riproduzioni di un ricordo invernale. Così, tramite l’obiettivo, spariva tutto ciò che non lo rappresentava, impallidivano le facciate, si sfaldava lo strato appena colorato, tornava l’odore dell’umidità e del bruciato. Si aggiungevano le voci: parla piano, non attaccare la lingua alla barra metallica gelata dell’altalena, come mai sei riuscita di nuovo a sbucciarti le ginocchia? Ancora non l’ho capito.
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