Gervasio Innocenti Con i piedi nel vuoto Giorni lenti accanto a mio padre Diario finalista del Premio Pieve Saverio Tutino 2021
La scrittura è una terapia
“Come si comincia a scrivere?”
Gervasio Innocenti se lo chiede da subito, già nella terza pagina. Ha appena comprato carta e penna e si sente baciato dalla musa ispiratrice.
gli ha fatto cambiare idea.
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di Marco Annicchiarico
Si siede su un divano piccolo e riporta quello che vede, quello che gli torna in mente. È successo anche a me. Ho iniziato a tenere un diario perché tirare fuori è un modo per prendere le distanze dagli avvenimenti, per riuscire a riflettere meglio sulle cose, per guardarle con meno emotività. Da un giorno all’altro, quasi per caso, ho iniziato a scrivere la storia dei miei genitori, delle loro malattie. In quei giorni bui avevo
Solo due pagine prima aveva detto che il tempo è prezioso e preferiva viverlo piuttosto che perderlo ad appun tare i suoi
Inizia a scrivere a ruota libera: racconta il matrimonio del figlio, un sogno che lo vede fra i monti dell’Appen nino, alcuni ricordi di Pio, suo padre, e le foto messe in fila nelle loro cornici scintillanti. Forse non ha nemmeno idea del perché ha iniziato.
Qualcosa,ricordi.però,
Gervasio racconta anche di suo padre – il “nonno” – che ha 92 anni e da 17 vive in poltrona per colpa di una pa ralisi. Lo riporta a un amore giovanile, ai canti del secolo scorso, lo descrive in maniera poetica: “Il nonno sembra un vecchio cerro sul quale è caduto un fulmine ma non è morto e si staglia verso il cielo, in parte con piccole foglie malsane e indurite, e in parte spoglio e scheletrico”.
Lo dice lui stesso il 24 agosto del 2016: “Scrivendo rivivo la vita e le vite di tutti”.
Lui scrive e la sua storia inizia a vivere di vita propria nello spazio di queste pagine. La filosofa Maria Zambrano dice che ci si rivolge alla scrittura di noi stessi per non perderci e, per Gervasio e per me, è stato proprio così: ci siamo affidati alla parola per ritrovarci, per ritrovare le persone a noi care.
Quando muore il padre, Gervasio avverte una sensazione di abbandono: “Ora davvero mi mancano i genitori.
L’autore scrive del padre e ripensa anche alla madre, scomparsa da pochi mesi. La scrittura, d’altronde, è una terapia e raccontare di noi stessi – lo direbbe meglio di me il pedagogista e filosofo Duccio Demetrio – è un modo per prendersi cura di quella che è stata la nostra storia, delle persone a cui abbiamo voluto bene, dei luoghi in cui abbiamo vissuto la nostra infanzia.
L’autore rilegge la propria esistenza e trova il modo di ridare voce a chi ha incontrato e che magari voce non ha più (come il Pinco e Gigi, due vecchi amici).
bisogno6 di ritrovare i punti di riferimento che avevo perso, sentivo il bisogno di ritrovare i miei genitori nei loro racconti. In poche parole: volevo che la loro storia, la nostra storia, fosse di nuovo viva.
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Quando cammino appoggio i piedi nel vuoto. Mi sembra di non aver più niente a che fare e una punta di rimorso in fondo all’anima mi attanaglia la gola”. Da quel momento la sua voce cambia, sembra meno proiettata all’esterno e diventa più poetica, malinconica e intimista. È come se volesse andare più in profondità nelle Nellecose.pagine
di Con i piedi nel vuoto Gervasio trascrive i suoi sogni, i suoi viaggi, parla della scuola, del nonno garibaldino, della campagna e della caccia, passione ere ditata dal padre. Ci regala foto ricordo della sua vita, la ricompone, si emoziona e ci emoziona, accorgendosi di avere le lacrime agli occhi per qualcosa che pensava perso per sempre. Questo è, alla fine, lo scopo di un diario. La scrittura autobiografica, in questa forma, nella forma del memoir , è uno strumento aperto a tutti, non solo a una cerchia ristretta di scrittori. Potremmo definire Gervasio una persona comune prestata alla scrittura che, con profitto e soddisfazione, riesce a fermare il tempo, riesce a evitare che certe storie possano volare via per sempre, riesce a fare della scrittura uno strumento per conoscersi meglio.
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Con i piedi nel vuoto
Nota dell’editore ll diario che qui pubblichiamo è stato sottoposto al vaglio di una commissione redazionale composta dalla curatrice del libro e dai responsabili della Fondazione Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, che hanno definito i criteri di pubblicazione e hanno approvato il risultato editoriale. La normale operazione editoriale di revisione di un testo necessita di cure particolari nel caso di diari, memorie ed epistolari; per questo motivo, i criteri adottati variano in relazione al tipo di testo autobiografico pubblicato. In questo caso il testo è integrale.
Dedicato a mia madre, la Irma. Mio padre quando dava il verderame alla vigna, tornava a casa verde come un ramarro, quando tornava da caccia, riportava ogni fungo o animale commestibile, quando doveva andare al Borgo, si trasformava in un uomo.
[...] un’ansia perpetua come non tanto il far rendere quei pochi ettari gli stesse a cuore, ma il fare quanto poteva per portare avanti un compito della natura che aveva bisogno dell’aiuto umano, coltivare tutto il coltivabile, porsi come l’anello di una storia che continua, dal seme, al frutto, alla pianta e via di nuovo senza prin cipio e senza termine (il podere o il pianeta). Ma di là delle fasce coltivate, uno squittire, un frullo, uno smuo vere d’erba – bastava a fargli alzare di scatto i tondi fissi occhi e restare a orecchio teso, come un rapace da preda, e già non era più l’uomo dei campi ma l’uomo dei boschi, il cacciatore, perché questa era la sua passione, la prima, l’estrema forma della sua unica passione: il conoscere, il coltivate, il cacciare in tutti i modi. Il darci dentro, in questo bosco selvatico, in faccia al quale (e soltanto lì) l’uomo era uomo – cacciare, appostarsi [...]
La strada di San Giovanni, Italo Calvino
Io assomiglio a Pirandello, la foto ne era la conferma, di scrivere ne ho avuto sempre voglia, ma non mi sono mai impegnato.
La sera dell’undici luglio duemilaquindici (sabato), all’a griturismo sulle colline fiorentine, mentre si faceva notte e ai tavoli si accendevano le candele, uno degli invitati alla cena di nozze, col cellulare in mano, illuminato da una foto sul display, mi ha detto: “Pirandello, a quando il prossimo libro?”.
Il mio tempo, ora, da pensionato, è prezioso: meglio viverlo che perderlo nello scrivere i miei ricordi. Sì, certo, perché non potrei scrivere altro, se non ciò che conosco e che la memoria mi fa riaffiorare (Baudolino).
Oggi è il tredici luglio duemilaquindici. Come al solito mi sono alzato presto, le mie piante nell’orto soffrivano la sete e non potevo aspettare il sole cocente. Al pomeriggio ho dormito un po’. Quella mezz’oretta salutare dopo mangiato, dopo il torrido patito per tutta la mattinata, perché all’orto i lavori non finiscono mai presto e non si fa mai abbastanza. Poi cambiarsi, la fila in banca per fare il bonifico a Gionata coi soldi degli amici e parenti. Regali. Gli ultimi, i ritardatari, coloro che li portano di rettamente al matrimonio, eppur anch’essi tanto graditi.
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16E poi togliersi il dente del pagamento del pranzo nu ziale (abbiamo fatto a metà coi consuoceri) e via di corsa, a casa del babbo (il nonno dello sposo e che noi tutti chiamiamo nonno): pressione sanguigna troppo bassa: troppo caldo, troppa afa in casa. E giù, dargli da bere un mezzo bicchiere di acqua e sale. Subito a comprargli un buon ventilatore.
Un caffè al “Peccato di gola”. Far la spesa per il pranzo e riportare alla Rita la bicicletta. La Graziella servita a Gionata per fare l’ingresso trionfale in piazza a Fiesole, sotto l’applauso degli invitati e lo sguardo severo di Ga ribaldi e Vittorio Emanuele.
Finalmente a casa a sminuzzare le zucchine da sal tare in padella e preparare la tavola. Ogni giorno è così. Quando arriva l’ora di pranzo sono sfinito. Appena man giato mi butto sul divano e russo. In questo periodo è difficile che io sogni: oggi ho sognato. Ero al fresco, fra i monti dell’Appennino, in un grazioso paesino in quota con una vista magnifica: dovevo tornare giù, a valle, alle quattro del pomeriggio subentravo a fare il badante a mio padre. Stavo per salire in macchina, davanti alla chiesa, antica, firmata “io, eremita Satia, io”, con tutta la valle in discesa, in pieno sole. Oltre la valle, a ovest, il monte cupo di Sant’Alberico, le Balze. Il suo paesino con lontanissimi bagliori: sole riflesso dai vetri delle finestre. Mi son sentito chiamare e mi sono voltato. Dal rettilineo della strada, da est, mi si è avvicinata una donna bellissima, mora coi capelli lunghi e gli occhi neri. Un’indiana dell’India, vestita con abiti e scialli leggeri e colorati, una donna non giovane, ma nemmeno vecchia, una donna senza tempo.
Mi è venuta così vicina col viso che le nostre labbra si sono sfiorate. Un tenero, leggerissimo, dolcissimo bacio. “Chi è costei?” Ho avuto la sensazione di conoscerla, di averla sempre conosciuta. Il suo sorriso era la vita. Devo
Non lo so ma penso ci si possa muovere in ogni dire zione, anche stando fermi qui, seduti sul divano. Non c’è bisogno di grande ispirazione. C’è mio padre (il nonno) sulla sua poltrona elettrica che gli alza e gli abbassa le gambe, il busto, la testa. La testa ce l’ha ancora buona, nonostante i suoi novantadue anni. E poi c’è il nonno, il vero mio nonno, quello che mi sta guardando dalla pa rete, dalla foto di quand’era negli alpini durante la Prima guerra mondiale. In piedi, tutto intero, in divisa, impettito, col suo cappello piumato con lo stemma del secondo battaglione alpini, col braccio destro appoggiato sul tavolino alto, col gomito a toccare il vaso coi fiori di carta, con l’altro braccio curvo e la mano sul fianco con un fiore fra le dita e l’anello al mignolo, con le gambe incrociate, coi pantaloni fasciati dal ginocchio in giù, con gli scarponi di cuoio, con sullo sfondo posticcio nel quale è dipinta una scalinata di cartone, la faccia seria e tranquilla appoggiata alle mostrine del colletto, rotonda e senza baffi, da diciot tenne. Chiedo a mio padre e lui mi canta una canzoncina: “È la mazurca che ballava la mia nonna con le trecce a spinduglione e i mutandoni fuori della C’eragonna.mio nonno caporal di fanteria, stette tre giorni in posa per mandare a Rosa la fotografia”.
Mi sono svegliato alle quindici e quarantacinque. Alle sedici, puntuale, son venuto a dare il cambio alla badante. Mi ha baciato la musa ispiratrice. Ho lasciato mio padre (il nonno) da solo per dieci minuti e ho comprato carta e penna. Come si comincia a scrivere?
17 andare, mi aspettano giù nella valle, proprio devo andare...
Mi racconta che prima di sposarsi con mia mamma, prima ancora di fidanzarsi, quando aveva vent’anni, prima del quarantaquattro quando passò il fronte della guerra, lui si vedeva con una ragazza, piccola ma carina e se ne era innamorato.
Sono di nuovo qui, seduto in poltrona, il nonno è alla mia destra sulla sua, il finestrone è aperto, fuori la ter razza coi gerani e oltre i tigli, mossi da una leggera brezza. Ancora più in là la strada e le case nel sole cocente. Davanti a noi la televisione, piatta, di quelle moderne, grande, nera, spenta. Il nonno la vuol guardare solo quando c’è Carlo Conti e le maestrine che gli fanno la Nonostante“scossa”. gli anni e la paralisi (vive in poltrona ormai da diciassette anni), le belle donne gli piacciono sempre. Il suo metodo di valutare le donne è a peso, più pesano e più per lui sono delle belle donne!
18 16/07/2015 ore 17
Lei era venuta alla “Castora” a parare le pecore e lui dal “Guerrino”, poco distante a piedi, era sempre a cer carla per campi, prati e boschi. L’aiutava a parare le pe core e come dice lui, facevano “fico fico”.
Un giorno lei dovette tornare a casa, a Casteldelci. Lui prese la bicicletta e si fece cinquanta chilometri di strada sterrata, traversando l’Appennino a Viamaggio e andò a trovarla lassù, nel paese citato dal Poeta: “Son passato in un paese che si fa notte avanti sera; gente da basto, da bastone e da galera”.
Al ritorno, pedalando in fretta, si trovò ad affrontare una fitta sassaiola. Il poeta aveva ragione. Lo aspettavano sul ponte, stretto e scosceso e se la cavò malconcio. Era in uso che i giovanotti del posto scorag giassero i forestieri in quel cortese modo, soprattutto se la ragazza era bella.
19 Lui, coraggiosamente, ebbe paura e non ci tornò più. Dopo parecchi anni seppe che si era sposata, che aveva avuto tre figli e che viveva dalle parti di Rimini. Mi viene in mente una poesia romagnola: La parpagliota. “N’se po’ sminghè la parpagliota, cvela ch’en vest claSicuramentevolta...”
l’ho scritta male in dialetto e nemmeno me la ricordo tutta, il senso è nel ricordo... La parpagliota è la farfalla e la farfalla che ho visto quella volta non me la posso certo dimenticare. Solo in Romagna, sulla riviera o nell’entroterra, con tanta grazia e cortesia si chiede an cora alle ragazze la parpagliota. La settimana scorsa siamo stati al mare a Gabicce. Un solo giorno, intenso. Un bagno, poche ore sotto l’ombrel lone. Caterina che si arrostiva al sole, un pranzo leggero al ristorantino sopra al bagno cinque e di nuovo a casa in serata. Siamo stati al bagno cinque perché sopra le cabine, al primo piano c’è il ristorantino con una vista splendida. All’aiuto bagnino, ragazzotto sui vent’anni, pugliese, gli abbiamo chiesto un ombrellone in prima fila per go derci il mare. Ci ha caldeggiato tanto il quindici e si è rac comandato che stessimo lì alle sedici per vedere i giochi in Allespiaggia.sedici, puntuale il pugliese è arrivato con l’anima trice. Era lei il centro di tutto. C’erano tutti i bambini e le bambine e soprattutto i babbi che strabuzzavano gli occhi ai passi di danza della bella, cercando di far finta di Laniente.cosa più divertente che non è sfuggita a mia moglie è stata quando è arrivato il bagnino titolare del bagno cinque. Un uomo sulla cinquantina, alto e corpulento che in perfetta cadenza romagnola ha detto qualcosa d’in comprensibile (le parole di questo dialetto suonano come una musica) a una signora grassa e sformata, sulla set
tantacinquina20 che giaceva al sole come un tricheco. La donna gli ha risposto: “Non ti preoccupare tanto mia fi glia non te la dà!”. E lui: “Non mi preoccupo se tua figlia non me la dà, mi preoccuperei se me la dai te!”. È scappato via ridendo e zigzagando tra gli ombrelloni aperti, come fa il cuculo in montagna, che canta e fugge via. La gente rideva e ancor più rideva di gusto la donna grassa. Sto scrivendo a ruota libera, come la ventola del ven tilatore che ci manda un po’ di refrigerio. Mio padre dorme. Guardo le foto in bella vista appoggiate sopra il mobile, a sinistra del televisore, incorniciate d’ar gento: Gio alla prima comunione, Nicco alla cresima, la mamma (nonna Irma) con in braccio Nicco, la Lori da piccola a Ischia, la nonna Irma più giovane con in braccio Gio, la Rachi da piccina con in testa il cappello da aviatore dell’Unione Sovietica, foto di gruppo al novantesimo compleanno dello zio Bartolino (io, Mario e lo zio davanti e Caterina dietro che sembra la madrina della festa). Questa è la prima fila di foto, ritte nelle loro cornici scintillanti. Dietro ce ne sono altre: la foto in bianco e nero di noi sposi, io e Caterina, nel set tantotto, a Montecasale con sullo sfondo il refettorio del convento e gli alberi. Furio con in braccio la Lori e ancora, la foto per i cinquant’anni di matrimonio dei nonni: al centro nonno Pio e nonna Irma (nonna Irma ci ha lasciati da poco) e intorno tutti i nipoti: a sinistra Gio con in braccio Francesco, al centro Furio con in collo (in braccio) la Lori, a destra Nicco con in collo Rachi. Da ultima c’è la foto in bianco e nero della nonna vecchia, la Beppa di Cecio, quella nata nel 1897 coi suoi due figli maschi, Bartolino e Pio, tutti perfet tamente in posa.
21 17/07/2015 ore 8.45
Sono di nuovo qui, a casa del nonno. Come sempre sta dicendo che sta male e vuole il dottore. È la solita scusa di quando deve fare qualcosa: stamattina deve fare il bagno. Ora la Lina (la badante albanese) lo sta lavando e io sono qui solo per sorreggerlo, solo se necessario, nel caso si sentisse male. Oggi vedo che sta bene e ha afferrato con forza la maniglia fissata al muro sopra la vasca da bagno. Sta in piedi e si tiene con la mano destra. Il braccio sinistro è rattrappito e la mano, senza atti vità da molti anni, si è tutta contorta. La gamba sinistra, seppur impedita, è come un troncone, ci si appoggia e ci si regge come se la avesse di legno. La destra gli permette di fare pochi passi. Il nonno sembra un vecchio cerro sul quale è caduto un fulmine ma non è morto e si staglia verso il cielo, in parte con piccole foglie malsane e indurite, e in parte spoglio e scheletrico.LaLinaè molto brava. Da quando è in Italia ha accu dito parecchi anziani del Borgo. Ha cinquantanove anni, è sposata, figli, nipoti. Abita nel centro storico col marito e una figlia. La figlia ha solo venticinque anni, ma per lei è già una tardona ed è preoccupata che rimanga zitella. Ella ha, come da contratto, due ore libere al giorno, nel pomeriggio, e ventiquattr’ore fra il sabato e la domenica. Quando è libera è felice di tornarsene a casa. Ha un di fetto: nonostante tutti gli anni passati in Italia, parla poco la nostra lingua. Il nonno praticamente vive con lei, ciascuno dei due ha la propria camera, poi c’è il bagno, il salotto, il tinello, la cucina e il cucinotto. È al primo piano l’appartamento, con due belle terrazze, una a est, piena di fiori, una a ovest, chiusa dalla vetrata. La casa è sempre piena di luce. C’è anche il sotto, a piano terra con una bella sala col ca
mino,22 un altro bagno e una lavanderia. Un tempo c’erano le scale interne che andavano giù; le abbiamo sostituite con un piccolo ascensore, proprio per agevolare il nonno a uscire: da sotto si va direttamente in giardino. Ormai sono anni che il nonno non esce e non prende l’ascensore nemmeno per andare di sotto. Non vuole muoversi più da quel suo nido sospeso nel tempo.
Ora il nonno ha finito di fare il bagno, la Lina lo ha ac compagnato in cucina e stanno facendo colazione. Io sono sempre qui in salotto, al fresco del ventilatore, coi miei pensieri, con fuori i verdi tigli e il sole che già dardeggia. Sono le nove e trenta di mattina. È dalle sei che sono in giro: l’orto, la panetteria, il bar... Ora la Lina porta un caffè anche a me: “Grazie, è ora che torni a casa mia”. 17/07/2015 ore 17 Sono di nuovo qui seduto sul divano. Il nonno è alla mia destra sulla sua poltrona: un cu scino dietro la testa, un cuscino sotto il braccio sinistro, la coperta di lana con la quale è coperto dai piedi alla pancia; sempre, inverno ed estate. Sulla mano destra pe rennemente il fazzoletto col quale si soffia di frequente il naso. Altri due fazzoletti, ben piegati, sono nel suo taschino. Cambia spesso il fazzoletto bagnato da una goccia al naso che è diventata come quella di una can nella d’acqua che perde. Ogni tanto sospira e dice: “Irma aiuto”.Lanonna Irma ci ha lasciati l’otto marzo di quest’anno. Se n’è andata verso le due del pomeriggio. Io ero andato via da poco e c’era mia sorella Rosanna e la Lina. Quando l’ho salutata (sapevo che le era rimasto vera mente poco), lei mi ha detto, indicandomi con l’indice: “A voi due vi aspetto”. È l’ultima cosa che ha detto, ultima e definitiva, non un presagio nefasto ma una certezza che