Ti porto io

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IL CAMMINO DI SANTIAGO

Cammino Francese

Monumento del Monte do Gozo

A Brea Arzúa Palas de Rei Portomarín Sarria

Triacastela O Cebreiro

GALIZIA

Santiago de Compostela Cruz de Hierro

Villafranca del Bierzo

Molinaseca

Rabanal del Camino

Astorga Villavante El Burgo Ranero León

M e s e t a

PORTOGALLO

Calzadilla de la Cueza

Carrión de los Condes

Boadilla del Camino Castrojeriz Hontanas

Collina fuori Castrojeriz

Oceano Atlantico

Santo Domingo de la Calzada Belorado

Los Arcos

Bayonne

Saint-Jean-Pied-de-Port

La ruota anteriore si spezza (transfer in auto) Roncisvalle

Estella Obanos Alto del Perdón

NAVARRA

Logroño

Burgos

San Juan de Ortega Nájera

LA RIOJA

CASTIGLIA E LEÓN

Pamplona

Chissà se...

RONCISVALLE

27 KM

SANTIAGO

DE COMPOSTELA

771 KM

Patrick

Il 2 giugno, l’ultima mattina a Bayonne, veniamo informati che sui Pirenei si è scatenata una tempesta e diluvia da giorni. Alla biglietteria della stazione ci dicono che il treno per Saint-Jean-Pied-de-Port è stato soppresso a causa di una frana sui binari. Se non troviamo un altro mezzo per percorrere i 56 chilometri che ci separano dalla nostra destinazione, dovremo rinunciare ad arrivare in giornata.

Ci sono diversi autobus che raggiungono la cittadina, ma nessuno ha una piattaforma che permetta a Justin di salire a bordo con la carrozzina. A quanto pare in Europa l’accessibilità lascia molto a desiderare. Terry e Mike cominciano ad andare a Saint Jean mentre noi cerchiamo di noleggiare un’auto adatta alle nostre esigenze, ma la barriera linguistica rende tutto più complicato. Il mio francese è a dir poco patetico, e qui lo spagnolo di Justin è inutile. Dopo una lunga discussione con il personale

della stazione ferroviaria, ci pare di capire che sta per arrivare un taxi.

Aspettiamo un’ora, poi arriva finalmente il più piccolo veicolo “accessibile” che io abbia mai visto, una specie di incrocio tra un vecchio maggiolino e una Mini Cooper. E il guidatore non è da meno: ha i capelli arruffati da scienziato pazzo e vestiti sgualciti e macchiati, ma è sorridente e pieno di entusiasmo. Mentre tira fuori la rampa sul retro dell’auto, ci assicura che ci staremo perfettamente, a condizione che Justin se ne stia nell’angolo con la testa inclinata. E anche così gli spazi sono davvero strettissimi: io devo infilarmi nella macchina e allungarmi sul sedile posteriore per sistemare la carrozzina. Anche con il poggiapiedi piegato, Justin e la sua carrozzina escono di qualche centimetro.

Con un ultimo sforzo il taxista riesce a spingere quanto basta il mio amico all’interno del veicolo, e in quello stesso istante dal suo didietro esce una fragorosa esplosione di gas, la più forte che io e Justin abbiamo mai sentito.

Scoppiamo tutti a ridere, e il guidatore esclama, con forte accento francese: “Scusate, mi è sono lasciato andare!”.

Tutto contento, alza i pollici, si mette al volante e accende il motore. Con il sottofondo di Lovesong dei Cure, partiamo finalmente per Saint Jean, dove incontreremo Ted e la troupe.

Justin

Dopo un viaggio di due ore schiacciato nel taxi, mi sono fatto un’idea abbastanza chiara di come possa essere la vita di una sardina. E quando arriviamo a destinazione, nonostante non sia in grado di alzarmi e stiracchiarmi,

sono contento di potere almeno cambiare posizione e sgranchirmi il collo.

Arrivati in albergo, troviamo un altro ascensore troppo piccolo, così prendiamo in prestito una sedia a ruote normale e lasciamo la mia in un ripostiglio al piano terra. Mentre ci sistemiamo nella nostra stanzetta, ci raggiungono Terry e Mike, insieme a Ted, che è appena arrivato.

Lo spazio è decisamente limitato: io rimango sulla carrozzina, mentre gli altri si siedono sui letti singoli. Mi mancano la grandezza e l’accessibilità delle camere d’hotel americane.

Terry e Mike hanno stabilito che una troupe di due uomini non basta, perché filmare il nostro viaggio sarà molto impegnativo. Stanno arrivando altri due ragazzi del team, a cui Mike ha telefonato ieri.

È un grande investimento da parte di emota, che ha deciso di assumersi le spese del documentario nonostante la scarsità di fondi. E ora Terry e Chris hanno chiamato i rinforzi, anche se non era previsto.

Pochi minuti dopo qualcuno bussa alla porta. Patrick apre e si trova davanti un giovanotto alto e magro con lunghi capelli castani, luminosi occhi azzurri e un sorriso splendente: è uguale a Zac Efron.

“Ciao, chi sei?” gli chiedo.

“Sono Jasper, uno dei cameraman.”

Entra nella stanza e aggiunge: “Ieri, mentre andavo sul monte Hood a sciare, Mike mi ha chiamato e mi ha detto che serviva aiuto per un progetto pazzesco in Spagna”.

“Dato che era interessato, gli ho detto: ‘Fantastico, riesci a essere qui tra ventiquattro ore?’.” interviene Mike.

“Quindi, sai perché siamo qui?” gli domando.

“Non proprio, ma eccomi! Ditemi tutto.”

Mentre visitiamo la cittadina, io e Patrick raccontiamo a Jasper com’è nata questa avventura, e lui sembra entu-

siasta. Ha già lavorato con Mike ad alcuni documentari sullo sci, e così ha acquisito esperienza nelle riprese dinamiche.

Quando torniamo all’albergo, lasciamo Jasper a familiarizzarsi con l’attrezzatura video da cinquanta chili montata da Terry. Nel frattempo noi andiamo a comprare qualche spuntino per la camminata di domani.

Mentre stiamo per uscire dal bar, una voce sconosciuta si rivolge a noi con un forte accento francese: “Lei è Justìn?”.

È un ragazzo minuto e dal fisico asciutto, con i capelli scuri e due baffetti ispidi. Ci sorride.

“Sono Robìn, il vostro autista!”

Originario della Bosnia, Robin è uno sciatore professionista e ha partecipato a uno dei film di Mike. Oltre a essere assistente di produzione e autista, parla perfettamente spagnolo, francese e bosniaco.

Al calare della sera, io, Patrick e Ted ci riuniamo con la troupe intorno ai tavolini di un caffè. Mentre Terry e Mike ci descrivono nel dettaglio l’attrezzatura che hanno portato e la logistica delle riprese, non stiamo più nella pelle.

Con lo sfondo del tramonto sui Pirenei ci godiamo qualche birretta fresca e un lauto pasto, mentre spieghiamo ai ragazzi della troupe quello che ci aspettiamo da loro.

Patrick guarda negli occhi i nostri compagni di viaggio uno per uno e dice: “Voi siete qui per documentare, ma non potete aiutarci in nessun modo. Vogliamo che tutto si svolga come se voi non foste qui. Fate finta di essere delle mosche... munite di telecamere”.

Paghiamo il conto e torniamo all’hotel, pronti al riposo necessario prima di intraprendere il Cammino di Santiago in sedia a ruote.

Patrick

La mattina, mentre ci prepariamo a partire, mi rendo conto che non trovo i miei occhiali. Li cerco per tutta la stanza, finché Justin non mi chiede: “Li hai lasciati al ristorante?”.

Merda!

Andare a riprenderli è fuori discussione: ci vorranno ore prima che apra, e se vogliamo raggiungere Roncisvalle, la nostra prima tappa (a 27 chilometri da qui, su un sentiero di montagna) entro l’ora di cena, dobbiamo avviarci subito.

Io, Justin e Ted incontriamo il resto del gruppo in un piccolo caffè a pochi passi dall’albergo. Nell’aria aleggia un profumo irresistibile di baguette appena sfornate, e l’aroma del caffè ci riempie le narici. Dopo la colazione, prepariamo dei panini con prosciutto stagionato e formaggio, mentre la troupe prepara l’attrezzatura. E ci incamminiamo, pronti ad affrontare la mattinata impegnativa che abbiamo davanti.

Mentre raccogliamo le nostre cose, una cameriera fa un cenno alle telecamere e ci chiede cosa abbiamo in mente.

“Stiamo per iniziare il Cammino”, dice Ted.

“Con quella?” domanda lei, indicando la carrozzina.

“Oui”, risponde Ted, annuendo con convinzione.

Mentre gira sui tacchi, la donna scoppia a ridere, e la sentiamo dire: “Non credo proprio”.

Non è la prima persona a farci notare che la nostra sembra una follia. Solo ieri, quando siamo andati all’Ufficio del pellegrino di Saint Jean ad acquistare le credenciales – i passaporti da timbrare a ogni tappa – tutti ci hanno scoraggiato. Abbiamo sentito più volte la stessa parola: impassable, “impraticabile”.

Ormai ci siamo abituati al pessimismo e alla perplessità altrui. Molti dei nostri amici e parenti sono preoccupati per noi, ma alcuni hanno definito stupido il nostro tentativo. Eppure questo atteggiamento non fa altro che rafforzare la nostra convinzione.

“Arriveremo a Santiago anche se doveste legarmi al dorso di un mulo”, dice Justin.

Lasciandoci alle spalle la cameriera e il suo scetticismo, cominciamo il pellegrinaggio... e appena passato il cancello che permette di accere al sentiero cominciamo a faticare. Il sentiero è ripido e le imbragature per tirare la carrozzina si rendono necessarie molto prima del previsto. Presto ci troviamo su uno sterrato ancora più in pendenza, disseminato di grandi massi.

Le strade su cui ci siamo allenati in Idaho erano completamente piane. Qui ogni curva è così stretta che Justin è costretto a sbilanciarsi da un lato per fare da contrappeso. Tutte le immagini e i video che abbiamo guardato per prepararci non sono riusciti a darci un’idea realistica di quello che ci aspettava.

Mentre proseguiamo con fatica, i ragazzi della troupe corrono avanti per riprenderci dall’angolatura migliore. Anche per loro è impegnativo, ma noi, concentrati come siamo, quasi ci scordiamo della loro presenza.

Nonostante ci fermiamo a intervalli di poche centinaia di metri a bere acqua e mangiare barrette proteiche, al quinto chilometro su 27 mi viene da vomitare per lo sforzo. L’aria è più fredda e secca di quanto ci saremmo aspettati, eppure sono in un bagno di sudore. Non posso fare altro che reidratarmi e cercare di tenermi in forze. Dobbiamo andare avanti.

Io e Ted ci diamo spesso il cambio: tirare e spingere richiedono l’uso di muscoli diversi, ma ci sembra di essere stremati in tutto il corpo.

Dopo diverse ore quasi al massimo dello sforzo, troviamo un posto praticamente in piano e ci fermiamo a riposare. Mentre riprendiamo fiato e beviamo ancora un po’, un pellegrino ci si avvicina. Si presenta come Padre Kevin e dice di essere un prete episcopale. Ci chiede se può benedire il nostro viaggio. Accogliamo con gioia la sua proposta e, mentre lui prega che Dio ci protegga e ci guidi, stiamo in silenzio con gli occhi chiusi. Prendo questa coincidenza come una conferma: siamo sulla strada giusta.

Justin

Rinvigoriti, proseguiamo verso il Refuge Orisson, uno degli ostelli riservati ai pellegrini, dove ci fermeremo a pranzare.

Finora il sentiero è stato faticosissimo. Mentre spingevano con tutte le loro forze i 115 chili della carrozzina, Patrick e Ted continuavano a scivolare sulle rocce e sui ciottoli. Ma adesso siamo su un tratto lastricato, una breve tregua dal terreno che nelle ultime ore mi ha sballottato le ossa di qua e di là. Mi sembra di aver percorso in bicicletta una discesa piena di buche.

Poco più in là incontriamo Lucy, una ragazza inglese che vive in Austria. Vedendo le telecamere non riesce a resistere alla curiosità e ci chiede della nostra avventura. Le raccontiamo la nostra storia e vogliamo sapere qualcosa di lei. La sua vita è piena di interrogativi irrisolti: sulla fede, la famiglia e una possibile svolta professionale.

“Che lavoro fai?” le domanda Ted.

“Sono una cantante d’opera.”

“Allora devi farci sentire qualcosa”, le dico con un sorriso.

“Preferireste un brano operistico o una vecchia canzone folk inglese?”

Scegliamo il folk. La voce di Lucy si leva sul sottofondo del vento che soffia alle nostre spalle, sui gridi delle aquile in lontananza, sui campanacci delle pecore sulle colline: è un’esibizione straordinaria. I colori intensi del paesaggio e la purezza del suo canto ci commuovono. È un momento di bellezza assoluta.

Alla fine le domando: “Se sei una cantante d’opera, qual è il cambiamento lavorativo di cui ci parlavi?”.

“Finora ho sempre accompagnato altri cantanti, ma adesso vorrei diventare una solista.”

Qui, nei Pirenei, abbiamo avuto la fortuna di assistere alla sua prima performance.

Lucy cammina a un passo più veloce del nostro e a poco a poco svanisce all’orizzonte, ma la meraviglia della sua voce ci ha caricati di nuova energia. Nonostante Patrick e Ted siano stanchi e io senta gli addominali affaticati, dopo essermi continuamente spostato da un lato all’altro, continuiamo a salire piano piano la collina, fino a una croce di pietra circondata da un semplice recinto: un santuario per i tanti pellegrini che passano di qui.

La scalata è stata dura per tutti, e anche per me è stata più estenuante di quanto immaginassi. Sento la schiena e il collo indolenziti, e quando raggiungiamo l’altopiano per riposarci, continuo ad agitarmi sulla carrozzina per tentare di alleviare le contratture. La sedia è dotata di ammortizzatori, ma su rocce, ciuffi d’erba e solchi scavati da oltre un millennio di passaggi, si rivelano quasi inutili. Nonostante tutto io e Patrick ci sorridiamo in silenzio: non c’è nessun altro posto dove vorremmo essere.

Dopo essersi stirato i polpacci per scaricare un po’ di tensione, Patrick si sdraia sull’erba umida accanto al sentiero.

“Ascolta” dice. “Nient’altro che silenzio... È un suono bellissimo.”

Godendomi la pace, guardo le colline sotto di noi, da dove siamo partiti stamattina. È incredibile pensare a quanta strada abbiamo percorso.

Sul punto di ripartire, sposto lo sguardo sul tratto che dobbiamo intraprendere.

“Quello non può essere il sentiero!” esclamo, incredulo.

Le colline sono disseminate di pietre irregolari e strati affastellati di terra e roccia: sembra una scala crollata e ricoperta di fango e detriti. Non è possibile superare quel tratto con la carrozzina.

La parola impassable riecheggia nelle nostre menti. Ora capiamo cosa intendevano gli addetti dell’Ufficio del pellegrino. Forse avevano ragione.

Però Ted non si lascia scoraggiare, si infila l’imbragatura e comincia a tirare le fasce di nylon collegate con i moschettoni al poggiapiedi della carrozzina. Patrick mi spinge da dietro e a poco a poco ci avviciniamo alla base del sentiero più impervio. È sempre più evidente che, con tutti gli sforzi e la buona volontà, non sarà possibile percorrerlo.

Allora Patrick e Ted bloccano le ruote della carrozzina con delle pietre, per evitare che rotoli giù, e nel frattempo cercano una via alternativa. Abbandonano gli zaini e corrono per un centinaio di metri su per il fianco della collina. Una volta tornati concordano sul fatto che l’unica possibilità è attraversare la parte franata.

Mentre valutiamo come fare Patrick dice: “C’è anche una buona notizia, però. Sono andato un po’ più avanti e ho visto che oltre la curva in cima alla collina, c’è una strada asfaltata”.

Confortati dalla prospettiva di un po’ di riposo dopo la parte più dura del sentiero, troviamo la motivazione

per proseguire. Con la carrozzina bloccata e ben ancorata a terra, Ted e Patrick tirano fuori le cinghie di nylon che hanno portato per le eventualità come questa, che adagiano sotto di me come una sorta di seggiolino. Con delicatezza me le infilano sotto la schiena e sotto le gambe e si preparano a sollevarmi dalla sedia, mentre io mi preparo psicologicamente per la prossima sfida.

“Al mio tre!” dice Ted. “Uno, due, tre!”

La forza di gravità tende le cinghie e le impugnature, Ted e Patrick faticano a stare dritti mentre mi alzano dalla carrozzina e cominciano ad affrontare con estrema cautela il terreno ripido e dissestato. Procediamo con una lentezza esasperante. Dopo appena cinque metri, Ted e Patrick sono costretti a posarmi a terra e a riposare per qualche istante. Cento metri... cinque alla volta... quanto ci vorrà?

“Andiamo avanti”, dice Patrick, afferrando di nuovo l’impugnatura delle cinghie.

Mentre lui e Ted mi portano, sono nelle loro mani. Salgono passo dopo passo, schivando i sassi sparsi qua e là e cercando di mantenere l’equilibrio senza farmi cadere. Dopo altri cinque metri la fatica li costringe a fermarsi di nuovo per riposare. Altre tre soste e siamo a metà strada. I miei amici mi lasciano su un fazzoletto d’erba e corrono avanti per capire qual è la via migliore. Chiudo gli occhi e rimango in ascolto, mi godo questo momento di tregua. Sento solo i campanacci degli animali e il grido lontano di un falco. Il vento soffia tra i fili d’erba intorno a me e questi pochi minuti sembrano durare ore. Mentre me ne sto lì a chiedermi quanto il mio corpo può reggere ancora lo sforzo e se resisterò a questo pellegrinaggio lungo un mese, sento qualcuno avvicinarsi.

Quando apro gli occhi vedo un vecchio basco con un paio di jeans sbiaditi, con una camicia a quadri sui toni del giallo

e un berretto nero: rimango stregato dal suo sorriso smagliante. Prima che riesca a dire qualsiasi cosa, lui si china e mi dà un piccolo schiaffo. Non forte, ma simile quello che darebbe una mamma al suo bambino in segno d’affetto... certo, da un perfetto sconosciuto, è un po’ spiazzante.

“Incroyable!” esclama in francese.

Quando rispondo in spagnolo “¿Cómo estás?”, cambia lingua.

“¡Bien!”

“¡Estoy muy loco!” dico ridendo, ed è evidente che anche lui ci ha presi per pazzi.

“Estar un poco mal de la cabeza es algo bueno.”

Questa frase mette alla prova la mia scarsa comprensione dello spagnolo, ma penso voglia dire che un po’ di follia non fa mai male.

Mentre proseguiamo la conversazione Robin si offre di farci da interprete.

“Dice che fa il pastore su queste montagne e ha un piccolo rifugio dove i pellegrini possono stare se il meteo impedisce di proseguire. In tutto questo tempo non ha mai visto nessuno in carrozzina.”

Con uno sguardo di approvazione, il vecchio indica Patrick e Ted e dice: “Muy fuerte”. Alza i pollici e aggiunge: “Bueno, muy bueno”, poi sale la collina fino a una casetta di pietra e fango.

A metà del tragitto, si ferma e si volta verso di noi. Alza le braccia, con i pugni chiusi, e grida: “¡Lo imposible es posible!”.

È un breve scambio... ma le sue parole sono cariche di energia e ci danno tanta forza. Proseguiamo con la convinzione che se una cosa sembra impossibile è solo perché non l’hai ancora fatta.

Con questa forza rinnovata, i miei amici mi sollevano di nuovo e finiamo il lungo, lento cammino fino in cima.

Dopo una breve pausa per bere un po’ d’acqua tornano giù a prendere la carrozzina, mentre io mi godo qualche altro istante di solitudine e riposo sdraiato sull’erba.

I miei amici mi sistemano di nuovo sulla sedia e siamo pronti per il tratto successivo. Ora il sentiero è liscio e il pensiero di una strada asfaltata ci riempie di speranza. Ma quando superiamo la curva, capiamo di cosa è fatta davvero la strada.

“Quello non è asfalto, è fango!” grida Ted. Patrick, con le sue poche diottrie, aveva scambiato per asfalto quello che in realtà era un fiume di fango nero e denso lungo un centinaio di metri abbondante. Ma dato che ci ritroviamo tra il ripido fianco della montagna e un precipizio, non ci resta che attraversarlo.

Anche se nessuno lo dice ad alta voce, tutti abbiamo in testa lo stesso pensiero: È solo il primo giorno! Come diavolo faremo ad arrivare fino in fondo?

Spazzando via questi interrogativi, proseguiamo un passo alla volta, con le ruote della carrozzina che ruotano faticosamente nel pantano. Patrick e Ted si danno i turni: uno si mette l’imbragatura e tira come un bue, mentre l’altro mi spinge da dietro. Il sudore gronda dalla loro fronte e gli offusca la vista; con le mani bagnate è difficile afferrare saldamente l’impugnatura della carrozzina. Con ogni muscolo che grida vendetta, i polmoni avidi di ossigeno e la bocca assetata, si spingono fino alla fine di questo faticosissimo tratto.

Anch’io sono molto provato: ogni volta che la carrozzina si inclina sul terreno irregolare devo controbilanciare spostando il peso nella direzione opposta: è come fare una serie infinita di addominali. La distesa di fango e la pendenza costante erodono pian piano la nostra sicurezza: cominciamo a dubitare che affrontare questo pellegrinaggio da 800 chilometri sia stata una buona idea. Santiago de

Compostela sembra lontana anni luce. Ma il grido del pastore basco – l’impossibile è possibile! – riecheggia nei nostri cuori e ci spinge a proseguire in questa densa melma.

Patrick

Proprio quando ci illudiamo di esserci lasciati alle spalle la parte peggiore, ci imbattiamo in un nuovo tratto fangoso, dove abbiamo l’impressione di affondare ancor più di prima.

Le ruote della carrozzina girano lentamente mentre Ted tira le fasce di nylon più forte che può, tentando in tutti i modi di evitare che venga inghiottita dal pantano. Mentre spingo a testa bassa, con le braccia tese, cercando in tutti i modi di avanzare, il mio respiro si fa affannoso. Nemmeno Justin se la sta passando granché bene, ma con voce decisa corregge la nostra traiettoria – “Adesso a destra! Ora a sinistra!” –, per aiutarci a evitare gli ostacoli e le pozzanghere più profonde sulla nostra strada. Nonostante sia una sofferenza per tutti, è anche un lavoro di squadra che ci unisce, sebbene sul momento non ce ne rendiamo conto.

Un centimetro dopo l’altro, superiamo questo tratto e saliamo su per la montagna. Mentre ci avviciniamo al terzo tratto fangoso, lungo anche stavolta un centinaio di metri, vediamo un piccolo sentiero che ha permesso a chi ci ha preceduto di evitare il pantano. Ma è troppo stretto per la carrozzina. Non ci resta che accettare la realtà: a volte per superare un ostacolo bisogna letteralmente attraversarlo.

Oltrepassiamo anche l’ultima zona fangosa, ma siamo ancora su una salita di cui non riusciamo a scorgere la fine. Dopo aver scalato due colline, una in fila all’altra,

arriviamo in cima alla terza e Ted grida: “Ecco la vetta!”. Ma quando ci arriviamo io e Justin, che ci preparavamo ad ammirare il nostro primo panorama spagnolo, vediamo solo un’altra salita. Proseguiamo con un ritmo lento e costante.

“Ok, è quella!” esclama Ted, arrivato in cima alla collina successiva. Ma ancora una volta si sbaglia.

Al terzo “Eccoci!”, che subito si rivela un abbaglio, io e Justin siamo ancora clementi nei confronti di Ted, ma al quarto e al quinto cominciamo a gridargli di stare zitto. È tutto più estenuante di quanto ci aspettassimo.

Dopo dieci faticosissime ore arriviamo finalmente sulla cresta dei Pirenei, e possiamo guardare la Spagna sotto di noi.

Ted dice ancora una volta “Ehi, ragazzi, ci siamo!”, ma siamo tutti troppo stanchi per ridere. È stata una vera impresa, ed è solo l’inizio. La gioia di essere finalmente qui con il mio migliore amico mi fa pensare a tutte le storie e le avventure che potremo raccontare ai nostri figli.

Quando prendiamo il telefono per fare una foto, ci accorgiamo con sorpresa di avere la connessione, così chiamiamo le nostre mogli.

“Ce l’abbiamo fatta!” dico a Donna non appena risponde.

“Grazie a Dio! Stavamo pregando per voi. Tutta la parrocchia prega per voi, ma pensavamo che sareste arrivati a destinazione ore fa.”

“Lo pensavamo anche noi.”

Quando riagganciamo, Justin propone: “Dato che prende internet, perché non facciamo un post su Facebook da quassù?”.

È una buona idea in effetti, e scrivo una frase scherzosa dal punto di vista di Justin: Oggi io ho scalato una montagna in carrozzina. E voi?

Restiamo per qualche minuto a goderci il paesaggio. Mentre osservo le colline tondeggianti e verdissime e gli alberi nella valle sottostante, mi sembra che questo sia il culmine delle nostre avventure da bambini, molte delle quali si sono svolte nelle Grandi Montagne Fangose dietro casa di Justin. ***

Due chilometri e mezzo sono una distanza molto breve quando vivi in una piccola cittadina e i tuoi genitori ti lasciano andare ovunque in bicicletta, in qualsiasi momento. Spesso pedalavo fino a casa di Justin e ci inventavamo qualche passatempo divertente.

Le Grandi Montagne Fangose erano uno dei nostri rifugi sicuri. Lì sparavamo con le pistole ad aria compressa, costruivamo fortezze, immaginavamo avventure incredibili e scendevamo con gli slittini lungo pendii che ci sembravano ripidissimi, anche se in realtà non lo erano più di tanto. Pensavamo addirittura di rischiare la vita lanciandoci giù per quelle discese.

In un modo o nell’altro riuscivamo sempre a finire nei pasticci. Non che volessimo combinare guai. Eravamo sempre mossi da buone intenzioni... o meglio, dalla curiosità.

Mi ricordo un pomeriggio di inverno in cui, dopo esserci sfiniti a furia di sfrecciare sugli slittini, andammo a riposarci davanti a casa di Justin insieme al nostro amico Greg. Quel giorno la neve era di una consistenza perfetta: sarebbe stato un delitto non fare delle palle con cui colpire gli oggetti che avevamo intorno. Il nostro primo bersaglio fu la cassetta della posta di Justin, dall’altra parte della strada, ma era un obiettivo troppo semplice, così passammo a quella del vicino. Ancora troppo facile. Così alzammo l’asticella: il canestro degli Smith, che abitavano poco più in là.

La famiglia Smith frequentava la nostra stessa parrocchia, e il signor Smith era un collega di mio padre alla Ontario Junior High School. Ci conosceva bene e non andava pazzo per le nostre marachelle – e aveva le sue buone ragioni.

Al primo tentativo mancai completamente l’obiettivo. La palla di neve, dura quasi come una pietra, descrisse un arco perfetto sopra il canestro e si schiantò sulla porta del garage con un tonfo sonoro.

Anziché fare la cosa più sensata – correre dentro casa –trovammo un nuovo bersaglio: il grande cerchio bianco lasciato dalla palla di neve sulla porta del garage del signor Smith. Greg puntò troppo in alto, ma con il suo lancio produsse un frastuono che rimbombò per tutto l’isolato. Poi fu il turno di Justin, che colpì troppo a destra. Nel giro di cinque minuti la porta del garage fu coperta di grandi chiazze bianche. Nessuno di noi aveva vinto, anzi stavamo per perdere tutti e tre.

Mentre compattavo una palla di neve e caricavo il colpo, il signor Smith uscì furioso dalla porta d’ingresso, rosso come un peperone, gridando: “Che diavolo state facendo?”.

“Una gara di palle di neve!” rispose Greg.

Deducendo logicamente che mirassimo al canestro (non sarebbe stata la prima volta) lo indicò ed esclamò: “Avete mancato il bersaglio!”.

Senza pensare, diedi la risposta che ci avrebbe condannati: “Non puntavamo al canestro, ma alla porta del garage!”. Me ne pentii amaramente. Fummo messi tutti e tre in castigo, relegati ognuno nella propria stanza per lo stesso periodo di tempo. I nostri genitori dovevano essersi messi d’accordo.

Un’altra volta io e Michael, mio fratello più piccolo, stavamo aspettando che i nostri genitori ci venissero a prendere in parrocchia dopo le attività del mercoledì sera. Insieme a Justin avevamo costruito un castello di

neve nascosto dai cespugli e invisibile a chiunque passasse per la strada. Com’è ovvio, partì un altro tiro al bersaglio con le palle di neve. La sfida era: chi sarebbe riuscito a colpire la macchina in corsa più vicina all’insegna della chiesa nell’angolo del parcheggio?

Non sapremo mai la risposta perché il tiro fu uno solo, il mio. A quanto pare le palle di neve e i parabrezza non vanno d’accordo. Il rumore di vetri infranti e lo stridio dei freni lacerò l’oscurità. Corremmo velocissimo dentro la chiesa e su per le scale, imboccammo l’uscita di emergenza e ci rifugiammo nel campo retrostante.

Se ci ripenso, mi sento ancora in colpa per quell’episodio.

Ma non per il garage del signor Smith.

Quello fu puro divertimento.

Ogni tanto finivamo nei guai per colpa della nostra curiosità e della nostra voglia di sfida. Una volta Justin sparò con la pistola ad aria compressa e, non si sa come, riuscì a colpire una donna che correva davanti a noi, il tutto per una scommessa con il fratello maggiore. In un’altra occasione, io lanciai delle mele con la fionda nel giardino accanto al nostro e colpii il vicino in piena faccia.

Sembrava che tutte le nostre cattive idee nascessero da una sola domanda: Chissà se riesco a...?

“Chissà se riesco a fare canestro per primo.”

“Chissà se riesco a colpire una macchina in corsa con una palla di neve.”

“Chissà se riesco a centrare la signora con la pistola ad aria compressa.”

“Chissà quante mele riesco a lanciare contemporaneamente con la fionda.”

Qui sui Pirenei, accanto al mio migliore amico, mi sembra di risentire quelle parole come se le avesse appena pronunciate.

“Chissà se riesco a farlo con la carrozzina.”

Tutti quei “chissà” hanno sempre avuto conseguenze disastrose durante la nostra infanzia. Ma ora che siamo adulti le cose sono cambiate. Ora soppesiamo i rischi e le opportunità, facciamo calcoli e decidiamo se il perché giustifica il come.

Davanti a questo panorama, in compagnia di una delle persone a cui tengo di più, mi rendo conto che da quando Justin mi ha annunciato per la prima volta di voler intraprendere il Cammino il mio perché è cambiato.

Poi perché gli altri ci dicevano che non ce l’avremmo fatta.

Anche se il mio perché è cambiato, il come è rimasto lo stesso: insieme, è sempre stato così.

Spesso la gente ci chiede che cosa rende così forte il nostro legame. La risposta è semplice: ci lanciamo insieme in avventure sempre nuove. Io faccio miei i suoi “chissà” e viceversa. Corriamo insieme incontro alla vita, l’abbiamo sempre fatto.

E ora eccoci qui, nel Nord della Spagna, dopo una lunga giornata e 27 chilometri di Cammino percorsi sugli 800 che ci porteranno a Santiago.

Il Cammino di Santiago

DA SAINT-JEAN-PIED-DE-PORT A RONCISVALLE

LUNGHEZZA 28,2 KM

DISLIVELLO SALITA 1.087 M DISCESA 329 M

DIFFICOLTÀ IMPEGNATIVA

Oggi comincia il Cammino, in salita: la prima sfida sarà infatti superare i Pirenei. L’itinerario presenta subito due alternative: la Via alta (non accessibile) e la Via bassa (che seguiremo noi), solitaria e asfaltata ma non per questo meno bella. Risparmiamo, però, il fiato perché la parte più difficile ci attenderà tra Valcarlos e il passo di Ibañeta, da dove Roncisvalle apparirà come un premio. Partiamo dunque da Saint Jean, dall’Accueil des pèlerins, con il primo timbro sulla credenziale, e usciamo dal paese (su sampietrini) andando dritto sino alla Porte d’Espagne. Poco dopo, sulla sinistra troviamo le indicazioni per la Via alta, ma noi andiamo a destra [1.1] fino a incontrare la nazionale D-933, che seguiamo per circa 700 m per poi svoltare a destra. Per circa 5 km (seppur con saliscendi a volte impegnativi) ci immergiamo nella natura pirenaica. Giunti presso l’area commerciale di Arnéguy [1.2] abbandoniamo le frecce e proseguiamo sulla D-933, facendo molta attenzione in quanto è priva di banchina di sicurezza e inizia rapidamente a salire con tornanti ciechi. Da qui al passo di Ibañeta dobbiamo dar fondo alle nostre energie; raggiunto il passo si scende poi velocemente fino a Roncisvalle.

OSPITALITÀ ACCESSIBILE

SAINT-JEAN-PIED-DE-PORT Auberge municipale Accueil des pèlerins | Gîte d’étape Zazpiak-Bat | Auberge privato Le Chemin vers l’Etoile (marciapiede basso e stretto all’ingresso, due scalini a breve distanza dopo la porta). RONCISVALLE Albergue parrocchiale Roncesvalles | Hotel Roncesvalles.

Indice

3 Prefazione

5 Prologo

Parte I: Com’è cominciato tutto

8 Alcune risposte e tante domande

17 Telefonate

23 Ti porto io

Parte II: I preparativi

30 Sei settimane di ferie

36 Più pronti che mai

49 Partenza

Parte III: Cammino di Santiago

64 Chissà se…

82 Cieca fiducia

92 Meglio misurare due volte che tagliare male

103 Paddy Wagon e Skeez

108 Prendere il toro per le corna

116 Imprevisti

128 Le storie che raccontiamo a noi stessi

138 Il ridicolo e l’assurdo

146 Meritato riposo

159 Cercarsi

167 Conto alla rovescia

176 Come abbiamo fatto ad avere tanta fortuna?

183 Non siamo soli qui

192 Orgoglio e felicità

202 Chi credi di essere?

216 Tu non spingi

232 Generosità

240 Una nuova splendida alba

248 Ringraziamenti

253 Gli autori

LA GUIDA

257 Il Cammino di Santiago

262 Il Cammino accessibile

267 Prima di partire

272 In cammino

277 Le tappe

Pubblicato originariamente in inglese negli Stati Uniti con il titolo: I’ll Push You, di Patrick Gray

Copyright © 2017 di Patrick Gray

Edizione italiana © 2025 Cart’armata Edizioni srl autorizzata da Tyndale House Publishers.

All rights reserved. Terre di mezzo Editore via Calatafimi 10, 20122 Milano Tel. 02-83.24.24.26 e-mail editore@terre.it terre.it

Direzione editoriale: Miriam Giovanzana Coordinamento editoriale: Isabella Pavan Autore della sezione “La guida” (pagg. 255-309): Pietro Scidurlo

Copertina: Maria Feck/laif

Stampato nel mese di giugno 2025 Rubbettino Print, Soveria Mannelli (CZ)

Questo prodotto è composto da materiale che proviene da foreste ben gestite certificate FSC® e da altre fonti controllate.

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