Parabole della misericordia

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GESÙ MISERICORDIA DEL PADRE PARABOLE DELLA MISERICORDIA RITIRO AGC APRILE 2016 Tutta la vita di Gesù fu misericordia: la sua incarnazione, passione, morte, risurrezione, i suoi gesti, le sue azioni, i suoi atteggiamenti. Ma anche tutte le sue parole furono un vangelo di misericordia. Vogliamo riflettere sulle parabole che vengono per eccellenza definite le parabole della misericordia e che troviamo nel capitolo 15 del Vangelo di Luca. Sono tre parabole che hanno in comune la nota della misericordia divina verso i peccatori. ALLA BASE DELLE TRE PARABOLE Gesù era sempre accogliente verso tutti specialmente verso i peccatori e gli emarginati della società di quel tempo. Questo suo comportamento era però scandaloso e provocava aspre critiche da parte dei suoi avversari. I farisei e gli scribi mormoravano: “Costui riceve i peccatori e mangia con loro”. Si tratta di un comportamento che spesso irrita “i giusti” e non solo quelli del tempo di Gesù, ma anche i cristiani successivi. Secondo la tradizione ebraica, da un peccatore occorreva tenere una distanza di almeno due metri, bisognava evitarli, non era consentito contattarli, nemmeno per invitarli alla conversione e bisognava pregare Dio che li distruggesse (A.Mggi). Se poi un peccatore voleva proprio convertirsi doveva farlo a prezzo di dure penitenze, di voti e di osservanze. Doveva in qualche modo pagare per le colpe commesse. I farisei erano preoccupati che Dio non fosse abbastanza severo e inflessibile nei confronti degli empi. Il comportamento misericordioso di Gesù era quindi inaccettabile perché Egli annuncia un Dio Padre tutto contento, che altro non anela che il ritorno dei suoi figli perduti. Da qui il disprezzo nei confronti di Gesù: evitano persino di nominarlo: “Costui…(Lc 15,2). Occorre comunque osservare che non era tanto Gesù che si avvicinava ai peccatori ma erano i peccatori e i pubblicani che si avvicinavano a Lui attratti dalla sua rettitudine, linearità, unite a bontà e misericordia. Tante volte noi che siamo i discepoli di Gesù invece di attirare a noi i peccatori, li abbiamo respinti con la nostra severità e questi si sono chiusi nella loro miseria invece di tornare al Signore. 1


Non solo Gesù accoglie i peccatori ma addirittura mangia con loro. Una cosa inaudita. Per comprendere questo allarme da parte delle persone pie, bisogna rifarsi alla cultura ebraica nella quale il pranzo veniva condiviso mangiando tutti in un unico grande piatto. Ognuno metteva la mano nel piatto comune per prendere il cibo. Chiaro che se uno dei commensali fosse stato infetto, tutto il piatto con quanto c’era dentro si infettava e tutti quanti contraevano questa infezione. Se uno dei commensali era un peccatore la sua impurità contagiava tutti gli altri. Ecco spiegato perché denunciano che Gesù mangia con i peccatori. Anche Gesù è impuro perché contagiato, mangiando con i peccatori. Quello che fa Gesù ci fa comprendere che mentre in tutte le religioni gli uomini offrono sacrifici di purificazione per essere accolti dal loro Dio, Gesù invece non chiede né sacrifici né penitenze ma solo che noi incontriamo e accogliamo Lui: sarà poi Lui a purificarci, a santificarci, a metterci in relazione intima con Lui e con il Padre. Papa Francesco ha detto che le tre parabole della misericordia parlano della gioia di Dio. Dio è gioioso. Ma qual è la gioia di Dio? La gioia di Dio è perdonare. E’ la gioia di un pastore che ritrova la sua pecorella, la gioia di una donna che ritrova la sua moneta, è la gioia di un padre che riaccoglie a casa il figlio che si era perduto, era come morto ed è tornato in vita ed è tornato a casa. E aggiunge Papa Francesco: “Qui c’è tutto il Vangelo, c’è tutto il Cristianesimo”. Tutte e tre le parabole infatti sottolineano la gioia di Dio per la conversione del peccatore. L’attenzione delle parabole non è sul pentimento dell’uomo ma sulla gioia di Dio. Non viene più presentato Dio severo e accigliato che attende di punire i cattivi, ma un Dio allegro e festante perché vuole riabbracciare i suoi figli perduti. Il Vangelo riguarda non i cammini di pentimento dell’uomo ma la novità di un Dio che cerca il peccatore, che vuole riportarlo a sé, che esulta per la relazione riallacciata con Lui. LE TRE PARABOLE In genere si considerano tre parabole distinte: la pecorella smarrita, la moneta perduta e infine la cosiddetta parabola del figliol prodigo. In realtà a ben analizzare il testo ci troviamo di fronte a solo due parabole: una quella del ritrovamento di ciò che era perduto, declinata prima al maschile (il pastore e la pecora) e poi al femminile (la donna e la moneta), l’altra del padre misericordioso. Infatti nel Vangelo si legge: “Gesù disse loro questa parabola a cui segue l’unica narrazione del ritrovamento prima della pecora da parte del pastore e poi della dracma da parte della donna; mentre il racconto del figliol prodigo è introdotto da un inizio autonomo: “E diceva…” (Lc 15,11). IL RITROVAMENTO DELLA PECORA E DELLA MONETA PERDUTA 2


“Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova? Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta. Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione”. “O quale donna, se ha dieci dramme e ne perde una, non accende la lucerna e spazza la casa e cerca attentamente finché non la ritrova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, dicendo: Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la dramma che avevo perduta. Così, vi dico, c'è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte”». Pastore e gregge sono un tema classico dell’Antico Testamento e il ritrovamento della pecora smarrita è un tratto abituale della salvezza. Dio è il pastore buono che si oppone ai capi del popolo che sono cattivi pastori: cercano e difendono se stessi anziché servire il gregge e avere compassione di coloro che si smarriscono. Già nei testi rabbinici si raccontava una parabola di questo tipo. Il pastore va sì alla ricerca della pecora smarrita, ma una volta ritrovata la bastona e le spezza una zampa per impedirle di fuggire ancora. Povera pecora con simili pastori! San Luca invece narra la gioia di Dio nel ritrovare la pecora e nel portarla in spalla dopo averla ritrovata, ma senza bastonarla. Una pecora in spalla ha un certo peso, non è un agnellino, poi si tratta di un animale ferito, sporco, sicuramente irrequieto. Il pastore se la carica sulle spalle con grande gioia e va a casa, con gli amici, a far festa. L’azione posta al centro della parabola lucana è questa gioia del pastore che cerca e recupera la pecora. Questa gioia della ricerca andata a buon segno, questa gioia grande è la gioia di Dio di poter perdonare l’uomo, ogni uomo singolarmente. Quando Gesù racconta questa parabola e dice: “Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova?”, Gesù si aspettava che gli astanti gli rispondessero: “Certo, anche noi avremmo fatto così”? Io credo che in realtà pochi si sarebbero comportati come il pastore della parabola. Perché rischiare le novantanove pecore per andare alla ricerca di una sola? Per di più questa pecora è testarda, disobbediente, desiderosa di autonomia o tentata da chissà quali altri pascoli. Come fa ad abbandonare nel deserto le novantanove pecore che invece erano obbedienti, remissive, contente di stare con lui? Alcuni commentatori dicono che sicuramente il pastore per andare a cercare la pecora sperduta, avrà lasciato le altre in un ovile sicuro, magari affidandole ad un altro guardiano, ma il testo parla di vero abbandono: sui monti per Matteo e nel deserto per Luca, esposte cioè alla voracità dei lupi e dei leoni o all’assalto di ladri e briganti.

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Secondo la logica umana, quelle pecore avrebbero avuto tutte le ragioni per lamentarsi. Anche il finale della parabola è al di fuori del nostro modo di pensare: “Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione”. Come può Dio essere più contento di un solo peccatore che ritorna a Lui che di novantanove giusti che ogni giorno gli obbediscono con fedeltà, magari a prezzo di grandi sforzi e sacrifici? Chiaramente qui si vuole sottolineare che ciascuno di noi è preziosissimo agli occhi di Dio: ciascuno di noi è la gioia di Dio. Il messaggio della parabola è dunque quello dell’esclusività di ciascuno di noi… nessuno deve sentirsi escluso dall’attenzione di Dio… Dio non si rassegna alla morte dei suoi figli per quanto peccatori, per quanto ribelli essi possano essere. “Così il Padre vostro celeste non vuole che si perda neanche uno solo di questi piccoli. Ciascuno di noi è unico per Dio, è oggetto particolare del suo amore. Dio ama ciascuno di noi come se non esistesse nessun altro, e continuamente ci cerca, ci conquista, ci seduce. Per Dio non è possibile che qualcuno possa essere lontano dal suo amore; Dio non tollera che qualcuno possa essere lontano dalla sua misericordia. Dio non si rassegna all’idea che qualcuno possa andare perduto magari pensando che tanto ne ha altri con sé. La parabola ci rivela anche che noi siamo continuamente cercati da Dio. Dio nella Bibbia è sempre colui che fa il primo passo alla ricerca dell’uomo. Adamo ed Eva dopo il peccato si nascondono ma Dio li viene a cercare (Genesi 3,8-9). E’ Dio che chiama Abramo, che si rivela a Mosè. E’ Dio l’amante che nel Cantico dei cantici cerca l’amata. E’ Dio che ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi ed immacolati di fronte a Lui nella carità” (Ef. 1,4). E’ Dio che sta alla nostra porta e bussa: “Ecco io sto alla porta e busso: se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io entrerò da lui e cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20). Quello di Dio è un amore senza riserve, che ci precede, ci sostiene e ci chiama lungo il cammino della vita e ha la sua radice nell’assoluta gratuità di Dio… In ogni tempo, alla sorgente della chiamata divina c’è l’iniziativa dell’amore infinito di Dio che si manifesta pienamente in Gesù Cristo. Quanto vi dicevo in un precedente ritiro, questo buon pastore che è il Signore rispetta talmente la nostra libertà che una volta riportatici all’ovile, non chiude il buco nel recinto dal quale ogni tanto qualche pecora scappa, preferendo doverci venire a ricercare ogni volta, piuttosto che toglierci la libertà di fare anche scelte sbagliate e quindi di allontanarci da Lui. Davanti a quest’amore infinito di Dio possiamo fare nostra questa preghiera: “Signore, tante volte, come la pecorella, mi sono perduto anch’io. Mi sono ritrovato a vagare per il deserto, ma con sempre una profonda nostalgia di te. Non sarebbe stato facile ritrovare la strada dell’ovile se tu non fossi venuto a cercarmi. Quando ti ho visto arrivare ho tirato un sospiro di sollievo e ho provato tanta gioia. Ti ringrazio di essere venuto a cercarmi, Signore. Ti ringrazio perché non ti stanchi mai delle mie fughe e dei miei tentativi di voler fare a meno di te 4


nonostante che senza di te io sia tanto triste. Non permettere più, Signore, che io mi allontani da te ma se qualche volta dovesse succedermi ancora, non stancarti di venirmi a cercare e di riportarmi all’ovile del tuo amore e della tua gioia”. LA MONETA PERDUTA Il secondo racconto, quello della moneta perduta e ritrovata ricalca le tematiche di quella della pecora smarrita, ma con alcune sottolineature specifiche. Innanzitutto la protagonista è una povera donna e quella moneta era quanto le serviva per vivere per diversi giorni. Mentre la prima parabola parlava di un ricco possidente che aveva cento pecore. Quella donna, proprio a motivo della sua povertà è particolarmente interessata e appassionata alla ricerca. A volte sono i poveri i migliori ricercatori del Regno di Dio. Ma a parte questo, questa parabola si differenzia dall’altra per un particolare degno di nota: la pecora smarrita se ne va lontano dalle altre novantanove. In altre parole, si perde andando fuori. La moneta si perde dentro casa. L’insegnamento è abbastanza chiaro: ci si può perdere anche stando dentro la casa di Dio, come sta accadendo ai farisei e agli scribi che sono lontani dai sentimenti di Cristo. In ambedue le parabole l’iniziativa della ricerca è del pastore e della casalinga che si mettono alla ricerca e della pecora e della moneta. Normalmente lo stile di Dio è di attendere che sia lo smarrito a ritornare, avviene così infatti nella parabola del figliol prodigo o del padre misericordioso che dir si voglia. Qui no, l’iniziativa è di Dio. E’ lui che cerca l’uomo, che magari crea le condizioni perché questo ritorno avvenga, che dispone molte occasioni di conversione nella vita di ciascuno. In ogni caso, la cura con cui la donna cerca la moneta, a cui ella attribuisce evidentemente un grande valore, è per Gesù l’immagine dell’agire di Dio, geloso e premuroso custode del valore che riveste ogni vita. LA PARABOLA DEL PADRE MISERICORDIOSO La parabola del “figliol prodigo” o meglio, come viene chiamata, del “padre misericordioso” è il cuore del Vangelo di Luca perché costituisce il nucleo centrale del messaggio di Gesù e della predicazione di San Paolo. Questa parabola è stata giustamente definita “la perla delle parabole”. Luca per prospettarci che anche noi siamo parte della predilezione di Dio, qualunque sia lo stato della nostra condizione, ci ha regalato il capitolo 15 del suo Vangelo, la perla del Nuovo Testamento, il monumento al “Dio giusto perché ama” che possiamo definire come “il Vangelo del Vangelo”. Molto spesso questa parabola è stata letta come un cammino di conversione indicato ai discepoli. I realtà al suo centro c’è la teologia di San Paolo, di cui Luca era collaboratore e medico, sulla giustificazione per la sola grazia 5


di Dio e non per le opere della Legge, e la difficoltà da parte della componente giudeo-cristiana della prima Chiesa di accettare che fosse annunciata ai pagani una salvezza che non passava più dall’osservanza della legge di Israele ma solo dall’adesione a Gesù. Fu questa una polemica che scosse molto la prima comunità cristiana, e che fu al centro del lungo e acceso contradditorio tra i giudei convertiti al cristianesimo, che avevano come riferimento Pietro e Giacomo, e che ritenevano indispensabili per tutti la circoncisione e la pratica delle altre opere della legge e i pagani convertiti a Gesù, che facevano capo a Paolo, che invece sostenevano che ormai la salvezza giungeva a tutti per pura grazia tramite Gesù Cristo. Si giunse al famoso compromesso del Concilio di Gerusalemme, che in pratica accettava le tesi di San Paolo, ma che chiedeva ai pagani di rispettare almeno alcune norme della tradizione ebraica per non dare scandalo alla componente ebraica della Chiesa primitiva. Comunque fu un processo lento, laborioso e non certo indolore quello di passare da una religiosità fatta di osservanza, prescrizioni e decreti, ad una fede in un Dio Misericordioso che gratuitamente salva tutti, ebrei e pagani, buoni e cattivi, giusti e peccatori. E’ questa la rivelazione principale che ci viene regalata da questa parabola. Ma veniamo alla parabola. Non la stiamo a rileggere perché sicuramente la conosciamo tutti. Analizziamone il contenuto. Il figlio minore, secondo il diritto ebraico, finché il padre è in vita può disporre solo dell’usufrutto delle proprietà paterne, e non del loro possesso. La Scrittura proibiva di dare ai figli l’eredità prima della propria morte (Sir 33,21 22.24) Chiedendo che gli dia la parte di patrimonio che gli spetta, il figlio minore auspica la morte del padre, ne richiede la vita. Il padre poteva rifiutare la richiesta del figlio, invece, senza discutere, gli dà metà patrimonio. Gesù ci vuol far notare la cattiveria e l’avidità di questo ragazzo: rinuncia al padre per averne le ricchezze. A lui interessa solo il denaro e non la vita del padre. Abbiamo avuto degli esempi anche in questi ultimi anni: ci sono stati dei figli che hanno ucciso i genitori per avere subito l’eredità e poi invece si sono ritrovati in galera senza genitori e senza soldi. Il ragazzo quindi emigrò in un paese lontano. Questa espressione “ paese lontano” indica che il figlio non abbandona soltanto il padre, ma anche la religione dei suoi padri, va in un mondo di pagani, in un mondo di idolatri: non abbandona soltanto il padre ma abbandona anche il suo Dio. Sconcertante è l’atteggiamento del padre. La sua sembrerebbe più incoscienza che bontà. Egli rifiuta persino di indagare sui progetti e le intenzioni di quel figlio. La sua potrebbe sembrare debolezza e invece è solo amore. Ci si potrebbe comunque chiedere con che sentimenti il padre salutasse il figlio, se abbia cercato di convincerlo a ripensarci, oppure se, rassegnato, abbia consapevolmente ceduto, nella segreta speranza di un futuro suo ravvedimento. In ogni caso, forse noi che non abbiamo gli stessi sentimenti del padre della parabola, 6


gli avremmo detto: “Va bene, te ne vai! Ma ricordati che per te ormai io non esisto più! Guai a te se un giorno cercherai di tornare! Vedi quella porta? Se esci da quella porta, in casa non metterai più piede”. Il padre della parabola invece non fa nessuna minaccia, non lancia nessuna scomunica: gli lascia aperta la porta del suo amore. Non si può non sottolineare che è sicuramente questa bontà che aprirà alla fine l’animo del figlio alla fiducia, fino al desiderio del ritorno. Davanti ad un padre severo ed irascibile, non gli sarebbe stato facile ritornare da lui dopo la triste esperienza della lontananza. Riprendiamo il racconto. Quando ebbe speso tutto, nel paese ove il figlio si era recato, venne una grande carestia. Finché aveva i soldi aveva anche tanti amici, finiti i soldi si è trovato solo e senza più niente, nemmeno da mangiare. La fame lo costringe a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione diventando quindi anche lui straniero e pagano. In terra di Israele era proibito allevare maiali, quindi si trova in terra pagana. Inoltre da padrone, diventa servo e per di più va a finire a pascolare i porci, gli animali immondi per eccellenza e da cui contrae l’impurità cultuale: è sceso quindi nell’abisso della depravazione, è diventato bestia tra le bestie. Il contatto con i maiali lo aveva reso impuro eliminando quindi ogni rapporto con Dio. Nel momento massimo della sofferenza, quando ha davvero toccato il fondo, allora rientra in se stesso e si ricorda che nella casa del padre, anche i servi stavano meglio. Talvolta quando si è commentato questa parabola si è preso quel ragazzo come un esempio di pentimento, di conversione. Pare proprio che non sia così. Quel ragazzo, dall’inizio alla fine, ragiona sempre e soltanto in termini economici. Il suo ragionamento e la sua decisione di ritornare a casa non sono dettati dal rimorso per il dolore causato al proprio padre ma dalla fame. Non gli manca il padre, ma il pane e dice: secondo la legge non posso essere più trattato come un figlio perché ho perso ogni diritto ma almeno mio padre mi accoglierà come un operaio. Ha preparato il discorsetto da fare al padre: “Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te, non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Fa di me come uno dei tuoi salariati” e parte. “Era ancora lontano quando il padre lo vide” dice Gesù nella sua parabola. Occorre comprendere bene quello che fa quel padre perché è quello l’atteggiamento di Dio nei confronti dei peccatori. Quel padre se vide il figlio quando questi era ancora lontano, vuol dire che egli è rimasto sempre nella ricerca, nell’attesa del figlio. Ogni giorno egli scrutava l’orizzonte nella speranza di vederlo comparire. Ha rispettato la sua libertà, ma non per questo ha rinunciato al figlio. “Lo vide e ne ebbe compassione”. Quando vede ritornare il figlio, non sente ira e non sta lì fermo ad aspettare che il figlio lo raggiunga, gli si inginocchi davanti e gli chieda perdono. 7


Il padre fa una cosa inaudita nel mondo orientale: gli corre incontro. Nel mondo orientale, dove i ritmi del tempo sono diversi dai nostri, la fretta è considerata un gesto di grande disonore, di maleducazione e una persona sposata, un padre di famiglia non corre mai. Se una persona corre significa che perde la propria reputazione e viene poi guardato in malo modo. Qui invece il padre si mette a correre. Per il padre, restituire vita e dignità al figlio disonorato, è più importante del proprio onore. Per restituire subito l’onore al figlio che l’aveva perso, il padre accetta di perdere il suo. Il padre quindi gli corre incontro. Chi non conosce il seguito della parabola si aspetterebbe che il padre come il minimo lo afferrasse per il collo e lo strozzasse. Invece no, gli si gettò al collo e lo baciò. Il bacio nel linguaggio biblico significa un perdono che è già concesso. Quindi il figlio non trova un giudice che lo condanna, ma un padre che con il suo amore lo rigenera. Il padre non rimprovera il figlio, ma lo bacia, il perdono è già stato concesso. Il padre non gli chiede: “Dove sei stato, cosa hai fatto in questi anni lontano da me, come ti sei comportato, ti sei pentito? Il padre lo bacia, cioè lo perdona, senza nemmeno sapere cosa ha fatto e perché è ritornato. Al padre interessa il figlio, non il suo passato colpevole e nemmeno l’elenco dettagliato delle sue colpe. Il padre non gli ha detto: ‘Sei un fallito, guarda cosa hai combinato! Hai capito ora che sei stato un disgraziato?”. A quel punto il padre fa ancora di più. Quel figlio è stato a pascolare i porci, è un immondo da cui stare lontano. Invece il padre gli si getta al collo . Toccando il figlio impuro, l’impurità del figlio passa al padre. Così, come prima ha perso l’onore per rendere l’onore al figlio, adesso accetta di essere impuro per rendere puro il proprio figlio. Il figlio comincia a recitare il discorsetto che aveva preparato: “padre, ho peccato contro il cielo e contro di te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Il padre non lo lascia finire e dice ai servi: “Presto portate la veste migliore e rivestitelo”. La veste era una onorificenza che indicava il pieno ripristino nella dignità che aveva prima. Questo ragazzo che ha perso tutto, che ha perso l’onore, la reputazione, il rapporto con Dio, il primo gesto del padre è quello di ripristinarlo nella dignità totale che aveva prima, quindi senza alcuna garanzia. Il padre non lo minaccia, non lo ammonisce, ma addirittura lo premia. Cioè gli ridà la stessa dignità che aveva prima. Poi gli mette l’anello al dito. L’anello non era un semplice monile ma era la consegna del sigillo della famiglia. Possedere l’anello significava essere a capo di tutta l’amministrazione della casa. Con esso poteva compiere tutti gli atti giuridici e amministrativi. L’anello era un po’ come la nostra carta di credito, il libretto degli assegni della casa. Ebbene questo figlio incapace, che in breve tempo ha dissipato tutto il suo patrimonio, il padre lo rimette nella dignità di prima e addirittura gli dà l’anello, cioè lo mette a capo dell’amministrazione della casa. Tutto questo senza alcuna garanzia. Infatti la parabola non dice se il giorno dopo il figlio appena ritornato scappi di nuovo, questa volta non con metà del patrimonio, ma con tutti i 8


beni del padre, di cui ormai è stato fatto amministratore delegato: ci parla della stupenda incoscienza di Dio che ci dà sempre fiducia, qualunque siano i nostri peccati. Il padre non solo ridà fiducia al figlio, ma gliene dimostra una molto, molto più grande di prima. Gesù vuol farci capire che l’amore di Dio viene concesso anticipatamente e gratuitamente senza nessuna garanzia. Anche i sandali rimessi ai piedi del figlio ritornato hanno diversi significati. Ci si toglieva i sandali nel momento del dolore e li si rimetteva quando tornava la gioia. I sandali indicavano il rango, perché solo i padroni li portavano, mentre i servi giravano scalzi. Indicavano anche il possesso: il sandalo è il simbolo di proprietà perché calpesta la terra; chi mette il suo sandalo su un terreno ne deve essere considerato il padrone; ecco perché nel libro Rut, chi aveva il diritto di riscatto disse a Booz: “Acquista tu il mio diritto di riscatto”; si tolse il sandalo e glielo diede. Inoltre chi disobbediva alla legge del levirato, rifiutando di dare discendenza al fratello morto, veniva privato dei sandali e la famiglia di lui veniva chiamata in Israele: “la famiglia dello scalzato”. Quindi il figliol prodigo viene ora ufficialmente proclamato Signore, Padrone, e colui che darà una discendenza al padre. Questi gesti del padre sono meravigliosi e stupefacenti: Nel caso del figlio prodigo il perdono on comporta il semplice ripristino della situazione precedente. In luogo del consueto rapporto di filiazione naturale, subentra un nuovo genere di filiazione in base ad un gesto di adozione formale. Colui che è ritornato, dunque, benché non possedesse più nulla, acquista nella casa paterna un posto che prima non aveva, e questo non per diritto, ma per grazia. Il figlio prodigo viene così presentato a tutti come l’erede ufficiale, non per diritto di nascita, ma per una scelta precisa da parte del padre. Il padre fa ammazzare il vitello grasso e ordina di fare festa. Vuole dire che, mangiando tutti insieme, quel figlio non sarà un servo nella casa paterna ma viene pienamente reintegrato nella vita famigliare. E la motivazione è questa: “perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. Quindi la prima cosa che Dio fa nei confronti del peccatore è quello di comunicargli vita e poi fare festa. L’incontro dell’uomo peccatore con Dio non è mai quello sempre avvilente dell’elenco delle proprie infedeltà e delle proprie colpe, ma quello sempre arricchente ed esaltante della grandezza dell’amore di Dio IL FIGLIO MAGGIORE Il figlio maggiore che non aveva fatto nulla per impedire al fratello minore di andarsene di casa, ma che magari era stato pure contento, quando questi ritorna, si trovava nei campi. Tornato a casa udì la musica e le danze e si arrabbiò. Davanti a quanto stava avvenendo la sua reazione è comprensibile. Egli non solo è turbato per la festa che si sta preparando per il ritorno del fratello che ha sperperato metà del patrimonio paterno, ma addirittura vede il restante capitale ora ridiviso in 9


due, e che a lui, sempre ligio al lavoro e all’obbedienza nella casa paterna, toccherà ormai solo un quarto dei beni che il padre aveva all’inizio. Il figlio maggiore si sente profondamente leso nei suoi diritti: se facesse ricorso a qualunque tribunale contro questa abnorme ripartizione ereditaria, vincerebbe sicuramente la causa. Ma la logica del padre non è quella della giustizia umana: è quella dell’amore, del perdono incondizionato, della grazia assoluta. E’ la follia di chi, come dirà Paolo descrivendo l’Amore, “ tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta”(1 Cor 13,7). Il figlio maggiore non riesce ad accettare questa dimensione: non nomina mai il fratello come tale, ma spregiativamente lo indica come “questo tuo figlio”, mentre il padre cerca di riportarlo a rapporti di fraternità: “questo tuo fratello”. Inoltre mentre il figlio minore è entrato nella casa paterna, il maggiore ne resta fuori: “non voleva entrare”. Ha detto Papa Francesco: “C’è però un pericolo, ed è quello di presupporre che noi siamo giusti, e possiamo giudicare gli altri. Giudichiamo anche Dio, perché pensiamo che dovrebbe castigare i peccatori, condannarli a morte, invece di perdonare. Quando facciamo così rischiamo di rimanere fuori dalla casa del Padre! Ci si comporta come quel fratello maggiore della parabola, che invece di essere contento perché suo fratello è ritornato, si arrabbia con il padre che lo ha accolto e fa festa”. Ma il Padre è modello di Amore anche verso il figlio perbenista e giustizialista: “Il padre allora uscì a pregarlo”. Fa lui il primo passo, uscendogli incontro, cercando cioè di dialogare con la sua rigida logica legalistica. Inoltre egli che non aveva fatto nessun discorso al figlio minore quando questi se ne voleva andare, ora supplica, scongiura il primogenito a recedere dal suo irrigidimento. Il figlio rimprovera aspramente suo padre: “Ecco io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando e non mi hai mai dato un capretto per fare festa con i miei amici”. L’Evangelista qui fa comprendere il patetico e il ridicolo, tipico delle persone religiose: l’obbedienza alla legge, sostenuta proprio dagli scribi e da questi farisei, rende le persone immature, infantili e incapaci di autonomia. Hanno sempre bisogno di un padre a cui riferirsi, per sapere che cosa devono fare e come lo devono fare, e per attendersi una ricompensa, ovvero allontanare da loro responsabilità derivanti dai loro comportamenti sbagliati. Questo è proprio delle persone infantili. Gesù non ha bisogno di persone infantili, ha bisogno di persone mature. Si noti, poi, come anche per il fratello maggiore la questione non sia la relazione d’amore con il padre, ma un problema di “mangiare”. Il fratello prodigo decide di tornare perché “muore di fame”, ma anche il fratello perbenista protesta perché non ha potuto mangiare un capretto con gli amici. Entrambi hanno una mentalità da servi e non da figli. Spesso, invece di una fede che sia profonda 10


relazione amorosa con Dio, preferiamo una religione di tipo mercantile, in cui si pensa di ottenere favori e grazie dalla divinità in cambio di prestazioni cultuali. Inoltre il figlio maggiore accusa il fratello di “aver divorato gli averi con le prostitute”: ma come faceva a saperlo? Chi gliel’ha detto? Non se ne era mai parlato! E’ tipico di coloro che si ritengono giusti l’accusare gli altri di ogni nefandezza. Povero figlio maggiore, non ha proprio capito nulla! Non si è mai accorto che quella era casa sua e che in casa aveva un padre. Si è sentito sempre estraneo, servo, e non ha mai capito l’amore. E poi egli voleva un capretto non per far festa con tutti ma solo con gli amici. Ma Dio è Padre di tutti e vuole che noi facciamo festa insieme. Siamo qui al cuore della parabola: Dio ci ha donato tutto, e ci ha donato anche se stesso: questa consapevolezza deve essere la fonte della nostra gioia e della nostra misericordia. Il figlio maggiore non aveva mai capito che essendo figlio ogni cosa del Padre era anche sua. E’ questa la tragedia di tante persone che vivendo sulla terra e godendo di tutti i suoi beni, diffidano di un Dio creatore, non vogliono ammetterlo; oppure vedono in lui un giudice o un avversario, ma non un Padre e pertanto non sanno che il mondo è nostro, di tutti, e perciò anche mio. Ma non solo tutto il mondo è mio: Dio è tutto mio!!! Ma il “mio” va condiviso con “tutti”. Luca ci lascia in sospeso il finale della parabola. Non ci dice se il fratello maggiore alla fine si sia convinto, sia entrato anche lui in casa, abbia fatto pace con il fratello ritornato e abbia partecipato alla festa, o se sia rimasto sdegnosamente fuori, magari rompendo definitivamente in ponti con la casa paterna e, ferito dall’ingiustizia subita, se ne sia andato dai magistrati a denunciare il padre. Luca non ci suggerisce nessun epilogo della storia. Forse perché vuole ricordare a tutti i suoi ascoltatori che ciascuno di noi può essere sia il figlio dissoluto o peccatore che il fratello giustizialista che non lascia spazio alla misericordia del Padre. Forse in ciascuno di noi ci sono tutte e due queste dimensioni: siamo poveri peccatori, schiacciati dalle nostre colpe, ma poi sempre pronti a giudicare e condannare gli altri con dura intransigenza. Sta a ciascuno di noi affidarsi alla misericordia di Dio ed entrare con le lacrime agli occhi nella sua casa, godendo della sua infinita misericordia che a tutti si estende e che non abbandona nessuno, o chiuderci nella torre d’avorio dei nostri presunti meriti, rimanendo in fondo convinti che di buoni come noi non c’è nessuno… Il primo passo di ogni conversione è proprio il rivedere l’idea che ci facciamo di Dio: non è un controllare esoso e vendicativo, ma una casa accogliente dove si fa festa con musica e danze. Se uno si convince di questo capirà anche che per arrivare vale la pena di fare qualsiasi cosa. E che è una meraviglia che ci si arrivi in tanti, ci si arrivi tutti. Un Padre che lascia andare il figlio anche se sa che si farà male. Un Padre che scruta l’orizzonte ogni giorno. Un Padre che corre incontro al figlio, cosa poco dignitosa nel rigido mondo ebraico e che si “appende” al collo del figlio. Un Padre che non rinfaccia nulla, né chiede ragione dei soldi spesi, che non accusa, che abbraccia, che smorza le scuse e non le vuole, che restituisce dignità, che fa festa. Un Padre ingiusto, esagerato che ama un figlio che gli augurava la morte, che vaneggiava nel delirio falsificando il diritto, un Padre che sa che questo figlio ancora non è 11


guarito dentro ma pazienta e fa festa. Un Padre che esce a pregare lo stizzito fratello maggiore, che tenta di giustificarsi, di spiegare le sue buone ragioni. Vedo questo Padre che accetta la libertà dei figli, che pazienta, che indica, che stimola. Lo vedo e impallidisco. Dunque: Dio è così? Fino a qui? Così tanto? Sì, Dio è questo e non altro. Dio è così e non diversamente. Ed è questo il Dio da raccontare nuovamente. Non quello dei loschi traffici, dei giochi di potere. Perché di prodigo esagerato qui c’è solo il Padre (Paolo Curtaz). CONCLUDIAMO CON QUANTO CI HA DETTO PAPA FRANCESCO. “La misericordia è la vera forza che può salvare l’uomo e il mondo dal cancro che è il peccato, il male morale, il male spirituale. Solo l’amore riempie i vuoti, le voragini negative che il male apre nel cuore e nella storia. Solo l’amore può fare questo, e questa è la gioia di Dio! Gesù è misericordia, Gesù è tutto amore: è Dio fatto uomo. Ognuno di noi, ognuno di noi, è quella pecora smarrita, quella moneta perduta; ognuno di noi è quel figlio che ha sciupato la propria libertà seguendo idoli falsi, miraggi di felicità, e ha perso tutto. Ma Dio non ci dimentica, il Padre non ci abbandona mai. E’ un Padre paziente, ci aspetta sempre! Rispetta la nostra libertà, ma rimane sempre fedele. E quando ritorniamo a Lui, ci accoglie come figli, nella sua casa, perché non smette mai, neppure per un momento, di aspettarci, con amore. E il suo cuore è in festa per ogni figlio che ritorna. E’ in festa perché è gioia” (Angelus 15 settembre 2013). Il problema, ha osservato, «È che noi presumiamo di essere giusti, e giudichiamo gli altri. Giudichiamo anche Dio, perché pensiamo che dovrebbe castigare i peccatori, condannarli a morte, invece di perdonare. Allora sì che rischiamo di rimanere fuori dalla casa del Padre! Se nel nostro cuore non c’è la misericordia non siamo in comunione con Dio, anche se osserviamo tutti i precetti, perché è l’amore che salva, non la sola pratica dei precetti». «Il Maligno – ha detto il Papa – è furbo, e ci illude che con la nostra giustizia umana possiamo salvarci e salvare il mondo. In realtà, solo la giustizia di Dio ci può salvare! E la giustizia di Dio si è rivelata nella Croce: la Croce è il giudizio di Dio su tutti noi e su questo mondo. Ma come ci giudica Dio? Dando la vita per noi! Ecco l’atto supremo di giustizia che ha sconfitto una volta per tutte il Principe di questo mondo». Atto di giustizia, ha osservato, che è anche «atto supremo di misericordia».

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