S.A.M: #6 Spirito Autoctono Magazine

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Uno spettacolo unico di tradizioni, bellezza e stile racchiuso in ogni calice di Prosecco DOC. Ecco perché Prosecco DOC è un vino speciale che puoi trovare solo in bottiglia. E proveniente dal territorio unico delle nove province di Veneto e Friuli-Venezia Giulia: la Dreamland. Il mondo del Prosecco DOC ti dà il benvenuto su www.prosecco.wine

LA FOTOGRAFA

VERONICA AMERUOSO

Veronica Ameruoso è una fotografa professionista di base a Roma. È specializzata nel settore del food and beverage, dove ha maturato oltre 5 anni di esperienza, collabora con numerosi ristoranti, strutture alberghiere e marchi di spirits.

Fa i suoi esordi come fotografa sportiva e di scena per il teatro, versatile, lavora in numerosi contesti ed eventi. Dopo le prime esperienze sul campo ha intrapreso gli studi presso un’accademia privata a Roma, dove attualmente insegna food photography e still life. Durante gli studi, è entrata in contatto con diversi professionisti della fotografia e grazie alle varie collaborazioni ha acquisito le skills necessarie per diventare a sua volta insegnante di fotografia e post produzione sia in proprio che per conto terzi.

I suoi scatti sono apprezzabili per la precisione e la profondità di sguardo e nel suo lavoro si distingue per serietà, professionalità e apertura mentale.

“ANTÒ, FA CALDO!”

“Cerco l’estate tutto l’anno e all’improvviso eccola qua…” Cantava Adriano Celentano.

Eccolo qua Spirito Autoctono Magazine numero 6, l’estate da sfogliare in riva al mare, in terrazza vista lago o in salotto rinfescati da un ghiacciato drink.

Volevo un numero intenso, completo, lontano dagli schemi editoriali più classici di questo periodo dell’anno, che prevedono sole, spiaggia, infradito e climatizzatore.

Volevo un numero assoluto che marcasse il cambio di passo di un progetto partito in sordina, come supporto di Spirito Autoctono La Guida, e che si è trasformato, mese dopo mese, uscita dopo uscita, in un Magazine. Indipendente e dall’identità solida, concreta e coerente. Prodotto e produttori perni fondamentali e riferimento per raccontare territori, destinazioni, luoghi di incontaminata e straordinaria bellezza.

Volevo un numero che fosse il tratteggio certosino del valore del viaggio alla ricerca delle radici. Dalla Sicilia alla Scozia, dal Messico all’Armenia. La Catania delle chiese, del mercato del pesce e dei locali fuori rotta, preludio di una lunga e gustosa passeggiata tra distillati, olio e formaggi dell’isola più grande d’Italia. Dalla Trinacria alla scoperta della Scozia di Islay, tra Scotch, rivoluzioni e nuovi assaggi, poi giusto il tempo di un aperitivo a base di Bloody Mary, e si riparte per il Messico delle agavi e delle tradizioni, oppure per l’Armenia, sempre più moderna.

Forse non volevo solo un nuovo numero di Spirito Autoctono Magazine. Forse volevo un lungo e travolgente viaggio da sfogliare.

“e allora io quasi quasi prendo il treno e vengo, vengo da te, ma il treno dei desideri nei miei pensieri all’incontrario va”.

Buon viaggio e buona estate! Il vostro Distopico Direttore Francesco Bruno Fadda

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L’EDITORIALE

SOMMARIO

ANNO 2 - NUMERO 6 GIUGNO / LUGLIO 2024

Direttore Editoriale: Francesco Bruno Fadda direttore@spiritoautoctono.com

Coordinamento Redazione: Roberta De Rosa redazione@spiritoautoctono.com

Autori:

Paolo Campana, Gian Maria Ciardulli, Simona Cognoli, Giusy Dal Pos, Alberto del Giudice, Roberta De Rosa, Alessandra Iannello, Giambattista Marchetto, Terry Nesti, Fiorella Palmieri, Francesco Seminara, Luca Sessa, Gualtiero Spotti, Luciana Squadrilli, Eugenia Torelli,Marco Zucchetti

Art Director: Paolo Campana paolo@spiritoautoctono.com

Editore: Novecento40 s.r.l.s. Concessionaria Pubblicità: Novecento40 s.r.l.s. iscrizione al ROC n° 39530 info@novecento40.com ©Tutti i diritti riservati

Finito di stampare nel mese di Giugno 2024 da: AZEROprint s.r.l.

Via L. della Robbia, 3 - Marostica (VI)

Per comunicare con la redazione: redazione@spiritoautoctono.com

Spedizione in abbonamento postale: abbonamenti@spiritoautoctono.com

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IN VIAGGIO: SICILIA 6 CATANIA CAPUT MUNDI 12 QUI SI FA AKKADEMIA 14 MARSALA, FRA MARI, LEGGENDE E GRANDI FAMIGLIE 16 NUOVA VITA PER IL RUM IN SICILIA 20 CICCIO SULTANO, ALTA CUCINA E ALTA MISCELAZIONE 24 AGALÌA. TUTTO IL BUONO DELLA SICILIA IN UN DISTILLATO SPIRITURISMO: SCOZIA 28 QUATTRO GIORNI A ISLAY 37 KILCHOMAN. DALLA TERRA ALLA BOTTIGLIA, IL WHISKY 42 IL VIAGGIO NEL TEMPO DI MACALLAN 47 PIETRO MALTINTI, UN ITALIANO ALLA GUIDA DI LAGAVULIN BUONA CAMICIA: CONSIGLI PER GLI ACQUISTI 98 TRIPLE ENTENTE 100 FICHISSIMO, ALLORA, KORAT: I NUOVI SAPORI DELLA SICILIA 102 VULCANICA, LA VODKA PREMIUM SICILIANA 104 LE ‘MAGNETTE’ DI SPIRITO AUTOCTONO OLIO, FORMAGGI E DINTORNI 94 OLIO: MANDRANOVA. NATURA, CULTURA E OSPITALITÀ 96 FORMAGGI: PIACENTINU ENNESE, IL FORMAGGIO D’ORO 74 LA STORIA DELL’APERITIVO: BLOODYMARY, IL COCKTAIL SANGUINARIO 82 COSE QUÈ VIVA MEXICO. LO SPECIALE DA GUSTARE, LEGGERE, ASCOLTARE... 52 ARMENIA DA SCOPRIRE 57 PERDOMO, ALLA SCOPERTA DEI SIGARI 62 RAFFAELE CAMMARELLA: SPIRITO DI CALABRIA 68 CINQUANTA SPIRITO ITALIANO, IL RISCATTO DI UN TERRITORIO 76 A MESSINA L’ORSO LASCIA IL SEGNO 78 "CARI BARTENDER". INTERVISTA AD ANGELO CANESSA
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IN VIAGGIO: SICILIA

CATANIA CAPUT MUNDI

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IN VIAGGIO: SICILIA

LA CITTÀ DELLA “MONTAGNA” È IN CIMA ALLE PREFERENZE TURISTICHE, COMPLICI IL BAROCCO E, NATURALMENTE, IL CIBO E LA SUA MOVIDA

di Francesco Seminara

Sicilia bedda! Terra di mari, di suli e d’amuri, ma ce la farete a visitarla tutta in un unico fine settimana, anche se lungo? Non vorrei spegnere le vostre aspettative, ma la risposta è no. La Sicilia rappresenta il Piacere con la “P” maiuscola e come tutti i piaceri che si rispettino, va conquistato. Per “conquistare” la regione più grande d’Italia e non sempre ottimamente collegata, di giorni ve ne servirebbero quantomeno il triplo e io dovrei scrivere tre articoli, ma il tempo è tiranno, voi avete solo tre giorni e io circa 8.000 battute. Ergo rassegnatevi, rassegniamoci tutti e giochiamo di strategia. Concentriamoci su una parte dell’isola, magari quella orientale etnea, che da un lustro a questa parte sembra vivere una primavera senza fine. Atterriamo quindi a Catania, che fra gli altri vanta il quarto aeroporto in Europa per crescita del traffico dei passeggeri, Fontanarossa.

La raggiante città cantata e decantata da Carmen Consoli riesce sempre a stupire visitatori e turisti grazie alle sue bellezze e alla vivacità del suo popolo. Catania è stata definita in tanti modi. A partire dagli anni ’80 fu considerata prima “La Seattle d’Italia”, per il fermento musicale. Non solo la “cantantessa”, ma anche Mario Venuti e i Denovo, Flor, Brando, Nuovi Briganti e Moltheni. Successivamente “La Milano del Sud”, per gli investimenti di grandi gruppi edilizi e infine “La Silicon Valley italiana”, mutuata poi in Etna Valley, grazie alle multinazionali presenti al polo industriale. Ma Catania, schietta e fiera, ha sempre detestato questi accostamenti e la sua vera natura si nasconde fra il vociare del mercato e le bellezze del suo barocco, scuro come la pietra lavica che l’avvolge. Non a caso, nel 2002, il centro della città è stato dichiarato dall’Unesco “Patrimonio dell’Umanità”. Che si fa quindi nella città del vulcano in un fine settimana?

Guardare, mangiare e bere naturalmente. Se avete una passione per gli edifici religiosi siete decisamente nel posto giusto. Catania è una distesa di chiese! Quelle in servizio sono più di 150, ma se mettiamo dentro anche quelle sconsacrate o andate distrutte il numero aumenta vertiginosamente. Vari eventi disastrosi come scosse sismiche e colate laviche hanno distrutto in epoche differenti il patrimonio storico, artistico e religioso della città, come il terremoto del 1169. Più tardi, nel XVII secolo, accaddero poi entrambe le cose: l’eruzione dell’Etna del 1669, dovuta alla mai cessata attività del vulcano e poi il fortissimo terremoto del Val di Noto del 1693, il quale impose la totale rivisitazione dell’impianto urbanistico cittadino ad opera dell’architetto Giovan Battista Vaccarini. Impossibile non partire dal Duomo e dalla sua piazza con l’elefante al centro, chiamato “U Liotru”, simbolo della città. Qui troviamo la Cattedrale di Sant’Agata, una gemma imperdibile, ricca di storia e influenze che spaziano dal barocco siciliano alle tracce normanne e sveve. Sempre sulla stessa piazza troviamo il Municipio di Catania, un capolavoro di equilibrio tra barocco decorativo e neoclassicismo. Scendendo poi dalla fontana dell’Amenano (“Acqua ‘o linzòlu” per gli autoctoni, ndr) siamo già dentro il fantasmagorico Mercato del pesce, ‘A Piscarìa, che da solo vale il prezzo del biglietto.

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Qui oltre all’acquisto di pesce freschissimo potrete degustare crostacei, olive, formaggio e alcune tipicità della cucina da strada catanese come la trippa e il sanguinaccio. Se vi è venuta sete, e non vedo come potrebbe essere diversamente, potrete ristorarvi in uno dei tanti chioschi presenti in zona. I ciospi (qui si chiamano così) sono installazioni fisse presenti in varie parti della città, specie nel centro storico, dove si può bere un analcolico rinfrescante grazie ai tanti sciroppi autoprodotti, tra cui spiccano il mandarino verde e il tamarindo e, ovviamente, l’immancabile seltz limone e sale. Fra gli indirizzi più interessanti dove mangiare restando in pieno centro, segnaliamo la trattoria “Mm”, proprio all’interno del mercato del pesce; qui la proposta è legata al pescato e ai gustosi antipasti e contorni siciliani, una cucina vivace e senza fronzoli. Da provare la parmigiana di pesce spada, le sarde a beccafico e le polpette di tonno. Se avete una macchina a disposizione, a 10 minuti dal centro, in quel di San Gregorio, troverete invece il ristorante “Ninnetti”, fuori dai cosiddetti “giri turistici” e tappa obbligata di buongustai e golosi viandanti. Un ristorante di famiglia, curato nel servizio e armonioso nella proposta. Qui i grandi classici della cucina siciliana si mischiano al ricettario familiare. Dalla parmigiana di trippa, alle frittelline di verdura selvatica o carciofi (quando di stagione) senza

tralasciare i primi piatti dimenticati come la pasta con il bollito alla catanese. Se amate il pesce non perdete il crudo locale e le tartare di tonno e alalunga.

Torniamo in centro e proseguiamo il nostro tour lungo la via Etnea, l’arteria principale della città. Questa strada prende il nome dalla sua direzione verso l’Etna, visibile costantemente. Lungo i suoi tre chilometri è possibile fare shopping e ammirare palazzi e chiese barocche. Un punto d’interesse è Piazza Stesicoro, dove si trovano i resti dell’anfiteatro romano, testimonianza di una città che si sviluppa anche sotto terra. Vicino c’è la via dei Crociferi, nota per il suo splendido esempio di architettura barocca catanese, con chiese come quella di S. Giuliano. Proseguendo si trova il teatro romano, costruito nel II secolo e capace di ospitare fino a 7.000 spettatori. Da non perdere è anche il Castello Ursino, originariamente una fortezza e oggi sede del Museo civico di Catania, con collezioni che spaziano in diverse epoche. Altro punto d’interesse è il Monastero dei Benedettini, utilizzato come set per il film “I Viceré”, quotidianamente sede del Dipartimento di Scienze Umane dell’Università.

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Con il tramonto, Catania si trasforma in una delle città più vivaci d’Europa. Negli anni ‘90 e nei primi anni 2000, vantava una densità di locali seconda solo a Barcellona in Spagna. Catania, città universitaria e meta turistica, offre una vita notturna ricca e variegata, senza dimenticare la parte mangereccia. A Catania si mangia a qualunque ora del giorno e della notte, impossibile non trovare spunti golosi ad ogni angolo della città. Se amate il cibo da passeggio, oltre alle carnezzerie con gli immancabili panini con polpette e carne di cavallo, la “tavola calda” è d’obbligo. La santissima tavola calda catanese meriterebbe un articolo a sé, è una vera e propria istituzione: onnipresente nei bar e nelle rosticcerie della città, è una via di mezzo tra snack e street food, uno spuntino che può benissimo essere pasto, sempre pronto, dalla colazione alla cena. Troverete una serie di rustici tra cui pizzette e arancini, qui declinati rigorosamente al maschile, ma anche cipolline e cartocciate. Le prime sono sfoglie ripiene di prosciutto, formaggio, pomodoro e cipolla stufata e le seconde somiglianti a piccoli calzoni, da cui si distinguono per la pasta più alta e soffice. E la lista delle ghiottonerie è ancora lunga.

Un porto sicuro dove approdare per provare queste prelibatezze è lo storico Bar Savia, proprio sulla via Etnea e di fronte la Villa Bellini. Qui, oltre alla sopracitata tavola calda, troverete, gli arancini e i cannoli più buoni della città, con la cialda rigorosamente lavorata a mano e la granita con la famosa brioscia “col tuppo”. La Catania “da bere” è stimolante tanto quanto quella “da mangiare”. Nel corso degli ultimi anni la qualità della mixology locale è cresciuta in modo esponenziale e di pari passo alla produzione di spiriti autoctoni, ça va sans dire, che hanno conquistato anche i mercati nazionali. Dagli amari ai gin, passando per la vodka e i rosoli; oggi sono tanti i cocktail bar che uniscono alle drink list internazionali quelle sartoriali con liquori e spiriti di prossimità.

Tra i locali del centro storico assolutamente da provare c’è il Bohème, storico cocktail bar catanese in stile “speakeasy”, offre ai visitatori l’esperienza di drink creati “ad hoc” in base ai loro gusti e senza una carta di riferimento, oltre ai grandi classici. Se vi lascerete guidare c’è da divertirsi. Sempre in centro c’è Oliva.Co, una garanzia. Locale accogliente che si distingue per la sua originale proposta drink e con una carta food dal sapore internazionale.

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Il Circus è un altro punto di riferimento del buon bere cittadino, qui si magnifica la Sicilia con prodotti come il cioccolato di Modica e il ficupala. Fuori dal centro, nel suggestivo porticciolo di Ognina che fu teatro del capolavoro di Lina Wertmüller “Mimì metallurgico ferito nell’onore”, troviamo il 22, frizzante cocktail bar con cucina e ampio spazio all’aperto, drink list contemporanea e una serie di intriganti twist preparati con sorriso e maestria.

Dopo aver mangiato e bevuto a sazietà che ne dite di una scarpinata sul vulcano attivo più alto d’Europa? L’Etna, icona indiscussa della Sicilia, attira visitatori da tutto il mondo con la sua maestosità e la sua storia millenaria. Esplorare le sue pendici offre un’avventura senza pari, tra paesaggi lunari,

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boschi e panorami mozzafiato. Se siete della scuola dei peripatetici potrete consumare le suole delle vostre scarpe da trekking sui sentieri del parco dell’Etna. Per gli amanti dell’avventura in chiave comoda, invece, un tour in fuoristrada sulle piste vulcaniche sarà la soluzione più appropriata. Non mancano le attrazioni culturali, con antichi siti archeologici e borghi pittoreschi che punteggiano le colline circostanti. Parlare di Etna senza parlare di vino non è cosa possibile. Una gita (o più di una) alla scoperta dei vigneti etnei è quello che ci vuole, da concludersi, ovviamente, con un calice di Etna Doc.

Di Catania adesso sapete tutto o quasi. Non resta che perdersi fra bar e caffè, una vuciàta del mercato e un pezzo di tavola calda e lo spirito dei suoi cittadini, naturalmente autoctono.

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QUIAKKADEMIA SI FA

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di Eugenia Torelli di Francesco Seminara

Di fronte al mare la felicità è un’idea semplice, sì, ma davanti a un bicchiere di whisky mica è brutta eh! Se Jean-Claude Izzo fosse mai stato da Akkademia, a Catania, ci avrebbe dato sicuramente ragione e se si ha il whisky facile, come cantava Buscaglione, questo è il posto giusto. Da Akkademia l’atmosfera invita a rilassarsi, coccolati dalle docili tonalità calde e dal naturale senso familiare che il legno intorno regala; gli sgabelli in pelle color mogano sono comodi e accolgono, concedendoti il tempo di volgere lo sguardo verso i 12 spillatori di ottone splendente che, come fieri soldati in divisa durante una parata, si allineano per mostrarsi in tutta la loro rigenerante vigoria; tutti gestiti da un banco refrigerato che permette di evitare shock termici. Non è cosa da poco sapere che c’è cura anche nei dettagli.

Tra una pinta e l’altra, intrigati dalla selezione culinaria del menu di Akkademia, si può scegliere qualcosa che possa accompagnare la nostra Pils, o Mild, o Pale Ale o Sour. Dalle patatine tagliate a mano quotidianamente, alle selezioni di carne provenienti da micro-allevamenti, alle costate e ‘T bone’ che maturano all’interno del frigorifero posto accanto la salumeria, da cui si possono assaporare deliziosi affettati preparati dai più abili artigiani italiani della tradizione norcina. Dopo aver fatto la nostra scelta ci spostiamo a un tavolo, avvolti ancora dal legno, il nostro sguardo si amplia e ci permette di vedere la sempre cangiante selezione di birre all’interno della doppia frigo vetrina che contiene oltre un centinaio di etichette e, sugli scaffali, la maestosa selezione di whisky che ha reso Akkademia uno dei più assortiti whisky bar del sud Italia. Esposte si possono trovare più di 400 etichette che, con buona pace degli spazi, sono costrette irrimediabilmente ad aumentare.

Ma da dove nasce questa passione smodata? Secondo Ramon Noto, anima del locale insieme allo storico titolare Salvo Meli, la ricerca ha radici antiche e profonde e incarna in toto la filosofia dell’indipendenza. “Siamo continuamente alla ricerca di personalità e carattere e, proprio per questo, abbiamo una vasta selezione di imbottigliatori totalmente indipendenti. Il distillato per noi non è solo un prodotto ma ha un carattere a cui è possibile attribuire un volto, quello del produttore, sempre disponibile a rispondere, anche telefonicamente e raccontarti l’idea che lo ha spinto a creare quell’imbottigliamento. Disponiamo di una nutrita selezione che comprende anche numerose bottiglie vintage, tra cui delle vere e pro-

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prie perle rare quali un Ballantine’s 30 anni degli anni ‘70, una rara bottiglia di Arran single cask Marsala imbottigliato nel 2005 e una bottiglia di Imperial 1990 Gordon e Macphail, oltre a tanti imbottigliamenti di piccoli selezionatori italiani”. Ma Akkadmia non è solo Whiskey&Co, per gli amanti del rum sono a disposizione più di 100 etichette, compreso il neonato rum della distilleria Alma di Modica, che produce seguendo un attento processo di produzione da succo di canna vergine. Non mancano “diverse chicche dal passato, come un Demerara 1995 edizione “Jungle jump it” della collezione “Painting caribe” o il neo imbottigliamento dell’Hampden 9 anni selezionato da Morisco Spirits, di cui sono state distribuite solo 33 bottiglie”. In cucina la filosofia è la medesima: carni da allevatori selezionati, frollate in loco e prodotti di prossimità.

Mica male per un locale che voleva solo essere l’amichevole pub di quartiere. Ma si sa, da un grande potere derivano grandi responsabilità e in questo caso il pairing tra carni e whisky è di tutto rispetto e molto divertente, spesso anche con succulente commistioni direttamente in padella come testimonia il loro signature dish “Entrecôte al Rye Whisky”.

Attenzione: Akkademia non è un locale modaiolo e non vuole esserlo, quindi se cercate connettività smart e colate pistacchiose girate alla larga. Se invece non siete frettolosi viandanti e date valore al tempo accomodatevi pure e perdetevi con serenità fra birre, whisky e carni. Da Akkademia si gode tanto, forte, sempre.

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MARSALA FRA MARI, LEGGENDE E GRANDI FAMIGLIE

C’è qualcosa di irresistibilmente affascinante nel Marsala, un vino che non si limita a deliziare il palato, ma che racchiude al suo interno una storia intrisa di fascino e mito. È come se ogni sorso ci trasportasse indietro nel tempo, in un’epoca in cui il vino non era solo una bevanda, ma un simbolo di prestigio e raffinatezza. Eppure, nonostante la sua storia gloriosa, il povero Marsala ha spesso avuto un trattamento ingiusto da parte dei suoi connazionali italiani. Comprensibile in fondo. Chi non vorrebbe un po’ di Marsala per insaporire le scaloppine o per un veloce brindisi finale? Ridurre però questo nobile vino a un semplice condimento o a un dopo pasto scontato è fargli un gran torto. Per capirne le origini dobbiamo fare un piccolo salto nel tempo e abbandonarci a una notte tempestosa di grande avventura del lontano 1773. Una nave, la Queen Elizabeth, solcava i mari burrascosi della Sicilia, quando un tremendo temporale costrinse i marinai a cercare rifugio nel porto di Marsala. E chi trovarono lì? Nientemeno che un commerciante inglese di nome John Woodhouse. Ora, ci piace immaginarlo come un uomo d’affari astuto, il tipo che sa riconoscere un affare quando lo vede. E cosa fa quando si trova bloccato a Marsala, se non assaggiare il vino locale?

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Inizia così la leggenda, con un commerciante inglese che trova l’oro liquido nel bel mezzo di una tempesta. Ma come ogni grande storia, quella del Marsala ha i suoi eroi e i suoi villain. Perché se da una parte c’era Woodhouse che ne riconobbe le potenzialità, dall’altra i suoi compatrioti italiani, per secoli, non hanno fatto altro che sminuirlo e maltrattarlo, relegandolo al ruolo di comprimario nelle cucine e nei bar di mezza Italia. Fortunatamente il Marsala ha avuto la sua vendetta. Grazie agli sforzi di uomini come Benjamin Ingham, il vino si trasformò da semplice bevanda locale a icona internazionale. Fondamentale fu l’idea di unire un’aggiunta di alcol alla fermentazione, nota come “concia”: rese il Marsala stabile durante i viaggi in mare, conferendogli quel carattere unico che tutti conosciamo e amiamo. Un vino capace di attrarre altri imprenditori inglesi in Sicilia, determinati a produrlo, a cui si unì dopo poco un’italiano, Vincenzo Florio, traipantato in Sicilia da famiglia calabrese, che cambiò per sempre il Marsala.

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Florio si dedicò alla produzione di questo vino fortificato unico, fondando le suggestive cantine nel 1833 e cambiando alcune virgole nella ricetta, proiettandosi verso il futuro. Uno spirito pioneristico di cui le cantine e il Marsala Florio rappresentano vividamente lo spirito.Ancora oggi attraverso la produzione del Marsala Vergine e del Marsala Superiore (più le riserve, ndr.) la storica famiglia porta avanti la tradizione legata alle grandi eccellenze. Se Vincenzo Florio fu il primo a scommettere sulle potenzialità del Marsala, in epoca moderna è stato Marco De Bartoli a innovare la sua metodologia riportando il vino ab origine, abbandona la pratica introdotta dagli inglesi di fortificare il Marsala con l’aggiunta di alcol e ripristina il metodo perpetuo o “Solera”. Quest’ultimo implica il costante rabbocco del vino aggiungendo ogni anno l’annata più giovane a quelle già mature. Nasce così, a partire dagli anni ’80, il “Vecchio Samperi” e le sue declinazioni, il cui apogeo è rappresentato dalla setosa “Riserva Vergine 1988”. E così la magia continua ancora.

IL VINO CHE NON SI LIMITA A DELIZIARE IL PALATO, MA RACCHIUDE AL SUO

MARSALA: COME TE LO MISCHIO?

Il Marsala viene solitamente preferito nella bevuta singola e ancora poco utilizzato nella mixology. Proprio a Catania però abbiamo scoperto un bartender audace, appassionato di Tequila e Mezcal, che lavora al Carlito’s, ristorante messicano con cocktail bar di riferimento a Catania. Ha saputo valorizzare il famoso vino costruendo un ipotetico ponte, non sullo Stretto, ma fra la Sicilia e il Messico.

“Si chiama ‘El Mismo Sol” ci riferisce Francesco ‘Fred Line’ Palma, creatore di questo appagante mix. “Un drink che unisce due culture, due popoli molto distanti, ma allo stesso tempo simili e vicini nell’animo. Con lo stesso sole dentro”.

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INTERNO UNA STORIA
INTRISA DI FASCINO E MITO

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NUOVA VITA PER IL RUM IN SICILIA

di Eugenia Torelli

In dialetto si chiama “cannamela” e con la Sicilia ha una relazione lunghissima. Quella della canna da zucchero è una tradizione che nello scorso secolo in Trinacria si è persa, ma che negli ultimi anni sta rinascendo, stavolta non come materia prima da cui produrre principalmente lo zucchero, bensì il rum.

A fare da apripista di questa rinascita è stato il siciliano Corrado Bellia che, dopo aver letto il libro “La città esagonale” di Francesca Gringeri Pantano (Sellerio), si è reso conto del forte legame storico tra Avola e questa pianta arrivata da lontano. Da qui è partito il percorso per riportarne in vita la tradizione, che gli ha permesso nel 2021 di dar vita ad Avola Rum, il primo rum contemporaneo 100% siciliano, realizzato in collaborazione con la distilleria Giovi di Fondachello, in provincia di Messina. Si è così aperta una nuova strada per il distillato di canna da zucchero in Sicilia tanto che negli stessi tempi non molto lontano, a Modica, è nata una distilleria appositamente pensata per la produzione di rum, Distilleria Alma, i cui primi batch sono arrivati sul mercato negli scorsi mesi.

I TRASCORSI DELLA CANNAMELA

E DEL RUM IN TRINACRIA

Come sempre accade, anche in Sicilia la storia del rum è vincolata a quella della canna e dello zucchero. Sulle origini della pianta, ci sono ancora dei dubbi, ma si tende a collocarle in Papua Nuova Guinea. In Sicilia è arrivata intorno all’800 d.C., portata dagli arabi, che pare ne abbiano trasmesso anche le modalità di lavorazione per ottenere lo zucchero.

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DALLA
AI DISTILLATI AD AVOLA IL RITORNO DI UNA
STORIA
CANNAMELA
GRANDE
D’AMORE

Durante il regno di Federico II di Svevia il dolce prodotto ha acquistato un ruolo importante per l’economia della regione e in seguito, tra il 1300 e il 1600, la Sicilia si è affermata come principale produttore di canna da zucchero di tutto il Mediterraneo. Attorno al 1400 nella zona di Palermo esistevano una trentina di “trappeti”, le strutture che ospitavano le macine per la spremitura delle canne, e le coltivazioni si trovavano in diverse aree intorno alla città. Una volta ottenuto il succo, si effettuavano tutti i passaggi per poi arrivare alla raffinazione, che avveniva in loco e, gradualmente, si sono sviluppate anche le esportazioni.

Nel XVII secolo la produzione di zucchero siciliano è però entrata in crisi. La sola concorrenza delle produzioni provenienti dal Nuovo Continente e di quelle asiatiche non sembra bastare come unica motivazione; intervennero probabilmente anche delle ragioni climatiche, per colpa delle quali le aree di coltivazione della canna da zucchero sono a un certo punto divenute troppo aride. Inoltre è probabile che il disastroso terremoto del 1693, che ha distrutto moltissimi centri abitati della Sicilia Orientale, abbia contribuito a dissestare falde e modificare la disponibilità di risorse idriche. Le coltivazioni di canna tuttavia non sono scomparse e nei secoli successivi sono sopravvissute, seppur con un’importanza del tutto minore, in alcuni centri tra cui Avola, in provincia di Siracusa.

Lo zucchero non era però l’unico prodotto derivante dalla lavorazione della canna. Alcuni scritti della seconda metà del XIX secolo parlano anche della produzione di rum ed è probabile che, analogamente a quello che è successo a Capo Verde con il Grogue, anche qui si sia iniziato a produrre rum dal succo anziché dalla melassa, essendo ormai venuta meno l’importanza dello zucchero per l’economia locale. Purtroppo, a cavallo tra le due grandi guerre del Novecento, la coltivazione della canna da zucchero fu definitivamente abbandonata ed è proprio Avola uno degli ultimi centri a coltivarla.

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Avola Rum

L’ultima a finire, ma anche la prima a ricominciare. È ad Avola che la storia della canna da zucchero e del rum in Sicilia scrivono una nuova pagina - contemporanea - della loro storia. Il nuovo inizio lo si deve a Corrado Bellia, direttore del Consorzio Mandorla di Avola, da tempo abituato a lavorare nell’ambito della valorizzazione dei prodotti locali. La sua avventura inizia con un grande lavoro di ricerca che lo porta, dopo la lettura del libro di Gringeri Pantano, a studiare le tecniche di coltivazione della canna da zucchero, raccogliendo numerosi documenti storici. Nel 2017 Corrado avvia una piccola coltivazione di canna partendo da tre piante, che propaga fino a farle diventare una sessantina. Nel 2021, grazie alla collaborazione con la distilleria Giovi e con il distillatore Giovanni La Fauci, debutta Avola Rum, il primo – per lo meno in questo secolo – distillato di canna da zucchero 100% siciliano, distillato con metodo discontinuo a bagnomaria e prodotto a partire dal puro succo delle canne coltivate ad Avola. In etichetta la vecchia pianta esagonale della cittadina. Corrado apre così una nuova strada per la Sicilia ad alta gradazione (ma anche per lo zucchero) e oggi viene affettuosamente chiamato “Ron Currau“.

Distilleria Alma

L’idea di coltivare canna e farne un distillato era nata dalla passione per il rum e inizialmente la meta dei desideri erano le Filippine, ma la pandemia ha cambiato molte carte in tavola per Hugo Gallardo, sua moglie Annalisa Spadaro e l’amico Alejandro Lopez, modicana lei, spagnoli di Barcellona loro. Le Filippine restano bloccate per due anni e Hugo trascorre del tempo in Sicilia con la moglie. Così l’idea di spostare il progetto in Trinacria si fa strada, finché non arriva il momento di fare il primo passo e parte l’iter burocratico per l’avvio di una distilleria che si chiamerà come la loro bambina, Alma. Nel frattempo bisogna trovare la canna e Hugo scopre che c’è qualcuno ad Avola che la sta coltivando. Conosce così Corrado Bellia, che lo aiuta fornendogli la materia prima. Le prove iniziali vengono fatte con quella, una tipologia rossa, e con un’altra varietà di canna importata dalla Spagna, altro storico paese produttore. Finalmente a inizio 2023 arriva la licenza e l’alambicco di Alma si accende per la prima volta. Si tratta di un pot still a bagnomaria con capacità di 600 litri e colonna di rettifica con quattro piatti. A febbraio 2024 il primo batch di Alma arriva finalmente sul mercato, si chiama Mater ed è un bianco, mediterraneo, Pure Single Rum imbottigliato a 54% abv. Un secondo batch, sempre bianco, non si è fatto attendere.

Sono solo i primi passi di questa nuova – anzi, ritrovata – avventura spiritosa e più autoctona che mai, che potrebbe avere interessanti risvolti dal punto di vista produttivo e anche da quello turistico. Gli assaggi sono già molto soddisfacenti e l’entusiasmo è alto. Non resta che attendere i prossimi sviluppi, per vedere cosa sarà scritto nelle prossime pagine di questa nuova storia del rum siciliano.

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Distribuito in Italia da Velier Spa

IN VIAGGIO: SICILIA

CICCIO SULTANO

ALTA CUCINA E ALTA MISCELAZIONE

20 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
di Alberto del Giudice

IN VIAGGIO: SICILIA

SICILIANO È UN FIUME IN PIENA, FIN DA QUANDO ANCORA

TREDICENNE COMINCIÒ A FREQUENTARE FORNI E FORNELLI

Il suo ristorante, il Duomo a Ragusa Ibla, è meta di pellegrinaggio di tutti i gourmet del mondo. Ma Ciccio Sultano sembra non fermarsi mai. A cominciare dalla sua città dove, oltre al ristorante bistellato, ha aperto due diverse realtà. La prima è Cantieri Sultano, che è molto più di un ristorante. È un laboratorio creativo enogastronomico e insieme un cocktail bar. La seconda è I Banchi, nel barocco Palazzo Di Quattro. Un locale polifunzionale con bar, pizzeria, forno, ristorante, emporio e cantina dei vini. Formula che ha ispirato anche parzialmente l’omonimo spazio aperto all’interno dell’aeroporto di Palermo. Eppure lo chef si è anche allontanato dalla sua Sicilia con nuovi progetti in due capitali europee. Il Ristorante Giano al W Rome e Il Pastamara a Vienna.

Accanto al Duomo, all’interno di Cantieri Sultano, insieme con il bar manager Mattia Cilia, Ciccio Sultano si dedica agli spirits siciliani con, tra l’altro, procedimenti di riutilizzo; il drink Seeds of Cocoa, per esempio, ha tra gli ingredienti il cosiddetto scarto della lavorazione del cioccolato di Modica, la buccia delle fave di cacao, che viene trasformata in una sorta di soda alle foglie di fico. Gli ingredienti sono Seedlip Groove 42, Bitter aromatico alla ginestra, Tea di cacao alle foglie di fico, polvere di buccia di fava di cacao. I Cantieri, insomma, oltre a essere la “Wine Nursery” con 1.450 etichette, sono un luogo dedicato a una miscelazione d’avanguardia dall’aperitivo al dopocena. Con una particolare attenzione ai prodotti e alle tradizioni culinarie del continente siciliano.

Lei ha intrapreso la sua carriera molto giovane, ma con una passione rara. E se non sbaglio ha avuto anche la fortuna d’incontrare persone che le hanno dato fiducia scoprendo il suo talento.

«Potrei citare Vincenzo Corallo che giovanissimo mi offrì la possibilità di lavorare al dolce e al salato nella pasticceria Sweet di Vittoria. Ma più che ricevere fiducia, me la sono sempre e solo guadagnata, allora come oggi. La fiducia si conquista con il sacrificio e il sudore. A me l’hanno data non certo perché fossi simpatico e carino. In realtà, è il cliente che ti dà o ti toglie la fiducia. In questo senso, mi sento gratificato e fortunato».

Un altro aspetto: l’ambizione. Che cosa significa per lei e che cosa significa nel suo mestiere.

«L’ambizione resta solo una pretesa, se non ti dai i mezzi per farcela. Il suo scopo sono i risultati, certi risultati, certi livelli, e la possibilità di raggiungerli: avere due stelle Michelin, essere annoverato tra i migliori ristoranti d’Italia».

Ma ci sono altri due temi fondamentali e tra loro legati: sostenibilità e lavoro di squadra. È d’accordo?

«Certo, con la precisazione che un team funziona se c’è un capo capace e riconosciuto. Aggiungerei, poi, quella che

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IN VIAGGIO: SICILIA

definisco inclusione sociale ed economica ovvero il reale, sensibile, coinvolgimento del territorio dove lavori, in tutte le sue potenzialità».

Qual è lo spunto iniziale nella creazione di un nuovo piatto?

«Il segreto è possedere una cultura più ampia possibile e una conoscenza approfondita della propria storia. Non puoi immaginare neanche di fare il cuoco a un certo livello se non eccelli nella tecnica, se non conosci la tecnologia, le materie prime e gli ingredienti come e meglio di un profumiere. Lo scopo è, infatti, creare la tradizione futura».

Il Ristorante Duomo, I Banchi, Pastamara a Vienna, Giano al W Rome, Cantieri Sultano. E scommetto ci sia altro nel cassetto. Quanto costa seguire, in termini di tempo ed energie, tutto questo? Se lo immaginava da ragazzino?

«No, per uno che è partito da zero socialmente ed economicamente, era del tutto inimmaginabile. Del grande impegno ho già detto, potrei aggiungere che un aiuto l’ho avuto dall’intuito personale per le cose e per le persone».

E a proposito di Cantieri qual è il cocktail preferito di Ciccio Sultano?

PASTAMARA

Pastamara un angolo di Sicilia nel cuore di Vienna con un “Carello Negroni”. Ciccio Sultano nel 2018 ha aperto nella capitale austriaca presso The Ritz Carlton un locale originalissimo. Bar con cucina (siciliana) dalla prima colazione alla cena. Il suo nome significa cioccolato. E il cioccolato è una di quelle spezie che uniscono il mondo intero. E qui, accanto ai cocktail trovate arancine, panelle, fritti misti, olive cunzate, capperi, carciofi grigliati e tanti altri souvenir enogastronomici, specifica lo chef, della Trinacria.

«Si chiama Apotheke. Mattia Cilia ha riscritto il cocktail Pennicillin. Questa volta si usa del Mezcal Casamigos, il Talisker 10, del miele allo zenzero e un limone fantasma. Il tutto viene shakerato energeticamente e servito freddo, ma molto, molto, freddo».

Un autore o un libro siciliano imperdibile?

«Da giovane mi aveva affascinato Uno, nessuno e centomila di Luigi Pirandello. Oggi leggo molto sia per piacere che per lavoro e guardo molti film. Tra questi, mi ha molto colpito Pig, il piano di Rob con Nicolas Cage».

Cantautori siciliani?

«Tra i miei preferiti, ci sono anche musicisti: Franco Battiato, Rosa Balistreri, Roy Paci, Francesco Cafiso, Giovanni Caccamo». Cavolo, Rosa Balistreri, che donna!

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SE DEL TUO DRINK SONO IL MIXER, ASSICURATI DI USARE IL MIGLIORE

IN VIAGGIO: SICILIA

AGALÌA TUTTO IL BLU DELLA SICILIA IN UN DISTILLATO

SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
di Luca Sessa

IN VIAGGIO: SICILIA

LA PASSIONE E L’AMORE PER L’ISOLA SONO ALLA BASE

DEL PROGETTO. QUATTRO AMICI, SEMPRE ALLA RICERCA DI SFIDE

E NOVITÀ, HANNO DATO VITA A UN PRODOTTO A DIR POCO ORIGINALE

Valorizzare, con un approccio anticonvenzionale, la cultura, i profumi e la tradizione delle meravigliose terre di Sicilia. Questo l’obiettivo che Federico Vincenzi, Davide Fregonese, Augusto Prusso e Michele Di Carlo hanno posto al centro del loro progetto: Agalìa, un distillato ottenuto dalla ‘zabarra’ (il termine con cui viene indicata in loco l’agave), pianta capace di conferire una forte impronta distintiva al gusto; in questo liquore si arricchisce di note aromatiche grazie alle botaniche di Sicilia come il limone verdello e le pale di fico d’India. “Circa 12 anni fa un gruppo di amici mi chiese di realizzare un gin” racconta Michele Di Carlo, docente, filosofo del gusto (gustosofo) e consulente di grandissima esperienza. La prima domanda che si posero, ricorda, fu: “Perché nessuno ha mai pensare di distillare la Zabarra siciliana? L’idea piacque immediatamente e quindi iniziammo a sperimentare. Grazie alla successiva collaborazione con l’Università Federico II di Napoli è poi nata Agalìa, un distillato ottenuto utilizzando botaniche siciliane che nascono e crescono spontaneamente. Mettere tutto il buono della Sicilia in un bottiglia è diventato il nostro mantra: una terra dalle mille sfumature, ricca di cultura, con una forte influenza di provenienza araba nell’utilizzo delle botaniche. Il risultato è quello d’avere oggi un distillato che non ricorda la tequila ma che ha una sua forte identità, un prodotto fantastico di cui siamo orgogliosi”.

Agalìa Srl, da subito riconosciuta come “start up innovativa”, è quindi una società moderna e ad alto valore tecnologico, che fa tesoro della tradizione siciliana, sua musa ispiratrice, riuscendo a dar vita a un distillato

artigianale di agave sisalana ed altre botaniche siciliane (agrumi, piante e foglie), dalla gradazione alcolica di 43,3°, limpido e trasparente con un leggero accenno al giallo paglierino. Ideale per essere degustato liscio a 10/12° C di temperatura, diventa anche protagonista della moderna miscelazione. “Siamo rimasti soddisfatti del prodotto sin dal primo tentativo di distillazione, anche se nel tempo abbiamo lavorato su alcune note ottenendo oggi una versione di Agalìa che si fa apprezzare per la delicatezza nell’ingresso in bocca. Ora che il progetto può crescere abbiamo in programma d’aprire un opificio: al momento infatti la fase di distillazione è a carico della Federico II. Ci stiamo anche attrezzando per coltivare la zabarra e le altre botaniche, dal fico d’india alle foglie di ulivo, per continuare a realizzare questo prodotto dalla forte identità” aggiunge Di Carlo. Il suo utilizzo? Liscia prima di tutto, ma è interessante anche nella versione Sour con limone e zucchero per la sorprendente facilità di beva, senza dimenticare l’Agalìa in tonic

I quattro soci hanno voluto dar nuova vita alla ‘zabarra‘: non più e non solo una pianta ornamentale, ma il punto di partenza per creare diverse produzioni. Agalìa è il risultato di una serie di distillazioni ed estrazioni alcoliche utilizzando matrici vegetali endemiche del territorio siciliano, un prodotto innovativo poiché le estrazioni effettuate sono frutto di interazione tra macchinari brevettati e sistemi di estrazione in fase di patent pending ad alto valore tecnologico: il risultato permette di ottenere estratti con un contenuto in principi attivi controllato. “Parliamo di una

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vera novità assoluta nel panorama dei distillati recenti, non la si può confondere con nessun altro prodotto, crediamo sia una carta vincente per il futuro poiché ha rotto gli schemi della distillazione classica. In fase di produzione non voleva che fosse caratterizzata dal sentore di bruciato, cotto, affumicato, un difetto congenito della tequila. È stata utilizzata una macchina sperimentale fornita dall’Università per iniziare un percorso completamente diverso, cercando di mantenere intatta la freschezza delle botaniche evitando di cuocerle, per non perdere le componenti aromatiche. Abbiamo effettuato un’estrazione mediante il abbiamo estratto parte aromatica delle botaniche con il naviglio estrattore, sottovuoto, per poi estrarre l’alcol dalla parte rimasta delle botaniche, in corrente di vapore alternata sottovuoto per non raggiungere temperature che fanno sviluppare le parti difettose della distillazione, ottenendo un distillato pulito”.

Nella fase di caratterizzazione del prodotto è stata dedicata grande cura anche alla creazione della bottiglia, realizzata con la piastrella di Caltagirone: vetro trasparente dai profili decisi, base quadrata e lati leggermente svasati verso il collo della bottiglia stessa. Ogni bottiglia da 0,50 litri, è decorata con il logo Agalìa serigrafato e una piastrella di ceramica di Caltagirone numerata e applicata a mano su ogni singolo contenitore. Il progetto non si esaurisce con la fase di distillazione: “Siamo impegnati nella riqualificazione del territorio forgiando una azienda circolare, a impatto zero, creando nuove opportunità e impegnandoci e perseguire l’obiettivo dello spreco zero: le botaniche vengono infatti utilizzate nella loro interezza, per creare in una seconda fase prodotti per la cosmesi, l’edilizia e la farmacopea. Da studi effettuati è emerso che la zabarra ha un potere ossidante maggiore dell’aloe vera, e che i mattoni realizzati con questo ingrediente sono resistenti al fuoco e alle scosse telluriche, una vera rivoluzione nel contesto edilizio” conclude Michele Di Carlo.

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ISLAY QUATTRO GIORNI A

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SPIRITURISMO: SCOZIA
di Eugenia Torelli

WHISKY, MARE E PICCOLE PERLE

ALLA SCOPERTA DELLA REGINA DELLE EBRIDI (CONTEMPLANDO GLI IMPREVISTI)

Puoi anche decidere di andare a Islay, ma dal momento in cui metti piede sull’isola ogni compromesso cade ed è l’isola stessa a decide re per te. Con le sue nebbie, i suoi venti e i suoi tempi, sarà Islay a dirti quando mangiare, fin dove potrai spingerti, quando sarà ora di dormire e anche quando potrai ripartire. Magari ne approfitterà, questa Circe salmastra, per farti indugiare ancora una giornata e catturarti con qualche dram imprevisto nell’attesa di un traghetto che non parte.

Regina delle Ebridi e della torba, Islay è una delle mete più amate dagli appassionati di Scotch, con dieci distillerie attive (più tre in costruzione), paesaggi incantati e rustici tra pascoli, torbiere e ce

Tra una degustazione e l’altra, sono molti i luoghi da scoprire e le

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SPIRITURISMO: SCOZIA

SPIRITURISMO: SCOZIA

Ardnahoe, Bunnahabhain

e il Finlaggan

Trust

Posizionata tra l’omonimo lago e la scogliera a nord dell’isola, la Ardnahoe Distillery guarda Jura al di là del mare. Si tratta dell’ultima nuova distilleria dell’isola (Port Ellen non è esattamente nuova), avviata nel 2018 grazie a un importante investimento della famiglia Laing, imbottigliatori con base a Glasgow che hanno deciso di intraprendere anche la strada della produzione. Dopo un’attesa di 5 anni, la prima etichetta di whisky ha visto la luce appena all’inizio di maggio 2024, un torbato invecchiato in botti ex-Bourbon ed ex-Sherry Oloroso e imbottigliato a 50% vol.

L’arrivo da Ardnahoe è scenografico. Si lasciano le auto in un parcheggio a due passi dal lago per poi scoprire, dietro al promontorio, la distilleria costituita da due grandi strutture collegate al centro da un tetto a pagoda. Lo shop propone un’ampia scelta di prodotti del gruppo, oltre a gadget e accessori, mentre la sala accanto si presenta come un grande spazio dedicato all’accoglienza, un cafè moderno e luminoso affacciato sul mare.

Si inizia il giro. L’orzo arriva già maltato in distilleria e passa per un vecchio Vickers Boby Mill degli anni Venti, ottenuto grazie a un’asta. Per la fermentazione si sono scelti wash back in legno e per distillare due grandi e panciuti pot still riscaldati a vapore, posizionati dietro una grande vetrata vista mare. Uno degli aspetti che distingue Ardnahoe dalle altre distillerie di Islay è la condensazione, che avviene con wormtub posizionati in vasche di raffreddamento all’esterno dei locali di distillazione; meno contatto con il rame e dunque un carattere piuttosto deciso, che compariva già dai primi assaggi dei campioni da botte.

Ardnahoe fa affidamento sulla riserva d’acqua del lago retrostante e qui organizza anche attività dedicate agli ospiti. Con l’ampliamento degli affinamenti e delle release cresceranno anche le possibilità di assaggio in occasione delle visite, già attive e ben organizzate da prima che arrivasse in commercio l’Inaugural Release. Il brand è rappresentato in Italia da Fine Spirits.

Proseguendo lungo la strada, a poca distanza da Ardnahoe si trova Bunnahabhain. Fondata nel 1881 da William Robertson, William e James Greenlees della Islay Distillers Co., oggi assieme ai brand Tobermory e Deanston è nel portafoglio del gruppo sudafricano Distell.

Bunnhabhain è l’unica distilleria dell’isola che punta sui whisky non torbati, che hanno un carattere snello favorito dal lungo contatto con il rame durante il processo di produzione. Qualche batch torbato viene comunque fatto e gli imbottigliatori indipendenti non perdono l’occasione per valorizzarlo. Collocata in basso sul livello del mare, Bunnhabhain ha una posizione invidiabile, rivolta verso Jura ad est e Mull a nord. Il vecchio dunnage per l’invecchiamento del distillato è un’emozione.

Da Bunnahabhain bastano 15 minuti di macchina guidando verso sud, per raggiungere il sito archeologico di Finlaggan. Qui, su un’isoletta in mezzo all’omonimo lago, si trovano i resti del villaggio da cui tra il XIII e il XV secolo il clan dei McDonald governò Islay e le isole circostanti. Un luogo dall’energia ancestrale a cui si accede da una passerella sospesa sull’acqua, tra la vegetazione.

Il visitor center del Finlaggan Trust, nato per proteggere e valorizzare il sito, accoglie gli ospiti ed è dotato di una libreria e di una piccola area museale a cui si accede pagando un biglietto. L’ingresso all’isolotto invece è libero e si può decidere se lasciare un’offerta libera all’associazione.

Rientrando però, si inizia a sentire un certo languorino. Sarà allora il caso di far tappa al Ballygrant Inn che, con la sua fornitissima bottigliera, tra le insegne dell’isola è una delle preferite per gli appassionati. Atmosfera accogliente, stufa accesa, bancone in legno, un ottimo menu da cui scegliere, birra e soprattutto whisky.

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Kilchoman, le ostriche, Bruichladdich

e una passeggiata sull’Octomore

Il mattino, si dice, ha l’oro in bocca, e dato che per noi la ricchezza ha poco a che vedere col denaro, decidiamo di barattare l’oro con il whisky e dirigerci a una rinvigorente degustazione da Kilchoman La farm distillery della famiglia Wills è una tappa da non perdere per chiunque voglia visitare l’isola. Fondata nel 2005 da Anthony Wills, resta oggi l’unica distilleria di proprietà di una famiglia che qui vive e qui lavora. Kilchoman, produce orzo, lo malta, fermen ta, distilla e invecchia. Anche se la materia prima da sola non è sufficiente a coprire tutta la produzione, all’interno della distilleria si effettuano tutti i passaggi del procedimento. Passeggiando nel dunnage tra i whisky in affinamento, si possono scorgere anche botti di provenienza italiana, che assieme a molte altre vanno a comporre l’ampio ventaglio di whisky imbottigliati negli anni. Si va dal core range Machir Bay (dal nome della vicina spiaggia) a una serie di release caratterizzate da diversi finish e gradazioni. Tra le ultime c’è il Batch Strength, protagonista di un tour europeo che è di recente passato anche per l’Italia.

L’avventura di Kilchoman sta proseguendo anche altrove, perché la famiglia sta investendo nella costruzione di una distilleria di rum nei Caraibi, a Barbados, in cui trasferirà la stessa filosofia “from farm to bottle”. SPIRITURISMO:

SCOZIA

SPIRITURISMO: SCOZIA

Tra i luoghi più affascinanti di Islay c’è Loch Gruinart e non è mol to distante da Kilchoman. Lo chiamano “tidal lake”, lago di marea, perché si tratta di un bacino formato dall’acqua marina, nel suo entrare e uscire due volte al giorno secondo le influenze lunari. Il movimento porta con sé una grande quantità di molluschi e nutri mento, che attraggono numerose specie di uccelli, stanziali e mi gratori. Anche per questa ragione la zona è inclusa tra le riserve naturali della Royal Society for the Protection of Birds (RSBP), e in questo ambiente gli animali selvatici convivono con l’attività delle fattorie. Una di queste, la Craigens Farm, comprende anche un al levamento di ostriche, che trae giovamento proprio dal particolare ambiente marino. L’Oyster Shed è un grazioso ristorantino sulla sponda est di Loch Gruinart, in cui si possono gustare le ostriche di Islay letteralmente a chilometro zero - gli allevamenti sono a un centinaio di metri dalla struttura -. Potrà sembrare strano (una volta qui lo capirete), ma oltre al più classico consumo il menu pre vede anche le ostriche fritte. Per chi non avesse voglia dei pregiati molluschi, ci sono anche diverse altre opzioni tra cui scegliere.

Dopo un gustoso spuntino, siamo pronti per proseguire il viag gio spiritoso e facciamo rotta verso Bruichladdich. Assieme a Kil choman è l’unica altra distilleria nella metà occidentale dell’isola e, come molte altre, prende il nome dalla località in cui si trova. Splendida la stanza dedicata alla distillazione, con due poderosi alambicchi di origine vittoriana, per non parlare del mulino, un vecchio Robert Boby sormontato da una struttura in legno per la movimentazione del malto. Fondata nel 1881, chiusa varie volte e poi riattivata nel 2000 dopo un potente sforzo di rilancio, Bruichladdich è oggi di proprietà di Rémy Cointreau e conta una cinquantina di dipendenti, ma non è tutto qui. Si appoggia infatti a un’ampia rete di fornitori locali per l’approvvigionamento di orzo, coinvolgendo con attività e open day la comunità circostante. I whisky vanno da un fruttato core range, The Classic Laddie, a molti diversi gradi di torbatura e tipologie di finish, senza contare i brand Port Charlotte e Octomore, etichetta particolarmente nota agli amanti della torba, pensiamo ai 309 ppm dell’Octomore 8.03.

Al di là dell’immaginario fatto di torba e di fumo, Octomore è il nome di una graziosa collinetta piena di pecorelle a pochi passi dal mare, nei pressi di Port Charlotte. Più o meno all’altezza del faro si trova un sentiero che sale sulla collina, percorrendolo si oltrepassano un paio di case e, sempre tenendo la sinistra si trova un cancello da oltrepassare. Da qui si sale fino alla sommità della collina. Vi serviranno scarpe adatte ai terreni umidi, ma la splendida vista sul mare vale davvero la salita (oltre che la metamorfosi dell’immagine associata al nome Octomore). Per discendere, si può scegliere di ripercorrere la strada a ritroso, oppure di imboccare un sentiero che passa vicino alla Octomore Farm, fino ricongiungersi al borgo di Port Charlotte.

Il ristorante del Port Charlotte Hotel è uno dei ristori preferiti per chi frequenta l’isola, affacciato sul mare nel piccolo borgo marinaro. Accanto allo splendido salotto riservato agli ospiti dell’albergo (che consigliamo), si aprono due salette accoglienti con un ampio bancone in legno. La scelta di whisky è ampia e riserva un’attenzione particolare alle distillerie più vicine, di cui sono presenti parecchie etichette in bottigliera. Il menu varia tra il pranzo e la cena, ma non mancano mai il pescato del giorno e ottime birre, serviti con simpatia e – alla domenica sera – anche accompagnati da un po’ di buona musica dal vivo. Sono tavoli ambiti, a cena meglio prenotare.

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SPIRITURISMO: SCOZIA

Lagavulin, Port Ellen e una passeggiata fino alla scogliera

Lagavulin è una delle distillerie storiche dell’isola. Quando si entra, l’impressione è che niente sia mai cambiato dal 1816, dalla tappezzeria agli alambicchi. In realtà di cose ne sono cambiate nella sua lunga storia, tra chiusure, passaggi di mano, incendi e ristrutturazioni. Oggi la proprietà è di DIAGEO, il management è giovane e fino a settembre il distillery manager - in sostituzione del titolare Jordan Paisley in congedo di paternità – c’è l’italiano Pietro Maltinti, 31 anni.

Anche Lagavulin offre diverse possibilità di tour e assaggi, dal new make ai dram più rappresentativi, fino ai casi tasting. Dall’indistruttibile Porteus Mill agli imponenti pot still, fino al pontile sul mare da cui ammirare la grande scritta Lagavulin, tutto vale la visita. Nella baia di fronte alla distilleria spesso si intravedono anche le foche, mentre nuotano o si riposano sulla riva.

A pochi chilometri di distanza, Port Ellen è la graziosa cittadina portuale in cui si trova uno dei due punti di arrivo e partenza dei traghetti che collegano l’isola alla terraferma. Dopo la visita nell’omonima distilleria, SeaSalt offre una buona scelta di piatti. Da italiani probabilmente non avrete voglia di pizza (anche se, lo sappiamo, quella con l’haggis vi incuriosirà). Scegliete allora il pesce, che qui è buonissimo.

A stomaco pieno si ragiona meglio, ma viene anche voglia di fare due passi. Prendete dunque l’auto e preparatevi a fare qualche chi lometro verso ovest, in direzione di The Oa, l’altra riserva naturale della RSPB sull’isola. Il tragitto in auto è già di per sé suggestivo, tra distese di pascoli e torba, cottage isolati e fattorie, bestiame pacifico, ma anche oche e conigli selvatici, cervi e uccelli rapaci. Si giunge così a un parcheggio dal quale è possibile incamminarsi a piedi ver so l’American Monument, una torre eretta in cima alla scogliera per commemorare le vittime di un naufragio a largo delle coste dell’iso la durante la prima guerra mondiale nel 2018. Nelle giornate terse, la vista dall’alta scogliera è spettacolare, viceversa, se ci arriverete nella nebbia, sarà un’esperienza quasi mistica.

Si rientra dunque verso Port Ellen per una buona pinta di birra al The Ardview Inn, locale vivace e ben frequentato, affacciato sulla baia. Mentre per la cena ci si può spostare al The Islay Hotel per scegliere tra piatti di pesce e di carne. Un consiglio? Provate le ca pesante: grandi, carnose, saporite e – ovviamente – fritte.

Bowmore, cultura gaelica, tweed e ritorno

Bowmore è il centro urbano più importante di Islay ed anche il nome della distilleria (oggi appartenente a Suntory Global Spirits) che rivendica il primato dell’anzianità sull’isola, indicando come data di fondazione il 1779. Incomparabile qui il passaggio dalle stanze di maltaggio, di cui da Bowmore si va molto fieri. Tre piani in cui l’orzo disposto sul pavimento viene prima fatto germogliare per poi essere essiccato grazie al calore del kiln alimentato a torba. Dopo la visita, la tappa-pranzo è culturale. Poco fuori dal centro di Bowmore, si trova infatti l’Islay Gaelic Centre (Ionad Chaluim

Chille Ile), dove entrare in più stretto contatto con la lingua e la cultura gaeliche, attraverso la libreria e le periodiche esposizioni. Si tratta di un luogo creato soprattutto per la comunità, in cui si tengono corsi e si mettono a disposizione sale per lo smart working e le conferenze. Al centro c’è anche un cafè, anzi Cafaidh, in cui trovare zuppe e piatti del giorno, sandwich, insalate e patate al forno, pardon “buntàta àmhainn”.

Guidando un poco verso nord, se non si temono i terreni umidi, si può raggiungere Bridgend Woods per una piacevole passeggiata tra i tanti sentieri dell’area. Uno dei più lunghi costeggia il fiume Sorn, che una volta faceva girare, poco distante da Bridgend, le pale dell’Islay Woollen Mill. Il mulino, fondato nel 1883, c’è ancora e oggi è una sorta di tempio isolano del tweed. Facile perdersi tra telai, fili, tessuti e indumenti realizzati artigianalmente, con tanto di shop.

Tra una camminata e l’altra arriva l’ora di cena e il ristorante del The Lochside Hotel a Bowmore potrebbe essere un’ottima scelta. Il pescato del giorno riserva sempre piacevoli sorprese - chiedete al personale - ma ci sono anche carne lavorata localmente e ovviamente le ostriche dell’isola. Non mancano la birra e nemmeno i drink con una lunga selezione di whisky. Se non bastasse, ci sono pure i cocktail realizzati con gin e Scotch dell’isola.

Manca qualcosa? Certo. Laphroaig, con le sue celebri torbiere, Ardbeg e Caol Ila, nella parte più settentrionale dell’isola, che vi racconteremo nel prossimo viaggio. Nel frattempo ve le lasciamo come opzioni per il quinto giorno perché, non si sa mai, il vento potrebbe scoraggiare il traghetto e potreste aver bisogno di altre opzioni di

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IMBOTTIGLIARE L’ANIMA DI ISLAY

Non solo distillerie, ad Islay si muovono anche gli imbottiglia tori. Tra questi c’è Elixir Distillers, società di produzione e di stribuzione tra le più importanti in Europa, fondata dai fratelli Sukhinder e Rajbir Singh, già creatori di The Whisky Exchange. Nell’attesa di vedere terminati i lavori della propria distilleria su Islay – è loro uno dei progetti attualmente in cantiere sull’isola - da anni la società seleziona qui e imbottiglia Single e Blended Malt con i brand Elements Of Islay e Port Askaig, entrambi rap presentati in Italia da Velier.

Immaginate di avere una tavola periodica degli elementi, con sigle che non fanno riferimento agli elementi chimici, bensì ai brand da cui provengono i distillati. Mica male come tema di stu dio. È il gioco della linea Elements of Islay, lanciata nel 2008 per mettere in risalto le diverse caratteristiche dei whisky isolani, con bottigliette ispirate al mondo della farmaceutica. Così Oc4, non avrà niente a che fare con l’ossigeno o con l’osmio, ma sarà più probabilmente un Octomore della distilleria Bruichladdich, in vecchiato tra il 2010 e il 2017 in botti ex-Bourbon e imbottigliato a 59,1% Vol. Aromi che vanno dall’uva spina allo zabaione, con sfumature di erbe essiccate e scorza di limone, accompagnate da fumo di torba e una brezza iodata. Al palato si fa masticare, tra sensazioni di terra e malto, miele, un’idea di mandorla sul finale.

Nato appena un anno dopo, Port Askaig è il brand che prende il nome dal porto settentrionale di ingresso all’isola. Si tratta di una linea di Single Malt imbottigliati tra le distillerie locali, alcuni più giovani altri più invecchiati, ma sempre in lotti limitati, ognuno della durata di circa un anno e tutti non chill-filtered e senza aggiunta di colorante. Port Askaig 100° Proof ad esempio è imbottigliato a 57,1% Vol, richiamando il vecchio sistema di riferimento britannico dell’Imperial 100 proof. Cioccolato bianco e pasta di nocciole, ciliegia, nepitella, miele di tiglio, cespugli bagnati da un’onda, braci spente sulla spiaggia, uva passa, noce. Anima alcolica decisa, una sensazione torbata ed erbacea, frutta secca, ruta. Un sorso profondo, oleoso e ruvido insieme, che lascia pepe nero e fumo sulla lingua. A seguire questa release, è già arrivato il nuovo Cask Strength, Single Malt torbato imbottigliato a 59,4% Vol.

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PORT ELLEN, LA NUOVA SFIDA PER IL SILENT GIANT

Aveva chiuso nel 1983 e da allora era rimasta un “Silent Giant” che continuava a maltare orzo anche per le altre distillerie di Islay. Dopo oltre 40 anni di chiusura e alcuni anni di rinnovamento ad opera della proprietà (DIAGEO, la stessa di Lagavulin e Caol Ila), ad aprile di quest’anno Port Ellen ha riavviato finalmente gli alambicchi sotto la guida dell’appassionato distillery manager Alexander - Ali - McDonald.

Il progetto punta all’alta tecnologia e all’esclusività, rivolto a una clientela di fascia altissima. Niente mulino tradizionale ad esempio, bensì un moderno impianto per ottenere il grist predisponendone le esatte caratteristiche. I quattro alambicchi, posizionati in una stanza a vetri con vista sulla baia, realizzano l’idea di due diverse strade per la produzione del distillato. La prima tradizionale, con il classico spirit safe, un wash still e uno spirit still dedicati; la seconda sperimentale, con un’altra coppia di alambicchi e una tecnologia che permette di determinare con precisione i tagli, per registrare e riprodurre, all’occorrenza, la ricetta desiderata, con precisione al millimetro. L’obiettivo è una produzione tailor-made, in grado di soddisfare anche le preferenze dei palati più esigenti. E le visite restano off limits, riservate a uno stretto numero di clienti e con lunghissime liste d’attesa.

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Rupes è distribuito da Velier Spa

KILCHOMAN DALLA TERRA ALLA BOTTIGLIA IL WHISKY

IL FONDATORE E MASTER DISTILLER, ANTHONY WILLS, RIPERCORRE LE TAPPE SALIENTI DELLA STORIA CHE L’HA PORTATO A FONDARE L’UNICA FARM DISTILLERY SU ISLAY

di Giambattista Marchetto

Da professionista nel selezionare e commercializzare whisky altrui, vent’anni fa Anthony Wills ha deciso di fare un grande passo ed entrare dalla porta principale nel mondo dei produttori di Scotch. Non con un investimento a distanza, ma con un cambio di vita.

Wills e la moglie Kathy hanno infatti scelto di trasferirsi sull’isola di Islay per dar vita a quella che fino all’anno scorso era l’unica distilleria familiare (ovvero non controllata da gruppi multinazionali) presente sull’isola.

Una scelta radicale, che ha portato alla nascita di Kilchoman Farm Distillery. Per marcare la differenza, i Wills hanno infatti scelto di lavorare l’orzo coltivato direttamente sui propri terreni in Islay, al momento sono l’unica distilleria sull’isola a farlo.

Oggi Kilchoman si attesta su una produzione annua di circa 640mila litri di whisky e nemmeno un litro finisce in blend – rimarca con orgoglio

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Anthony Wills – perché, anzi, i Single Cask e in generale le bottiglie di Single Malt della distilleria non bastano a coprire una domanda crescente. E ora, mentre i tre figli James, George e Peter stanno prendendo piede in azienda, il fondatore e master distiller sta già pensando a una nuova avventura di distillazione in Barbados.

Mr Wills, Kilchoman era l’unica distilleria familiare su Islay fino al varo di Ardnahoe. Come ci si sente in mezzo a realtà controllate da grandi gruppi?

In realtà la reputazione di Islay è stata costruita proprio dalle grandi distillerie che hanno comunicato e venduto i loro Single Malt nel mondo. Si tratta di grandi player con un peso importante sul mercato, ma non c’è una vera competizione. Il mondo è grande abbastanza per tutti. È una questione di rapporto con la produzione e i suoi processi. Noi abbiamo scelto di trasferirci permanentemente su Islay circa vent’anni fa per avviare la nostra distilleria.

E Kilchoman è anche l’unica distilleria anche farm, che utilizza il proprio orzo per il maltaggio. È una scelta legata alla qualità?

È legata alla focalizzazione sulla produzione integrale del nostro whisky, a partire dalla terra. Le grandi corporation non sono così concentrate sul percorso di produzione, mentre le aziende più piccole giocano le proprie carte sulla qualità del distillato e sul rapporto con il cliente premium. Il mercato dello Scotch cresce e questo permette alle più piccole di avere un proprio ruolo. Il tempo è tutto in questo mondo. Solo 25 anni fa, quando noi abbiamo iniziato a maturare il nostro progetto, il 95% delle distillerie in Scozia era in mano a gruppi multinazionali, ma questo scenario è molto cambiato. Oggi credo che molte distillerie siano di proprietà di persone o famiglie e questa è una buona cosa per il comparto.

Quale differenza fa, dal vostro punto di vista, avere il controllo dell’intero processo produttivo?

Quando abbiamo deciso di creare Kilchoman, avevamo bisogno di un elemento che ci differenziasse. Di qualcosa di unico. D’altra parte c’erano più di cento distillerie in Scozia e nella mia visione non c’era una ragione per fondarne una che fosse uguale alle altre. Dovevamo raccontare una storia diversa e questo spiega la scelta di costruire un progetto che nasce come una vera fattoria in cui noi coltiviamo il nostro orzo e poi da quello arriviamo alla produzione. È stato un elemento chiave. Abbiamo tenuto qui in Islay l’intero processo dalla produzione agricola alla bottiglia. Non è rocket science, non ci abbiamo nemmeno pensato troppo, ma mi sembrava un bel messaggio per accompagnare il nostro brand nel mondo.

È anche un messaggio di autenticità?

Le distillerie di whisky in Scozia e sull’isola sono nate con una vocazione legata alla coltura agricola, qui su Islay erano registrate 35 “distillerie agricole” tra ‘600 e ‘700. Ecco, ho pensato che quello fosse un buon punto di partenza. E poi i consumatori sono sempre più attenti alla provenienza delle materie prime, alla tracciabilità di tutta la filiera per quello che comprano.

Ha funzionato anche sul mercato?

Penso che ci sia stata la congiunzione di vari elementi. Innanzitutto i consumatori stavano abbracciando il cambiamento, avvicinandosi a brand con una storia nuova e ai Single Malt non invecchiati. E questo, in combinazione con la nostra proposta un po’ differente, ci ha permesso di conquistare sui connoisseur e sulla fascia premium. Dunque la finestra temporale del nostro approdo sul mercato è stata perfetta. Probabilmente dieci anni prima non avrebbe funzionato. In fin dei conti: you make your own luck.

E la scelta è caduta su Islay. Perché?

Islay è stata probabilmente la decisione chiave, perché ha una grande tradizione e una reputazione fenomenale. Lavorare sull’isola ha le sue specificità - la logistica e i collegamenti sono più facili in terraferma, per dire - ma credo fermamente nel valore della storia.

E come vede il boom attuale del whisky?

Mi sembra che tutti vogliano essere parte di un settore di successo. Sono state costruite distillerie da parte di investitori che hanno molta liquidità, ma non esperienza di mercato. Qualcuno pensa che basti mettere un nome sull’etichetta e spingere sui social media perché il mercato ti scelga, ma non funziona così.

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Quanto crede che conti il fatto che siete un’azienda familiare?

Penso che un’impronta familiare nel business abbia la capacità di entrare in risonanza con le persone. Chi sceglie i nostri prodotti è consapevole del fatto che dietro ogni etichetta ci sono scelte fatte da una famiglia, da me che sono qui ogni giorno e da mia moglie e dai miei figli che portano avanti il progetto. Io credo fermamente che si debba essere immersi nella gestione dell’azienda, nella produzione e nello sviluppo, che questa sia una componente cruciale del nostro successo. Non è facile mantenere la stessa impostazione mentre il business cresce, ma è uno sforzo che vale la pena.

La vostra produzione di orzo non copre l’intera produzione di whisky, corretto?

Infatti, copre solo il 20% della produzione. Dunque abbiamo alcune release che sono 100% Islay, poi acquistiamo malto sul mercato per coprire la restante parte della distillazione. Sarebbe impossibile contare solo sulla nostra materia prima, perché pur avendo accresciuto l’estensione delle nostre coltivazioni queste hanno dei limiti. E noi abbiamo scelto di concentrarci su un 100% Islay che ci vede controllare l’intera filiera, presto arrivando anche al maltaggio interno (entro due anni), mentre ad esempio Bruichladdich è stata la prima a utilizzare orzo che acquista da coltivatori sull’isola (anche se poi il maltaggio avviene a Inverness).

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La filiera 100% Islay permette di valorizzare anche la sostenibilità?

Certamente. Così come ogni investimento mirato all’utilizzo di energie rinnovabili e alla riduzione delle emissioni. In effetti però sull’isola non è così facile, perché inevitabilmente la nostra impronta carbonica non si riduce se come distillerie acquistiamo malto dalla terraferma o lo riportiamo qui dopo il maltaggio. Non possiamo accelerare sul fronte sostenibilità come le distillerie in terraferma. Il tempo per noi è sempre più dilatato. Investire nel whisky significa anche investire sul tempo. Qual è il valore di questa componente?

Il tempo è il principale azionista in questo business. Inoltre oggi i miei figli sono entrati in azienda e questo è importante. Forse da giovani studenti hanno visto la passione e la mole enorme di lavoro che io e mia moglie abbiamo messo in questo progetto, dunque oggi sono loro i protagonisti. Per me è un’eredità su cui abbiamo investito energie e reinvestito tutti i profitti. Nel mondo del whisky non smetti mai di spendere, devi sempre costruire magazzini di affinamento e aumentare la produzione e migliorare le tecnologie e creare un visitor center più accogliente. Questo è stato il nostro percorso negli ultimi 5 anni e solo adesso ci siamo calmati un poco, mentre il mercato rallenta. Siamo fiduciosi in una ripresa, ma al momento abbiamo frenato il nostro programma di investimento, anche se continuiamo ad ampliare i magazzini per l’invecchiamento.

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SPIRITURISMO: SCOZIA

E come si conciliano incremento della produzione e investimenti sulla qualità?

Quando abbiamo iniziato, il nostro target era la fascia premium e il prezzo era alto per un Single Malt non invecchiato. Questo ci ha aperto le porte, ma nel frattempo siamo cresciuti e sono aumentati i volumi. Alcuni prodotti sono diventati più competitivi nel prezzo e i volumi per il mercato sono cresciuti, anche se le nostre limited edition rimangono la scelta dei connoisseur e mantengono un posizionamento molto alto. Ecco il mix. Difficile sopravvivere solo con il mercato della nicchia alta, perché i collezionisti non bevono quelle dannate bottiglie! (ride) Loro le tengono da parte, e noi li amiamo, ma dobbiamo bilanciare edizioni limitate e volumi. Il whisky sta entrando in una bolla di mercato?

Più che altro sembra esageratamente inflazionato. Quando sono partito io la raccolta dei finanziamenti per la fase di start-up è stata difficilissima, tutti pensavano fosse folle rischiare per una prospettiva di profitto almeno a cinque anni. Ora invece il fund raising sembra facile e ci sono investimenti a raffica su nuove distillerie, ma riusciranno a vendere una volta maturato il prodotto?

La moda ha contagiato anche il resto del mondo. Come vede questo fenomeno?

Non conosco la situazione nel resto del mondo, ma - senza arroganza - lo Scotch è lo Scotch. Poi ci sono altri whisky, il Bourbon e altre espressioni differenti, i giapponesi hanno fatto un gran lavoro di posizionamento e non c’è dubbio che la regionalità sia sempre più interessante anche nel mondo spirits. Però lo Scotch è il numero uno indiscusso.

Come scegliete i vostri distributori su scala internazionale?

Siamo partiti con realtà medio-piccole che avevano più tempo per dedicarsi ai nostri prodotti, poi ci siamo spostati talvolta su player più grandi, ma solo quando c’erano ragioni precise. Crediamo nelle partnership durature.

I governi in tutta Europa spingono sulla riduzione del consumo di alcol. Vi preoccupa?

Chiaramente dobbiamo esser attenti e responsabili nel modo in cui comunichiamo, ma se continuano a imporci regole il mondo rischia di diventare un posto molto noioso. Forse sono io tradizionalista. In ogni caso, il concetto dovrebbe essere drink less drink better. E non sembra plausibile ubriacarsi con un single cask di Islay; anzi, chi ama lo Scotch ne beve poco e se lo gode.

Quali sono i progetti per il futuro?

In Kilchoman la produzione crescerà, ma progettiamo una distilleria di rum a Barbados, la patria del rum caraibico. Il modello sarà simile: coltivare la canna da zucchero intorno all’azienda e produrre solo da succo e sciroppo (niente melassa) per concentrarci sul mercato premium. Parliamo di una realtà piccola. Sarà operativa nel 2025, al momento abbiamo comprato i terreni e ottenuto l’autorizzazione a piantare. Siamo molto eccitati.

Un’ultima domanda Mr Wills: quando non beve Scotch, cosa beve?

Mi piace un bel Gin & Tonic rilassante, con molto ghiaccio e un gin distillato seriamente. Non una di quelle cose aromatizzate senza senso.

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IL VIAGGIO NEL TEMPO diMACALLAN

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SPIRITURISMO: SCOZIA
di Marco Zucchetti

UN CIRCO LUNGO ANNI 200

Ogni ricorrenza che ci mette davanti all’ineluttabile scorrere del tempo racchiude in sé sia la gioia dei traguardi raggiunti – che tendenzialmente si esprime con una gran sete e con ricchi brindisi – sia la malinconia per il passato che si allontana nelle nebbie della memoria. Che vinca un approccio o l’altro, dipende dai caratteri: gli ottimisti aperti alle novità non vedono l’ora di lanciarsi in avventure mirabolanti, mentre gli inguaribili nostalgici, quelli che o tempora o mores, quelli che una volta qui era tutta campagna, tendono a una tristezza crepuscolare. E siccome il mondo dei distillati è tra i più conservatori in assoluto, è naturale che gli appassionati vivano ogni anniversario con un sospiro rimpiangendo i bei tempi che furono, quando tutto costava poco e soprattutto si era tutti giovani e forti. Se poi parliamo dei duecento anni di un mostro sacro come Macallan, l’ampiezza del sospiro è esponenziale. Perché forse nessun marchio rappresenta la ricchezza, la nobiltà e il mito del single malt Scotch whisky quanto la distilleria di Easter Elchies. E forse nessuno ha saputo adeguarsi all’evolversi di costumi e consumi quanto questo brand, diventato sinonimo di lussuoso nettare alcolico.

Nel cuore verde del whisky

Fatta questa premessa un po’ sociologica, un po’ antropologica e in gran parte autobiografica, tra gli invitati al party che dà il via ai festeggiamenti per la ricorrenza questa inquietudine un po’ serpeggia. Siamo nello Speyside, tre ore di auto da Edimburgo, un paesaggio fiabesco di fiumi scintillanti e di colline dolci striate del giallo dei campi e punteggiate dai pois bianchi delle pecore. È la regione principe della produzione di Scotch, con oltre cinquanta distillerie che spuntano con le loro pagode fumanti qui e là fra i paesini. Qui, nella zona chiamata Easter Elchies, accanto a un’antica dimora settecentesca e al centro di una tenuta che ospita 60mila alberi e oltre 70 specie diverse di fauna selvatica, sorge la distilleria Macallan, dove i pullmini organizzati dal gruppo Edrington, proprietario del marchio, stanno scaricando gli invitati.

Un po’ cattedrale, un po’ Teletubbies

Siamo tutti qui per un compleanno, dicevamo, e per l’occasione il meteo scozzese regala il suo meglio: dal sole all’acquazzone in quattro minuti netti.

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SPIRITURISMO: SCOZIA
SIAMO STATI ALLE CELEBRAZIONI PER I PRIMI DUE SECOLI DELLA DISTILLERIA PIÙ FAMOSA (E LUSSUOSA) DI SCOZIA. UN’OCCASIONE PER RIFLETTERE SUL VALORE DELLA STORIA E PER VEDERE IN ANTEPRIMA IL NUOVO SPETTACOLO DEL CIRQUE DU SOLEIL ISPIRATO ALLA NATURA DA CUI NASCE IL WHISKY

SPIRITURISMO: SCOZIA

Poco male, la festa non è all’aperto, anche se “la pioggia di oggi è il whisky di domani”, come amano dire da queste parti. In attesa del party, ci lasciamo condurre per mano tra i 36 alambicchi di rame, sotto un soffitto architettonicamente arditissimo sostenuto dall’ultramoderna struttura da 140 milioni di sterline inaugurata nel 2018 che riproduce le dolci colline circostanti e ricorda il mondo dei Teletubbies (ha pure l’erba sul tetto, che ci ha messo un paio d’anni ad attecchire causa siccità). Qui è tutto automatizzato, nell’enorme spazio in cui avvengono tutte le fasi della produzione – la macinatura del malto, la bollitura, la fermentazione e la distillazione – non si vede un solo dipendente. Ci sono solo due ingegneri, appollaiati nella torre di cristallo della sala controllo, che tengono d’occhio parametri e schermi digitali. Qui l’orzo maltato, l’acqua e il lievito, per quella magia alchemica che affonda le sue radici nella civiltà araba e passa attraverso i monaci irlandesi, diventano whisky. Qui nasce Macallan.

1824-2024: un viaggio nel tempo

A metà della visita si entra in una stanza, che funziona un po’ come una macchina del tempo. Qui, un drink fa le veci di Virgilio e ci conduce agli albori del marchio, ai tempi di Alexander Reid, il “rosso”, il patriarca di Macallan. I due secoli scorrono tra le 200 poesie raccolte in un libro e le immagini del film animato The heart of the spirit, proiettato in una sala immersiva in cui si alternano i grandi personaggi che hanno costruito il mito: da Alexander che comprò Easter Elchies e iniziò a coltivare l’orzo, ottenendo la prima licenza ufficiale dopo l’Excise Act che fece uscire dalla clandestinità tante distillerie in Scozia, si passa a Roderick Kemp, dipendente nel negozio di vini di Reid e grande appassionato di sherry, che quando diventò proprietario di Macallan scelse di invecchiare il whisky in barili che avevano contenuto prima vino di Jerez; da Janet, figlia di Roderick, fino ad Allan Shiach, l’uomo che con la sua visione (con lo pseudonimo di Alan Scott ha firmato la sceneggiatura di parecchi film hollywoodiani, tra cui Castaway) e la sua creatività pubblicitaria e di marketing ha fatto entrare Macallan nell’empireo dei brand universali. Un’epopea industriale e artigianale allo stesso tempo.

Il cuore in Spagna…

Oggi Macallan non è più quella realtà indipendente. Il mercato degli spirits è ormai quasi del tutto governato da grandi gruppi, e Macallan dal 1999 è di proprietà di Edrington, che possiede anche Highland Park e Glenrothes. Se da un lato la cosa può sembrare poco poetica, dall’altro è quasi inevitabile: gli investimenti e la necessità di aumentare la produzione, così da conquistare nuovi, ricchi mercati come l’Estremo Oriente, mal si conciliano con la dimensione familiare. E anche con quella artigianale, tanto che in occasione dell’inaugurazione del nuovo faraonico impianto qualche connoisseur – i conservatori di cui sopra – ha storto il naso: dove sta l’handcraft?, dove sta l’aspetto umano?, si chiedevano, guardando la distilleria deserta e automatizzata. Semplice: in Spagna. Già, perché nessuno quanto Macallan cura un aspetto di solito poco considerato dagli utenti finali, ovvero le botti. Che vengono costruite in Andalusia al Tavasa Cooperage, l’azienda di cui Macallan è proprietaria, con querce di 70-90 anni che vengono accuratamente ripiantate. Ogni albero viene selezionato, tagliato (rigorosamente in inverno, per non dare fastidio alla fauna selvatica), lasciato ad essiccare al sole e infine lavorato, tostato, in un processo lungo 6 anni per arrivare alle botti di sherry in cui poi verrà invecchiato il whisky.

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SPIRITURISMO: SCOZIA

…il pedigree in Italia

E se la Spagna è parte essenziale del processo produttivo attraverso il legno, l’Italia ha svolto un ruolo essenziale nella costruzione del mito Macallan. Perché la cosiddetta “invenzione” del single malt passa dai collezionisti e dagli imbottigliatori indipendenti italiani degli anni ’70, che mostrarono il potenziale (anche economico) di un distillato che fino a quel momento era utilizzato soprattutto per “dare corpo” alle miscele, i blended whisky. Ora, Macallan fu tra i pochi che iniziarono ad affermarsi come single malt anche qualche anno prima, grazie all’imbottigliatore indipendente Gordon & McPhail, ma è innegabile che i “nostri” Macallan siano tra i più rinomati. Non è un caso che nell’atrio principale della distilleria, tra le bottiglie storiche esposte come in un museo, tantissime provengano dalle collezioni italiane. Italiano era Giovinetti, il cui imbottigliamento di 7 anni diventò popolarissimo negli anni ’80 grazie al celebre spot della botte che rifiuta sdegnosamente la bottiglia perché “5 anni non bastano”. Italiano era Valerio Adami, l’artista pop che con un suo disegno adorna l’etichetta del Macallan 1926 invecchiato 60 anni che ha battuto ogni record all’asta (2,1 milioni di sterline da Sotheby’s nel 2023). Italiani erano però purtroppo anche i truffatori che hanno contraffatto centinaia di bottiglie, le cui quotazioni in questi anni sono schizzate vertiginosamente quanto la nomea della distilleria.

Un “circo” di lusso

Ed è alla fine di questo affascinante percorso che parte dai modi bruschi di uno scozzese per arrivare ai fasti di un brand riconosciuto universalmente come status symbol, che si arriva al clou della serata. Ovvero all’apertura ufficiale dei festeggiamenti per i due secoli di attività: 200 years young, come da slogan scelto. La prima iniziativa, presentata in esclusiva in questa occasione, è la collaborazione – che si annuncia pluriennale – con il Cirque du Soleil, che sfocia nello spettacolo “Spirit: a tale from the Highlands”. Un’esperienza unica che mette in scena la storia della distilleria e il legame viscerale con la natura scozzese, seguendo i personaggi di Davonna e Ayla tra performances acrobatiche e coreografie, costumi e whisky. Uno spettacolo in scena per tutto maggio (dal 9 al 31, biglietti a 200 sterline) all’interno di una delle warehouse della distilleria, dove di solito riposano le botti. “Macallan e il CDS – spiega Rachel Walters, director of operations – condividono lo stesso rispetto per l’ambiente e la stessa ossessione per i dettagli, che ci fa sbagliare, provare e riprovare fino ad arrivare all’eccellenza”.

Duecento di questi anni (con un augurio)

Di volteggio in equilibrismo, sul filo della fantasia e dello stupore, si arriva al termine dell’esperienza. E quando un emulo di Ziggy Stardust inguainato in una calzamaglia fulva a simboleggiare la pelliccia di una volpe alza un bicchiere ricolmo verso il cielo e lo fa tracimare a terra, in un tripudio di cornamuse e luci, noi ci ritroviamo da soli davanti al solito dilemma del compleanno. Rimpiangere con un filo di amarezza i tempi andati dei Macallan dal packaging austero e degli edifici della distilleria neri di umidità, oppure lasciarci trascinare in un presente-futuro in cui Macallan diventa altro, parte dal whisky e arriva al sogno, all’ecosostenibilità e all’arte come espressione del legame con la natura? A ognuno la sua risposta, da cercare – come sempre – sul fondo di un bicchiere di Macallan.

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MALTINTI LAGAVULIN UN ITALIANO ALLA GUIDA DI

L’origine comune è il malto, ma Pietro Maltinti, classe 1993, toscano di San Miniato (PI), fino a un anno fa non avrebbe mai pensato di passare al mondo del whisky, entrandoci poi dalla porta principale. La sua carriera è partita dalla birra, settore in cui ha lavorato per diversi anni, iniziando con un’esperienza in Germania, poi in Italia al Piccolo Birrificio Clandestino di Livorno, fino a fare le valigie per il Regno Unito.

Lo scorso anno si è aperta una posizione in Lagavulin per la sostituzione del distillery manager, Jordan Paisley, in congedo di paternità, e Pietro ha provato a inviare la sua candidatura, incuriosito dall’opportunità di entrare in una realtà storica oggi di proprietà di un grande gruppo come Diageo. Arrivano la prima risposta e il colloquio, poi una lunga attesa. La possibilità sembrava ormai sfumata, invece arriva una telefonata: «Potresti partire il prima possibile?». Destinazione Islay.

Da un punto di vista gustativo, il distillato di malto invecchiato è un prodotto che Pietro sta ancora imparando a conoscere, ma i processi di lavoro sono il suo pane quotidiano e fino a settembre di quest’anno – mese in cui Paisley rientrerà dal congedo - contribuirà a gestire (e ottimizzare) le operazioni per uno dei nomi icona del whisky a livello mondiale.

Nell’intervista a Spirito Autoctono, Pietro racconta la sua storia e la sua esperienza nel ruolo probabilmente che tutti gli appassionati di Scotch sognerebbero.

Pietro, partiamo dall’inizio, ci racconti com’è iniziata la sua carriera?

Alle superiori ero portato per le lingue, l’inglese mi è sempre piaciuto e ho fatto qualche stagione estiva lavorando con i turisti. Ricordo i loro occhi che luccicavano di fronte ai nostri paesaggi e ai nostri vini. Mi sono incuriosito e ho deciso di iscrivermi a enologia. Non avendo mai fatto chimica per me l’università è stata una botta, gli studi non facevano per me, ma così ho conosciuto il mondo della fermentazione e ho iniziato a farmi la birra in casa. Poi succede che il comune fa un gemellaggio con Apolda, una cittadina all’est della Germania, la mia nonna parte per la gita organizzata e mi porta in regalo la birra.

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PIETRO
di Eugenia Torelli

SPIRITURISMO: SCOZIA

Cioè, tutta questa storia inizia con una nonna che le porta la birra dalla Germania?

Così ho scoperto che ad Apolda c’era un birrificio. In comune cercavano giovani per degli scambi culturali e mi son proposto, a patto che mi facessero lavorare nel birrificio. Alla fine hanno accettato e ci sono rimasto quasi cinque mesi. Mi hanno fatto studiare il tedesco e ho deciso che volevo fare il birraio. Al mio ritorno sono andato a studiare alla scuola professionale Dieffe di Padova e da lì a fare uno stage al Piccolo Birrificio Clandestino di Livorno. Pierluigi, il proprietario, ha visto che ci sapevo fare e mi ha offerto un lavoro.

Che ricordi ha di quest’esperienza?

Era divertentissimo. Ci sono stato per due anni e mezzo, ho conosciuto praticamente tutta l’Italia della birra. Con Pierluigi siamo rimasti amici. Però avevo 24 anni, l’estero chiamava e sentivo il bisogno di fare esperienze nuove. È una fame che continuo ad avere anche oggi, ho sempre bisogno di qualcosa che mi stimoli e che possa propormi nuove sfide. Ho puntato sul Regno Unito e ho trovato lavoro da Brewdog.

Destinazione UK, com’era il contesto lavorativo?

Ho lavorato tre anni da Brewdog, dal 2017 al 2020. A quei tempi era in grande crescita, un centro internazionale dell’eccellenza birraria. Avevo colleghi argentini, brasiliani, tedeschi. Era meraviglioso. Si lavorava sodo e a livello di innovazione l’azienda era una bomba. Da Brewdog ho anche conosciuto Melanie, che poi è diventata mia moglie. È francese e lavora nel marketing. Poi sono successe varie cose: è arrivato il covid, avevo voglia di provare a lavorare in un birrificio più piccolo e ci siamo spostati a Londra,

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DALLA BIRRA AL WHISKY, COSÌ NASCE IL DISTILLERY MANAGER

DI UNA DELLE REALTÀ PIÙ IMPORTANTI (E STORICHE) DI ISLAY

dove ho trovato lavoro da Partizan a South Bermondsey. In città però il costo della vita era troppo alto e ci siamo trasferiti a Leeds, dove Northern Monk mi aveva offerto un lavoro. Anche mia moglie ha fatto vari cambiamenti lavorativi fino ad arrivare alla Nestlè. Ci siamo fermati, ma alla lunga mi mancava un po’ l’ambiente della grande corporation, poi lo scorso agosto ho visto quell’offerta di lavoro da Lagavulin su LinkedIn…

Com’è andata con Lagavulin?

In settembre Diageo mi ha chiamato, chiedendo se potevo fare il colloquio l’indomani. Il giorno dopo era venerdì, al sabato mi sarei sposato, ma non potevo dire di no. Ho passato il giovedì sera e il venerdì mattina a prepararmi. È andata bene, avrebbero dovuto farmi sapere la settimana successiva. Io intanto mi sono sposato, ho festeggiato al Birrificio Clandestino di Livorno, ma niente, la risposta non arrivava. Dopo un’altra settimana pensavo mi avessero scartato, così ho scritto loro una mail. Volevo almeno sentirmi dire che era un no. Invece mi hanno chiesto di aspettare ancora. Era venerdì e il lunedì dopo mi hanno richiamato offrendomi il lavoro. Chiedevano di andare sull’isola il prima possibile. Ed eccomi qua. Per quale ragione secondo lei hanno scelto una persona con esperienza nella birra?

Quello del distillery manager di Lagavulin è un posto ambito, lo sognano in tanti e io sono arrivato qui senza un’esperienza specifica nel mondo dei distillati, l’azienda sta rinnovando il personale anche in termini di background. Anche il manager della malteria arriva dal mondo della birra, altri addirittura dall’aeronautica. Importare risorse con altre visioni e altre esperienze lavorative aiuta ad arricchire le capacità di tutto il gruppo.

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SPIRITURISMO: SCOZIA

SPIRITURISMO: SCOZIA

Com’è il passaggio dalla birra all’alta gradazione e, in particolare, al whisky?

Il mio ruolo è sostanzialmente quello dell’operations manager, non devo essere esperto di whisky, in distilleria per questo ci sono figure che lavorano qui da 25 anni. Il mio lavoro si concentra sugli aspetti riguardanti la sicurezza e la gestione del personale, si tratta di un ruolo organizzativo e questo mi piace molto. Era in parte quello che faceva da Northern Monk e Brewdog. Il focus è quello di continuare a migliorare il processo.

E come si migliora il processo in una distilleria come Lagavulin?

La nostra distilleria non ha la tecnologia di Port Ellen, ma possiamo lavorare su quello che abbiamo, provando a produrre un po’ di più con la stessa qualità, migliorando i processi. Ad esempio mi sono accorto che aggiustando alcuni flussi di lavoro potevo ottimizzare le tempistiche e da quando ci sono io facciamo due mash in più a settimana.

Com’è la relazione con il personale? Come è stato accolto?

Da Northern Monk coordinavo tanti birrai più giovani di me, qui invece sono tutti di età maggiore, ma mi hanno accolto bene. Mi piace allacciare rapporti con le persone, ho un approccio amichevole, in questo ci sono dei pro e dei contro, ma penso che le persone si sentano a proprio agio.

What’s next? Ci ha pensato?

Una volta che Jordan sarà rientrato riprenderà il suo ruolo. Ma Diageo è grande, da quando ho iniziato il feedback è stato positivo, potrebbe esserci l’opportunità di rimanere. Il gruppo facilita molto i movimenti dei manager e del personale in generale. Questo lavoro è bellissimo, ma lavorare sull’isola è una vera e propria scelta di vita, dovrò valutare anche questo. Nel frattempo mia moglie ha iniziato a lavorare per Bowmore.

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ARMENIA DA SCOPRIRE

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Foto di Stefano Borghesi

LE MILLE SFUMATURE

DI UNA TERRA DIFFICILE

È una terra aspra e difficile quella popolata dagli armeni, gente racchiusa in un territorio di primordiale bellezza ma costretta dalla geopolitica e dalla storia a fare i conti con un realtà complessa e in continua evoluzione. I confini a est sono sollecitati dalla pressione dell’Azerbaigian, che lo scorso autunno nel corso di una offensiva armata lampo di 24 ore ha definitivamente annesso la regione del Nagorno-Karabakh dopo un contenzioso durato un trentennio, mentre a ovest incidono le relazioni non certo tranquille con i vicini della Turchia, responsabili di quello che viene oggi ricordato come “genocidio armeno”, perpetrato negli anni della Prima Guerra Mondiale, nel corso del processo di disfacimento dell’allora Impero Ottomano. Detto questo, l’Armenia e la capitale Erevan stanno anche vivendo un interessante periodo che porta a dei riflessi suggestivi nell’ambito che più ci è caro, quello degli spiriti, dei distillati, della mixo-

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logy e, ne consegue, anche della scena gastronomica locale. Un fermento che se da un lato non ha ancora portato alla definizione di un fine dining di rilievo, al momento in fase embrionale, dall’altro ha iniziato a mostrare i segnali di una positiva vivacità culinaria evidenziatasi nei nuovi Izakaya in città, nei primi locali con una selezione di vini naturali, negli specialty coffee ormai diffusi e nelle cucine di matrice etnica che, seppur lentamente, stanno superando la proposta classica del lavash (la squisita piadina caucasica), del lahmajoun (la cosiddetta pizza armena), dei manti (ravioli), dei dolma (involtini di foglie di vite) o dei khorovats (spiedini di carne). Pur rimanendo, quella armena, una cucina che si nutre di un meticciato culturale dove si transita sempre dal Medio Oriente e si arriva fino alla non troppo lontana ex Unione Sovietica.

Ben diverso invece, come detto, il mondo degli spiriti, che qui può contare su un brand, anzi su un brandy, decisamente importante come Ararat, azienda leader di un prodotto la cui fama ha superato i confini nazionali sin dai primi anni del secolo scorso. Ancora oggi una delle cartoline più riconoscibili della capitale vede stagliarsi sullo sfondo la monumentale fabbrica del liquore (al cui interno si può visitare un museo), vera icona armena al punto di aver dedicato una pregiata bottiglia di brandy all’altro celebre armeno conosciuto in tutto il mondo, il cantante Charles Aznavour.

È davvero difficile resistere alle sfumature delle diverse annate del pregiato Ararat invecchiate nelle botti di quercia caucasica, che rilasciano note di frutta secca, di tabacco, di persistente affumicatura, di vaniglia, di spezie, dove si avverte anche la qualità delle uve bianche autoctone utilizzate (Garandmak e Voskehat), le quali passano attraverso una doppia distillazione. In più, come segnale forte di apertura verso un consumatore più giovane, negli ultimi tempi qui sono nati anche dei nuovi brandy aromatizzati, al gusto miele e albicocca e ciliegia, ma, inutile dirlo, i puristi storcono un po’ il naso e preferiscono dirottare sulle vecchie annate verso i 15 e i 30 anni di invecchiamento. Poi, a parte il colosso del brandy, a Erevan si sta sviluppando un fertile sottobosco di giovani intraprendenti (in molti casi arrivati dalla vicina Russia), che hanno iniziato a produrre con stile artigianale un serie di bottiglie di un certo interesse.

Facciamo due esempi su tutti. Il primo è quello di Kuwa Izakaya, un cocktail bar con cucina ispirato, come si evince dal nome, dal Giappone e dove all’ottima cucina di Nikita Poderiagin (già Best young chef nella prima e sino ad ora unica edizione della guida Michelin di Mosca targata 2022) si è affiancato un laboratorio che ha già prodotto in pochi mesi birre, sake, cordiali al melograno e soprattutto un originale brandy ricavato da un fermentato di riso. Tutti esperimenti i quali oltre ad arricchire la proposta di miscelazione di Kuwa (che, per inciso, significa gelso) creano un ponte cultural-gastronomico stimolante che abbraccia il Sol Levante utilizzando la migliore materia prima reperibile sul mercato armeno.

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L’altro esempio riguarda la recente nascita di Science & Spirit, una compagnia di giovani intraprendenti (in parte ricercatori e in parte bartender) che ha iniziato a produrre spiriti con metodo di distillazione sottovuoto e collaborando con esperti di paleobotanica, microbiologi e sviluppatori di software. La prima uscita è stato l’Astronomer gin, con base alcolica di grano neutro, melograno e 21 elementi tra cui il cardamomo thailandese, la noce moscata, la foglia di ribes nero, la radice di Angelica e i fiori di lavanda. Si parte dal succo di melograno spremuto a freddo, miscelato con lo spirito e fatto riposare per una settimana prima del filtraggio, poi il liquido viene combinato con le sostanze botaniche e rimane in macerazione per altri sette giorni. Infine la distillazione, che avviene a una temperatura bassa di 19 gradi, e consente di preservare meglio i composti aromatici presenti. Nasce così un gin dal profilo piuttosto

intrigante, che rivela aromi citrici (pompelmo, mandarino), ma anche spezie e fiori in bella evidenza, con al palato note astringenti e retrogusto agrumato. Una bella scoperta, cui nel frattempo è seguita la realizzazione di un sidro preparato con varietà di mele coltivate in Armenia, e molte altre idee da sviluppare nel cassetto. Magari già da quest’anno, visto che dopo una prima edizione di una cocktail week a Erevan lo scorso anno, nel prossimo mese di maggio (dal 5 al 12) si replica grazie agli sforzi organizzativi e alla passione del quarantaquattrenne barman e imprenditore Gegam Kazarian, un visionario che forse prima di altri ha saputo sviluppare progetti in grado di unire la mixology all’alta cucina. Anche per questa ragione, ma non solo, ci piace l’idea di segnalare qualche indirizzo utile a chi vuole visitare Erevan mettendo i piedi sotto a un tavolo.

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Minas

Oltre ad essere un cocktail bar di qualità, Minas ha come punto di forza anche il piacere di un ambiente dove l’arte è ben presente alle pareti, visto che il luogo nasce come omaggio al talentuoso pittore armeno del XX secolo Minas Avetisyan. Da provare Urmia, un drink a base di amaretto.

Daboo

Fondato nel 2017, è uno dei primi cocktail bar di Erevan. Sotterraneo e con retro-style da speakeasy, Daboo può contare su un team affiatato, due lunghi banchi che impegnano buon parte di un lunga sala a una fitta programmazione di guest anche internazionali. Tra un chiacchiera e l’altra con gli affabili barman di odin un Hallelujah, con rum, limoncello, lime e frutto della passione.

Corpous Gastrobar

Carpacci, salmone, beef tartare, vitello tonnato, hummus, tempura di verdure e molto altro. La cucina di Ara Hovhannisyan gioca la carta della versatilità e di una chiara riconoscibilità di classici internazionali amati da un clientela giovane e spigliata, che non disdegna di abbinare uno dei cocktail provenienti dal lungo bancone che caratterizza l’ingresso del locale. Magari anche un semplice spritz.

Kuwa Izakaya

Tra gli ultimi arrivati in città, ma anche tra i più dinamici. Con i prodotti locali e un’anima nipponica, la firma di un cuoco russo di talento e i deliziosi cocktail del giovane bartender Paul Barkol. Come il Diana, dedicato a Diana Abgar, la prima diplomatica donna in Armenia, con sherry, vermouth infuso con gelso e vino di prugne. Al tavolo invece si può puntare l’attenzione sullo spiedino di storione grigliato con togarashi sumac.

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PERDOMO

“Non è importante la meta ma il viaggio!” diceva Einstein citando T. S. Eliot, ma permettetemi di dissentire! Quando il viaggio dura 29 ore, scandite da un treno locale, una freccia, un altro treno locale, 13 ore di volo Roma - Città del Messico, con annesse 5 ore di sosta all’interno dell’aeroporto, un volo di 3 ore Città del Messico – Managua, e quasi tre ore di pullman da Managua a Estelì, comprenderete come è la meta a diventare essenziale. Anzi, oserei dire agognata, dopo essere stata a lungo un miraggio. “Si ho 50 anni, ma se togliete tutto il tempo che ho aspettato in aeroporto” diceva il Marx senza barba.

Siamo comunque arrivati e dopo un poco di attività defatigante, leggasi letto, doccia, cibo, tresette e briscola in ordine sparso e un poco di sonno, alternato alla veglia dataci dal cambio di fuso orario, la mattina, belli pimpanti, eravamo pronti per decodificare il linguaggio dei sigari nicaraguensi. Tre ore di lezione con sigaro

ESTELÌ UN VIAGGIO

ALLA SCOPERTA DELLA MANIFATTURA DEL SIGARO

rigorosamente acceso fra le labbra, e poi via a visitare una delle tre ‘finche’ (proprietà terriere, ndr) di Perdomo cigars.

La scelta cade su Estelì, la più vicina, situata nel cratere di un vulcano spento. La piantagione ha un’estensione territoriale che mi ha fatto comprendere, per la prima volta, il significato di ‘a perdita d’occhio’. Per scelta aziendale, Perdomo effettua una sola raccolta l’anno nella lunga stagione che va da dicembre ad aprile. La selezione è totalmente diversa da quella conosciuta in Italia: si raccolgono prima le foglie basse (non quelle che toccano terra, il tabacco prende facilmente odori e sapori e il contatto con il terreno non lascia aromaticità piacevoli) andando a salire. La piantagione è irrigata da un laghetto artificiale alimentato dal vicino fiume. Gli operai a fine raccolto estirpano le piante e le lasciano a macerare sul campo in modo da permettere al terreno di recuperare i nutrimenti perduti.

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di Terry Nesti

La leggerezza dei moderni trattori usati per lavorare i campi può essere paragonata a quella di una tradizionale coppia di buoi. Questi ultimi, lontani dall’essere sostituiti dalle moderne tecnologie, vengono tuttora utilizzati per arare i bordi dei campi, dove il mezzo meccanico avrebbe difficoltà di manovra.

Dopo la raccolta si passa alla cura ad aria per ammarronare il tabacco. La procedura avviene all’interno dei fienili dove le temperature del Nicaragua unite all’umidità tipica dell’aria attivano la trasformazione delle foglie.

La preparazione del tabacco è un’esperienza olfattiva ma anche visiva. I giovani braccianti si arrampicano con agilità sui vari livelli del fienile per posizionare e spostare le stanghe cariche di foglie. Terminato questo processo il tabacco è destinato alla fabbrica di Estelì che raggiungiamo anche noi con il nostro torpedone giallo. La principale differenza fra il sigaro italiano e quello caraibico è data dal livello di fermentazione della foglia. Se in Italia siamo abituati ad usare un tabacco relativamente giovane, in Nicaragua si tende ad un maggiore invecchiamento, portando le masse a una blanda ma costante fermentazione. Il primo edificio di Estelì che visitiamo ha proprio questa funzione. Il capannone ci accoglie con un forte odore di macerazione; il prodotto matura su dei sacchi di iuta mentre il personale controlla costantemente temperatura e umidità, pronto ad arieggiare nel caso il calore della massa salga oltre il limite accettato. Perdomo ha sviluppato un sistema di fermentazione a temperatura controllata che consente di ottenere un risultato uniforme. Questo processo avviene in grandi camere sigillate, in cui le foglie di tabacco vengono mantenute a temperatura e umidità controllate per garantire una fermentazione ottimale. Il procedimento riesce alla perfezione grazie anche all’estrema cura nella scelta delle foglie di tabacco più adatte a diventare sigari. La selezione avviene secondo i criteri di colore, spessore e aroma. Dopo una prima analisi, le foglie sono sottoposte a un processo di fermentazione che può durare da sei mesi a oltre un anno. È durante questa fase che le foglie sviluppano complessità di sapore, perdendo allo stesso tempo l’amaro e l’astringenza indesiderati.

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Un quarto criterio di scelta, è la provenienza. Le diverse regioni del Nicaragua donano infatti caratteristiche uniche e riconoscibili. Le foglie di tabacco provenienti da Estelí, ad esempio, risultano intense e speziate, mentre quelle provenienti da Condega sono più morbide e dolci. E’ dalla loro unicità e dalla scelta della miscelazione che si ottiene l’equilibrio perfetto di dolcezza, spezie, note terrose e complessità. Una varietà di caratteri che consente a Perdomo di creare blend complessi e bilanciati che soddisfano una vasta gamma di gusti.

Tra le innovazioni che Perdomo ha portato nella sua azienda c’è l’utilizzo dei barili di quercia bianca americana per la maturazione del tabacco. Questo legno conferisce un sapore unico e contribuisce alla caratteristica complessità dei sigari. Esplorare le tante anime di Perdomo significa intraprendere un viaggio nella tradizione tanto quanto nella ricerca di nuove tecnologie, processi di produzione all’avanguardia e collaborazioni con esperti del settore per migliorare costantemente la qualità dei sigari.

Quando arriviamo in produzione è ormai il giorno seguente, abbiamo ripreso il nostro bus giallo e siamo tornati in fabbrica. La sala è viva di attività: uomini e donne abili, con le mani veloci e gli occhi attenti, lavorano con maestria per trasformare il tabacco in sigari di altissima qualità. È un balletto di movimenti precisi e coordinati, un’orchestra di abilità e conoscenza. Nick Perdomo Jr. è l’artefice di questa impresa familiare. Ci accoglie con un sorriso caloroso e un entusiasmo contagioso. Nick è un uomo affascinante, con una passione travolgente per il suo mestiere. Ci spiega l’importanza dei terreni nicaraguensi, che conferiscono ai loro sigari un gusto unico e distintivo. Mentre ci porta a visitare le immense cantine di Perdomo Cigars dove i sigari riposano pazientemente, acquisendo profondità di sapore e complessità, Nick ci racconta dell’attenzione che viene dedicata ad ogni fase della produzione, dalla semina delle piante alla selezione delle foglie, dalla fermentazione all’invecchiamento.

Il suo racconto è una macchina del tempo, dove il tabacco si trasforma in un’opera d’arte che affascina i sensi. Questo accade perché “ogni sigaro è unico - garantisce Nick Perdomo Jr - una creazione che richiede tempo, impegno e una profonda comprensione del tabacco”.

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Camminiamo tra le file di sigari in sua compagnia, e si fa ormai chiara la consapevolezza che ogni singolo sigaro è un’opera di dedizione e maestria. A ogni passo lasciamo indietro i sapori ed i profumi di una varietà di tabacco per essere subito avvolti da quella successiva. Le foglie morbide e aromatiche delle piante di Jalapa incontrano quelle intense e speziate di Estelí, per un’esperienza sensoriale che mi avvolge completamente. Senza accorgercene arriviamo all’ultima fase del percorso di produzione: la falegnameria. Qui si dedica un’attenzione particolare alla produzione delle scatole che andranno ad ospitare i sigari. Sono realizzate con materiali di alta qualità e vengono progettate per garantire ai fumatori un’esperienza premium, impossibile senza la certezza di una conservazione adeguata.

La scelta del legno privilegia quello di cedro spagnolo. Sia per l’ottima capacità di assorbimento dell’umidità che contribuisce a mantenere i sigari freschi, sia per le sue proprietà aromatiche che possono influenzare positivamente il sapore dei sigari. L’attenzione al design si traduce in cura per i dettagli e impegno per offrire una completa esperienza di fumo di sigari di alta qualità.Per questo le scatole sono spesso caratterizzate da finiture di alta qualità, come l’uso di vernici lucide, intarsi e incisioni. Che vanno ad aggiungersi alle incisioni personalizzate, con loghi o messaggi speciali impressi per sempre sulle scatole.

È a questo punto del viaggio, con gli occhi e i sensi pieni di stupore, che arriva il momento tanto atteso: accendere un sigaro Perdomo. La fiamma danza intorno alla punta, illuminando il tabacco e rilasciando un aroma ricco e avvolgente. La fumata è un momento di contemplazione utile ad apprezzare l’arte e la maestria che si nasconde in ogni singola boccata. Lascio la fabbrica di Perdomo Cigars con un senso di gratitudine e privilegio nei confronti di questa esperienza.

Merito della passione contagiosa di Nick Perdomo Jr. per questa arte antica che è la produzione di sigari. Il tabacco nicaraguense è un tesoro prezioso, e Perdomo Cigars è il suo custode, che trasforma foglie umili in opere d’arte fumabile. In questo angolo nascosto del Nicaragua, abbiamo scoperto un mondo di sapori, profumi e abilità artigianali che sfidano l’immaginazione. La produzione di sigari Perdomo è una testimonianza di dedizione e passione, un esempio luminoso di come l’arte e il lavoro manuale possano fondersi per creare qualcosa di veramente straordinario.

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CALABRIA SPIRITO DI

BARMAN E AVVOCATO, RISTORATORE E DISTILLATORE L’IMPRENDITORE RILANCIA LA TRADIZIONE

LIQUORISTICA CALABRESE

E SVILUPPA UN MERCATO

INTERNAZIONALE

RIPARTENDO DALL’AMARO

di Giambattista Marchetto

Barman, avvocato, business angel, chef e ristoratore. Ma soprattutto spirits lover e fondatore di una distilleria che scommette sull’unicità dei sapori di Calabria. Il tutto in 45 anni carichi di dinamismo. Sì, perché Raffaele Cammarella in vita sua non si è mai dato il tempo di annoiarsi né tantomeno si è accomodato nelle zone di comfort. Classe 1977, ha iniziato la sua parabola lavorativa dietro il bancone, utilizzando gli spirits come barman; 47 anni dopo i suoi brands di spiriti, nati esclusivamente nel laboratorio di Diamante, puntano dritto su UK e Nord America. Nel mezzo le esperienze più disparate, in una storia di vita che sembra un’avventura. E che come tutte le storie deve molto agli incontri cruciali.

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Raffaele, come nasce il progetto Mzero?

«Tutto è iniziato durante i lockdown legati al covid. Nel ristorante che avevo aperto a Diamante non potevamo lavorare, ma avevo alcune vecchie ricette accantonate che mi hanno dato lo spunto. Allora ho trovato un liquorificio storico e siamo partiti con la sperimentazione per realizzare un amaro italiano che superasse gli stereotipi, quelli legati al consumo -principalmente veicolato come invernale -, e quelli territoriali, che lo vedevano proteso verso le erbe di montagna, una beva balsamica. Sono partito dall’idea di reinterpretare l’amaro in chiave più moderna e marina, offrendo una beva più facile e spigliata, più estiva e giovane. E naturalmente un buon prodotto da portare in miscelazione. Siamo partiti dalla freschezza degli agrumi aggiungendo l’acqua di mare per dare sapidità, un matrimonio che ha il sapore dell’estate».

È partito da solo?

«Quasi da subito è entrato nel progetto anche Paolo Goffredo. Abbiamo sempre lavorato insieme, lui è il distillatore mentre io mi occupo di gestione e strategie di sviluppo».

Come gestite la produzione?

«I primi tempi la produzione si è appoggiata allo storico Liquorificio Aulicino di Santa Maria del Cedro, dove sanno utilizzare al meglio il cedro tipico del territorio. Con loro abbiamo fatto dei piccoli ritocchi alle ricette su cui avevo lavorato, per dare una sfumatura più moderna. Abbiamo aggiunto l’arancia amara, il mirto e la liquirizia locali. Il risultato ci ha subito convinti».

Quando erano nate quelle ricette?

«Nel periodo degli studi universitari, quando lavorao come barman a Roma. Mi sono formato con Aibes e ho lavorato in molti locali anche storici della scena romana: dal Muccassassina al Alpheus fino alla vecchia Taverna del Campo. Dopo la laurea in giurisprudenza ho iniziato il praticantato e poi ho iniziato a esercitare come avvocato, abbandonando il bancone. Ma le ricette sono tornate».

Per passare al tribunale?

«In realtà niente processi, dato che mi son sempre occupato di supportare la creazione di startup, soprattutto nel settore tech e IT».

Come è avvenuto il ritorno al beverage?

«Mi annoiavo nel lavoro che facevo e mi sono riavvicinato, aprendo una birreria con un amico. Nel frattempo mi sono appassionato ulteriormente e ho fatto diversi corsi di cucina, in particolare giapponese. Nel 2018 ho aperto il ristorante Miglio Zero a Diamante, dove con una giovane chef molto brava abbiamo iniziato a proporre una cucina fusion: lei curava la componente italiana e io la parte più orientale. Una bella storia».

E in quella finestra è iniziato il progetto distillati?

«Era un mio vecchio pallino. Già quando facevo il barman avevo iniziato a fare infusioni o affinamenti, facevo un bitter homemade. Al tempo non era una cosa frequente e anche le spezie erano difficili da trovare. L’incontro fortuito con il Liquorificio Aulicino, che mi ha messo a disposizione la struttura, ha consentito di produrre le prime 500 bottiglie del nostro amaro che non aveva ancora un nome. Abbiamo utilizzato (in economia) delle bottiglie farmaceutiche della Bormioli, che ho cercato di abbellire con un packaging particolare. Con l’ingenuità e l’entusiasmo dei principianti abbiamo inviato i campioni al World Drink Award sotto il nome di Mzero, perché Miglio Zero sarebbe stato complicato per gli anglosassoni. Risultato? Vinciamo il primo premio nella categoria bitter (per noi

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è propriamente un amaro italiano, ma non c’era una categoria dedicata e abbiamo dovuto virare sul bitter). In più abbiamo preso altri nove premi per l’estetica della bottiglia e il packaging, con le etichette in pelle riciclata che stampavamo noi in casa e un tappo particolare che diventa un gadget portachiavi».

Un successo clamoroso già in partenza. Come l’avete sfruttato?

«Se prima non sapevo bene a chi vendere le mie 500 bottiglie, dopo il premio abbiamo svuotato il magazzino in una settimana. E anche il secondo lotto (800 bottiglie) ha trovato rapidamente una collocazione. Tra fine 2021 e inizio 2022 eravamo a 10mila bottiglie, ma il nostro amaro Mzero rimaneva l’unico prodotto. Abbiamo lavorato sulla logistica, ma gli obiettivi erano un aumento della produzione e soprattutto la creazione di una distilleria. Per questo, a fine 2022, abbiamo aperto il capitale e l’ingresso di alcuni business angel ha portato un’iniezione di liquidità. Così è nato - finalmente - Mzero Sealab».

Avete iniziato a produrre tutto in proprio?

«Per la verità no. Mzero Sealab è il laboratorio in cui faccio ricerca e sviluppo utilizzando un pot still classico da 100 litri e un rotovapor da 5 litri. A maggio 2023 da questi studi è nato il nostro primo gin, il Pink Pepper, che negli States ha vinto una doppia medaglia d’oro ed è stato indicato da Forbes come uno dei prodotti più innovativi. Lo produciamo in casa, mentre le circa 14mila bottiglie di amaro rimangono in carico al Liquorificio che ci garantisce un altissimo livello di qualità. Altra novità è l’arrivo

di un supporto per la distribuzione dell’amaro; stringendo un accordo con Rinaldi 1957, abbiamo velocizzato i processi e guadagnato tempo per concentrarci sui nuovi orizzonti».

Quali sono i nuovi progetti?

«Dopo il Pink Pepper abbiamo lavorato Black Incenso, il secondo gin, finito con un’infusione di nero di seppia. Hanno dato il via a una serie di sei gin, la nostra idea è di disegnare una collezione basata su prodotti aromatici, quasi monobotanica, molto riconoscibili. Inoltre stiamo preparando l’uscita del nostro primo whisky, prodotto in partnership con la distilleria salernitana Officine Alkemiche. Al momento si attende l’autorizzazione per l’accisa sospesa e stiamo ragionando sulla scelta delle botti per l’affinamento. Parallelamente siamo partiti (da poco) con lo studio di um rum “improprio”, nel senso che viene distillato dalla melassa di fichi, frutto abbondante nei nostri territori; dopo i test in distilleria, stiamo provando gli invecchiamenti. Parallelamente lavoriamo a un rum bianco da miscelazione».

Perché avete scelto di puntare su rum e whisky?

«Il rum nasce perché abbiamo la materia prima, la melassa di fichi, e crediamo che esista un buon mercato. Poi le prime prove sono state convincenti. Il progetto whisky, invece, nasce perché ritengo sia il distillato italiano del futuro. Quando gli italiani entrano in alcuni settori (basti pensare al gin o alle birre craft) portano nuove idee, rompendo gli schemi e creando nuovo valore».

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Tutto uscirà sotto il brand Mzero?

«In realtà ognuno di questi prodotti uscirà con il cappello del laboratorio r&d nella prima fase, ma se capiamo che il distillato può funzionare bene puntiamo a svilupparlo autonomamente facendo conto terzi. Noi vorremmo concentrarci sulla ricerca e stiamo lavorando anche su alcuni brevetti».

Dunque oggi il focus è solo sugli spirits?

«Sì, ho deciso di dedicarmi totalmente al progetto distilleria e al nostro amaro Mzero. Io sono un curioso, studio tantissimo. Sono passato dal corso per mastro birraio ai corsi di cucina e questo mi ha aiutato moltissimo, perché costruiamo le ricette come fossero piatti, mescolando i sapori. Ecco perché facciamo pochi prodotti, uscendo solo dopo un accurato studio della ricetta».

Come vi vedete da qui a cinque anni?

«La partnership con Rinaldi ci sta alleggerendo e ci permette di investire su nuovi progetti e nuovi mercati. Nel medio periodo mi vedo spinto sull’estero, in particolare sul nord America, perché l’Italia è già satura di prodotti di questo tipo».

Qual è il rapporto con la miscelazione?

«Io vengo da quel mondo, credo sinceramente sia un confronto positivo. Ritengo sia il contesto di riferimento, anche se quando sviluppiamo i prodotti li pensiamo per una bevuta liscia. E si nota, basti pensare ai gin, che pure vengono utilizzati soprattutto con la tonica, ma sono molto morbidi dato che sono frutto di tre distillazioni. Invece sull’amaro stiamo lavorando a una novità: io vengo dalla scuola classica per cui il colore è scuro, ma rilasceremo un Mzero più trasparente proprio per la mixology».

E quanto riuscite a valorizzare il vostro legame con il territorio?

«Il territorio è importantissimo, soprattutto per i nostri prodotti. Viviamo in un’area che passa da zero a 1200 metri di altitudine in 4 km, per cui abbiamo una gamma ampia di essenze, bacche e botaniche, ricche di principi attivi. Questo permette di spingere sugli aromi nelle infusioni e consente alla liquoristica calabrese di esser riconosciuta come una eccellenza premiata nel mondo. Spesso i calabresi stessi non sanno che qui si producono i migliori amari del mondo, ma quando finalmente si arriverà ad una presa di coscienza allora probabilmente gli spirits potranno essere uno strumento di rilancio su larga scala».

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CINQUANTA SPIRITO ITALIANO

Si parla sempre di più della fuga dei giovani cervelli. Ragazzi che rendendosi conto di quanto sia difficoltoso crearsi una situazione di autonomia in Italia fanno le valigie, salutano famiglia e amici e partono per cercare fortuna oltre confine. Una volta raggiunti gli obiettivi molti decidono di rimanere all’estero mentre una più piccola percentuale fà il percorso inverso e torna a casa. Alla base del ritorno il più delle volte c’è anche l’amore per il proprio territorio e la voglia di fare qualcosa per migliorarlo. Il bagaglio di esperienze fatte arricchisce così non solo la persona che le ha vissute ma anche il Paese.

QUANDO IL RISCATTO DI UN TERRITORIO PASSA DAL BAR

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di Alessandra Iannello

GOCCIOLE E NEGRONI

Londra - Pagani andata e ritorno

Un periodo di crescita e di perfezionamento per poi tornare a casa è quello che hanno fatto Alfonso Califano e Natale Palmieri, due giovani campani di Pagani, in provincia di Salerno. Alfonso, classe 1990, dopo essersi laureato in Economia del Turismo a Napoli, si trasferisce a Londra dove gestisce un pub per due anni prima di approdanre al Dandelyan, Miglior Bar 2018 per The World’s 50 Best Bars. Natale, classe 1986, si è diplomato all’alberghiero e ha avuto varie esperienze in cucina sia in Italia che all’estero; rientrato a Pagani, apre prima il Makumbar e poi Caffetteria Palmieri, attività entrambe cedute per dedicarsi al progetto Cinquanta Spirito Italiano.

I due, amici fin dall’infanzia, decidono che è ora di fare di più per quel Paese maltrattato, come troppo spesso succede, proprio da una parte dei suoi cittadini. Così nel 2020, nel pieno di un periodo che tutto il mondo vorrebbe dimenticare, si imbarcano in un’avventura senza pari. Rilevano i locali che erano stati costruiti per la filiale di una banca mai aperta causa Covid, situati in quella che era conosciuta come una delle piazze di spaccio più attive della Campania. Qui avrebbe preso vita il loro sogno: un bar di quartiere che diventasse un centro di aggregazione. Quello che invece divenne fin da subito Cinquanta Spirito Italiano fu uno schiaffo in piena faccia a chi era sicuro che l’illegalità fosse l’unica lingua che si potesse parlare in quella piazza. “Devo dire – ricorda Alfonso Califano - che non fu facile decidere di prendere questo locale. Non per paura, ma perché non eravamo sicuri che le persone avrebbero cambiato idea su questa zona. Fu una sfida, in primo luogo, contro noi stessi e poi verso le abitudini e i pregiudizi”.

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All day long

Una cosa fu subito chiara: Cinquanta Spirito Italiano per poter diventare un presidio di legalità doveva prima essere un punto di riferimento. Un locale come quelli di una volta, aperti tutto il giorno, dove chi stava dietro al bancone diventava un amico a cui raccontare i problemi, con il quale gioire per un traguardo raggiunto, al quale confidare un segreto.

“Investire in un momento così delicato, soprattutto per il comparto food & beverage, come è stato quello del periodo Covid - ricorda Natale Palmieri - non è stato semplice, ma non abbiamo avuto paura. Oggi la nostra squadra conta 30 elementi fra bar, cucina e sala. Il bar è aperto 7 giorni su 7 ma ognuno di noi lavora per 5 a giorni a settimana perché crediamo sia importante avere del tempo libero per godere dei frutti del duro lavoro”.

Il modello su cui lavorare era quindi quello del “bar all’italiana”, un luogo di aggregazione e svago a 360 gradi dove ci si siede per leggere il giornale durante il momento della colazione, mangiare un piatto veloce nella pausa pranzo oppure dove darsi appuntamento con gli amici per un aperitivo o un dopocena in compagnia.

Obiettivo raggiunto in meno di tre anni. Oggi Cinquanta Spirito Italiano è un punto di riferimento non solo per Pagani ma ha un raggio d’azione che copre l’intero Agro Nocerino Sarnese e arriva fino a Napoli. A conferma dell’importanza che Cinquanta Spirito Italiano è riuscito a ricoprire in così poco nel panorama della mixology internazionale, arriva proprio quest’anno l’inserimento tra i migliori 10 bar team d’Europa secondo gli Spirited Awards 2024 organizzati da Tales of the Cocktails, fondazione statunitense impegnata nel migliorare la cultura e l’approccio alla mixology. Un riconoscimento non di poco conto se si pensa che le altre realtà menzionate provengono da capitali come Dublino, Atene, Madrid o Berlino.

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DOP MARTINIT RYOSHI OR

CASA MARIA

Back to the Cinquanta

I numeri, a Pagani, non vengono dati a caso e quel Cinquanta è un riferimento chiaro. Richiama gli anni del boom dei bar all’italiana. Usciti da una grande guerra con la voglia di divertirsi, di confrontarsi o solo di incontrarsi per chiacchierare senza paura, il luogo principe d’aggregazione era il bar. Ogni paese ma anche ogni quartiere aveva il suo Bar Dello Sport dove ci si riuniva per parlare di calcio e ascoltare tutti insieme le partite alla radio, c’erano poi i Bar dei Circoli di partito dove entrarci significava schierarsi per una fazione o, ancora, il Bar della Piazza dove le famiglie si fermavano per un gelato d’estate o una cioccolata d’inverno. Insomma, più che un locale il bar in quegli anni era un’istituzione e proprio da questo concetto di trasversalità della clientela e di centralità nella vita del territorio che Alfonso e Natale sono partiti per la loro attività.

“Anche l’idea progettuale del design – conferma Natale – si rifà agli anni Cinquanta. Lo sviluppo del progetto è partito dalla graniglia, il tipico pavimento che si trovava nelle case e nei locali di quegli anni. Il nostro, però, non voleva un esercizio stilistico di pura replica ma, pur ispirandosi al passato, doveva essere moderno e attuale. Abbiamo quindi dato una nuova centralità al bar dove il bancone diventa il punto focale”. Così, come in un teatro, da Cinquanta Spirito Italiano tutti gli sguardi sono puntati al bancone, che diventa un novello palcoscenico. Le sedute, proprio come la platea del teatro sono poste su gradoni che permettono la visuale perfetta di quello accade dietro al bancone da qualsiasi angolazione del locale, anche dall’ampio dehors e dalla vasta terrazza poiché le enormi vetrate che si aprono verso l’esterno lasciano libero l’occhio di godere della vista dell’interno del bar.

Al bar come al mercato

Ci sono luoghi dove le relazioni umane hanno più valore della merce che propongono e che sono il crocevia di cultura e spazi di cambiamento e innovazione. Fra questi il banco del mercato e

SCHIACCIANOCI

il bancone del bar sono luoghi chiave della polis non solo per la merce esposta o venduta ma anche come centri di incontro e socializzazione. “Il bar con il suo bancone – spiega Alfonso - si rivela essere l’epicentro dello scambio della nuova polis. Da questo assunto nasce Baropoli, il nostro quarto menu, che celebra l’incontro tra spazi fisici e virtuali, tra il commercio e le connessioni umane”. “Baropoli – conferma Natale - è la mia drink list preferita fin dall’apertura. Nuove tecniche maturate in tre anni di lavoro come team, frutto delle esperienze e delle ricerche svolte in Italia e all’estero, messe al servizio della più semplice fruibilità”.

Baropoli, più che una drink list, è il racconto di una idea di comunità che si basa sul rapporto costante e vivo con le maestranze, con i produttori e con i fruitori e che passa dai mercati di tulipani in Olanda a quello delle spezie nella Medina di Marrakech, dal mercato del pesce giapponese ai biscotti con gocce di cioccolato, in Italia conosciuti come “Gocciole”, del Massachusetts. Profumi, sapori e storie che spaziano dalle orientali vie della seta all’arrivo in Europa del pomodoro, quello che nell’Agro Nocerino Sarnese ha trovato la sua casa migliore, dal commercio di primizie in Australia fino ai moderni mercatini del vintage.

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E PRIMIzIE TULIPOMANIA

LA DRINKLIST DI BAROPOLI AGAvE

La narrazione caratterizza la nuova drink list Baropoli. Racconti e leggende si trasformano in cocktail che parlano di materie del territorio che incontrano ingredienti di terre lontane.

Agave & Primizie - Altos Tequila, Italicus, misticanza e piselli. La Nuova Zelanda è uno dei primi allevatori di carne di coniglio tanto che la Bianca di Nuova Zelanda viene considerata la regina delle razze da carne. Nel Paese l’allevamento dei conigli avviene all’aperto e questo, tramite la concimazione naturale, rende il terreno alcalino e quindi adatto alla crescita di insalata e cetrioli. Questa storia è raccontata da un twist sul Gimlet.

Tulipomania – Santa Teresa 1796 Rum, St. Germain e miele di frutta Durante la prima metà del 1600 scoppiò in Olanda una bolla legata alla compravendita dei bulbi di tulipani. Nel 1623, quando il reddito medio era di 50 fiorini l’anno, un singolo bulbo poteva costare anche un migliaio di fiorini. I tulipani erano scambiati anche con terreni, bestiame e, merce molto rara a quelle latitudini, mele e le pere. Tutto questo finisce in un drink a base rum che ricorda le taverne dove venivano scambiato i bulbi, addolcito da miele vegano di mele e pere.

DOP Martini – Ketel One Vodka e pane. Questo cocktail ci porta in Egitto, sul canale di Suez. La sua inaugurazione ha velocizzato la rotta del grano portando sulle tavole occidentali grani fino ad allora sconosciuti. Questa storia la ritroviamo nel sapore del pane che viene lasciato in infusione nella vodka.

Banana Underground – Jameson Irish Whiskey, Mancino Kopi Vermouth, Banana e Perrier. La pop art è stato quel movimento che ha democratizzato l’arte portandola nella vita quotidiana. Icona e manifesto fu anche la copertina dell’album di debutto dei Velvet Underground, disegnata proprio da Andy Warhol, che riproduce una banana. Come omaggiare tutto questo se non con un twist del whisky and soda dove la centrifuga di banana, chiarificata e gasata, va al posto della soda.

Schiaccianoci – Rump@blic Rum, Disaronno, orzata di noci e rosmarino. Sorsi che raccontano delle rotte mercantili e dei sacchi di tessili che servivano a preservare la frutta che poi sarebbe stata seccata. Oggigiorno la juta prende un valore diverso e viene impiegata nell’abbigliamento e nel design. Per rendere il sentore delle stive di quelle navi è stato creato un latte di noci arricchito con pesca e rosmarino e spezie.

Casa Maria – Grey Goose Vodka, Pomodoro Casa Marrazzo, provola e basilico. Un drink tributo ai nostri emigrati partiti alla volta dell’America, che qui diventa un simbolo, figlio esso stesso di una doppia emigrazione. Il nome del drink è mutuato dalla nonna di Gennaro Marrazzo, fornitore dei pomodori di Cinquanta Spirito Italiano, e il risultato al sorso, con la vodka, la provola e il basilico, sembra proprio ci riporti i sapori della Campania di una volta.

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LA STORIA DELL’APERITIVO

BLODYMARY IL COCKTAIL SANGUINARIO

Qualcuno lo chiama il cocktail del giorno dopo, capace di riequilibrare l’organismo rispetto ad eccessi precedenti, nonostante il suo contenuto alcolico. Da sempre il Bloody Mary è non solo un drink leggendario, il cui nome è vittima di numerose leggende, ma il vero e proprio capostipite di tutti i cocktail moderni, nel senso che “cancella” l’eccesso (o la sbornia) del giorno prima. Massimo D’Addezio, uno dei barman più conosciuti della capitale, aveva scritto una carta menù a base del cocktail rosso con sei tipologie differenti di ricette, quelli che in gergo tecnico si chiamano twist. Tutti, come la ricetta originale, con la medesima caratteristica: l’essere abbinamento perfetto per qualsiasi tipologia di piatto. O addirittura una merenda sostitutiva, idea che era già diffusa nei primi anni del secolo scorso, come riportano alcuni scritti di Raymond Carver.

Cocktail a tutto pasto, ok. Ma possiamo definire in coscienza il Bloody Mary un vero e proprio rimedio, avallando una delle tante storie che si porta dietro nelle sue gocce rosse? In realtà no, non scientificamente almeno. Nonostante infatti sia stato, per molto tempo, usato come rimedio, non c’è nessun supporto della comunità scientifica sulla veridicità dell’efficacia di questo mix di vitamine, spezie e alcol. Non è particolarmente certa, inoltre, nemmeno la sua storia. Come quella di tutti i cocktail più famosi nati tra la fine dell’800 e la metà del XX secolo. Una delle più conosciute, riguarda un tale Fernand Petiot, barman al New York Bar di Parigi, che avrebbe creato la famosa ricetta mettendo insieme i suggerimenti di alcuni clienti; nulla di nuovo sotto il sole, dalla storia del Negroni (vera) in poi, è un leit-motiv che torna spesso, con alcune varianti.

Petiot non si sarebbe fermato qui ma, arrivato al St. Regis di New York, sembra abbia continuato a lavorare sulla ricetta - data per l’originale per molti decenni - di quello che inizialmente veniva chiamato “Red Snapper”. Altra variante piuttosto conosciuta è quella che risale al 1939 e affida la paternità del drink all’attore George Jessel a Palm Spring, per quanto un po’ contorta, cliente del “Bloody Bucket” di Chicago in cui avrebbe lavorato una cameriera chiamata Mary. Bloody Mary, per gli amici e i clienti affezionati. Da qui in poi, tra proibizionismo e storie di varia estrazione, la disputa di paternità tra Jessel e Petiot (basata anche su varianti diverse della ricetta) è andata avanti per moltissimo tempo, forse fino a oggi, con-

tribuendo in parte alla nascita del mito del cocktail. Lo stesso che Hemingway - questo si lo sappiamo per certo - amava moltissimo. Quello che dicono le storie e le leggende sulle origini, però, conta poco per quanto riguarda la variante odierna, dove la ricetta del Bloody Mary è più che ben codificata. Gli ingredienti standard includono vodka (che è sempre stata la scelta originale, tranne un periodo in cui veniva preparato con il gin, negli Usa) succo di pomodoro, succo di limone, salsa Worcestershire, Tabasco, sale di sedano, pepe nero e sale. Al netto delle sperimentazioni e dei twist, alcuni più famosi di altri come il Bloody Maria, che sostituisce la vodka con la tequila, o il canadese Caesar con una miscela di succo di pomodoro e brodo di vongole al posto del succo di pomodoro.

Pomodoro, alcol, spezie. A ogni passo e analisi il Bloody si conferma una piccola eccellenza gastronomico-beverina, fino alla guarnizione finale; questa può includere gambo di sedano, olive, cetrioli, peperoni, fette di limone, gamberetti, pancetta e persino mini hamburger. Elementi che non solo aggiungono sapore e texture, ma trasformano il Bloody Mary in una vera e propria esperienza gastronomica. Buon

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aperitivo

RICETTA BLOODY MARY IBA

• 4,5 cl. Vodka

• 9 cl. Succo di Pomodoro

• 1,5 cl. Succo di Limone Fresco 1,5 cl

• 2 gocce Salsa Worcestershire

• Tabasco, Sedano Sale, Pepe (a piacere)

Tecnica: Stir and Strain

Glass: Hihgball

Garnisch: Sedano e limone opzionale

TWIST ON CLASSIC

• 4 cl. Svergognata Vodka Disonesto 4 cl

• 1.5 cl. Sherry Tio Pepe

• 1,5 cl. Succo di limone e lime

• 9 cl. Bloody Mix

• 2 foglie Basilico

• 1 goccia Olio di oliva

• 2 Dash Angostura

Bloody Mix: Succo di pomodoro fermentato

+ Salsa Worcestershire + Tabasco + sale + pepe

Tecnica: Throwing

Glass: Hihgball

Garnisch: Crusta di sale affumicato olive limone peel e pomodoro fermentato

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A MESSINA L’ORSO LASCIA IL SEGNO

A DUE PASSI DAL

DUOMO GLI IMPASTI DI MATTEO LA SPADA ACCOMPAGNATI DAI DRINK DI DANIELE DE CAROLIS. COMUNE DENOMINATORE: LA SICILIANITÀ

L’abbinamento tra pizza e cocktail è stato ormai sdoganato da qualche anno, ma incontra alterne fortune. Quando funziona, il merito è probabilmente della sintonia tra chi sta al banco e chi al bancone. Succede così a Messina, da L’Orso in Duomo: l’ultimo nato del gruppo creato dieci anni fa da alcuni amici con la rilevazione di uno storico pub cittadino. Se dal 2019 infatti, alla proposta della “tonda” si è affiancata quella, apprezzatissima, della teglia – con L’Orso in Teglia – e dal 2017 nei mesi estivi è possibile godersi pizze, piatti e drink nello stabilimento balneare Blanco, nel 2022 si è aperto un nuovo capitolo. Gianluca e Giuseppe Arcovito e Giuseppe Denaro (cui si è aggiunto in società anche Matteo La Spada, responsabile di impasti e condimenti) hanno, infatti, dato vita all’elegante locale affacciato sul bel Duomo di Santa Maria Assunta con il suo campanile. Qui il menu non prevede pizze classiche – che per Matteo vo-

gliono dire comunque impasti contemporanei e condimenti molto curati – ma qualche proposta in teglia da condivisione, pizze al padellino e le “Duomo”, che nascono da una lavorazione particolarmente complessa a base di quattro diverse tipologie di farina (tra cui una piccola percentuale di segale e il grano autoctono Margherito), per un risultato profumato e super friabile ma per nulla secco, adatto ad accogliere condimenti importanti che prendono spunto dal territorio messinese e siciliano, e dalla rete di produttori locali. Ad accompagnarle, in alternativa a una valida carta di vini e birre, ci sono i drink di Daniele De Carolis messi a punto grazie alla condivisione con Matteo La Spada. Nato nel 1993 a Messina, Daniele – che è celiaco, dunque può mangiare solo le pizze senza glutine sfornate da L’Orso, ma assaggia ogni condimento “scomposto” – è figlio di ristoratori e

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di Luciana Squadrilli

ha alle spalle studi alberghieri; conquistato dalla Mixology lungo la strada ha approfondito questa passione durante gli studi. Dopo la laurea in Economia Aziendale, ha fondato la scuola Barman Club e ha iniziato a lavorare al Blanco l’estate scorsa. La sintonia con Matteo e tutto il team lo ha portato a diventare il bar manager dell’Orso in Duomo, per cui ha studiato una drink list di 11 proposte (tra cui il No Alcol Mule, con infuso di erbe e spezie, ginger beer, succo di lime e basilico fresco) in pairing, servite anche in versione “shot”, se si sceglie il percorso di degustazione. A fare da filo conduttore la giusta diluizione, che consente di berne tranquillamente più di uno, l’utilizzo di ingredienti siciliani spesso home made – infusioni e cordiali e sali, ma anche foglie di cappero e amari dell’isola - e l’uso indovinato di garnish e tinture madri vaporizzate al tavolo.

Il signature è lo Stretto Sour con Gin London Dry, cordiale mediterraneo a base di basilico, menta e cetriolo, emulsionante naturale e crustas di sale ai fiori di ibisco; ideale come primo assaggio o in accompagnamento alla Disgraziata, la pizza al padellino farcita con fiordilatte, salame, primo sale, datterino rosso semi dry, funghi freschi, mortadella, melanzane sott’olio, peperoncino e polvere di olive. Un omaggio a un emblema dello street food messinese – il panino del mitico Don Minico – in chiave aggraziata ma fedele. “L’idea del drink nasce dal ricordo di mio nonno che in estate mi preparava i cetrioli con il sale: è molto rinfrescante e dà il meglio se fatto con i cetrioli locali pienamente maturi”. Merita l’assaggio anche il Negroni del Marinaio – omaggio alle Eolie, con bitter, Passito delle Lipari, London Dry e bitter Instant Age, servito con cucuncio e una leggera affumicatura a freddo – che accompagna bene la deliziosa Ucria (roast beef, provola e salsa tonnata). E il Radish: Tequila con rapid infusion di radicchio rosso, pimento, cardamomo e pepe rosa.

L’Orso in Duomo

Piazza Duomo, 8 - Messina - Telefono: 090 9587066

Gli altri locali del gruppo

Blanco - via Consolare Pompea, 506 – Messina Telefono: 340 009790

L’Orso - via Calapso,  8 – Messina Telefono: 090 9573101

L’Orso in Teglia viale San Martino, 172 – Messina Telefono: 366 7235091

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“CARI BARTENDER RIPARTIAMO DALLA MATERIA”

INTERVISTA A TUTTO BANCONE AD ANGELO CANESSA

Non esiste socialità virtuale, strumento tecnologico o vita priva di vissuto che possa sostituire la potenza, la forza deflagrante di due chiacchiere davanti ad un calice, un buon sigaro e una bella vista. La pura connessione, quella vera, quella del contatto, del suono silente e armonioso di un sorriso, le parole cadenzate da un sorso e da un puff.

E poi ci sono le chiacchierate con Angelo Canessa, caleidoscopico professionista della buona vita. Gastronomo, sommelier, barman, formatore, Brand Education Manager di Velier. Ma prima di tutto, un imponente e passionale curioso del gusto.

L’infanzia trascorsa nel bar di famiglia, lo studio e il trasporto naturale per l’edonismo più puro, hanno cesellato un vero cultore

della materia. Dalle prime esperienze negli hotel di lusso, a quella da bar manager a Losanna, e ancora esperienze da imprenditore: “Ho aperto un locale, ma ho fatto una cazzata colossale. Seppure mi è servita come lezione, di cui ho fatto tesoro”. Poi arriva l’incontro con Luca Gargano il fondatore di Velier.

“La memoria, il palato e la cultura gastronomica, inizi a costruirli sapore dopo sapore, profumo dopo profumo, da quando sei ancora immerso nel liquido amniotico. Non da quando sei bambino, da prima. È l’imprinting. È l’aspetto più inconscio. C’è chi è nato nelle famiglie giuste e c’è chi si deve allenare di più. C’è chi nasce con l’orecchio assoluto e chi con il palato assoluto. Non ho mai fatto altri lavori nella vita, ho sempre gravitato in questo settore”.

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“Il mondo dei distillati è uno degli anelli di una catena che include i diversi aspetti dell’esperienza gastronomica”. Inizia così la nostra chiacchierata, tra una fumata e un sorso di rum.

Il Rum evoca climi caraibici e esotismo, come lo vede invece protagonista di una tavola italiana?

Eh…benissimo. Partiamo dal presupposto che l’abbinamento perfetto non esiste, mi pongo subito una domanda: perché devo modificare un cocktail in funzione del cibo? Quando stappo una bottiglia di vino che non è in perfetto equilibrio con gli spaghetti al pomodoro, non spremo un pomodoro dentro! Possiamo contare su una moltitudine di cocktails per avvicinarci al migliore abbinamento. Non è necessario un “famolo strano”. Per esempio, cozze crude con un French75, è da sbattersi per terra. O ancora, un Garibaldi con le alici fritte, adesso, in stagione. Un abbinamento che fa vibrare le emozioni. Hai la nota amara che sta bene con il salmastro dell’alice, hai una parte agrumata che rinfresca il palato, hai l’acidità che netta dall’untuosità, hai una parte botanica che compensa la parte tostata del pane… cos’altro dobbiamo aggiungere?

Altresì, possiamo ragionare sull’abbinamento in purezza, giocando sulle temperature e sulle modalità di servizio. Per esempio, alcune tipologie di rum agricole abbinati alla pizza vanno da Dio. Perché? Perché certi rum bianchi, di puro succo, di per sé tirano fuori una nota di pomodoro molto vegetale. Il mordente del Lime aiuta a bilanciare l’eccesso di dolcezza, come quella del pomodoro caramella del Vesuvio, dolce come uno zucchero, per citarne uno. Questo è il primo abbinamento che mi viene in mente, ma ci sono tanti distillati o tesori della liquoristica che, in base al servizio, diventano abbinamenti quasi perfetti. In occasione di un evento ho accompagnato la preparazione gastronomica de La Franceschetta “Porro Porro Porro” - porro marinato acidulato, porro grigliato carbonizzato, salsa bernese a chiudere - con un elisir di chartreuse in una proporzione di 1/10 di acqua. L’Elixir du Chartreuse, se abbondantemente diluito, tira fuori note volatili che stanno bene con la parte eterea del porro.

Chiudendo gli occhi e concentrandosi sulle sue parole, si riesce ad assaggiare, a sentire l’armonia dei sapori: concordo, abbinamenti pazzeschi. Ma quale preparazione è necessaria per proporre un abbinamento di questo genere: più gastronomica oppure più legata al distillato o alla bevanda?

Secondo me non può mancare una grande preparazione gastronomica. Chi propone un abbinamento non pretendo che sia uno chef

fatto e finito, ma se non hai un bagaglio culturale gastronomico solido, difficilmente riuscirai ad essere credibile e preparato per far divertire l’ospite. È impossibile. Uno chef non può permettersi di creare una ricetta partendo dalla superficie del piatto, deve iniziare dalla radice della materia prima. Non può prescindere dall’esperienza di un contadino, di un pescatore o di un casaro. Questo approccio, spesso, manca al bartender, che sovente è più attento all’estetica e più superficiale nella selezione della materia. Come puoi creare un concerto, se non conosci i componenti dell’orchestra? È necessario, se non fondamentale, un lavoro molto più terreno, più profondo. I cuochi, quelli veri, trasformano la materia prima, gli altri l’assemblano e basta. E quest’ultimo è un errore che commettono molti bartender, mossi più dal fenomeno contemporaneo, che dall’approfondimento.

E questo è dovuto alla facilità che ognuno di noi ha nel riconoscere un buon cibo, perché con il cibo ci siamo nati, ci siamo cresciuti. Manca ancora quella giusta conoscenza anche del liquido oltre che della materia solida?

Assolutamente sì. Se ci fosse nel distillato tutta questa sensibilità, perché la gente continuerebbe a bere certa roba? Continuiamo a bere prodotti mainstream, pensando che siano giusti. Faccio un esempio: prepari un Daiquiri con un rum di qualità, non dico estremamente complesso, ma fatto bene, il 98% delle persone ti manda indietro il drink perché pensa che sia sbagliato! Capisce dov’è il casino? Come entrare da Burgez e dire: “Il tuo smash burger fa schifo, quello di McDonald è più buono”. Un altro esempio è il cognac. Un momento storico tragico per il nobile distillato, e questo è dovuto anche al livellamento dei palati verso il basso. Nel momento in cui fai bere un cognac di qualità, potresti trovarti davanti ad un professionista che ti dice: “Ma che cazzo è sta roba qua?”. Il Cognac vero è ricco, è forte, non è zuccheroso. Ma se pensi che la gente beve Courvoisier Vs… chiaro il non senso?

In sostanza, tutto questo rinnovato fermento intorno al distillato di qualità a cosa porterà? E soprattutto, ci sono ancora delle potenzialità di crescita?

Ci darà delle soddisfazioni. Pensiamo al “vino naturale” all’inizio. Solo pochi anni fa osteggiati, visti come rinoceronti snob, incomprensibili. Puzzette, etichetta radical, altrimenti non eri naturale.

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Con il tempo abbiamo visto una vera rivoluzione che ha portato a maggiore attenzione. Non più “vino naturale”, ma solo vino. Ci vuole tempo, ma anche nel settore spirits le propettive sono decisamente rosee. Bisogna lavorare sulla consapevolezza, sulla conoscenza e sulla responsabilità. Dobbiamo evitare di correre troppo, altrimenti si rischia di continuare a livellare il palato dei consumatori verso il basso. Mode e trend sono il sale del commercio ma, se non li gestisci a dovere, il rischio boomerang è dietro l’angolo. Confido nei giovani. Sono quelli che bevendo responsabilmente - anche perché hanno disponibilità economiche minori - pian pianino cominciano ad assaggiare per scoprire, bevendo meno ma bevendo meglio, con l’obiettivo di distinguersi da chi beve tanto e male. Ora noi spogliamoci dei panni degli intellettuali fighetti del bere per un attimo, facciamo un salto indietro, torniamo ai ricordi di gioventù, facciamo outing: cosa ci siamo bevuti? La nafta è un distillato premium a confronto… (scoppiamo a ridere, nessuna smentita). Facendo il raffronto tra ieri e oggi, non possiamo che gioire e continuare a goderci l’evoluzione del settore.

Cibo, mercati, prospettive tra passato e futuro, va tutto bene, ma passiamo alle cose concrete, insisto con il Rum: pochi abbinamenti ai 5 momenti diversi della giornata.

Mattino: decollage / il decollo. Punch come nella tradizione delle antille francesi. Rum, una scorza di lime con un poco di polpa e un cucchiaino di zucchero. Lo zucchero si dissolve, quel pizzico di acidità e il rum agricole bianco che ti da quella botta di vegetale come fosse una marmellata di canna da zucchero. Il Decollage.

Aperitivo e pranzo. Bevanda fresca come il Barbados Punch. A Barbados lo preparano tutte le nonne, in alternativa ci sono i rum shop o le bancarelle che lo propongono con un panino col pesce alla griglia. Acqua, zucchero, rum, lime, poi chi ci mette un po’ di granatina, chi gratta la noce moscata o chi ci mette l’angostura. Mi pare perfetto.

Dall’aperitivo serale al dopo cena, Daiquiri. Dopo cena rum liscio con un sigaro - che in realtà fumo anche nel pomeriggio -. Attenzione, abbinamento Rum e Sigaro non in base alla territorialità, se fumo cubano devo bere cubano o se fumo cubano non posso bere Jamaica. Anche lì, espandiamo un pochino gli orizzonti. Il ciclo della giornata classico può essere questo, quantomeno quello che piace tanto a me.

A lei e non solo. A proposito di fumo lento, in chiusura, un suggerimento di fumata per veri bon vivant.

Abbinamento secco: Albicocca del Vesuvio di Gianni Vittorio Capovilla e Sigaro Toscano Del Presidente. E mi dirà: “Grazie al ca…!” Se invece vogliamo rimanere nel mondo Rum: Clairin Sajous e Millennium, sempre di Sigaro Toscano. E in ultimo, un rum bianco di Neisson e sempre il Sigaro Toscano Del Presidente. Vedi, i rum di Neisson hanno una fermentazione particolarmente lunga, e la distillazione in colonna prevede un contatto molto spinto con il rame, che si esprime nel liquido con note quasi di vinaccia, restituendo un rum molto intenso. C’è tutto un legame con lo zucchero, poi c’è questa nota molto alta, quasi da distillato di susina. E mi piace molto con quella parte molto dritta e molto complessa del Toscano Del Presidente, pur rimanendo una fumata leggera che spacca il palato. La lunghissima fermentazione, il calore avvolgente, si sposano perfettamente anche con i gradi molto alti di alcuni rum agricole. Il rum agricole che bevo sul Toscano Del Presidente può facilmente raggiungere i 70 gradi.

La anticipo, stava per chiedermi il momento ideale per questo abbinamento! Semplice, alle 15, dopo pranzo, quando chiude il ristorante. Per aggiungere un tassello all’esperienza gastronomica. Ha presente quei pranzi un po’ lunghi dove si attiva la digestione e ti manca quel quid finale. Quando pensi “ci vorrebbe ancora qualcosa”. Ecco, mi metto fuori con un goccio di Rum e mi fumo un sigaro, e mi prendo quella mezz’ora tutta mia per vivere un’esperienza della madonna, la ciliegina sulla torta.

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QUÈ VIVA

MEXICO! !

LO SPECIALE DA GUSTARE, LEGGERE, ASCOLTARE, SAPERE

COSE SPIRITO AUTOCTONO COSE

AGAVE, TEQUILA, MEZCAL, MUSICA E PAROLE INTRODUCCIÒN

Non possiamo certo negarlo, il Messico esercita da sempre su di noi, un certo fascino. Vuoi per i colori simili alla nostra bandiera (pollo escluso), vuoi per quella voglia di siesta che diventa pisolino, vuoi anche per quell’indiscusso richiamo alla Fiesta che i loro distillati ispirano.

Ma sopratutto il Messico è forse la nazione che più di ogni altra ci fa pensare che esista un modo per vivere bene, rilassati e con assoluta dignità, senza strafare. Oggi siamo in pieno boom di Tequila, Mescal e Agave e mai come in questo periodo storico, nel nostro Paese, si è parlato tanto di distillazione messicana.

MISTERIOSA, MITICA, IMPREVEDIBILE: I SEGRETI DELL’AGAVE

Quelle che fanno da spartitraffico tra le carreggiate della Carretera 190 non sono particolarmente affascinanti. Per dire, gli oleandri sono meglio. Il fatto è che qui, a Oaxaca, Messico, le agavi sono ovunque. Ci sbatti contro appena atterrato, nelle fioriere dell’aeroporto Xoxocotlán, ci inciampi sul sagrato della chiesa di Santo Domingo. Oltre a ricorrere nella mitologia azteca, oltre a costituire la base dell’economia, l’agave è parte integrante del panorama, sia urbano sia rurale. Insomma, siamo venuti a Oaxaca per indagare sulla pianta che regala al mondo il Mezcal e a occhio siamo nel posto giusto. Solo che l’inchiesta è meno facile del previsto.

Che l’agave – qui chiamata maguey – non fosse una pianta facile da comprendere, tipo i gerani, era chiaro sin dalla notte dei tempi. Ossia da quando il primo cespuglio germogliò dai resti di Mayahuel, la bellissima donna di cui si era innamorato il dio Quetzalcoatl. Che cosa successe, non è chiaro: un rapimento, la nonna che si in-

dispettisce, gli amanti che si trasformano in un albero ma vengono scoperti e inceneriti. Com’è, come non è, da Mayahuel germoglia un’agave, il cui succo inebria l’inconsolabile vedovo e tutti gli uomini della terra. Fu così che nacque il Mezcal, e oggi Mayahuel è considerata la dea patrona del maguey, tanto che la sua immagine compare nelle incisioni zapoteche, sui muri dei mercati, nelle statuette per turisti.

Con una genesi così travagliata che neanche la trama di Beautiful, era logico che anche dal punto di vista botanico l’agave fosse un discreto casino. Ospiti di Velier, che con il progetto “Palenqueros” raccoglie e imbottiglia i Mezcal prodotti artigianalmente nell’area di Oaxaca dai maestros mezcaleros, siamo qui per capire i segreti di questa pianta, per imparare a riconoscerne le varietà, per seguire passo passo la strada che dalle piante grasse e acuminate porta al distillato nel nostro bicchiere.

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Un rompicapo botanico

Agave, dal greco “illustre”, “nobile”, è il nome scientifico della pianta che in Messico è conosciuta come maguey e che in lingua Nahuatl è chiamata metl.

Quel precisino di Linneo ci insegna che l’agave è un genere di piante angiosperme monocotiledoni. Tradotto, sono piante succulente perenni. Tradotto ulteriormente: sono piante grasse sempreverdi. Ne esistono un’infinità di specie – c’è chi dice 280, chi oltre 350: 111 sono endemiche del Messico e di queste oltre trenta sono adatte alla distillazione.

Le varie specie di agave si differenziano per forma (ce ne sono 5 gruppi, a cespuglio o ad alberello), tempi di maturazione (dai 5 ai 50 anni), habitat (dalla pianura all’alta montagna), maniera di riproduzione (per impollinazione o per pollone).

“Di tutte le piante coltivate, nessuna è più difficile da nominare per l’impossibilità di fissare a parole i loro caratteri”. Così Sir Joseph Hooker nel 1871 metteva a verbale la straordinaria varietà e mutevolezza morfologica dell’agave. Un caos che ancora oggi non è ancora stato sistematizzato. “Una tassonomia completa ancora non esiste – spiega Hector Vásquez, coordinatore del progetto Palenqueros -. Un gran lavoro lo sta facendo l’università UNAM di Città del Messico, e a Oaxaca esiste un giardino etnobotanico che prova a fare ordine, ma mancano dati. Bisognerà studiarle ancora molto…”.

Questo si traduce in continui sfondoni da parte di chi, arrivato con l’animo dell’Indiana Jones da strapazzo, prova a riconoscerle guardando le foglie e le spine, gli elementi più distintivi e caratteristici. In viaggio attraverso la piana di Miahuatlán, abbiamo cercato di nominare le varie piante: ne avremo azzeccate tre su una dozzina di tentativi. E solo perché erano le più facili…

Dal campo alla bottiglia: come funziona

Bisogna fare un po’ di chiarezza sul lessico e sul procedimento produttivo. Dall’agave si estrae un succo, detto aguamiel. La fermentazione di questo succo dà una bevanda leggermente alcolica, ormai quasi del tutto sostituita dalla birra, che si chiama pulque. Il Mezcal si produce invece dalle piante di agave cotte, macinate, fermentate e distillate. Il Tequila si produce soltanto dall’agave blu (Agave tequilana Weber). La Raicilla, invece, è un Mezcal che si produce solo nello Stato di Jalisco da agave locale. Per essere distillata, l’agave deve avere un certo quantitativo di carboidrati, in grado di essere convertiti in zuccheri durante la cottura e in alcol durante la fermentazione. Per questo le piante devono essere colte al momento della loro maturità sessuale, che avviene quando spunta il peduncolo florale, detto quiote. A quel punto, il peduncolo viene tagliato prima dell’impollinazione, convogliando nel cuore della pianta le sostanze nutritive destinate alla fioritura. Nel caso di maguey che si riproduce esclusivamente per impollinazione, significa che la pianta viene colta prima che si riproduca ed è quindi “mono uso”. Diverso il discorso per quelle varietà che si riproducono per polloni, con “figli” dai rizomi.

Al capon – la pianta a cui è stato tagliato il peduncolo florale – vengono tagliate le pencas, le foglie, e viene recisa alla radice utilizzando una pala affilata che si chiama coa. Si ottengono così delle piñas che vanno dai 10 agli oltre 500 kg di peso, a seconda delle specie. Queste vengono cotte in forni interrati, poi macinate con la desgarradora meccanica, con la tahona chilena (la macina trainata da un cavallo o da un asino) o con una mazza di legno. La poltiglia viene poi messa in tini di fermentazione dove i lieviti spontanei aggrediscono gli zuccheri, li mangiano e li trasformano in alcol. Dopo alcuni giorni si ha così il tepache, una miscela di liquido fermentato e fibre (il cosiddetto bagazo) a 4-5%. Questo è quel che va nell’alambicco, per la doppia distillazione discontinua. Il frutto della prima distillazione – un liquido a circa 25% - si chiama ordinario o shishe. Dalla seconda distillazione esce il vero e proprio Mezcal, di solito a 49%.

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Più coltivata, meno silvestre: uno

stato dell’arte

Al momento, il Mezcal è prodotto sia da agave silvestre – che cresce spontanea in zone anche impervie, è più difficile da raccogliere, ma dai sapori più intensi – e agave coltivata, dalla resa più alta e in grado di dare piante più omogenee.

Storicamente, l’agave è sempre stata una pianta spontanea qui nel sub-continente messicano. Cresce in ogni angolo, è impossibile non notarlo. Estremamente resistente e adattabile al clima semi-desertico, sopravvive quasi ovunque perché non ha bisogno di grandi quantità di acqua, ma in determinate condizioni non contiene sufficienti carboidrati per dare mezcal.

Il maguey da mezcal cresce in differenti ecosistemi fra i 1000 e i 2000 metri di altitudine, differentemente reagisce meno bene in fase di fermentazione e distillazione, ecco perché dall’agave che si trova in riviera ligure, o a Taormina, è difficile produrre mezcal.

Dagli anni Novanta, il governo federale del Messico ha deciso di investire in maniera importante sull’agave, seguendo l’esempio del Tequila nello Stato di Jalisco, dove la coltivazione intensiva dell’agave azul (Agave tequilana Weber) è stata alla base del boom economico del distillato. Sono stati dunque incoraggiati gli investimenti delle grandi compagnie – spesso statunitensi – e una porzione

sempre crescente di terreni è stata destinata alla coltivazione intensiva. Risultato: nel 2022 sono stati esportati 14,5 milioni di litri di Mezcal in 81 Paesi contro i 1,4 milioni del 2014, e i produttori sono passati da 3mila a 25mila. Con una parallela deforestazione, non ancora registrata da dati ufficiali ma visibile a occhio nudo.

Al contempo, è stata saccheggiata anche l’agave silvestre. Fino alla svolta del 1994, quando il Mezcal si è dato un disciplinare ed è diventato un business, la distillazione era una faccenda familiare. Il palenque era una baracchina nel cortile di casa, dove i contadini cuocevano, macinavano, fermentavano e distillavano l’agave che trovavano in montagna, o che cresceva spontanea nei loro campi di mais. L’aumento della domanda ha cambiato però le carte in tavola.

L’agave è una pianta “monouso” in distillazione, come abbiamo già spiegato e la raccolta indiscriminata, non rispettosa dei tempi e delle proporzioni di riproduzione, ha depauperato la popolazione di agave silvestre, che oggi infatti è sempre più rara. Dal 2019 otto varietà di agave silvestre nello Stato di Oaxaca sono state catalogate come in pericolo di estinzione: se il maguey viene raccolto troppo, gli insetti e i pipistrelli impollinatori cambiano zona, e anche i pochi esemplari rimasti non si riproducono. Un guaio, tanto che in alcune municipalità la raccolta ormai è consentita soltanto alla gente del posto.

La scelta di Velier di investire nel progetto Palenqueros, che oggi lancia la sua terza release, va anche in questa direzione: “L’idea è sostenere una produzione artigianale

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sana, rispettosa della tradizione, dell’ambiente e del lavoro stesso dei palenqueros – spiega Hector -. Il disciplinare ha fatto molto in termini di marketing, ma non difende i piccoli produttori. Anzi, stende tappeti rossi alle realtà industriali che mettono a rischio l’ecosistema con le coltivazioni intensive. Palenqueros rimette al centro il Mezcal come si è sempre fatto davvero a Oaxaca”.

Varietà e differenze (teoriche)

Durante il nostro tour, la domanda che abbiamo ripetuto ad ogni singolo maestro mezcalero è stata questa: quali sono le caratteristiche organolettiche dei Mezcal prodotti da differenti varietà di maguey? La risposta è stata sempre la stessa: è impossibile dirlo. Questo succede perché la stessa specie di agave dà sapori molto differenti a seconda dell’età, dell’habitat, della composizione geologica del suolo, delle precipitazioni, dell’esposizione al sole, dei lieviti presenti nell’aria dove viene lavorata. Il che rende impronosticabile il risultato sensoriale del distillato.

Un altro elemento di confusione è anche legato alla denominazione: in diverse zone del Messico la stessa varietà di agave è conosciuta con nomi diversi e allo stesso nome possono corrispondere, invece, diverse varietà. E la stessa varietà è sensibilmente diversa se silvestre oppure ricavata per clonazione. Fatte queste premesse, che già sono fonte di emicrania, proviamo a fare ordine e a mettere in fila le varietà che abbiamo visto (e assaggiato…).

In Messico per scoprire i segreti dei distillatori artigianali inclusi nel progetto di Velier «Palenqueros», che si propone di valorizzare e distribuire i mezcal più autentici dello Stato di Oaxaca, abbiamo colto, infatti, l’occasione per provare a imparare a riconoscere le principali specie di agave da cui si ottiene il Mezcal. Il risultato di questo viaggio al termine del maguey è una sistematizzazione senza pretese di scientificità, ma che muove da una verità condivisa: l’agave è sfuggente e il suo mondo è talmente vario che bisogna accontentarsi.

Espadin

L’Espadin (Agave angustifolia) è la più diffusa: rappresenta una percentuale fra l’80 e il 90% dell’agave, sia coltivata sia silvestre. I motivi sono molteplici: innanzitutto raggiunge la maturità in un tempo relativamente breve, fra i 7 e gli 8 anni. È particolarmente facile da coltivare (circa 10mila semi, di cui l’80% è buono per la riproduzione, che tra l’altro avviene anche per polloni) e da lavorare: per ogni chilo contiene circa 300 grammi di zuccheri, il che influisce anche sulla fermentazione, che avviene più velocemente rispetto ad altre varietà (circa 7 giorni durante la buona stagione). L’Espadin ha inoltre un’ottima resa in distillazione: per produrre un litro di mezcal servono circa 7 kg di agave. Tra gli anni ’80 e Duemila era chiamato semplicemente Mezcal minero, perché l’Espadin era il maguey più diffuso nella zona di Santa Catarina Minas, anche se proviene da tutto il Messico.

Il fatto che sia facile da coltivare e molto comune non lo deve però far bollare come mediocre. Anzi, secondo i mezcaleros, l’Espadin è l’agave che forse esprime al meglio il terroir, ragion per cui il mezcal prodotto è estremamente variegato, dal dolce al vegetale, dal terroso al minerale. Le piñas – ovvero i cuori della pianta privati delle foglie – pesano in media tra gli 80 e i 120 kg l’una e si riconosce per la forma, con foglie allungate e strette – angustifolia – e per il colore tipico: un verde argenteo che sui pendii delle sierras si allarga in appezzamenti che macchiano il panorama brullo. Una variante particolare, sempre appartenente alla famiglia Angustifolia, è il cincoanero, che come anticipa il nome è caratterizzato dal fatto di raggiungere la maturità già dopo cinque anni.

Tobaziche

Fa parte della famiglia dell’Agave Karwinskii, caratterizzata dalla forma ad alberello, caratteristica che la rende utilizzabile anche per le siepi, a livello ornamentale. È molto diffusa nella zona di San Pedro Taviche, dove cresce spontanea e raggiunge discrete dimensioni. Morfologicamente sembra un tronchetto della felicità, oppure

Tobaziche Tobalà

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Espadin

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una piccola palma. Per giungere a maturazione impiega circa 6 anni e di norma dà un distillato particolarmente erbaceo nel retrogusto, anche se – come detto e ridetto – dipende molto dal terroir. Come tutti i Karwinskii, il cuore della pianta non è una piña ma un tronchetto, molto duro da macinare a mano; coltivata ha una resa più alta, ma silvestre ha sapori più intensi. Molto simile è il maguey bicuishe, ma per cogliere l’unica differenza sensibile a occhio nudo è nel quiote. Senza peduncolo florale è impossibile distinguerle.

Tobalà

Riconoscerle, quando spuntano qui e là fra la vegetazione, è particolarmente emozionante: somigliano a dei cespi di insalata paffuti, con spine dalla forma di capezzoli (non siamo maniaci sessuali noi, i mezcaleros dicono così).

L’Agave potatorum impiega fra i 13 e i 15 anni per giungere a maturazione. La piña è piccola, pesa in media 20-25 kg e soprattutto non dà neppure 2 litri di mezcal: per un litro occorrono circa 15 kg di agave, quindi resa piuttosto bassa. Contiene poca inulina (150 grammi di zucchero per kg, la metà dell’espadin), quindi impiega molto più

Tepeztate

tempo a fermentare. Il tobalà è il maguey tipico della zona di Oaxaca, ma è conosciuto anche con i nomi di chato (nella zona dell’Istmo) e di papalometl, per le foglie a forma di farfalla. È un’agave tipicamente silvestre, recentemente hanno iniziato a coltivarla, ma dal punto di vista organolettico il risultato è molto diverso.

Tepeztate

È la più scenografica tra le agavi e raggiunge dimensioni impressionanti. Il suo nome deriva dalla parola Nahuatl tepetl, che significa montagna. L’Agave marmorata è tipica della zona di Oaxaca, cresce soprattutto in montagna, abbarbicata fra le rocce. Alla vista sembra un’enorme piovra che allunga le foglie lunghissime, larghe e ondulate come tentacoli.

Impiega 25 anni per giungere a maturazione e nonostante le dimensioni si ricava una piña non particolarmente grande, con una resa bassissima, 20 kg per un litro e anche particolarmente dura, che in fermentazione tende a dare molta schiuma. Per tutti questi motivi, si sta facendo strada una corrente di pensiero per cui bisognereb-

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Madrecuishe Coyote

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be smettere di distillarla. L’unico motivo per cui invece si continua a produrre Mezcal da tepeztate è l’intensità dei sapori delle piante silvestri, che danno vita a distillati iridescenti e balsamici davvero unici. Recentemente è stata messa a punto una varietà di tepeztate da coltivazione che matura in 12 anni, ma il risultato è molto diverso in termini di aromi.

Madrecuishe

Anche questa è una varietà di Karwinskii, ossia quelle ad alberello. Rispetto al tobaziche, è più basso e ha foglie più lunghe, ma qui entriamo nel mondo complesso delle piccole sfumature e riconoscerle al primo colpo d’occhio è praticamente impossibile. Impiega 8-10 anni per giungere a maturità, ha un cuore legnoso molto difficile da lavorare a mano e una resa bassa: 20-23 kg per produrre un litro di Mezcal. Nella zona di Miahuatlán è particolarmente diffusa e dà un distillato con note caratteristiche di peperone verde e foglia di pomodoro. Questo in via teorica, poi il terroir cambia tutto. Ma questo ormai è chiaro.

Coyote

Qui apriamo un nuovo capitolo, quello dei nomi che stanno a indicare piante diverse. Con maguey coyote si può indicare l’Agave lyobaa che cresce nella zona di Miahuatlán, ma anche l’Agave americana Linnei.

La prima è soprattutto silvestre ed è un ibrido fra tobalà e tobaziche dalla tipica piña ovale. Impiega circa 9 anni per giungere a maturazione e la resa è bassa, 20-25 kg per un litro di mezcal. Morfologicamente può essere diversissima per quanto riguarda le dimensioni, la lunghezza delle foglie e il colore. Si riproduce esclusivamente per impollinazione e inizia ad essere coltivata. La seconda – chiamata coyote nella zona di Sola de Vega - è invece un clone e non sa riprodursi: il quiote infatti nasce secco, quindi fa soltanto (pochi) figli per pollone. Secondo i mezcaleros è un’agave da laboratorio, ma è molto richiesta perché raggiunge dimensioni ragguardevoli e soprattutto impiega solo 5-7 anni per maturare. Le piñas pesano in media 110 kg, ma arrivano fino a 300 in certi casi.

Mexicano

È una delle varietà di Agave rhodacantha, che è caratterizzata da grande densità di foglie sottili e affusolate: fino a cento in una sola pianta. Impiega circa 8 anni per raggiungere la maturità, dà piñas pesanti da 50 a 80 kg e ha una resa interessante: 10/11 kg di agave per un litro di Mezcal. Si riproduce sia per rizoma, sia per quiote. Anche qui, esiste un problema di nomi: l’agave viene chiamato cuishe a Santa Caterina Minas e in questa famiglia rientra anche il mexicano verde, caratterizzato da un colore più brillante.

Arroqueño

L’Agave americana oaxacensis è particolarmente grande e giunge a maturazione tra i 12 e i 25 anni. In seguito alla selezione delle sementi, oggi ne impiega anche 10. È presente anche in Italia, dove però non è adatta alla distillazione. La resa è buona: 8-9 kg di agave per un litro di mezcal. È una pianta che ha bisogno di umidità, quindi deve essere piantata in terreni fertili, dove sviluppa radici lunghe fino a 7 metri. L’alto contenuto di zuccheri consente una fermentazione veloce e regala distillati dal buon tono minerale.

Cuishe

Un altro nome che genera confusione. Come visto sopra, in alcune zone indica il mexicano, ma San Baltazar Guelavila indica la Karwinskii tipica della regione, che dopo 2-3 anni di vita genera figli dal rizoma e si riproduce poi tramite impollinazione dei pipistrelli. Il cuore è un tronchetto molto duro e difficile da macinare. La resa è di 1520 kg per litro: più o meno un litro di mezcal per pianta. Ha foglie corte e il sapore è particolare, fine e piuttosto erbaceo.

Mexicano
Arroqueno
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Cuishe

Barril

Un altro esponente della famiglia Karwinski, ma dalla forma peculiare: in cima al tronchetto si sviluppa una piña e in generale la pianta è più alta del tobaziche. Impiega fra i 10 e i 14 anni per arrivare a maturazione, la resa è di 15 kg per un litro di mezcal. Suo parente prossimo è il maguey tripon, così chiamato per la forma panciuta della pianta.

Sierrudo

Un altro esponente della famiglia dell’Agave americana, in alcune zone è chiamato anche maguey de San Pedro ed è il titano delle agavi: la più grande piña (550 kg) era di Sierrudo. È un mix di espadin e arroqueño e impiega fino a 16 anni per giungere a maturazione.

Sierra negra

Maguey della famiglia dell’Agave americana oaxacensis, è caratterizzato dal colore scuro dei dentini delle foglie. Ha una resa simile a quella dell’espadin, a cui somiglia anche morfologicamente, ad eccezione del colore più verde e meno argenteo. Impiega 10 anni per maturare, le pigne raggiungono i 150-200 kg. Dà mezcal dal sapore ricco, con una dolcezza speciale e una parte quasi sapida. Cresce splendidamente nelle alture di San Luis del Rio. La sua versione senza spine si chiama liso.

Jabalì

L’ultimo tipo di maguey che abbiamo visto è il jabalì (Agave convallis). Si tratta di una varietà tipica della Sierra Sur che impiega fra i 12 e i 15 anni per maturare e che ha una resa bassissima: per un litro di mezcal servono 30 kg di agave. Le foglie sono alte al mas simo un metro e hanno delle striature rosse. Sono utilizzate anche per produrre corde, chiamate Jabalinas.

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Non può essere coltivato, cresce esclusivamente allo stato silvestre sulle rocce e sulle sco gliere. La sua caratteristica è l’alta concentrazione di saponina, che lo rende estremamen te difficile da lavorare: produce molta schiuma in fermentazione e tende a farlo anche in distillazione, ragion per cui l’alambicco deve essere scaldato a fuoco molto basso. La schiuma in fase di distillazione dà un leggero color paglierino al mezcal.

Sierrudo

Jabali
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DA LEGGERE DA ASCOLTARE

MALDITA VECINDAD

ElCIRCO(1991)

Nel 1950 Octavio Paz pubblicò El Laberinto de la Soledad, un saggio pluripremiato su cosa significhi essere messicano. La sua importanza è così grande che decenni dopo aiutò lo scrittore a ricevere il Premio Nobel per la letteratura. Potremmo star qui degli anni a raccontare le influenze della Patchanka e del Pachuco, partendo da Manu Chao, passando per la Botellita de Jerez e Rockdrigo González, ma il punto più alto è stato raggiunto da Maldita Vecindad e dagli Hijos del Quinto Patio

Il 24 settembre 1991 firmarono El Circo, un album arrivato nel bel mezzo dell’esplosione della musica alternativa. All’incirca lo stesso periodo in cui hanno visto la luce anche le opere più conosciute dei Nirvana e dei Red Hot Chili Peppers. Tre album icona, che sebbene siano stati creati in luoghi geografici diversi, sono diventati parte dell’identità della Generazione X.

Il pezzo che apre l’album è Pachuco, una composizione che trascende i generi e rimane attuale come il giorno in cui è stata pubblicata. I testi parlano dell’eterna differenza di pensiero tra genitori e figli e di infinite sfide generazionali; tema attuale anche oggi.

All’interno dell’album brani intramontabili come Un Gran Circo: un affresco di cosa significasse all’epoca passeggiare per le strade di Città del Messico. Un città livida e vivida con mendicanti e bambini di strada che vengono citati come protagonisti di una storia che non perde attualità.

L’album resta uno dei più importanti non solo del rock nazionale ma della musica in generale. Ciò che Maldita Vecindad ha realizzato ha contribuito a mostrare uno dei tanti Messico esistenti.

México: Gastronomia

The Cookbook

di Margarita Carrillo Arronte

Editore: Phaidon

Messico: la Gastronomia è la bibbia definitiva della cucina casalinga messicana con oltre 700 ricette autentiche facili da seguire. Dai tacos salati alle enchiladas al formaggio fino ai tamales dolci, queste ricette sono una celebrazione degli ingredienti freschi di un Paese la cui cucina è venerata in tutto il mondo.

Mexico City

di Aleph Molinari e Anfisa Vrubel

Editore: Assouline

Con una storia che risale al XIV secolo, Città del Messico fonde le radici indigene preispaniche con l’architettura coloniale e le influenze barocche spagnole. Questa fusione unica, realizzata con materiali locali come cantera e tezontle, ispira artisti e architetti. Strutture iconiche come il Museo Anahuacalli di Diego Rivera e la Cave House di Juan O’Gorman incarnano con orgoglio la ricca storia della città.

CDMX: The food of Mexico

City

di Rosa Cienfuegos

Editore: Smith Street Bookst

CDMX è la celebrazione del cibo di Città del Messico, dei piatti con cui l’autrice è cresciuta e che ora ricrea nei suoi due ristoranti. Le ricette autentiche, coloratissime e spesso uniche, riflettono la vivacità, la storia e la vita urbana moderna della città più vivace del Messico. Pieno di straordinarie fotografie di cibo e della città, questo è un libro di cucina per coloro che bramano l’autenticità culinaria messicana.

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AGAVE, TEQUILA, MEZCAL, UN VIAGGIO TRA DISTILLATI E SCOPERTE MESS CO TALIA ! !

UNA CULTURA AUTOCTONA

Dopo un primo grande exploit negli scorsi anni, il fenomeno dei distillati messicani era stato archiviato come una moda passeggera. Era un errore. La passione, la ricerca e il mercato hanno dato ragione ai tanti che in questi anni si sono impegnati a valorizzarli. Non in nome di una scelta alternativa ma del racconto e conoscenza di una cultura e di un territorio così vasto, importante e autoctono che conosce rari paragoni.

Dal Messico all’Italia il passo è stato breve e oggi nel nostro territorio si producono derivati d’Agave solo apparentemente lontani da quello che noi siamo.

AGAVE

PESCADOR DE SUENOS

SANTA

SABIA DISTILLERY

Santa Sabia Distillery è stata fondata nel 2013 da Juan Carlos - detto anche Tio Pesca o Pescatore di Sogni – con l’idea di creare una collezione unica in cui ogni Mezcal possiede uno spirito proprio, a seconda della natura e delle proprietà dell’agave da cui ha origine.

SILVIO CARTA 41 BIS

Nato dall’Agave blu sarda, il distilla to “41Bis” racconta dell’affascinante storia dell’esercito americano che portò l’agave in Sardegna durante la Seconda Guerra Mondiale. Oggi, da quell’agave, attraverso una dop pia distillazione, nasce “41Bis”, un nome che rimanda alla gradazione alcolica e nasconde un gusto mor bido e vellutato da assaporare sia in purezza che in miscelazione.

TEQUILA

SANTA SABIA DISTILLERY VECINDAD AGAVE

All’inizio del 2017, Santa Sabia Distillery lancia il progetto Vecindad. Ovvero lo studio di un tequila diversa, prodotta in maniera tecnologica ed efficiente. Estratta da agavi nate e cresciute nella Tequila Valley, a 1200 metri sul livello del mare, in prossimità del Vulcano, Tequila Vecindad risulta di una purezza cristallina. Si dipana in note erbacee, agrumate e nella la ricchezza minerale conferitagli dalla vicinanza al vulcano.

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AGAVE PALENQUE SPIRITS PALENQUEROS

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“Palenqueros”è il progetto nato da Velier e Palenque Spirits tutto dedicato al mexcal e ai microproduttori artigianali provenienti dallo Stato di Oaxaca in Messico. Palenqueros è una serie di otto Pure Single Palenque selezionati, prodotti dai 6 artigiani i cui volti sono presenti in etichetta. Il Progetto, nato nel 2018, torna quest’anno con l’obiettivo di valorizzare, tramite imbottigliamenti di qualità eccelsa, la storia e i protagonisti nascosti dell’agave.

AGAVE (Ready To use) AGAVE

Un progetto particolare questo nato dalla collaborazione tra La Punta - storico Agave Bar di Roma - e la Pallini Spa. Il frutto è un godibilissimo sciroppo ready to use compo sto al 100% da Agave biologico di altissima qualità. Un prodotto trasversale e facile da usare, adatto a tutti gli usi (specialmente nel la mixology).

MEZCAL AGALÌA

SOTOL COYOTE TRIUNFO DEL DESIERTO

DURANGO

Il Sotol Coyote Durango è prodotto da Alejandro Solís a Cuencamé, San Antonio, usando solo Dasylirion Cedrosanum. Le piñas vengono cotte in un forno a vapore, per essere poi fermentate in barili di legno aperti, per permettere ai lieviti indigeni di lavorare. Al palato risulta di una dolcezza delicata che contrasta con una marcata mineralità, il finale è lungo e pastoso.

Agalìa è il distillato che parla siciliano in ogni suo dettaglio a partire dal nome del brand, dalla sonorità tipica, che nasce dall’unione tra “agave” e “Rosalia”. Agalìa è un prodotto che rappresenta l’eccellenza italiana e che nasce dalla volontà di valorizzare, con un approccio anticonvenzionale, la cultura, i profumi e la tradizione delle meravigliose terre di Sicilia.

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PALLINI AGAVESITO AGALÌA
LEGGI AARTICOLO PAG. 28

OLIO, FORMAGGI E DINTORNI

MANDRANOVA: NATURA, CULTURA E OSPITALITÀ IN SICILIA

Oliveti secolari, giardini di palme e piante africane circondano Mandranova, la splendida dimora di charme e azienda agricola dedita alla produzione di olio extravergine di oliva, conserve e mandorle, adagiata sulle colline di Palma di Montechiaro, a poca distanza dal mare, vicino Agrigento. Fu alla fine degli anni novanta che Silvia e Giuseppe decisero di dedicarsi alla gestione dell’azienda di proprietà della famiglia Di Vincenzo: «Iniziammo con l’impianto di un oliveto al posto della vecchia vigna – racconta Silvia –, poi seguirono l’acquisto del frantoio per elevare la qualità degli oli e i lavori sui casali da destinare all’ospitalità, finché nel 2005 lasciammo il mondo bancario e della finanza per stabilirci definitivamente qui».

Il cuore della produzione aziendale risiede nei 9000 alberi di varietà tipiche siciliane (Biancolilla, Cerasuola, Giarraffa, Nocellara) e di varietà Coratina, a cui si aggiungono altre 3000 nuove piante messe a dimora. Il fran-

toio è stato recentemente innovato con macchinari ad alta tecnologia che consentono di mantenere temperature ottimali di lavorazione. I loro blend e oli monovarietali hanno i decisi sentori erbacei e di pomodoro verde della Nocellara, quelli di erbe aromatiche della Cerasuola fino a quelli più delicati della Biancolilla. L’antico casale, il casello ferroviario, le stalle e i depositi agricoli sono diventati spazi destinati all’accoglienza e all’ospitalità, grazie a una sapiente ristrutturazione che ha integrato la storicità degli edifici con la funzionalità degli ambienti e il rispetto del tessuto rurale. La “gebbia”, una vasca anticamente utilizzata per l’irrigazione agricola, è stata trasformata in una piscina panoramica. Il vecchio frantoio è una sala polifunzionale per eventi ricreativi e culturali.

La Villa Robazza, ricavata da un antico palmento in pietra e gesso, è avvolta da un giardino rigoglioso con piscina privata. Turisti italiani e in-

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di Luciana Squadrilli e Simona Cognoli

OLIO, FORMAGGI E DINTORNI

ternazionali scelgono Mandranova per un soggiorno di benessere alla scoperta dell’autentica cultura siciliana, ma anche per una sosta dedicata al pranzo nel tour archeologico che dalla Valle dei Templi conduce fino a Piazza Armerina. Nel ristorante di proprietà vengono serviti piatti della tradizione, interpretati dallo stile e dalla tecnica di Gabriele, il figlio di Silvia e Giuseppe, che dopo una laurea in economia ha seguito la passione gastronomica diplomandosi all’Alma.

Le verdure sono quelle dell’orto, il pescato viene dal mare della costa e la carne dagli allevatori di zona. Gli ospiti possono frequentare piccoli corsi di cucina per imparare a replicare semplici ricette dolci e salate, come gli anelletti al forno con melanzane o gli involtini di vitello. Molto richiesta e apprezzata è la “Olive Oil Tasting” per scoprire i profumi e i sapori generosi degli oli siciliani. Tra settembre e ottobre è possibile partecipare alla raccolta delle olive: «Crediamo nell’oleoturismo in tutte le sue manifestazioni. Promuoviamo la cultura dell’olio di qualità, mostrando gli utilizzi in cucina, le proprietà nutrizionali e salutistiche».

Mandranova

Contrada Mandranova

S.S. 115 – Km 217

Palma di Montechiaro (AG) www.mandranova.com

Da diversi anni Mandranova è anche residenza d’artista: vengono ospitati autori figurativi per coinvolgerli nella vita aziendale e ispirare il lavoro creativo. In occasione dell’iniziativa “Arte laguna prize”, il concorso legato alla Biennale di Venezia, è stato istituito il premio Mandranova che nel 2025 darà ospitalità a un artista emergente, mentre a breve sarà un noto artista svizzero, Beat Zoderer, ad attraversare i giardini e gli oliveti dell’azienda per immergersi nella bellezza senza tempo della campagna agrigentina.

95 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE

OLIO, FORMAGGI E DINTORNI

PIACENTINU ENNESE

IL FORMAGGIO D’ORO CHE SALVÒ

LA REGINA NORMANNA

Ogni prodotto siciliano è carico di storia e, soprattutto, di leggenda. Non fa eccezione nemmeno il Piacentinu Ennese Dop, un formaggio da latte ovino intero e crudo, proveniente dalle razze siciliane Comisana, Pinzirita e Valle del Belice, a cui vengono aggiunti zafferano e pepe nero in grani. La leggenda narra che l’aggiunta di zafferano al latte sia dovuta al periodo di dominazione Normanna (XI secolo), quando Ruggero d’Altavilla, per guarire sua moglie Adelasia affetta da una forte depressione, chiese ai suoi contadini di preparare qualcosa che l’aiutasse a uscire da quello stato di astenia. Un mezzadro prese lo zafferano che cresceva rigoglioso in quella zona e di cui erano note le proprietà energizzanti e, saputo che la regina era golosa di formaggio, lo inserì nella cagliata. Adalgisa apprezzò

così tanto che si riprese dalla malattia e Ruggero, per riconoscenza, affrancò il contadino regalandogli le terre che coltivava. La storia, invece, colloca la produzione del Piacentinu indietro nel tempo. Già lo storico romano Gallo, nel VI secolo d.C., parlò, infatti, di un prodotto simile, arricchito dall’aggiunta di zafferano.

Prodotto solo a Enna e in numero ristretto di comuni del circodario, è fatto con latte lavorato entro le 24 ore. Questo, dopo essere stato cotto a 38°C, viene trasferito nella tina (contenitore di legno) dove vengono aggiunti lo zafferano e il caglio proveniente da agnelli e capretti allevati nella zona. Anche lo zafferano è di produzione locale ed è caratterizzato da un bouquet finale intenso e caratteristico.

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di Alessandra Iannello

A coagulazione avvenuta, la cagliata viene rotta con un bastone (rotula) fino a ottenere grani delle dimensioni di un chicco di riso che formeranno una massa da trasferire su una tavola di legno o acciai; verrà tagliata, completata con i grani di pepe nero e distribuita in canestri di giunco. I canestri tornano poi nella tina, dove vengono ricoperti di siero caldo per 3-4 ore. Successivamente la pasta viene estratta, lasciata raffreddare e cosparsa di sale a grani grossi. Il tutto viene ripetuto due volte in dieci giorni, e il formaggio ( 3-5 chili in media per ogni forma) sarà pronto solo dopo minimo due mesi di stagionatura, con le sue note di zafferano.

A tavola il Piacentinu può dare grandi soddisfazioni, sia da solo che in accompagnamento a un buon bicchiere, trasversale a 360°. Protagonista assoluto di un aperitivo, per esempio, è più che adatto all’assaggio in purezza; in questo caso noi consigliamo di accompagnarlo al Me Gin Pink Pepper, il gin al pepe rosa, leggero e irriverente, di MZero. Poco più di uno Stretto per dividere due perfetti compagni a una tavola che profuma di zafferano. Se invece si è

OLIO, FORMAGGI E DINTORNI

appassionati di primi piatti, non ci si può perdere la pasta al brodo di pollo ruspante - tipica della zona - e un Agave Tonic preparato con Agalìa, il distillato di Agave siciliana (p. 28). La cucina siciliana lo impiega anche nell’impanatura delle carni, ma è nel ripieno del capretto abbuttunato che dà il meglio di sé. In questo caso si tratta di un piatto corposo, energico, che può essere sostenuto solo da un cocktail. Ma non da un cocktail qualsiasi, bensì dal Re: un Martini. Perché no, magari preparato con Vodka Siciliana, ché sull’isola ne distillano di straordinarie.

97 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE

TRIPLE ENTENTE: “UN GRANDE RUM INVECCHIATO PROVIENE SEMPRE DA UN GRANDE RUM BIANCO”

“Tre storie culturali, che hanno portato la stessa materia prima a profili differenti”. Tre, numero perfetto per la scuola di pensiero pitagorica. Tre numero perfetto, evidentemente, anche per la scuola più contemporanea di Velier e del suo Gran Cerimoniere Luca Gargano, voce della frase sopra.

Tutto, in questo nuovo progetto, anche il nome - Triple Ententeruota intorno al tre. Tre le distillerie, Foursquare, Neisson e Hampden tra le poche ancora indipendenti e che vedono al comando la famiglia. Tre i territori differenti per condizioni climatiche e terreno di coltivazione della canna: Barbados, Martinica e Giamaica. Tre gli alambicchi diversi utilizzati per cesellare questi rum bianchi.

Triple Entente, nome forgiato da Richard Seale patron di Foursquare proprio per richiamare il pensiero di una cooperazione amichevole tra famiglie, unite da intenti comuni. Non solo la scelta della materia prima, o la trasparenza produttiva e la qualità del prodotto, ma anche la condivisione delle problematiche abituali delle distillerie familiari indipendenti, in un mondo costellato di multinazionali. L’unione che fa la forza, l’alleanza come baluardo di tre storie diverse, ma unite da un filo dalla trama robusta, che senza soluzione di continuità, si propone di raccontare la grande varietà nel mondo del rum. Una tradizione produttiva che porta in dote aromi assolutamente diversi e narrazioni differenti.

Tre rum bianchi racchiusi in un cofanetto, prodotto in soli 600 esemplari, per suggellare una vera e propria alleanza.

“L’idea è nata da una riflessione comune con Richard Seale sull’importanza di conoscerci meglio, dato che siamo le ultime distillerie a conduzione familiare a sostenere la trasparenza nei nostri prodotti”, racconta Grégory Vernant della distilleria Neisson. “In occasione dell’evento per il 90° anniversario di Neisson, al quale ho avuto la fortuna di partecipare, Grégory e io abbiamo discusso dell’importanza della collaborazione e del sostegno reciproco tra le piccole distillerie a conduzione familiare - prosegue Richard Seale di Foursquare -. Abbiamo scelto di produrre un rum bianco perché vole-

vamo dimostrare come la storia e la cultura di ciascuna isola potessero essere espresse individualmente con la stessa materia prima, la canna da zucchero.” chiosa il patron di Foursquare.

Anche perché “un grande rum invecchiato, proviene sempre da un grande bianco”. Postilla Gargano.

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BUONA CAMICIA CONSIGLI PER GLI ACQUISTI
di Francesco Bruno Fadda
IN VETRINA

LE ETICHETTE

Hampden Jamaica pure single rum (2024, 62%)

Alla distilleria è stato chiesto un mark speciale che fosse strettamente legato al tema dell’unione: ecco dunque il mark R<>H, che si rifà a Ruth Hussey, madre di Andrew, che insieme al marito Lawrence ha acquistato Hampden nel 2009. Il mark R<>H identifica un rum con una gamma di esteri a una distillazione di 800900 gr/hlpa, strettamente legato alla distilleria. È un rum potente, con forti sentori smaltati.

Neisson Martinique rhum blanc agricole (2024, 52.5%)

Un rhum agricole prodotto secondo il disciplinare AOC, con fermentazioni lunghissime che vanno da 96 a 124 ore e otto varietà diverse di canna da zucchero. I sentori prevalenti sono vegetali, con note di erbe aromatiche e frutta fermentata. La dolcezza del succo di canna la fa da protagonista.

Foursquare Barbados pure single rum (2024, 62%)

La release di Foursquare è stata distillata esclusivamente in double retort pot still, fermentata da melassa di canna da zucchero e dal succo di canna da zucchero appena macinato. Molto fruttato, pieno e oleoso, questo rum presenta un grande equilibrio nonostante la gradazione importante di 62%.

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BUONA CAMICIA CONSIGLI PER GLI ACQUISTI

IL PRODOTTO DI COPERTINA

FICHISSIMO, ALLORA, KORAT: I NUOVI SAPORI DELLA SICILIA

La startup siciliana Issimo, già protagonista del lancio di Fichissimo, il liquore al fico d’india, e Allora, il distillato all’alloro, amplia la sua gamma di prodotti con una interessante novità. Karat, amaro alla carruba, nasce dalla continua ricerca dei sapori dimenticati, vero focus dell’azienda. Il nome Karat deriva da una storia poco conosciuta. “Nell’antichità i semi di carruba – spiega uno dei soci fondatori, David Del Buono d’Ondes - venivano utilizzati per la loro estrema regolarità come unità di misura del carato”. Issimo nasce dalla voglia di trasformare una tradizione familiare, quella di produrre distillati artigianali a uso domestico, in qualcosa in più d’una semplice passione, e le origini siciliane (da parte paterna, il padre vive a Pantelleria) di David hanno fatto da stimolo per valorizzare ingredienti tipici dell’isola.

Tutti i liquori sono prodotti artigianalmente in Sicilia utilizzando frutti, foglie o erbe e la lavorazione avviene in una distilleria gestita da Tony Di Stefano, situata a Lercara Friddi, in provincia di Palermo. Il primo nato della casa nel 2022 è Fichissimo, digestivo che va servito freddo, dal colore tendente al giallo e una gradazione di 32 gradi. Secondogenito è Allora, un liquore bilanciato, persistente, aromatico e intenso che dona al palato una sensazione di gradevole freschezza. Dal colore tendente all’ambrato e dalla gradazione di 36 gradi. Karat, l’ultimo nato, prodotto attraverso una macerazione delle carrube con l’aggiunta di alcune erbe siciliane, è caratterizzato da un colore marrone ed ha una gradazione di 32 gradi. La produzione 2023 di Fichissimo e Allora ha superato le 5000 bottiglie e ora l’azienda si prepara al lancio sul mercato di Karat.

Via Vincenzo di Marco, 51 90143 – Palermo

www.liquorefichissimo.it

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VULCANICA, LA VODKA PREMIUM SICILIANA CON IL FUOCO DENTRO IN VETRINA

Vulcanica: il nome è evocativo e non lascia spazio a troppa immaginazione. Se è vero che in Italia i vulcani non mancano, la potenza di questo nome ci riporta immediatamente a quello più alto d’Europa, Sua Maestà l’Etna.

È proprio alle sue pendici che tre anni fa nasce Vulcanica, una vodka siciliana e vanitosa, che pare portare il fuoco dentro, ricongiungendosi alle caratteristiche della sua terra: bellezza, natura, arte, benessere e gioia di vivere.

Proprio lì, dove i terreni sono fertili e nutriti dalle eruzioni del vulcano, si trovano i grani antichi da cui Vulcanica prende vita. Grani che hanno tipicamente rese inferiori ma con una rapida crescita e che non richiedono l’uso di pesticidi.

Sono diverse le varietà che vengono utilizzate: il Maiorca, la Timilia, la Biancolilla, il Perciasacchi, il Russello e, infine, il Margherito e le varietà Senatore Cappelli e Bidì, che derivano dal Jean Retifah, una famiglia di grano duro nordafricana.

I grani macerati vengono sottoposti alla distillazione in piccoli lotti attraverso l’uso di una colonna in rame e successivamente in alambicco post stil, con una leggera filtrazione che preserva tutte le qualità organolettiche dei grani antichi. Ovviamente le acque utilizzate per la distillazione provengono dalle fonti naturali della Sicilia a 200 mt di profondità. Non si può discutere sulla qualità delle materie prime, perché partner di Vulcanica è Simenza, Cumpagnia Siciliana Sementi Contadini. L’Associazione riunisce e tutela agricoltori, allevatori, ricercatori e non solo, con l’intento di valorizzare il ricchissimo e bellissimo patrimonio siciliano.

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BUONA CAMICIA CONSIGLI PER GLI ACQUISTI

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Oggi Vulcanica trova il suo focus principale in Sicilia e si sta espandendo nei mercati dell’area asiatica pacifica.

Da questa bellezza è nato quest’anno un altro progetto, Ingham. Ovvero un marsala semi secco perfetto per il cocktail signature di Vulcanica, il Sicilian Martini, realizzato appunto con marsala semisecco e cappero a guarnizione.

Eh già, perché Stefano Saccardi, uno degli ideatori di Vulcanica, nella difficoltà di trovare un marsala semi secco di qualità che ben si accostasse al carattere della vodka, ha pensato bene di tornare indietro nella storia e crearne uno adatto alla mixology come i vermouth di alta gamma. Ha così ottenuto la licenza per il primo marchio di marsala.

Ma cosa c’entra con la storia? È presto detto. Come ci racconta Stefano, il primo vino fortificato siciliano nacque quando gli inglesi arrivarono in Sicilia, dopo che Napoleone bloccò il Portogallo lasciandoli privi della possibilità di recuperare il loro Porto. Così Benjamin Ingham, mercante di stoffe, amico, mentore e poi socio di Vincenzo Florio, imprenditore e Senatore del Regno d’Italia, arrivato in Sicilia per affari si rese conto che con i vini locali era possibile realizzare un prodotto altrettanto buono. Qui proprio lui creò il marsala fortificato. Stefano ci racconta ancora che il marchio Ingham, attualmente di proprietà della Florio, era disponibile, e così gli ha dato nuova vita, con una nuova etichetta, per essere lanciato sul mercato, principalmente in quello americano per arrivare piano piano su altri mercati.

È sempre sorprendente vedere quello che un territorio riesce ad esprimere in maniera così naturale. Quello che la Sicilia oggi ci offre è il frutto delle faticose scommesse dei suoi contadini che hanno saputo sfruttare (allora come ora) tutto ciò che questa terra con generosità sa regalare.

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IN VETRINA

ARRIVANO LE MAGNETTE DI SPIRITO AUTOCTONO

Questa è una vetrina particolare, perché per una volta parla di noi e di una delle operazioni più banali, ma anche più richieste, che una redazione possa ricevere in questo periodo dell’anno.

Con l’arrivo dell’estate infatti ci è venuta la malsana voglia di lanciare una serie di divertenti magliette (e gadget) che potessero appagare la nostra (letterale) sete di comunicare. Sono passati anni da quando, con il lancio di ‘Parole di Cotone’, venne sdoganata l’idea di veicolare una frase, un aforisma o una dedica attraverso delle semplici t-shirt. E la passione continua a crescere.

Per la nostra capsule collection di quest’anno ci siamo affidati al piccolo, ma divertente, brand delle Magnette, una linea che ha già in produzione alcuni capi, legati in modo fantasioso alla reinterpretazione di logotipi famosi (ma che non hanno nulla a che vedere con i brand stessi), e giocano sul concetto di ‘ho fame’ e ‘ho sete’.

Ma come saranno le nostre Magnette Spiritose? Ovviamente non potevamo lanciare una linea seriosa e austera e, per rimanere in tema letterario, abbiamo pensato di rivisitare a modo nostro frasi ormai di uso comune. Si passa da ‘È stato Amaro a prima vista’ al più classico ‘Il Bere vince sempre sul male’, per concludere poi con il quasi poetico ‘Va dove ti porta il Liquore’. In tessuto organico, sono disponibili tutte in vari colori, con tre grafiche realizzate appositamente dal nostro Art Director. Sono parte di una serie di prodotti tra il serio e il faceto (tra cui le nostre tazze) a cui teniamo molto. Volete diventare subito alla moda? Adesso sapete come.

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VAI ALLO SHOP E SCEGLI LA TUA ‘MAGNETTA’ SPIRITOSA
Bevi responsabilmente.

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