Riserva del Centenario
La “Riserva del Centenario” del Vecchio Amaro del Capo, ha origine da una lunga e sapiente lavorazione: erbe, fiori e frutti calabresi infusi secondo antichi metodi artigianali, uniti a pregiate partite di acquaviti di vino invecchiate lungamente in botti di rovere di Slavonia custodite per decenni in magazzini di invecchiamento sotto il controllo dello Stato Italiano.
Prodotto in quantità limitata e nunerata Serie 1969 - Serie 1972 - Serie 1981
Dall' intenso e lucente colore ambrato il Vecchio Amaro del Capo 100th Anniversary dona a chi lo assaggia un ricco ed elegante senso di vitalità avvolgendo i sensi con intriganti abbracci di dolcezza e morbidezza. Da sorseggiare rigorosamente a temperatura ambiente o in un buon cocktail.
vecchioamarodelcapo.it Acquista anche online su www.caffo.store
Serie 1972 n° 00001 Riserva a base di acquavite di vino invecchiata dal 1972
GRAND GOLD MEDAL 2016 Bevi
responsabilmente.
2024
AMPOLLA D’ORO MIGLIOR AMARO
IL FOTOGRAFO
ANDREA DI LORENZO
Andrea Di Lorenzo è un fotografo specializzato in food and beverage di base a Roma. Ha maturato oltre 10 anni di esperienza nel settore, lavorando sia su progetti editoriali che commerciali per ristoranti, catene alberghiere, marchi storici di spirits ed eventi gastronomici, in Italia e nel mondo. L’ampia gamma di competenze di Andrea è stata sviluppata anche attraverso il suo lavoro nell’industria cinematografica, dapprima come critico e poi come fotografo di scena: questo lo ha aiutato a sviluppare una versatilità tale da permettergli di operare in un’ampia varietà di contesti e con clienti diversi, cercando di valorizzare al massimo il prodotto e la storia che lo circonda. Il suo lavoro è molto apprezzato per il suo tocco naturale e sofisticato, ed è riconosciuto per la grande capacità di interpretare le esigenze individuali dei clienti con cui lavora. Andrea è apprezzato per la sua apertura mentale e per il suo atteggiamento professionale, accogliente e informale.
CHE FRETTA C’ERA...
È Primavera, è Primavera
Più lungo il giorno, più chiara la sera!
È Primavera, è Primavera
Più bello il giorno, più dolce la sera!
L’inno alla primavera cantato da Nilla Pizzi e Gino Latilla lo so che almeno una volta - …al giorno - lo canticchiate anche voi. Figuriamoci poi quando, sfogliando S.A.M.#5 con un distillato fresco e profumato nel bicchiere, scoprirete un Abruzzo colorato, vivo e accogliente, oppure un Andrea Lucatello in vena di confidenze e un Simone Mina su tutte le ruote, ancora con le sue Ampolle d’Oro sotto il braccio.
Arancio, il colore del sole che vira al tramonto, il colore scelto da Paolo Campana per tratteggiare il vostro Magazine preferito, arrivato alla sua seconda primavera.
La stagione dell’amore, dei fiori e della rinascita raccontata dagli autori di SAM attraverso luoghi, personaggi, ricette, tradizioni e città da scoprire e da riscoprire. Dalla terra del Ratafià via per un lungo viaggio che attraversa il Veneto, ma passando dalle Marche con un tocco di Giappone nel cuore. E ancora Cose dalla Cina e poi via verso Copenaghen per tornare al magico Chianti. Un interrail, su carta, ma che valica i confini dell’Europa raccontando di spirits e di itinerari gustosi. Ma anche di Olio, con la nuova rubrica di Luciana Squadrilli e Simona Cognoli - alle quali dò il benvenuto più affettuoso -, di prodotti straordinari e orizzonti tutti da scoprire.
E…le anticipazioni finiscono qui, basta approfittare del mio entusiasmo, le restanti storie le troverete nelle prossime pagine, altrimenti che gusto ci sarebbe a sfogliarle?
Mentre scrivo queste parole, in redazione stiamo già lavorando al disegno del prossimo numero, perché il giornalismo va così, corre veloce. Quello che avete tra le mani è proprio per questo il regalo più prezioso che potevamo farvi, con il suo profumo di tempo. Buona primavera a tutti.
3 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
L’EDITORIALE
Il vostro Distopico Direttore
Francesco Bruno Fadda
PURE SINGLE JAMAICAN RUM
SOMMARIO
Direttore Editoriale: Francesco Bruno Fadda direttore@spiritoautoctono.com
Caporedattrice: Eugenia Torelli eugenia@spiritoautoctono.com
Desk di redazione: Federica Borasio, Roberta De Rosa, Yuri Serra
Autori: Giovanni Angelucci, Federica Borasio, Paolo Campana, Gian Maria Ciardulli, Simona Cognoli, Giusy Dal Pos, Roberta De Rosa, Francesco Bruno Fadda, Alessandra Iannello, Fiorella Palmieri, Luca Sessa, Luciana Squadrilli, Eugenia Torelli, Marco Zucchetti
Art Director: Paolo Campana paolo@spiritoautoctono.com
Editore: Novecento40 s.r.l.s.
Concessionaria Pubblicità: Novecento40 s.r.l.s. iscrizione al ROC n° 39530 media@spiritoautoctono.com
Finito di stampare nel mese di Aprile 2024 da: AZEROprint s.r.l. Via L. della Robbia, 3 - Marostica (VI)
Per comunicare con la redazione: redazione@spiritoautoctono.com
Spedizione in abbonamento postale: abbonamenti@spiritoautoctono.com
5 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
ABRUZZO FORTE E GENTILE 6 IL RATAFIÀ 13 CHIETI E DINTORNI 16 SIMONE MINA 20 COPENAGHEN: TRA GUSTO SCANDINAVO E ALTA GRADAZIONE 28 THE GLENTURRET LALIQUE RESTAURANT 34 LOCAL E CAPOVILLA 36 ANDREA LUCATELLO: IL PIACERE DI BERE BENE ALLA SCOPERTA DELL’ALTRA VERONA YUNTAKU. IL PRIMO AMARO GIAPPONESE NON È SOLO UN APERITIVO LA STORIA DELL’APERITIVO: IL SAZERAC ACETAIA GIUSTI LA MI PORTI UN WHISKY A FIRENZE AMPOLLE D’ORO 2024: UN ANNO DI ECCELLENZE COSE CINESI OLIO E DINTORNI IL FORMAGGIO BUONA CAMICIA 40 44 49 55 56 60 65 69 74 81 83 84 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE ANNO 2 - NUMERO 5 APRILE / MAGGIO 2024
ABRUZZO FORTE E GENTILE
6 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
di Giovanni Angelucci
Dell’Abruzzo si dice che sia forte e gentile. Torniamo indietro al 1882 quando il giornalista e direttore de La Riforma, Primo Levi, fece un viaggio in questa regione del centro Italia da cui nacque un piccolo volume intitolato “Abruzzo forte e gentile: impressioni d’occhio e di cuore”. Una chiave di lettura che da lì in avanti rimase indelebile e sopravvisse nel tempo continuando anche oggi ad indicare la capacità di vincere le avversità insieme alla bontà d’animo delle genti d’Abruzzo.
Niente di più vero, pochi sono invece i riferimenti a quanto gaudenti siano gli abruzzesi, sarà forse un marchio di fabbrica o più poeticamente potremmo parlare di “figli d’arte” avendo avuto il vate Gabriele D’Annunzio come avo gaudente massimo. Ebbene questa è una regione che nonostante la miopia nella promozione da parte di chi la amministra, riesce comunque ad ammaliare chi vi giunge, alimentata dalla passione dei singoli attori che credono nella loro terra e mai si stancano di tirarne fuori il meglio possibile. Malgrado le sue dimensioni non così estese, l’Abruzzo riesce a soddisfare palati, voglie e personalità molto diverse, grazie ai suoi interpreti appunto, ma anche grazie ad una geomorfologia che la rende cangiante e in grado di offrire anime diverse legate al mare e alla montagna, in simbiosi tra loro. Per quanto contenuto, è possibile conoscere un territorio a fondo solo dedicandogli il tempo necessario; l’importante, però, è intanto giungere qui e capire di che pasta sia fatto l’Abruzzo. Niente di meglio che un week end all’insegna dei suoi gusti più rappresentativi. Prendete nota.
La componente montuosa in regione è importante, occupa circa il 65%, ma alla fisica presenza dei rilievi si affiancano misticismo e adorazione verso l’anima delle montagne abruzzesi da parte dei suoi abitanti e, spesso, di chi ne viene in contatto. I suoi pastori ne sono un esempio lampante, custodi di molteplici storie, produttori eccelsi di formaggi e anche coloro grazie ai quali nacque l’arrosticino di pecora. Non a caso oggi vi portiamo lungo un percorso durante il quale la Maiella Madre sarà una compagnia costante, se non ne calpesterete il ventre la vedrete comunque lì placida poco distante.
Si parte da un borgo eccezionale sul versante nord della Majella, Guardiagrele è città d’ arte nota per i suoi artigiani che da secoli nelle loro botteghe si dedicano alla lavorazione del ferro, del rame e dell’oro. Nella sua opera “Il trionfo della Morte” il D’Annunzio la definì “la nobile città della Pietra”, dove però accanto ai maestri dell’antico mestiere splendono artigiani e sarti del gusto, gaudenti veri. E’ un concentrato di eccellenze, sin dalla via principale del centro cittadino dove vive la Pasticceria Lullo che sforna le famose Sise delle Monache dal 1889: iconico dolce a base di Pan di Spagna farcito con crema pasticcera e provvisto di tre protuberanze spolverate di zucchero a velo. Al timone oggi c’è Emo Lullo , laurea in filosofia e discendente di un’eccellenza unica e irripetibile, che continua ad accogliere in questo luogo venerato e inscindibile dalla quotidianità di Guardiagrele: « l’origine del nome del dolce non è del tutto sicura ma le storie più accreditate riguardano la produzione attestata al 1200 nel convento delle monache clarisse che tra le vie del paese producevano le “sise” con gli ingredienti forniti dallo zio di mio padre, quando poi sono andate via ci hanno affidato la ricetta, o ancora le suore (monache) che inserivano al centro del petto una protuberanza per evitare di rendere troppo evidenti i seni (sise) o le cime montuose della Majella che si vedono dal lato occidentale di Guardiagrele (Focalone, Acquaviva e le Muralle) » , racconta Emo che ama abbinare alle sue delizie un bicchierino di ratafia perfetta con la crema fatta come una volta.
7 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
GLI ARROSTICINI DI BRACEVIA
Un concept vincente quello di Bracevia A Tutta Pecora, nato nel 2005 per mano e lungimiranza di Maurizio Cutropia e della moglie Agnese Volpone. Un progetto di valorizzazione della pecora e dell’arrosticino a casa propria ma anche nei festival italiani di street food, li avrete sicuramente incontrati nelle piazze italiane durante gli eventi gastronomici, lì sempre presenti con la loro Fiat 500 gialla d’epoca, trasformata in postazione di cottura. Migliaia di arrosticini somministrati lungo lo stivale con una convinzione maturata nel corso degli anni: far conoscere il prodotto simbolo della tradizione abruzzese, valorizzarne ogni sua parte, e soprattutto realizzare un arrosticino che sia davvero 100% d’Abruzzo. Lo crearono con le carni del pastore e produttore di formaggi Gregorio Rotolo che purtroppo è da poco scomparso, ma la volontà è rimasta intatta e presto nascerà un nuovo progetto che esalti la preparazione più tipica d’Abruzzo. Nel frattempo la coppia continua a produrre e vendere i suoi gustosi arrosticini (con carni di provenienza mista) nel laboratorio di Sambuceto (Ch) e a somministrarli nel piccolo locale di Francavilla al Mare, a due passi dall’Adriatico, dove godere della migliore cottura sulla furnacell, il braciere dalla caratteristica forma allungata a canalina. Ma Cutropia esalta la pecora in tutto e per tutto, ecco quindi che dallo stesso animale vengono ottenuti hamburger, bistecche, tagliata e lo spezzatino (per antiche ricette della tradizione abruzzese legata alla transumanza come la pecora alla callara) che Bracevia vende sul proprio shop online.
Poco distante dal centro storico sorge una delle eccellenze abruzzesi più colme di prestigio e identità. Da fiaschetteria degli anni ‘60 a ristorante stellato di sostanza, racconto e perseveranza, Villa Maiella ha in sé tutta la potenza di una famiglia. I Tinari hanno saputo creare un ristorante in cui dedicarsi ai piaceri dell’alta cucina ma con un’informalità del tutto personale che concede un piacere ormai raro sotto insegne di questo tenore. A capo c’è Peppino Tinari, anfitrione di razza pura che incarna alla perfezione la figura dell’abruzzese affabile e nobile d’animo. E con lui una famiglia unita, colta e popolare dedita alla cucina abruzzese: mamma Angela che instancabile continua a “tirare” a mano la pasta alla chitarra, il figlio maggiore Arcangelo che ha in mano la cucina e il sommelier Pascal che tiene il polso della sala e si sbizzarrisce con gli abbinamenti attingendo da una cantina a dir poco fornita. Piatti della tradizione preparati a regola d’arte, grande conoscenza della materia prima specialmente della carne e dei suoi tagli derivanti dal ciclo chiuso della fattoria di proprietà in cui si allevano centinaia di maiali neri.
E se la carta dei vini è sontuosa, quella di distillati e liquori non è da meno: si compie un viaggio attorno al mondo partendo con le migliori selezioni italiane da Capovilla a Marolo passando per Charles Baur in
8 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
PIZZA FERMENTA
Chi non può fare a meno di una buona pizza durante ogni viaggio che compie, da Fermenta troverà pane per i suoi denti. A Chieti Scalo la coppia Luca Cornacchia, maestro pizzaiolo, e Giorgia Santuccione, dedita a vini e sala, sono riusciti a costruire un’unicità in zona. Qui la differenza la fanno le tipologie in assaggio: padellino, due consistenze, contemporanea, croccante. L’impasto con 40% di biga, 60% di farina 0 e 80% di idratazione con 48 ore di lievitazione. La cottura al forno, fritta e al forno, a legna, a rullo. Una carta apposita dedicata ad oli e pomodori impiegati nelle preparazioni. Gli ingredienti abruzzesi per topping di altissima godibilità e voli pindarici riusciti come la pizza con pecora alla callara, piatto della bandiera tradizionalpastorale della regione. Le pizze sono davvero numerose così come gli antipasti a base di arancini, frittatine di pasta, crocchette, olive all’abruzzese, bombe e babà salati, assolutamente da provare, dunque prendete in considerazione il percorso di degustazione: tre pizze tonde a spicchi, una pizza fritta, un padellino, un fritto. Per non parlare dell’abbinamento dove scegliere tra un cinquantina di birre, e poi champagne, vini ancestrali, naturali, orange e le più interessanti etichette abruzzesi.
Francia e i distillati di mele a firma Rochet in Austria, fino ai single malt whisky e i cognac pi ù esclusivi, e ai rum più autentici come Hampden dalla Jamaica. E anche qui il giovane Pascal si diverte abbinandoli ad una conclusione speciale come il dolce vegetale a base di pinzimonio con i suoi elementi elaborati in versione dolce, Pan di Spagna all’olio di oliva, gelato al levistico (sedano montano), cialda di sedano rapa con riduzione di carota, tutto accompagnato da latte, olio e pepe, ma soprattutto dalla sontuosa Charteuse V.E.P., invecchiata almeno 15 anni in piccole botti, servita con ghiaccio tritato dove la componente fresca e vegetale e la struttura del distillato convivono alla perfezione. O ancora, a dimostrazione della simbiosi tra i due fratelli, il coulant al cioccolato (omaggio al pluripremiato chef francese Michel Bras a cui la famiglia Tinari è molto legata) con un grandioso prodotto di Pojer e Sandri dal Trentino, il Merlino, vino rosso dolce fortificato nato da mosto parzialmente fermentato di uve Lagrein, aggiunto al brandy e ottenuto a sua volta da vinacce di Schiava e Lagarino, invecchiato oltre 10 anni. Morbidezza e complessità perfette per la struttura e sontuosità del cioccolato.
Rimettendosi in marcia merita in zona una tappa nell’Azienda Agricola di Giacomo Santoleri, il Casino di Caprafico, poeta di campagna che in queste incantevoli terre ha riscoperto e coltiva antiche varietà vegetali. Il nome “casino” identifica il fabbricato rurale costruito sulle omonime piane nel 1832 dalla famiglia Santoleri come presidio agricolo territoriale. Agricoltura biologica e lavorazioni tradizionali da cui a partire dagli anni ’90 si ottengono alcune chicche come la Ma’Kaira, pasta lunga ottenuta da farina di farro e orzo mondo, lenticchie, ceci, olive, farine, legumi per minestre, caffè e tisane di orzo mondo e ovviamente l’olio extra vergine d’oliva. Una chicca davvero speciale.
Si cambia versante e continuando ad ammirare la Maiella, si arriva a Ripa Teatina (Ch), nel L•AB che sta per Liquoreria ABruzzese, un efficace laboratorio di idee dove Giuseppe Simigliani porta avanti le sue continue ricerche su infusioni e macerazioni. Si è messo in gioco nel 2017 proponendo personalissime idee di amari e liquori arricchendo un mercato locale non così allettante con energia e squisite novità, affermandosi in poco tempo ben oltre i confini regionali. A chi visita l’Abruzzo verrà detto che non è possibile lasciarlo senza aver bevuto del liquore di genziana, gli abruzzesi ne vanno matti e sono in tanti orgogliosi della propria produzione casalinga. Il giovane Giuseppe non è da meno e oltre ad amarlo lo produce su vasta scala allietando i palati più esigenti ma dandogli un aspetto diverso (anzi ben cinque sono le tipologie) come
10 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
nessuno aveva mai fatto prima: il Genzianotto è il risultato del felice connubio tra genziana e mosto cotto dove si esalta l’armonia degli opposti, piacevolmente amara con sentori della cottura del mosto d’uva insieme alle note speziate delle radici di genziana e la dolcezza naturale dell’uva. Colui che ha lasciato la carriera da ingegnere per diventare produttore eccezionale aveva evidentemente le idee chiare producendo anche un altro must della regione, la Ratafia, in versione classica con amarena o fragole, pesche e cactus insieme al Cerasuolo. C’è poi l’ultimo arrivato Amaro Juan Carrito, in onore dell’orso gourmet, famoso per le sue scorribande in cerca di cibo sulle montagne abruzzesi. E’ composto da alcune delle tipiche botaniche del parco nazionale, habitat naturale dell’orso bruno marsicano, che tra zafferano, ginepro, rabarbaro, mosto d’uva cotto e miele, regalano una bevuta calda e appagante. Un piccolo capolavoro non convenzionale dove è riuscito a rivoluzionare la maniera di concepire un “semplice” amaro mantenendo lo spiccato carattere abruzzese.
LE LUMACHE ITALIANEAT
È un giovane abruzzese che nel paesino di Vacri (Ch) ha creato, con le proprie mani partendo da zero, un allevamento di chiocciole Helix Aspersa Muller a cui dedica le sue giornate con risultati più che eccellenti. Genetiche locali, alimentazioni ad hoc con farine bio provenienti da cereali macinati in casa, sistema di allevamento tramite coppi di terracotta per mantenere l’umidità di risalita del terreno e un riscaldamento centrale ad aria distaccato dalla superficie per evitare le correnti d’aria che asciugano le lumache. Tutto contro l’omologazione gestionale e soprattutto del gusto. Dedizione e approccio ancestrale con un punto fermo, la qualità delle carni delle chiocciole di Paravia: bianche e profumate da vive, con un arcobaleno aromatico che parte dal sottobosco e arriva fino ai sentori salmastri e marini, sode e dall’ottima masticabilità (mai gommose) da cotte. Tra gli chef ad utilizzarle c’è Arcangelo Tinari del ristorante Villa Maiella che le impiega in un suadente raviolo aperto con manteca ed erbe amare oltre che nella linguina all’orzo Ma’Kaira con estratto di rape.
11 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
Poco distante ma a due passi dal mare Adriatico, a Tollo nella provincia di Chieti, c’è da visitare quella che ad oggi è la distilleria della regione, Kursaal Distillerie (Az. Agr. Geoessence) dove Emanuele Grima ed Elena Di Ghionno si sono fatti conoscere per il loro speciale Orange Liqueur Arzente: “Vivere ardendo e non bruciarsi mai”, il pensiero del vate D’Annunzio a darne rappresentazione. Nel mondo degli Orange Liqueur si è ritagliato il suo meritato spazio grazie all’unicità del ciclo produttivo di ogni sua componente che nasce e si conclude all’interno dell’azienda. Le chiare e inebrianti note agrumate di questo liquore provengono dall’articolata estrazione delle essenze dei frutti coltivati dal proprietario Emanuele Grima. Le stesse vengono unite all’acquavite di Trebbiano e Montepulciano che, dopo una maturazione in botti di rovere, offrono una bevuta delicata e pimpante, con una lunga persistenza in cui la freschezza delle arance è ben bilanciata al calore dei trenta gradi alcolici. Ovviamente il maestro distillatore non poteva limitarsi al seppur unico Arzente, in famiglia compare anche il K London Gin verticale e pulito, prodotto partendo da alcol di vino, con ben 14 botaniche di cui sette coltivate in azienda. Al primo approccio è austero, poi si fa più tenue e sprigiona il suo profilo aromatico fatto di anice, liquirizia, camomilla, con un assaggio in bocca bilanciato e grande lunghezza al sorso. Ma l’attenzione è dedicata all’ultimo progetto della casa, il Riva Bruna, primo e unico rum d’Abruzzo, prodotto da melassa di canna da zucchero, durante la fermentazione viene impiegato del miele agrumato prodotto dalle api che vivono nell’agrumeto adiacente all’azienda, doppia distillazione con alambicco a tre colonne costruito appositamente per le esigenze della distilleria, invecchiamento in rovere con un sorso spiccatamente delicato. Ci si rimette in marcia e si torna nell’entroterra di Civitella Casanova, il paese che insieme a Villa Celiera, Carpineto della Nora e Montebello-Farindola forma il quadrilatero magico dell’arrosticino. La Bandiera era un locale adibito proprio al consumo di arrosticini e negli anni è diventato l’altro stellato d’Abruzzo a conduzione tutta famigliare, dove bisogna andare per avere una fotografia della più alta cucina d’Abruzzo. Gli Spadone sono qui dal 1977 e di strada ne hanno fatta tanta, diventando interpreti e ambasciatori di un Abruzzo edibile che sorprende. Una brigata folta e giovane lavora attorno al fulcro coeso della famiglia,
i due gemelli Alessio e Mattia si dividono rispettivamente tra sala e cucina, papà Marcello continua ad essere il volto del ristorante e mamma Bruna rappresenta tutto ciò che è “vegetale”, vivendo praticamente in quello che negli anni ha trasformato in un vero e proprio orto botanico da cui si attinge per innumerevoli ricette. Esempio è la prima portata dei menu degustazione “Orto”, tripudio vegetale accompagnato da un cocktail creato dal sommelier Mattia la cui ricetta prevede un distillato analcolico homemade delle stesse erbe aromatiche del mirifico giardino di casa insieme a gin e vermouth. Ma la componente alcolica compare anche in altre preparazioni attraverso creatività e tecnica come l’ever green “Arrostigin”, filetti di carne di pecora infilzati da uno spiedino di sanguinella (una volta veniva utilizzato il suo legno) aromatizzato al gin, cotto sulla brace e servito con verze affumicate e misticanza. Sui dolci, poi, si apre un capitolo a parte perchè il giovane Mattia è un asso in materia, è il caso del “ Gran Sasso”, rivisitazione di un Montblanc, con ceci caramellati, gelato di ricotta di pecora, spuma di panna cotta, meringa al carbone vegetale, visciole fermentate e crema di castagne; il valore aggiunto è l’immensa carta di liquori e distillati creata ad hoc, in questo caso la proposta di abbinamento prevede la Ratafià Tempraviva che con le sue visciole crea legame con la ricetta in cui meringa e crema di castagna vengono esaltate da un liquore lievemente dolce. Ma non finisce qui perché in carta è possibile spaziare tra un centinaio di assaggi, distillati di cereali, frutta, uva, vino, canna da zucchero, agave, amari e liquori. Uno spettacolo per gli amanti del genere.
E d’altra parte, come scriveva il vate Gabriele D’Annunzio: “ bisogna fare la propria vita come si fa un’opera d’arte ”.
12 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
IL RATAFIÀ ABRUZZO IN BOTTIGLIA:
di Federica Borasio
CHI È ABITUATO A VIAGGIARE
SA CHE SPESSO, OLTRE ALLE CITTÀ
E AI PAESAGGI, L’ANIMA DI UN LUOGO
SI RIFLETTE ANCHE NELLE SUE TRADIZIONI ENOGASTRONOMICHE. COSÌ SUCCEDE ANCHE IN ABRUZZO, CHE LEGA INDISSOLUBILMENTE
LA SUA STORIA SPIRITOSA
A QUESTO LIQUORE.
Storia e Origini
Nonostante le origini del Ratafià si dividano tra il Piemonte e la Francia, le radici della sua tradizione in Abruzzo risalgono ai tempi antichi, quando le popolazioni del centro Italia coltivavano e utilizzavano una vasta gamma di erbe e frutti per preparare bevande aromatiche e terapeutiche. L’antica arte della distillazione e della macerazione consentiva di estrarre gli aromi più intensi e gli oli essenziali da frutti, erbe e spezie locali.
Inizialmente il Ratafià era un liquore preparato come tonico medicinale ma, come spesso è accaduto per altri liquori, nel corso del tempo il suo consumo ha cambiato forma, trasformandolo a tutti gli effetti in una bevanda di cui godere nel quotidiano.
Quel che molti non sanno, però, è che in passato era usanza bere Ratafià subito dopo la ratifica di un contratto notarile, a sancirne il patto. Il particolare nome deriverebbe proprio dall’espressione latina “ut rata fiat”: sia ratificato l’atto (sebbene in Piemonte il termine si faccia risalire all’espressione dialettale ‘gratta fiato’).
13 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
Ingredienti e preparazione
Fare Ratafià in Abruzzo è una tradizione paragonabile a quella del limoncello campano. Realizzato con amarene e vino rosso (Montepulciano d’Abruzzo), presenta ricette che variano irrimediabilmente da famiglia a famiglia e da produttore a produttore, ognuno dei quali ha il suo segreto per ottenere un gusto unico e distinguibile.
In generale, gli ingredienti base del ratafià includono frutta fresca come ciliegie o amarene messe in infusione con alcol, zucchero e una miscela di erbe aromatiche e spezie come cannella, chiodi di garofano, vaniglia e scorza d’arancia; lasciate macerare in alcol puro per diverse settimane, permetteno agli aromi di fondersi e creare una bevanda ricca e complessa nel gusto. Una volta completata la fase di macerazione, il liquido viene filtrato e ammorbidito con lo zucchero, bilanciando l’intensità dei sapori e conferendo al Ratafià la sua caratteristica dolcezza.
Il Ratafià oltreconfine
Il risultato è una bevanda versatile, che va bevuta fredda e che può essere gustata in purezza a fine pasto o utilizzata per arricchire cocktail e dessert. Oltre alla Francia, bevande simili al Ratafià si trovano in molti Paesi Europei come l’Ungheria, la Repubblica Ceca, il Portogallo e la Spagna.
In Catalogna è quasi la bevanda nazionale e a Santa Colona de Farners ogni anno, in dicembre, si tiene la Fira de la Ratafià, qui preparata con noci verdi, erbe e spezie. Per gli amanti di Lisbona poi è mitica la mescita A Ginjinha nel largo de São Domingos, tempio dell’omonima bevanda a base di amarene, zucchero, acqua e cannella.
Nel Canton Ticino e in Catalogna il Ratafià è un liquore di noci verdi macerate nella grappa, e non di frutta fermentata (che in Italia viene chiamato nocino).
Disambiguazioni
La presenza ratafià in diverse tradizioni locali implica anche l’utilizzo del suo nome in differenti varianti: ratàfia, rattafia, rattàfia, tafià sono tutti modi di indicare lo stesso liquore.
Dal punto di vista grammaticale, ciascuno dei nomi dovrebbe essere preceduto dall’articolo “la” (in Abruzzo è indicato come ‘la ratafià’), trattandosi di nome da considerare femminile per la finale “a”, ma alla pari di quanto accade per molti vini il cui nome finisce per “a” (vedi Marsala, Valpolicella o Barbera) e che sono preceduti dall’articolo “il”, anche per ratafià il vocabolario Treccani stigmatizza la caratteristica di sostantivo maschile e sostiene l’uso dell’articolo il, che sottintende “il liquore”.
14 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
CHIETI
E DINTORNI...
16 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
di Luca Sessa
UN ITINERARIO ALLA SCOPERTA DELLE BELLEZZE PAESAGGISTICHE, GASTRONOMICHE E MUSEALI DELLA PROVINCIA DI CHIETI, UNO DEI PIÙ SUGGESTIVI TERRITORI D’ABRUZZO
Una città posta a breve distanza sia dal mare che dalla montagna, in passato principale città del popolo dei Marrucini e municipio al tempo dei Romani oltre ad essere, successivamente, capoluogo dell’Abruzzo Citeriore. Ma anche un luogo dichiarato “città aperta” durante la seconda guerra mondiale a causa del gran numero di sfollati che vi trovarono rifugio. Chieti è situata nella parte centro-orientale dell’Abruzzo (330 metri sul livello del mare) su un colle che divide le acque del bacino del fiume Aterno-Pescara da quelle del fiume Alento, e gode di una posizione geografica a dir poco favorevole grazie alla vicinanza alla riviera adriatica e alle masse montuose della Maiella e del Gran Sasso con i relativi e suggestivi paesaggi. Conosciuta anche quale polo studentesco per la presenza dell’Università degli Studi “Gabriele d’Annunzio” con il suo campus, è l’ideale punto di partenza per procedere alla scoperta di un territorio di enorme valore paesaggistico, storico e gastronomico.
Il tour non può che iniziare dalla passeggiata tra i palazzi del centro storico per ammirare le strutture ottocentesche e di altre epoche come Palazzo Majo, il cui primo nucleo risale al XVI secolo e che, dopo un restauro voluto dai marchesi Majo nell’ultimo decennio del XVIII sec., fu caratterizzato da una architettura che richiamava le ville napoletane del periodo. Oggi è di proprietà della Fondazione Banco di Napoli, che oltre ad aver collocato all’interno della struttura i propri uffici ha lasciato spazio anche allo sviluppo di un museo e di un centro culturale. Un ulteriore salto nel tempo è possibile grazie alla visita all’Anfiteatro romano della Civitella, il cui ritrovamento ha portato alla luce delle terrecotte architettoniche, frammenti di statue e di ornamenti in bronzo e di mosaici, alcuni depositi in una favissa, facenti parte di alcuni templi del II secolo a.C. e
17 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
demoliti nel secolo successivo ed ora esposti nel museo archeologico La Civitella. Passeggiare fa venire appetito e il nostro consiglio di zona è il ristorante Futura, situato nel cuore del centro storico, sulla monumentale piazza San Giustino, per scoprire i sapori della tradizione rivisitati in chiave contemporanea, per unire eleganza e gusto. E se avessimo voglia di un cocktail? In questo caso la scelta giusta è quella del Mosley Spirits & More di via Ortona.
Usciti dalla città non c’è che l’imbarazzo della scelta tra mare, montagna e borghi storici, e quindi perché non vedere tutto? Si parte dalla natura con la traversata della Maielletta procedendo alla scoperta del Parco Nazionale della Majella con la seconda vetta più alta d’Abruzzo, dopo il Gran Sasso, grazie ai 2.793 metri del Monte Amaro. Le aree d’abruzzo comprese tra le provincie di Chieti, L’Aquila e Pescara sono dette le più “Verdi d’Europa” e grazie alla presenza di aspri monti con laghi, cime e foreste, sono ideali per gli amanti del trekking. Spostandoci da Chieti per giungere a Pretoro (circa 55 km) si può salire sino ai 2.000 metri di altitudine per ammirare panorami e dettagli come quelli relativi alle pietre che portano incisi i nomi di pastori e briganti, ma è sicuramente interessante anche l’itinerario che conduce in direzione opposta alla Grotta del Cavallone, che deve la sua formazione all’azione carsica ed erosiva delle acque, che ne hanno scavato nel corso del tempo le cavità interne, ricche di stalattiti e stalagmiti e di pareti rocciose fatte di minerali e rocce. Qui c’è una imperdibile tappa gastronomica rappresentata dal Rifugio delle Grotte dove è possibile gustare una cucina che trae ispirazione dalla tradizione utilizzando materie prime locali.
Se alla montagna si preferisce l’altra anima della natura del luogo, ci si può spostare verso la costa per giungere nella bellissima Vasto, località affacciata sul Golfo d’Oro, quella estesa baia a forma di mezzaluna caratte-
18 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
rizzata da sabbia dorata. Nota nell’antichità con il nome di Histonium, la città si trova nella parte meridionale dell’Abruzzo al confine con la regione Molise. Considerata sin dall’antichità un importante borgo marinaro, fu distrutta nei primi anni dell’800 d.C. e poi ricostruita separando due diverse località, “Guasto d’Aymone” (ovvero “Città di Aymone di Dordona”) e “Guasto Gisone“, che vennero poi riunite solo nel XIV secolo. Qui è d’obbligo una visita al Palazzo d’Avalos, suggestiva struttura del XV secolo con affaccio sul mare e con un bellissimo giardino napoletano ancora visibile al pubblico. Oggi il Palazzo ospita al suo interno quattro musei: il Museo Archeologico, la Pinacoteca, la collezione di Arte Contemporanea e il Museo del Costume Antico. La tradizione culinaria di Vasto ha il sapore del Brodetto di pesce, ma anche della pasta fatta in casa, del carciofo di Cupello e della Ventricina. In questo caso l’Osteria La Spasetta con il suo menu che cambia quotidianamente è il luogo adatto per scoprire l’Abruzzo in tavola.
Vasto è anche il punto di partenza (o d’arrivo, dipende dalla direzione di viaggio) della famosa “Costa dei Trabocchi”, che si estende per circa 40 km fino alla città di Ortona e vede la presenza di numerose macchine, i trabocchi appunto, anticamente utilizzate per la pesca e oggi parte del patrimonio tradizionale della regione. Costruiti lungo le spiagge e ancorati a rocce o scogli, i trabocchi (o trabucchi) sono delle costruzioni in legno composte da una piattaforma di legno che si allunga verso mare con due (o più) lunghi bracci, chiamati antenne, a cui viene legata una rete a maglie strette, nota come trabocchetto. Un accurato sistema di argani permetteva di immergere la rete in acqua e poi di tirarla su con il pescato. Oggi quasi tutti i trabocchi sono stati ristrutturati rispettandone l’identità originaria e alcuni di questi sono stati convertiti in ristoranti: il Trabocco Mucchiola, situato in località Ripari Bardella (Ortona), è una delle mete preferite da chi vuole riscoprire la vera accezione del termine “freschezza” quando si parla di pescato del giorno.
19 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
MINA SIMONE
20 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
QUATTRO CHIACCHIERE CON IL WILLY WONKA DELL’ACCOGLIENZA
di Francesco Bruno Fadda
“I ruggenti anni ‘90. Ero adolescente, frequentavo i primi locali, e in quelle uscite si servivano cose come il Cervelletto, che tra l’altro sta tornando di moda. In casa trovavo libri di drink come Zingales, Aines, mi piacevano molto ma nello stesso tempo avevo difficoltà a capire le ricette: una era in parti, l’altra in quarti e in quanto liceale provavo a districarmi con non poca difficoltà. Tutto di questo mondo mi appariva molto colorato, più di quanto lo sia oggi. Iniziai a frequentare un corso organizzato dalla Regione Lazio, con l’idea di approfondire un hobby, ma anche con la curiosità di vedere dove mi avrebbe portato”.
La curiosità, il caso, lo studio. Sono le cifre marcanti del Willy Wonka del bancone. Simone Mina, romano da generazioni, professionista dell’accoglienza, brand ambassador e papà convinto.
Competenza, abilità e capacità guadagnate sul campo, anzi sulla strada come ama dire. Una strada fatta di lunghi viaggi, corsi, prove e piccole rivoluzioni. Dal Checchino, attività di famiglia da oltre 150 anni, al Ch1887, il personale teatro di alchimie e pozioni della felicità. Al blazer blu preferisce altri colori, alla tecnica unisce la forma astratta ma concreta della passione più pura. Il bancone, per lui, non è niente di meno che un palcoscenico dove raccontare storie travolgenti con le sue miscele. “I primi anni 2000 sono lo spartiacque della mia storia. Fino ad allora mi muovevo da autodidatta, mi divertivo a mettere le mani tra i distillati senza poter contare su una vera formazione. Poi arriva, tra il 2012 e il 2013, un altro corso, quello che mi fece letteralmente esplodere la passione tra le mani. Rispondevo a qualsiasi locale stesse cercando un barman, ho vissuto situazioni improbabili, di ogni genere, davvero inenarrabili, ma tutte esperienze formative che accettavo con buona dose di incoscienza”.
21 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
La sliding door era dietro l’angolo, in realtà davanti allo schermo del telefono. Un post su facebook promuove una competition alla quale il nostro decide di partecipare con la sua ricetta comfort zone, quella di cui andava più orgoglioso. L’azienda promotrice della competizione si chiama(va) Botran, e Simone porta a casa il risultato pieno. Si parte per la cerimonia di premiazione dei “The World’s 50 Best Bar”, poi Londra e via un aereo per il Guatemala. Inizia il viaggio Side B. Capisce cosa c’è intorno al mondo degli spirits, ma soprattutto, che ne vuole far parte da protagonista. “Quando ho iniziato, quello dell’Ambassador non era un ruolo ben chiaro a tutti, e per me è stato un modo per rispondere alla mia esigenza primaria di diventare internazionale. Per essere internazionale però bisogna viaggiare, per viaggiare servono i soldi e preferisco usare quelli di qualcun altro piuttosto che i miei. Questa è stata la spinta iniziale. Solo dopo mi sono reso conto che si tratta di una professione dura e impegnativa. Un lavoro senza pause, sei impegnato h24 e in ogni momento della tua vita, anche quella privata, resti la faccia del brand. Qualunque comportamento assumi quotidianamente, si riversa sull’azienda di cui sei il volto. Una sera che decidi di ubriacarti, non puoi farlo perché anche in quel momento stai rappresentando l’azienda. Arriva un momento in cui il Brand e l’Ambassador diventano la stessa cosa. Questo è un discorso che le nuove generazioni hanno difficoltà a
comprendere. Per operare in un mercato estremamente volubile come quello degli spirits, devi essere sempre presente, approfittare delle occasioni giuste per piazzare la bottiglia giusta nel locale giusto, creando anche le condizioni affinché nasca un rapporto continuo tra locale e azienda. Capita anche di sbagliare, ma è fondamentale essere estremamente preparati sul prodotto, apprezzarlo, conoscerlo profondamente. Mentire oggi è estremamente difficile, non solo perché bisognerebbe essere consumati attori alla Gassman, ma perché il pubblico è informato, le notizie viaggiano veloci e si è sempre sotto gli occhi di tutti. Compresi quelli di colleghi in attesa di un passo falso.”
22 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
Il mondo. I viaggi. Il Simone Mina Ambassador. Colori che esplodono su una tela che è stata tessuta in realtà già da generazioni. Perché per quanto la sua creatività si esprima nel bicchiere, lui è figlio d’arte o, come ama dire, “il corto circuito di due generazioni” che di cibo, accoglienza e sapori hanno sempre fatto la loro vita. Dalla cucina romana a Escoffier, dal cibo alla passione di una sala che nel ristorante di famiglia è sempre stata, storicamente, attenta ai distillati. “In una Roma che continuava a considerare la Grappa una cosa da Alpini, noi avevamo ben due carrelli che giravano tra i tavoli con la selezione delle migliori etichette italiane, e insieme ai vini francesi venivano acquistati anche i grandi distillati. Armagnac, Cognac, JM. Anche se, di fatto, il primo spirit che abbia mai bevuto in vita mia è stato un Rum. Forse un segno del destino”.
Un destino che lui ha continuato a cavalcare, portando quella rivoluzione miscelata e distillata che aveva travolto nella sua vita anche nel ristorante di famiglia, il Checchino dal 1887, dove oggi serve miscelazione a latere di un’offerta di cucina tradizionale romana. Una rivoluzione? Solo una delle tante, o forse più il naturale prosieguo delle cose, visto che già nel 1870 “vendevamo vino con affettati, coppiette e formaggi ad accompagnare. Quello che oggi chiameremmo aperitivo. Poi all’osteria si è affiancata la cucina, nel 1887 appunto, e con l’andare dei secoli siamo cambiati ancora, andando ad alleggerire la cucina tradizionale e inserendo il carrello dei formaggi (che gli è valso molti premi, ndr). La nostra attuale offerta, cucina tradizionale e cocktail in abbinamento, è una rivoluzione solo se consideri che da Roma in giù un locale simile è un’impresa fuori da tutti i canoni”.
23 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
Checchino e Ch1887, uno posizionato fisicamente sotto all’altro, nel primo si possono ordinare tutti i drink in carta, mentre per il cocktail bar vengono preparati degli assaggi appositamente nella cucina.
Una realtà, oggi, che negli anni ha incontrato qualche diffidenza (“soprattutto da parte di mia madre, ma poi in occasione dei 130 anni del ristorante siamo riusciti a convincerla”) e che ha dovuto scontrarsi con le difficoltà di lavorare in una grande città. A Roma “devi relazionarti con molta concorrenza, dovevamo riuscire a trovare una quadra per cui si potesse fare una proposta di alto livello, facendo i conti con i prezzi medi del centro di Roma e vincendo la diffidenza di chi è restio a bere in un ristorante”. Sfida vinta, se è vero che gli americani, nonostante il tempo passato, continuano a chiedergli uno dei loro signature cocktail, il Bloody Mary con sugo di coda alla vaccinara. “Un terremoto” amatissimo, anche se non è, confessa, tra i suoi pairing preferiti: “Ne ho due. In primis la cacio e pepe abbinata al nostro Deep Honey, a base di cachaca: il trittico miele – pecorino – pepe lo considero un abbinamento perfetto. Il secondo pairing, suggerito da un giovane cliente abituale, è meno mainstream ma decisamente più intrigante: pajata arrosto e Martini dry. Pura poesia”.
La Roma più profonda, terrena, verace, e l’ineffabilità liquida di un drink. Un terremoto di cui Simone Mina è molto fiero, destinato secondo lui a non restare l’unico in Italia. “Nei prossimi tempi, chi ha un bar difficilmente potrà fare a meno di avere una proposta culinaria. Nel mondo molto spesso è già così” e ne è una riprova, secondo Mina, che tutte le new entry italiane nei The World’s 50 Best Bars riguardano “locali che, per quanto eterogenei e originali, hanno una offerta più o meno completa” come il Drink Kong di Roma con la sua cucina fusion asiatica, o Il Locale di Firenze, affiancato da una rampante cucina di fine dining. Una moda mondiale, sicuramente, ma anche una necessità culturale e sociale se si vuole fare impresa in Italia: “Roma (ma il discorso è valido un po’ ovunque, in un’Italia asfissiata dalla crisi economica,ndr) è una città di stipendi a maggioranza pubblici, con un minore potere di acquisto. Se paragoniamo Navigli e Trastevere, che offrono due dinamiche sociali simili, ci sono ben 3 euro di differenza di media drink. A Roma si esce dal lavoro, si torna a casa e solo a quel punto si decide di uscire, tendenzialmente
24 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
con l’intenzione di andare a cena fermandosi prima a bere qualcosa”. Fare aperitivo, sottolinea Mina, non è il punto: il cibo è e resta sempre al centro, per abitudine e anche per la necessità economica di concedersi il giusto svago senza spendere troppo.
Una necessità che è chiara al pubblico, ma non sempre a chi nel bar ci lavora, non a tutti. “Il bartender che cerca di smarcarsi dalla cucina mi dà l’impressione che non abbia capito il Paese in cui sta lavorando. Basta fargli qualche domanda sui tipici piatti che vengono usati in cucina come test: non li conoscono. Però magari sanno realizzare con le pinze un perfetto nido di rondine con gli spaghetti”. Persone, sintetizza, che seguono le mode, decidono “cosa funziona e cosa no, anche se totalmente in contrasto con lo stile italiano” seguendo il sistema anglosassone delle classifiche, finendo per sottovalutare aspetti fondamentali, come lo sfruttamento della materia prima, che in cucina è un pilastro. “Lo vediamo ogni volta che ci sediamo al tavolo di una giuria di cocktail, dove non c’è lo stesso modo di guardare agli ingredienti”, ma conta solo “l’effetto wow da chef stellato”. Chi ragiona così spesso risulta lavorare in “locali-vetrina che si possono permettere il lusso di lavorare mentre perdono soldi, ma dal mio punto di vista non hanno senso. Nelle mie masterclass cerco sempre di trasmettere valori come semplicità e concretezza”. La semplicità e la concretezza che insegna anche un figlio. Al suo, ancora molto piccolo, Simone Mina dedica l’ultimo pensiero in chiusura di questa lunghissima chiacchierata: “Sai che ho già preparato il drink per quando sarà maggiorenne? Quando ha compiuto un mese ho imbottigliato il Martini che berremo insieme il giorno in cui compirà 18 anni”.
25 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
KØBENHAVN
COPENAGHEN
28 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
di Eugenia Torelli
DAL MATTINO FINO A TARDA NOTTE, UN TOUR TRA I SAPORI E GLI SPIRITI DELLA SIRENA DEL NORD
TRA GUSTO SCANDINAVO E ALTA GRADAZIONE
La chiamano “Sirena del Nord”, ma a dispetto di tutto ciò che l’immaginario potrebbe suggerire a un sognatore mediterraneo, Copenaghen di una sirena ha davvero poco. La statua, forse.
Strade ampie e lisce, dominate dalla stazza compatta e regolare degli edifici, ora in mattoni e meno recenti, ora moderni. Qua e là i tetti azzurri di rame si alternano ad architetture nordiche contemporanee, alleggerite da vetrate ampie e assetate di luce, così come ampie sono le finestre dei vecchi palazzi, senza scuri, quasi a voler rompere la quarta parete delle abitazioni e dei cafè, sotto le travi di legno. Ecco, se di una sirena si potrebbe immaginare il canto, Copenaghen non canta, piuttosto mormora un’intimità vivace, vissuta nel tepore dei salotti e dei bar, dei ristoranti, delle panetterie e di tutti quei locali in cui si trovano rifugi golosi e distesi dal cielo grigio e dai mesi più freddi. Ma nella bella stagione, quando il cielo è limpido, sole e azzurro a questa latitudine sono un’esperienza difficile da dimenticare, che accende la città di tutti quei colori che sembravano sopiti. I parchi si riempiono e la natura si risveglia per cogliere il prezioso calore.
Dal punto di vista spiritoso e culinario, la città è un laboratorio di idee, in cui all’estro degli indigeni si unisce quello delle tante culture che qui si incrociano, portate dagli stranieri in cerca di opportunità. Nascono così progetti e sinergie inaspettate, capaci di offrire esperienze di altissimo livello, ma anche realtà che si intrecciano con una cultura locale amante del tempo libero e dell’intrattenimento.
Ecco dunque un itinerario dalla mattina alla sera, con qualche deviazione fuori dalle rotte e dai nomi più battuti, per scoprire il volto giovane e cosmopolita di questa sirena scandinava, dalla bellezza algida e silenziosa.
29 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
Il buongiorno si vede dalla colazione
Che vi troviate a Copenaghen per motivi di lavoro o per svago, non importa, la colazione è comunque sacra e in città pare aver preso piede un trend che corteggia tanto le boulangerie alla francese quanto le coffee roastery artigianali. Partiamo quindi da una colazione sostanziosa in una delle insegne più in vista del momento, Andersen & Maillard, che in città ha la propria torrefazione e due bakery. La più centrale è quella con il laboratorio dedicato all’arte bianca in Nordhavn e potremmo partire proprio dalla sua golosa vetrina per affacciarci di prima mattina sul mare che divide a est la Danimarca dalla Svezia. Non preoccupatevi se, passando, vedrete qualcuno fare il bagno tuffandosi dalla banchina, può succedere anche in gennaio. Voi nel frattempo concentratevi sul bancone. Dal dolce al salato, dai panini farciti alle sfogliatine di mele, dalle torte alle focacce, c’è veramente di tutto, ma non si possono non provare i croissant, che qui sono declinati in tutte le fogge. Quelli cubici e quelli rotondi sono imperdibili, friabili e fuori e colmi all’interno di morbide creme.
Un mercato coperto in centro città
Sistemata la colazione, si può partire per un tour cittadino, spostandosi nella zona di Indre By. Dopo una passeggiata lungo la via pedonale della Strøget, ci si può perdere gironzolando al porto di Nyhavn, tra barche ormeggiate e canali su cui si affacciano case colorate, bancarelle e ristoranti. È in questo quartiere che si trovano alcuni dei luoghi di interesse storico più significativi della città, come il palazzo di Christiansborg o il museo di Amalienborg, i giardini botanici, Rosenborg e anche la famosa scultura bronzea della Sirenetta, adagiata su uno scoglio nei pressi del porto.
Da bravi gourmet, il nostro fiuto ci porterà però un po’ più a nord, fino al mercato coperto di Torvehallerne, una specie di paese dei balocchi per gli amanti del buon cibo e del buon bere. Macellai, pescherie, botteghe e banchi di formaggi, salumi, pesce essiccato, ortaggi, frutti, spezie, ma anche dolci, spirits (ovviamente), vino e soprattutto spazi gastronomia, bar e streetfood dove gustare ottimi bocconi in mezzo al via vai di borse della spesa, aromi e colori. Un luogo irresistibile in cui scoprire quali sono i gusti e prodotti locali e le specialità da provare. Inutile dire che qui uno smørrebrød - la tipica fetta di pane farcita, che i danesi amano consumare per un pranzo veloce - non ve lo leva nessuno.
Copenaghen Distillery, anima urbana e trasversale
“Distinctively Danish”, è questo lo slogan della distilleria urbana di Copenaghen, che in zona Amager Øst, al di là del controverso quartiere di Christiania e ai margini del verdeggiante Kløvermarken, distilla gin, acquaviti e soprattutto whisky, al quale ha anche dedicato un club. All’interno, il capannone in mattoni della distilleria accoglie in uno spazio modern-industrial. Un luogo di lavoro, ma pensato fin da subito – lo si capisce - per ospitare degustazioni, tour e anche eventi, in particolar modo concerti. Ed è qui che lo slogan della distilleria si rivela in tutta la sua autenticità, che non sta solo nelle botaniche e nell’invecchiamento degli spiriti, bensì anche nell’idea di un’attività aperta, in grado di abbracciare in maniera trasversale diverse forme di intrattenimento, in perfetta armonia con una cultura abituata ad avere molto tempo da dedicare ai propri interessi, oltre le ore lavorative.
Da provare sono sicuramente i tre whisky di casa, dal Raw maturato in botti ungheresi non carbonizzate al Refined, che della botte vergine ungherese riporta le speziature rustiche, unite alle note affumicate del distillato. Il Rare, infine, unisce la sperimentazione con i grani antichi a note più ricche e tostate.
Le possibilità di visita per gli appassionati sono diverse e si può scegliere tra tour incentrati su gin o whisky, ma anche su degustazioni di spirits e smørrebrød o esperienze interattive, come l’experience per imparare a produrre il proprio gin e quella dedicata invece alla mixology, con piccolo corso e degustazione. La distilleria tiene molto a promuovere anche la miscelazione e sul proprio sito cura un’area in cui raccoglie
30 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
tutte le principali ricette di cocktail, con tanto di ingredienti, indicazioni e video. Un lavoro molto ben fatto, che poi si riflette nel concreto anche nella proposta del bar di proprietà, aperto alla sera dal giovedì al sabato, per dare la possibilità di provare i prodotti in versione liscia o miscelata, prima dell’acquisto.
Un caffè “nordico” dopo la distilleria
Se state leggendo Spirito Autoctono, significa già che siete curiosi appassionati di cose buone, oltre che di alta gradazione, quindi probabilmente non serve spiegarvi che la cultura del caffè non è una prerogativa italiana. Anzi, nei paesi del nord non è raro imbattersi in un gusto molto sofisticato per questa bevanda, oltre che per una certa conoscenza di varietà, provenienze e miscele. Lo specialty coffee, insomma, è più sdoganato di quanto non lo sia nello Stivale.
31 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
Nordic Roasting è una torrefazione cittadina nel quartiere di Amagerbro Øst - non lontano dalla Copenaghen Distillery - che punta su un prodotto di qualità e una comunicazione giovane e dallo stile internazionale, che riflette le diverse anime dell’azienda. I fondatori sono Francesco Impallomeni, di origine siciliana, Miguel Botero, colombiano discendente da una famiglia di coltivatori di caffè e l’autoctono Jakob Frankel, affiancati dalla head barista polacca Agnieszka Lewandowska. Oltre ad acquistare diverse tipologie di miscele, da Nordic Roasting, è possibile gustare caffè e cappuccini preparati e spiegati con cura al bar del punto vendita, abbinati, all’occorrenza, con i dolci e i croissant di pasticcerie artigianali.
Cena stellata, anima italica e sapori locali
Sarebbe facile consigliare il Noma o il Geranium, le stelle più note agli appassionati e a gran parte della critica nazionale e internazionale. In questo caso invece, il consiglio è alternativo e individua una piccola chicca dall’anima italiana, tra i grandi nomi della cucina stellata cittadina. Tèrra, stella verde Michelin dal 2021, è l’alcova che lo chef Valerio Serino e la compagna Lucia De Luca - titolari anche di uno stand di pasta fresca, Il Mattarello, a Torvehallern – hanno ritagliato per perseguire la propria idea di cucina, incentrata sulle materie prime locali e sul loro utilizzo nella forma più integrale possibile. Ogni ingrediente viene selezionato con massima cura da produttori locali e lavorato nella sua interezza. Una filosofia che costa ore di ricerca ai titolari e al loro staff, per arrivare alla forma di utilizzo migliore delle parti di scarto, che questo significhi nuove preparazioni edibili oppure accessori da utilizzare nell’impiattamento o sulla tavola. Così, le lische dei pesci più grossi diventano il supporto su cui si infilano i gustosi spiedini di rapa rossa, anguilla e salsa teriyaki, mentre l’albedo dei limoni – uno dei pochissimi ingredienti di importazione –si trasforma in soffici pasticcini serviti a fine pasto. La stessa filosofia si applica alle materie prime e si riflette, ad esempio, nel rispetto dell’animale da lavorare, così come nella cura per frutti, ortaggi e fiori, spesso raccolti in natura e serviti con lavorazioni minime nei piatti primaverili ed estivi, oppure trasformati in saporite conserve per accompagnare i piatti invernali. Si aprono così porte inaspettate ed emozionanti anche in termini di gusto, come per la carne di vacca da latte, proveniente da un allevamento locale in cui gli animali pascolano all’aperto fino alla vecchiaia prima di essere macellati. La cottura sigillata in padella e l’accompagnamento con salsa di aglio nero, burro alla nocciola e il succo ricavato dallo stesso grasso, offre un concerto di sapori e consistenze che rende omaggio a un prodotto di grande valore. Non manca ovviamente il pairing, grazie a una carta ampia che non disdegna le proposte diverse dal vino, integrando succhi e vermouth home made, oltre all’Oak Gin, distillato di ginepro invecchiato della Copenaghen Distillery.
Tra cocktail, spirits e hard rock
Tra i banconi che più si fanno notare sulla scena spirits di Copenaghen, ci sono sicuramente le due insegne sorelle create da Adeline e Rasmus Shepherd-Lomborg. La prima, il Ruby, è una delle insegne danesi della World’s 50 Best Bars e si colloca nello storico edificio al numero 10 di Nyebrogade, in cui nel 1882 nacque la Danish Spirit Producers. A questa importante eredità il locale si lega orgogliosamente, con una filosofia che punta alla magistrale interpretazione dei grandi classici della miscelazione. Mentre nella prima sala si viene accolti da un elegante bancone in stile minimal nordico - con tanto di arredi in pieno stile IKEA - dietro si trova uno spazio più intimo, tra quadri e luci soffuse. Oltre ai classici, un assaggio delle reinterpretazioni è assolutamente consigliato. Per tutti gli amanti del genere, l’Orchard Old Fashioned è un bevuta di grande godimento ed equilibrio, tra la sottile piccantezza del Rye Whiskey, dolcezze di Calvados, poi ancora acidità e grassezze, tra fermentato di mela cotogna, mela, burro affumicato e vaniglia.
32 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
L’insegna gemella del Ruby è il Lidkoeb, che in Vesterbrogade si sviluppa su diversi piani proponendo un doppio bancone cocktail. Al piano terra lo stile nordico richiama il Ruby, in una sala animata e solitamente ben frequentata, mentre al primo piano ci si immerge in un atmosfera che richiama l’atmosfera dai colori più scuri delle vecchie farmacie ed erboristerie. Al piano superiore si trova invece il regno del whisky, con un bar dedicato e un menu che lo prevede sia in versione miscelata che in purezza, anche con percorsi di degustazione a tema, composti da dram di diverse referenze.
Per finire, restando in tema whisky – di cui la città è evidentemente innamorata – occorre segnalare un bar nato per offrire un’offerta spirits di qualità accostata alla musica rock e heavy metal. Potrà forse far sorridere chi non è familiare con questo ambiente musicale, ma l’accoppiata non è così scontata e pare che anche a Copenaghen fosse difficile trovare una bevuta di buon livello volendo ascoltare – da buoni vichinghi contemporanei - la propria musica preferita. È questo che ha spinto Luke e Niklas, amanti di hard rock ma anche di ottimi distillati, ad aprire Luke’s in Klosterstræde, nel cuore di Indre By. “Hard rock and whisky on the rocks to the masses” quindi, e dalla Sirena del Nord, non si può chiudere la giornata con un messaggio più popolare e democratico di così.
SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
LA PRIMA DISTILLERIA CON LA ‘STELLA’ ...ANZI DUE
THE GLENTURRET LALIQUE RESTAURANT
La Glenturret è probabilmente la più antica distilleria attiva in Scozia: situata sulle rive del fiume Turret, a poca distanza da Crieff nel Perthshire, è nascosta in una ripida vallata tra campi e colline. Una realtà conosciuta e apprezzata per la qualità dei suoi distillati e che dal 2019, grazie al Gruppo Lalique, ha iniziato a scrivere un nuovo capitolo della sua incredibile storia. La creazione del The Glenturret Lalique Restaurant ha infatti permesso alla distilleria di potersi fregiare nel 2021, prima fra tutte, del riconoscimento della stella Michelin grazie all’incredibile talento creativo dello chef Mark Donald. Un grande risultato per una cucina che racconta la storia del territorio circostante, e che integra in maniera armoniosa materie prime della tradizione e tecniche moderne, affiancandoci riusciti omaggi al processo di distillazione. Donald ha saputo costruire una rete virtuosa di artigiani, coltivatori, produttori, allevatori e pescatori di zona, per poter giocare con gli ingredienti in piatti che non trascurano mai l’aspetto ludico, abbinando a materie di pregio i grandi classici della cucina scozzese. Una filosofia che ha permesso di ottenere una seconda stella Michelin nell’edizione 2024 della guida, presentata lo scorso febbraio.
Il ristorante da 26 posti è situato al centro della distilleria e offre una bellissima vista sul fiume, sulla foresta e sulle colline circostanti. Un ambiente che richiama l’atmosfera della distilleria grazie alle cromie degli arredi, ai soffitti con travi di quercia e le mura con pietre secolari, che può contare su una invidiabile cantina nella quale trovano posto vini pregiati, annate ricercate ed etichette di piccoli produttori, e con una proposta gastronomica estesa al bar e alla lounge, dove è possibile scegliere i piatti del menu alla carta sorseggiando anche cocktail e (naturalmente) distillati grazie alla selezione di oltre 400 whisky. Come raccontato in apertura, l’artefice del successo del progetto gastronomico del The Glenturret Lalique Restaurant è un ragazzo scozzese avvicinatosi alla cucina in modo
34 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
di Luca Sessa
ALL’INTERNO DI UNA DELLE PIÙ ANTICHE DISTILLERIE DI SCOZIA, ATTIVA DAL 1763, LO CHEF MARK DONALD HA DATO VITA A UNA PROPOSTA GASTRONOMICA ORIGINALE, OTTENENDO DUE STELLE MICHELIN
particolare, guadagnandosi da lavapiatti i soldi per poter frequentare il Conservatorio per cullare il sogno d’avviare una carriera artistica. La frequentazione di una cucina professionale fa nascere in Mark una forte passione che lo porta a decidere a 19 anni di recarsi in Australia per lavorare in numerosi alberghi e ristoranti.
Una volta tornato in Scozia sente l’esigenza di approfondire la conoscenza delle tecniche di lavorazione e di cottura, riuscendo a entrare nella brigata dell’Andrew Fairlie Restaurant**, per poi fare esperienza al Noma di René Redzepi prima e all’Hibiscus di Londra poi. Dopo una nuova parentesi australiana, Donald decide di tornare a casa e con sua moglie, dopo il periodo segnato dalla pandemia, sceglie la poesia delle Highlands scozzesi per sentirsi davvero libero di esprimere la sua idea di cucina.
Tornano a questo punto utili le esperienze maturate nelle più prestigiose cucine di tutto il mondo per dar vita a un percorso gastronomico che strizza l’occhio alla classicità ma con un punto di vista personale, originale, moderno. Ne sono riuscita testimonianza piatti come Clementina, Fegato e Cacao, la bisque che diventa Bisque-it, i deliziosi Foievioli (ravioli di foie gras), gli Scones e la deliziosa Aragosta.
35 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
LOCAL E CAPOVILLA
POESIA PER LE PAPILLE
“Oltre al vino, abbiamo pensato di proporre direttamente in menu un’esperienza nuova, fondata sull’abbinamento con i distillati di uno dei più grandi produttori del territorio”. Il concetto è semplice e nelle parole di Manuel Trevisan, sommelier del Local, suona come un’evoluzione del tutto naturale. Così il ristorante veneziano - una Stella Michelin – fondato nel 2015 dai fratelli Benedetta e Luca Fullin, decide di creare un percorso degustazione che unisce i piatti dello chef Salvatore Sodano e le creazioni – così è il caso di definirle – di uno dei mostri sacri della distillazione italiana, Gianni Vittorio Capovilla.
36 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
di Eugenia Torelli
IL RISTORANTE VENEZIANO UNISCE GLI INGREDIENTI DI TERRITORIO LAVORATI DALLO CHEF SALVATORE SODANO AI DISTILLATI DI UN MOSTRO SACRO DELL’ALAMBICCO E IL RISULTATO È UN’ESPERIENZA GUSTATIVA CHE OGNI GOURMET DOVREBBE PROVARE
Un naturale percorso verso il distillato
Se per gli amanti dell’alta gradazione questa scelta è un po’ come la meritata ufficializzazione di un amore a lungo coltivato, per un commensale più classico sorseggiare distillati di frutta a tutto pasto potrebbe suonare estremo. In realtà non lo è affatto, basta cambiare prospettiva uscendo dai confini italiani. “La clientela internazionale è più abituata di quella italiana ad accompagnare il pasto con drink diversi dal vino, non a caso offriamo già l’opportunità di abbinare il menu a bevande analcoliche, grazie a una selezione di tè e infusi”, spiega Trevisan. Così, accanto a un’offerta enologica composta da 55 vini al calice (tra cui grandi formati e vini fortificati), referenze territoriali veneziane e venete, ma anche una selezione di etichette nazionali e internazionali, si cerca di guardare con attenzione alle richieste di un turismo veneziano che amplia sempre più i propri orizzonti. L’approccio “no alcol” ne è un esempio e porta il Local ad avvicinarsi ai tè pregiati – nello specifico cosiddetti “Single Garden”cogliendo anche l’occasione per giocare sul confronto con il vino. “Ai più curiosi offriamo la possibilità di degustare alla cieca, comparando vino e tè, così da cogliere le differenti sfumature di aromi e tannicità”, racconta il sommelier. E in effetti il paragone tra un pinot nero e un carcadè infuso a freddo apre la via a un diverso approccio degustativo. Naturale quindi, all’opposto, il pairing con i distillati che, in linea con una filosofia basata su tradizioni e ingredienti locali, ha portato Manuel Trevisan a orientarsi sull’intera selezione Capovilla del ristorante, spaziando dalle grappe monovarietali, ai distillati d’uva e di frutta.
Dal piatto al calice tra territorio e cura artigiana
“La mia cucina ha tratti molto personali, è il risultato dell’evoluzione delle tecniche apprese durante la mia carriera – afferma lo chef Salvatore Sodano -. È una cucina di cuore, di sapore, di intensità, in cui gli ingredienti locali sono i protagonisti. Il mio obiettivo è di valorizzare al massimo le qualità di questi ingredienti”. Con queste parole lo chef riassume la filosofia di Local, sottolineando la necessità di collaborare con i piccoli artigiani, gli agricoltori e i contadini. “Sono loro che creano la magia dietro al nostro lavoro”. Ecco così che a questi si accosta un grande artigiano dell’alambicco. Dal 1986 Vittorio Capovilla distilla nelle cantine della storica Villa Dolfin Boldù a Rosa’ (VI) e attinge dalla tradizione dei maestri distillatori mitteleuropei, che frequenta a partire dai primi anni settanta. Per distillare vengono utilizzati piccoli alambicchi a bagnomaria, costruiti dall’artigiano tedesco Muller su progetto dello stesso distillatore. Vittorio Capovilla – “Capo” per gli affezionati – è di fatto un distillatore nomade, che viaggia in tutta Italia e anche oltre confine alla ricerca della materia prima da distillare, orientandosi soprattutto verso i frutti selvatici (quando non coltivati in azienda), affiancato da alcuni anni dal nipote Alvise Ennas. Quello che esce dall’alambicco è la più pura ed essenziale anima della distillazione, una sorta di astrazione filosofica della materia prima tradotta in esteri. I distillati riposano minimo 2-3 anni prima di essere portati a gradazione con acqua di fonte, imbottigliati e confezionati interamente a mano.
37 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
Il carrello dei distillati a tutto pasto
Chiunque entri nel ristorante di Salizada dei Greci, non può fare a meno di notare il carrello di legno da cui sporgono le bottigline dal tappo colorato, liquidi trasparenti all’interno e scritte a mano sulle etichette. Dall’inizio di quest’anno i distillati di Capovilla non attendono il dopo pasto e arrivano direttamente sulla tavola, grazie agli abbinamenti studiati dal team di Local assieme a Vittorio Capovilla e Alvise Ennas. Il menu si apre in grande stile con Cicchetti e Martini al Distillato di sakè 2021, una carica umami da far venire l’acquolina in bocca. Sorprendente l’entrée di Musso, garusoli e funghi, che unisce sapori decisi e quasi impensabili alla spinta aromatica del Ribes Nero 2014, mentre il Sedano rapa bianco del Veneto abbinato allle Bacche di Sambuco 2016 regala una pausa quasi rinfrescante e prepara allo slancio gustativo della portate successive. Il Risotto radicchio rosso di Treviso, Blu di capra e ostrica gioca con i Lamponi selvatici 2020 lanciando un ponte bucolico tra pascoli e laguna, in completa coerenza con il secondo piatto, l’Agnello, uva fragola e salsa peverada, boccone succoso, acidulo e speziato, perfettamente amalgamato dalle Corniole 2008. Si riprende fiato con il Topinambur, graziosamente accompagnato dalle Mele Decio 2018, grande classico del Capo, per poi concludere con il dessert Grappa, curry e nocciola, riscaldato dal distillato di Uva Moscato Rosa 2007. L’esperienza vale da sola una gita a Venezia, sfidando plotoni di turisti in ciabatte e dribblando il ciarpame della paccottiglia made in Cina (orientatevi su creazioni artigianali e di valore anche in questo campo, qualora ne sentiste il bisogno). Dulcis in fundo, c’è un fuori menu. Se chiederete un caffè, non risparmiatevi un bel resentin alla maniera veneta. In questo caso il consiglio del Capo e di Alvise è di utilizzare un distillato di frutta col nocciolo. Largo quindi a una Prugnolo Gentile e Albicocche del Vesuvio, provare per credere.
IL MENU DI LOCAL E I SUOI ABBINAMENTI
Cicchetti
Martini al Distillato di Sakè 2021 (imbottigliato per il Local)
Musso, garusoli e funghi
Distillato di Ribes Nero 2014
Sedano rapa bianco del Veneto
Distillato di Bacche di Sambuco 2016
Risotto radicchio rosso di Treviso, Blu di capra e ostrica
Distillato di Lamponi selvatici 2020
Agnello, uva fragola e salsa peverada
Distillato di Corniole 2008
Topinambur
Distillato di Mele Decio 2018
Grappa, curry e nocciola
Distillato di Uva Moscato Rosa 2007
38 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
ANDREA LUCATELLO IL PIACERE DI BERE BENE
di Luca Sessa
“Svizzero di nascita, romano d’adozione e di passione”: l’incipit della biografia di Andrea Lucatello è sufficiente a descrivere in maniera esaustiva la personalità di una delle voci più note di Radio Capital. Metodo ed entusiasmo sono infatti gli elementi che gli permettono di distinguersi ‘on air’, ma sono anche le chiavi di lettura per approcciare ogni tipo di esperienza. Una carriera professionale spesa nel Gruppo Espresso (poi Gedi) tra gli inizi da cronista per Paese Sera e il successivo passaggio all’Agl, quindi il trasferimento nelle Marche e il ritorno a Roma grazie a Vittorio Zucconi che lo coinvolge nel progetto radiofonico. Qui nasce l’eclettico duo con Mary Cacciola, l’altra voce protagonista di “Non c’è duo senza te”, ma anche la perfetta compagna di bevute alla scoperta di spirits e vini biologici.
Andrea, il lavoro in radio e il coinvolgimento in vari eventi a tema enogastronomico ti consente di essere sempre aggiornato in fatto di novità su vini e distillati, ma cosa preferisci bere quando sei tu a scegliere?
“Con il tempo mi sono sempre più avvicinato al vino, in particolare quello bianco, affinando il palato. Ho sviluppato un mio gusto personale, che mi ha fatto superare alcuni schemi preimpostati in fatto di abbinamenti con il cibo. Non c’è niente di più bello che esplorare le infinite possibilità di accostamento tra piatti e calici, e la complicità con Mary Cacciola, con cui condivido i gusti artistici, l’ironia e la verve, ma soprattutto i gusti alcolici,
40 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
“Sport preferito?
Bere un buon vino a casa, in compagnia degli amici”
ha consentito di scoprire alcuni vitigni che sposano alla perfezione la mia idea di vino”.
Se dal vino passiamo agli Spirits?
“Ultimamente mi sono appassionato al gin, un distillato che prima rifiutavo senza un motivo ben preciso. Poi, probabilmente grazie a una evoluzione delle papille gustative, ho imparato ad apprezzarlo, assieme al rum anche se quest’ultimo è un po’ impegnativo come beva, mentre trovo che il gin sia più versatile, ed in più è diventato un elemento molto significativo in questo periodo della mia vita. Da un po’ di tempo mi sto interessando alla magia, alla cartomagia e alla prestodigitazione: mi alleno, seguo corsi che abbracciano anche l’ambito del mentalismo, e la scoperta del Gin Màgico, che cambia colore a contatto con l’acqua tonica, mi è sembrato un segno del destino”.
C’è un’occasione particolare in cui preferisci bere?
“A parte gli eventi enogastronomici a cui partecipo, mi piace molto bere a casa, preferisco i momenti casalinghi piuttosto che un’uscita serale. Raggruppare poche persone, alcuni amici, a casa mia, rappresenta un momento intimo di grande valore”.
Dove acquisti eventualmente alcolici, e cosa compri?
Per quali occasioni?
“Se devo fare un ordine ‘importante’ preferisco acquistare online, ma vivendo a Roma ho la fortuna d’avere a disposizione molte enoteche ben fornite vicino casa. Sono cresciuto nella zona di Viale Libia e lì avevo come riferimento una storica insegna, e ora che sono nel quartiere Esquilino sono andato alla ricerca di negozi di fiducia. Raramente opto per la GDO, magari se ho bisogno di comprare prodotti come il Campari o l’Aperol, perché trovo l’offerta poco interessante. Acquisto vino per la mia cantina personale ma anche se devo fare un regalo, penso che un’etichetta di pregio sia ancora una bella sorpresa per un appassionato”.
Trovi che mode e tormentoni possano portare a una omologazione del gusto, soprattutto per quel che concerne la miscelazione?
“Ho un’idea diversa al riguardo, trovo che si stia rischiando l’effetto opposto. La voglia di rendersi originali e differenziarsi a ogni costo ha fatto nascere proposte a dir poco estreme, basti pensare allo Spritz con la camomilla e altre cose simili, il tutto per inseguire a ogni costo una forzata creatività. Non bisogna aver paura di continuare a proporre ciò che già conosciamo a apprezziamo, come i grandi classici. Qualche giorno fa ho letto
SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
un’intervista fatta a Raspelli (critico enogastronomico, ndr) che si è visto portare in tavola un dessert realizzato con cioccolato a carpa cruda, un accostamento insensato. La mixology deve continuare a poggiare le sue fondamenta sui cocktail che ne hanno fatto la storia, e partendo da questi ideare twist che non perdano di vista equilibrio e gusto. La semplicità, fatta bene, paga sempre, ecco perché si continua ad andare da Roscioli per ordinare la pasta burro e Parmigiano”.
Capita di parlare di alcolici in radio?
“È molto difficile perché resta un argomento delicato: se ne parli con tono scherzoso ricordando eventi o aneddoti va bene, appena esci da questo perimetro diviene un tema rischioso, si alza subito un muro di proteste da parte degli ascoltatori. Capita quindi di parlare di alcoli e superalcolici in relazione ai dati di vendita o per notizie e campagne relative agli eventuali abusi in fatto di consumo”.
Qual è il tuo collega più esperto di Spirits? Anche se siamo quasi sicuri di conoscere la risposta…
“Mary Cacciola, collega, amica e conduttrice di Radio Capital, è la mia complice in fatto di bevute. È una grande appassionata ed esperta e mi ha insegnato molto in fatto di distillati, permettendomi di comprenderne le caratteristiche. Qualche anno fa avevamo una rubrica in radio in cui parlavamo di food & wine, consigliando gli eventi da seguire, le manifestazioni di riferimento e in quel periodo ho imparato a conoscere e apprezzare molti prodotti. Posso affermare con assoluta certezza che Mary è la più grande esperta radiofonica a livello nazionale e internazionale di tutto ciò che supera i 12,5 gradi alcolici”
C’è un aneddoto particolare, legato a una bevuta, che ti piace ricordare e raccontare?
“Tutti, e ripeto tutti, i momenti in cui ho bevuto con Mary, perché riassumono il nostro rapporto di amicizia in tutte le sue sfaccettature. Puntualmente ci si incontrava dopo il lavoro per fare il punto della situazione, per confrontarci, per analizzare il nostro rapporto professionale con i suoi punti di forza e quelli su cui era necessario lavorare. Confronti caratterizzati da grande franchezza, vissuti sempre davanti a un calice di vino o ad un cocktail: ci sono state serate divertenti e momenti di duro confronto, ma ogni volta ci siamo relazionati in estrema sincerità, atteggiamento probabilmente favorito anche dalla rilassatezza portata dall’alcol, alleato ideale per vivere ogni tipo di emozione senza filtri e sovrastrutture”.
Ricordi qual è l’ultima cosa che hai bevuto al bancone di un bar?
“Assolutamente sì, un vino biologico, una tipologia di prodotto che apprezzo particolarmente. Nell’ultimo periodo sono sempre alla ricerca di novità di questo tipo e devo dire d’aver scoperta etichette davvero interessanti. Se invece devo pensare a un cocktail, l’ultima cosa bevuta è un Campari Spritz preparato nel corso di una serata a casa mia con amici da Mary Cacciola, che ha ‘inaugurato’ una bottiglia da 3 litri che avevo ricevuto in regalo”.
42 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
VERONA ALLA SCOPERTA DELL’ALTRA
44 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
di Alessandra Iannello
LONTANA
NELLA QUOTIDIANITÀ, È FATTA DI PIAZZE NASCOSTE, MONUMENTI UNICI E LOCALI DOVE ORDINARE
I VERI PIATTI DELLA TRADIZIONE
Lo scorso anno Vinitaly portò a Verona quasi 100mila visitatori che, approfittando dei giorni della manifestazione fieristica, andarono alla scoperta della città. Muniti di guide e seguendo le indicazioni popolari, si ritrovavano tutti in piazza Brà per visitare l’Arena, autentico monumento romano del I secolo dopo Cristo, o in via Cappello, a poca distanza dalla centrale piazza delle Erbe, per entrare nella finta Casa di Giulietta, luogo inventato di sana pianta nell’immediato dopoguerra ricreando ad arte il luogo citato da Shakespeare nella sua celebre tragedia. Per chi invece voglia scoprire l’altra Verona, un ottimo punto di partenza è la Basilica di San Zeno, nell’omonimo quartiere del centro storico veronese. Accanto alla bellissima e monumentale chiesa romanica risalente al XII secolo, che conserva al suo interno preziosi affreschi e la preziosa Pala del Mantegna, si apre un suggestivo chiostro mentre sull’altro lato svetta il maestoso campanile. Poco lontano si trova la chiesetta di San Procolo. In piazza San Zeno, come nella vicinissima piazza Corrubbio, si trovano numerosi locali dove gustare piatti della tradizione veronese e veneta accompagnati da vini locali.
Partendo da San Zeno, camminando per le Regaste, il percorso rialzato lungo l’Adige, si va verso Castelvecchio, la fortezza degli Scaligeri affacciata sul fiume. Questo magnifico complesso medievale, che oggi ospita una ricca pinacoteca, offre ai più romantici una passeggiata sul ponte merlato verso l’ora del tramonto. Proseguendo lungo l’antica via Postumia, oggi corso Cavour, verso piazza Erbe, si passa accanto all’Arco dei Gavi, al cinquecentesco Palazzo Canossa, e si arriva ai Portoni Borsari, l’ingresso alla città antica. Si prosegue quindi lungo corso Portoni Borsari e si arriva in piazza Erbe costeggiando Palazzo Maffei, il settecentesco edificio sorto sui resti dell’antico Capitolium romano. Sempre avanti si continua lungo corso Sant’Anastasia per arrivare all’omonima chiesa gotico-romanica ricca di affreschi, tra cui quello del Pisanello. Strada facendo si può fare una deviazione a destra e inoltrarsi in piazza dei Signori, attorniata dai Palazzi Scaligeri e dominata dall’ottocentesca statua di Dante Alighieri. Lì a due passi ci sono le Arche Scaligere, le tombe monumentali dei Signori di Verona. Da qui si raggiunge Sant’Anastasia oppure si può scoprire il vicino rione di Sottoriva, in riva all’Adige, con le sue caratteristiche trattorie dove gustare buoni vini locali e cucina tipica.
Una volta arrivati a Sant’Anastasia si procede verso l’altra grande chiesa monumentale di Verona, il Duomo, o meglio, la Cattedrale, altro gioiello d’arte accanto alla quale ci sono la chiesa romanica di Sant’Elena, il Battistero di San Giovanni in Fonte e il chiostro di Sant’Elena che conserva mosaici romani.
Passando dietro al Duomo e scavalcato il romano Ponte Pietra, ecco il Teatro Romano con il suo bellissimo Museo archeologico. Da qui parte una scalinata che sale verso Castel San Pietro da cui si gode una splendida vista di Verona.
45 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
DAI SOLITI CIRCUITI È LA CITTÀ DI CHI LA VIVE
A tavola con la storia
A proposito di cibo, non si può lasciare Verona senza aver mangiato un piatto di bollito con la pearà (termine non traducibile in italiano), la salsa di accompagnamento a base di midollo osseo, pane grattugiato, brodo e abbondante pepe. Per onorare il piatto tipico veronese, e per farlo conoscere fuori dai confini scaligeri, è nata la Confraternita del lesso e della pearà, il cui presidente Leopoldo Ramponi, cultore di storia gastronomica veronese, è titolare di un ristorante tipico, il Bersagliere, in via Dietro Pallone in zona Filippini. Sempre in rione Filippini, vicinissimo al centro, ci sono i locali di piazza Corrubbio in zona San Zeno, e più precisamente l’Osteria all’Arganetto, buono per aperitivi, da non perdere le ottime tartine, ma anche per degustare piatti tradizionali. In piazza San Zeno c’è il ristorante-bar Ai Piloti, anche questo ottimo per aperitivi, pranzi e cene, buone anche le portate di pesce. Un altro posto dove mangiare il lesso con la pearà è il ristorante Arco dei Gavi in corso Cavour. Sempre per quanto riguarda i piatti della tradizione un indirizzo interessante è lo storico Caffè Monte Baldo in via Rosa, in pieno centro storico, famoso per le ottime tartine ma dove si può anche mangiare molto bene, a prezzi accessibili.
Altro piatto da assaggiare, un po’ pesantino ma gustoso, è la “pastissada de caval”, uno stracotto a base di carne di cavallo, vino rosso e spezie che affonda le sue origini nel V secolo. Era infatti il 28 settembre 489, quando fu combattuta, nelle campagne intorno a Verona, una furiosa battaglia tra il Re d’Italia Odoacre e Teodorico, a capo degli invasori Ostrogoti, che peraltro riportarono una netta vittoria. Al termine sul campo rimasero moltissimi cavalli morti che furono donati al popolo stremato affinché si sfamasse. Così la carne degli animali, lasciata macerare prima nel vino e nelle spezie e poi cucinata a lungo con delle verdure, tra cui abbondante cipolla, diventò la “pastissada”.
Eredità dell’antico Carnevale veronese sono, invece, gli gnocchi di patata, conditi con la “pastissada” o più semplicemente con burro e salvia. Molti locali propongono anche i famosi tortellini di Valeggio sul Mincio, in brodo o asciutti. Salumi e formaggi della Lessinia, tra cui il gustoso “ubriaco” (un Monte Veronese Dop lasciato macerare nelle vecce dell’uva) possono essere la base di gustose merende e aperitivi.
Pizze del territorio
Una delle quattro pizzerie che hanno conquistato i tre spicchi nella guida Migliori Pizzerie d’Italia di Gambero Rosso 2024 è I Tigli, già al sesto posto nella 50 Top Pizza World 2022. A soli 30 chilometri da Verona, a San Bonifacio, Simone Padoan condisce la sua pizza con ingredienti freschi che spaziano dal mare alla terra, come crudi di pesce, anatra, animelle, ma anche con baccalà mantecato o lumache e anguilla. Non possiamo ovviamente non citare Renato Bosco e il suo Saporè, vera eccellenza della lievitazione a pochi passi da Verona. Rimanendo in città è sicuramente da provare La Oceano, con baccalà affumicato, alghe, pepe rosa e basilico, di Guglielmo & Enrico Vuolo e la Veneto, la pizza regionale di Pizzium con fior di latte d’Agerola, radicchio fresco, noci e scaglie di Grana Padano Dop.
46 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
56° VINITALY, A VERONA PRODUTTORI DA OLTRE 30 PAESI
Vinitaly torna a Veronafiere dal 14 al 17 aprile con oltre 4000 cantine che occupano più di 180mila mq netti. In contemporanea anche il 28° Sol, International olive oil trade show (area C); l’Xcellent Beers (area C) e il 25° Enolitech, il salone internazionale delle tecnologie per la produzione di vino, olio e birra (pad. F). Con le tre rassegne, il numero delle aziende presenti nei 17 padiglioni della fiera tocca così quota 4300.
Confermato dal 12 al 15 aprile Vinitaly and the city, il fuori salone per gli appassionati in calendario nel centro della città scaligera, patrimonio Unesco, che lo scorso anno ha visto oltre 45mila degustazioni. Sabato 13 sarà la volta del 13° Vinitaly Opera Wine alle Gallerie Mercatali con 131 i produttori selezionati da Wine Spectator e Veronafiere. L’evento, dedicato agli ambasciatori e alle iconiche etichette del vino italiano negli States, vede tre debutti a cui si aggiungono sei aziende che tornano in lista dopo l’assenza dello scorso anno. Con 33 produttori rappresentati la Toscana è ancora una volta la regione capofila, mentre sono confermati il secondo posto del Piemonte (19 aziende) e il terzo del Veneto (18), seguiti dalla Sicilia che passa dalle 10 cantine del 2023 a 16. E se due produttori selezionati su tre provengono proprio dalle “regioni bandiera” del vino italiano, guardando alla geografia enologica complessiva il primato per rappresentatività va al Nord (43%), seguito dal Centro (33%) e poi da Sud e Isole (24%).
47 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
YUNTAKU
DA OKINAWA ALL’ITALIA, BENEDETTA SANTINELLI CI RACCONTA IL PRIMO AMARO ‘GIAPPONESE’
di Francesco Bruno Fadda
Ci sono viaggi che iniziano dalla fine, quando dopo aver visitato l’isola di Okinawa si poggia il borsone a terra, si abbracciano i propri cari e si estraggono da una tasca dei semi comprati come souvenir da piantare nell’orto. Anche questa storia inizia così. L’anno è il 2016 e i semi appartengono a uno degli ortaggi più amari al mondo: il Goya, una sorta di cetriolo verde e bitorzoluto molto usato nella cucina giapponese.
Sono passati otto anni da quel viaggio e nessuno, neanche chi quei semi li hanno piantati e visti crescere, potevano immaginare che quel frutto amaro scoperto ad Okinawa si sarebbe tradotto in un distillato da 9 mercati import attivi e 7 in via di apertura entro Giugno 2024, Stati Uniti compresi.
Oggi Benedetta Santinelli, enfant prodige dell’industria beverage in Italia, Trade Marketing Officer per Velier Spa e classificata tra
49 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
i 100 under30 di Forbes 2024 ci racconta come, con Simone Rachetta, attuale socio e gestore di numerosi locali nelle Marche, hanno dato vita a Yuntaku, il primo amaro di ispirazione giapponese in Italia. Uno dei più rilevanti fast-growing products del segmento, al punto da spingere l’amaro giapponese che parla italiano a farsi spazio nel nostro paese, creando letteralmente una nuova categoria: l’amaro digestivo etnico. Innanzitutto, cosa significa Yuntaku?
“Yuntaku significa chiacchiere – racconta Benedetta -. È una parola del dialetto di Okinawa, non è quindi propriamente giapponese, ma è una bellissima espressione dialettale colloquiale. Nasce negli izakaya, le osterie tradizionali dell’isola, dove si usa mangiare insieme e, a fine pasto, gridare all’unisono “Yun-taku!” per chiamare le bevande alcoliche e dare via alle chiacchiere tra commensali. Un grido che è quasi un brindisi e simboleggia che si è pronti a bere, a chiacchierare, ad aprirsi all’altro. È un po’ quello a cui ci siamo ispirati, perché anche nella tradizione italiana l’amaro ha esattamente questa funzione: scandire l’attimo tra il fine pasto e l’inizio della convivialità. Un nome e un concetto che si sposava molto bene con la nostra missione”.
Ci sono poco meno di 10mila chilometri di distanza dall’isola di Okinawa all’orto della mamma di Simone nelle Marche, dove trovano asilo i primi semi; un lungo viaggio, anche per una pianta rampicante e tropicale come questa. “Il Goya è una pianta dalle forti proprietà antinfiammatorie e antiossidanti - continua la Santinelli -. Per molti è uno dei segreti alla base della grande longevità della popolazione di Okinawa, dove viene utilizzato sia come ingrediente della cucina locale sia come estratto medicinale. Nel 2016 Simone ne acquistò alcuni semi da portare in dono alla mamma, come ricordo. È stata una vera sorpresa scoprire che questa pianta, abbastanza rara e che solitamente necessita di un clima tropicale, non solo riusciva a mettere radici nelle Marche ma continuava a crescere rigogliosa a distanza di anni”.
50 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
Il progetto di Benedetta e Simone parte in pieno lockdown, quando il lavoro tradizionale si ferma e loro trovano la forza di trasformarsi in dei piccoli chimici alla ricerca degli ingredienti perfetti da abbinare alla preparazione del loro amaro a base di goya. Tra le botaniche utilizzate molte fanno parte della cultura di Gusto giapponese come il pepe di Sichuan, il sour cherry, il tè jasmin, lo zenzero e la galanga; radice molto particolare quest’ultima, capace di conferire ai piatti che la contengono un gusto molto simile a quello genziana.
Abbiamo imparato come l’espressione Yuntaku evochi il fine pasto. Nella tradizione giapponese però prodotti come il sakè vengono utilizzati anche come accompagnamento. “La bevuta liscia va per la maggiore” conferma Benedetta Santilli. “Due volte su tre Yuntaku viene utilizzato a fine pasto, seguendo quella che è la figura dell’amaro. Data comunque la sua gradazione alcolica abbastanza sostenuta (25°, ndr), si sposa benissimo all’accompagnamento dei pasti”. Anche in versione cocktail gastronomico. In quest’ultima veste il consiglio della produttrice è di mixarlo con aggiunta di soda, utilizzandolo per la creazione di ricette molto semplici. “Facciamo tanti progetti in cui creiamo dei pairing con i vari pasti, alleggerendo la gradazione alcolica. È in questa veste che è entrato in tantissimi ristoranti Fine Dining stellati rendendoci molto orgogliosi”.
Ad oggi Yuntaku può contare su circa 600 clienti diretti in Italia. “Ci arrivano messaggi di nuovi clienti che dopo averlo provato nei locali tornano a berlo. Il loro ritorno è per noi una grossissima soddisfazione: è questo probabilmente, quello della fidelizzazione, lo step più difficile da compiere per un nuovo prodotto”. Oltre ai ristoranti fusion e ai cocktail bar che lavorano con un certo tipo di ricercatezza e complessità di prodotti e di ricette, fin dove vuole arrivare Yuntaku? “Facile in tutto il mondo (qui la voce limpida di Benedetta si riempie di entusiasmo,ndr). Abbiamo già cominciato a esportarlo in altri Paesi, gli Stati Uniti sono la tappa più ambita nel prossimo futuro.”
51 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
Uno sguardo all’occidente per ora, con le esportazioni verso l’altra parte del mondo ancora ferme. Anche se in Giappone, in qualche modo, Yuntaku è già arrivato. “Appena ideata la ricetta siamo volati in Giappone con le valigie piene di bottiglie da far assaggiare ai nativi del posto. Dovevamo avere la certezza che piacesse prima di tutto ai giapponesi, altrimenti che scopo aveva tutto il nostro lavoro?”. Un momento documentato sui social, tanto che il profilo instagram è pieno di video delle reazioni dei giapponesi al primo sorso di Yuntaku. “È stato un enorme successo ed è stato proprio lì che abbiamo capito che c’era futuro. In Giappone, va sottolineato, il goya non è presente in nessuno Spirit, il nostro è il primo prodotto in assoluto ad utilizzare il goya, non come ingrediente secondario ma come anima stessa del distillato”. Un successo annunciato per un ingrediente simbolo, il perfetto rappresentante di un’intera cultura. Un po’, conclude la produttrice, come il basilico in Italia.
52 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
milano superstudio maxi
NON È SOLO UN APERITIVO
di Giusy Dal Pos
Due bicchieri che si incontrano, un tintinnare di vetri, lo scrocchiare di una patatina, il crunch di una pizza che cede al morso, i piatti che danzano sul tavolo, le risate degli amici, il rumore del traffico in lontananza e, se siamo fortunati, l’ultimo lembo di sole al tramonto che ci bacia la pelle. È la colonna sonora - tranne il sole - dell’Aperitivo. Quello all’italiana, quello che ci rende famosi nel mondo, quello che fa parte della nostra colonna vertebrale culturale. Quello che unisce questo Paese anche più della stessa lingua. Perché che sia con i taralli o con un accenno di crostini alla toscana, con lo Spritz o con un amaro ghiacciato, in Italia l’aperitivo si fa sempre. Cambia solo il dialetto.
Ed è per questo, che già da qualche numero, su SAM abbiamo deciso di raccontarvi i nostri aperitivi. Non vogliamo entrare nel merito delle singole ricette che vanno a finire nel piatto, non in questa rubrica almeno. I nostri aperitivi dal morso spiritoso li raccontiamo già nella guida e nelle altre pagine di questo Magazine: qui abbiamo deciso di raccontarvi i drink. O meglio, le loro storie, sempre raccolte dalla sottoscritta grazie alla voce, alla memoria e al savoir faire di Gian Maria Ciardulli, il nostro Brand Ambassador.
Perché la storia, chiederete voi? Perché l’Aperitivo all’italiana è cultura, non possiamo negarlo. E questa parte anche dalle parole e dalla consapevolezza, come insegna il Manifesto dell’Aperitivo che Spirito Autoctono ha firmato durante il primo Aperitivo Day il 26 maggio 2022 e che continua a onorare ogni giorno di ogni anno da allora: “L’aperitivo è un rito originale della tradizione italiana che accosta a una bevanda un prodotto alimentare o una preparazione gastronomica a essa abbinata”. Chi siamo noi per sconfessare una tale verità? E così che, in attesa della nuova edizione del World Aperitivo Festival (24-26 maggio 2024) e del World Aperitivo Day (26 maggio), abbiamo deciso di ufficializzare questa scelta di campo e annunciarvi che sì, in ogni numero di SAM troverete le nostre storie di aperitivo, confezionate con amore e passione per voi.
In cambio? Non desideriamo niente: una sola cosa. Che non diciate mai più Apericena!
55 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
LA STORIA DELL’APERITIVO:
IL SAZERAC È IL PRIMO COCKTAIL DELLA STORIA?
Cocktail da molti dimenticato e per qualcuno dei miei clienti del bar, addirittura un medicinale... ma per certi aspetti non è proprio un’eresia! Infatti uno degli ingredienti del drink è il Peychaud’s bitter, inventato proprio da un farmacista ed erborista, frutto di un lungo e approfondito studio sulle proprietà curative di erbe, botanicals e perfezionato basandosi su antiche ricette di famiglia, utilizzato come ricostituente tonico medicinale.
La ricetta di questo grande cocktail che inserisco personalmente nella mia classifica dei 3 migliori drinks, ha varie storie controverse sulla sua origine, subendo molti cambiamenti e adattamenti prima di essere conosciuto come il drink che conosciamo oggi.
Si racconta che l’avo dell’attuale Sazerac sia stata una bevanda preparata da un rifugiato di origine creola Antoine Amédée Peychaud, che come tanti coloni bianchi, furono costretti a scappare da Santo Domingo, oggi Haiti, trovando asilo a New Orleans, in Louisiana nel 1795. Qui riprese il mestiere di famiglia, il farmacista, e creò l’elisir curativo a base di genziana e altre erbe, il Peychaud’s American Cordial Aromatic Bitter e probabilmente dal 1838 iniziò a somministrarlo ai suoi clienti, servendolo mescolato con cognac, acqua, zucchero e oli nella sua farmacia-erboristeria al 123 di Royal Street divenuta successivamente il 437 di Royal Street;spalancando così la porta a quello che poi sarebbe il celebre drink, spesso accreditato come il primo cocktail americano!
Inoltre il bitter storico creato nel 1830, come l’Angostura, rappresenta uno dei pochi marchi sopravvissuti al proibizionismo.
Al tempo negli Stati Uniti, la caffetteria aveva sostituito il saloon come ambiente di bevute e presto la sua ricetta si diffuse in città infatti, circa
56 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
di Giusy Dal Pos e Gian Maria Ciardulli
a metà dell’ottocento, anche la famosa Sazerac Coffee House di S. Taylor, cominciò a prepararlo per i suoi clienti.
Qui nell’elegante e raffinato bar nel cuore del quartiere francese, Vieux Carré (nome tra l’altro di un altro grande cocktail di New Orleans), utilizzavano il cognac importato dalla Francia dell’azienda “Sazerac du Forge et Fils”, da cui sorge il nome.
Tra le leggende che gravitano intorno al celebre cocktail ce n’è una che lega il Sazerac all’origine della parola “cocktail” legata al suo servizio: un bicchiere dalla forma arrotondata, il portauovo, in francese chiamato “coquetier”.
Poi intorno al 1870, sotto la gestione di una nuova proprietà, la ricetta è stata modificata sostituendo il cognac, di difficile reperibilità in America a causa anche dell’epidemia della Filossera (parassita importato dal Nord America, della famiglia dei “Phylloxeridae” o “Fillosseridi”, che raggiunge l’Europa intorno alla seconda metà del 1800 decimando le viti europee con il conseguente aumento di prezzo), con del Rye whiskey, il Maryland Club Rye per la precisione ed aggiungendo l’assenzio, la cosiddetta Fata verde, molto in voga al tempo in Europa questa ideazione e secondo il libro del 1937 di Stanley Clisby Arthur è per mano del bartender Leon Lemothe; poco dopo pero’ intorno al 1912 viene vietata negli Stati Uniti e verrà sostituita con Herbasaint Liqueur della Louisiana. Un’altra storia lo nomina anche il primo cocktail pre-batch, già pronto da bere, “Il Sazerac imbottigliato”.
L’ideatore di questo innovativo lancio sul mercato statunitense è stato Thomas Handy che rilevò i diritti della Peychaud Bitter e il Sazerac Bar proprio di Royal Street dopo essere stato lì come impiegato, contribuendo così a consolidare ulteriormente la popolarità del cocktail e rendendolo tra il più bevuto a New Orleans.
La sua storia continua e nel 2008 il Sazerac diventa il cocktail ufficiale dello stato della Louisiana!
La preparazione di questo leggendario cocktail è un vero e proprio rito, non solo per le sue origini, ma anche per la composizione degli ingredienti… un drink del passato per veri intenditori… ed è buonissimo!
57 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
SAZERAC
• 5 cl di cognac/rye whiskey
• 1 cl di assenzio
• 1 zolletta di zucchero
• 1 cl Acqua naturale
• 2 gocce di Peychaud’s bitter
Bicchiere: Old Fashioned
Decorazione: scorza di limone
Preparazione: Mettete del ghiaccio in un bicchiere, aspettate che si sia ben raffreddato e poi versate l’assenzio, con cui ricoprirete le pareti del bicchiere e poi aggiungete altro ghiaccio. In un altro bicchiere mettete la zolletta imbevuta di bitter, lavorate con il pestello e qualche goccia d’acqua. Versate del ghiaccio e quindi il cognac/whiskey. Gettate il ghiaccio ed eventuali eccessi di assenzio dal primo bicchiere e quindi versate il cocktail.
SPIRITO SAZERAC
• Rye whiskey 4 cl
• Prime Uve Nere 2 cl
• Peychaud bitter 3 dash
• Angostura bitter 2 dash
• Sciroppo fermentato di miele, pere e banane 1cl
• Agrumi vaporizzati 3 spray
• Fumo di assenzio
Bicchiere: Old Fashioned
Decorazione: scorza di limone
Preparazione: Mettete del ghiaccio nel bicchiere di servizio e raffreddatelo, poi spruzzate l’essenza di agrumi e con una smoking gun aromatizzate con il fumo di assenzio, riempite con dell’altro ghiaccio. In un mixing glass mettete lo sciroppo fermentato, i bitters, il rye e l’acquavite, poi aggiungete del ghiaccio e raffreddate. Gettate il ghiaccio dal bicchiere e versate il cocktail in quest’ultimo.
58 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
ACETAIA GIUSTI
DA OLTRE 400 ANNI LA FAMIGLIA GIUSTI DONA CONTINUITÀ A UN PRODOTTO UNICO, DIVENUTO MANIFESTO GASTRONOMICO
DEL TERRITORIO, AFFIANCANDO ALLA SECOLARE STORIA
SCELTE INNOVATIVE di Luca Sessa
“La perfezione dell’Aceto Balsamico di Modena dipende unicamente da tre condizioni: scelta delle uve, qualità delle botti e tempo”. È straordinario poter osservare come alcune parole possano resistere al tempo, conservando intatte forza e valenza, giungendo fino ai giorni nostri a rappresentare il valore di un’idea, di un concetto, di una cosa o di una persona. Quelle riportate in apertura ad esempio sono state pronunciate nel 1863 da Giuseppe Giusti e sono divenute la filosofia aziendale della più antica realtà produttrice di Aceto Balsamico di Modena, quella Acetaia Giusti fondata nel 1605 nella città emiliana e oggi guidata da Claudio Stefani Giusti, rappresentante della 17esima generazione di famiglia. Un prodotto il cui valore non si limita al caratteristico gusto portato in tavola, ma che assume
60 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
anche valenza culturale e storica, essendo patrimonio della tradizione familiare modenese: ogni nucleo ha infatti una ricetta propria che ancora oggi, generazione dopo generazione, viene tramandata e custodita gelosamente nelle botti conservate nei sottotetti delle proprie dimore.
Dalle prime botti avviate dalla famiglia Giusti nella casa di Via Farini ad oggi sono trascorsi 4 secoli, nel corso dei quali alcuni gesti sono rimasti immutati, per preservare la qualità di un prodotto realizzato con un approccio contraddistinto da sapienza, sensibilità e passione, elementi fondamentali per ottenere il vero Aceto Balsamico di Modena. Giuseppe Giusti, figura chiave di questo affascinante racconto, fissò alcune “Regole d’oro” che gli permisero d’essere identificato quale massimo rappresentante della tradizione gastronomica del territorio, ma soprattutto di poter far conoscere i propri aceti oltre i confini nazionali, conseguendo una serie di prestigiose riconoscimenti, tra i quali le 14 medaglie d’oro ottenute alle Esposizioni Universali dell’epoca. Medaglie che ancora oggi caratterizzano l’etichetta disegnata a inizio Novecento, oltre allo stemma di “Fornitori della Real Casa Savoia”, concesso dal Re Vittorio Emanuele III nel 1929.
Le botti storiche del ‘700 e’1800, ancora in attività, sono oggi le vere protagoniste dell’Acetaia: custodite nel sottotetto e curate con amore nel tempo. Ogni legno è infatti prezioso e possiede alcune caratteristiche uniche che attribuiscono particolari sentori al Balsamico: il ciliegio addolcisce il sapore, il ginepro dona l’essenza resinosa, il rovere il tipico profumo vanigliato, mentre dal castagno, ricco di tannini, si ottiene il classico colore bruno. La Collezione Storica è la più rappresentativa di Acetaia Giusti:
cinque Aceti Balsamici di Modena IGP di diverse ricette e invecchiamenti creati negli anni, e oggi classificati con il numero di medaglie conseguite nelle Esposizioni Universali di fine Ottocento. Un racconto giunto fino ai giorni nostri per far sì che l’Aceto Balsamico di Modena divenisse un prodotto globale che ha permesso all’azienda d’esser presente oggi in oltre 70 paesi e di registrare nel 2022 un fatturato di 13,6 milioni, con un incremento del 25% rispetto al 2021.
La nuova sede dell’Acetaia, situata dall’ottobre del 2018 in un borgo agricolo di metà XIX secolo, è esempio di concreta continuità, arricchita dal nuovo e ampliato Museo Giusti con il suo percorso tematico, che si sviluppa attraverso 10 sale e che racconta la storia millenaria del balsamico, rinnovata da lungimiranti scelte imprenditoriali. Tra queste il lancio del format retail Boutique Giusti, con l’inaugurazione nel 2019 della prima “Boutique Giusti di Piazza Grande”, una piccola bottega dell’Aceto Balsamico inserita nel contesto di uno splendido palazzo, affacciata attraverso due ampie vetrine sull’iconica piazza modenese patrimonio dell’Unesco. A quella prima insegna si sono affiancante le botteghe di Milano in via Spadari (nel 2021) e di Bologna, in via degli Orefici (nel 2022), luoghi che possono esser definiti gallerie esperienziali, spazi che non si limitano a essere punti vendita, ma nei quali si può scoprire la filosofia aziendale, si possono gustare gli aceti e restar sorpresi dai nuovi prodotti. Tra questi il Vermouth Giusti, il primo invecchiato nelle botti di aceto balsamico.
61 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
L’intuizione di allargare l’esperienza dell’Aceto Balsamico di Modena al mondo del fine drinking e della mixology nasce dalla volontà (e dalla capacità) dell’azienda di intercettare le nuove tendenze, dalla ricerca costante di una sperimentazione di qualità e dalla volontà di divulgare la grande versatilità questo ingrediente. Prodotto a Torino nella storica distilleria Quaglia, il Vermouth Giusti è una speciale riserva che matura nelle antiche barriques in cui per oltre vent’anni ha riposato l’Aceto Balsamico di Modena. Diventa questo il passaggio cruciale per la caratterizzazione del vino liquoroso, attraverso l’assorbimento di aromi e profumi che conferiscono sentori decisi di aceto balsamico, maggiorana, timo, noce moscata e naturalmente note legnose. Sono 19 le botaniche tra spezie, radici amare ed erbe officinali (come assenzio, genziana, rabarbaro, salvia, vaniglia) utilizzate per aromatizzare la selezione di vini emiliani bianchi e rossi (Trebbiano e Lambrusco), con l’obiettivo di raggiungere un piacevole equilibrio.
Il design della bottiglia e dell’etichetta è un omaggio alla lunga storia del marchio Giusti, frutto di uno studio portato avanti dal marketing dell’Acetaia sulla tipografia e la progettazione grafica storiche, l’ulteriore segnale della volontà di donare continuità alla storia secolare conservandone intatto il prestigio e il significato anche nei prodotti moderni.
La bottiglia è una riproduzione fedele di quelle ottocentesche originali, tutt’ora conservate nel Museo di famiglia. Sull’etichetta campeggiano l’iconica “V” rossa – un richiamo al Banda Rossa, il prodotto più prestigioso della collezione Giusti – e la riproduzione dello storico medagliere, con le botaniche della ricetta disegnate a mano.
62 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
Un prodotto frutto del riuscito connubio tra la tradizione emiliana e quella piemontese, rappresentato da un vermouth inedito nel concept e nel gusto, frutto di sperimentazione e di un know-how secolare. Da anni gli aceti balsamici Giusti vengono utilizzati dai barman di tutto il mondo per le loro creazioni: da qui l’idea di entrare nel mondo del bere miscelato con un prodotto che potesse affiancare le bottiglie Giusti già presenti negli scaffali dei cocktail bar e degli hotel più prestigiosi del mondo, diventando protagonista di cocktail quali il Giusti a Manhattan (Vermouth Giusti, Rye Whiskey, Giusti 4 Medaglie d’oro, Brandied Cherry), il Giusti Boulevardier (Vermouth Giusti, Bitter Campari, Bourbon Whiskey, Giusti Banda Rossa) e il Giusti Negroni (Vermouth Giusti, Bitter, Gin, Giusti Banda Rossa, Orange twist).
SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
I PRIMI TRE RILASCI DI FLORENTIS, IL WHISKY TOSCANO FIRMATO DA WINESTILLERY. ANIMA TOSCANA, SPIRITO MONDIALE: ECCO PERCHÉ FARÀ DISCUTERE
64 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
LA MI PORTI UN WHISKY A FIRENZE
Siccome Stendhal sosteneva che i fiorentini si distinguono per logica, prudenza e spirito, ma sono totalmente privi di passioni, quando all’ultimo Velier Live ci siamo imbattuti nello stand del “Tuscan whisky” Florentis, ci ha punto vaghezza di assaggiarlo e ascoltare la sua storia per sapere se quello screanzato d’un francese avesse ragione. Sicché, vorticosamente sballottati da un mezcal a un armagnac, passando per un rum giamaicano, è con piacere che ci siamo ritagliati qualche minuto di pace ospiti di Winestillery.
La storia è presto detta, e già fa segnare un punto contro l’illustre scrittore criticone, perché la storia di Florentis – e ancor prima di Winestillery – è esattamente una storia di passione. Quella della famiglia Chioccioli Altadonna per il vino e l’etica del buon bere. Figlio del famoso enologo Stefano, Enrico era destinato a una carriera da avvocato, quando - dopo un viaggio negli Stati Uniti e un’esperienza lavorativa alla King’s County distillery di Brooklyn – decise che la carriera forense non faceva per lui. Quindi, caro Stendhal, addio al tesserino (“ho fatto domanda di rimozione dall’albo appena l’ho ottenuto”), studi alle scuole enologiche di Conegliano e Bordeaux, apprendistato nelle distillerie di cognac e infine l’idea: aprire una distilleria in quel della Toscana, più precisamente a Gaiole in Chianti. Passione 1, logica e prudenza 0. Palla al centro.
I passaggi per l’apertura dell’impianto sono i soliti: l’acquisto di un alambicco (un Frilli di Monteriggioni da 500 litri con colonna, chiamato Bacco), l’ottenimento di una licenza provvisoria nel 2018 e di quella definitiva l’anno successivo, anche se le prime prove risalgono al 2014. La produzione di gin, vodka, vermut e bitter. E intanto, alla faccia della prudenza, nelle cantine tra le vigne, a una temperatura fra i 14 e i 27° e a un’umidità del 50%, invecchiava anche il whisky…
65 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
di Marco Zucchetti
Ora, l’idea di fare whisky nelle terre del vino non è che di per sé sia la scoperta dell’acqua calda. Essendo l’Italia quasi interamente vocata al culto e al cultivar della vite, già altri ci avevano pensato. Così come non è nuovissima l’idea di utilizzare per l’invecchiamento botti ex vino (da Puni a Psenner fino a Poli, i casi cominciano ad essere molti). Ma senz’altro a Enrico – il master distiller – e ai fratelli Niccolò e Ginevra, rispettivamente enologo e biologa, spetta il primato di aver per primi tracciato il profilo di un whisky davvero toscano, rispettoso della tradizione eppure pienamente sperimentale. Lo dicono tutti? Vero, ma non tutti ci riescono.
Dopo la parte filosofico-identitaria, quella votata all’acronimo GTD, “grape to glass”, ovvero dall’uva al bicchiere, serve sempre un po’ di tecnica. Ovvero una piccola carta d’identità produttiva del whisky. Che per Florentis, in pieno stile Velier, si accompagna a una trasparenza adamantina in etichetta e nella condivisione delle informazioni. Il mash di partenza è un mix di malto d’orzo, segale e frumento, scelta molto simile a quella di Puni. Il mash tun è da dieci ettolitri, mentre la fermentazione – che dura tra i 6 e i 7 giorni – avviene in anfore di terracotta dell’Impruneta da 7 ettolitri scoperte, utilizzando solo lieviti spontanei. Il wash che si ottiene (a 7,5%) viene poi sottoposto a distillazione singola in pot still con colonna. Lo spirito che si ottiene è a 75% e viene diluito con acqua di sorgente locale a 63,5% prima dell’imbottamento. Infine, i whisky passano due mesi in acciaio per il marriage finale prima dell’imbottigliamento.
Senza l’assaggio, però, filosofia e tecnica sono poco. E dunque giusto tratteggiare un profilo dei tre imbottigliamenti che abbiamo provato. Il primo è stato il Vin Santo wine cask, invecchiato per fra i 3 e i 4 anni in antichi caratelli: un naso unico, profondo, con poca frutta e una dimensione umida e particolarissima, con screziature di caffè e note terrose, quasi di creta, a cui segue un palato speziato (la segale), teso, con note
66 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
di crema all’uovo e agrumi e un retrogusto terroso che torna nel finale. Il secondo è stato invece il Super Tuscan wine cask, che invecchia in barrique di vino rosso locale e che sfoggia un profilo più “consueto”, con un naso intenso con frutta rossa e cioccolato e un palato pieno, che si fa masticabile e cremoso, tra caramello, ganache al cioccolato al latte e uno zabaione delizioso che si prolunga nel finale. Per finire, è toccato a Primo, il primo single cask e il primo whisky italiano distribuito da Velier: dal barile #888 (barrique ex Super Tuscan di rovere toscano degli storici bottai del Chianti) sono state tratte 318 bottiglie a 50%; il whisky è stato distillato nel 2020 e imbottigliato nel 2024 e dunque ha ancora bisogno di qualche settimana di stabilizzazione in vetro. Ciò nonostante, al naso è già molto espressivo e potente, con un bel mix di frutta (ananas), spezie e pane caldo; al palato si ritrovano le sensazioni avvolgenti del toffee, della liquirizia, della tarte tatin, con un guizzo di pepe. I 279 grammi di congeneri per litro in etichetta confermano la potenza aromatica che il nostro umile naso ha sperimentato.
E dunque, mentre Enrico ci racconta i prossimi passi di Florentis, che si trasferirà in una nuova distilleria pronta ad aprire in centro a Firenze con un nuovo alambicco da duemila litri, a noi – più che a Stendhal –il compito di dare un giudizio. Il quale però deve partire da un caveat preliminare. E cioè, esattamente come per Puni e gli altri whisky italiani, prego astenersi orfani dello Scotch. Nel senso che ha poco senso cercare in Florentis quel che si cerca in un Glenlivet o in un Glenmorangie. Con questa premessa, i tre rilasci di Winestillery sono sicuramente dei prodotti interessanti, che fanno della loro “differenza” un punto di forza. Intensi, con un apporto volutamente importante da parte delle botti che può anche non piacere – il Vin Santo cask ha senz’altro degli spigoli quasi eretici per un bevitore di Scotch – sono whisky non per tutti, in cui passione e spirito di certo superano logica e prudenza. Santé, monsieur Stendhal, alla vostra memoria.
67 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
il gin come non te l’ha mai raccontato nessuno
con Vanessa Piromallo : fondatrice ilGin.it; Communicator of the Year, Icons of Gin 2024
Marco Bertoncini: CEO Mosaico Spirits e pioniere del Gin Tonic in Italia
Un’esperienza immersiva e sensoriale grazie allo speciale kit di degustazione. Un’opportunità unica di esplorare il mondo del gin in modo divertente e professionale.
Programma:
Cos’è il gin
Com’è nato e come è arrivato a essere protagonista oggi Metodi di produzione
Degustazione tecnica: i profili aromatici del gin
Old vs New Gin Tonic
Degustazione guidata Gin Tonic
con realizzazione del proprio gin
GIN EXPERIENCE
ONLINE €119
IN PRESENZA
SCONTO DEL
i lettori di Spirito Autoctono Inserisci il codice SPIRITO10 al checkout
saperne di più
CORSO
CORSO
€249 10%
per
Scannerizza il QR CODE per
AMPOLLE D’ORO UN ANNO DI ECCELLENZE
E NOVITÀ, ANCHE NEL PIATTO
Abbiamo tutti un giorno dell’anno preferito. Lo hanno le persone, le nazioni e anche le Guide. Per Spirito Autoctono La Guida è il giorno della consegna delle Ampolle (tenutasi durante la Mixology Experience a Milano di marzo) perché arriva alla fine di un processo di studio, valutazione, degustazione, riflessione. Crescita. Ci si incontra di persona per ritrovarsi, ma anche per segnare i
69 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
di Roberta De Rosa
cambiamenti, la tacca in più sullo stipite della porta del figlio che cresce. Quest’anno i centimetri raccontano di una maggiore attenzione al terri torio e alle regioni. Grazie alla suddivisione della guida in macroaree ma anche al cambio di prospettiva, che posiziona l’etichetta e il prodotto (non più solo il produttore) al centro del racconto.
I numeri:
117 AMPOLLE D’ORO
Emerse da oltre 900 prodotti assaggiati, di cui 700 presenti in guida ognu no con la propria scheda dopo aver ottenuto un punteggio pari o superio re agli 80 punti che decretano la presenza tra le pagine dell’edizione 2024;
19 SPECIAL AWARD
Le ampolle d’oro speciali che puntano il riflettore su accenti importanti di questo settore, come il packaging, la comunicazione, la sostenibilità, il food pairing e tanti altri;
76 AMPOLLE NEL PIATTO
Scelte per la prima volta tra oltre 300 indirizzi di cocktail Bar, bistrot, piz zerie, trattorie, cucine e altre tavole imbandite dove ad emergere quest’an no è stata la Lombardia in testa alla cordata con ben 11 premiati, seguita da Sardegna e Lazio.
LE AMPOLLE NEL PIATTO
Sono la vera novità 2024. Un riconoscimento dedicato a tutti gli indirizzi dove bere e mangiar bene. I criteri da rispettare possono riassumersi in tre punti: la migliore selezione di spirits, gli elevati standard di servizio e una particolare attenzione all’abbinamento.
Un terzo degli indirizzi presenti in guida nascono dalle segnalazioni dei nostri commissari regionali e dei collaboratori, che durante l’an no verificano di persona, più volte, il rispetto dei criteri di cura e at tenzione già citati. Per quanto riguarda invece gli oltre 200 cocktail Bar segnalati, questi sono elencati e raccontati in collaborazione con Blue Blazer, la più importante community italiana del settore cocktail bar, fondata e coordinata da Giampiero Francesca e Massimo Macrì. Le Ampolle nel Piatto non sono un’appendice delle Ampolle d’Oro ma il loro completamento.
70 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
IL FILM DELLA PREMIAZIONE
Insieme rappresentano il cuore e l’anima del progetto Spirito Autoctono, dove l’Ampolla D’Oro è rivolta alla qualità del prodotto e l’Ampolla nel Piatto alla modalità e alla qualità del servizio e dell’accoglienza, quel ‘in più’ che molti considerano la coccola che fa la differenza tra un buon locale e il posto in cui tornare.
Con questo nuovo premio Spirito Autoctono ha voluto, in un’ottica circolare, restituire a tutti coloro che lavorano in cucina o dietro un bancone, parte di quella attenzione che gli operatori del settore riservano ogni giorno al cliente.
Tra tanti cambiamenti, c’è qualcosa però che resta sempre uguale. “E’ la voglia di scrivere di qualunque prodotto italiano che superi i 16 gradi, e raccontarlo in purezza sotto l’aspetto sociale, culturale e delle occasioni di turismo che può generare” - afferma il direttore Francesco Bruno Fadda. “Tra tanti locali modaioli, vorremmo che da noi si sentisse a casa la piccola distilleria di quartiere, la cui anima è modellata dal territorio di appartenenza, quella che magari può ospitare solo pochi avventori alla volta ma ha una storia unica da raccontare”. Se parliamo di anima allora scomodiamo un’ultima domanda esistenziale. Cosa significa bere, per Spirito Autoctono?
SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
Un bere etico, ragionato, che stimola le endorfine e non ha nulla a che fare con la quantità. Bere “moderatamente” si trasforma così da monito a stile di vita, il modo giusto di bere bene. E’ l’esperienza della litoranea che costeggia il mare e i piccoli centri, in opposizione alla superstrada. Una rubrica, questa, e un modo di raccontare, che anche nei prossimi numeri di SAM continuerà ad ospitare storie, realtà grandi ma anche piccolissime, divagazioni, dettagli, curiosità, successi italiani e chiacchiere tra amici. In una parola: la vita.
SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
M a l a n d r o n e
1 4 7 7 d i f a m i g l i a M i n e l l i è l a
p r i m a s c e l t a d i c h i a m a i p r o d o t t i e l e g a n t i e
r a f f i n a t i A s s o r t i t o i n d i f f e r e n t i s t a g i o n a t u r e
c h e i l t e m p o e l a p a z i e n z a h a n n o r e s o
c u s t o d i d i p r o f u m i u n i c i e a c c e n t i n o n
c o m u n i , i l P a r m i g i a n o R e g g i a n o M a l a n d r o n e
1 4 7 7 , d a 2 6 f i n o a 1 2 0 m e s i d i s t a g i o n a t u r a , è d e d i c a t o a c h i n e l l a v i t a d e s i d e r a u s c i r e d a g l i s c h e m i e d à a l l a t r a d i z i o n e u n v a l o r e
s e m p r e n u o v o e p e r s o n al e I l n o s t r o
P a r m i g i a n o R e g g i a n o o f f r e s a p o r i i n t e n s i e
p e r s i s t e n t i , c a r a t t e r i s t i c i e s p e c i f i c i p e r o g n i d i v e r s a s t a g i o n a t u r a , d o n a n d o m o m e n t i d i p u r o p i a c e r e a d o g n i s c a g l i a a s s a p o r a t a . Pavullo nel Frignano
MO 41026 malandrone1477@gmail.com www.malandrone1477.shop
COSE
CINESI DA GUSTARE, LEGGERE, ASCOLTARE, SAPERE
di Paolo Campana
I più affezionati a queste pagine di Spirito Autoctono ormai lo sanno, COSE è uno spazio internazionale che ci aiuta a conoscere posti distanti che in apparenza crediamo di conoscere bene.
La Cina non è solamente biscotti della fortuna e involtini primavera del ‘cinese’ sotto casa, ma una ricca tradizione di distillati e possibili abbinamenti a noi completamente sconosciuti (o quasi).
Questo viaggio inzia come sempre tra le pagine di alcuni libri per noi fondamentali sulla cucina cinese e della buona musica. Abbiamo tutto.
Buon Viaggio.
SPIRITO AUTOCTONO COSE
I SEGRETI DI UNA VITA DALLA CUCINA CINESE DI MR PENG di XIE QIN, PENG MRYS
Editore: HOEPLI
Un libro importante per tutti gli amanti della cucina cinese che vogliono cimentarsi con un’alimentazione sana e con ricette e istruzioni facili. Un testo pratico, adatto a tutti i gusti che presenta i piatti in maniera giocosa, divertente e molto accurata.
Un album leggero e (quasi) invisibile - appunto - che
Da migliaia di anni la Cina consuma e produce numerose bevande alcoliche. Una tradizione che inizia con gli umili contadini delle pianure centrali fino ad arrivare all’ingresso del paese nel mondo moderno. L’alcol ha toccato aspetti diversi della vita in Cina, ha influenzato arte, religioni, filosofia e politica. È riuscito a unire nemici. La storia degli spiriti in Cina è la storia della Cina stessa. Per questo ne abbiamo chiesto di illuminarci la strada a Francesca Filippone, consulente export di enogastronomia italiana verso i paesi asiatici e fondatrice de “La valigia”, una scuola itinerante di cucina i cui docenti sono professionisti che hanno lasciato il proprio paese e attraverso l’enogastronomia ne sono rimasti legati. Collabora con il Gambero Rosso per le guide ed i vocabolari in lingua cinese e con l’Istituto Confucio di Università degli studi di Milano.
IL BAIJIU白酒
I cinesi hanno iniziato a bere e degustare alcolici prima di chiunque: 9000 anni fa a Jiahu, nella provincia dell’Henan, venne creata una bevanda a base di riso, miele, uva e datteri. È la bevanda alcolica più antica al mondo, utilizzata per evadere dalla realtà e, si dice, per mettersi in contatto con Dei e morti.
All’inizio della civiltà cinese l’alcool divenne mano mano più apprezzato e gli antichi Re arruolarono produttori alle loro corti per farsi preparare bevande alcoliche per cementare amicizia e vincere sui nemici in battaglia. Il liquore più conosciuto e apprezzato fu uno che derivava da lieviti fermentati naturalmente. Lo chiamarono JIU.
Senza dubbio il liquore più iconico e utilizzato in Cina, quasi da definirsi un vino, se l’utilizzo fosse italico, è il baijiu. Letteralmente si tradurrebbe alcol bianco. Nessuno sa, però, che non esiste un solo baijiu ma 13 differenti tipologie.
Nongxiang 浓香
E’ il più popolare e prodotto. E’ fermentato in anfora. Ne esistono 2 versioni: una da singola tipologia di grano e uno da due tipologie. Al palato questo Baijiu è potente, con un retrogusto dolce e fruttato. La regione di origine è il Sichuan, ma ci sono produzioni importanti in Anhui Jiangsu e Shandong.
L’abbinamento: HUAJIAOJI
HUAJIAOJI: Pollo al pepe del Sichuan. Il frutto vivo del Baijiu ben si abbina al vegetale del pepe del Sichuan. Il pollo viene prima bollito, spezzato e condito con una salsa di soia con aglio, peperoncino, zenzero e pepe del sichuan
Qingxiang 清香
La seconda categoria più venduta, distillata dal sorgo e dalla pulla di riso e fermentata in anfore. Questo Baijiu è fermentato con il DA QU, un lievito fatto con orzo e piselli, e caratterizzato da un aroma di media dolcezza, floreale. Viene principalmente consumato nel nord della Cina.
L’abbinamento: JIAOZI
Gli JIAOZI nella tradizione, sono ravioli ripieni di maiale, cipollotto e spezie, che sono il piatto della tradizione di capodanno.
SPIRITO AUTOCTONO COSE
Xiao Qu Baijiu 小区清香
Un altro ibrido è il Xiao Qu Baijiu. Ha un aroma leggero ed è fermentato da lieviti di riso. Ha aromi floreali e un morbido retrogusto di riso.
L’abbinamento: TAN YUAN
Il Xiao Qu Baijiu si abbina perfettamente ai TAN YUAN, dolce di riso glutino ripieno di sesamo e zucchero servito in un brodo delicatamente morbido.
Mixiang
Jiangxiang 酱香
Questo Baijiu deriva dal suo aroma profondo e persistente, che si dice ricordi quello della salsa di soia. E’ un liquore dolce, con sentori stratificati di erbe e soya fermentata e un retrogusto lungo. L’aroma deriva da un lungo processo di fermentazioni multiple in vasi di cemento. Questo è il liquore più legato alle regioni di Guizhou e Sichuan.
L’abbinamento: GUILIN MIXIAN
I GUILIN MIXIAN sono ottimi spaghetti di riso saltati alla salsa di soia con carne e verdure e ben si abbinano al persistente aroma che ricorda la salsa di soia.
Fengxiang
Questo Baijiu è legato al Huangjiu, uno spirito di cui parleremo a seguire molto simile allo sherry. Viene distillato da riso a chicco lungo e riso glutinoso o da una combinazione dei due e fermenta to con lieviti di riso e, spesso, erbe medicinali. Fermenta in anfore di calcare spesso infuso con frutta, erbe e tè. Quando dà il suo meglio, l’aroma del riso è leggero e ricorda il sake. E’ prodotto principalmente in Guangdong e Guanxi.
L’abbinamento: SHAO MAI
Gli Shao Mai sono i ravioli con gamberi e maiale. Delicati e avvolgenti.
Il Baijiu della fenice dell’Ovest, che proviene dalla provincia dello Shanxi. Questo aroma unisce aspetti del baijiu forte e di quello leggero. E’ un distillato di sorgo, fermentato in anfore con lieviti di grano, orzo e piselli. A differenza degli altri Baijiu, questo ha una fermentazione breve di 10 giorni e viene invecchiato in contenitori ricoperti di cera d’api, olio vegetale o sangue suino. Sono famosi per l’aroma fruttato, di grano e il lungo finale.
L’abbinamento: TANGZU
Questa volta l’abbinamento perfetto è con una tipologia di pane e di lievitazione che rende l’impastomolto morbido e perfetto per ogni abbinamento.
米香
枫香
SPIRITO AUTOCTONO COSE
Chixiang 吃香
Creato nella provincia del Guangdong nel 1895, l’aroma del chi si riferisce a douchi, un condimento fatto da fagioli di soia fermentati. Il Chi è invecchiato con un infuso di grasso di maiale. Questo tipo è chiamato il baijiu con aroma di grasso e ha un retrogusto di bacon.
Zhimaxiang 芝麻香
Il Baijiu con aroma di sesamo è stato prodotto per la prima volta nel 1957. E’ fatto da lieviti di sorgo e grano con miglio e orzo a volte. La fermentazione avviene in botti di acciaio con base di argilla. L’aroma di sesamo è vicino all’aroma del Baijiu Jiangxiang ma è fermentato a temperatura più alta per tempi più brevi ed ha un aroma più nocciola.
L’abbinamento: DANDANMIAN
Spaghetti con carne e salsa di noccioline piccanti, tipici del Sichuan.
L’abbinamento: BANHUANGUA
Il Chixiang è perfetto per ab binarsi con i cetrioli marinati in soia, aceto profumato, aglio, peperoncino, zucchero e aglio
Yaoxiang 药香
Il Baijiu con aroma medicinale è a base di sorgo e fermentato in 2 contenitori, uno più grande che utilizza i propri lieviti, uno più piccolo che usa lieviti di riso con argilla con ph alcalino mischiato con succo di pesche salvatiche. Dopo l’estrazione dai contentiori i liquidi vengono uniti e rifermentati.
L’abbinamento: ZHUXIANBAOZI
Ricetta perfetta in abbinamento? ZHUXIANBAOZI che son baozi di carne di maiale glassata e seccata.
SPIRITO AUTOCTONO COSE
Fuyuxiang 馥郁香
Distillato dal sorgo e dal riso glutinoso e fermentato con il lievito del baijiu Jiangxiang e con il Yaoxiang, viene invecchiato per almeno 3 anni. Ha un profumo pungente e terroso e un gusto dolce piccante.
L’abbinamento:
HONGSHAO QIEZI
Abbinato perfettamente con HONGSHAO QIEZI, melanzane brasate al dolce forte.
HUANGJIU黄酒
Significa vino giallo, è una bevanda alcolica cinese ed è la più popolare nella zona del Jiangnan. Lo huangjiu viene prodotto mescolando cereali bolliti tra cui riso, riso glutinoso o miglio con lieviti come coltura iniziale, seguita da saccarificazione e fermentazione intorno a 13-18 °C per due settimane. La sua gradazione alcolica è tipicamente di 8%-20%.
L’abbinamento:
HONGSHAO QIEZI
Huangjiu è perfetto in accompagnamento dei pesci grassi cotti alla maniera del Zhejiang, come il pesce luna HONGSHAO una salsa si soia , zenzero e olio di sesamo.
SPIRITO AUTOCTONO COSE
OLIO E DINTORNI
TRAPPÉTO DI CAPRANICO
L’extravergine all’ombra della Maiella
A pochi minuti dal paese abruzzese di Casoli – parte della rete delle Città dell’Olio e tra i Borghi più belli d’Italia –, che guarda al massiccio della Maiella, il terreno sassoso dell’altopiano si veste del verde di antichi alberi d’olivo e ordinati filari di vite che circondano alcune dimore in pietra: il Casino Masciantonio – l’antica masseria di famiglia, che Tommaso Masciantonio ha trasformato in abitazione per sé, la moglie Agnese e le figlie Chiara e Alice – e, sulla collina di fronte, il Trappèto, ovvero il frantoio. Due dimore sono invece dedicate all’ospitalità, per chi volesse ritagliarsi qualche giorno di pace assoluta o magari farne un campo base per belle
di Luciana Squadrilli e Simona Cognoli
escursioni nei dintorni. “Ho voluto mantenere la pietra, per rispettare la storia e l’autenticità dei luoghi” racconta Tommaso che, nato e cresciuto in una famiglia di frantoiani, oggi gestisce l’azienda. “I nostri ospiti apprezzano molto il silenzio, si ritrovano in mezzo all’oliveto sotto la Majella ma se guardano a Est nelle giornate limpide possono vedere anche il mare. Spesso assistono alle attività aziendali e partecipano alla degustazione degli oli, che vivono come una scoperta di profumi e sapori nuovi. Tra i progetti futuri c’è una piccola forma di ristorazione”.
80 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
In effetti, il motivo principale per visitare il Trappèto di Caprafico è l’eccellente produzione olearia, che affianca quella vinicola incentrata sui vitigni autoctoni Pecorino, Passerina e Montepulciano d’Abruzzo, coltivati biologicamente come gli olivi che con le loro chiome rendono più dolce l’affascinante paesaggio di media montagna (siamo sopra i 500 metri). Le piante crescono sui terreni calcarei tra Caprafico e Laroma, apparentemente difficili da coltivare ma in realtà molto fertili, e prosperano – come le vigne – anche grazie alla vicinanza della Maiella e alle temperature basse che tengono lontani i parassiti. Le olive, che la famiglia Masciantonio trasforma in olio fin dal 1948, sono soprattutto delle varietà autoctone Crognale (o Crognalegno), Gentile di Chieti e Intosso, tra piante secolari già presenti nella tenuta acquistata nel 1924 da Paolo Masciantonio e quelle impiantate negli anni Sessanta. Per Tommaso proprio dall’Intosso, varietà tipica di Casoli da cui si ottengono anche le squisite olive verdi in salamoia, nasce l’olio che più rappresenta il suo lavoro di valorizzazione del territorio: “In passato le olive verdi erano vendute a caro prezzo per i mercati di Napoli e di Roma, poi la cultivar è stata sostituita da altre varietà meno care ed è caduta in disuso, perché come oliva da olio aveva rese
basse. Dal 2000 ho iniziato a fare prime prove di molitura fino a che non ho trovato la ricetta giusta per interpretarla al meglio e, nel 2008, ho acquistato il frantoio. L’Intosso è il mio olio, un po’ come un figlio”, racconta. E infatti con altre due aziende ha avviato un progetto di tutela e valorizzazione, con un disciplinare e iniziative per diffondere la conoscenza, mentre l’amministrazione comunale di Casoli ha sostenuto il riconoscimento del Presidio Slow Food. Meritatamente premiato e apprezzato anche da ristoranti e pizzerie locali e non solo, il suo Intosso affascina con il fruttato arricchito da note di pomodoro, carciofo ed erba falciata; sensazioni che si ritrovano anche al palato, accompagnate da amaro e piccante decisi ma in grande armonia: “Se lo si gusta su degli spaghetti in bianco sembra che ci siano anche pomodoro e carciofi. Invece il Crognale, altra varietà autoctona, è più diretta, con note più erbacee ed amare che però si accostano bene alle zuppe, alle vellutate, alle carni rosse”. La produzione aziendale annovera anche interessanti condimenti aromatizzati, in cui l’eccellente olio extravergine di oliva si arricchisce di essenze locali ma anche di agrumi siciliani e cedro di Calabria.
Trappèto di Caprafico
Azienda Agricola
Tommaso Masciantonio
Località Caprafico 35
Casoli (CH)
www.trappetodicaprafico.com
81 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
OLIO E DINTORNII
www.distillerieberta.it
info@distillerieberta.it
IL FORMAGGIO
ROCCAVERANO DOP IL FORMAGGIO DEI CELTI
di Alessandra Iannello
Non chiamatelo robiola, anche se per diverse centinaia di anni, ovvero dal IV secolo a. C. quando i Celti si stabilirono in Italia e iniziarono a produrre un formaggio molto simile all’attuale Roccaverano Dop, tutti l’hanno nominato così.
Il cambio di passo iniziò nel 1979, quando quel formaggio denominato come formaggetta, robiola, o (in dialetto piemontese) arbiora ottenne la Denominazione di Origine Protetta, appellativo confermato poi nel 1996 a livello europeo.
Prodotto in 18 comuni della Langa astigiana e dell’alto Monferrato acquese nelle colline che hanno come cuore Roccaverano (Asti), l’omonimo formaggio Presidio Slow Food, deriva da latte 100% caprino delle razze Roccaverano e Camosciata Alpina, e loro incroci. I 16 caseifici del Consorzio producono Roccaverano Dop tutto l’anno che, a seconda della stagionatura, si distingue in Fresco dal quarto al decimo giorno di maturazione e Affinato dall’undicesimo giorno in poi.
Il Roccaverano Dop Fresco si riconosce per la presenza di una lieve fioritura naturale di muffe sulla crosta dal colore bianco latte oppure paglierino. Una volta aperto si nota la pasta bianco latte dalla struttura cremosa e morbida e dal sapore delicato, saporito e/o leggermente acidulo. Al naso si rilevano buone sensazioni di yogurt, di erba verde, di nocciola e in bocca risulta suadente e sapido.
Una volta affinato la crosta presenta una fioritura naturale di muffe e il colore esteriore varia verso il bianco crema, il paglierino fino al rossiccio. La pasta interna mantiene il tono bianco latte mentre la struttura diventa morbida leggermente compatta e, con il protrarsi della stagionatura, può essere cremosa nel sottocrosta. Con la stagionatura si sviluppano leggeri sentori ircini e i profumi tendono più all’aromatico del prato e delle piante selvatiche. Il gusto si arricchisce di sfumature piccanti e muschiate e diventa lungo e avvolgente nel finale.
83 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
IL PRODOTTO DI COPERTINA
AMARETTO ADRIATICO CRUSHED ALMOND
di Fiorella Palmieri
Due gocce d’amaretto. Era questo il segreto del tiramisù della mamma italiana di Jean-Robert Bellanger, il fondatore di Adriatico, l’amaretto pugliese che nel gusto e nell’essenza racconta la storia di una regione fantastica: la Puglia. È proprio da questa suggestione che nasce Adriatico, da un ricordo d’infanzia che con prepotenza costruisce il futuro di un amaretto di nuova generazione, interamente artigianale. Le mandorle utilizzate sono quelle pugliesi della varietà “Filippo Cea”, raccolte a mano, tostate per ore (nella versione classica Roasted), messe a macerare e poi distillate. A completare la ricetta contribuiscono, vaniglia, cannella, un pizzico di caffè, zucchero di canna grezzo (la metà rispetto agli amaretti presenti sul mercato) e sale di Margherita di Savoia. Nessun conservante e nessun aroma sintetico aggiunto.
L’amore del suo creatore per la Puglia si trasferisce anche nell’etichetta, che raffigura i classici trulli pugliesi, così come nella forma cilindrica della bottiglia che si ispira all’architettura medievale di Castel del Monte. Adriatico Crushed Almond è realizzato con mandorle crude, macinate e ammollate fino a creare un liquore irresistibile che ci ricorda proprio la classica bevanda al latte di mandorle, ristoratrice degli assolati pomeriggi estivi al sud Italia.
Il basso contenuto zuccherino e alcolico lo rendono di facile beva e può essere consumato liscio, con ghiaccio, in miscelazione o per una versione super premium del classico caffè leccese.
84 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
BUONA CAMICIA
IN VETRINA
AMARO “VACA MORA”
“Vaca Mora” era il termine con cui, un tempo, veniva indicato il trenino a vapore che dall’altopiano di Asiago si dirigeva a Vicenza. Appena arrivato in pianura, il primo paese che il treno incontrava era Schiavon. E fu proprio lì che GioBatta Poli decise di acquistare una casa e dei terreni per aprire l’Osteria “Al Cappello” dove, pochi anni dopo, arrivò finalmente la Vaca Mora. In attesa del treno, i passeggeri si fermavano in osteria, chiacchierando e sorseggiando un bicchiere di vino o un goccetto di quell’amaro che oggi rappresenta uno dei prodotti di punta delle Distillerie Poli, oggi ospitate negli spazi che furono dell’osteria. Realizzato con infusione naturale in grappa e alcol di sedici varietà di piante, erbe e fiori dalle proprietà digestive, è un amaro balsamico e rinfrescante, che rimanda alle ricette dei liquori medicinali ottocenteschi. Il suo ingresso in bocca è speziato e corposo, e rinfresca il palato con piacevoli note di menta e liquirizia.
NIASCA PORTOFINO, ODE AI SAPORI DI LIGURIA
Sull’onda del “Dry January” e di una nuova consapevolezza circa il consumo di bevande no o low alcol nascono le bibite Niasca, che prendono il nome da una delle spiagge più belle della Liguria, una piccola ansa incastonata lungo il tratto di costa che conduce a Portofino. Realizzate con sola frutta italiana in succo e in infuso, zucchero di canna e stevia, sono confezionate in bottigliette di vetro create dal designer Giulio Iacchetti, ispirate alle forme dei delfini che popolano il golfo di Portofino. Della gamma aziendale fanno parte il chinotto, la mandarinata e la limonata, caratterizzati da una bassa presenza di zucchero e da un perlage fine, che ne fanno dei prodotti ricercati per il loro gusto equilibrato. La Limonata e la Mandarinata Bio No Sugar sono invece realizzate senza alcuna aggiunta di zucchero e partendo unicamente da acqua e succo di frutta certificata biologica e 100% italiana. Accanto a questi anche il Festivo Portofino, l’aperitivo creato con l’obiettivo di dar vita al primo bitter italiano completamente naturale, e il Pomodoro, ottenuto con soli pomodori italiani che donano un succo naturalmente denso e setoso, con il giusto equilibrio tra sapidità e acidità.
85 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
BUONA CAMICIA
���������������������� ������������ e le���������� d�� ve����������
Vinolok™ Duet
Benvenuti nel futuro dei tappi per bottiglie, dove vetro e legno formano un Duet perfetto.
vinolok.com/duet
BOHEMIAN GLASS CLOSURE
LA GIARDINIERA DI MORGAN
Era il 2005 quando, nel ristorante “5 Sensi” di Malo, Morgan e la moglie Luciana hanno deciso di trasformare una semplice giardiniera in agrodolce, nata come accompagnamento a una portata del menu, in una vera e propria goduria in vasetto, da gustare comodamente a casa. Il successo è stato una diretta conseguenza, che ha spinto Morgan e la sua famiglia ad aprire un laboratorio dedicato, dove trasformare le verdure di stagione in specialità in vetro. Nasce così la Giardiniera di Morgan, che dalla versione classica a base di peperoni, finocchi, cavolfiori e carote si è estesa a diverse varianti, tra cui la Giardiniera di Luciana, con aggiunta di cipolla bianca e olio extravergine di oliva; la Giardiniera di Anna, con zenzero e peperoncino fresco; la Giardiniera di Giovanni, i cui ingredienti variano con le stagioni e sono completati dalla frutta (mele e pere) e la coloratissima Giardiniera di Giada, con verdure a pezzettoni maturate in un liquido agrodolce e poi conservate in olio extravergine e olio di semi di girasole.
SAVINI TARTUFI
Il tartufo non ha segreti per la famiglia Savini, che dal 1920 è un punto di riferimento nel mercato dei tartufi per la qualità dei suoi prodotti e la competenza acquisita nel tempo. Accanto al tartufo fresco, sono moltissimi i prodotti a base di tartufo proposti: dal tartufo in barattolo (affettato e polvere di tartufo; tartufo estivo essiccato o in salamoia) alle creme e salse al tartufo (bruschetta al tartufo e bruschetta al tartufo bio; carbonara al tartufo; crema bio con Parmigiano Reggiano e tartufo; crema di carciofi con tartufo; crema di porcini, porri, zucca, ortica al tartufo); dalla mostarda al tartufo al patè di olive piccanti con tartufo. Senza dimenticare olio, pasta e riso aromatizzati al tartufo, le patatine al tartufo e le peschiole al tartufo, piccole pesche appena nate ideali da utilizzare nelle insalate o per l’aperitivo, ma anche a completamento dei cocktails.
GERARDO DI NOLA, I MACCHERONI NAPOLETANI
151 anni di attività, 20 collaboratori e una rete distributiva presente in 36 Paesi del mondo. Sono i numeri che segnano il corso del pastificio Gerardo di Nola, nato nel 1870 a Gragnano e specializzato – ça va sans dire – nella produzione di pasta, realizzata con acqua delle falde locali e semola di grano duro italiano, trafilata al bronzo e sottoposta a lenta essiccatura. Ampia la gamma dei prodotti, con formati che spaziano dalla pasta corta (calamari, candele tagliate, caserecce, corallini, ditali, elicoidali; genovesine; gigli; mescafrancesca; mezzani; mezzi paccheri e mezzi rigatoni) a quella lunga (bucatini; linguine classiche, integrali o al nero di seppia). Quindi trecce e fusilli (caserecce, eliche, fusilli al ferretto, fusilli avellinesi e fusilli integrali), gnocchi e conchiglie (cavatelli e lumaconi), oltre a una speciale linea di pasta senza glutine (calamari, caserecce; ditali, gnocchetti, mezzani e mezzi paccheri).
87 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
BUONA CAMICIA
IN VETRINA
La prima e unica distilleria
nella storia del Principato di Monaco
Un mondo unico di tradizioni, bellezza e stile racchiuso in ogni calice di Prosecco DOC. Ecco perché Prosecco DOC è un vino speciale che puoi trovare solo in bottiglia. E proveniente dal territorio unico delle nove province di Veneto e Friuli-Venezia Giulia: la Dreamland. Prosecco DOC ti dà il benvenuto su www.prosecco.wine
OFFICIAL SPARKLING WINE SPONSOR OF MILANO CORTINA 2026