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Bollettino di SOS scuola n. 5 A.s. 2009/2010

ITC “V. Cosentino”

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Per saperne di pi첫 http://www.sos-scuola.it

Finito di stampare: settembre 2010 Distribuzione gratuita

Impaginazione a cura di Chiara Marra

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Indice

Fare cultura ed educare oggi p. 1 Riunione del 26.10.2009 8 La complessità della comunità 9 Il ruolo dei classici nella cultura e nella educazione oggi 15 Il riordino dell’istruzione superiore. Prospettive culturali e organizzative 23 Fare cultura ed educare: un punto di vista biblico 31 Intervista di Vittorio Sammarco a Biagio Politano 35 Informatica, computer science o tecnologia della comunicazione? È una questione di cultura 40 Fare cultura ed educare. Alcune idee per fare centro 50 La scuola fuori registro 55 Appendice 66 Manifestazione ad Amantea sulla “Nave dei veleni” 67 Brevi, scarne note di viaggio 70 Segni sulla sabbia. Note di viaggio di Tommaso Cariati 73 Napoli, squarci d’un mondo a molte dimensioni, capovolto 74 Il Lazio, il suo deserto, le sue fratture 83 Umbria, cuore vivo d’Italia 91

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Fare cultura ed educare oggi (Appunti dei coniugi Chiara Marra e Tommaso Cariati per l’incontro di SOS scuola del 9 settembre 2009) 1.

L’ipotesi di lavoro

SOS scuola ha compiuto quattro anni ed entra nel quinto. Quest’anno vorremmo fare una pausa di riflessione per ragionare sul senso di quello che stiamo facendo, e per capire se non sia il caso di sintonizzarci meglio con le sfide di questo tempo. Già l’anno scorso avevamo preso in considerazione l’idea di invitare sei o sette uomini e donne significativi per l’opera che essi compiono nella società e di interrogarli, uno al mese, sui temi che ci stanno a cuore. Un problema che sorge immediatamente però è: chi invitare? Pedagogisti, letterati, economisti, sociologi? Con queste note introduttive vogliamo invitarvi a fare un discernimento sia sulla nuova modalità operativa, basata su una sorta di conferenza permanente in cui coinvolgere le sei o sette persone di cultura che ci parleranno, sia sull’ambito di provenienza delle persone che inviteremo a parlare. L’obiettivo dovrebbe essere quello di ricevere un aiuto per decodificare meglio questo tempo e viverlo pienamente. Iniziamo sottolineando che per qualificare il nostro tempo sono stati utilizzati molti aggettivi: frammentato, liquido, globale, rapido, multietnico, postmoderno, catastrofico, relativo, a una sola dimensione, opulento, individualista. D’altra parte, gli sviluppi scientifici e tecnologici ci mettono continuamente alle strette e spesso ci chiediamo a chi giovi tanta rapidità, complessità, innovazione. Una cosa non possiamo fare, noi che ci occupiamo di saperi, educazione e formazione: mettere la testa nella sabbia come lo struzzo. Non possiamo neppure accettare supinamente tutto quello che viene proposto dall’esterno come se fosse da accogliere sempre solo perché si tratta di novità. Che fare? Forse dobbiamo ripartire da alcuni concetti basilari, quali “cultura”, “fare cultura”, “istruire”, “formare”, “educare”. La parola cultura sembra essere stata bandita o relegata nelle pagine di alcuni quotidiani. Lì ancora si trattano argomenti di letteratura, di filosofia, di storia; lì si parla di libri, di editoria, ma anche di teatro e di musica. In effetti sembra che la parola cultura non possa più stare da sola e debba essere sorretta da opportune stampelle. Molte espressioni sono state coniate con la parola 5


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cultura: cultura della sicurezza, cultura dell’alimentazione, cultura dell’accoglienza, cultura delle vacanze, cultura della prevenzione, cultura della cittadinanza, cultura economica, cultura d’impresa, cultura del mercato. Ma che cosa è la cultura, a che cosa serve, come si trasmette, come si costruisce o si produce? Nella scuola, ad esempio, circolano da tempo due espressioni inquietanti: “ricercazione” e “imparare a imparare”. Ci siamo chiesti spesso: che cosa è la “ricercazione”? E: coloro che oggi “imparano a imparare” saranno capaci di produrre cultura, almeno quanto quelli che alcuni decenni orsono hanno imparato e basta? L’ipotesi di lavoro che stiamo cercando di formulare è che oggi la situazione delle famiglie, degli studenti, della scuola in Italia sia peggiore rispetto a quatto anni fa, e che serva una ridefinizione della missione del nostro gruppo (nella scuola non era mai accaduto, ad esempio, che la cattedra di informatica venisse formata in modo orizzontale anziché verticale, o che ad un insegnante di lettere della scuola media fossero assegnate dieci classi). 2.

Quale uomo, per quale società?

La prima cosa da chiedersi è: per quale uomo lavoriamo noi? In altre parole, che visione abbiamo noi dell’uomo? Lavoriamo per uomini e donne che dicano sempre di sì o per persone che sappiano scegliere? Lavoriamo per persone addestrate a consumare tutto ciò che viene presentato loro come desiderabile (prodotti, servizi, divertimenti, idee), da acquistare e consumare a tutti i costi, o per uomini e donne che sappiano fare discernimento e sappiano dire di no quando occorra? La seconda cosa da chiedersi, strettamente connessa con la prima, è: per quale società lavoriamo noi? Per una società che apre gli spazi di inclusione o per una che si chiude a riccio ed esclude gli altri? Per un mondo popolato da individui per lo più infelici che credono che il benessere personale (non la felicità, che, secondo loro, non esiste) dipenda da quanto si possieda, e che gli altri siano potenziali nemici, nella corsa all’accaparramento delle risorse sempre scarse? Per un mondo da sfruttare, saccheggiare, incendiare, insudiciare, violentare? O lavoriamo per un mondo popolato da persone che credono veramente ai valori della fratellanza, della solidarietà, della pace, della giustizia, della carità e si impegnano umilmente per vederli trionfare? A noi sembra che tutti vogliamo lavorare per un mondo migliore. Allora chiediamoci: com’è un mondo migliore di quello nel quale viviamo? Com’è il mondo nel quale viviamo rispetto a quello nel quale siamo cresciuti? Quali speranze e prospettive permetteva di coltivare il mondo negli anni Settanta e 6


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Ottanta? Quali prospettive e speranze offre il mondo ai giovani e a noi stessi oggi? Che cosa è successo nel frattempo? Il progresso tecnico, scientifico ed economico ci rende più ricchi e felici o più poveri e tristi? Noi crediamo che le basi di partenza per il nostro lavoro possano essere queste: lavorare per formare uomini e donne che sappiano smontare e rimontare e, se occorre, confutare un testo o un discorso, possibilmente in relazione con altri uomini e donne (normalmente in situazione di cooperazione, che non esclude il conflitto); vogliamo lavorare per uomini e donne che sappiano usare i mezzi di comunicazione senza esserne vittime; lavorare per formare uomini e donne che sappiano di storia, di filosofia, di diritto, di fisica, di matematica, di informatica, di arte, di musica e di poesia, di sociologia, di economia e di politica; per uomini e donne che sappiano porsi le domande fondamentali dell’esistenza e si impegnino per cercare le risposte; lavorare per imparare e insegnare con le nostre vite che ciò che conta è la verità, la luce, la gioia, la misura, la bellezza; vogliamo lavorare per uomini e donne pacificati, pacificanti, alla ricerca della redenzione, costruttori di pace. 3.

Nove ambiti di sapere

Negli anni Settanta e Ottanta si riteneva che fosse necessario gettare ponti tra le due culture, quella umanistica e quella scientifica, e molte persone di buona volontà si sono impegnate onestamente per realizzare un nuovo umanesimo. Purtroppo, mentre spesso gli uomini di buona volontà costruiscono, altri, una minoranza, seminano zizzania: intorbidano le acque, fanno giochi di prestigio e illusionismi, ingannano. Perciò, come dicevamo, sembra che la parola “cultura” non si possa più utilizzare, sembra che si debba collegare ad altre parole che la specifichino. Se tu dici “cultura” l’interlocutore ti interrompe chiedendoti di precisare che cosa intendi. Oggi c’è la cultura del vino e dei trasporti ma in una metropoli multietnica, e nella scuola di una tale metropoli, c’è anche la cultura dei latinoamericani, dei romeni, dei filippini, dei cinesi. La misura ha raggiunto veramente il colmo poi con la crisi che ha colpito gli intellettuali, cioè coloro che in una società sana e ben compaginata dovrebbero svolgere il compito di criticare il sistema politico-tecnicoeconomico, la funzione di sentinelle della società, anticorpi vivi del mondo. Purtroppo però gli intellettuali, gramscianamente o crocianamente intesi, non avendo molte frecce ai loro archi, si sono da tempo eclissati (Eclissi dell’intellettuale si intitola un libro di Elemire Zolla edito molti decenni orsono), e, come un campo abbandonato, la società viene invasa e sommersa da erbacce, gramigne e rovi.

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Non è un caso che oggi si preferisca parlare di saperi, anziché di cultura. L’università è alla mercé dell’economia e della politica. La politica è una babele immane. I mass media si azzuffano e confondono le acque, frullando al povero lettore disorientato un intruglio nauseabondo. I poeti e i critici letterari litigano sbandati. D’altronde anche la parola “educazione” viene oggi “sostenuta” da una serie di specificazioni: educazione alla legalità, educazione stradale, educazione alla salute, educazione ambientale ecc. Secondo noi i seguenti nove ambiti di sapere, suddivisi tra saperi scientifici, saperi umanistici e saperi trascendenti, concorrono variamente, a seconda, per esempio, delle attitudini individuali, a formare la cultura delle persone oggi, e crediamo che da nessuno di essi si possa prescindere senza pregiudicare l’integrità della persona. L’ambito dei saperi umanistici potrebbe comprendere saperi letteraristorici-filosofici, saperi estetici e delle arti, saperi linguistici, saperi socialieconomici-politici, saperi giuridici e della convivenza. Tutti sappiamo quanto siano importanti i saperi linguistici, meno condivisa appare l’importanza della letteratura, della storia, della filosofia, della poesia, tutte discipline che hanno i saperi linguistici alla base. Certo, in ciascuna di esse il sapere linguistico viene impiegato in modi diversi; certamente in modo diverso da come viene impiegato nella comunicazione interpersonale, ma ciò non significa che i codici propri di queste discipline non siano importanti per la definizione del profilo culturale di una persona. I saperi sociali, economici, politici sono importantissimi soprattutto per decodificare messaggi fuorvianti e potenzialmente pericolosi, il primo dei quali è quello elaborato in un certo ambito politico che vuol farci credere che a) la tecnologia e l’economia sono al di sopra di ogni altra cosa, b) la persona è libera solo se gode della libertà economica che le permette di commerciare e trafficare, c) ciò che non ha valore di scambio non ha valore e dunque è inutile e da evitare (le catastrofi, invece, sarebbero utili perché fanno aumentare il Pil, perciò devono eventualmente essere procurate), d) il benessere non è di tutti, anzi solo alcuni soggetti possono produrre ricchezza, che legittimamente incamerano (gli altri possono sperare di usufruire di un certo benessere solo grazie alla ricchezza prodotta dai primi, e alle briciole che cadono dalla tavola del ricco epulone). Naturalmente, perché gli uomini e le donne possano impegnarsi per godere pienamente del diritto di cittadinanza, accanto ai saperi economici, politici, filosofici, letterari, storici, linguistici sono fondamentali anche i saperi della convivenza, dei diritti, quelli relativi alle costituzioni. L’ambito dei saperi scientifici potrebbe articolarsi in saperi fisicomatematici, saperi dell’informazione, saperi biologici. I saperi fisicomatematici sono importanti non soltanto per i concetti, le leggi, le conoscen8


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ze, ma soprattutto per i principi, i modelli di pensiero, i paradigmi, le metafore del mondo che i cultori di questi ambiti culturali elaborano. Il principio di indeterminazione, il paradigma della complessità, il principio ologrammatico, i concetti di algoritmo, di ricorsione, di astrazione sono patrimonio che deve trovare posto nella “cassetta degli attrezzi” di ogni uomo e donna che voglia vivere con diritto pieno di cittadinanza in questo mondo. C’è di più: se la manipolazione genetica, l’inquinamento, la nuove malattie minacciano continuamente l’umanità, non meno delle speculazioni in borsa e della bomba nucleare, possiamo delegare il nostro futuro ai cosiddetti “esperti”, o, peggio, ai politici? Molti di noi a questo punto sarebbero pronti a dire: “certamente abbiamo escluso qualche aspetto importante della conoscenza umana, ma è difficile aggiungere un ulteriore ambito di saperi”, simile a quello filosofico-storicoletterario o a quello fisico-matematico. Noi crediamo che anche se uno avesse perfetta padronanza degli ambiti di conoscenza elencati, al punto da essere maestro insuperabile di filosofia o di lettere o di matematica o di linguistica o di medicina, sarebbe in grave pericolo. Anzi, il pericolo, per sé e per gli altri, sarebbe tanto più grave quanto più raffinate fossero la sua arte e la sua scienza, perché egli farebbe della sua scienza un idolo, monterebbe in superbia, diffonderebbe idee perverse, e si farebbe schiavo. Molti mali del nostro tempo, comprese tante vuote diatribe, potrebbero essere spiegate in base a questo principio. Nel tempo dell’iperspecializzazione ognuno spiega il mondo e la vita con categorie, principi, luoghi comuni, paradigmi e valori propri del suo ambito disciplinare, ritenendo che quella sia “la spiegazione della vita”. Anzi, spesso noi affidiamo gli aspetti più delicati e profondi dell’esistenza a “specialisti” che, come uomini e donne, a volte sono immaturi come bambini. Invece, a nessuno dovrebbe essere permesso di maneggiare, ad esempio, l’energia atomica o i segreti della vita soltanto perché è specialista di fisica atomica o di biologia molecolare. Noi crediamo che per completare il quadro dobbiamo aggiungere un ambito di conoscenza che potremmo definire teologico-spirituale e trascendente. È questa la sfera nella quale veniamo interrogati in profondità, alla radice stessa della persona, attraverso le domande “chi sono?”, “da dove vengo?”, “dove vado e perché?”, che riguardano ogni persona in ogni tempo, non solo coloro che hanno una laurea e parlano in modo forbito. Oggi soltanto gli stolti possono pensare che l’uomo sia solo materia, che l’amore sia solo eros, che il senso della vita stia nel successo e nel potere. È stato detto che c’è anche una spiritualità degli atei, proprio perché tutti avvertono misteriosamente la dimensione trascendente. Ciò perché ogni uomo, 9


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ogni donna, per dirla con i pensatori personalisti, è una creatura originale, anzi unica e irripetibile, ma anche irriducibilmente difettiva; poiché è difettiva ha costitutivamente bisogno degli altri; questo bisogno la apre alle relazioni interpersonali e alla comunione (che è quindi anche costitutiva della persona); i bisogni di relazione non si esauriscono del resto sul piano orizzontale verso il prossimo ma interpellano la persona anche sul piano verticale e trascendente. 4.

Il progetto di SOS scuola

Con queste note abbiamo voluto fornire una traccia di riflessione utile per impostare ragionamenti e ricercare soluzioni. Ma come procedere? In occasione del suo quinto anno di vita, il gruppo potrebbe interpellare uomini e donne che operano in diversi ambiti di ricerca sul tema semplice, aperto ma vasto: “Fare cultura ed educare oggi”. Le persone interpellate dovrebbero accettare di lasciarsi coinvolgere in una sorta di conferenza permanente con modalità mista, faccia a faccia e a distanza. A questo scopo potremmo utilizzare il sito del gruppo per rendere vivo anche il dialogo a distanza. A ogni persona potremmo chiedere di riflettere sul tema individuato, partendo dal proprio punto di vista d’indagine (letteratura, sociologia, fisica, informatica, teologia, educazione, diritto). Ogni relazione, da proporre presso l’I.T.C. “V. Cosentino” di Rende (CS), durante un incontro di due o tre ore, compreso il dibattito, dovrebbe cercare sempre risposte originali. Ai relatori chiederemmo però, espressamente, di lasciarsi coinvolgere anche tenendosi in contatto con noi mediante il sito, sul quale pubblicheremmo puntualmente una sintesi dei lavori che man mano verranno svolti, e che tutti i relatori dovrebbero conoscere. Il sito potrebbe essere utilizzato anche per attivare un forum in modo che il dibattito continui anche dopo l’incontro faccia a faccia. Alla fine dell’anno, per chiarire ulteriormente i quesiti più dibattuti, potremmo organizzare una tavola rotonda con altri tre o quattro studiosi. 5.

Dibattito

I presenti condividono l’analisi e la proposta. Si fa presente che, visto l’enorme lavoro di organizzazione e coordinamento richiesto, sei incontri all’anno sono troppi. Si suggerisce di non programmare più di quattro incontri, uno ogni due mesi, di pubblicizzarli adeguatamente all’interno della scuola, e di inserire tra l’uno e l’altro incontri inter nos per una serata di amicizia nelle nostre case o in pizzeria, e qualche gita di un solo giorno (ad esempio in Sila, a Guardia Piemontese, a Rossano, 10


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a San Giovanni in Fiore, nel Mercure). Questa soluzione, mentre consente di portare avanti efficacemente il progetto, permetterebbe di curare e consolidare le relazioni interpersonali all’interno del gruppo. Se il progetto non si esaurisce in un anno, poco male: potrebbe essere attuato in un biennio o in un triennio. Un elenco di nomi di studiosi e di possibili incontri elaborato nel corso del dibattito è il seguente: Umberto Santino e Anna Puglisi di Palermo, fondatori del centro di documentazione antimafia “Peppino Impastato”; Giuseppe Grillo di Torino, macchinista di Trenitalia; Pino Caminiti di Fuscaldo e Miretta Pasqui di Siena, poeti; Silvano Petrosino di Milano, filosofo; Dora Ciotta di Pavia, fondatrice e animatrice dell’associazione culturale “Famiglia Aperta”; Renate Siebert di Rende, sociologa; Pier Luigi Veltri di Rende, fisico; Pino Stancari S. J. di Rende, biblista; Enrico Vena di Rende, ingegnere informatico; Biagio Politano di Cosenza, magistrato; Carlo Molari di Roma, teologo; Piero Fantozzi di Rende, sociologo; Giovanni Anania di Rende, economista agrario; Giuseppe Limone di Napoli, filosofo e poeta; Piercarlo Maggiolini di Novara, esperto di sistemi informativi e sacerdote. Il gruppo affida a Chiara e Tommaso l’incarico di verificare la disponibilità delle persone indicate nell’elenco e di comunicare a tutti gli altri l’esito. In seguito, raccolte le preferenze di ognuno, si definirà il programma.

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Appunti dell’incontro di SOS scuola del 26.10.2009 (a cura di Chiara Marra) Oggi pomeriggio, alle 15.30, il gruppo SOS scuola si è riunito per riflettere insieme sul convegno organizzato dalla Fondazione Rubbettino in programma presso l’ITC “V. Cosentino” il 6 novembre prossimo sul tema “Persona e comunità nella società complessa”. Eravamo stati invitati da Tommaso a documentarci su due degli studiosi che parteciperanno al convegno, don Carlo Molari, teologo, e Antonino Papisca, esperto di cittadinanza e di diritti umani. Alla riunione partecipano anche, per la prima volta, Rosanna Bennardo della IV CM ed Emanuele Lontananza della V FM. Il dibattito prende le mosse da alcuni testi di Molari e Papisca scaricati da Internet e si sviluppa intorno ai temi dell’educazione, dei valori e del relativismo. Rosa ci ricorda che è necessario non perdere mai di vista l’importanza della funzione della scuola nella società. Alfio, sulla scia delle riflessioni di Papisca sulla necessità di partire dalla condivisione dei valori espressi nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo, riflette sul fatto che l’educazione non può che essere politica, nel senso più alto e più generale del termine. Cosimo si interroga su quali siano gli elementi che rendono complessa la società di oggi. Chiara ritiene necessario che gli insegnanti siano davvero convinti di dover trasmettere valori ai loro studenti e che si debba dare testimonianza di quello che si è, senza assolutizzare la propria tradizione o la propria cultura come le uniche possibili, ma aiutando i ragazzi e i giovani a scoprire chi sono e chi potranno diventare e a renderli protagonisti della propria crescita. Tommaso ricorda come sia indispensabile intendersi su quale sia il nocciolo più profondo della persona umana: solo così si potrà partire da una base comune di valori e di proposte. America dice che è importante che i ragazzi vengano abituati a riflettere e a portare le motivazioni delle loro scelte e delle loro azioni. Iole ha trovato molto interessanti e coinvolgenti gli stimoli offerti dai testi che abbiamo letto. Cristina propone l’idea di un progetto della sua scuola (l’IPSIA di San Giovanni in Fiore) su Gioacchino da Fiore in cui vorrebbe coinvolgere anche qualche quinta dell’ITC “V. Cosentino”. Alla fine dell’incontro i nuovi firmano la “carta” istitutiva del gruppo.

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Persona e comunità nella società complessa (convegno organizzato dalla Fondazione Rubbettino presso l’ITC “V. Cosentino”, 6.11.2009) Appunti dall’intervento di Carlo Molari La prospettiva da cui parto è teologica. Si tratta della prospettiva di fede in Dio. I primi discepoli di Gesù venivano chiamati “quelli che seguono la via di Gesù”. Successivamente i discepoli sono stati chiamati cristiani. Chiarisco quali sono le caratteristiche delle comunità cristiane primitive. È la comunità che struttura le persone e le fa diventare figli di Dio. Questo vale anche per la specie umana al di fuori di un orizzonte di fede. Le prime coppie vivevano in comunità e ogni nuova vita fioriva in una comunità. La fede in Dio implica innanzitutto la convinzione che esista il bene, la vita come possibilità compiuta. Da qui la fiducia che consente di riconoscersi in quella “energia arcana” che opera nel mondo (secondo la definizione del Concilio Vaticano II). Certi valori e proposte del cristianesimo non sono stati accolti perché l’umanità non poteva ancora recepirli. Infatti la via di Gesù è ancora un traguardo da raggiungere; siamo tutti in cammino. Dio viene concepito come l’energia arcana che alimenta il processo della vita. Dio è la vita, è colui per cui tutte le creature vivono. Dio è il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, è il Dio vivente, non il dio astratto dei filosofi. Dio è misericordia. Questa è una prospettiva familiare per Gesù. Dio è colui che perdona gratuitamente senza chiedere nulla (come già annunciato dal profeta Geremia). Questo elemento, nel corso dei secoli, è stato dimenticato. Dio offre il perdono senza ricordare più il nostro peccato. L’identità, nella prospettiva cristiana, sta alla fine, non all’inizio. Il traguardo si raggiunge attraverso i rapporti con gli altri, nella comunità. L’esistenza cristiana ha una dinamica evolutiva: noi viviamo per diventare figli di Dio, all’inizio siamo chiamati a un cammino. Nella comunità l’azione di Dio diventa concreta attraverso le creature. L’azione di Dio non si aggiunge alle cose (Dio non progetta e struttura in modo fisso fin dall’inizio, ma offre alle creature la possibilità di “farsi”). Tutto, nella storia, diventa creatura. L’intervento di Dio non è mai sganciato dalle creature (è il principio dell’incarnazione). Anche i miracoli avvengono attra13


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verso le creature, sia pure grazie all’energia elargita da Dio. Se le creature si chiudono, nella storia non fiorisce nulla, per questo la comunità diventa costitutiva del divenire della persona. Un altro elemento nella prospettiva dinamica è che le creature sono sempre incompiute, imperfette. La complessità non deriva soltanto dal fatto che ci sono relazioni multiple tra le persone, ma anche dalla incompiutezza delle creature: esse non possono accogliere immediatamente tutta la forza che ricevono. La creatura è frammento nel tempo e non può vivere istantaneamente e contemporaneamente tutto ciò che le viene offerto. La complessità è dunque legata all’incompiutezza della creatura oltre che alla molteplicità delle relazioni. La fede ci offre la possibilità di vivere positivamente tutto ciò che ci accade perché crediamo, come dice san Paolo, che «nessuno ci può separare dall’amore di Gesù nostro Signore», e perché siamo comunque orientati verso il traguardo del diventare figli. Per approfondire: C. Molari, Scegliere la vita per un cammino di vita, in D. Ciotta (a cura di) Scegliere la vita nella società del mercato, Cittadella Editrice, Città di Castello 2009. Appunti dall’intervento di Margherita Scarlato Parto dall’incontro che la Fondazione Rubbettino ha organizzato recentemente a Roma al quale ha partecipato anche Edgar Morin. Lo studioso della complessità ha detto che l’economicismo ha distrutto la poesia della vita. Secondo la dottrina economica, comunemente, quando prendiamo le decisioni, massimizziamo alcune variabili (profitto, utilità). Per fortuna questa teoria economica, benché dominante, non è l’unica. Ve ne sono altre che, per certi versi, ricordano il concetto di comunità come energia arcana di cui parla don Molari. La comunità è alla base dell’economia. Si tratta di una linfa, per esempio, di fiducia, che alimenta i processi economici. Una tradizione interessante, da questo punto di vista, è proprio italiana e si è sviluppata nell’ambito degli studi sullo sviluppo locale (Becattini e Brusco). Gli studiosi di questo filone osservavano che tante imprese nascevano in luoghi “sbagliati” perché non erano parte del triangolo industriale: la linfa che faceva fiorire queste imprese era la fiducia, la tradizione, la disponibilità a cooperare, il senso di responsabilità. Si tratta di un vero e proprio capitale che più tardi i sociologi hanno definito “capitale sociale”. Le relazioni di fiducia si sono spezzate e le operazioni di delocalizzazione industriale portano a un territorio sfigurato (Giuseppe Berta). Alla perdita di identità del territorio corrisponde la perdita di identità delle persone. L’aspetto locale resta fondamentale nello sviluppo 14


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economico. Nascono così i distretti industriali del mobile, dell’abbigliamento, eccetera. Ma il distretto industriale deve mettersi in rete con altri territori. In Italia si è tentato di capovolgere l’intervento dello Stato nell’economia per esempio attraverso i Patti territoriali che sono poi diventati Progetti integrati territoriali, ma non sempre i frutti sono stati all’altezza delle aspettative. Amartya Sen ha affermato che il Pil non può più essere l’unica grandezza da prendere in considerazione quando si parla di sviluppo, perché il fine dello sviluppo dovrebbe diventare la crescita della capacità delle persone, non la ricchezza. Questo economista, ai fini della valutazione della crescita di un paese, accanto allo sviluppo delle competenze della persona, arriva a considerare il grado di apertura agli altri e il sentimento religioso. Dai nuovi modelli di questi studiosi (Sen, Stiglitz) viene fuori che la felicità dipende dalla qualità delle relazioni sociali e dalla sicurezza emotiva, più che dalla ricchezza. Per approfondire: L. Rampa, Nella società del mercato. Quali paure e quali opportunità?, e V. Zamagni, Quale vita per le persone e per le famiglie? in D. Ciotta (a cura di) Scegliere la vita nella società del mercato, Cittadella Editrice, Città di Castello 2009. Appunti dall’intervento di Antonino Papisca Quando ero studente la comunità internazionale veniva definita come l’insieme degli Stati. In questa definizione non si faceva cenno alle persone. Da allora si è sviluppato il corpus del diritto internazionale che definisce la comunità internazionale come formata dalla “famiglia umana” e dall’insieme delle istituzioni preposte a far rispettare i diritti inalienabili della persona. La persona è titolare di diritti fondamentali che sono agiti nella comunità. Si assiste a una convergenza tra la Carta dei Diritti Umani e l’enciclica Pacem in terris di Giovanni XXIII (giustizia, pace e libertà + verità e amore). Amartya Sen, in occasione del sessantesimo anniversario della Carta dei Diritti Umani, ha scritto un articolo in cui ha affermato che i diritti umani non sono i figli del Diritto, ma, semmai, i suoi genitori. Ad esempio, nel rapporto fra gli Stati, un tempo vigeva il principio di reciprocità (io tratto i tuoi cittadini come tu tratti i miei), oggi, invece, si tende all’inclusione (si parla infatti di città inclusiva e di Europa inclusiva). La complessità nella comunità, dunque, nasce dall’interdipendenza planetaria tra persone, che vuol dire che tutti siamo esposti alle intemperie internazionali. In questo contesto dobbiamo ridefinire il concetto di cittadinanza 15


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in termini plurali e non solo come diritti civili ed economici. Il compito che ci attende è grande ma la strada è tracciata: la Carta dei Diritti Umani. Per approfondire: Codice internazionale dei diritti umani, Università degli Studi di Padova, Padova 2008. A. Papisca, Abcdiritti umani, http://www.centrodirittiumani.unipd.it/ a_materiali/scuola/abc/indice.html. Appunti dal dibattito Da una sorta di test effettuato in questa scuola (l’I.T.C. di Rende) risulta che gli studenti, in una percentuale che rasenta la totalità, si sentono calabresi, poco italiani, per nulla europei. Insomma sembra che i giovani facciano fatica a pensarsi cittadini del mondo. Come fare sviluppare un corretto senso della cittadinanza nei nostri studenti? Papisca: è molto importante viaggiare ed effettuare scambi culturali. Però non mi preoccuperei eccessivamente perché la risposta degli studenti potrebbe essere genuina e rappresentare una forte radice locale. Poiché l’identità si può pensare stratificata, valorizzando l’identità locale si può mostrare agli studenti l’orizzonte nazionale, l’orizzonte europeo, l’orizzonte universale. Quest’anno il gruppo “SOS scuola” ha lanciato il progetto “Fare cultura ed educare oggi”. A questo progetto invitiamo letterati, fisici, economisti, biblisti, giuristi, sociologi, informatici, a dare ciascuno il proprio contributo partendo dal suo punto di vista. Che cosa significa per ciascuno di voi fare nuove elaborazioni culturali oggi in materia di economia, teologia, diritti della persona e condividerle con i giovani? Scarlato: aprire, per quanto possibile, la mente agli studenti, presentare loro tutto il ventaglio delle teorie economiche e tentare di fare sviluppare in loro lo spirito critico. Papisca: lavorare sulla magna carta dei diritti umani e sulla prima parte della costituzione italiana. Proporre attività che mirino a sviluppare la cittadinanza. Molari: nell’esperienza di fede il tempo è un dato essenziale, ma gli antichi credevano che le parole umane fossero un riflesso di Dio. Oggi non si crede più così. Una generazione che vuole vivere la fede deve elaborarla in rapporto alla propria cultura, altrimenti si vive una fede illusoria e si diviene o fondamentalisti o tradizionalisti e fissisti. Perciò un’educazione adeguata alle sfide dei tempi, deve rielaborare la fede, stando con i piedi nel mondo. 16


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La politica è la protagonista assente in questo stato di crisi. Che cosa ne pensate? Papisca: non credo che la politica sia assente da questa crisi. È stato il livello pubblico che nei mesi scorsi ha salvato l’economia nei paesi occidentali. Nell’agenda politica di molti Stati occidentali si parla di governance a più livelli. In realtà le istituzioni sono imbrigliate dai diritti umani. Scarlato: c’è un livello locale che è quello della comunità al quale i problemi vengono affrontati da sindaci, assessori ecc. Poi c’è un livello globale che deve intervenire per tenere conto di fenomeni che non possono essere gestiti a livello locale, per esempio i flussi migratori. Ci troviamo di fronte a un nuovo imperialismo o a un neocolonialismo? Molari: noi non possiamo fissare i ritmi del processo della vita senza tenere d’occhio il traguardo… Noi diveniamo giorno dopo giorno creature nuove e divenendo cambia tutto… Il richiamo alla legge di natura è insufficiente perché anche la legge di natura è in evoluzione. È necessario avere un orizzonte condiviso, ma aperto, perché procedendo l’orizzonte si allarga. Perciò non credo che corriamo questo rischio. Scarlato: il rischio di neocolonialismo oggi non è reale. Anzi, molti paesi emergenti sono stati inclusi nell’arena internazionale al punto che l’asse geopolitico si sposta dall’occidente verso l’oriente. Papisca: i rischi ci sono sempre: i governanti hanno tentato di rilanciare, dopo l’89, durante la prima guerra del Golfo, il vecchio diritto amorale della guerra preventiva (al tempo di Bush senior). Anche il più forte, oggi, però sa che può iniziare una guerra, ma non può vincerla. Obama ha vinto il Nobel per il discorso fatto alle Nazioni Unite, in cui richiama alla necessità di affrontare insieme i problemi del mondo. Questo discorso dovrebbe essere commentato nelle scuole. Il Pil non può essere l’unica misura della crescita di un paese. Che disponibilità c’è, a livello degli organismi internazionali, a considerare indicatori diversi dal Pil? Scarlato: il problema non sono tanto gli organismi internazionali, quanto i mercati finanziari, perché se il Pil non cresce i mercati reagiscono male.

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Questioni scottanti 1. Recentemente abbiamo letto in un articolo trovato in Internet la seguente battuta: “La complessità è diventata una scienza, ma la semplicità rimane un’arte”. L’autore citava nientemeno che lo Zibaldone di Leopardi. Certamente ci sono realtà e processi che non possono essere affrontati schematizzando e riducendo “ai minimi termini”, ma in che rapporto stanno nel mondo la complessità e la semplicità? 2. Spesso si dice che il mondo globalizzato è un villaggio. Nelle comunità locali però col tempo si sedimentavano valori e consuetudini di vita grazie alla contiguità tra le persone, alla continuità e alla durata dei rapporti. Nel mondo globalizzato, per esempio fare nascere e sviluppare la fiducia tra persone, enti, operatori economici è un problema. Come affrontarlo e risolverlo? 3. Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate propone una raffinata analisi del nostro tempo, sia dal punto di vista dello sviluppo della persona umana, sia da quello tecnico-economico. Possiamo ritenere che tecnici, scienziati ed imprenditori orienteranno le loro azioni e le loro imprese tenendo presente che “il fare è cieco senza il sapere e il sapere è sterile senza l’amore”? In che modo, con quali mezzi, con quali opere si può giungere, nel mondo sofisticato e complesso d’oggi, a fecondare veramente l’agire tecnicoeconomico con la carità? Che cosa dovrebbe fare il sistema educativo e formativo affinché i giovani possano affrontare con coraggio le sfide del nostro tempo senza cadere nelle sue trappole?

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Il ruolo dei classici nella cultura e nell’educazione oggi (Relazione di Pino Caminiti per l’incontro di SOS scuola del 9 dicembre 2009) Non è mai stato facile definire la poesia. Oggi poi, nel dibattito spesso vociante sulla sua produzione e sul suo destino, crea disagio anche tentare di occuparsene affidandosi al semplice buonsenso. Con ogni evidenza, tale dibattito è animato soprattutto dai poeti, i quali, ciascuno per proprio conto o riuniti in conventicole (un tempo si sarebbe detto “scuole”), portano avanti discorsi quasi sempre improbabili. E non è difficile capire che gli animatori del dibattito sono presi dal desiderio di affermare la loro teoria sulla poesia essenzialmente per promuovere la propria attività di poeti. Nascono così le storie della poesia e i dizionari dei poeti, i cui autori si scambiano citazioni ed encomi, si biografano vicendevolmente e, nelle occasioni in cui la poesia si trasforma in spettacolo, non si sottraggono alla ribalta, anzi la cercano. Il che può appagare il narcisismo o, se si vuole, l’umanissima vanità degli interessati, ma rimane un fatto spiacevole, poiché la poesia non può e non deve inserirsi nei meccanismi che regolano la moderna civiltà dello spettacolo. La poesia, cioè, non può e non deve inquinarsi; anzi, essendo un’operazione di vera e propria ecologia mentale (come ha efficacemente detto Stefano Lanuzza), si salda fermamente all’ecologia stessa: entrambe, infatti, non fanno mercato anche per via della loro vocazione antispettacolaristica. Ed è perciò da condividere il giudizio di chi individua la fonte della poesia in una “lontananza stellare e in una solitudine senza rimedio”. La solitudine, la lontananza, il silenzio sono insomma premesse indispensabili al “volo” che il poeta compie attraverso la parola. Un volo che ovviamente non lo inserisce nella serie dei “saranno famosi” o nei semplici ambiti dei questuanti del consenso: egli non ha nulla a che vedere con la massificante società dei consumi, il cui pubblico, orientato dai demiurghi dei vari talk show, giunge a tributare ovazioni, indifferentemente, a divette d’avanspettacolo e ad artisti veri. Il poeta sa bene che nel suo destino può esserci la tolda di una nave affollata da marinai che lo scherniscono, ma al suo volo non rinuncia. Lo scatto con cui si libra è l’emozione, la sua avventura è gioia ma anche agonia con la parola, dunque fatica nella ricerca del lógos. E in quest’avventura la sua vita non è più strozzata, i circuiti della sua umanità non sono ostruiti, la sua tensione si attenua e man mano si placa. 19


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La sua liberazione, infine, è simultanea alla certezza che il lógos, in un atto supremo di sintesi, lo ha portato alla comprensione (nel senso di “prendere insieme”) della pluralità delle cose. Ma credere nella coincidenza fra redenzione etica e redenzione estetica (poiché la ricerca della liberazione dalle dissonanze è soprattutto ricerca del Bello) significa riproporre il concetto di poesia classica, il concetto classico della poesia. E ciò comporta di necessità il riferimento alla tradizione, in un momento storico che ha tutti i caratteri della transizione. Fra sperimentalismi e scritture materialistiche, fra neomoderatismi e velleitarie neoavanguardie, forse non si è capito che l’attacco alla tradizione non ha portato voci rilevanti, nell’ambito della poesia, anche per il semplice fatto che la tradizione medesima è ineludibile. “Essa esige - ha scritto T.S. Eliot - che si abbia anzitutto un buon senso storico (…) avere senso storico significa essere consapevoli che il passato è passato, ma è anche presente; il senso storico costringe a scrivere non solo con la sensazione fisica, presente nel sangue, di appartenere alla propria generazione, ma anche con la coscienza che tutta la letteratura europea, da Omero in avanti, e all’interno di essa tutta la letteratura del proprio paese, ha un’esistenza simultanea e si struttura su un ordine simultaneo. Il possesso del senso storico, che è senso dell’a-temporale come del temporale, e dell’a-temporale e del temporale insieme: ecco quel che rende tradizionale uno scrittore”. Parole decisive, evidentemente, quelle di Eliot. Per quel che ci riguarda, e limitando l’attenzione alla poesia lirica, se - come Eliot dice - dobbiamo avere la coscienza di tutta la letteratura del nostro patrimonio culturale e quindi (aggiungiamo noi) avvertire la sua presenza in ciò che si può chiamare DNA artistico, è con orgoglio e coraggio che dobbiamo guardare al nostro passato, ai nostri classici. Essi sono, secondo la definizione di Ezra Pound, “gli antisettici. Sono quasi gli unici antisettici contro la contagiosa idiozia dell’umanità”. E, se si tratta di individuare la nostra identità, dobbiamo fare i conti con la grande matrice latina. “I poeti romani - aggiunge infatti Pound sono gli unici che conosciamo ad avere più o meno i nostri problemi”. Non si insisterà mai abbastanza sul tributo che ai lirici della romanità noi ancora dobbiamo, anche per l’apparato lessicale, sempre straordinariamente incisivo. Cos’è infatti la nostra esperienza poetica se non il tentativo di misurarci con la strenua inertia, di fronteggiare quel taedium vitae che ha attraversato la cultura dell’occidente e non ha certo risparmiato gli scrittori del nostro Paese? Si rilegga, ad esempio, Orazio con mente sgombra dagli stereotipi che per secoli lo hanno accompagnato e si vedrà che delle conclusioni raggiunte dagli addetti ai lavori (e persino da qualche studente di liceo) occorre avere una coscienza più vasta. Orazio fu il grande lirico dell’amore, dell’amicizia, del tedio; ma fu anche un teorico capace di individuare dei punti fermi, forse 20


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non originali ma di sicura affidabilità, in grado di aver ragione delle mode e perché no? - degli sperimentalismi di ogni tempo. Basti pensare alla formula del labor limae, che nega cittadinanza alla poesia immediata, ossia priva di mediazioni; o, più ancora, alla forza dell’enunciato callida iunctura, che in realtà è un invito ai poeti di tutti i tempi ad usare con sagacia il repertorio delle figure retoriche. Ad un certo punto della loro storia, i poeti latini ebbero, mutuandola dai greci, un’insopprimibile esigenza d’armonia. Ritennero anzi che senza di essa, più propriamente senza l’incontro di lógos e mélos, non fosse lecito parlare di poesia. Dal prépon greco derivò il decorum, e quindi la concinnitas, e comunque un’istanza di misura. E Lanuzza, che mi piace citare ancora, afferma appunto che “nell’essere parolante prevalgono non già moduli rozzi, ma strutture complesse e recondite; non la complessione bruta, ma la grande simmetria, il numero, la bellezza, la logica e l’architettura, l’omologia e l’armonia, l’omofonia e la relazione”. Bene: da Petrarca a Montale, passando attraverso Baudelaire (ossia attraverso l’iniziatore della lirica moderna europea) sono presenti nell’esperienza poetica pressoché tutti i termini ora citati, e tutti riconducibili alla categoria del classico. E classico è qui da intendersi come bisogno di ordine: osservazione persino scontata, certo, ma da tenere sempre in conto, quale che sia l’idea dell’arte, teorizzata o inverata dai poeti. Arte che contempli, che pacifichi i contrasti interiori, ovvero arte che viva nel flusso o nella totalità della vita, poco importa al nostro discorso. Importa invece che la parola poetica, in quanto tale, abbia risonanze interne e quindi suggerisca più che affermare; importa che si connoti di una “condensazione espressiva” capace di rinviarla naturalmente alla bellezza. E la condensazione, si sa, era usata già da Virgilio ed Orazio. La vita è divenire, serie di apparenti pienezze, di approdi e ripartenze, e il divenire è il contrario di “classico” come categoria ideale. Ma come nella vita l’erranza non esclude il nostos, così nella storia della poesia il rinnovamento prepara il ritorno, il restituirsi docile o sofferto ai paradigmi indicati da Eliot. E dunque il divenire può coniugarsi con la continuità: rinnovarsi non significa disancorarsi. Chi osserva la linea diacronica che da Orazio conduce a Petrarca e a Montale, nota che la strenua inertia, l’accidia e il male di vivere hanno sostanza identica e che “la logica, l’architettura (…), l’omofonia e la relazione” sono la forma di quella sostanza. Raccolte in una sorta di metapoetica (cioè in una poetica che si trasforma nelle epoche storiche senza però cessare di educarsi alla lezione dei classici), esse si ripropongono attraverso la parola. E questa riappare, intatta, e seguita ad emozionare. Ed ecco il punto: l’emozione. È stato Leo Spitzer a ricordarci, in via definitiva, che l’allontanamento da uno stato psichico normale 21


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(l’emozione, appunto) condiziona fortemente l’espressione linguistica e che il linguaggio artistico ha una sua propria specificità. In via forse altrettanto definitiva, prima di lui Croce aveva detto che l’arte nasce da uno stato di “commozione serena” o “serenità commossa”. Croce non disse sempre cose condivisibili, ma affermò un punto fermo, su cui chiunque abbia un minimo di onestà intellettuale dovrebbe essere d’accordo: l’ineludibilità del criterio estetico nell’approccio ad un testo di letteratura. Viceversa, i suoi detrattori sono stati capaci anche di irriderne il pensiero, in una stagione che non si è ancora esaurita, al punto che in certi salotti appare anche oggi blasfemo fare riferimenti al grande filosofo abruzzese. Il risultato di tale accanimento è stata la negazione che all’arte, e specialmente alla poesia, debba chiedersi la bellezza. In particolare, gli epigoni dello strutturalismo, variamente abusando della lezione dei loro maestri, si stanno oggi limitando ad una serie stucchevole di giochi intellettualistici sui testi. Più in generale, c’è ancora chi si ostina a propugnare l’equazione arte - impegno civile; chi distingue scrittori e poeti in “aristocratici”, ovvero reazionari, e “democratici”, chi va a caccia, all’interno di un testo, di allitterazioni, ossimori, zeugmi, poliptoti, sinestesie ed altro ancora senza domandarsi se le figure retoriche siano funzionali a qualcosa; chi disputa con altri critici se tale poeta utilizzi il simbolo o l’allegoria o un semplice linguaggio allusivo; oppure se in Pascoli il cipresso sia un mito, un “motivo” o un simbolo; pochissimi si chiedono se una poesia è veramente tale e, semplicemente, si abbandonano al piacere della lettura. Da sempre, invece, il fine dell’arte è stato il Bello, se possibile coniugato al Vero (ma già Esiodo ammoniva che “le Muse ci insegnano a mescolare il vero e il falso, il reale, l’assurdo e l’incomprensibile”). In ogni caso, il Bello che vola sulle transizioni e sulle mode, opponendosi non solo al “brutto” estetico, ma anche a quello rappresentato dal potere fine a se stesso e, soprattutto, all’indifferenza. Il Bello che sgorga dalla poesia non può essere “un prodotto inutile ma quasi mai nocivo” in quanto reca con sé l’esigenza del Buono in senso etico (l’agathón dei greci). Certo, il Buono non si identifica semplicemente con la regola morale: questo non è da chiedere agli artisti. È “buono”, in senso etico, il sentimento in sé, poiché denuncia vita interiore e senso dell’universale: a guardar bene, il sentimento poetico ha perciò un’intrinseca valenza civile. Infatti la poesia è un “prodotto inutile” solo per chi si ostina a credere nel progresso delle masse e non a quello degli individui, di quegli esseri umani che, nel silenzio e nella totale solitudine, continuano invece ad attendersi dalla “commozione serena” dei poeti una parola di riscatto e di speranza. Di “prodotto inutile”, com’è noto, parlò il più grande poeta del Novecento: ma egli sapeva bene che le sue “trombe d’oro della solarità”, il suo “cavallo stramazzato”, le sue “case” sul mare e dei doganieri, e persino le sue 22


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“sillabe storte e secche” avevano già emozionato ed avrebbero seguitato a commuovere, per sempre. E allora è da ritenere priva di senso la distinzione fra poesia “impegnata” e poesia della rinuncia. Anzi, pur con qualche doverosa eccezione, bisogna riconoscere che gli esiti più alti sono in genere raggiunti da quegli autori che non si muovono sul terreno dell’impegno ideologico. E comunque l’eticità è interna alla poesia alta e vera, anche quando il suo contenuto è di rinuncia o di pessimismo tragico: senza andare troppo lontano, è sufficiente pensare, in proposito, a Leopardi e all’insuperato giudizio che ne dette De Sanctis. Un’ultima cosa: stiamo qui parlando di poesia e di poeti, non di semplici autori di versi. Al riguardo mi sembrano da sottoscrivere due notazioni. La prima è di Croce: “Fino a diciotto anni scrivono tutti, poi lo fanno solo i veri poeti ed i cretini”; l’altra di Sandro Penna: “Scrivono tutti, l’importante è andare a capo ogni tanto”. È bene che le tengano presenti, io credo, sia i lettori che gli autori: gli uni avranno un approccio più consapevole col mondo poetico, gli altri, prima di cedere alla vanità della pubblicazione, si sforzeranno di non appartenere alla seconda categoria indicata da Croce, magari andando a capo al momento opportuno. Dibattito Alfio: l’approccio che i ragazzi hanno con la poesia è quello di chi è figlio di tempi antipoetici, perché il pragmatismo regna. Sta venendo su una generazione che odia il silenzio, ma la poesia richiede il silenzio. Credo che sia morta la funzione che la poesia può avere nell’educazione dei giovani. Rosa: Alfio parte dal presupposto che la poesia abbia di per sé una funzione educativa. Alfio: la scuola fa odiare la poesia. Rosa: credo che i ragazzi debbano essere guidati ad apprezzare la poesia. Io ho avuto un docente che lavorava molto in questo senso, e, anche se allora non comprendevo, col tempo ho raccolto i frutti del lavoro fatto. Marco: la scuola costringe i ragazzi a imparare le poesie a memoria, perciò io odio la poesia dal tempo delle elementari. Secondo me anche le canzoni sono poesie. Pino: gli unici poeti oggi ascoltati sono i cantautori. Alcuni di loro se lo meritano: De Andrè, Mogol (che è un vero poeta). Ci sono cantautori che fanno un grandissimo servizio e, a differenza di Montale, sono miliardari. Chiara: hai detto che il poeta fa un suo percorso per recuperare “la parola” e guarire dalle sue inquietudini. Chi fruisce della poesia come lettore può fare lo stesso percorso? 23


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Pino: perché il lettore possa fare un percorso simile a quello che il poeta fa quando compone deve essere attrezzato. A volte è determinante anche il periodo della vita in cui il lettore si trova. Tommaso: in una poesia hai scritto che “anche il verso è preghiera”. Nel prologo del vangelo di Giovanni leggiamo “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio”. Si tratta del verbo-logos-parola talmente potente che “Dio disse: ‘Sia la luce’ e la luce fu”. Che rapporto c’è tra parola poetica e Parola di Dio, da una parta, e tra poesia e preghiera, dall’altra? Pino: i greci definivano lo stato del poeta enthusiasmos, che vuol dire “essere nel dio”, dunque la poesia è, secondo i greci, un atto divino. Del resto poieo, da cui “poesia”, è un atto di creazione. L’arte è un incontro col divino. Circa il verso che hai ricordato, dirò che non essendo, in quel tempo, capace di pregare, mi affidavo alla poesia. Mimma: i ragazzi pensano esattamente come ha detto Marco: odiano la poesia perché noi insegnanti pretendiamo che imparino i testi a memoria. Come insegnante mi sento investita del peso di avvicinare i giovani alla poesia. Fino a che punto dobbiamo fidarci di quanto ci dicono i ragazzi rispetto alla poesia? Pino: agli inizi degli anni Ottanta assegnavo Dante da imparare a memoria e ancora la cosa funzionava. Non è importante il contingente, ma gettare il seme; conta molto quanto l’insegnante è convinto di quello che propone. I ragazzi in seguito rifletteranno e forse comprenderanno. Maria Carmela: l’italiano è una materia che si muove sulle emozioni. Noi insegnanti dobbiamo fare innamorare i ragazzi della letteratura. Il tema di italiano, per esempio, non va corretto: bisogna incoraggiare l’espressione. È importante però fare imparare a memoria le poesie. Heidegger dice che ognuno di noi è un progetto gettato che deve realizzarsi nel tempo, allora noi insegnanti dobbiamo rispondere a questo appello. Heidegger dice che la casa dell’essere è il linguaggio e che i depositari del linguaggio sono il poeta e il filosofo. Allora la parola riguarda tutti. Pino: alla fine degli anni Ottanta sono stati censiti 1.500.000 volumi di poesia circolanti in Italia. Qualcuno ha detto che esistono più poeti che lettori, perché paradossalmente chi scrive spesso non legge. Il vero poeta non è quello della “Vispa Teresa”. La poesia è una partita esistenziale. Mario Luzi, per esempio, è stato grande negli anni Cinquanta. Tommaso: vorrei che si ritornasse su un punto per chiarirlo ed esplicitarlo. Che funzione può svolgere la poesia, la letteratura, in un progetto educativo che riguarda i giovani? La poesia serve a fare bella figura nei salotti, facendo la citazione ad effetto, aiuta a diventare migliori fruitori di testi, com24


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presi quelli delle canzoni, serve a comprendere la potenza del linguaggio e a decodificare, per esempio, quello del potere, o è fondamentale, e in che senso, per la vita di ognuno? Pino: se la poesia è bellezza e la bellezza introduce al bene, il valore pedagogico inestimabile della poesia e della letteratura sta nella sua capacità di fare affinare lo spirito di chi la frequenta. Giuliano: La tecnica poetica mi affascina e mi inquieta allo stesso tempo. Siamo sempre costretti a rimettere mano a ciò che abbiamo scritto di getto? Pino: per fortuna è così. Il labor limae di Orazio dice esattamente questo: ingenium e ars (ispirazione e lavoro tecnico). Il lavoro di lima non è una forzatura ma un ripercorrere l’iter creativo per fare meglio possibile. La semplicità è conquista attraverso la lotta con la parola. Alfio: l’educazione poetica nella nostra scuola è inadeguata. I docenti dovrebbero essere i mediatori culturali, ma con la poesia siamo inefficaci. Benigni con Dante è diventato docente. Noi insegnanti dobbiamo diventare attori? Pino: Benigni è un pessimo dicitore di Dante. La Divina Commedia non può essere recitata come fa Benigni. Con Dante occorre trovare il senso e la cifra dei versi, che cambia da parte a parte della Commedia. Tommaso: tu hai citato Ezra Pound insieme a Orazio, Baudelaire e Montale, ma, nei Cantos, Pound ha mescolato con le parole anche segni provenienti, per esempio, dalla lingua cinese, e certamente la funzione che questi segni svolgono in quei Cantos non è di creare armonia, concinnitas. Dopo tutto ho l’impressione che la tua posizione sia meno radicale di quanto appaia considerando, per esempio, la battuta di Croce che tu ami riportare, secondo la quale “fino a diciotto anni scrivono tutti, dopo solo i veri poeti e i cretini”. Le avanguardie sono sempre da condannare o qualcosa di esse si salva e, se sì, che cosa fa veramente la differenza? Insomma, la Merda d’artista di Piero Manzoni ha qualcosa di estetico o è merda e basta? Pino: le avanguardie a volte fanno cose valide. Del resto i latini apprezzavano la concinnitas ma anche la inconcinnitas (la disarmonia, lo stridore) voluta, funzionale a un certo fine. Questioni scottanti 1. Dal dibattito seguito alla relazione di Pino Caminiti sono emerse due posizioni praticamente inconciliabili. Da una parte quella del relatore, apparentemente molto rigida e radicale, riassumibile con la battuta di Croce: “fino a diciotto anni scrivono tutti, dopo solo i veri poeti e i cretini”; dall’altra 25


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la posizione di chi sostiene che, specialmente nella scuola, non ci si possa limitare a “contemplare senza toccare” l’opera, spesso perfetta, dei grandi, ma si debba incoraggiare sempre la libera espressione senza giudicare, perché attraverso la familiarità con la parola si diventa uomini e donne. Forse con la poesia accade quello che accade con il calcio: fino a quindici anni giocano tutti e tutti segretamente sognano di diventare come Baggio, dopo giocano soltanto i veri calciatori mentre i dilettanti fanno ogni tanto una partitella con gli amici. Il calcio però dovrebbe servire non tanto a cercare o a costruire il grande campione, ma a fare crescere sani e forti, socievoli e moderatamente competitivi. Considerando testi come l’Albatros di Baudelaire e Il male di vivere di Montale, sembrerebbe, invece, che i “veri poeti” spesso siano degli infelici. Domandiamo: augurereste a un figlio di coltivare la poesia ed essere un infelice famoso? 2. Anche in Italia, nel corso del Novecento sono state date alle stampe opere difficili per linguaggio o per struttura. Ma non sono mancati gli esempi contrari: Saba, Fenoglio, Moravia, Alvaro, Ginzburg. Tra le opere italiane difficili ci sono La coscienza di Zeno di Svevo, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Gadda, Horcynus orca di D’Arrigo, i libri di Eco. Svevo inizia con libri facili e prosegue con un romanzo complesso; Gadda è, per così dire, complesso per natura; D’Arrigo riversa tutto se stesso in un solo libro; Eco è difficile senza vero motivo. Aggiungiamo che Montale esordisce con un linguaggio “difficile” e prosegue in modo “semplice” così come La Capria, il quale prima strizza l’occhio agli autori “concettosi” e poi prosegue semplificando. Goffredo Parise, un giorno, dopo aver letto e riletto un articolo di Fortini intitolato “Perché è difficile scrivere chiaro”, prende penna e carta e scrive “Perché è facile scrivere chiaro”. Il pezzo di Parise inizia con «Caro Fortini» e termina così: «Ora, caro Fortini, mi trovo costretto a tirare le somme di questa breve riflessione sul “sentimento della chiarezza” e costretto anche a chiedermi come mai e perché tu usi il latinorum, tu che potente non sei; anche tu come don Abbondio, anche tu come l’Azzeccagarbugli non permetti al povero Renzo di sposarsi, anche tu persegui nello scrivere il vecchio vizio antidemocratico dell’oscurità. Temi forse che Renzo si sposi e che il potere linguistico, il potere del latinorum, il potere politico se ne abbia a male?». Noi chiediamo soltanto: chi insegnerà in Italia a scrivere (e parlar) chiaro?

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Il riordino dell’istruzione secondaria di secondo grado. Prospettive culturali e organizzative (Appunti di Tommaso Cariati per l’incontro di SOS scuola del 17 dicembre 2009) 1.

Premessa

Questo incontro ci è sembrato necessario vista la confusione che circonda tutto il processo di riordino della scuola secondaria di secondo grado. Siamo felici che qui siano presenti i rappresentanti degli studenti i quali finora sono stati tenuti nell’ignoranza. Noi non abbiamo però né i mezzi né il tempo per esaminare ogni cosa in questa sede. Perciò ci soffermeremo soltanto su quegli aspetti del progetto di riordino che ci riguardano più da vicino, o perché sono di carattere culturale generale, o perché sono specifici dell’ambito nel quale operiamo. Vi propongo di seguire un doppio approccio, top-down e bottom-up contemporaneamente: non procederemo, insomma, in modo sequenziale dal generale al particolare, né dal particolare al generale ma “a fisarmonica”. Prima di entrare però in medias res facciamo tre considerazioni. Innanzitutto è opportuno ricordare che gli effetti della cosiddetta “riforma” sono sotto i nostri occhi e sulla nostra pelle: quest’anno le cattedre sono state formate anche mettendo insieme quattro terze, quattro quarte, tre quinte, anziché una terza, una quarta e una quinta come si è sempre fatto, in ossequio a principi didattici ed epistemologici. La conseguenza è che molti insegnanti hanno perso la cattedra, alcuni ne hanno perso una porzione più o meno grande, gli studenti fanno meno ore di lezione perché spesso entrano alla seconda ora o escono un’ora prima. In secondo luogo, l’anno prossimo andrà in vigore la riduzione d’orario, nei licei a 30 ore e negli istituti tecnici a 32 ore, una mannaia che nella nostra scuola, nelle classi terminali, taglierà quattro ore alla settimana: qualcuno, che finora ha taciuto, dovrà decidere in quale modo. In terzo luogo, i documenti del riordino prevedono che con l’inizio del prossimo anno scolastico anche le seconde passerebbero al nuovo ordinamento, cioè gli studenti che oggi sono in prima e hanno scelto, per esempio, di diplomarsi come ragionieri programmatori, sarebbero costretti, loro malgrado, a seguire un percorso senza informatica.

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Alcuni principi

La prima cosa da chiarire è che questo riordino fa riferimento allo schema europeo delle qualifiche professionali (European Qualification Framework, EQF) e si appoggia ai quattro assi culturali previsti da Fioroni per il biennio, anch’essi desunti da orientamenti europei. L’EQF prevede 8 livelli di competenze (il diploma di scuola superiore sarebbe il quarto, l’IFTS sarebbe il quinto) e ogni paese dovrebbe definire un sistema di formazione che permetta di riconoscere e certificare le competenze in accordo con quei livelli. Il secondo punto che vogliamo sottolineare è il capovolgimento metodologico che il riordino prevede, invero per nulla facile da attuare: si tratta di passare dall’apprendimento delle discipline all’insegnamento per competenze. Il consiglio di classe dovrebbe individuare non più argomenti, unità didattiche o moduli da insegnare ma innanzitutto competenze; soltanto in un secondo momento si passerebbe a definire con quali argomenti, unità didattiche e discipline perseguire l’obiettivo fissato di fare acquisire quelle competenze (è bene anche tenere presente che non si usano più le tre parole magiche introdotte dalla riforma dell’esame di stato “conoscenze”, “competenze” e “capacità”, CCC, ma si parla di CAC, cioè “competenze”, “abilità”, “conoscenze”). Il terzo aspetto che vogliamo mettere in evidenza è la flessibilità. Flessibilità di un percorso di studio e di un profilo professionale vuol dire che l’istituzione scolastica, in accordo con la propria esperienza e con le esigenze mutevoli del territorio nel quale opera, ha facoltà di variare una quota importante del curricolo. In altre parole, flessibilità significa, per esempio, che il perito informatico diplomato tra qualche anno a Milano sarà probabilmente diverso da quello diplomato a Rende, ma sarà diverso anche da quello che si diplomerà tra quindici o venti anni a Milano, perché diverse saranno le esigenze del mondo del lavoro di quello stesso territorio e diverse saranno, vista la rapidità dello sviluppo tecnico-scientifico, le tecniche, i linguaggi, i contenuti. La flessibilità prevede che, per esempio, negli istituti tecnici la singola istituzione scolastica possa definire liberamente il 20% del curricolo nel primo biennio, il 30% nel secondo biennio, il 35% il quinto anno (si noti che il percorso non si articola più in biennio e triennio, ma in primo biennio, secondo biennio e quinto anno). Il quarto aspetto da rimarcare è la presenza nelle scuole tecniche del cosiddetto “comitato tecnico-scientifico”. Si tratta di un organo, forse ricalcato sull’esempio dei progetti IFTS, formato da personale della scuola e del mondo del lavoro, delle istituzioni, della ricerca che, a costo zero, dovrebbe orien28


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tare la scuola nella progettazione dei profili professionali e dei percorsi formativi. Quest’organo dovrebbe assumere un ruolo chiave in ogni istituzione scolastica, specialmente se si considerano il principio e le quote di flessibilità. Il comitato potrebbe entrare in conflitto con gli organi collegiali attualmente vigenti. Il quinto aspetto da tenere presente, apparentemente secondario, è il richiamo continuo al principio del “costo zero”, il riferimento a nuove discipline d’insegnamento, il rimando a nuove tabelle di corrispondenza tra titoli accademici e nuove classi di concorso, la promessa di una riforma dell’esame di stato. Insomma, quella che viene definita non una vera e propria riforma ma un semplice riordino, è, in verità, un terremoto vero e proprio. Intanto le scuole devono scendere in campo per fare l’orientamento nella scuola media inferiore, ma non si sa se in settembre il riordino riguarderà le prime e le seconde come annunciato, o soltanto le prime o, ancora, solo i tagli delle ore e del personale. Il sesto aspetto da considerare è che il Consiglio di Stato ha recentemente mosso molti rilievi ai documenti del riordino e ha chiesto chiarimenti al governo. Per esempio, il Consiglio di Stato trova discutibile che gli studenti, che quest’anno sono in prima, l’anno prossimo debbano cambiare percorso di studio, e che il Comitato tecnico scientifico debba operare gratis: in fondo la Costituzione prevede che il lavoro sia adeguatamente retribuito. 3.

L’impianto del riordino

Il riordino della scuola secondaria di secondo grado prevede scuole professionali, scuole tecniche e licei. Per alcune tipologie di scuole cambia soltanto l’approccio didattico e metodologico, ammesso che saranno capaci di capovolgere la frittata, passando dalla didattica delle discipline a quella delle competenze. Per altre scuole, come la nostra, le cose non saranno affatto semplici. Ma procediamo con ordine. Nei licei alcune novità sono il “liceo delle scienze umane”, il “liceo musicale e coreutico”, la presenza di opzioni: per esempio per il liceo scientifico è prevista l’opzione “scientifico-tecnologica”, in cui si insegna anche “informatica e automazione” da affidare soltanto agli ingegneri informatici o agli ingegneri elettronici. Il percorso dei licei deve “fornire allo studente strumenti culturali e metodologici per una comprensione approfondita della realtà, affinché si ponga, con atteggiamento razionale, creativo, progettuale e critico, di fronte alle situazioni, ai fenomeni, ai problemi…”. L’istruzione tecnica, invece, dovrebbe permettere allo studente di acquisire una “solida base culturale di carattere scientifico e tecnologico in linea 29


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con le indicazioni dell’Unione Europea, costruita attraverso lo studio, l’approfondimento e l’applicazione di linguaggi e metodologie di carattere generale e specifico…”. In ambito tecnico sono stati previsti due settori, quello “economico” e quello “tecnologico”. Il settore economico prevede due indirizzi, “turistico” e “amministrazione, finanza e marketing”, mentre quello tecnologico prevede nove indirizzi e diverse articolazioni. Per esempio, chi volesse studiare seriamente l’informatica e specializzarsi in questo campo dovrebbe scegliere l’indirizzo “informatica e telecomunicazione” del settore tecnologico e poi optare per l’articolazione “informatica” o per quella “telecomunicazioni”. Nell’ambito tecnologico si notano alcune novità interessanti: “meccanica” diventa “meccanica, meccatronica ed energia”, compaiono “trasporti e logistica”, “grafica e comunicazione” e “sistema moda”, al posto di “geometra” troviamo “costruzioni, ambiente e territorio”, “chimico” diventa “chimico, materiali e biotecnologie”, “informatico”, diventa “informatica e telecomunicazioni”. Da queste poche battute appare abbastanza evidente lo sforzo compiuto dagli esperti per a) definire un nuovo approccio metodologico al processo di insegnamento-apprendimento, b) tenere conto del cammino fatto dalla scienza e dalla tecnologia negli ultimi decenni (l’impianto complessivo è abbastanza fedele all’articolazione accademica delle discipline), c) prevedere quote di flessibilità per le singole istituzioni scolastiche al fine di fronteggiare le inevitabili esigenze formative di carattere territoriali o che si manifesteranno nel tempo, da soddisfare intervenendo su un insieme di variabili ambientali e tecnico-scientifiche (ciò permetterebbe, da quello che intuiamo senza scomodare Edgar Morin, di gestire la inevitabili differenze territoriali e la rapidità del cambiamento, in definitiva alcuni aspetti della “complessità” del nostro tempo). Vorremmo citare però a questo punto un ampio articolo di Ernesto Galli della Loggia, che prende le mosse dal nuovo insegnamento “Cittadinanza e costituzione”, apparso sul «Corriere della sera» dell’8 novembre 2009. Scrive l’articolista: «È per questa via che si compie il passaggio dalla scuola dei saperi, in cui si andava per apprendere qualcosa, a quella dove si compiono “percorsi formativi” e si “acquisiscono competenze”». In effetti il progetto di riordino prevede un “mosaico” di competenze in cui una tessera importante è data dalle cosiddette “competenze di cittadinanza”. Galli della Loggia scrive che «la Cultura, in quanto rivolta costitutivamente alla Bellezza e alla Verità, è in sé e per sé, in quanto tale, matrice decisiva di raffinamento etico e di crescita civile». Poi aggiunge: «Non si può più essere barbari una volta che si apra Virgilio o che ci si ponga a studiare l’algebra». In effetti, non basta “aprire Virgilio” e “porsi a studiare l’algebra”, occorre, come sostengono tutti coloro che hanno a cuore l’uomo e la sua educazione 30


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umanistica e scientifica, frequentare seriamente i classici e spaccarsi un poco la schiena con il latino, il greco, la filosofia, la grammatica, gli integrali, gli algoritmi, l’entropia, i modelli dell’atomo, la teoria dei sistemi, il principio di indeterminazione e la teoria della complessità. Galli della Loggia, però, proprio questo intende quando scrive in buona sostanza che non si può promuovere la cittadinanza senza contenuti culturali; caso mai proprio i contenuti culturali seri e profondi, e l’impegno assiduo e prolungato per acquisirli, anche senza dichiararlo a priori, permettono di promuovere la “cittadinanza”; proprio i contenuti culturali, l’impegno, la responsabilità e la ginnastica intellettuale continua, fanno acquisire i metodi veicolati insieme ai contenuti; contenuti culturali e metodi ad essi legati, in definitiva, permetteranno, poi, di “apprendere” saperi nuovi, non il generico “apprendere ad apprendere” sganciato dalla tradizione della cultura umanistica e scientifica. 4.

Ragioneria e informatica

Il riordino sembra prendere atto che l’esperienza di ibridazione tra ragioneria e informatica avviata alla fine degli anni Settanta-inizi anni Ottanta non abbia prodotto i risultati sperati o non sia più necessaria o sostenibile. In effetti, nel settore economico, secondo la riforma, gli studenti studierebbero informatica soltanto per due ore alla settimana in prima, in seconda, in terza e in quarta, unicamente nell’indirizzo “amministrazione, finanza e marketing”, mentre oggi all’indirizzo “programmatore mercurio” studiano informatica cinque ore in terza, cinque in quarta e sei in quinta (oltre alle tre ore di “trattamento testi” in prima e tre in seconda, che se non è informatica è pur sempre uso del computer). Non avrebbero più la possibilità di misurarsi con questa importante disciplina agli esami di stato. Forse il governo ha ragioni per ritenere che l’informatica sia diventata una scienza troppo vasta e profonda per poter essere affrontata bene in collegamento con le discipline aziendali. Vero è che negli ultimi due decenni si è creata una grandissima confusione nella testa di genitori, studenti e non pochi insegnanti e presidi: quando si parla di “informatica” si pensa all’uso del computer come se prendere la patente di guida significasse essere capaci di diagnosticare un guasto e riparare il motore o progettare e costruire le automobili! A pochi viene in mente che una cosa è praticare la videoscrittura e usare la posta elettronica, altra è progettare e sviluppare sistemi software e basi di dati. Pochi sanno che la capacità di astrazione richiesta per ragionare in termini di algoritmi, modelli o di programmazione orientata agli oggetti è analoga, anche se di natura diversa, alla capacità richiesta per diventare un cantante lirico o un campione di calcio, capacità che non tutti posseggono (per comprendere occorrerebbe avere 31


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almeno dimestichezza con il modello delle intelligenze multiple di Howard Gardner). Comunque, con il riordino, gli studenti che l’anno scorso frequentavano la terza media e hanno scelto di diventare ragionieri programmatori l’anno prossimo avranno una bella sorpresa. Durante la primavera scorsa ci siamo messi in contatto con l’istituto “Tambosi” di Trento, che al tempo della Moratti ha ottenuto una sperimentazione per il “Liceo informatico-gestionale”; ebbene, in questi anni il profilo professionale ha avuto molto successo ma oggi l’istituto deve rinunciare a quell’esperienza perché deve lavorare per “amministrazione, finanza e marketing”, senza informatica. La preside in questi giorni mi ha detto che hanno costituito una commissione con il comune e la provincia per studiare le possibilità che la tabella di confluenza offre. Invero, la bozza di giugno scorso di detta tabella offrirebbe la possibilità alle ragionerie che hanno l’indirizzo programmatori di attivare anche l’“istituto tecnologico” con indirizzo “informatica e telecomunicazione”. Questo però non ci sembra praticabile automaticamente in considerazione della forte valenza tecnologica di questo tipo di scuola, del fatto che già nel primo biennio si dovrebbero offrire insegnamenti che non esistono alla ragioneria, come “Tecnologia e tecniche delle rappresentazioni grafiche”, si rischierebbe di trovarsi con un tecnologico in ogni ragioneria. Inoltre, ci è giunta la notizia che i presidi degli istituti tecnici dell’Umbria hanno chiesto al ministero di cancellare la possibilità, teorica, che una ragioneria programmatori possa diventare anche tecnologico, e di prevedere l’articolazione “Informatica gestionale” dell’indirizzo “amministrazione, finanza e marketing” per il settore economico, e cioè esattamente, se si prescinde dal fatto che si chiama “liceo”, ciò che da alcuni anni hanno al “Tambosi” di Trento. La preside dell’ITC “A. Capitini-V. Emanuele II” di Perugia, da noi interpellata su questo punto, mi ha detto che da un incontro avuto al ministero giorno 4 dicembre ha ricevuto la rassicurazione circa la richiesta di prevedere due articolazioni per il settore economico, indirizzo “amministrazione, finanza e marketing”. Le due articolazioni potrebbero essere denominate così: “relazioni internazionali” e “sistemi informativi gestionali” (probabilmente in gennaio avremo la pubblicazione in Gazzetta ufficiale dei documenti, l’avvio del processo di riordino potrebbe essere confermato per settembre 2010, forse soltanto con le prime classi). 5.

Rende e il “Cosentino”

Noi già al tempo della riforma Moratti, le cui linee guida vengono riprese dall’attuale riordino, avevamo notato che gli studenti dell’area urbana Co32


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senza-Rende e suo hinterland, un territorio con circa 200, 250.000 abitanti, a seguito di quelle innovazioni, avrebbero potuto studiare l’informatica soltanto all’istituto “Monaco” di Cosenza, mentre col sistema previgente oltre che al “Monaco” potevano scegliere il “Cosentino”, il “Pezzullo”, il “Serra”. Oggi la situazione è quasi identica. Ci chiediamo: la città di Rende può correre il rischio di vedere sparire la tecnologia innovativa per definizione dalle aule del suo territorio? Al tempo della riforma Moratti avevamo presentato una petizione al collegio dei docenti perché, nell’eventualità che l’innovazione fosse andata in porto, presso il “Cosentino” si attivasse, oltre al liceo economico (senza informatica), anche il liceo tecnologico a indirizzo “informatico, grafico e comunicazione”. Il collegio approvò, ma poi non se ne fece nulla perché Fioroni bloccò la riforma Moratti. Oggi la situazione è peggiore perché già quest’anno abbiamo soltanto quattro prime, contro le sei o sette del passato e quando le famiglie scopriranno che la ragioneria non ha più l’informatica, le classi prime potrebbero diventare tre o due. Un collega mi ha detto che alcune famiglie, forse quelle più informate, nei mesi scorsi hanno ritirato i propri ragazzi dal “Pezzullo”, magari per iscriverli a un liceo dove la situazione appare meno incerta che alla ragioneria. Noi crediamo che la soluzione dell’articolazione dell’indirizzo “amministrazione, finanza e marketing” in “informatico-gestionale”, secondo l’esperienza del “Tambosi” di Trento e secondo la richiesta dei presidi dell’Umbria, o in “sistemi informativi aziendali o gestionali” sarebbe una bella soluzione per l’ITC “Cosentino” e per la città di Rende, ma, nella malaugurata prospettiva di vedere sparire l’informatica, il “Cosentino” dovrebbe compiere tutti i passi necessari per ottenere, oltre all’istituto economico “amministrazione, finanza e marketing”, anche l’istituto tecnologico “informatica e telecomunicazioni”, articolazione “informatica”. Questo andrebbe fatto subito, costituendo, se non un comitato tecnico scientifico, almeno una commissione di studio che rediga un progetto. Questioni scottanti 1. Quanto è amico dell’uomo un sistema scolastico che pone l’enfasi sull’istruzione e sulle competenze al servizio del business, anziché sulla persona? 2. Giuseppe Limone, studioso di filosofia del diritto, ha scritto che la scuola non è un ente nel quale si possa applicare e far trionfare la logica d’impresa, ma neppure un servizio pubblico alla stregua della sicurezza o della sanità, ovviamente importantissimi in un paese moderno, ma la scuola è una funzione della repubblica, forse come il parlamento. Per questo, secondo 33


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Limone, le risorse da assegnare alla scuola pubblica non possono essere lasciate all’arbitrio del governo di turno, ma dovrebbero essere previste, almeno in termini percentuali, per esempio del PIL, nella carta costituzionale. Quanto siamo distanti noi italiani dal modello di società e di scuola prospettato da Limone, visto che pretendiamo di fare una riforma del sistema scolastico, già asfittico, tagliando indiscriminatamente le risorse?

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Fare cultura ed educare: un punto di vista biblico (Appunti dell’incontro di SOS scuola del 16.02.2010 con p. Pino Stancari s.j.) Riguardo a questo tema c’è di mezzo la Sacra Scrittura, che è una biblioteca intera (ta biblia). Il fatto stesso che esiste la Bibbia è una operazione culturale. C’è un fare cultura. Il punto di vista è già determinato da un modo di fare cultura. Bisogna sempre tener conto che si parla di una storia, quando si parla della Bibbia. A volte si rischia di trasformare la Bibbia in una raccolta di sentenze, un compendio dottrinario. Ma la Bibbia è inseparabile da una storia. È una storia che ha illuminato e prodotto un certo punto di vista. Fare cultura è stare nella storia, e così la Bibbia sta nella storia. Altri due elementi sono da tenere presenti: un popolo e una terra. La Bibbia riguarda una storia che coinvolge un popolo e per la quale c’è di mezzo una terra. È una storia vera, fatta di generazioni, di personaggi, di tutta una serie di elementi che assumono, nella storia di quel popolo, un rilievo particolare. È la storia di un popolo in rapporto alla sua terra, la storia di un popolo che ci offre il suo libro. Fare cultura da un punto di vista biblico significa stare nella storia. C’è chi ha scoperto di avere a che fare con la Parola, che rappresenta una presenza operosa, energica (tanto che a volte viene tradotta con “fatti” l’espressione “parola”). La Parola è la presenza libera e gratuita che si manifesta come protagonista di un’iniziativa. È la presenza che avanza, che chiama, che instaura una relazione: è il Mistero, a cui poi vengono assegnati dei nomi, si chiama Dio. La Parola è protagonista della storia. E stare nella storia significa fare i conti con una parola che ti interpella, che ti investe con tutta la sua inesauribile novità. Nel Nuovo Testamento la Parola si fa carne. Quella Parola ci interpella nella nostra esperienza di creature. Stare nella storia diventa stare nella rivelazione di un disegno che porta in sé la gratuità di un’economia nella quale tutto ci è donato, sempre e comunque. Siamo di fronte all’epifania della bellezza e del dono. Nel salmo 114 (Quando Israele uscì dall’Egitto, / la casa di Giacobbe da un popolo barbaro, / Giuda divenne il suo santuario, / Israele il suo dominio) viene rievocata l’uscita dall’Egitto. L’Egitto ci viene presentato non come un’entità geografica, ma come un’identità linguistica. L’uscita dall’Egitto è un’operazione di discernimento culturale e linguistico. 35


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La Parola di Dio si è presentata in modo tale da insegnare un altro linguaggio, non quello barbaro che si parla in Egitto. C’è un passaggio nel discernimento in grado di individuare la barbarie egiziaca. L’Egitto è il mondo nel quale la gestione dell’insieme è impostata in rapporto alla capacità di rendersi complici del negativo. Questa lingua barbara viene abbandonata. La storia del popolo viene condotta nell’apprendimento di un’altra lingua nella quale la complicità con il male non è più lo strumento per gestire il mondo. C’è chi ha imparato a stare nella storia in polemica con la lingua dell’Egitto. C’è da stare nella storia ascoltando una Parola che non è quella parlata in Egitto. Secondo passaggio: la terra. Il salmo 87 è un salmo che guarda Gerusalemme: la città che sta nella terra. Il popolo assume una fisionomia interiore sempre più originale. Quello che accade a quel popolo raccoglie tutta l’umanità. C’è un modo di far cultura nella Bibbia per cui il popolo scopre di portare in sé tutta l’umanità. Ciascuno scopre di portare in sé una responsabilità universale. Nel salmo in questione c’è una processione che si avvicina a Gerusalemme. Al v. 4 (Iscriverò Raab e Babilonia / fra quelli che mi riconoscono; / ecco Filistea, Tiro ed Etiopia: / là costui è nato. / Si dirà di Sion: / “L’uno e l’altro in essa sono nati / e lui, l’Altissimo, la mantiene salda”) sembra che Gerusalemme stia borbottando qualcosa: sta ripetendo i nomi dei popoli con i quali ha avuto a che fare. V. 5: questi uomini sono nati in giro per il mondo, ma Gerusalemme è madre, è madre di tutti i popoli. Gerusalemme è una madre che genera dei fratelli per me. Mia madre genera per me il mondo in un orizzonte di fraternità. Terzo passaggio: Gesù il maestro. La Parola si è fatta carne: è Gesù, il maestro. Tutta la catechesi evangelica ci parla di Gesù che è maestro non perché dice delle belle cose, ma per la sua risolutezza, la sua intransigenza con cui è attivo per ottenere il riscontro dal cuore umano. Gesù è maestro perché si prende a cuore il problema di vincere la durezza del cuore umano. Questo è un modo di ripensare all’educazione che diventa elemento della pedagogia della Chiesa. La pedagogia educa in quanto ausculta la recettività del cuore umano. È una pedagogia che non vale perché è valente il maestro, ma perché il maestro si prende cura dei discepoli che sono sordi, ciechi, duri di cuore. 36


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Lettera ai Filippesi: Paolo scrive questa lettera quando non ha niente di particolare da dire. Allora parla dei sentimenti. Cristo ha insegnato perché ha aperto il cuore. Paolo dice: com’è che l’andamento della vita affettiva ha preso questa novità per cui noi comunichiamo anche se siamo così lontani? C’è un sentimento fondamentale, la tapeinofrosune (il sentimento della piccolezza): è quel sentimento grazie al quale riusciamo a cogliere la presenza di un dono sempre e comunque. Di fronte a questo dono io sono debitore. Al v. 8 (umiliò se stesso / facendosi obbediente fino alla morte / e a una morte di croce) leggiamo: si è fatto piccolo, cioè ha accolto tutto come dono. Perciò è Signore. Dibattito Cosimo: mi chiedo: di che operazione culturale ha bisogno il mondo? Alfio: nella scuola il punto di vista biblico è completamente assente. La pedagogia deriva dalla rivoluzione francese. Forse è necessario tornare alla dimensione della fede. Rosa: il mondo si è formato così e così è andato avanti. Perché questi valori (libertà, fratellanza, uguaglianza) sono stati portati avanti come fondamentali e dove è nato il fraintendimento? P. Pino: siamo ancora in Egitto. Tutta la “barca” dei diritti soggettivi, pure giusti, sono diventati un marchingegno infernale. Come se il singolo fosse fuori da una storia, da una relazione, da un dono ricevuto. Pia: l’apertura del cuore può essere la capacità di uscire dall’Egitto da trasmettere agli alunni. Vittorio: il cuore nuovo può filtrare tutto e purificarlo. Ercolino: il dono e il prendersi cura dell’altro sono dimensioni spesso negate. Combattere questa cultura è arduo. America: nel nostro lavoro ci confrontiamo continuamente con i problemi dell’educazione. Prendersi cura di una persona è difficile perché spesso i ragazzi non vengono a scuola per essere guidati, per essere presi a carico. Sembra proprio che non vogliano essere guidati perché non hanno esigenze. Gabriella: un aspetto che tocca tutti è l’instaurarsi di una relazione e c’è un modello che funziona in modo da raccogliere quello che è diverso e trovare un linguaggio per comprendersi. C’è una grande domanda di riconoscimento per cui è necessario costituire una presenza disponibile all’accoglienza. Rosamaria: i figli sanno riconoscere chi ascoltano i propri genitori. Due punti sono fondamentali: l’ascolto della Parola e la testimonianza di vita. 37


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Cosimo: l’uomo ha creato un mostro di fronte al quale si sente schiacciato. Rosa: quello che testimonio mi torna nella misura in cui investo nel rapporto con i ragazzi. In una delle classi dove insegno è arrivato un gruppetto di allievi cinesi. I cinesi hanno costituito “elemento di disturbo” all’interno del gruppo classe. Spero di riuscire a ricostituire il gruppo. Chiara: anche quest’anno, a Corigliano, sperimento, ancora una volta, il valore della relazione con i ragazzi. Nella misura in cui sono disponibile a “prendermi cura”, per quello che è possibile, i ragazzi lo avvertono e reagiscono positivamente, anche sul piano dell’impegno nella studio delle singole discipline. Tommaso: sono rimasto colpito dal fatto che la Bibbia sia un prodotto culturale e che anche l’uscita dall’Egitto sia una operazione culturale. A volte temo che lavoriamo per promuovere la barbarie. Questioni scottanti 1. Sembrerebbe che il popolo ebraico abbia chiara la propria peculiarità nel mondo proprio per quanto riguarda il rapporto con un Mistero e con la Parola che da esso è stata ricevuta. Questo varrebbe sia per gli ebrei osservanti che per gli ebrei più tiepidi riguardo alla fede. I cristiani, che si innestano sul tronco della fede ebraica, invece, sembrano non avere altrettanto chiaro il rapporto imprescindibile dell’uomo con il Mistero, comunque lo si voglia chiamare. Non era legittima la proposta di inserire il riferimento anche alle radici ebraico-cristiane nella “costituzione” europea?

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Intervista di Vittorio Sammarco a Biagio Politano, ITC “Cosentino”, 17 aprile 2010 (Incontro organizzato in collaborazione con la Diocesi di Cosenza; appunti a cura di Rosalinda Cofone e Alice Tenuta, V A mercurio) Vorrei partire dalla sua esperienza. Da quanto tempo svolge il suo difficile lavoro? Qual è il suo compito? Dopo gli studi ho fatto l’avvocato, poi ho fatto il giudice civile. Sono un giudice penale dal 2005. Mi occupo principalmente del maxiprocesso “Missing” che coinvolge 50 persone per 35 omicidi avvenuti intorno al 1978. In futuro lavorerò alla Corte d’Appello di Catanzaro. Qual è la situazione attuale della legalità nel nostro paese, e principalmente nella Calabria? La criminalità organizzata è un fenomeno altamente diffuso nel meridione e che presenta realtà spesso contrastanti. Prendiamo in esempio la città di Reggio Calabria; essa è il fulcro della ’ndrangheta. Nella provincia di Cosenza la criminalità è meno radicata rispetto a Reggio. Non sono presenti infatti legami parentali tra i componenti della mafia per la salvaguardia e la continuità della stessa. Nella zona ionica invece, sono presenti nuclei di Rom che hanno assunto il controllo dell’economia e quindi dello sviluppo di quelle zone. La differenza sostanziale della diffusione territoriale della ‘ndrangheta nelle zone della Calabria, implica applicazioni di regole diverse. A Cosenza, infatti, non si prevede che i Rom facciano parte della ’ndrangheta, poiché questi ultimi non hanno regole e quindi sono potenzialmente pericolosi in quanto più aggressivi e difficili da gestire. In passato la nostra città è sempre stata preda della criminalità. Basta citare via Panebianco, Cosenza Vecchia, via Degli Stadi, via Popilia, che sono state aree con cellule delinquenziali organizzate che controllavano il territorio delimitando il perimetro della città” Dottore, ma come si fa a recuperare terreno nel rispetto della legalità in un paese come il nostro dove lo slogan principale è “ma tanto così fan tutti”? Voi ragazzi che vi avviate a entrare nel mondo del lavoro dovete capire che il mercato non ha meccanismi propriamente legali. Il problema infatti è la società. La Pubblica Amministrazione purtroppo non è efficiente ed è fondamentalmente su questa piaga che si è costruita la forza della criminalità organizzata. È necessario capire che qualsiasi gesto che viene compiuto da ognu39


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no di noi ha una ripercussione violenta su tutti, e che se qualcosa è andata storta la responsabilità è principalmente nostra. Secondo lei, dove il nostro paese è deficitario nella formazione delle coscienze per il rispetto delle norme giuridiche? La società di oggi vive le regole come una morale da rispettare ma se non c’è un sistema condiviso di valori su cui basare le regole esse non hanno alcun senso. Un ex presidente della corte Costituzionale afferma che la democrazia per sostenersi ha bisogno dell’etica. È importante provare amore per la propria terra, per il rispetto di noi stessi e le persone che ci circondano; se non ci sono regole ci sarà sempre qualcuno che prevaricherà sugli altri. Ci vuole responsabilità: le cose non cambieranno se prima non cambiamo noi. Il contesto culturale in cui viviamo è segnato da un individualismo esasperato, in cui non si riesce a far emergere un sistema di valori condiviso. Noi tutti abbiamo fallito perché non siamo riusciti ad avere la passione per il sacrificio. Questo è il maggior deficit dell’Italia rispetto alla legalità. In che modo ognuno di noi può contribuire a danneggiare il prossimo? Faccio soltanto un esempio: se uno compra una ‘canna’, spende dieci euro. Se cento persone comprano una canna, i trafficanti incassano mille euro e possono comprare eroina. L’eroina viene spacciata a prezzi ben più elevati di dieci euro a grammo, e ciò innesca un processo di accrescimento dei profitti illeciti. Questi vengono investiti negli appalti pubblici e il circolo vizioso non si ferma più. Quando sono uscite le pay tv a Cosenza le carte erano tutte taroccate: questo innesca un circuito vizioso, un’abitudine perversa. Quando voi, andando al mare, sorpassate alla discesa di Paola in condizione di pericolo, state esercitando una prepotenza. Quando vi fate raccomandare per ottenere un posto, innescate un circolo vizioso che si ripercuote sulla società. Insisto sulla questione del sacrificio: dovete crescere con una mentalità sana, con il senso della responsabilità, con lo spirito dell’impegno e del lavoro duro, della conquista personale. Roberto Saviano, scrittore napoletano e autore del best seller Gomorra, sostiene, a rischio della sua incolumità, che con la parola si può cambiare la realtà. È vero quanto affermato? Penso che se non ci teniamo attaccati alla speranza siamo destinati tutti a soccombere. Le parole sono importanti perché esse trasmettono esperienza, emozioni, sensazioni; ciò costruisce relazioni, sviluppa solidarietà e comunità: bisogna capire che nessuno è indispensabile ma tutti siamo necessari.

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Dibattito seguito all’intervista di Vittorio Sammarco a Biagio Politano Dottore Politano, cosa l’ha spinta a svolgere la carriera di giudice? La mia formazione personale è nutrita dall’attenzione al bene comune. Volevo occuparmi di chi mi sta vicino. All’età di 18 anni avrei voluto dare una vita diversa alla mia terra, pensavo che le cose potessero cambiare ed è proprio questo che mi ha spinto a intraprendere la carriera di magistrato. Non prova frustrazione pensando che una persona da lei giustamente condannata possa ritornare presto in libertà? No, questo è un problema che non mi riguarda. Ho paura, invece, del silenzio della Camera di Consiglio, cioè del carico di responsabilità di decidere sulla vita di una persona. Il mio non è un ‘potere’, ma una funzione piuttosto complicata. La mia preoccupazione è quella di non commettere errori per non rovinare la vita delle persone. Molti studenti di quest’istituto scelgono la facoltà di giurisprudenza. Che possibilità concrete ci sono per noi di fare carriera come avvocati o come magistrati? Per fortuna oggi voi potete studiare nella nostra terra, e questo è un vantaggio. Una volta laureati però le cose non sono semplici. Alcuni anni fa a Cosenza c’era un avvocato in ogni palazzo, oggi ce n’è forse uno per ogni pianerottolo, domani ce ne sarà uno per ogni famiglia. Questo tra l’altro fa aumentare la conflittualità e fa che i giovani avvocati siano sottopagati. Certo, per i professionisti bravi le possibilità restano alte. Le condizioni generali per l’educazione alla cittadinanza sono migliorate o peggiorate negli ultimi venti anni in Italia? Sono peggiorate. Quando giudichiamo i ‘colletti bianchi’, di solito ci sentiamo chiedere: ‘Perché proprio io?’. E se tu chiedi: ‘Ma tu i duecentomila euro li hai presi o no?’, la risposta è: ‘Ma tutti fanno così, perché io? C’è un complotto contro di me’. Capite: la gente ruba e ritiene legittimo farlo. Chi sa perché? Questo fino a venti anni fa non succedeva. Lei ha spiegato che la presenza dei Rom nella parte ionica della regione crea particolari problemi. Perché non riusciamo ad integrare i Rom? Il problema è complesso. Non dobbiamo confondere i Rom con gli immigrati, e nemmeno con i rumeni. I rumeni che vivono in Italia sono immigrati ma cittadini europei. I Rom non hanno la cultura dell’integrazione. Vedete che occorre sempre studiare per distinguere e non fare confusione. I Rom preferiscono vivere da nomadi e accamparsi dove capita. Non bisogna però credere che le loro abitazioni nelle baraccopoli siano squallide, anzi sono spesso molto pulite e curate. 41


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Lei ci ha parlato di regole. Noi abbiamo il regolamento d’istituto che prevede tot assemblee, tot giorni di preavviso prima di un compito, tot di questo, tot di quello. Spesso però il regolamento viene violato. Che cosa dovremmo fare? Dovreste chiedere ragione a chi lo viola. Dovreste, regolamento alla mano, far valere le vostre ragioni nei consigli di classe, con i docenti, nel consiglio d’istituto, con il dirigente. Voi direte che è faticoso; sì, è faticoso. Così si esercita però la cittadinanza. La vita non è una passeggiata e nemmeno bere un bicchiere d’acqua fresca. Se lo stato applicasse la pena di morte ci sarebbe più legalità? La pena di morte non ha alcun valore deterrente e quindi non produce maggior legalità. Al di là dei miei convincimenti personali, la costituzione vieta la pena di morte e per me essa è la prima legge da rispettare. Il fenomeno della corruzione dei ‘colletti bianchi’ è più grave al Sud o al Nord? Da noi se molti evadono l’IVA o speculano in qualche modo possono truffare per qualche migliaio di euro. Se poi sono tanti possono arrivare a centinaia di migliaia di euro. Al Nord anche se sono pochi i disonesti, data la diversa struttura economica, possono totalizzare facilmente cifre di milioni di euro. Questioni scottanti 1. Nel primo articolo della nostra Costituzione leggiamo, tra l’altro, che “la sovranità appartiene al popolo”. Un popolo è sovrano però solo quando i cittadini sono maturi, responsabili, capaci, competenti, informati, liberi. Ora, a parte le limitazioni della sovranità nazionale accettate dai nostri governanti in forza della seconda parte dell’articolo 11, e non sempre in linea con il resto della Costituzione, il cittadino italiano, tra disoccupazione e precarietà del lavoro, tra sistemi informativi soporiferi e mafie di ogni specie, tra complessità del mondo e rapidità del cambiamento, quali margini ha per esercitare una cittadinanza attiva genuina? 2. Il testo della Costituzione italiana, dopo essere stato redatto dai padri costituenti, e prima di essere adottato il 22 dicembre 1947 dall’Assemblea costituente, è stato affidato a uno scrittore e giornalista, Pietro Pancrazi, perché lo vagliasse dal punto di vista linguistico. Alcune modifiche sono state accolte, altre sono state rifiutate dall’Assemblea. Nel complesso però il testo della nostra Carta costituzionale è semplice, leggibile, comprensibile. Oggi accade spesso di leggere circolari e decreti confusi e oscuri; 42


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dai giornali apprendiamo che ai concorsi per magistrato i candidati commettono errori di italiano orripilanti; il dibattito sulle riforme porta in casa della gente comune le soluzioni pi첫 fantasiose o astruse. Quale cultura giuridica stiamo producendo in Italia in questi ultimi anni?

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Informatica, computer science o tecnologia della comunicazione? È una questione di cultura (Appunti di Enrico Vena per l’incontro di SOS scuola del 20 aprile 2010) Argomenti dell’incontro: Dalla risoluzione automatica dei problemi all'elaborazione e comunicazione dell'informazione: mezzi, metodi, strumenti. Dall’elaborazione dell'informazione alla contaminazione di ogni dominio di conoscenza: wikipedia, e-book, social network.

Elaborazione di dati e informazioni multimediali

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I sistemi per il commercio elettronico

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Trasmissione aggregata e correlata

Web & Mobile: learning, communication, marketing

Edutainment: forma di intrattenimento finalizzata sia ad educare sia a divertire. Blended learning: modalità di erogazione di percorsi formativi che integra e-learning e formazione d’aula 46


Bollettino n . 5

WEB 2.0 Enciclopedie elettroniche - Servizi di e-Learning – Quotidiani on-line & e-book - DSS: sistemi di supporto alle decisioni

Enciclopedie elettroniche

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e-Government & e-Procurement Servizi di e-Learning

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Bollettino n . 5

Quotidiani on-line & e-book

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DSS: I sistemi di supporto alle decisioni

Dibattito Pia: si ha paura, pensando ai passi fatti dalla tecnologia, ma ancor di più se ne ha pensando agli scenari che si apriranno in futuro. Mi viene rabbia quando in banca o alla posta si blocca tutto perché il sistema è in avaria: non si può fare niente. Mi chiedo spesso se tutte queste trasformazioni siano indispensabili; se, per esempio, sia indispensabile comprare tramite Internet; è così bello andare per librerie a cercare libri! Cosimo: forse non è indispensabile, ma può essere comodo o utile. Se tu compri libri italiani vai per librerie e puoi aprire, gustare, annusare, ma se a me serve un libro in lingua originale francese o pubblicato in America, la cosa migliore è comprarlo tramite Internet. Tommaso: questo è soltanto un aspetto del problema, ciò che si osserva dal lato del cliente-consumatore, ma c’è da considerare un altro punto di vista. Le aziende, tramite Internet, perseguono diverse finalità. Per esempio, 50


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esse da una parte abbattono i costi di produzione e distribuzione, eliminando o riducendo al minimo le strutture e il personale, e dall’altra raggiungono un mercato potenzialmente vasto quanto il mondo intero. Questi sono motivi più che validi perché esse vadano avanti nella direzione dell’automazione e della virtualizzazione dei processi. Quando, poi, poniamo tra venti anni, i libri verranno distribuiti esclusivamente come e-book, chi vuol comprare potrà farlo soltanto con quella modalità. Ricordate che quando sono usciti i telefoni cellulari, tutti noi eravamo abituati a usare le cabine telefoniche? Sono bastati pochi lustri per vedere sparire le cabine. Pia: vuoi mettere il libro elettronico con quello di carta? Io trovo molto scomodo e faticoso leggere al computer. Enrico: non si tratta di leggere al computer. Sono già disponibili dei dispositivi elettronici, detti e-book reader, leggeri e maneggevoli, che permettono la lettura gradevole come sulla carta. Questi dispositivi si possono portare a letto o sulla spiaggia come il libro di carta. Enrico: sappiate che è anche rischioso comprare in Internet o gestire il conto on-line. I malviventi spesso clonano il sito delle poste o delle banche al solo scopo di carpire i nostri dati. In un secondo momento, in possesso della nostra identità, indisturbati, possono fare quello che vogliono. Alessandro: lei ha parlato più volte di spazi a più di tre dimensioni, ma che cosa è uno spazio a quattro o a cinque dimensioni? Enrico: noi viviamo in uno spazio a tre dimensioni e perciò troviamo difficile immaginarne e ancor di più fare rappresentazioni in uno a sette o a otto. Ma, per esempio, se tu vuoi individuare un aereo che si muove nello spazio, hai bisogno delle coordinate x, y, z per individuare il punto esatto dove si trova in un certo istante; se poi consideriamo l’istante esatto in cui si trova in quel punto, abbiamo la dimensione tempo, e sono quattro; se poi vogliamo sapere a quale velocità si muoveva, serve una quinta variabile, e così per l’accelerazione, ecc. Enrico Porta: quante dimensioni ha il codice fiscale? Il nome, il cognome, il luogo di nascita, la data di nascita… Sono tutte variabili che concorrono a definire il codice fiscale, perciò sono dimensioni diverse. Tommaso: agli albori dell’informatica, mentre nel mondo anglosassone si parlava di computer science, cioè di scienza dei computer, dei calcolatori, i cugini francesi hanno inventato un vocabolario ad hoc, preferendo parlare di informatique, ordinateur, logiciel. Visti i recenti sviluppi per l’utente, si sarebbe indotti a pensare che, mettendo al centro l’idea di ”informazione” anziché quella di elaborazione dei dati sottesa al concetto di computer, i francesi, e i latini in genere, siano stati più lungimiranti degli anglosassoni. Tuttavia, se si guarda alle modalità scientifiche e tecniche attraverso le quali i compu51


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ter offrono servizi informativi e culturali agli utenti, come tu stasera in parte ci hai permesso di guardare, ci si rende conto che l’informatica è sempre “computer science”. È così? Enrico: quando agli inizi degli anni Novanta ho fatto la tesi sul calcolo parallelo, mi chiedevo e mi chiedevano a che cosa sarebbe servita quella conoscenza specialistica. Oggi il modo utilizzato dai browser del web per costruire e presentare una risposta a un utente si basa sui concetti del calcolo parallelo. Come vedi, l’utente chiede cose abbastanza semplici (magari informazioni, per dirla con i francesi), ma per rispondere in modo efficace ed efficiente alle risposte semplici dell’utente, i tecnici (programmatori, progettisti, sistemisti) devono escogitare soluzioni capaci di governare una complessità crescente. Tommaso: che cosa dà l’informatica a un giovane che altre discipline non gli danno, al di là della possibilità di vivere in un mondo dinamico e stimolante, e forse guadagnare bene? In altre parole, al di là dell’addestramento all’uso di una macchina, quale funzione ha l’informatica nel piano di formazione dei giovani? Che cosa ha dato a te come uomo l’informatica? Enrico: il vantaggio immediato è che io posso lavorare anche per conto di ditte giapponesi, stando a casa, qui in Calabria. Il rovescio della medaglia è che questo mondo virtuale e de-materializzato può farti perdere il contatto con la realtà. Un altro problema è che si è condannati all’innovazione perpetua. (Enrico non l’ha detto, ma noi abbiamo buoni motivi per ritenere che la capacità di analisi e di sintesi, raffinata quanto quella di un ottimo filosofo, che applica anche nei suoi ragionamenti comuni di politica o di economia, egli l’abbia sviluppata grazie alla lunga ginnastica mentale fatta con algoritmi, programmazione logica e orientata agli oggetti, e con i processi di astrazione messi in atto progettando sistemi informatici complessi). Cosimo: noi siamo affezionati all’idea di uomo dotato di un corpo e di una mente. Chi ci dice che non possa esistere un altro modello di uomo, quello del futuro, nel quale il rapporto tra corpo e mente sia a favore di quest’ultima, cioè un uomo virtuale? Noi tutti, anche i più avanzati tecnologicamente, vediamo con terrore quello che i nostri figli possono fare tra trenta o quaranta anni, crescendo con videogiochi o sistemi virtuali: ma, lo ripeto, perché spaventarsi, non potrebbe essere una normale evoluzione della specie? Iole: io vedo che siamo tutti spiati, forse siamo già andati oltre Orwell.

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Questioni scottanti 1. La conoscenza e il progresso scientifico e tecnico, secondo molti miti, vengono conseguiti dall’uomo grazie a un suo gesto di ribellione contro Dio. In questo senso, il mito di Prometeo che strappa il fuoco agli dei per donarlo agli uomini, e il racconto della caduta di Adamo nel giardino di Eden, sono due esempi eloquenti. Dobbiamo credere che il progresso tecnico, scientifico, filosofico, linguistico sia possibile soltanto attraverso atti di disobbedienza? In quali casi la ricerca della conoscenza è benedetta da Dio? 2. La scienza e la tecnica appaiono inscindibili dal processo storico e dalla vita dell’uomo perché, in quanto custode attivo del creato, stando alla parte nota della storia dell’umanità, egli trova opportuno studiare per conoscere il mondo nel quale vive, naturale concepire visioni e progetti, conveniente realizzare apparati e sistemi. Negli ultimi decenni, tuttavia, molte persone manifestano preoccupazione per i pericoli che sarebbero insiti nell’attività di ricerca e sviluppo svolta da scienziati, ingegneri, biologi. Riteniamo che siano fantasie campate per aria di persone retrive? Che cosa c’è di nuovo che oggi fa apparire a molti disumane la scienza e la tecnica? Se c’è, quando è emersa nella storia questa novità?

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Fare cultura ed educare. Alcune idee per fare centro Incontro-dibattito con Silvano Petrosino alla presenza degli studenti a partire dal suo libro La scena umana (appunti di Antonino Barone e di Federica Chiappetta)

I parte: intervista di Tommaso Cariati Prof. Petrosino, lei insegna Teoria della comunicazione e Filosofia morale. Non le pare una perdita di tempo? Nel mondo contemporaneo sembra che la comunicazione si debba soprattutto praticare. Non parliamo poi della “Filosofia morale”, un’accoppiata che ai più appare indigesta. Insomma, ci sono studenti che si interessano a queste cose? Che cosa si impara ai suoi corsi? A volte mi sembra una perdita di tempo. Questa è un’impressione strana, ma spesso leggendo un libro mi chiedo come per la maggior parte delle persone queste cose non siano importanti. Spesso gli studenti che incontro durante le mie conferenze o i miei corsi sui diversi autori, mi ringraziano e fanno bene a dire grazie perché quando si parla di morale generalmente essa viene intesa come “la forma del no o del divieto”, ciò è un modo deprimente di vivere, ma per me la morale è una cosa meravigliosa, un modo di vivere gioioso totalmente in contrapposizione con il pensiero comune. Le emozioni più importanti della vita, direi essenziali per l’uomo, quali gli affetti, il dolore o la morte, non si percepiscono se si è intenti ad usare in continuazione il cellulare, ma ad esempio leggendo e rileggendo un libro ci si accorge dell’esistenza di questi stati d’animo. Scorrendo i titoli dei suoi libri, incontriamo parole come “verità”, “stupore”, “dono”, “luce”. Che cosa è lo stupore? In che relazione sta lo stupore con la verità e la bellezza? Il termine stupore è bellissimo, Platone e Aristotele dicevano che la filosofia inizia con lo stupore, ma cos’è lo stupore?

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Riguardo a ciò dico solo una cosa: noi viviamo nella quotidianità, un susseguirsi di azioni, ma il rischio della quotidianità è che tutti continuino a fare queste cose e che nessuno si fermi a riflettere. Lo stupore consiste proprio in questo, nel soffermarsi ad osservare qualcosa che magari vediamo tutti i giorni ma di cui non cogliamo la bellezza. Ad esempio osservando un campo di girasoli si pensi a come si è soffermato ad osservarli Van Gogh e non c’è bisogno di andare dall’altra parte del mondo, basta soffermarsi su ciò che si vede tutti i giorni. Un grande uomo è colui che si ferma, che interrompe la solita routine. Sempre scorrendo la sua bibliografia, notiamo che tra i suoi maestri ci sono Jacques Derrida e Emmanuel Lévinas. Ve ne sono altri? Che cosa le hanno dato questi due pensatori? Quanto conta per un uomo incontrare un vero maestro? Incontrare un maestro è uno dei doni più grandi, bisogna smetterla con la gara ad avere ragione; bisogna smetterla di sostenere che le cose più importanti siano la linea, avere molti soldi o il cellulare di ultima generazione, bisogna smetterla con questa idea di conflittualità. Incontrare un maestro “apre lo sguardo”. Quando incontri un maestro la ricerca della verità è più importante che avere ragione. Per maestro non intendo solo i grandi maestri, i più famosi, anche un insegnante può esserlo, un maestro è semplicemente una persona con uno sguardo sulle cose che normalmente noi trascuriamo. Nel suo libro La scena umana, nel quale lei va alla ricerca delle coordinate che permettano di comprendere che cosa sia il soggetto, lei dedica un capitolo alla “riflessione”. Che cosa è la riflessione e quanto conta nella vita? Come si esercita e come si apprende? Grazie di questa domanda. Questa è una delle cose più importanti. Noi abbiamo un’idea di riflessione per cui la riflessione stessa consista nel risolvere un teorema e cose di questo tipo. In realtà è opportuno analizzare la parola “riflessione” dal punto di vista etimologico, così scopriremo che questa parola significa letteralmente “flettere su”, “concentrarsi su qualcosa”. Ognuno di noi ha la sua vita e per ognuno di noi i problemi sono centrali, così è la vita, ma l’uomo inizia ad essere realmente UOMO quando si ferma, quando cerca di fermare il flusso, cioè quando riflette! Riflettere dunque va inteso come il proiettare il problema in uno scenario più ampio, per cui si inizia ad essere UOMINI non quando si trova una soluzione ai problemi, ma quando ci si sofferma a “rifletterci su”. 55


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L’affermazione “life is now” quindi è una menzogna, la vita umana non è ora ma si costruisce nel tempo. Il suo penultimo libro reca il sottotitolo “La casa non è una tana, l’economia non è il business”. Quanto è amico dell’uomo un sistema scolastico che pone l’enfasi sull’istruzione e sulle competenze al servizio del business, anziché sulla persona o sul soggetto? Chi dovrebbe promuovere lo sviluppo della soggettività umana come la indaga e definisce lei? Mi vorrei soffermare sull’idea di business, facendovi un esempio che mi fece un mio amico che lavora in borsa, il quale mi disse: sai quando si fa business? Quando un mattino si alzano un furbo ed un fesso, i quali si incontrano e nel momento in cui si incontrano, il furbo farà business a discapito del fesso. Ciò sta a significare che oggi l’economia è intesa come guadagnare il più possibile. Questo ragionamento, naturalmente, è sbagliato poiché lavorare di più per guadagnare di più annienta la vita dell’uomo. Anche lo spaccio di droga ed il commercio di organi umani sono dei business, ma ciò non vuol dire che siano giusti!!! La criminalità è un business che si basa sull’ignoranza di quelle persone che pur di guadagnare di più, sono disposte ad uccidere, o ad imbottirsi i vestiti di droga per trasportarla da un continente all’altro. Il Pontefice, nell’enciclica Caritas in veritate, richiamandosi ai suoi predecessori, segnatamente a Paolo VI, ribadisce che il progresso, nient’affatto da disprezzare, deve riguardare tutte le sfere della persona umana (deve essere integrale) e deve giovare a tutta l’umanità (diremmo che deve essere globale). In quale senso e misura lo Stato (e la Chiesa) sono inadempienti, se lo sono, riguardo alla funzione di promozione integrale della persona? Cosa dovrebbe fare secondo voi lo Stato? Lo Stato dovrebbe aiutare l’economia, l’ECONOMIA, che non è il business! Va aiutato l’imprenditore in crisi ad esempio, non è un concetto difficile. Poi lo Stato dovrebbe aiutare la gente a diventare umana, veramente umana. Quanto al Papa: è una delle poche autorità morali del mondo. Il Papa consiglia, proprio come dicevo prima, di fermarsi, di riflettere sulle vere ragioni della vita, di inserire i problemi in una scena più ampia, in una scena umana.

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Lei, ne la Scena umana, non ha dedicato spazio al fatto che il soggetto è maschio e femmina, né al rapporto veramente speciale che, nella coppia, gli sposi sono chiamati a vivere in termini di apertura all’altro, di accoglienza, di perdono, di carità. Spesso noi parliamo di “famiglia” e pensiamo di capirci, ma la coppia e l’amore coniugale sono altra cosa; inoltre, la “famiglia” purtroppo può degenerare in azienda, clan, cosca, “struttura di peccato”. Su questo argomento scriverà un altro libro? Questa è una cosa fondamentale, ma parlarne è difficile. La sessualità è uno dei punti fondamentali poiché da essa emerge la forza dell’uomo. Il godimento sessuale è una forza sorprendente all’apertura, ma come spesso capita quando c’è di mezzo l’uomo, questa cosa meravigliosa si può trasformare in un incubo, specialmente se la sessualità appunto viene intesa come l’uso del corpo dell’altro al fine di ottenere piacere. Fare sesso con chi capita è ormai all’ordine del giorno e non sapere il nome della persona con cui si fa sesso è inconcepibile! Il nome di una persona rappresenta la sua identità, la sua storia. La più forte manifestazione della sessualità è il dare piacere all’altro, non riceverlo!! II parte: domande degli studenti Luigi: ieri il professore Cariati ci ha parlato di lei dicendoci che insegna teoria della comunicazione. Qual è la differenza tra teoria e scienza della comunicazione? La comunicazione secondo molti consiste nell’imparare ad usare gli strumenti di comunicazione quali il cellulare o i social network, ma la teoria della comunicazione, tende a riportare questo concetto agli albori, allargando la scena. Eustasio: vorrei capire cosa le piacerebbe trasmettere a noi ragazzi. L’augurio è uno solo, quello di diventare uomini, non c’è altro. Bisogna nascere due volte, la prima volta nasciamo senza averlo deciso, come i gatti o i topi, la seconda nascita consiste nel cominciare il cammino per diventare uomini. Ciò non è gratis, ma comporta delle scelte e delle rinunce; imparare ad ascoltare, ad esempio, è un piccolo passo per diventare uomini.

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Marco: quali sono i vantaggi che uno studente trarrebbe scegliendo la sua facoltà, quali possibilità di lavoro offre? Nessuna! Non bisogna studiare avendo come obiettivo quello di guadagnare, ma è essenziale farlo per se stessi. Luca: recentemente ho sostenuto un esame all’università e ho studiato il pensiero di Barnett Pearce. Lei si rispecchia nella teoria di Pearce? Certo. Lo ritengo un gigante della teoria del linguaggio. Alfio: prof. Petrosino, lei ci ha portato un contributo importantissimo, perché noi professori che educhiamo abbiamo molta difficoltà a parlare con gli studenti, non riuscendo spesso a trasmettere i nostri valori che derivano dalla nostra esperienza. Grazie per quello che ha trasmesso loro questa mattina. Petrosino: andate a rileggere Pinocchio e soffermatevi in particolare sull’incontro fra Pinocchio e Lucignolo in cui Lucignolo dice a Pinocchio: “esiste un paese in cui non si lavora, non si studia ma si gioca e ci si riposa!!” Pinocchio va in questo paese e all’inizio si trastulla e si sente realizzato, ma dopo un po’ di tempo inizia a trasformarsi in un asino. Ciò sta a significare che siamo liberi di non studiare, di non lavorare, ma attenzione che, alla fine, facendo così, vi ritroverete a ragliare.

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La scuola fuori registro (Appunti per l’incontro di SOS scuola del 24 maggio 2010 a cura di America Oliva) Ad ottobre 2009 viene pubblicato il libro La scuola fuori registro di Tommaso Cariati per i tipi di Rubbettino. Dovremmo presentare l’autore, ma egli è persona nota a tutti noi, nelle sue svariate espressioni: professore, autore (anche di poesie, e per chi non le avesse ancora lette ne raccomandiamo la lettura), figura impegnata in ambito educativo extrascolastico, agricoltore ed esperto di giardinaggio. L’autenticità della figura di Tommaso emerge da alcune sue parole scritte su di sé in questo libro: “Alcune delle ragioni che mi hanno spinto a scegliere di lavorare nella scuola sono l’interesse per lo studio e la cultura, il desiderio di lavorare con altre persone e con i giovani, la possibilità concreta di essere autentici, dato che nella scuola di allora non c’erano spinte di carriera” (p. 37). Il testo si inserisce nel filone dei libri sulla scuola ed è composto da una serie di racconti che propongono esperienze vissute, direttamente o indirettamente, dall’autore in ambito scolastico. I primi diciassette testi, fino a p. 66, sono stati scritti precedentemente, fra il 2004 ed il 2006, sotto lo pseudonimo di Giorgio de Giorgio, entrando ora a far parte di questa raccolta che è stata completata ed arricchita con altri racconti. Lo schema di scrittura rimane invariato, per cui anche questi racconti sono introdotti da versetti del vangelo, che sono collegati con l’argomento trattato. Il titolo è molto suggestivo. Per me, all’inizio, è stato un po’ fuorviante. Nel mio universo di insegnante dove il registro è per antonomasia il simbolo di un atto burocratico, rappresentativo di una serie infinita di atti dovuti, ripetitivi e noiosi, provavo ad immaginare cosa potesse essere questa scuola fuori registro. Forse, pensavo, finalmente la scuola ha dato spazio alla creatività, forse troverò una chiave di lettura di cose che finora non sono riuscita ad interpretare, ma alla fine del primo capitolo si conclude “È vietato ragionare, pensare, creare” (p. 10). E così questi racconti sono testimonianze di tutto ciò che accade nel nostro universo educativo, e sono davvero rappresentativi, in quanto delineano lo svolgersi della vita quotidiana nella scuola, ed individuano i meccanismi che ne regolano lo svolgimento. 59


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La scuola, quindi, protagonista sovrana di questo testo. Rappresentata dalle sue varie componenti, ma con al centro i suoi attori principali: gli alunni, che a volte sono persone, a volte numeri, a volte non esistono o sono solo ingombranti. Ed i docenti, l’altra faccia della medaglia. Legati l’un l’altro perché interdipendenti. L’uno ha bisogno dell’altro per realizzarsi e dalla relazione tra loro dovrebbero nascere persone nuove, con capacità critiche e libertà di pensiero. Il ruolo della scuola all’interno della società è quello di formare persone. O di distribuire diplomi? Quando ci si prende davvero cura di qualcuno? “Come fare in modo che in una scuola per geometri, oltre a favorire una generica socializzazione e a promuovere l’educazione alla cittadinanza e alle pari opportunità, si apprenda qualcosa di topografia e di costruzioni?” (p. 13) Che valore diamo alle competenze da acquisire quando i criteri della valutazione corrispondono a quelli espressi nel capitolo Nemo propheta in patria? “Se, quando siamo stati costretti a votare per attribuire il voto del colloquio, avessimo votato compatti 35 su 35, gli studenti se la sarebbero cavata. Purtroppo qualcuno di noi ha voluto tenere conto della scarsa preparazione dei candidati. Ma questo è moralismo; io non capisco perché non dovrei attribuire a uno studente il voto che mi pare, perché non dovrei considerare le segnalazioni o le raccomandazioni…” (p. 60). Ci sono recenti ricerche statistiche condotte nelle università a livello nazionale che evidenziano come la valutazione espressa dal voto del diploma non sempre certifica competenze realmente acquisite. Allora c’è da chiedersi: la scuola avvia processi di formazione? “E noi quale processo attuiamo nella scuola? Un processo produttivo in cui gli studenti sono il materiale che, entrando nella fabbrica-scuola, permette di produrre diplomati, cioè individui che portano un cartellino sul quale è scritto ‘perito meccanico’ o ‘ragioniere’? Oppure un complesso processo che ascolta, orienta, sostiene, incoraggia, istruisce, forma?” (p. 30): si chiede l’autore. Si tratta, a proposito degli studenti, di materiale umano, come viene definito nel libro, che è certamente quello più difficile da lavorare, ma è materiale umano anche quello di cui sono fatti i docenti? E che materiale, poveri docenti! Si possono estrapolare le trasformazioni in atto in relazione al ruolo sociale dell’insegnante, che veniva un tempo guardato come il formatore delle future generazioni. Significativo il versetto introduttivo al capitolo “Un tempo si imparava dal maestro, oggi no” che recita “Ed erano stupiti del suo insegnamento perché insegnava loro come uno che ha autorità…” dove il maestro è persona autorevole, e così è stato per anni. Il maestro era un esempio da seguire ed imitare. Oggi la sua figura è stata svuotata di questo significato ed è visto quasi sempre come colui che ha 60


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trovato nell’insegnamento uno sbocco professionale, che si reca a scuola come se si recasse in ufficio a disbrigare pratiche, solo che qui il materiale non è cartaceo. Secondo me il titolo del paragrafo racchiude in nuce lo sfaldamento del rapporto scuola-insegnante-alunno, significativo quando la scuola rappresentava il luogo per eccellenza deputato all’apprendimento. I cambiamenti in atto nella nostra società richiedono una rimodulazione dei rapporti ed una ridefinizione dei ruoli che sia funzionale ai nuovi assetti. “… negli anni Novanta era bravo il professore che sapeva insegnare la materia; oggi è bravo il docente che sa tenere la classe” (p. 89). Con congratulazioni ed approvazione da parte del preside/dirigente. Che la scuola sia un sistema obsoleto lo si sente dire da tempo. Ed i segnali per capire la crisi in atto ci sono tutti: basta saperli leggere. Leggevo ultimamente su una rivista di aggiornamento per insegnanti: “i giovani comunicano ma non scrivono”. E invece scrivono, scrivono … stanno anche modificando l’ortografia della nostra lingua e forse riusciranno a liberarsi anche del congiuntivo. E noi non ce ne accorgiamo! In questo libro la scuola si offre come specchio della società. I giovani sono come il termometro per capire come la società sta cambiando, gli insegnanti sono i primi a poter capire i nuovi orientamenti della futura classe dirigente e lavorativa, le loro aspettative, e l’importanza che si dà oggi alla scuola. Tra qualche anno gli storici cercheranno di interpretare il nostro periodo con analisi sociali ed economiche. Ma secondo me bisogna partire dalle piccole storie quotidiane per capire effettivamente. Piccole storie ma che contengono, ad una attenta lettura, tutti gli indizi per capire il presente. Chi meglio dei giovani con le loro aspettative, le ansie, i sogni e le speranze può farci capire meglio come e dove sta andando la nostra società? Nel libro ci sono storie piccole ma vere, spaccati di quotidianità, ed in esse c’è tutto della società in questo determinato momento, una fotografia spazio-tempo dell’attuale, perché la storia è sì fatta di grandi eventi, crisi economiche, guerre, scoperte scientifiche etc., ma se si vuol capire come queste influenzano i nostri comportamenti bisogna partire da piccole storie. Da questo punto di vista l’osservatorio nel quale questo libro si muove, la scuola, è privilegiato. Ancora in Italia la scuola, quella pubblica, raccoglie studenti da tutte le classi sociali; e quale miglior osservatorio possiamo avere per capire l’evolversi di una società complessa come la nostra? Inoltre si domanda, questo libro, a quali aspettative la scuola deve rispondere in un contesto come il nostro, di regione fanalino dell’Europa, nei confronti della nostra gioventù. Quale il ruolo dell’insegnante? Domande universali sul ruolo dell’insegnante ma quale ruolo, in particolare, nel nostro contesto calabrese? Un contesto 61


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fatto di difficoltà, di mancanza di prospettive lavorative e sociali? “Forse c’entra il fatto che questi giovani percepiscono che la società globalizzata e opulenta è anche la società dell’incertezza e del rischio” (p. 12). A conclusione di questa mia lettura del libro vorrei proporvi la lettera che l’autore indirizza ai ragazzi, che racchiude il significato profondo del ruolo della scuola nella formazione dei giovani. Vi consiglio direttamente la lettura, senza commenti. “Cari ragazzi, crescendo voi cercate modelli negli adulti, è normale, fanno tutti così. Il problema è che gli adulti che vi circondano spesso non hanno nulla di speciale. Sono bancari, pubblici dipendenti, insegnanti, hanno conti in banca, automobili, doppia e tripla casa ma spesso hanno perso i capelli, sono un poco appesantiti, hanno una moglie o un marito che non amano, ma niente di speciale, salvo che sono, senza saperlo, ma come ogni creatura umana, portatori di una scintilla di divino. Gli adulti spesso hanno accettato ogni sorta di compromesso, sopravvivono senza virilità e vi stanno lasciando un mondo peggiore di quello che hanno trovato. Si sono fatti raccomandare per superare esami, per vincere un concorso o per evitare il servizio militare e sono diventati niente, perché vivere non è aggirare gli ostacoli ma fare bene il proprio lavoro là dove siamo stati posti. Molti adulti, invece, pensano di aiutarvi elogiandovi gratuitamente o promuovendovi immeritatamente, lasciandovi copiare il compito o passandovelo agli esami, risolvendovi i problemi, ricattandovi, comprandovi oggetti e dandovi soldi, facendo ricorso contro la scuola come se fosse il nemico loro e vostro. Ragazzi, non lasciatevi espropriare: la vita è vostra e nessuno può viverla in vostra vece. Chi cerca di fare ciò distrugge la vostra possibilità e sciupa le proprie occasioni. Non fatevi fregare, non date retta agli insegnanti e ai genitori che si proclamano vostri amici e vi lasciano fare tutto quello che vi pare. Questi signori vogliono soltanto nascondere le proprie insicurezze e abdicare al loro compito fondamentale di guidarvi. Essi vi ingannano tre volte: primo perché l’amicizia deve essere simmetrica, leale e disinteressata, mentre tra genitori e figli, o tra insegnanti e allievi c’è sempre qualche interesse; secondo perché vi abbandonano a voi stessi e crescerete senza spina dorsale, come canne al vento; terzo perché l’amico si sceglie liberamente e liberamente si deve poter lasciare, mentre voi non scegliete né gli insegnanti né, tanto meno, i genitori. Ragazzi, non scrivete poesie scialbe, fiacche o insulse, anche se gli adulti ve le pubblicano. Se amate la poesia, leggete “L’infinito” di Leopardi, leggetelo una volta al giorno, sempre alla stessa ora e meditate, un giorno scriverete qualcosa di bello anche voi. Studiate ma non trascurate il corpo e la manualità. Non disdegnate di lavare i piatti e spaccate volentieri la legna. Fate 62


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gite in montagna e respirate l’aria fresca e pulita. Non andate dove vi porta il cuore ma dove vi portano il cuore, la mente, lo spirito e il corpo tutti insieme” (p. 101). Ed una mia ultima considerazione sul versetto introduttivo all’ultimo capitolo “Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, …”. Queste parole esprimono, secondo me, la realizzazione di una relazione positiva che scaturisce da un incontro fruttuoso e, applicata, nel nostro caso, tra docente e discente, indica una crescita in entrambi i componenti, che si realizzano nella costruzione di un cammino comune che lascia una traccia in entrambi. Se la scuola lascerà un segno nella vita degli alunni, allora avrà contribuito alla loro formazione, alla loro crescita ed allo sviluppo della loro personalità. Ed avrà realizzato il suo fine alto. Io porto sempre dentro di me le parole di tanti insegnanti. Sto parlando di una scuola di tanti anni fa o di una realtà ancora possibile?

La scuola fuori registro: note dal... backstage (Appunti a cura di Giuliano Albrizio) Prologo/racconto: Un giorno d’inverno di qualche anno fa arrivai a scuola un po’ in anticipo (cosa strana per me) rispetto al suono della campanella che sancisce l’inizio della mia giornata lavorativa. Salii le scale, percorsi il corridoio, salutai qualche collega - che si guardò bene dal rispondere alla mia gentilezza ed entrai nella sala professori per apporre la mia firma sul foglio delle presenze. Prima di uscire dalla stanza venni intercettato da un mio collega (e amico) che mi invitò a dare uno sguardo alla bacheca degli avvisi. Fra i tanti comunicati, mi indicò, in alto a destra, un foglio A4 dall’aspetto insolito. Prima di salutarci, mi suggerì di leggerlo e poi di fargli sapere cosa ne pensavo. Preso dalla curiosità (e incurante del fatto che stavo sperperando tutto l’anticipo accumulato), ricordo che rimossi la puntina da disegno e iniziai a scorrere con gli occhi le righe del testo. Giunto alla fine, lo rilessi ancora. Mi soffermai sull’incipit (un passo del Vangelo), sul titolo e infine sulla firma dell’autore: Giorgio de Giorgio. Al collega, come promesso, riportai tutte le mie considerazioni e rapito dalla scrittura efficace e coinvolgente, mi riproposi di farmi prima o poi presentare questa persona acuta, attenta, che certamente viveva giornalmente, con amore e dedizione, la scuola. 63


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Nelle settimane seguenti, con cadenza irregolare, furono appuntati sulla bacheca altri elzeviri, uno più bello e interessante dell’altro. Articoli che fotocopiai per conservarli gelosamente e al collega che me li fece notare chiesi più volte: mi farai conoscere questo tuo amico? Avrò l’onore di potermi congratulare con lui? Confesso che il suo sorriso sornione mi fece subito intuire qualcosa, ma stetti lo stesso la gioco. Solo qualche mese dopo, insistendo, riuscii ad estorcergli la confessione. Come sospettavo Giorgio de Giorgio e Tommaso Cariati erano la stessa persona. Fu a partire da quel momento che divenni testimone privilegiato della trasformazione di quei fogli affissi in bacheca nel libro che è oggetto di questi miei brevi appunti. Si è trattato, per l’autore, di un percorso lungo e carico di attese che vennero poi premiate, nel duemilasei, con la stampa di “...non facciamo filosofia!” e nel 2009, con l’aggiunta di nuovi capitoli, con la pubblicazione di “La scuola fuori registro”. Per onor di cronaca va detto che, prima d’essere stampati, gli elzeviri furono per qualche tempo presenti anche su internet. Fu deciso infatti di creare un blog dove inserire tutti i testi così da invitare poi alla lettura tutti i visitatori. Si trattò senza dubbio di un esperimento positivo. Anche se fu subito chiaro che quella mole di lavoro meritava ben altro proscenio. Qualche nota sul libro: Pur avendo avuto modo di leggere un po’ alla volta tutte le riflessioni di Tommaso, pur avendo avuto quotidianamente il piacere di scambiare con lui qualche chiacchiera sul mondo della scuola, devo dire che leggerlo e rileggerlo per coglierne le tante sfumature, mi da sempre la possibilità di riflettere ancora sul mondo della scuola. Un mondo che l’autore presenta - adottando il sistema del racconto, riportando episodi di cui lui è stato testimone oppure aneddoti che gli sono stati raccontati - senza filtri, senza inutili diplomazie o superflui giri di parole politically correct. Così Tommaso va sempre al punto, presentando la realtà per quella che è: un marchingegno che ha un perenne bisogno d’essere monitorato, lubrificato, migliorato per evitare che vada inesorabilmente fuori registro. Un macchinario nel quale tutti - docenti, discenti, genitori, dirigenti - occupano un ruolo fondamentale, nel quale tutti dovrebbero impegnarsi al massimo, restituendo alla scuola d’oggi, così allo sbando, quell’importanza che la società attuale stenta a riconoscergli. L’autore descrive nel libro tutti i mali che affliggono la scuola odierna. Si va dai presidi divenuti magicamente manager rampanti, ai docenti alle prese con studenti ipertecnologizzati, dalle varie riforme che ogni volta stravolgono (o almeno provano a farlo) tutte le regole alle riunioni fra docenti nelle 64


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quali regnano confusione, dibattiti sterili e boutade di dubbio gusto. E non mancano ovviamente acute riflessioni soprattutto sul ruolo dell’insegnante del terzo millennio. Ma “La scuola fuori registro” non è solo un insieme di racconti/ testimonianze, è soprattutto - a mio avviso - un libro di denuncia, è un’analisi schietta su quello che è lo stato della scuola ed offre un’ulteriore opportunità di parlare dei problemi che la affliggono. Magari con un “filo” di sarcasmo e con una “punta” d’ironia, ma mai prendendosene beffe. Provando semmai a scuotere le coscienze, invitando tutti gli addetti ai lavori, tutte le persone che quotidianamente vivono nel mondo dell’istruzione, a rendersi protagonisti di un cambiamento, di una presa di coscienza collettiva che potrebbe, e non poco, migliorare la scuola italiana. Dibattito Cosimo Ascente: si tratta di un insieme di racconti che ci presentano uno spaccato di vita quotidiana. La lettura è piacevole. Per me è come uno specchio nel quale riflettersi senza barare, perché allo specchio, se non è deformante come piace a te, non puoi barare. Io ho trovato nel libro passaggi terribilmente reali. L’autore ha rappresentato bene cose che anche noi pensiamo ma che non riusciamo a scrivere. Nel libro ci sono i nodi fondamentali della scuola, di cui bisognerebbe parlare senza barare; perché, vedete, noi bariamo. Noi parliamo, parliamo, nei collegi, nei consigli ma non veniamo mai a capo di niente perché partiamo da presupposti sbagliati. Per esempio, io credo che uno dei presupposti essenziali sia la relazione educativa. La relazione è la chiave del nostro lavoro, non sufficientemente compresa e utilizzata con competenza. Pia Gardi: il libro mi ricorda La scuola raccontata al mio cane di Paola Mastrocola, un libro notevole che mette in evidenza il disagio degli insegnanti, in una scuola che è nuova soltanto nelle parole. Uno dei pregi di questi libri è quello di mettere a nudo questo disagio, perché l’insegnante oggi non sa più chi sia e che cosa debba fare (per esempio, si è lavorato tanto per ridurre ed eliminare il disagio degli studenti, ma chi pensa al disagio degli insegnanti?). Mario Gelsomino: io non ho letto il libro ma mi sembra che fa un’accusa agli insegnanti e un “favoreggiamento” di qualche persona verso gli alunni, questo ho capito io.

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Dominique Marino: io non lavoro nella scuola e, leggendo i giornali, si ha l’impressione che gli insegnanti siano tutti una massa di fannulloni, invece io vedo che molti sono persone competenti, capaci e responsabili. Molti insegnanti insegnano per il piacere di insegnare, e questa è una scelta nobilissima. Un’altra cosa si può riassumere nella domanda: che cosa si aspetta la società dalla scuola? Io sono diplomato perito meccanico, poi mi sono laureato in chimica. Negli anni Settanta si diceva: apre il quinto centro siderurgico, diventi perito, avrai la possibilità di lavorare. Allora, sia per mio padre, sia per me l’insegnante era una figura importante, da rispettare. Quel rispetto non c'è più perché si è perso il ruolo sociale dell’insegnante. Si è smarrito il ruolo dell’insegnante perché si è smarrita la funzione sociale della scuola: la scuola forma ragionieri e geometri che faranno i ragionieri e i geometri, o è una specie di camera di compensazione: tutti vanno a scuola, anche mio figlio ci va, per ora è così, poi si vedrà. Il libro La scuola fuori registro è importante perché, come è stato detto, è uno specchio nel quale possiamo specchiarci tutti. Sapete, il tentativo in atto è anche un altro, quello di ritornare a una scuola d’élite per pochi eletti, come era la scuola prima del Sessantotto. Non dimentichiamolo, un tempo la scuola era uno strumento che serviva alla società per perpetuarsi sclerotizzata. Il libro non è soltanto uno specchio per voi docenti, è uno specchio per tutta la società. L’autore ha raccolto e utilizzato elementi minimi, trascurabili, e li ha cuciti insieme per tessere delle storie. Ma con le piccole storie si può ricostruire e leggere un intero spaccato sociale. Iole Greco: io penso che una cosa importante nella scuola, e nell’educazione in generale, sia la coerenza. Poi, noi abbiamo parlato di studenti e di docenti ma non dei presidi. Per esempio, il ruolo del preside è importantissimo. Io ricordo che quando ero una giovane professoressa, una mattina sono arrivata in ritardo e ho trovato il preside sul cancello della scuola che mi ha rimproverato; da quella volta non ho più fatto ritardo. Oggi i presidi hanno cambiato ruolo, non li vedi mai, si occupano di tantissime cose, se gli porti un alunno che ha fatto qualche pasticcio, quasi quasi rimproverano te; io mi sento sola, perché, vedete, noi siamo stritolati tra l’incudine e il martello. Pia Gardi: Quello che diceva Dominique mi sembra importante, perché un altro fenomeno che va rilevato è l’abbassamento del livello culturale generale della scuola. Oggi come tutti sanno il livello generale della scuola è molto basso, specialmente qui da noi, ma chi vuole, e se lo può permettere, già oggi i propri figli li manda nelle scuole private che spalancano le porte del futuro ai giovani. 66


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Vincenzo Palma: io mi sorprendo sempre molto quando sento parlare di insegnanti e di scuola perché sembra che gli insegnanti operino ciascuno come un’isola, senza un progetto comune con gli altri insegnanti che lavorano nella stessa classe. Perché si parla di corpo insegnante? Perché è un corpo, un sistema. Non dimentichiamolo mai. Nellina Madeo: vi dico tre cose. La prima mi è stata suggerita da America Oliva: neanche nella scuola media di primo grado possiamo accontentarci di puntare prevalentemente a una generica socializzazione, perché le basi della conoscenza e dell’applicazione allo studio si incominciano a costruire proprio lì; la seconda è legata alla questione posta da Gesù, cioè di lasciare che le sue parole rimangano nei discepoli, riportata nel libro e ripresa nella presentazione: non dimentichiamo mai che l’etimologia della parola “insegnare” porta in sé l’idea alta di “lasciare un segno”, ci si augura, positivo; la terza è un aneddoto: una anziana professoressa incontra un suo ex alunno e gli domanda: “Ti ricordi quello che vi dicevo sempre?” E lui: “Sì, che la scuola ha valore infinito”. Eustasio Santoro: secondo me il libro descrive una realtà molto vera, in quanto i professori gonfiando i voti vogliono coprire gli errori fatti nella fase di programmazione e di svolgimento delle lezioni; di questi errori si rendono conto solo alla fine del percorso. Considerate poi che ci sono professori che vengono in classe solo per firmare: non spiegano, non ci chiedono un impegno. Questo a noi sta bene, in un primo tempo, ma alla fine loro si rendono conto che ci sono magagne da coprire in qualche modo, e noi ci accorgiamo troppo tardi dell’imbroglio. Alfio Moccia: sarò breve. Questo libretto contiene una sofferenza dell’autore che vede “il meglio”, ma questo meglio non lo trova nella quotidianità. Questa sofferenza si vede osservando il versetto del vangelo che egli cita in esergo all’inizio di ogni racconto: l’esergo per lui è l’ideale a cui guardare. Lì egli vede la luce, la bussola che possono orientarci. Tra l’altro, l’autore pensa che la maggior parte della gente abbia smarrito quella bussola. Lui pone il versetto come bussola e cerca di leggere l’esperienza che racconta alla luce di quel versetto (svolgendo il singolo tema l’autore sembra suggerirci: siamo tutti fuori strada, ma guardate in alto, guardate al piccolo esergo…). Qui devo rifarmi a Pirandello: l’autore vede questo smarrimento e interviene con l’umorismo, che, per Pirandello, non è comicità (l’autore non ha scritto per far ridere), ma una riflessione che nasce dalla presa d’atto della realtà a67


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mara. Dirò poi che il nostro autore se la cava bene, perché egli non consiglia mai qual è la soluzione, lascia che sia il lettore ad intuirla. Solo, sotto sotto, egli suggerisce, sussurra: “Guarda sopra, guarda all’epigrafe”. Cosimo Mercuri: io sono stato colpito molto dalla lettera, contenuta in uno dei capitoli, rivolta dall’autore agli studenti. Quel testo riassume bene il suo pensiero. Un’altra cosa voglio però dire: si è detto che negli anni Ottanta era bravo il professore che conosceva la materia, negli anni Novanta quello che sapeva insegnare, nel decennio successivo è bravo il professore che sa tenere la classe; ebbene, io aggiungerei che oggi è bravo il professore che sa andare a caccia di finanziamenti. Rosa Filippelli: in effetti, nella scuola attuale si fanno un sacco di cose, ma quale efficacia hanno? A chi giovano tutte queste cose? Dominique Marino: non dimentichiamo la scuola classista. Qui ci troviamo di fronte a una esagerazione, ma il principio era giusto. L’obiettivo era quello di non lasciare indietro nessuno, uno scopo nobile che è stato tradito. Oggi occorre conciliare gli opposti. La scuola si trova a vivere tutte le contraddizioni della società e deve trovare una risposta. Cosimo Ascente: noi dobbiamo recuperare un senso, un ruolo. Oggi la scuola non è solo “competenza”. Il problema è quello di creare un ambiente di apprendimento sano e vitale. Per esempio, le professioni a cui preparava la vecchia scuola non ci sono più, allora la funzione della scuola deve essere un’altra, non può essere solo quella di formare geometri o ragionieri. Ma qual è la nuova funzione? Giuliano Albrizio: è giunto il momento di fare intervenire l’autore. Tommaso Cariati: vi dico due o tre cose. Io, come è stato detto, ho iniziato l’avventura di scrivere questo libro perché spesso, dopo una riunione del collegio dei docenti o dopo un consiglio di classe, me ne tornavo a casa con un senso di delusione, di spreco, di inutilità, di amarezza. La scrittura mi ha aiutato a riflettere, a comprendere meglio (da questo punto di vista, direi che il processo che mi ha portato a mettere insieme l’opera è stato terapeutico) e, come stiamo vedendo stasera, a innescare un dibattito. Del resto, quando si scrive non si trascrive semplicemente ciò che già si conosce, ma scrivendo si scoprono cose che prima si ignoravano. Perciò la scrittura è un vero e proprio strumento di ricerca e di conoscenza. La seconda cosa importante 68


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per un autore è capire fino a che punto quello che per lui è risultato terapeutico è efficace anche per il lettore. Ebbene, mi pare che in tal senso alcuni indizi siamo emersi proprio questa sera: è stato detto che il libro si lascia leggere, cattura fino alla fine. È già qualcosa. Io fin dall’inizio ho scelto di scrivere il singolo racconto nella misura di una pagina (perché doveva circolare fotocopiato ed essere passato di mano in mano): forse anche questo aiuta nella lettura. La terza cosa che voglio dirvi riguarda la collocazione letteraria del libro. Vedete, io ho scritto un libro sulla scuola, ma per me si tratta di una raccolta di racconti. La scuola è la materia che io ho scelto di utilizzare, e questo è legittimo perché non ci sono argomenti privilegiati per fare letteratura. Ebbene, il libro Ehi prof! di Frank McCourt, noto romanziere irlandese-americano, che è un libro sulla scuola, è soltanto questo? Quel libro è un’opera letteraria. Ma chi ci dice che cosa sia letteratura e che cosa non lo sia? I critici col tempo ci daranno la risposta a questa domanda. Ecco, in tempi di crisi, e di crisi della narrativa (e della critica letteraria) forse è normale tornare a interrogare un poco ingenuamente, più da vicino, diciamo da neorealisti, la realtà che ci circonda. Il mio intento, comunque, non so se e quanto tradito, era proprio quello di scrivere pagine di letteratura. Ai posteri l’ardua sentenza. Chiara Marra: vorrei riprendere quanto detto da Alfio e proporvi un brano tratto dall’ultimo capitolo del libro dove, secondo me, troviamo indicata in modo più chiaro quale soluzione l’autore adotta nel suo lavoro quotidiano di insegnante: «Allora, fare scuola è indicare un sentiero da seguire, tracciato da altri e nel quale anch’io cammino. Fare scuola è “anticipare il senso sorprendente e promettente della vita”, è introdurre la persona, bambino, ragazzo o giovane, mistero insondabile, nel mistero al quadrato che è la vita, che si svela, e mai totalmente, soltanto man mano che in essa ci si immerge e si sprofonda, dato che, secondo Kierkegaard, la vita deve essere sì vissuta guardando avanti, ma può essere compresa solo guardando indietro. Fare scuola è accompagnare il discente, nel rispetto della sua originalità, del suo mistero, dei suoi tempi, dei suoi stili, dei suoi carismi, correggendolo, quando occorre, dolcemente ma con fermezza, e assumendosi, per dirla con Giussani, il rischio legato al coinvolgimento pieno nella relazione con lui, nella trama di relazioni della comunità educante. Fare scuola è tessere e ritessere relazioni comunitarie autentiche e responsabili, anche nel franamento più disastroso, nella notte più buia, e proporre sempre, con profezia, il radicamento e la ricerca critica di senso. Se non questa, quale scuola?».

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Appendice

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Manifestazione ad Amantea sulle “navi dei veleni” (Appunti di Rosina Filippelli)

Sabato 24 ottobre 2009 ad Amantea si è svolta una manifestazione per chiedere la verità sulla natura delle “navi a perdere” affondate nel Mediterraneo e lungo le coste calabresi. Il corteo è partito alle ore 9,00 dal lungomare (che è stato intitolato al Cap. Nicola De Grazia) per percorrere tutto il centro della località costiera. Tanti gli striscioni, quello del “Movimento Terra, Aria, Acqua e Libertà “ e del comitato dei genitori della scuola S. Francesco (la scuola dei veleni) entrambi di Crotone, dell’ associazione culturale “Km 0”, quello di Legambiente, della “Associazione commercianti di Amantea”, dell’UNPLI, dell’ associazione “Io resto in Calabria”,della Confagricoltura, ecc. Erano presenti la vedova del capitano De Grazia e la madre della giornalista Ilaria Alpi . Pre71


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senti anche i sindacati e gli esponenti della politica locale: M. Oliverio e I. Lojero, Callipo. Per la politica nazionale erano presenti gli on.li Di Pietro, Minniti e Occhiuto. La politica però, intesa come partiti nazionali, ha dovuto fare un passo indietro e a nessun oratore è stato consentito l’accesso al palco. Unica eccezione Silvio Greco , assessore all’ambiente che tanto si è speso per svelare il segreto delle “navi a perdere”.

L’unica nota di rincrescimento si è avuta nel constatare la scarsa adesione delle scuole come istituzioni, gli studenti e gli insegnanti che hanno partecipato lo hanno fatto a titolo personale. Scriviamo quando le indagini avviate per la ricerca sui fusti della nave affondata al largo di Cetraro hanno già accertato che la nave ritrovata non è il Cunski, ma un’altra ancora più antica e che il contenuto dei fusti recuperati non è né tossico né tanto meno radioattivo. A questa notizia il litorale tirrenico ha tirato un sospiro di sollievo e già pensa in quale modo potrà esorcizzare la cattiva pubblicità che in questi giorni è stata fatta sul suo conto e che ha messo in crisi la debole economia locale. 72


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Debolezza economica per il Sud è stata sempre sinonimo di maggiore remissività. Dovremmo ribaltare questa equazione e perciò crediamo che le indagini sui misteri “delle navi dei veleni” affondate nel Mediterraneo vadano continuate, perché ci sono troppi tasselli a questo proposito (le ricostruzioni delle rotte fatte dai Lloyd , la morte improvvisa del cap. Nicola De Grazia e l’assassinio in Somalia della giornalista Ilaria Alpi mentre entrambi indagavano su questi fatti, le rivelazioni del pentito Francesco Fonti, le denunce di Legambiente) che vanno finalmente ricomposti in un mosaico credibile.

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Brevi, scarne note di viaggio (sul viaggio in Turchia di Emilia Florio) Instanbul, 29.10.2009 Ieri non sono riuscita a scrivere niente per l’eccessiva stanchezza. Le prime ore di terra turca sono state contrassegnate dal ricordo: ricordo del viaggio precedente – con Giacinto e gli amici di Reggio Calabria – ed in particolare di don Farias (santo e colto sacerdote della diocesi di Reggio Calabria-Bova). La visita al Patriarcato, sia pure brevissima, è stata densa anch’essa di memoria storica e personale – ho rivissuto la funzione di Sant’Andrea a cui avevamo partecipato con la diocesi di Regio Calabria. Siamo poi stati al Gran Bazar: chiasso, luci, colori, voci, un pezzo d’Oriente.

Stamattina al centro storico. Instanbul è una città molto bella paesaggisticamente e architettonicamente. La moschea ben mi ha fatto pensare, con la sua bellezza, che in ogni religione l’uomo dà il meglio di ciò che sa fare, per il suo Dio – comunque lo si voglia chiamare. Sempre interessante e per me coinvolgente la visita alla cisterna sotterranea – mi ha richiamato alla mente Baudolino di Umberto Eco; maestosa ed accogliente Santa Sofia – Sapienza di Dio, quanto sei grande, ineffabile, santa.

L’incontro con i padri cappuccini di Santo Stefano è stato un momento forte di testimonianza: padre Gregorio da 45 anni vive qui e testimonia Cristo. 30.10.2009 Partenza da Instanbul con la pioggia ed il cielo grigio, arriviamo a Smirne (Izmir)con un’ora di ritardo e troviamo il sole ed il cielo azzurro. Efeso ci accoglie in un paesaggio dolce ed aperto. Entriamo nel vivo del pellegrinag74


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gio: la Chiesa dei primi secoli, la permanenza di Paolo qui per tre anni, la tradizione della tomba di Giovanni evangelista e la casa della Madonna, chiesetta piccola, suggestiva, raccolta. Abbiamo assistito alla celebrazione della messa dell’Assunzione – all’aperto, concelebrata da sei sacerdoti (c’è un altro gruppo di pellegrini). Ho pregato per tutti.

2.11.2009, ore 7 Scrivere, sia pure due righe, non è sempre facile: ritmi molto serrati, stanchezza, necessità di riflettere. Stamattina sveglia con la neve – siamo in Cappadocia da ieri sera dopo un viaggio di 650 km e dopo aver attraversato un pezzo di Turchia assolutamente nuovo per me: un grande tavolato, in alcuni tratti brullo. Ci siamo fermati a Konya, la Iconio di san Paolo, una grande città, molto popolata e conservatrice – si vedono molte donne velate.

Abbiamo celebrato la messa nella chiesa di san Paolo, tenuta da due suore italiane (di Trento) che vivono qui da quindici anni, fanno parte della fraternità di Gesù Risorto, fondata trent’anni fa da un sacerdote trentino il cui carisma è “dove sono due riuniti nel mio nome, là ci sono Io”: preghiera a presenza. Le emozioni provate nell’ascoltare suor Isabella, così pacata, così serena, così pacificata, resteranno a lungo tra le cose più belle di questo viaggio. Dopo pranzo visita al Mausoleo di Mevlana, interessante artisticamente, ma sono ancora piena del sorriso di Isabella. Ad Efeso (il 31 ottobre), paesaggi di grande apertura spaziale, ma anche consapevolezza storica di un luogo molto importante nella vita della Chiesa pri75


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mitiva: la presenza di Giovanni evangelista, la presenza di Maria – secondo la tradizione – la presenza di Paolo, la Chiesa del Concilio. Efeso mi dà l’idea di un respiro più grande. Nel pomeriggio del 31 siamo stati a Pamukkale, uno spettacolo naturale di forte impatto ed intensità. 2.11.2009, la sera Siamo in Cappadocia, una terra di favola per il paesaggio: chiese rupestri in ogni angolo, la presenza dei Padri: Basilio, Gregorio Nazianzeno, Gregorio di Nissa ci parlano da qui. Bisogna contemplare in silenzio.

4.11.2009, in aereo Stiamo tornando: come mi capita sempre sono contenta del viaggio e contenta di tornare. Questa mattina messa ad Adana, nella chiesa Bebekli tenuta dai cappuccini, alla fine della celebrazione ancora un incontro con un testimone: padre Roberto Ferrari, un giovane ottantenne da 59 anni in Turchia. Ieri la visita alla città sotterranea di Kaimakli e a Tarso – Tarsus – una grande commozione durante la celebrazione nella chiesa di san Paolo, ora museo, e l’incontro con tre suore Figlie della Chiesa – suor Agnese, suor Maria, suor Maria – tre suore che testimoniano Cristo con l’adorazione ed il silenzio. A Tarso il pozzo di san Paolo, nell’antico quartiere giudeo vicino ai resti di una casa cristiana. Ora devo lasciar sedimentare sensazioni, impressioni, sentimenti, pensieri. Le emozioni, anche quelle di carattere culturale (attraversare la Frigia, la Cilicia, la Panfilia, Efeso, Smirne, Laodicea, luoghi studiati, amati, familiari, percorrere strade battute da Paolo e dai discepoli, lasciano pian piano il posto al silenzio della contemplazione e della preghiera.

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Segni sulla sabbia Note di viaggio di Tommaso Cariati

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Napoli, squarci d’un mondo a molte dimensioni, capovolto Il cicerone disse: «Napoli è come uno spazio di Calabi-Yau, “una varietà differenziabile a variabili complesse, con uno ‘spinore’ armonico non evanescente”. È chiaro? No, ma proseguiamo, perché siamo a Napoli». Interessante come accoglienza. Molti sono perplessi, altri intrigati. Ci chiediamo se sia puro terrorismo intellettuale. Uno del drappello raccoglie la sfida, tira fuori un libro dallo zaino e, con voce ferma ed espressiva, legge. «L’autobus che doveva lasciarmi in via Duomo, dove comincia San Biagio dei Librai, era così stipato che mi fu impossibile scendere al momento giusto, e quando finalmente misi piede a terra, la squallida facciata della Stazione Centrale mi stava di fronte, col monumento a Garibaldi e una carovana di vetture tranviarie di un verde stinto, di neri tassì sgangherati, di carrozze tirate da piccoli cavalli che dormivano. Voltai le spalle e tornai indietro, fino a via Pietro Colletta, nel famoso rione dei Tribunali. Il cielo era di un azzurro chiaro, smagliante come nelle cartoline al platino, e sotto quella luce gli uomini venivano e andavano in modo confuso, in mezzo agli edifici che sorgevano qua e là, senza ordine apparente, come nuvole. All’inizio di Forcella, mi fermai perplessa. C’era un gran movimento, più su, in cima alla stretta via, un ondeggiare di colori, fra cui spiccavano il rosso chiaro e il nero, un ronzare doloroso di voci. Un mercato, pensai, una rissa. C’era una vecchia seduta accanto a una pietra, all’angolo delle via, e mi fermai a domandarle che stessero facendo tutte quelle persone. Alzò il viso butterato dal vaiuolo, chiuso in un gran fazzoletto nero, guardò anche lei quella lontana striscia di sole, in mezzo a Forcella, dove si gonfiava, come un serpe, tanta folla, e ne veniva quell’alterno doloroso ronzio. “Niente stanno facendo, signò,” disse calma “vuie sunnate”». Si tratta di Anna Maria Ortese, in Oro a Forcella. Il cicerone ascolta compiaciuto, poi reagisce. «Bisogna avere studiato storia, letteratura, filosofia e antropologia, ma anche fisica, ingegneria e geologia, e avere ruminato lentamente l’evangelo, ma, soprattutto, occorre avere occhi capaci di vedere, per comprendere qualcosa di Napoli. In questa città potete vedere la miseria più nera di cui narra la Ortese, la delinquenza più feroce di cui narra Saviano, la santità più pura di un san Giuseppe Moscati, l’avanguardia tecnologica e scientifica più avanzata di alcune industrie aerospaziali napoletane che collaborano con la Nasa. Ve l’ho detto: Napoli è uno spazio di Calibi-Yau; e occorre tenere presente che secondo la teoria delle stringhe, “le extradimensioni sono arrotolate in figure 78


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a forma di spazi di Calabi-Yau associate ad ogni punto dello spazio-tempo”. Chiaro? No? Non fa niente». Il nostro cicerone, un giovane ingegnere-prete, ci ha accolti all’incrocio tra via del Duomo e via dei Tribunali e ci ha informati subito: «Stiamo con i piedi in un luogo che ha venticinque secoli di storia». Due fatti ci colpiscono a primo acchito: la grandissima e proverbiale vivacità della gente di cui, con grande maestria, anche se con qualche esagerazione negli aggettivi, scrive la Ortese; l’altro, il reticolo urbanistico estremamente regolare, basato su un fascio di strade parallele all’antico cardo, orientato da nord a sud, e un fascio ortogonale da est a ovest, quasi parallelo alla linea di costa. La famosa Spaccanapoli è qui, parallela a via Tribunali e ortogonale a via Duomo. Il nostro cicerone ha studiato con profitto ingegneria civile e, dopo aver conseguito la laurea, è entrato in seminario e si è fatto prete. Ci parla volentieri di architettura, di storia, dei napoletani; ogni tanto racconta barzellette; ci narra dei bombardamenti che hanno colpito Santa Chiara, durante la seconda guerra mondiale, dei conci di tufo e di piperno con cui sono costruiti i palazzi, dei blocchi di lava di cui le strade sono lastricate, dei sotterranei della metropoli. Prima di tuffarci nel suo ventre abbiamo contemplato da lontano e dall’alto la città: da Capodimonte, da Castel Sant’Elmo, da Posillipo, dal Vomero. Abbiamo cercato la luna sui monti Lattari e su Sorrento di cui Enzo Striano parla nel suo Il resto di niente; il giallo Napoli di cui Raffaele La Capria scrive da una nave che lo porta al largo in un’ora vespertina; la luce che un pittore americano, in una sorta di gioco d’inseguimento reciproco cerca di catturare, avendo quella luce soggiogato lui in un lontano mattino degli anni dello sbarco degli alleati; le onde e i colori cangianti del mare di cui parlano tanti scrittori, compreso Goethe; il cielo azzurro limpido e la luce scintillante di un meriggio estivo; i tramonti dipinti dai venti e dalle pressioni atmosferiche con tutta la gamma dei grigi fino al nero, di gialli e rosso-fuoco di certe giornate descritte ne La dismissione di Ermanno Rea. Ora che siamo immersi nel cuore pulsante della metropoli meditiamo sul suo fascino singolare e sul mistero che Napoli è. Il prete-ingegnere, come leggendo i nostri pensieri, dichiara: «Questa città è ambivalente; che dico “ambivalente”: è tutto e il suo contrario. Alcuni aspetti di Napoli sono come quelle particelle subatomiche che, osservate da un certo punto di vista, ci sono, mentre, se si cambia punto di osservazione, scompaiono». Quanto al fascino, ci viene in mente che, per esempio, Stendhal ha scritto: «Napoli è l’unica capitale d’Italia». E bisogna dire che nel primo quarto del XIX secolo, quando il romanziere francese scriveva, capitali in Italia ve n’erano diverse. Ma se l’autore de La Certosa di Parma, che aveva viaggiato dappertutto in 79


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Europa, si esprimeva così, nonostante il fallimento della rivoluzione del 1799 e le delusioni seguite all’esperienza murattiana, un motivo deve esserci. Quanto, poi, al mistero, consideriamo che ne La patria napoletana Elena Croce ha scritto: «Il vezzo fastidioso di parlare del carattere napoletano come di un mistero, ha dato origine a una scadentissima retorica, ma ciò non significa che una sorta di mistero a Napoli non ci sia: un mistero per cui non occorre scomodare leggende medioevali o rinascimentali, poiché appartiene alla Napoli moderna, uscita dalla rivoluzione del 1799. Ma naturalmente sarebbe vano ripromettersi di trovare una chiave. Non c’è storia di mistero che, quando infine si apre la porta, non riveli una stanza vuota». Il mistero, dunque, c’è, ma a volerlo afferrare, si dissolve in un’apparenza, come il mistero della vita. Ho chiesto a un amico napoletano, Mimmo Piciocchi, che trasportava “alla napoletana” me e altre persone, con un vecchio furgone cigolante, per le vie della città, se gli istruttori di scuola guida, a Napoli, usassero manuali e regole speciali per insegnare a cavarsela sempre in modo originale. Rispose con piacere, orgoglio ed entusiasmo, felice che qualcuno gli avesse fatto una domanda importante: «A Napoli, quando metti piede in un’autoscuola, la prima regola che ti insegnano è: “Appresso ’o pallone sccappa ’o guaglione”». Poi spiegò: «Quando vedi rotolare un pallone, frena perché stai per mettere sotto il bambino che insegue quel pallone». Scalò la marcia, sorpassò. Poi aggiunse: «La seconda regola che ti insegnano è questa: “Quando percorri una via stretta, non tenere la destra, cammina mmienze ’a strata”». E spiegò: «Poiché i ‘bassi’ dei palazzi sono tutti abitati, improvvisamente esce qualcuno da una porta che non si vede e lo metti sotto». Concluse la lezione: «La terza regola è: “Quando ti avvicini al semaforo non fermarti, rallenta, guarda e prosegui”, ppecché l’importante è evitare gli incidenti, giusto? allora perché fermarsi? se tutti, rosso o non rosso, da una parte e dall’altra, fanno attenzione, stiamo a posto, no?». Questa città offre davvero squarci d’un mondo a molte dimensioni, e capovolto. Napoli ha duemilacinquecento anni di storia, dice il nostro preteingegnere-cicerone; e si tratta di una storia continua, non come quella di città che per ampi archi di tempo sono rimaste inabitate. Dal punto di vista puramente storico non c’è discontinuità a Napoli: prima vengono i Greci italioti dalla vicina Cuma, i quali impostano una città basata su fasce reticolari; poi vengono i Romani, i quali fanno del golfo più bello del mondo un grande scalo commerciale e un luogo di villeggiatura; dopo la parentesi di Teodorico e dei suoi discendenti, a seguito della guerra gotica, arrivano i Greci bizantini, che difenderanno con tenacia la città dai Saraceni ma anche dai Longobardi, i quali, con capitale Benevento, sono stanziati praticamente dovunque intorno. 80


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La Napoli bizantina, per difendersi dai nemici, attirerà nel suo territorio quei cavalieri normanni che costruiranno, in breve tempo, un forte regno nell’Italia meridionale. Dopo i Normanni verranno gli Svevi, poi Carlo d’Angiò, poi gli Aragonesi, poi il vicereame spagnolo; dopo la parentesi austriaca, arriva Carlo di Borbone, al quale succede il figlio Ferdinando, poi c’è il decennio francese e Gioacchino Murat, quindi ancora i Borbone, poi i Savoia e il regno d’Italia, infine la Repubblica italiana. Questi sono però soltanto i grandi capitoli della storia di Napoli. Se sfogliamo i capitoli e scorriamo i paragrafi e i sottoparagrafi ci accorgiamo che la realtà è molto meno lineare; anzi, ci accorgiamo che il processo della storia della città è attorcigliato, a spirali, con andirivieni, con stop and go, con fratture e ripartenze. Secondo alcuni la storia di Napoli si sarebbe bloccata nel 1799, quando la rivoluzione napoletana fu schiacciata in un bagno di sangue: vi perirono i migliori ingegni del tempo (Caracciolo, Russo, Pagano, Fonseca-Pimentel). Vincenzo Cuoco, in esilio, ha scritto il Saggio storico sulla repubblica napoletana e ha spiegato che non poteva funzionare una rivoluzione basata soltanto su idee importate dall’estero (idee che comprendevano un calendario astruso come una notte buia), senza il coinvolgimento del popolo (un popolo, quello di Napoli, detto “plebe napoletana”). Raffaele La Capria ritiene che la storia della città si sia bloccata a seguito del fallimento della rivoluzione del 1799, con l’attuazione di un programma culturale di indottrinamento ideologico della plebe che, facendo leva anche su una trasformazione della lingua, mirava al suo pieno addomesticamento. Il grande scrittore sostiene che il dialetto napoletano dell’epoca post-rivoluzionaria è un dialetto “molle”, mentre il dialetto in uso nella fase precedente, per esempio, quello del Basile (che possiamo gustare leggendo il suo Pentamerone), è un dialetto “tosto”, cioè autentico, schietto, gagliardo. Dopo il fallimento della rivoluzione napoletana il dialetto sarebbe stato alterato e degradato a mezzo della recita di una maschera corrispondente alla napoletanità o napoletaneria, fatta di buoni sentimenti, di smancerie e sdolcinature. Noi non sappiamo in che misura le cose siano andate davvero così, ma comprendiamo bene tutta la retorica della lingua di certi canzonettisti troppo pop. Napoli ha una grandissima tradizione intellettuale; per fortuna non tutti i pensatori partenopei sono finiti sul patibolo. Abbiamo già menzionato il Basile e il suo Pentamerone o Cunto de li cunti; occorre menzionare il Vico e la sua Scienza nuova; il Genovesi con la sua Economia civile; il Filangeri con la sua Scienza giuridica; il Russo con i Pensieri politici; e poi Benedetto Croce, il quale se non è napoletano di nascita, essendo nato in Abruzzo, lo è certamente d’adozione, e tutti i meridionalisti, a partire da Giustino Fortunato, Manlio Rossi Doria, Pasquale Saraceno, Francesco Compagna, Ernesto De 81


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Martino. Uomini politici come Napolitano e De Nicola sono napoletani. A Napoli troviamo scrittori, poeti e commediografi come La Capria, autore di alcuni romanzi, di varie raccolte di racconti, di riflessioni sulla letteratura; De Filippo, famoso per il suo teatro, Domenico Rea, autore di romanzi e racconti su Napoli; Prisco, anch’egli romanziere, Compagnone, scrittore e poeta, Pomilio, Prunas, Ermanno Rea, autore di reportage (sia pure con varie sbavature sul piano strettamente letterario, ci ha regalato alcune storie interessanti su Napoli: per esempio, La dismissione ci parla, con linguaggio ricco di metafore e lessico potente, dello smantellamento degli impianti siderurgici di Bagnoli, acquistati dai cinesi; Mistero napoletano ci racconta, sia pure da un punto di vista particolare, un pezzo di storia della Napoli della guerra fredda); Ortese, la quale con il suo Il mare non bagna Napoli ha fatto discutere intere generazioni; Starnone; Enzo Striano, col suo bellissimo romanzo sulla rivoluzione del 1799 Il resto di niente; su su fino ai nostri giorni con Erri De Luca, Saviano, la Cilento, la Parrella, Santojanni. Salvatore Casaburi, su «la Repubblica» del 25 ottobre 2009, ha scritto un articolo intitolato Pizzofalcone, quel mondo che parla all’Europa, in cui scrive: «Pizzofalcone è luogo di nascita e di rinascita. […] Fu a Pizzofalcone, nel Collegio Militare della Nunziatella, che trovarono incubazione i nuclei giuridici delle future Costituzioni antiassolutiste. […] Nell’appartamento del vecchio Collegio Militare si riunirono nei primi anni del secondo dopoguerra i giovani intellettuali della rivista “Sud”». Ecco, Napoli è degrado più disumano, ma anche luogo di germinazione delle speranze più sublimi. È stato osservato che a Napoli spicca la speculazione filosofica e intellettuale sulla narrativa, ma qui il pensiero non è mai puramente astratto, perché gli intellettuali napoletani hanno sempre amato raccogliere dati, fare statistiche, cercare soluzioni ai problemi, oltre che discettare. In campo intellettuale, comunque, a Napoli accade qualcosa che possiamo definire due volte l’opposto di ciò che osserviamo in Sicilia: mentre in Sicilia ogni angolo produce intellettuali, in Campania gli intellettuali, anche quando provengono dalle Calabrie, o dalle Puglie, o da Pescasseroli, come Croce, sono napoletani; inoltre, mentre i siciliani hanno prodotto grandi opere letterarie, di sicuro livello europeo e mondiale, i napoletani sono grandi, diciamo di livello europeo, nella filosofia, nelle dottrine economiche e giuridiche, ma non nella letteratura. Siamo anche sicuri che nei centri di ricerca delle università napoletane si studiano oltre alla teoria delle stringhe e gli spazi di Calabi-Yau, “il dicibile e l’indicibile nella meccanica quantistica”, come pure i sistemi di elaborazione ad alto parallelismo, i linguaggi di programmazione multi paradigma e la robotica cognitiva. Siamo a Napoli e contempliamo una grandissima fucina di idee e venticinque secoli di storia, ma ci arrovelliamo intorno ai nodi della storia di que82


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sta grande città, e alle sue contraddizioni. Maria Rosaria, l’amica che ci conduce per le vie di Forcella, Scampia, Sanità, una studentessa di chimica che fa la guida per guadagnare un po’ d’argent de poche, stuzzicata dall’idea di La Capria, e forse di Elena Croce, secondo la quale il fallimento della rivoluzione del 1799 avrebbe causato un blocco della storia di Napoli, ci dice: «Ermanno Rea in Mistero napoletano sostiene che durante gli anni Cinquanta del XX secolo la storia di Napoli rimase bloccata, a causa della trasformazione del porto della città in un porto militare a disposizione degli americani, e nell’indisponibilità per gli usi civili e commerciali ordinari (ma anche a causa dei comunisti troppo stalinisti, più stalinisti dello stesso Stalin)». «Questa del blocco della storia di Napoli, a quanto pare qui è un’idea fissa» scherza uno del gruppo. Quell’altro che con il prete-ingegnere aveva tirato fuori dallo zaino Il mare non bagna Napoli, commenta insinuante: «Il titolo dell’opera di Anna Maria Ortese, che negli anni Cinquanta ha suscitato tante polemiche, era un’idea che in quel tempo a Napoli circolava, non l’ha mica inventata la Ortese. Infatti, Napoli, bloccata dal governo paternalistico di Lauro e dalla militarizzazione del porto, non riceveva alcun beneficio dal magnifico golfo e dal mare, che nel corso dei secoli l’avevano resa famosa nel mondo». La studentessa di chimica, tra l’indicazione di un “basso” dalla porta spalancata e la segnalazione di un gruppo di ragazzini che hanno l’aria sospetta, riprende: «Seguendo il filo conduttore dell’idea della storia bloccata però si può affermare che la storia a Napoli si è bloccata quando sono rimasti i Bizantini, nell’alto Medioevo, o quando non sono giunti i Longobardi, o quando nel Sud Italia sono giunti i Normanni e hanno eretto Palermo capitale del regno, o quando è arrivato Carlo d’Angiò, facendo fuori Manfredi, e Corradino di Svevia in piazza del Mercato; a meno che non si ritenga positiva la fine degli Svevi, in quanto, almeno, l’angioino ha costruito a Napoli una capitale». Uno del gruppo, trovando ragionevoli questi argomenti, aggiunge filosofico (forse ispirato dall’alta intensità di pensiero dei napoletani): «Il processo storico può apparire a volte contorto o bloccato ma la storia è quella che è, non quella che sta nella testa di alcune persone, nemmeno quando si tratta di un pugno di uomini di valore: il Cuoco ce lo insegna». Maria Rosaria conclude: «Seguendo questo filo conduttore si può giungere ad affermare, senza sbagliare troppo, che la storia di Napoli, ma anche quella di altre città e regioni, è stata bloccata dalla falsa donazione di Costantino, con la quale il Papa si è dichiarato erede di tutti i possedimenti dell’Impero romano, in forza della quale ha costruito gli Stati della Chiesa e ha considerato l’Italia meridionale come un regno vassallo». Uno del gruppo aggiunge cauto: «Napoli del resto è bloccata da tanti altri fenomeni». La nostra coraggiosa guida conclude con uno vero e proprio sfogo: «C’è stato il brigantaggio; c’è stata, e continua a 83


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esserci, anche se nessuno ama parlarne, la Questione meridionale; c’è stata, e continua a esserci, la camorra; ci sono state le epidemie e le calamità: colera, terremoto, bradisismo; ci sono gli uomini politici corrotti; ci sono i rifiuti e l’inquinamento che ha raggiunto livelli di suicidio; c’è la disoccupazione». «Qui sono particolarmente acuti la mancanza di legalità, il cattivo funzionamento dell’amministrazione, l’inadeguatezza di infrastrutture, l’assenza di condizioni minime di corretto funzionamento del mercato e perfino di civile convivenza», così Emma Marcegaglia su Napoli e sul Sud, secondo quanto riferisce Marco Demarco su «Il corriere del Mezzogiorno», 22 maggio 2009. Il 28 maggio 2009, Francesco Durante, sulla stessa testata, scrive: «Insinuata nel cuore del corpo urbano [di Napoli] con un andamento vagamente serpentiforme dalla Ferrovia verso Forcella, e poi ai Quartieri Spagnoli e di lì, da una parte, verso il Pallonetto di Santa Lucia e, dall’altra, […] fino alla Torretta, c’è una specie di città-nella-città». Quest’altra città «presenta i più cospicui fenomeni di degrado materiale». Ci si chiede: che cosa augurare a Napoli? Auguriamo alla sua gente di non perdere la speranza. Il giorno dopo abbiamo appuntamento con Gennaro, un giovanotto che ci guida nella Napoli sotterranea. «Napoli sotterranea, da dieci a trenta metri sotto terra, offre spunti per capire meglio come Napoli si sia evoluta in superficie» così esordisce Gennaro. Prosegue recitando un testo mandato a memoria: «I primi manufatti di scavi sotterranei risalgono a circa 5000 anni fa. Successivamente, nel III secolo a.C., i Greci aprirono le prime cave sotterranee per ricavare i blocchi di tufo necessari alle mura e ai templi della loro Neapolis, e scavarono numerosi ambienti per creare una serie di ipogei funerari. È il caso, per esempio, della cava greca che lo speleologo Enzo Albertini riportò alla luce, a circa quaranta metri di profondità al di sotto del cimitero di Santa Maria del Pianto. Ma lo sviluppo imponente del reticolo dei sotterranei iniziò in epoca romana». Sotto la città di Napoli c’è un dedalo di sotterranei che si estende per quasi tutta la superficie cittadina. Si tratta di cunicoli scavati con pala e piccone per prelevare materiale da destinare a edifici di culto e palazzi in superficie, ma anche per costruire acquedotti e camere funerarie. Gennaro riprende la recita per i turisti: «I Romani, che erano grandi ingegneri ed urbanisti, in epoca augustea dotarono la città di gallerie viarie, come la grotta di Cocceio e l’altra di Seiano, e soprattutto di una rete di acquedotti complessa, alimentata da condotti sotterranei provenienti dalle sorgenti del Serino, a settanta km di distanza dal centro di Napoli. Altri rami dell’acquedotto di età augustea arrivarono fino a Miseno, per alimentare la Piscina Mirabilis, che fu la riserva d’acqua della flotta romana». I cunicoli dell’acquedotto sono davvero impressionanti: si diramano spesso in tutte le direzioni, con lo scopo di alimentare fontane ed abitazioni situate in diverse aree della città. Qua e là, 84


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sulle pareti, ci sono ancora tracce dell’intonaco idraulico, utilizzato dalle maestranze dell’antichità per impermeabilizzare le gallerie. Si tratta di ambienti davvero «inquietanti ed al tempo stesso affascinanti», come è scritto nelle guide. Gennaro conclude: «Si alternano cisterne e cave, cunicoli e pozzi, resti del periodo greco-romano e catacombe; innumerevoli sono i passaggi che collegano moltissimi punti della città, distanti anche chilometri tra loro». Anna Maria Ortese, con Il mare non bagna Napoli, ha esagerato un po’, ma, come ha rilevato La Capria, più in fatto di deontologia e di finezza professionale che di sostanza. La sostanza a lei appariva in quel modo e non poteva farci niente. Occorreva maggiore senso della pietà, come ha suggerito a noi il prete-ingegnere, per osservare e provare compassione per quella immane sofferenza. E ne occorre a noi per osservare e comprendere l’immane sofferenza dei nostri giorni. Bisogna concepire piani per riqualificare la città, ma occorre tenere sempre presente la lezione di Vincenzo Cuoco e del suo Saggio storico. E pure la lezione che Enzo Striano ci ha dato col bel romanzo Il resto di niente, sulla rivoluzione del 1799, e sulla poetessa e intellettuale Eleonora Pimentel-Fonseca: vi si trova uno spaccato straordinario di quel torno di tempo, sia sotto il profilo sociale e politico, sia sotto quello culturale e linguistico (quando la lingua napoletana, per dirla con La Capria, era “tosta”). Il resto di niente rimanda alla frase, ripetuta come un leitmotiv, che completa o precisa un predicato, come “tu non hai capito il resto di niente”, cioè meno di niente; “tu non vali il resto di niente”; “non putimmo fare niente, lo riesto de niente”, “Ccà non se capisce lo riesto de niente”. Citiamo alcuni brani del libro che tratteggiano l’immagine di una città molteplice e complessa all’ennesima potenza, fino all’inesplicabile: «Le attività nel vicolo erano tante. Nonostante l’atmosfera di perenne disimpegno, si davan tutti da fare». «Nel vicolo la popolazione era composta da nobili e popolani. Borghesi niente, tranne pochi impiegati, qualche mercante. Inesistenti persone di cultura, lettere o scienza». «Da Napoli non si sarebbe più mossa. Vi alitavano savia comprensione, indifferenza gentile, meglio ancora supremo senso della vita, in equilibrio fra pietà e disincanto». «La città nascondeva inclinazione pedagogica. Senza volerti insegnare nulla ti costringeva ad apprendere, fra banalità, segreti pregevoli». Il libro è scritto con maestria; grazie a un multilinguismo pertinentissimo (i cosiddetti lazzari, per esempio, parlano la loro lingua colorita e potente, quella “tosta” di Basile, e ricorrono alla fronna per comunicare con i congiunti rinchiusi nelle carceri), all’asciuttezza delle frasi, da oralità anziché da scrittura, all’uso frequente dei verbi al presente, Striano, come ha accennato La Capria, compie quello che a Napoli non era riuscito prima di lui: affrontare la questione del 1799 per elaborarla sul piano psicologico e sociale, ma anche linguistico. La Capria ha riconosciuto anche il valo85


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re di riesame critico, operato da una certa parte della borghesia intellettuale della città, quella comunista degli anni Cinquanta, del libro di Ermanno Rea Mistero napoletano. Corrado Alvaro aveva iniziato il suo pezzo dedicato al capoluogo campano, del suo Itinerario italiano, con un vero e proprio omaggio ai napoletani: «A Napoli quello che mi colpisce è l’importanza dell’uomo su tutte le cose; altrove è la città, la sua architettura, la sua storia, le sue attitudini che vi parlano chiaro al primo passo; a Napoli è la vita con i suoi atteggiamenti fermi a un tempo che non è di ieri né di oggi, come fissati a un punto che non è nuovo né antico ma di sempre». Più avanti scrive: «Napoli non s’è scordata la natura, e pur tra le fortezze e i vecchi androni più scuri grida l’invito alla bellezza delle derrate, a uno spettacolo puramente visivo, come se la bellezza fosse tutto». Più oltre leggiamo: «Di solito, quelli che visitano Napoli si fermano agli aspetti più appariscenti della città, alla sua nobiltà, alla spensieratezza che sembra emanare sempre da tutto quello che è vivace e naturale, al suo tessere di gesti la vita quotidiana. Certo, si tratta d’una mobilità estrema, ed è difficile indovinarne lo scopo, tanto che molti non gliene attribuiscono alcuno, se non proprio la manifestazione di una grande vitalità; e invece è tutto un modo e una rete di rapporti di cui è fatta quella vita». Possibile che il calabrese di San Luca avesse compreso qualcosa dei napoletani che sfugge a ogni altro? Concludendo, ci viene in mente un verso di un napoletano d’oggi, Giuseppe Limone, filosofo e poeta: “La terra è arresa alla forza che l’aggioga”. La raccolta da cui il verso è tratto si intitola Notte di fine millennio, dove la “notte” potrebbe essere quella nella quale tutti brancoliamo in questo tempo, a Napoli come altrove. Insieme al verso di Limone ricordiamo però anche il versetto dell’evangelo di Giovanni «la luce venne nelle tenebre e le tenebre non l’hanno sopraffatta».

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Il Lazio, il suo deserto, le sue fratture Parigi e il deserto francese è il fortunato titolo di un libro, scritto dal geografo Gravier alla fine degli anni Quaranta del XX secolo, che spiega in estrema sintesi la realtà urbana e demografica della Francia del tempo. Lo stesso paradigma può essere applicato in Italia al Lazio e alla capitale: Roma schiaccia e fa eclissare agli occhi del viaggiatore l’intera regione. Basti osservare che, mentre gli italiani di norma dicono: «Vado in Umbria» o «Vado in Toscana» o «Vado in Sicilia», e i siciliani dicono: «Vado nel continente», non si dice quasi mai: «Vado nel Lazio». Guardando poi più da vicino i dati, osserviamo che il comune di Roma ha tre milioni di abitanti, cioè la metà di quelli della regione; che la provincia di Roma, da sola, ha un territorio poco più piccolo di quello dell’intera Liguria (che però è una regione); che il vasto territorio di questa provincia ospita quattro milioni di abitanti, cioè i due terzi della popolazione del Lazio, che, però, ha ben cinque province. Naturalmente il Lazio è tutt’altro che un deserto. La regione è ricchissima non solo di acque allegre e cristalline (a volte frizzanti, altre volte termali e terapeutiche) e di vegetazione lussureggiante, ma anche di cittadine e siti importantissimi dal punto di vista storico, archeologico, spirituale, naturalistico: Tivoli, Anagni, Montecassino, Tuscania, Fiuggi, Civita di Bagnoregio, Castel Gandolfo, Bracciano, Bolsena, Palestrina, Sutri, Cerveteri, Tarquinia sono soltanto alcuni dei nomi da tenere bene a mente. Il viaggiatore o il pellegrino, tuttavia, di norma viene prima calamitato, poi risucchiato e, infine, ingoiato dalla capitale. L’infrastruttura dei trasporti è, del resto, dal tempo dell’antica Roma, centrata sulla metropoli, in modo da ribadire e legittimare la dicotomia tra l’Urbe e il resto della regione. Le vie consolari, le strade ferrate, le arterie autostradali attirano irresistibilmente il viaggiatore nella trama urbana della capitale, come il ragno nella tela. Non che manchi del tutto la possibilità di sottrarsi alla malia della città eterna: semplicemente tutto congiura a farti cadere in una trappola. Itinerari di avvicinamento lento alla capitale, che permettano di apprezzare le bellezze del Lazio e ammirare Roma in una luce e da punti di vista insoliti, comunque, ce ne sono tanti. Si può provare, ad esempio, a lasciare l’autostrada Napoli-Roma a Valmontone, passare per Artena, puntare su Velletri al tramonto, attraversare il magnifico parco regionale dei Colli Albani, scendere da Castel Gandolfo, ammirando il lago, e raggiungere, tra i vigneti, l’Appia. Lungo la Napoli-Roma, si può anche lasciare a sinistra la valle della Ciociaria col fiume Sacco e inerpicarsi verso Fiuggi e scendere per Palestri87


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na, o proseguire per Subiaco e Tivoli, e raggiungere Roma per la Tiburtina. Oppure, alternativamente, per itinerari molto stravaganti, si può uscire dall’autostrada a Cassino e puntare su Sora, lungo la statale 82 che risale il fiume Liri. Superata la città, varcare le montagne e sconfinare in Abruzzo; arrivati a Capistrello, puntare ai monti Simbruini dai quali si ammira l’immensa valle del Fucino; rientrati nel Lazio e superato l’abitato di Filettino, tuffarsi nella valle lussureggiante dell’Aniene: dopo Trevi nel Lazio e Jenne, sede del parco regionale, scendere per Subiaco e Tivoli. L’itinerario permette di attraversare un territorio straordinariamente bello, ma anche di farsi pellegrini: si può visitare il monastero di Montecassino, l’abbazia di Casamari, il monastero di santa Scolastica e, soprattutto, il Sacro Speco di san Benedetto, indimenticabile: qui si deve sostare, meditare, pregare. L’itinerario può essere anche occasione propizia per riflettere sulle vicende della storia: lungo la statale 82, poco oltre Capistrello, tra Tagliacozzo e Avezzano si trova Scurcola Marsicana, che fu teatro della battaglia nota come battaglia di Tagliacozzo, tra Carlo d’Angiò e lo sfortunato Corradino di Svevia, nipote di Federico II. Viaggiando da nord, un’altra possibilità molto interessante è quella di abbandonare la A1 a Magliano Sabina e giungere a Roma percorrendo la Cassia o la Flaminia, spaccando il territorio etrusco. A Magliano Sabina, lasciata l’autostrada, recarsi, per una via interpoderale, innanzitutto a contemplare il Tevere che scorre lento nel suo letto sinuoso: poco più a monte ha ricevuto, presso Orte, il tributo del fiume Nera. Sazi di pensieri e immagini fluviali, si può percorrere poi la Flaminia fino a Civita Castellana, e, puntando verso il lago di Bracciano, acciuffare la Cassia. Indugiare quanto si vuole intorno al lago di Bracciano, e a quello minuscolo di Martignano, visitare Sutri (che ci ricorda la storia del rapporto travagliato tra papi e Longobardi), piombare infine a Roma passando per Veio e affacciandosi da Monte Mario, come i pellegrini che nel medioevo percorrevano la via Francigena (qui, contemplando la città dall’alto si può recitare il salmo 122: «Quale gioia quando mi dissero: / “Andremo alla casa del Signore” / E ora i nostri piedi si fermano / alle tue porte, Gerusalemme /…»). Altre possibilità di approccio lento alla capitale sono offerte dalle pianure costiere: da nord-ovest lungo l’Aurelia, o da sud-est lungo l’Appia e la pianura pontina, facendo una digressione all’oasi di Ninfa e una allo sperone del Circeo. L’itinerario che porta a Roma lungo l’Aurelia è veramente interessante, sia per i paesaggi sia per i siti archeologici (siamo nel cuore del mondo dei Tirreni, gli Etruschi): Tuscania, Vulci, Tarquinia (patria del poeta Vincenzo Cardarelli), Civitavecchia, Cerveteri: è un susseguirsi di cittadine e siti famosi per la presenza di necropoli etrusche, in un territorio scarsamente popolato. 88


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Su un’altura a est di Tarquinia si trova la necropoli etrusca dei Monterozzi con circa 6000 sepolture, le più antiche delle quali datate al VII secolo a.C. Circa 200 tombe contengono una serie di affreschi di straordinaria fattura: le camere funerarie sono modellate come gli interni delle abitazioni del tempo: si tratta di “patrimonio dell’umanità”. (Pare che gli etruschi fossero grandi ingegneri e avrebbero fornito ai romani le basi della loro tanto nota ed ammirata abilità progettuale e costruttiva – sull’altura che si affaccia sopra la laguna di Orbetello, ad esempio, sono state trovate le rovine di Cosa, dove si conservano resti di mura ciclopiche, che ancora si innalzano alte fino a 12 metri; ai piedi della roccia a picco sul mare c’è la “tagliata etrusca”: bisogna vedere con i propri occhi per credere ciò che è incredibile; sui colli Albani c’è il fantastico emissario artificiale del lago di Nemi: un cunicolo, lungo 1.635 metri, scavato nella roccia col doppio scopo di mantenere costante il livello del lago e di irrigare la valle situata oltre i colli). Dirigendosi da sud verso la Città eterna, si può lasciare l’autostrada a Cassino, superare il fiume Liri e i monti Aurunci, e guadagnare l’Appia presso il mare; oppure lasciare la Napoli-Roma a Capua e, acciuffata subito la “regina delle strade”, l’Appia, puntare al Garigliano e al mare. Giunti a Formia dovremmo dividerci, nella mente e nel cuore: una parte di noi prosegue costa costa per Gaeta, Sperlonga e Terracina, l’altra parte si inerpica lungo l’Appia antica per Itri, sui monti Aurunci, e Fondi, sugli Ausoni. A questo punto è d’obbligo una digressione al Circeo e la risalita di un tratto del litorale, poi si attraversa la pianura pontina (riflettendo su quel libretto un poco controverso di Corrado Alvaro, Terra nuova) e si riguadagna la regina viarum, fino a Roma. Viaggiare per borghi e paesi del Lazio è interessante anche per prendere parte alle sagre del vino o della porchetta, e per ammirare le infiorate straordinarie e partecipare alle processioni. Sagre e feste abbondano nel Lazio forse più che altrove: c’è la sagra delle castagne di Rocca di Papa, quella della salsiccia di Morlupo, la sagra della porchetta di Ariccia, la sagra dell’uva di Marino: è una nota festa tradizionale, che ricorre ogni prima domenica di ottobre, durante la quale le fontane anziché acqua danno vino. In occasione della festa del Corpus Domini, invece, praticamente in tutti i centri del Lazio, come accade a Genzano, si organizzano le infiorate, cioè tappeti floreali lungo il percorso della processione (esempio nostrano di arte effimera, del tutto simile a quella giapponese che si pratica con la sabbia o anche con i fiori). Ma ci sono altre manifestazioni magico-religiose: nel romanzo La lepre di Vincenzo Cerami, la cui vicenda si svolge nella parte meridionale dello Stato della Chiesa, al confine con il mondo napoletano, si accenna, per esempio, alla ga-

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ra notturna del “solco dritto”: si tratta di un solco rituale ma anche di una gara di abilità contadina. Girare per il Lazio in modo lento permette di scoprire, ad esempio, che la regione è tutt’altro che unitaria, anzi appare piuttosto frammentata, come si vede bene osservando monti, fiumi e laghi. Il Lazio (il quale, sulla carta geografica, si presenta come una macchia di Rorschach, che fa pensare al profilo di un veliero in un teatrino di ombre cinesi, con quel triangolo molto irregolare, avente base tra Orte e Arsoli, e vertice dalle parti di Ascoli Piceno, sormontato su un rettangolo disteso con il lato maggiore lungo il mar Tirreno) è segnato, innanzitutto, dalla frattura del Tevere, il quale, nella regione, prima scorre in direzione sud-est, poi piega, a monte della capitale, verso sud e, infine, vira decisamente a sud-ovest, e si getta nel Tirreno (questo fiume, che tutti associamo al Lazio e a Roma, tanto importante per le genti che nell’antichità hanno abitato questi luoghi, in realtà, come si vede osservando il suo lungo corso, è più dell’Umbria che del Lazio). L’Aniene, prima di convogliare, scorrendo in direzione sud, nel Tevere le sue acque, corre in direzione nord-ovest, parallelo ai monti Simbruini. Il Velino, che bagna Rieti, è tutto orientato verso nord-nord-ovest, quasi come il primo tratto dell’Aniene: soltanto dopo che in Umbria incontra il Nera, grazie a questo fiume, può condurre al Tevere le sue acque. Il Sacco, invece, che ha il corso nella valle della Ciociaria, il territorio più stabile della regione, eccentricamente si allontana dalla capitale, dirigendosi verso Napoli. Insomma, osservando i fiumi e i monti, si vede subito che al Lazio manca un centro: la Città eterna su quei bassi colli sarebbe per la regione un centro tutto artificiale, ma universale dal punto di vista storico-politico-religioso. A ovest della frattura del Tevere, che idealmente prosegue, verso sudest, fino a Terracina, il Lazio è vulcanico o alluvionale, con rilievi insignificanti anche quando sono detti “monti”, come i Volsini, i Cimini, i Sabatini. (Il Soratte è alto solo 691 metri ma è detto monte innevato da Orazio: «Vedi, laggiù si staglia il Soratte, con candido manto di neve. I rami, sfiniti, faticano a reggere il peso. Per il gelo pungente, fiumi e ruscelli si sono rappresi. Dissolvi il freddo alimentando la fiamma con larga provvista di ceppi e senza risparmio attingi, Taliarco, vino di quattr’anni, puro, dall’orcio sabino»). Fanno eccezione i Colli Albani, a sud-est della capitale, che toccano i 949 metri con il monte Cavo, sopra Rocca di Papa. Sempre a ovest della linea del Tevere troviamo i cinque laghi, tre a nord-ovest di Roma e due a sud-est sui Colli Albani. In questa banda, situata tra il mare e il Tevere, con ideale prolungamento fino a Terracina, la campagna romana si salda a sud alla pianura di Latina, strappata dal fascismo alle zanzare, e a nord-ovest alla Maremma laziale. 90


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A est della linea del Tevere, c’è, invece, un territorio, dal punto di vista geologico, più antico, che si estende fino alle groppe dell’Appennino, con rilievi che nella provincia di Rieti superano i 2000 metri di altitudine. Il Terminillo, alto 2216 metri, e i monti della Laga, che superano i 1400, sono ben distanti da Roma e dal Tirreno, verso il quale il territorio della regione appare gravitare. Non tutto però; infatti la provincia di Rieti si spinge a cavaliere sull’Appennino al punto che una parte si trova oltre lo spartiacque e risulta tributario del fiume Tronto, che si getta nell’Adriatico, dalla parte opposta (da Amatrice, lungo la valle del Tronto, si giunge più presto ad Ascoli Piceno che a Rieti o, a maggior ragione, a Roma). Viaggiando per le strade nazionali si percepisce bene, del Lazio, il “deserto” contrapposto alla capitale, e si constata pure tutta l’importanza della frammentazione territoriale della regione, che si ripercuote sugli usi, sui costumi, sulla parlata delle genti. Rieti, ad esempio, è situata nella valle del Velino, ma mentre il Tevere scorre verso Roma, il Velino corre verso Terni, perciò Rieti e il suo territorio hanno poco in comune con la bassa valle del Tevere, l’Agro Pontino, la Maremma, la valle del fiume Sacco. Rieti ha molto di più in comune con l’Umbria (del resto, la provincia di Rieti è stata costituita nel 1927, scorporando comuni dall’Umbria e dall’Abruzzo, e la provincia di Latina a scapito di quella di Caserta, che in quel tempo viene cancellata). La disomogeneità del territorio è confermata dalla lingua: infatti, nella capitale il dialetto si è molto imbastardito con gli apporti del toscano e, soprattutto, del piemontese, al punto che se si cerca l’idioma del Belli si rimane delusi alquanto (forse solo in certe strade di Trastevere o, meglio, nel quartiere che fu il ghetto ebraico, per via dell’isolamento cui la popolazione era sottoposta, si può sperare di trovare traccia attendibile della vecchia parlata romanesca – quanta acqua è passata sotto i ponti dal tempo della Vita di Cola di Rienzo, di autore sconosciuto ma scritta in una lingua scoppiettante); nella Ciociaria e dalle parti di Gaeta si avvertono le cadenze del napoletano; dalle parti della Maremma e dell’Etruria si sente l’influsso del toscano; dalle parti di Rieti si avverte l’umbro-sabino. La lingua italiana nasce, del resto, più che in Toscana, tra Campania e Lazio, dalle parti di Capua e Montecassino, se il più antico documento della lingua volgare è quello che recita: «Sao ke kelle terre per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette Sancti Benedicti», e in Umbria con Iacopone da Todi e Francesco d’Assisi – peraltro molto attivo anche nell’area di Rieti, allora Umbria, comunque Stato della Chiesa, se Greccio, il borgo dove Francesco ha costruito il primo presepio, oggi si trova in provincia di Rieti. Un discorso a parte merita se mai, dal punto di vista linguistico, proprio la capitale, che rappresenta un’autentica anomalia: qualcuno afferma che i veri romani sono soltanto gli ebrei che vi risiedono stabil91


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mente da tempi immemori, conservando fedelmente, come in ogni altro paese, tutte le loro tradizioni: visti i mescolamenti di genti di tutte le regioni, ormai la capitale è una Babele. Il Lazio insomma è più frammentato della Calabria. Se si esclude l’Urbe, che dopo l’unità d’Italia, dalla fine dell’Ottocento, si è ingrandita a vista d’occhio, anche a scapito del resto della regione, si vede che si tratta in gran parte di una regione agropastorale, disseminata di borghi e casali, a volte abbandonati, dove spesso si incontrano mandrie di pecore lietamente al pascolo e vigneti rigogliosi, quando i fumi sprigionati dalle poche industrie e la diossina eruttata dai termovalorizzatori della valle del Sacco non li minacciano mortalmente. (È bene ricordare che “ciociaria” deriva da “ciocia”, calzare consistente in un grezzo pezzo di cuoio o stoffa tenuto al piede da legacci intrecciati intorno alla gamba; che la cucina romana, che meglio varrebbe chiamare laziale, come fa notare anche Corrado Augias nel suo I segreti di Roma, è semplice e rustica, basandosi su rigatoni con la pagliata, ossia con l’intestino tenue di manzo, di vitello, di agnello o di capretto, contenente ancora il chimo, sostanza ricca e cremosa, la coratella d’abbacchio con i carciofi, la trippa alla romana, aromatizzata con la menta e condita da abbondante pecorino romano, la coda alla vaccinara, gli spaghetti alla carbonara con uova, guanciale, pepe e pecorino, i bucatini all’amatriciana, con guanciale, pecorino e salsa di pomodoro, cicorie selvatiche saltate in padella, asparagi e forse cardi; che “burino”, appellativo poco simpatico, secondo alcuni deriverebbe dal latino buris, cioè dal timone dell’aratro, il “bure”, con cui veniva governata l’aratura dei campi, o , secondo altri, dallo strumento chiamato “burio” utilizzato dai pastori dei dintorni di Bracciano per la pesca –; che forse anche “buttero”, il guardiano a cavallo tipico della Maremma, della campagna romana e dell’Agro Pontino, ha connotazioni negative). Anche escludendo Roma, l’unico fattore di omogeneità del Lazio sembra essere la fede, non necessariamente la fede viva dei suoi abitanti, ma la storia della fede. Si tratta di un fattore di unità interna ma anche di unificazione con le regioni circostanti: il territorio sembra essere avvolto in una fitta rete di chiese e luoghi di preghiera, abbazie e monasteri. La cosa non meraviglia se consideriamo la storia della penisola dal IV sec. d.C. fino al 1870. Ciò che appare veramente straordinaria è però la densità dei luoghi religiosi: Montecassino, Fossanova, Casamari, Subiaco, Farfa. Se poi consideriamo la capitale, centro della cristianità, luogo di martirio di Pietro e di Paolo, città che ospita le basiliche di San Pietro, di San Giovanni in Laterano, di San Paolo fuori le mura, di Santa Maria Maggiore, le catacombe, le tombe dei papi, il fattore “storia della fede” o “della religione” diviene imprescindibile, anche,

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eventualmente, per spiegare tutti i ritardi socio-economici registrati per tutto il medioevo e fino all’Unità d’Italia. Per capire qualcosa del rapporto tra Roma, il Lazio, i papi e la storia dell’Occidente si potrebbe leggere Storia della città di Roma nel Medioevo, del tedesco Ferdinand Gregorovius. Dopo il crollo dell’impero d’Occidente, Roma non è scaduta improvvisamente al rango di villaggio, in balia di tutti gli stranieri: l’Italia era pur sempre parte dell’impero che aveva la capitale a Costantinopoli, la seconda Roma. Nella penisola il centro amministrativo era Ravenna, ma Roma, con le sue possenti mura, i suoi palazzi imperiali, i suoi monumenti (il Colosseo, il Pantheon, Castel Sant’Angelo), che ancora la rendono celebre nel mondo, era il centro della Chiesa universale. Durante i primi secoli dell’alto medioevo, tra Roma e Costantinopoli c’era una vera e propria osmosi, non soltanto per quanto riguarda la religione: per l’aspetto militare i papi facevano riferimento all’imperatore d’Oriente: lo dimostra la circostanza che Teodorico in Italia ha governato per conto di Bisanzio, e che, quando è stato in condizione di farlo, l’Impero ha mandato Belisario prima, e Narsete poi, per ristabilire gli antichi confini. Soltanto in seguito, quando la potenza degli arabi, fiaccato sensibilmente l’impero d’Oriente, minacciava Roma, i papi hanno cominciato a concepire il progetto di farsi un “braccio armato” tutto in Occidente, che ha condotto gradualmente alla costituzione di quegli organismi che si chiamano Sacro Romano Impero e Stato della Chiesa. Le fasi più importanti nel processo di costruzione del potere temporale dei papi sarebbero la donazione di Sutri del 728 (Liutprando, re dei Longobardi, conquistò la città di Sutri ed il suo castello, strappandoli alle milizie bizantine, ma papa Gregorio II chiese ed ottenne di rinunciare ai territori, e il re, invece di restituirli ai Bizantini, donò ai “beatissimi apostoli Pietro e Paolo” il castello di Sutri e altri possedimenti); la Promissio carisiaca del 754 (atto con il quale Pipino il Breve nel 754 avrebbe promesso a papa Stefano II la restituzione delle terre strappate alla Chiesa dal re longobardo Astolfo); e la Constitutio romana dell’824 (statuto emanato da Lotario I, figlio dell’imperatore Ludovico il Pio, che confermava la sovranità pontificia sullo Stato della Chiesa, anche se prevedeva una forte tutela del papato da parte dell’impero). Il progetto è stato reso possibile però da un cambio sostanziale di mentalità, da un uso spregiudicato della dottrina cristiana e dell’evangelo, dallo sviluppo di una diplomazia raffinata e potente, che, forzando la storia parecchie volte, è stata capace anche di suggerire e legittimare l’usurpazione o la costituzione di regni. L’attuazione del progetto politico ha richiesto a volte la fabbricazione di documenti, come il Constitutum Constantini, con cui l’imperatore avrebbe concesso al papa Silvestro I e ai suoi successori il primato sui cinque patriarcati (Roma, Costantinopoli, Alessandria d’Egitto, An93


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tiochia e Gerusalemme), attribuendo ai pontefici le insegne imperiali e la sovranità temporale su Roma, l’Italia e l’intero impero romano d’Occidente. Secondo i filologi, il documento sarebbe della seconda metà dell’ottavo secolo, gli stessi anni in cui maturano le tappe storiche del potere temporale dei papi e si inaugura il Sacro Romano Impero: Carlo Magno viene incoronato la notte di Natale dell’800. A Roma, nella chiesa dei Quattro Coronati, è possibile ammirare ancora gli affreschi che narrano la storia della guarigione dell’imperatore Costantino dalla peste, avvenuta per opera di papa Silvestro; la sequenza si conclude con l’imperatore che accenna il gesto di inginocchiarsi davanti al papa: falso storico ma comunicazione efficace: Machiavelli non ha inventato niente. Del resto, il suo Principe trae ispirazione dalla figura di Cesare Borgia, figlio di un papa. Il Lazio è “desertico” e frammentato rispetto dell’Urbe compatta, multipla, stratificata, sovrappopolata, caotica, ma millenaria e universale: la dicotomia è evidente, ma tutta si spiega con i fattori storico-religiosi e fisiconaturali. Roma, la città che schiaccia il Lazio, sorge, si dice, sui colli; in realtà sorge in una valle, là dove il Tevere, dopo aver attraversato quattro regioni e avere raccolto le acque di mezzo Stivale, rallenta all’inverosimile la sua corsa verso il mare, attardandosi a descrivere ampie e maestose anse, perché qui incontra l’ingorgo di certe alture attraverso le quali deve aprirsi un varco; e se lo apre, anche quando incontra lo scoglio dell’Isola Tiberina, pure a costo d’inondare rovinosamente la città, prima di virare definitivamente verso Ostia. Roma in ogni senso schiaccia il Lazio, anche con il suo fascino e la sua malia. Noi stessi non siamo riusciti nel proposito di narrare la regione senza slittamenti eccessivi sulla capitale: eppure di frenate e virate ne abbiamo fatte tante: forse non ci siamo del tutto affrancati dai sonetti del Belli, dai racconti di Moravia, dal certe pagine inquietanti di Augias, da certi kolossal cinematografici. Per nostra fortuna almeno non ci siamo fatti fagocitare da quella storia tentacolare di Carlo Emilio Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, né da quella ricorsiva di Enzo Siciliano, La principessa e l’antiquario. Provatevi a contemplare Roma di notte da Albano o da Rocca di Papa o dal Gianicolo, o dal Pincio al tramonto o dall’Aventino o dal Quirinale: resterete stregati come accadde a Nikolaj Gogol’ e soggiogati come è rimasto il Lazio.

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Umbria, cuore vivo d’Italia Da alcuni anni in agosto ci rechiamo in Umbria. In località Bagni di Nocera Umbra intorno al 20 c’è un raduno nazionale di coppie cristiane. Il luogo è bello, situato nella parte orientale della regione, a ridosso dell’ossatura dell’Appennino, al confine con le Marche. In verità, il sito che ospita il raduno non permette di ammirare molta parte di questa terra magnifica, ma basta salire su una delle numerose alture cupoliformi dei dintorni, per contemplare straordinari paesaggi. Per esempio, salendo sul Faeto o, meglio, sul Pennino, l’occhio può contemplare il parco regionale del Subasio, in direzione di Assisi e Perugia, che però rimangono schermate; lo sguardo può spaziare sulla valle di Foligno, nella quale il fiume Topino, che scende proprio da Nocera, subisce una drastica curvatura verso Perugia; o, oltre Foligno, sui monti Martani; oppure, verso nord, nella pianura dove si trova Gualdo Tadino (città menzionata molte volte nella storia, teatro, ad esempio, della battaglia tra Totila e Narsete, e di altre durante il Medioevo), o verso est sulle pieghe montuose più significative dell’Appennino umbro-marchigiano. Certo, in agosto l’intensità dei colori vivi dell’Umbria è fortemente attenuata, ma basta accendere l’immaginazione per contemplare i prati tinti di rosso dai papaveri, e di giallo dalle margherite, a Colfiorito. Anzi, l’immaginazione e un poco di esperienza di paesaggi italiani sono sufficienti per contemplare, con gli occhi chiusi, i rossi e i gialli autunnali delle faggete, che in questo mese sono di un colore verde intenso. Comunque, danno una grande emozione i morbidi prati montani sotto i piedi, le case sparse in lontananza, o raccolte in piccoli nuclei rurali intorno a una chiesa, quei rettangoli regolari di terreno nelle valli e alle pendici dei monti, alcuni arati e neri di terra fertile, altri giallastri di stoppie o di fieno, da poco falciati, altri verdi di erba medica, irrigui, altri gialli e marroni dei girasoli che maturano. Dicono che l’Umbria sia verde, ma non tutta è verde, e non in ogni mese dell’anno: le groppe calve dei monti, per esempio, sono color paglia, e le città hanno il colore delle pietre, per esempio, le pietre rossastre del Subasio, con cui è costruita Assisi, che mandano sfumature più o meno intense a seconda delle condizioni del tempo e dell’ora del giorno, e dell’intensità e dell’angolo di incidenza della luce. Se diamo uno sguardo alle carte della viabilità, notiamo che in molti luoghi dell’Umbria non è facile giungere in treno, ma in auto si può giungere dovunque, da tutte le direzioni. Nocera Umbra, per esempio, si trova sulla strada statale 3, l’antica via Flaminia, che corre verso Ancona e Fano. Dalla 95


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stessa Flaminia, più a sud, a Terni, si dirama verso ovest la statale 3bis (questa, con la 3, avvolge ad anello, come in un abbraccio, i monti Martani, che troneggiano al cuore della regione). La 3bis (allacciata di nuovo dalla 75 alla statale 3, tra Perugia e Foligno) corre lungo la valle tiberina verso Ravenna e l’alto Adriatico. A occidente, l’autostrada del sole, pur sfiorando appena l’Umbria, costituisce per la regione un importante asse di comunicazione. Si vede bene che la regione è dotata di un’armatura viaria di tutto rispetto; infatti la sua vocazione è sempre stata quella di corridoio di comunicazione tra Roma e l’Adriatico. Meno agevoli sono le comunicazioni verso le groppe più impervie dell’Appennino, ma non inesistenti. Ebbene, per il raduno di agosto c’è chi arriva da Torino, da Genova, da Milano o dalla Toscana servendosi dell’autostrada, costeggiando il lago Trasimeno, lambendo Perugia e Assisi, magari facendovi una digressione turistica o spirituale; c’è chi, arrivando da Roma e Napoli, lascia l’autostrada a Orte e poi percorre solo la Flaminia; c’è chi, venendo dal centro-sud o dalla Puglia, raggiunge la valle del Velino e Rieti e Terni, magari dopo aver risalito il fiume Liri da Cassino ad Avezzano, e poi percorre solo la Flaminia; c’è chi, a volte provenendo dalla Puglia o dalla Calabria, arriva dall’Adriatico passando per i monti Sibillini, Norcia e Spoleto, e percorrendo poi la Flaminia; ci sono altri che dall’Adriatico arrivano passando per Macerata e Camerino e attraversando il parco regionale di Colfiorito, che si trova proprio alle spalle della località Bagni di Nocera. Citando il salmo, potremmo dire: «Là salgono insieme (in piena estate) le tribù, / le tribù del Signore, / secondo la legge di Israele, / per lodare il nome del Signore». L’Umbria è il cuore d’Italia nel senso geografico, ma anche nel senso spirituale e biblico. Questa regione, situata nell’Italia centrale, è l’unica della parte peninsulare del paese che non abbia un affaccio sul mare. Si tratta di una regione non tanto piccola (la seguono Molise, Valle d’Aosta, Friuli Venezia Giulia, Liguria), con circa 800.000 abitanti, e una densità di circa 100 abitanti per chilometro quadrato. La regione ha la forma approssimativa di una mandorla, o di un cuore, con la punta rivolta verso nord. Si tratta di una regione montuosa anche se raramente le montagne sono elevate (le vette più significative si trovano a est e a sud est, lungo la dorsale appenninica: sui monti Sibillini troviamo la cima Redentore, alta 2448 metri); è una terra verde con numerose tonalità e sfumature: il verde perenne del leccio, quello transitorio del faggio, quello chiaro dell’ulivo; fertile e ben coltivata; ricca d’acqua: tutto il sistema fluviale converge verso il Tevere, dato che anche le acque del lago Trasimeno, grazie all’emissario artificiale, confluiscono verso il grande fiume. Tra i corsi d’acqua dell’Umbria, il fiume Nera merita un’escursione per la bellezza dei paesaggi, sia a monte di Terni, sia sotto Nar96


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ni. Così come non bisogna trascurare le cascate delle Marmore. In Umbria si contano cinque o sei parchi, o riserve naturali, di cui due parchi fluviali, uno sul Nera e uno sul Tevere. Storicamente, la regione, etrusca a occidente del Tevere, ma umbra a oriente, è stata la cerniera fra le regioni centrali del paese: sul Trasimeno si è combattuta una battaglia tra Annibale e i Romani (a Tuoro esiste un interessante centro di documentazione multimediale su quell’evento); nei pressi di Gualdo Tadino si è combattuta l’ultima battaglia della guerra tra l’impero d’Oriente e i discendenti di Teodorico, nel corso della quale perse la vita Totila, penultimo, giovane e valoroso re degli Ostrogoti (la tomba di Totila si trova nei pressi di Matelica). Ben presto, però, quei longobardi che avevano combattuto, come mercenari, per il generale bizantino Narsete guidarono nella penisola il loro popolo, costringendo l’impero d’Oriente a ridurre la sua presenza nel territorio dell’Umbria, e a combattere in essa aspre battaglie. Anche i Longobardi ebbero però scarsa fortuna: se fossero stati fortunati, se non fossero inciampati in quel cuneo al centro dello stivale che è stato lo Stato della Chiesa, se avessero realizzato una flotta, avrebbero riunificato l’Italia. Comunque, i Longobardi occuparono per un ampio arco temporale tutta l’Umbria, eleggendo Spoleto capoluogo del ducato (Gualdo – Tadino – è un toponimo longobardo, significa selvaggio, boscoso, come pure Gualdo Cattaneo, sui monti Martani. Nocera Umbra, arroccato su uno sperone nell’alta val Topina è stato un gastaldato longobardo, posto a difesa della Flaminia). Più tardi, i Longobardi devono capitolare inesorabilmente stretti nella morsa d’acciaio costituita dagli accordi tra la Chiesa e i Franchi. Di fatti, sia pure con alterne vicende (Ottone III e Federico Barbarossa, tra gli altri hanno combattuto nella regione con i propri eserciti), l’Umbria ha fatto parte dello Stato della Chiesa per circa un millennio, fino all’unità d’Italia. La regione è disseminata di cittadine famose e importanti, che durante il Medioevo hanno espresso ciascuna una grande creatività politica, amministrativa, economica, militare e spirituale: Gubbio, Assisi, Spello, Trevi, Spoleto, Bevagna, Todi, Narni, Orvieto, Norcia, Cascia. L’Umbria è la terra di grandissimi asceti e santi, ma anche di grandi condottieri. Del resto, Francesco d’Assisi era destinato a una carriera di cavaliere. Durante il raduno di agosto è previsto un pomeriggio libero, durante il quale i lavori sono sospesi: non si prega, non si studia, non si fanno lavori di gruppo, ma si va a comprare le patate rosse di Colfiorito o a visitare qualcuna delle cittadine straordinariamente ricche di spiritualità e di arte. Ebbene, tu vai ad Assisi e, quando meno te lo aspetti, alla basilica di Santa Maria degli Angeli, o all’altra di San Francesco, a San Damiano o per le vie del paese, tra i pellegrini e i turisti, spunta qualche faccia conosciuta proprio al raduno di 97


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Nocera; tu vai a Bevagna e, mentre giri per il paese, visiti la chiesa di San Michele Arcangelo, o assisti alla dimostrazione della produzione della carta da stracci vecchi, ecco materializzarsi una coppia proveniente del convegno; tu vai a Spello e, mentre cerchi la tomba di Carlo Carretto, in qualche corridoio del cimitero del paese spunta un amico lasciato un’ora prima a Nocera; tu vai a Perugia e, mentre ti rechi a visitare il pozzo etrusco, o ad ammirare le opere del Perugino, o a visitare la Cattedrale, ecco, una voce nota di chiama; se tu vai a Spoleto e speri di passare inosservato, visitando la rocca albornoziana, il duomo, o il teatro romano, o andando in un ristorante per un piatto di pasta al tartufo, ti illudi: sul più bello, ecco spuntare una coppia di siciliani, o di bresciani, o di napoletani, in libera uscita, come te e tua moglie, dal ritiro di Nocera Umbra. Che cosa cerca questa gente in giro per le cittadine dell’Umbria? Cerca le opere d’arte e architettoniche, l’equilibrio tra progresso e tradizione, e tra natura e opere dell’uomo; cerca il raccoglimento nei luoghi di spiritualità, nei quali campioni della fede del calibro di Francesco e Chiara, hanno vissuto secondo i valori dell’evangelo in misura veramente eroica; cercano di capire come sia potuto emergere, proprio qui in territorio con sostrato linguistico osco-umbro, dall’insieme indistinto dei volgari, quell’idioma potente di Francesco d’Assisi e di Jacopone da Todi; cercano il modo di vivere pacato, semplice e sereno della gente dell’Umbria, spesso raccolta in piccoli borghi o rifugiata in case sparse, quasi alla maniera degli anacoreti e lavrioti bizantini. L’Umbria è una delle regioni nelle quali sono nate la lingua italiana e la letteratura. Andando in giro per la regione, contemplando e meditando, alcuni versi tornano alla mente prepotenti: «Laudato si’, mi’ Signore, per sora Aqua, / la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta. / Laudato si’, mi’ Signore, per frate Focu, / per lo quale ennallumini la nocte: / ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte. / Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre Terra, / la quale ne sustenta et governa, / et produce diversi fructi con coloriti flori et herba». Ma torna in mente anche il Pianto della Madonna di Jacopone: «Figlio, l’alma t’è uscita, / figlio de la smarrita, / figlio de la sparita, / figlio attossicato. // Figlio bianco e vermiglio, / figlio senza simiglio / figlio a chi m’appiglio? / figlio, pur m’hai lassato. // Figlio bianco e biondo, / figlio, volto iocondo, / figlio, perché t’ha el mondo, / figlio, così sprezato? // Figlio, dolze e placente, / figlio de la dolente, / figlio, hatte la gente / mala mente treattato! // O Joanne, figlio novello, / morto è lo tuo fratello, / sentito aggio ’l coltello / che fo profetizzato. // Che morto ha figlio e mate / de dura morte afferrate, / trovarse abracciate / mate e figlio a un cruciato.» Nè la letteratura e il genio in Umbria, come crede taluno, finisce con Francesco e Jacopone. Tralasciando i grandi pittori, notiamo che Sandro Penna, importante poeta 98


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italiano del Novecento è nato a Perugia; il romanziere Giuseppe Prezzolini era di Perugia; il giornalista Walter Tobagi era di Spoleto; il critico Goffredo Fofi è nato a Gubbio; Aldo Capitini, antifascista e grande combattente perché la pace trionfi, promotore, tra l’altro, della marcia Perugia-Assisi, è nato e morto a Perugia. L’Umbria è il cuore vivo d’Italia, certo non soltanto per la sua posizione geografica, così al centro del paese, così accerchiata dalle altre regioni, così priva di sbocchi sul mare, così corridoio di transito da Roma alla Pentapoli, a Ravenna, all’Adriatico. No, l’Umbria è il cuore d’Italia per la posizione, ma anche per lo stile di vita semplice della gente, per la spiritualità; è cuore nel senso biblico: cioè il centro della persona, la sede dell’intelligenza e degli affetti, il centro nascosto dell’essere. A ben vedere, forse, la mancanza di sbocchi sul mare ha preservato la regione dai fenomeni di corruzione tipici dei porti di mare, frequentati spesso da prostitute, contrabbandieri, banditi e assassini. Un vecchio mi ha detto che se tu dall’Umbria vai verso le Marche, lungo la statale 77, arrivato a Muccia, nei pressi di Camerino, per incuria dei luoghi e per maleducazione capisci subito che sei in un altro mondo. Un altro mi ha detto che nell’Umbria, a oriente del Tevere, se tu vai in un paese o in un borgo, vieni subito considerato uno di loro, senza riserve o pregiudizi (diverso sarebbe il discorso, per esempio, a Perugia). L’Umbria insomma è veramente cuore d’Italia anche per lo stile di vita semplice, accogliente e caldo. Ma è cuore d’Italia anche per la fede genuina e spesso eroica della sua gente. Si tratta, ben inteso, di Benedetto da Norcia e di Scolastica, di Francesco, Chiara e Agnese di Assisi, di Rita da Cascia, di sant’Eutizio, che umbro non era, ma si trasferì qui dalla natìa Siria, per trapiantare in Italia il monachesimo orientale, ma si tratta anche di Jacopone e di fratel Carlo; si tratta dei monaci bizantini che hanno consumato la vita, arroccati sulle montagne durante l’alto medioevo, lodando e benedicendo Dio; si tratta anche dei numerosi monasteri e conventi, spesso di clausura, che tuttora uomini e donne abitano, come sentinelle nella notte, che vigilano per il mondo in innumerevoli posti di guardia e altane dello spirito; si tratta degli innumerevoli luoghi ameni e silenziosi, come la località Bagni di Nocera, dove gli uomini e le donne del nostro tempo, affaticati e oppressi, scelgono, secondo l’invito del vangelo, di ritirarsi ogni tanto per “sedersi in disparte e riposare un po’”. A ben vedere, forse i semi della pace e della fratellanza, dello spirito e della fede, non sono molto diversi dai semi degli alberi e dei fiori. Come i semi di alberi e fiori, sparsi in modo copioso, sovrabbondante, si diffondono e qui e là producono vegetazione, colore e frutti, i semi dello spirito, sparsi instancabilmente e senza misura (fino alla consumazione piena della vita, secondo l’insegnamento di Gesù e di Paolo di Tarso), non mancheranno di produrre i 99


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frutti della gioia, della letizia, della pace, nella terra che li accoglie, come «l’urne de’ forti bella e santa fanno al peregrin la terra che le ricetta».

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