Bollettino n. 11 - tomo I

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Bollettino di SOS scuola n. 11 A.s. 2015/2016 Tomo I

ITE “V. Cosentino”


Per saperne di piĂš http://www.sos-scuola.it

Finito di stampare: dicembre 2016

Impaginazione a cura di Chiara Marra


Bollettino di SOS scuola n. 11 A.s. 2015/2016 Tomo I

ITE “V. Cosentino”



Indice

Quale uomo, quale cultura, quale scuola per il XXI secolo? Ciclo biennale di incontri. Secondo anno Il mondo cambia, cambia la scuola. Il “Cosentino” chiama, gli ex alunni rispondono p. 2 Dibattito 10 La sorgente della vita, antidoto alla cultura della morte 13 Dibattito 28 Valori umani e culturali della riforma della scuola 33 Dibattito 43 Nomadelfia, una proposta originale di una società diversa 49 Dibattito 55 Etica professionale e responsabilità sociale: il caso della scuola 62 Dibattito 75 Le altre attività Seminario di introduzione alla piattaforma Joomla! 85 Gita a monte Cocuzzo, in autunno 86 La barca fa acqua, come salviamo la scuola? 95 Il caso e la volontà, la vocazione e l’impegno 99



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Quale uomo, quale cultura, quale scuola per il XXI secolo? Ciclo biennale di incontri secondo anno


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Il mondo cambia, cambia la scuola. Il “Cosentino” chiama, gli ex alunni rispondono (Auditorium ITE “V. Cosentino”, 17 ottobre 2015)

Maria Carmela Passarelli (appunti di Claudia Minervino e Maria Teresa Capalbo) Durante l‟incontro Maria Carmela Passarelli ha risposto alle tre domande poste dal professore Cariati. Le domande erano: 1. Che cosa ti ha dato la scuola? 2. Quali scelte avete fatto nella vita in base alla scuola frequentata? 3. Che cosa dovrebbe dare la scuola oggi ai giovani? Maria Carmela Passarelli ha risposto facendo un resoconto della sua esperienza scolastica. Frequentò la sezione E, erano una classe numerosa che entrava sempre. Al terzo anno scelse l‟indirizzo “programmatore” e qui la classe si dimezzò: da 33 passarono a 16. Avevano un team di professori eccezionali, duri ma dai quali apprese molto e che le trasmisero alcuni valori importanti. Questi valori erano: l‟amore per la conoscenza e la cultura (prof.ssa Nicolazzo), la cultura, la logica, l‟amore per la precisione con i suoi algoritmi (prof. Cariati), l‟impegno e la responsabilità (Prof. Olivieri), l‟amore per i viaggi. Questi valori, e tutto ciò che acquisì in quegli anni, la portarono a frequentare il primo anno di università “vivendo di rendita”. Ha frequentato la facoltà di economia aziendale all‟Università della Calabria, si è laureata nel 2000 con 110 e lode. Ha fatto un dottorato di ricerca di Management della conoscenza. Ha studiato anche a San Francisco. Ha fatto un progetto in Calabria e un altro a Potenza nell‟ambito dell‟innovazione. Il suo sogno era di diventare docente universitario e aiutare chi vuole raggiungere degli obiettivi, ma questa via è molto accidentata. Attualmente è docente a contratto alla facoltà di Economia aziendale dell‟Unical, precisamente di Gestione dell‟impresa, ed è anche mamma di due figli e una Project manageress. Per lei la scuola deve far conoscere ai giovani ciò che succede al di fuori dall‟ambiente scolastico, far conoscere aziende, uscire dall‟individualismo e insegnare a lavorare in team. I professori non devono avere paura di essere autorevoli. Consiglia di viaggiare tanto, bisogna fare proposte; fidarsi di chi è più grande e che ha più esperienza ed essere propositivi. Vincenzo Carrieri (appunti di Claudia Minervino e Maria Teresa Capalbo) Vincenzo ha risposto che è difficile raccontare l‟esperienza scolastica, perché la scuola viene frequentata in un periodo difficile, ma la scuola è un luogo d‟incontro con persone che poi si porteranno nel cuore. Per lui i compagni non sono scelti ma vengono dati dal destino, la scuola dà il vantaggio di conoscere persone 2


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diverse da noi e ci si deve legare con le persone che si conoscono in questo ambiente. La scuola deve essere affrontata con naturalezza e ci si deve divertire. Deve essere stimolata la curiosità e deve essere stimolato l‟interesse, la disciplina si ottiene se lo studente viene stimolato. Lui, essendo docente, non vuole studenti che soffrono, devono essere liberi di ragionare. La scuola serve per far capire cosa piace e cosa no. Suggerisce di studiare quello che piace, di essere appassionati in quello che si fa e di coltivare rapporti d‟amicizia autentici. Deborah Maddalena Bottino 1. Che cosa ti ha dato di importante la scuola? Il ricordo dei tempi della scuola ormai somiglia a una nebbia. Una di quelle giornate uggiose a Bologna in cui camminare è più difficile che capire dove si sta andando. Ecco, in quei ricordi cerco di farmi strada: anche allora era come camminare nella nebbia, ma almeno, in qualche modo, sapevo dove stavo andando: perentorio era “togliersi le materie” per arrivare allo scrutinio finale e superare l‟anno. L‟obiettivo era delineato e questo, forse, aiutava a dedicarsi anche ad altro. Io mi ricordo che la scuola somigliava un po‟ a una giungla, come la società, del resto la scuola non è altro che una piccola riproduzione della società, in cui molto spesso si riproducono le stesse dinamiche: farsi accettare. Per me era difficile farmi accettare, non ero esattamente lo stereotipo che, ai tempi, si vedeva per i corridoi della scuola. Non ero di certo molto bella, né tanto meno ero simpatica ai più. Ero un‟adolescente cupa, avevo le mie passioni, la mia musica, le mie idee. Eppure, nonostante soffrissi per non essere “tollerata”, sono rimasta fedele alle mie convinzioni. La scuola è stata per me un banco di prova, una staffetta tra il voler essere e l‟essere. Per me la scuola non era solo studio, testimone lo sono tutti i progetti cui ho partecipato, dallo scambio culturale con la Cina, esperienza assai significativa per una ragazzina di 16 anni che si è vista sotto gli occhi una cultura diversa, che mi ha insegnato che dal multiculturalismo si può solo trarre un vantaggio personale, l‟apertura mentale che ti permette di vivere nella società liquida di cui parlava Bauman, la società globalizzata, dal musical Notre Dame de Paris, ai progetti con SOS scuola che mi sono valsi un convegno a Salice Terme, a Pavia, in collaborazione con l‟associazione Famiglia Aperta, i tirocini in banca, all‟agenzia delle entrate, la scuola a cinema, un progetto presso la biblioteca civica di Cosenza con una competizione con diverse scuole, che ho vinto, guadagnando il primo posto. Continuare la lista mi porterebbe via il tempo che mi è stato concesso, ma “la morale della favola” è che la scuola per me non è stata solo “libri” (i quali, però, sono stati il nesso di tutto) ma è stata anche ricca di momenti, che in modo e nell‟altro, sono confluiti nel marasma della mia nebbia per darmi modo di crescere. 2. Quali scelte hai fatto nella tua vita? 3


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Questa è decisamente una pessima domanda. Possiamo passare all‟altra? (rido). Da dove iniziare, la prima scelta è stato decidere cosa voler essere nella vita (e non lo so ancora). L‟unica sicurezza che avevo, da femminista estremista, era quello di non volermi sposare, o quanto meno non essere riconosciuta solo per moglie e mamma. Non avrei mai accettato che qualcuno mi indicasse come “la moglie dell‟avvocato, del medico x ecc.”. Io volevo un‟istruzione, volevo costruirmi una cultura, volevo realizzarmi sul mondo accademico prima e poi su quello del lavoro. La scelta dell‟università non è stata facile, a oggi, sono un po‟ pentita. Ho cambiato spesso idea sul percorso e a dire il vero ero anche limitata dalla situazione economica familiare che non mi consentiva una scelta completamente libera. Ho scelto la triennale all‟Unical in funzione della magistrale (ex specialistica), l‟unica facoltà d‟Italia di criminologia, all‟Alma mater studiorum università di Bologna dove attualmente sono laureanda. Mi sono laureata con lode alla facoltà di scienze politiche, studi internazionali, con una tesi in diritto penale internazionale sull‟evoluzione della scienza penale in particolare sul primo judgment d‟esordio della Corte penale internazionale sul caso dei bambinisoldato, uno sguardo critico del mancato adire, da parte degli stessi Paesi Membri, alla suddetta corte. Grazie al diploma conseguito al Cosentino, con il massimo dei voti, ho vinto nel 2010 una borsa di studio presso la BCC Mediocrati e ho lavorato come borsista nella filiale di Rende per 3 mesi. Esperienza importante che mi ha ulteriormente fatto capire che un lavoro in banca non è sicuramente un lavoro che fa per me. Al momento mi dedico alla stesura del lavoro di tesi in tema di imputabilità e con particolare attenzione verso un disturbo mentale definito dal DSM 5 dissociativo d‟identità. Il futuro è incerto e oscuro: è una strada difficile, caratterizzata da una legislazione scarna che, pur essendo in possesso dei titoli, non ci consente di poter effettivamente delineare un lavoro. A 25 anni, non vi nascondo, di essere un po‟ delusa, di sentirmi una fallita nonostante posso già contare su due lauree. Questo è lo specchio di questa Italietta che racconta storie di corruzione, che non è meritocratica ma che essenzialmente ripropone gli stessi meccanismi di 40 anni fa ma versa in stato peggiore. Sto seriamente pensando di scappare all‟estero, anche se non è giusto esser costretti a rinnegare la propria terra. 3. Che cosa dovrebbe dare, a tuo avviso, ai ragazzi la scuola oggi? Nella cosiddetta Web society 2.0, la scuola deve diventare eclettica, deve riuscire a muoversi su più fronti per dare strumenti giusti agli studenti. Non posso però profondermi in lodi verso il sistema scolastico, poiché, secondo il mio modesto parere sviluppato su base esperienziale, credo sia basato troppo sulla teoria che tra l‟altro fornisce poco a livello specifico. Forma gli studenti su lato teorico ma non dà accesso alla pratica e questo penalizza l‟entrata nel mondo del lavoro. In una società globalizzata sempre più mirata alla competizione, gli studenti necessitano di strumenti che possano renderli competitivi sul mercato e le statisti4


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che parlano chiaro, l‟Italia non occupa un posto elevato nelle classifiche degli atenei mondiali. Tanto meno le scuole. In Europa occupiamo gli ultimi posti per l‟investimento nella cultura e nell‟istruzione (di seguito alcuni dati)

Le politiche sociali sono carenti, come possiamo vedere, da questo punto di vista e questo va a discapito in primis degli studenti e in secondo anche della classe dei professori sempre meno motivati a dedicarsi in pieno al loro lavoro. Condannati al precariato e l‟insicurezza. Sul piano psicologico difatti, si vive un blocco, un disinteresse da questo punto di vista. Il ruolo di professore, maestro, è quasi come una missione, considerando che essendo la scuola la seconda agenzia di socializzazione dell‟individuo, dopo la famiglia, si ha in capo una responsabilità decisiva nella formazione degli individui. Soprattutto in tema di devianza, in questo caso giovanile, i giovani non introiettano le norme sociali, non le reinterpretano e le vivono quasi come coercizioni diaboliche e non come regole per il buon vivere civile. C‟è bisogno di un cambiamento di cultura e di mentalità, un cambiamento che come asseriva Lewin, noto psicologo sociale, deve essere non solo un cambiamento top down, ossia che parta dall‟alto, dalle istituzioni e da chi ci rappresenta, ma anche bottom up, c‟è dal basso, dal conglomerato sociale. Solo così si può sperare nella crescita di un Paese, che non deve crescere soltanto da un punto di vista economico, ma soprattutto sull‟etica, la moralità e la qualità della vita interiore, solo così noi saremo in grado di sostenere una crescita economica reale e soprattutto, scongiurare l‟aumento della criminalità. Christian De Rose 5


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1. Che cosa ti ha dato di importante la scuola? La scuola superiore coincide con una fase fondamentale della vita, che è l‟adolescenza. In questa particolare fase della crescita la scuola per me è stata un punto di riferimento al di fuori dell‟ambito familiare, un posto dove tra attività didattiche e no ho trascorso buona parte del mio tempo in quegli anni, condividendo anche bei momenti con compagni di classe e docenti. La scuola non mi ha dato solo un‟istruzione, mi ha trasmesso la dedizione e l‟impegno nello studio: non inteso come mera attività volta all‟ottenimento di quello che in maniera quasi dispregiativa viene spesso appellato come “un pezzo di carta”, ma come elemento fondante per l‟uomo. Solo l‟impegno costante mi ha permesso di raggiungere traguardi importanti nella carriera scolastica, che hanno migliorato la mia autostima permettendomi di volta in volta di affrontare sfide sempre più grandi, non solo a scuola ma anche nella vita in generale. 2. Quali scelte hai fatto nella tua vita? La scuola ha avuto una forte influenza su tutte le scelte fatte in ambito accademico prima e lavorativo poi. In primo luogo mi ha chiarito le idee nella scelta del percorso universitario per proseguire al meglio i miei studi e realizzarmi nella vita: a distanza di quasi 10 anni posso affermare che la scelta fatta è stata la migliore. Inoltre, potrebbe sembrare banale, ma le basi didattiche e le competenze che la scuola mi ha dato mi hanno permesso di superare agevolmente diversi esami nei primi anni di università, in cui era fondamentale iniziare bene… per trovarsi a metà dell‟opera. Infatti, unendo la mia determinazione alle conoscenze acquisite a scuola sono riuscito a conseguire la laurea in tempi brevi. Penso che se così non fosse stato, forse, oggi sarei ancora tra i banchi dell‟università a lamentarmi di non riuscire a passare un esame “perché il docente è troppo pignolo” e avrei perso il treno per la carriera lavorativa. 3. Che cosa dovrebbe dare, a tuo avviso, ai ragazzi la scuola oggi? Nel mondo di oggi, costantemente in evoluzione, ritengo di primaria importanza che la scuola si metta sempre al passo con il modo di comunicare delle nuove generazioni. I buoni propositi non bastano da soli a trasferire i valori importanti di cui ho parlato all‟inizio senza una comunicazione efficace. Sarebbe poi scontato dire che la scuola dovrebbe sempre più migliorare l‟offerta didattica e avvicinare i giovani al mondo del lavoro. Volendo andare oltre questi aspetti, sicuramente anch‟essi importanti, penso che la scuola dovrebbe stimolare la curiosità dei giovani. Una mente curiosa è aperta ad ogni forma di apprendimento, favorisce il continuo accrescimento della propria cultura, e ritengo che migliori l‟attitudine all‟adattamento in contesti sociali complessi. Non dimentichiamo che in passato è stata la curiosità a consentire all‟uomo tutte le scoperte che la storia ci racconta, per cui “investire” sulla curiosità delle nuove generazioni potrà contribuire in futuro a migliorare il mondo in cui viviamo. 6


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Guido Daniele Attanasi 1. Che cosa ti ha dato (di importante) la scuola? La scuola è una tappa della vita. Ora mi trovo nella tappa successiva, l‟università. Come tutti i percorsi, anche la scuola ha avuto un inizio, e una fine. Partendo dalla fine, che è quella a cui vi avvicinate voi studenti degli ultimi anni, vorrei mettere in evidenza che una cosa importante che mi ha dato la scuola è stata la possibilità di esprimere la creatività nella scelta degli argomenti della tesina di maturità, perché questa libertà mi ha permesso (e quindi permetterà anche a voi) di cercare di classificare gli argomenti studiati in una sorta di graduatoria di quali fossero più interessanti e quali meno, e come poterli collegare tra loro; ovviamente, dopo averli studiati. A questo proposito vorrei anche dirvi, come credo abbiate sentito dire tante volte, che è necessario avere un “metodo di studio”, possibilmente personalizzato. Magari qualcuno potrebbe dirmi: ma che vuol dire? Concretamente, oltre i soliti consigli! Significa che dovete riuscire ad essere in grado di selezionare gli argomenti che vi piacciono di più, per approfondirli, però senza dimenticare quelli che vi piacciono meno, perché per essere delle persone complete non bisogna fare solo ciò che piace ma anche quello che è necessario. Tornando al tema della domanda, la scuola mi ha dato tante esperienze di apprendimento importanti, grazie a docenti che hanno cercato di fare bene quella che è la loro missione educativa. I “progetti extra-curriculari” servono, sì, a volte più di quelli standard. Purtroppo la scuola non è perfetta, come tutte le cose di 7


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questo mondo, quindi non posso negarvi che ci sono stati anche docenti il cui modo di insegnare non è stato efficace. 2. Quali scelte hai fatto nella vita? Efficacia ed efficienza. Sono le due keyword più utilizzate per descrivere cosa fa un Ingegnere Gestionale. Dopo la fine della scuola, la scelta che ho fatto è stata di iscrivermi all‟università per studiare Ingegneria Gestionale. In particolare all‟Università della Calabria, campus di Arcavacata di Rende, Facoltà di Ingegneria, oggi Dipartimento di Ingegneria Meccanica, Energetica e Gestionale (DIMEG). Ho deciso all‟ultimo minuto quale Corso di Laurea scegliere, ovvero nell‟estate del 2011, in quanto ero indeciso tra Economia Aziendale, Informatica e Ingegneria Gestionale. Penso che tra voi ci sia qualcuno che più o meno sta considerando queste alternative. Ad oggi, sono felice di aver fatto la scelta giusta (per me). Ingegneria Gestionale all‟Unical è un ottimo corso di laurea, ben organizzato, allora come anche oggi dopo un riassetto degli indirizzi che c‟è stato in quest‟anno accademico. Ho scelto Ingegneria Gestionale perché mi piacevano i corsi all‟interno del manifesto degli studi, in particolare quelli che si potevano ricondurre all‟area matematica ed economica, anche se ad oggi potrei dire che allora non avevo molto chiaro il significato di Economia (scelta in condizioni di scarsità, in estrema sintesi). Come vi ho già detto, alcuni argomenti non mi sembravano interessanti (e per alcuni non ho cambiato idea neanche dopo averli studiati…). Chi è l‟Ingegnere Gestionale? È un Ingegnere, quindi ha una formazione di base di matematica e fisica, e si occupa della gestione di sistemi complessi. A differenza degli altri ingegneri (meccanici, civili, informatici, chimici, ecc.) non è un ingegnere di prodotto ma di processo, perché ha le competenze per progettare, gestire e controllare le variabili che modellano un sistema organizzativo. In tre parole: strategia, modelli, ottimizzazione. 3. Che cosa dovrebbe dare ai giovani oggi la scuola? Il cambiamento è inevitabile nella storia, nell‟evoluzione delle tecnologie e quindi anche nei processi sociali. La scuola è protagonista del cambiamento perché è a stretto contatto con chi può cambiare il futuro, oltre che il presente. Nonostante questo, non si deve, a mio parere, confondere il cambiamento degli strumenti educativi con gli obiettivi dell‟educazione e formazione. Cosa deve dare la scuola ai giovani, oggi, dal punto di vista degli obiettivi? Lo stesso che ha cercato di dare ieri, ovvero un ambiente in cui poter crescere in serenità guardando al futuro con speranza e solidarietà. Quindi relazioni tra studenti e docenti, tra studenti e tra docenti che non mettano al primo posto il “si deve fare questo e si deve fare per forza così”, ma la persona, unica e con i suoi difetti. Ciò non significa dire che non bisogna impegnarsi, anzi il contrario: impegnarsi perché ognuno, studenti e docenti, possano formare una complementare 8


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armonia nello studio della conoscenza umana. Troppo teorico finora? Passiamo agli aspetti pratici. Cosa deve dare la scuola ai giovani, oggi, dal punto di vista degli strumenti, per raggiungere gli obiettivi definiti? La collaborazione tra la prima “agenzia educativa”, la famiglia, con metodi innovativi di coinvolgimento nella vita dei figli: è obbligatoria la presenza dei ragazzi a scuola, e allora perché non lo è la presenza dei genitori periodicamente nell‟interazione con coloro che stanno per 5 ore al giorno per 6 giorni a settimana con i loro figli?! Ancora, maggiori interazioni con il mondo del lavoro presente sul territorio, con iniziative quali stage in azienda, per colmare il divario teoria-pratica. In sintesi, una rete collaborativa tra famiglie, scuola e mondo del lavoro. Per concludere, considerando anche che questo auditorium è intitolato a San Giovanni Paolo II, ho pensato ad una frase bella che ha pronunciato il papa come augurio ai giovani del terzo millennio: “Siate sentinelle del mattino”, vedette che annunciano le luci di speranza dell‟alba. Grazie.

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Dibattito seguito all’incontro con Guido D. Attanasi, Deborah Bottino, Vincenzo Carrieri, Christian De Rose, Maria Carmela Passarelli (appunti di Maria Teresa Capalbo e Claudia Minervino)

Giorno 17 ottobre 2015 si è tenuto l‟incontro con gli ex studenti dell‟Istituto Vincenzo Cosentino, presso l‟auditorium, su invito del professore Cariati. Degli otto invitati erano presenti Guido Daniele Attanasi, Deborah Bottino, Vincenzo Carrieri, Christian De Rose, Maria Carmela Passarelli. Il dibattito è iniziato con i saluti della Dirigente che ha posto tre domande: * Cosa consigliate a questa scuola? * Che cos‟è che dovremmo cambiare? * Cosa dovremmo mantenere? Il professore Cariati, da parte sua, formula le seguenti domande, precisando le richieste della preside: * Che cosa ti ha dato la scuola? * Quali scelte avete fatto nella vita in base alla scuola frequentata? * Che cosa dovrebbe dare la scuola oggi ai giovani? La prima a intervenire è stata Maria Carmela Passarelli: “Sono stata alunna di questa scuola, e ho frequentato la sezione E, classe numerosa ma sempre presente. Avevamo un team di professori eccezionali, duri e pronti a trasmettere i valori più importanti della vita come: l‟amore per la conoscenza e la cultura, la precisione, la logica, l‟amore per i viaggi. Tali valori, e tutto ciò che acquisii in quegli anni, mi portarono a frequentare l‟università vivendo di rendita. Ho scelto la facoltà di economia aziendale qui a Cosenza, mi sono laureata nel 2000 con 110 e lode. Ho fatto uno stage a Como, un dottorato di ricerca, ho fatto domanda alla Bocconi e alla Sant‟Anna, ho fatto un dottorato di management della conoscenza. Oltre a questi stage in Italia, ne ho fatto uno a San Francisco. Ho fatto un progetto in Calabria e un altro a Potenza. I miei sogni erano quelli di diventare docente universitario e aiutare chi volesse raggiungere obiettivi. Ora sono una docente alla facoltà di economia aziendale dell‟Unical, precisamente di gestione dell‟impresa e sono consulente di Project management. Per me la scuola deve far conoscere ciò che succede al di fuori dell‟ambiente scolastico, far conoscere aziende, uscire dall‟individualismo e lavorare in un team. I professori non devono avere paura di essere autorevoli. Un consiglio che do è quello di viaggiare tanto, bisogna far proposte, fidarsi di chi è più grande e di chi ha più esperienza, bisogna essere propositivi.” Vincenzo Carrieri risponde: “È difficile raccontare l‟esperienza scolastica perché è un periodo delicato, adolescenziale ma fondamentale per la crescita 10


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dell‟uomo. La scuola è un luogo d‟incontro con persone che poi si porteranno nel cuore. Per me i compagni non sono scelti ma vengono dati dal destino e la scuola ci dà il vantaggio di conoscerli. La scuola deve essere affrontata con naturalezza. Ci si deve pure divertire. I docenti devono stimolare la curiosità e l‟interesse. Io sono docente, non voglio studenti che soffrono, ma studenti liberi di ragionare.” Christian de Rose risponde: “La scuola superiore coincide con una fase fondamentale della vita, che è l‟adolescenza. Per me è stato un punto di riferimento al di fuori dell‟ambito familiare, un posto dove ho trascorso buona parte del mio tempo. La scuola mi ha trasmesso la dedizione e l‟impegno nello studio che mi hanno permesso di raggiungere traguardi importanti nella carriera scolastica, migliorando la mia autostima permettendomi di volta in volta di affrontare sfide sempre più grandi, non solo a scuola ma anche nella vita in generale. La scuola mi ha chiarito le idee nella scelta del percorso universitario per proseguire al meglio i miei studi e realizzarmi nella vita, le basi didattiche e le competenze che la scuola mi ha dato mi hanno permesso di superare agevolmente diversi esami nei primi anni di università, in cui era fondamentale iniziare bene. Infatti, unendo la mia determinazione alle conoscenze acquisite a scuola sono riuscito a conseguire la laurea in tempi brevi. Ritengo importante che la scuola si metta sempre al passo con il modo di comunicare delle nuove generazioni, dovrebbe sempre più migliorare l‟offerta didattica e avvicinare i giovani al mondo del lavoro. Una mente curiosa è aperta ad ogni forma di apprendimento, favorisce il continuo accrescimento della propria cultura, “investire” sulla curiosità delle nuove generazioni potrà contribuire in futuro a migliorare il mondo in cui viviamo.” Deborah Bottino risponde: “Il ricordo dei tempi della scuola ormai somiglia a una nebbia. Ricordo la scuola somigliante un po‟ a una giungla, come la società, in cui molto spesso si riproducono le stesse dinamiche: farsi accettare. Per me era difficile farmi accettare. Ero un‟adolescente cupa, avevo le mie passioni, la mia musica, le mie idee, rimasi fedele alle mie convinzioni. La scuola è stata per me un banco di prova, una staffetta tra il voler essere e l‟essere. Per me la scuola non era solo studio. Ho partecipato a diversi progetti offerti dalla scuola: scambio culturale con altre nazioni come la Cina, dalla quale si può trarre un vantaggio personale, l‟apertura mentale che ti permette di vivere nella società, ai progetti con SOS scuola, i tirocini in banca, all‟agenzia delle entrate, la scuola a cinema, un progetto presso la biblioteca civica di Cosenza. La scuola è stata ricca di esperienze, che in un modo o nell‟altro, hanno contribuito a darmi modo di crescere. Volevo un‟istruzione, volevo costruirmi una cultura, voleva realizzarmi nel mondo accademico prima e poi in quello del lavoro. Ho scelto la triennale all‟Unical in funzione della magistrale, l‟unica facoltà d‟Italia di criminologia, all‟Alma Mater Studiorum Università di Bologna dove attualmente sono laureanda. Il futuro è incerto e oscuro: è una strada difficile. La scuola deve diven11


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tare eclettica, deve riuscire a muoversi su più fronti per dare strumenti giusti agli studenti, il sistema scolastico, credo sia basato troppo sulla teoria, che tra l‟altro fornisce poco a livello specifico. Forma gli studenti sul lato teorico ma non dà accesso alla pratica e questo penalizza l‟entrata nel mondo del lavoro. C‟è bisogno di un cambiamento di cultura e di mentalità, che, deve essere non solo un cambiamento top down, ossia che parta dall‟alto, dalle istituzioni e da chi ci rappresenta, ma anche bottom up, cioè dal basso, dal conglomerato sociale. Solo così si può sperare nella crescita di un paese, che non deve crescere soltanto da un punto di vista economico, ma soprattutto sull‟etica, la moralità e la qualità.” Guido Daniele Attanasi ha messo in evidenza che la scuola gli ha dato la possibilità di esprimere la creatività nella scelta degli argomenti sulla tesina di maturità che gli ha permesso di classificare gli argomenti studiati in una sorta di graduatoria tra più interessanti e meno interessanti e come poterli collegare tra loro. Ha suggerito a noi alunni di approfondire gli argomenti che più troviamo interessanti ma di non tralasciare quelli che piacciono di meno, perché per essere persone complete non bisogna fare solo ciò che piace ma anche quello che è necessario. “La scuola”, ha detto, “mi ha dato tante esperienze di apprendimento importanti, grazie ai docenti che hanno cercato di fare bene quella che è la loro missione educativa. La scuola deve essere un ambiente in cui poter crescere in serenità, guardando al futuro con speranza e solidarietà, e suggerisco maggiori interazioni con il mondo del lavoro presenti sul territorio, con iniziative quali stage in azienda, per colmare il divario teoria-pratica.” Conclude dicendo: “Siate sentinelle del mattino, vedette che annunciano le luci di speranza dell‟alba”. Nel dibattito è intervenuto Andrea Chiappetta del VA FM, ex rappresentante d‟istituto, che trova interessante il discorso di Deborah, e afferma che ognuno di noi deve essere il legislatore di se stesso e che gli alunni devono essere sempre più propositivi. Prende la parola la Dirigente Scolastica, sostenendo che ci deve essere più pari dignità e chiede perché non si facciano proposte invece di proteste. L‟alunno Angelo Mangiarano del IV A SIA le risponde: “Le proteste vengono fatte perché alcune nostre richieste non sono prese in considerazione”. Riprende la parola Maria Carmela Passarelli. Dice: “Voi ragazzi dovete anche fidarvi degli adulti di riferimento come i genitori e i professori, altrimenti non si va da nessuna parte.” Interviene Vincenzo Carrieri. Dice: “Io non sono d‟accordo. Ognuno è libero di farsi guidare dalla propria testa.” La maggior parte dei presenti in fondo concordano che nella scuola ci vuole rispetto, dignità e ascolto da ambo le parti.

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La sorgente della vita, antidoto alla cultura della morte Incontro con Maria Carla Zampieri e Carlo Volpini (Auditorium ITE “V. Cosentino”, 6 febbraio 2016)

Chi siamo noi e perché siamo stati chiamati a parlarvi Il compito che ci è stato affidato non è certo facile, anzi non è sbagliato definirlo arduo sia perché il campo è molto ampio quindi il rischio è di risultare banali nella definizione delle cose, sia perché mentre si trova un accordo unanime nell‟individuare le cause negative che hanno connotato questa crisi epocale nella quale ci dibattiamo da diverso tempo, non è certo altrettanto semplice persuaderci e trovare le ragioni per cui la nostra vita, il nostro vivere individuale e sociale rimane in ogni caso una cosa bella, positiva e piena di possibilità... Da una realtà di vita molto, forse troppo, fissa e stabile nei valori e nell‟organizzazione, siamo passati ad una realtà confusa, complessa, dove infinite domande si sovrappongono e si confondono mentre le risposte restano per lo più indefinite. Siamo quindi dentro una realtà frammentata ma proprio nello sforzo di ricomporre i diversi frammenti forse si riesce anche a trovare un insieme che abbia senso e significato. Darvi delle risposte non è certo possibile ma, in qualità di Consulenti familiari, forse possiamo offrirvi una lettura della realtà secondo la nostra esperienza che può servire a voi per aprire una prospettiva diversa dalla quale valutare le cose. Che cosa è infatti la Consulenza familiare? Un percorso di formazione professionale e un impegno lavorativo che ha come obiettivo quello di “attivare le risorse positive” presenti in ogni singola persona, quindi si propone come sorgente di nuova vita che deve contrastare una realtà e un senso di buio, di fallimento, di morte. È qualcosa che riapre alla vita. Chi arriva a chiedere aiuto in una consulenza familiare, porta con sé il buio di un dolore, di un disagio, di un fallimento. Ha la morte dentro il cuore e nostro compito è quello di combattere questi sentimenti distruttivi e riportare la persona alla vita attivando le sue risorse positive certamente presenti ma in qual momento così nascoste da risultare quasi inesistenti. Le situazioni che si portano in consulenza sono certamente frutto di situazioni individuali, tuttavia tutte le persone si muovono in un contesto lavorativo, intellettivo, amicale, familiare che costituisce il vivere sociale e nessuna situazione individuale può essere presa in esame senza una valutazione più ampia del contesto nel quale si sviluppa. 13


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Vogliamo allora provare ad aprire un po‟ la stanza del nostro studio per guardare insieme cosa accade e, per quanto possibile, procedere nell‟analisi della realtà con lo stesso metodo della consulenza familiare: guardare, analizzare, sentire, valutare, diventare consapevoli, attivare le risorse, fare nuove scelte che ci possano allontanare da una situazione fallimentare. Immaginiamo di avere in questa stanza quattro finestre e avvicinandosi a queste immaginiamo di guardare ciò che accade al momento al di fuori

Vetri chiusi, sguardi dubbiosi, colori grigi.. Non vogliamo soffermarci troppo sull‟analisi dei cambiamenti del nostro tempo, tutti li conosciamo bene e a questo punto forse non sappiamo più quali siano le priorità delle incognite in questo ambito tanto è complessa e problematica la situazione sociale che viviamo. Tutti conosciamo e tutti sappiamo cosa significa parlare in termini concreti di povertà crescente (secondo i dati Istat più di 3 milioni di persone in condizione di povertà assoluta e quasi 8 milioni in povertà relativa.. c‟è davvero tanta differenza poi?), di disoccupazione giovanile (arrivata al 30%, un trand insostenibile..) di un paese che invecchia (144 anziani per ogni 100 giovani) di diminuzione costante dei matrimoni (si è passati da 420.000 matrimoni annuali degli anni „70 all‟attuale 215.000 e la previsione per il 2030 , tra soli 15 anni, è di 175.000), questo significa che sempre meno si crede alla realtà di un‟unione che sia forte e continua nel tempo e infatti aumentano in modo considerevole le coppie di fatto e i bambini nati all‟interno di questo tipo di unione non riconosciuta: attualmente 80.000), accompagnati dall‟aumento altrettanto costante di separazioni e divorzi (nel 2008 le separazioni sono state 14


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84.165 e i divorzi 54.351. Rispetto al 1995 le prime sono praticamente raddoppiate (+ 101%) e i secondi sono aumentati di oltre una volta e mezza (+61%). E poi problemi ancora più grandi che abbracciano temi ancora più vasti e che attendono risposte di grande complessità: la globalizzazione con i suoi costi umani, la dialettica tra Stato e mercato, le sfide della bio-etica e bio-politica, l’impegno educativo verso le nuove generazioni.. Un abisso infine se volgiamo lo sguardo verso coloro che sfuggono da fame, guerra, paura e che arrivano sulla nostra terra sperando di trovarvi ospitalità e condivisione.. La vera crisi, quindi, è molto più profonda: è crisi dei valori, degrado culturale e morale, perdita del senso valoriale delle cose, violenze sempre più intense che si abbattono all‟interno delle famiglie e nel mondo giovanile, progressivo e crescente allontanamento dalla fede delle generazioni più giovani, indifferenza all‟altro, esaltazione dell‟individualismo egoistico … Senza soffermarci troppo sull‟analisi dei cambiamenti del nostro tempo, possiamo rimarcare alcune semplici cose: Ø la realtà intorno a noi è profondamente cambiata nell‟arco di una stessa generazione, figuriamoci dunque nel rapporto tra generazioni diverse Ø il disorientamento di fronte a ciò che la vita chiama a rispondere è comune a tutte le generazioni Ø quello che oggi esige un vero cambiamento è la modalità delle risposte Potremmo continuare questo triste elenco, ma preferiamo lasciare il commento ad un‟analisi ufficiale, quella che ha accompagnato la presentazione del 44° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese (10/2010) “... occorre una verifica di cosa è diventata la società italiana nelle sue fibre più intime, perché sorge il dubbio che, anche se ripartisse la marcia dello sviluppo, la nostra società non avrebbe lo spessore e il vigore adeguati alle sfide che dovremo affrontare”. In effetti sembra che qualche piccolo passo sia stato fatto e che qualcosa cominci a muoversi.. ma cosa ci troviamo davanti? Su quale terreno camminiamo? Sempre il rapporto Censis descrive così la nostra realtà italiana: Una società appiattita. Sono evidenti manifestazioni di fragilità sia personali che di massa: comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, passivamente adattativi, prigionieri delle influenze mediatiche, condannati al presente senza profondità di memoria e futuro. (...) E una società appiattita fa franare verso il basso anche il vigore dei soggetti presenti in essa.. Un’onda di pulsioni sregolate. Non riusciamo più a individuare un dispositivo di fondo (centrale o periferico, morale o giuridico) che disciplini comportamenti, atteggiamenti, valori. Si afferma così una “diffusa e inquietante sregola15


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zione pulsionale”, con comportamenti individuali all‟impronta di un “egoismo autoreferenziale e narcisistico”: negli episodi di violenza familiare, nel bullismo gratuito, nel gusto apatico di compiere delitti comuni, nella tendenza a facili godimenti sessuali, nella ricerca di un eccesso di stimolazione esterna che supplisca al vuoto interiore del soggetto, nel ricambio febbrile degli oggetti da acquisire e godere, nella ricerca demenziale di esperienze che sfidano la morte. “Siamo una società pericolosamente segnata dal vuoto, visto che ad un ciclo storico pieno di interessi e di conflitti sociali, si va sostituendo un ciclo segnato dall‟annullamento e dalla nirvanizzazione degli interessi e dei conflitti”. Non è molto confortante questo quadro Censis.. in effetti lo scenario nel quale ci muoviamo e che possiamo guardare dalla nostra finestra è un lungo elenco di inquietudini, la realtà di oggi è stata definita, in modo apparentemente contraddittorio, uno “stallo dinamico” dove lo stallo è la sensazione di non poter uscire dalla situazione nella quale siamo andati a finire come società e il dinamismo è nei grandi cambiamenti in corso e nella fiducia di quanto di buono ad essi si accompagna. Un giudizio ancora più duro è stato dato dal sociologo De Rita che parla di una “società mucillagine” composta da tanti coriandoli che stanno l’uno accanto all’altro, ma non stanno insieme . Un‟altra indovinata definizione della nostra società è quella di società liquida, di vita liquida, una realtà sociale e di vita in cui le situazioni e le relazioni che viviamo cambiano e si modificano prima che noi le abbiamo comprese, che ci siamo abituati ad esse, che le abbiamo interiorizzate e fatte nostre. In questa società si muovono migliaia di persone, di adulti e di giovani alla ricerca di un senso, persone che fanno spesso fatica a restare a galla , che a volte inciampano, cadono e non sanno rialzarsi, persone che preferiscono rimanere nel buio della complessità piuttosto che impegnarsi nella ricerca di un cammino che conduca alla sorgente della vita. Questa complessa fase di frammentazione produce infatti una difficoltà di tenuta dei punti di riferimento, ma anche la necessità di nuovi tipi di risposta al bisogno di senso che sembra emergere sempre di più. In questo insieme indistinto e confuso il rischio è smarrirci, mentre, se siamo qui a interrogarsi, vuol dire che sentiamo la responsabilità di essere tra chi cerca parole e pensieri diversi, percorsi che ci aiutino a uscire dall‟immobilismo, a sfuggire dall‟effetto pantano, a liberarci dalla sindrome della decadenza, imponendoci la prima domanda di senso: da questa realtà frammentata come possiamo tornare ad una realtà più stabile e significativa? Che cosa ci può liberare dalla cultura della morte per espandere al suo posto una nuova cultura della vita? Perché vi abbiamo detto queste cose che forse già conoscete e magari avete già sperimentato dal momento che in questa realtà ci state dentro ? forse semplicemente per affermare che il vivere oggi è difficile per tutti perché tutti viviamo 16


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queste sensazioni di disorientamento e di incertezza, noi come voi. È stato detto che si tratta di un cambiamento epocale e questo è ben più complesso di un cambiamento strutturale. Se, infatti , cambiano le strutture di una società ma restano i valori di riferimento, le mura portanti, potranno esserci sicuramente scossoni ma la società, la casa, regge. Se invece il cambiamento è epocale (come quello che stiamo vivendo) vuol dire che sono proprio i muri portanti a non reggere, cioè il sistema di valori, di norme, di leggi, sono venuti giù i punti di riferimento e tutti, ma proprio tutti, ne sono, ne siamo coinvolti, ognuno nello specifico che la propria vita presenta. Inoltre una trasformazione di società con cambiamenti a carattere epocale non attraversa solo una generazione (la nostra, la vostra) ma più generazioni perché non avviene in poco tempo. Si preannuncia con segni percepibili magari ai soli addetti ai lavori (sociologi, economisti), procura i primi scricchiolii di cui ancora non tutti si accorgono (avvengono cose che cominciano ad essere meno comprensibili per tutti), aumenta via via fino a far crollare quei muri portanti, cioè quell‟insieme di valori e norme che reggevano l‟insieme sociale e sembra che non ci siano più riferimenti (muri cui appoggiarsi), i pensieri di prima sembrano non essere più adeguati, quasi “stonano”, fino a che arrivano davvero i crolli più eclatanti, quelli di fronte ai quali non si può far finta di niente. Quando la società tutta ne è coinvolta, allora si è presi da un senso di incredulità, di disorientamento. Forse è quello che avete provato anche voi, magari attraverso le sensazioni dei vostri genitori e conoscenti. Fatta questa carrellata, ora dovremmo provare a schiudere quella finestra, per guardare per cercare di avvicinarci in modo più concreto e diretto a qualcuno dei tanti problemi che ci sono passati davanti. E dobbiamo farci più vicini perché se è vero che di difficoltà piccole o grandi se ne incontrano tante nella vita, è vero anche che guardarle da lontano non aiuta di certo a risolverle. E poi dobbiamo aprirla fino a spalancarla perché dobbiamo avere lo sguardo ampio, capace di scrutare vicino e lontano, fino all‟orizzonte. E abbiamo pensato di metterci un po‟ in gioco noi due raccontandovi alcuni momenti più significativi della nostra vita condividendo con voi il desiderio e il tentativo di superarli. Nel corso di una vita molte volte ci si trova di fronte ad un ostacolo che sembra bloccare il cammino, al di là dell‟evento specifico che appartiene a quella singola persona, a quella singola coppia o famiglia c‟è tuttavia uno sfondo emotivocomportamentale al quale tutti, voi oggi mentre ascoltate e riflettete, possono riferirsi come stato d‟animo, come sentimento, come emozione che accomuna le esperienze.

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ADOZIONE Un impatto molto forte, vissuto allora come barriera al procedere della vita, che abbiamo vissuto quasi all‟inizio della nostra vita coniugale, è stato il prendere consapevolezza che forse non avremmo avuto figli nostri. Questo è l‟evento specifico nostro che ci ha toccato ma lo sfondo emotivocomportamentale che può essere comune a tutti in esperienze diverse si chiama impotenza a risolvere una situazione. All’inizio della nostra storia coniugale non avevamo altra idea di fecondità se non quella legata alla procreazione e tuttavia, pur nell’idea e nel desiderio di costruire una classica bella famiglia con tre, quattro figli, questo progetto veniva però rimandato di mese in mese, di anno in anno perché avevamo poco più che vent’anni e sentivamo che dovevamo comunque prima vivere da soli e pienamente da soli. Un figlio subito avrebbe portato via troppo spazio e attenzione, coscienti, questo sì già da allora, che la realtà di coppia è ben altro dalla realtà di famiglia. Solo dopo tre, quattro anni di matrimonio abbiamo dovuto fare i conti con quello che è stato il nostro primo serio problema di vita coniugale, e non era un problema da poco. Quello contro cui abbiamo dovuto lottare di più e quello che ci è sicuramente costato di più forse non è stato tanto il non avere figli nostri ma l’impotenza della soluzione del problema, l’accettare che c’erano cose nella vita contro le quali, con tutta la nostra sicurezza, con tutta la nostra energia, con tutta la nostra volontà, non potevamo far nulla. Questo dato di fatto è stato una fonte di incredibile lotta con noi stessi: imparare ad accettare che non basta tutta la volontà del mondo per realizzare qualcosa che a te non è dato anche se è dato semplicemente a milioni e milioni e milioni di altre persone. È stata quindi una 18


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lezione durissima da imparare e dobbiamo dire che forse questo forzato esercizio all’impotenza ci ha fatto crescere molto più di tante altre cose... Ripensando a quegli anni ci sembra di poter dire, anche riflettendo sulle tante problematiche che in questi giorni sta affrontando la società civile con l’esame di legislazioni che riguardano coppie non unite dal matrimonio e conseguente scelta di genitorialità (adozione, utero in affitto...), che allora abbiamo affrontato l’adozione con spirito libero: non figli in compensazione di altri figli, ma figli pienamente figli, non “un’opera di bene” ma una piena scelta di maternità e paternità. Così figli, per noi, da non cercare più di tanto vie sperimentali per conseguire la fecondità naturale, per non voler condizionare in modo abnorme la nostra vita di amore più intimo e profondo alla ricerca di un figlio, così figli per noi che proprio per loro, per non creare a loro il problema di sentirsi forse diversi rispetto ad un’altra realtà di figli naturali accanto a loro, dicemmo definitivamente no alla fecondazione artificiale come insistentemente ci veniva proposto. Oggi i nostri figli hanno quasi quarant’anni e ne avevamo uno e due quando sono arrivati. La nostra, oggi, è una realtà di famiglia piena con matrimoni, convivenze, nipoti, ma non sono mancati momenti bui nel nostro rapporto con loro di dolore, di sofferenza e di forte conflittualità che ci hanno portato a pensare come avrebbe potuto essere diverso con un figlio nato da noi con il quale alcuni linguaggi “di sangue” avrebbero potuto compensare la difficoltà o l’assenza di altre possibili vie di comunicazione e di comprensione ma siamo coscienti, ieri come oggi, che quello è solo il sogno mitizzato di tutto ciò che non è reale e che proprio per questo appare più bello e più facile: è sempre meglio immaginare un bel rapporto con un figlio inesistente, così come pensare a dei genitori che non sono quelli con i quali devi fare i conti tutti i giorni, così come è facile cullarsi nel desiderio di avere accanto un uomo o una donna ideali, viva soltanto nella nostra fantasia. All‟inizio di questa vicenda eravamo davvero con la morte nel cuore, avevamo poco più di vent‟anni, la parola impossibile non faceva parte del nostro vocabolario e in certi momenti ci sembrava che tutto fosse nero, come se il non generare, il non dare vita, ci buttasse addosso la sensazione della morte. I momenti che hanno contrassegnato questa esperienza dall‟inizio fino alla sua più felice soluzione, sono stati tanti e dei più diversificati, accompagnati da una molteplicità di emozioni e sentimenti: incredulità, rabbia, dolore, non accettazione, ricerca, speranza, consapevolezza, lotta, desiderio, gioia infinita. Un vero viaggio dal buio alla luce, dalla morte alla vita! Proprio quell‟esperienza vissuta all‟inizio del nostro vivere insieme, ci ha permesso di comprendere che la vita ha veramente mille possibilità di esprimersi e che la parola fecondità ha cento sfaccettature, tutte ugualmente potenti; forse proprio da quelle esperienza iniziale, da quel buio che si è fatto luce, da quei sentimenti di rabbia e dolore che si sono trasformati in speranze e aspettative e attese diverse, la nostra vita si è orientata anche verso un cammino di servizio 19


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agli altri che ha preso il volto di decine di esperienze diverse. Lo sguardo ha sempre cercato di spaziare oltre i confini di casa e la tensione a cercare sempre dove e in che modo poter fare e dare è sempre presente. Il sindacato qualche anno fa, l‟impegno in parrocchia, l‟adozione anche a distanza seguendo una bambina di una favelas brasiliana, Denise, da quando aveva sei anni fino a quando si è laureata e si è sposata, la nascita di un movimento come il MAIS, il volontariato in una casa di prima accoglienza per ragazze madri, la scelta anche di riprendere gli studi a quarant‟anni per diventare insieme consulenti familiari e poter dedicare, oltre il nostro lavoro, un po‟ del nostro tempo ad aiutare persone e coppie in difficoltà, l‟interesse e la partecipazione al movimento ecumenico, il servizio pieno al Movimento END che è un movimento laico di formazione per le coppie dove ci siamo impegnati per anni a tutti i livelli fino a ricoprire il servizio di coppia responsabile internazionale. In particolare questo Movimento di carattere spirituale ma non spiritualistico perché, al contrario, spinge a vivere una fede incarnata nel quotidiano e a cercare l‟impronta della fede nelle scelte piccole e più o meno importanti che ci capitano in ogni ambiente e in ogni momento, è stato il leit-motif, il sottofondo del nostro vivere. Vi abbiamo aderito subito dopo il matrimonio perché avendo scelto il matrimonio in Chiesa volevamo vivere in modo continuo il senso del sacramento scelto. E poi ci siamo buttati dentro con tanto entusiasmo perché ci ha dato il gusto della ricerca, il valore delle cose non scontate, la libertà delle scelte di coscienza, il piacere dell‟amicizia profonda, la profondità della preghiera comunitaria, il grande dono di sentirti in cammino insieme a tanti altri. Abbiamo cercato di far entrare nelle nostre giornate e maggiormente nella nostra mente tutto questo, senza dimenticare l‟impegno di fondo verso la famiglia e il nostro lavoro, consapevoli di quanta aridità può venirne da un illusorio restringimento dell‟impegno alla sola salvaguardia della propria realtà di persone o al massimo di famiglia. Noi dobbiamo moltissimo a tutte le persone che abbiamo incontrato in questi anni perché ogni incontro, anche quelli apparentemente di minor spessore perché più superficiali e fugaci, ha lasciato un‟impronta e segnato in modo più o meno profondo la costruzione della nostra storia: ci è stato permesso di scrutare nell‟anima di tanti fratelli, ci è stato permesso di condividere situazioni di vita contrassegnate da gioie e da sofferenze, ci è stato permesso di crescere attraverso le esperienze degli altri. Abbiamo imparato che la sorgente della vita sta proprio in questo allargare la propria vita alle dimensioni di vita di chi ti è vicino, di chi percorre un pezzo di strada con te, di chi ti chiede sostegno e a cui chiedi sostegno. E questo è quello che cerchiamo di testimoniare semplicemente: allargare gli spazi e i confini del guardare, del sentire e dell‟agire.

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SERVIZIO Abbiamo usato questa parola e sicuramente la vita di ogni persona dovrebbe essere connotata da questo aspetto del servizio agli altri inteso come servizio alla comunità in cui si vive: famiglia, scuola, gruppo di amici, sport, lavoro. Per noi ha assunto una valenza particolare da quando siamo andati a fondo dell‟origine di questa parola. Andare a vedere l‟origine delle cose, anche se si tratta semplicemente dell‟origine di una parola, è spesso occasione di significative riflessioni perché proprio all‟origine, alla radice di ogni cosa pensiamo ci sia il significato più profondo, la vita stessa, il senso per cui quella cosa, o quella parola è nata. La parola servizio è una letterale traduzione della parola latina servitium che ha la sua radice in servus. Tutti sappiamo che la parola servo ha avuto per molto tempo il significato di schiavo ma questo è stato solo un valore successivo dato alla parola per le situazioni storiche-sociali e non è il reale significato della parola servus e certamente non è questo che vogliamo essere quando scegliamo di fare servizio... Questa parola servus ha in realtà un‟esatta corrispondenza formale con la parola iranica haurvo che ha il significato di “guardiano” (certamente riferito al bestiame o al villaggio). A sua volta la radice della parola haurvo è costituita da swer (presente in modo diverso sia nella lingua greca che in quella latina) che significa esattamente osservo. Abbiamo così ricostituito la nascita di questa parola che ci si rivela in una dimensione del tutto opposta a quella che siamo abituati a pensare e a conoscere: servo e servizio per nulla affatto come schiavo e sottomissione ma come osservatore e guardiano. Se ci viene richiesto di vivere un servizio o se scegliamo di dare alle nostre giornate un tempo anche di servizio, significa essere non certo schiavi ma osservatori e guardiani, osservatori e custodi. Osservare significa prima di tutto essere attenti a ciò che ci accade intorno e soprattutto a chi abbiamo intorno. Osservare non è solo guardare perché a volte il guardare è semplicemente un far scivolare i nostri occhi sulle cose e sulle persone senza realmente vederle, senza penetrarle, senza assumerle dentro il nostro spazio di vita. Essere guardiani nel senso di custodire, implica un atteggiamento che è insieme di responsabilità ma anche di affettività. Si può essere guardiani per senso del dovere senza una reale partecipazione affettiva ed emotiva. Ma essere custodi è un‟altra cosa, implica attenzione, protezione quasi, verso ciò che ci è accanto; significa rendere migliore la vita degli altri; a volte anche essere sorgente di vita per persone e situazioni intrappolate nel buio; e a volte non ci è richiesto neanche un grandissimo impegno, solo il desiderio e la volontà di accorgersi degli altri.Tra le tante esperienze di volontariato vissute, una è stata 21


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particolarmente significativa perché ci ha avvicinato ad un mondo lontano da noi e che non conoscevamo. Siamo stati presenti per due, tre anni come volontari in una casa famiglia per ragazze madri delle suore di Madre Teresa di Calcutta, Casa Alegria. Era una casa particolare perché accoglieva ragazze con situazioni molto difficili alle spalle che avevano compiuto appena diciotto anni e di cui lo Stato non si occupava più perché maggiorenni. Non tutte erano ragazze madri ma certo tutte avevano uno zaino di vita molto carico di eventi dolorosi e di situazioni difficili molto lontane da quelle che dovrebbero accompagnare ragazze poco più che adolescenti. All’inizio molto spesso tornavamo a casa contrariati alla fine di un pomeriggio trascorso in questa casa di prima accoglienza. .Avevamo di frequente contrasti e discussioni vivaci con la responsabile perché non capivamo il senso del nostro servizio con loro e ci sembrava molto poco quello che ci chiedeva di fare. In particolare seguivamo una ragazza, Yoceline di 91 anni, una giovanissima sudamericana fermata dalla polizia appena scesa dall’aereo perché trovata in possesso di una grossa quantità di droga; era stata trasferita in carcere ma lì aveva subìto la bruttissima esperienza della violenza ed ora era arrivata in questa casa di accoglienza frastornata, impaurita, incattivita, aggressiva, minacciata dai suoi ”protettori“, lontana da ogni riferimento familiare, soprattutto tradita da sua madre che l’aveva coinvolta in questa storia e poi, per paura, all’aeroporto aveva detto di non conoscerla e l’aveva abbandonata a se stessa. Ci eravamo legati in modo particolare a questa ragazza perché nonostante le sue vicissitudini in realtà era fragile, sola, una bambina quasi, e non potevamo non fare il paragone con quanto avevano di sicurezza, di protezione, di affetto i nostri figli che avevano la sua stessa età. Avevamo instaurato con lei un rapporto diverso rispetto alle altre ragazze, parlavamo a lungo con lei, ci sembrava di conoscerla meglio, quasi quasi facevamo per lei dei progetti che non corrispondevano però a quelli della responsabile della casa. Fare quello che quest’ultima ci chiedeva ci sembrava inopportuno e soprattutto inutile, mentre a nostro parere si sarebbe potuto fare di più e di meglio perché Yoceline era una ragazza intelligente e con ambizioni. Eravamo arrabbiati per il contrasto vissuto e dicevamo tra noi che forse era inutile sprecare del tempo così. La responsabile ci diceva che dovevamo solamente esserle accanto, senza suggerire o prendere decisioni che comunque potevano provocare ulteriori destabilizzazioni e non inventarci troppe cose in alternativa. Difficile per noi che volevamo fare progetti e prendere iniziative, capire la ragione di queste richieste così apparentemente banali, quando tutto ti sembra possibile, fattibile, realizzabile. A volte però non capisci che questo può anche voler dire sostituirti a qualcun altro che ha i suoi progetti, le sue ragioni, le sue iniziative e le sue responsabilità. Con molta fatica abbiamo piano piano compreso che Yoceline in quel momento non aveva bisogno di altre proposte, forse aveva solo bisogno di qualcuno che le stesse accanto per accompagnare i 22


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suoi giorni in attesa del processo, qualcuno capace di condividere la sua solitudine, forse aveva bisogno di silenzio e non di parole, di sosta e non di azione. Abbiamo passato così molto tempo con lei a fare niente anche se ci sembrava di sprecare tanto tempo, a vedere le telenovela che le piacevano tanto anche se a noi sembravano una cosa inutile, ogni tanto lei ci parlava dei suoi progetti che non erano più i nostri progetti per lei, ci confidava i suoi sogni, nella fiducia conquistata si lasciava andare a raccontare le sue terribili esperienze e soprattutto il suo dolore profondo per i tanti tradimenti e le sue grandi paure. Siamo stati semplicemente accanto a lei, ma non è stato così facile come poteva sembrare. Però l’abbiamo vista piano piano emergere dall’abisso nel quale era caduta, allontanarsi dal pensiero costante del tradimento e della violenza, l’abbiamo vista affrontare il processo meno impaurita di come era arrivata. Insomma l’abbiamo proprio vista tornare alla vita certamente grazie alla sua giovane età, alla sua intelligenza e alla sua capacità e volontà ma ci piace pensare anche grazie a noi che le siamo stati accanto per tutti quei mesi offrendole soltanto la nostra presenza e il nostro affetto. Abbiamo ricordato l‟adozione dei nostri figli, la nostra esperienza con il servizio nella casa di accoglienza per ragazze madri, il riferimento al titolo del tema che stiamo trattando è molto semplice: nel primo caso l‟arrivo dei nostri figli ci ha dato la vita come genitori e ci ha reso famiglia, nel secondo caso Yoceline, le ragazze presenti in quella casa e tutte le altre persone che abbiamo incontrato nelle nostre molteplici esperienze di servizio, ci hanno nutrito la vita perché noi, ognuno di noi è il risultato delle relazioni che abbiamo con ogni altro che incontriamo nel nostro cammino. MALATTIA Non possiamo non condividere con voi l‟esperienza ultima che abbiamo vissuto attraverso la quale veramente abbiamo sperimentato la sorgente della vita. È una esperienza importante che forse è presente nella vita di molte persone ma mai in modo uguale l‟una all‟altra; è un‟esperienza che segna e che fa vedere da vicino il buio della morte ma dalla quale puoi uscire anche profondamente rinnovato, la malattia. Una malattia importante, lunga e grave, che nasce da un impegno di servizio, ci ha fatto vivere il buio più profondo e poi ci ha riportato alla vita in modo ancora più forte. Siamo andati in Angola nell’aprile del 2009… un’esperienza anche questa forte: lì la morte e la vita, realmente, camminano a braccetto... Eravamo quasi alla fine del nostro servizio internazionale. Questi ultimi mesi sono stati molto duri per me e per te: dopo tanti anni in cui la nostra vita era stata riempita quassi totalmente dal servizio, dopo il grande incontro di Brasilia, avevamo fatto solo progetti di riposo, di incontri di amicizia, di domeniche familiari, di piccoli viaggi vagabondi, ma il Signore aveva altri progetti per noi e subito ci ha messo alla prova facendoci vivere ben altro da quello che avevamo programmato: abbiamo vissuto uno dopo l’altro, in 23


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pochissimi mesi, la perdita di tre persone molto amate, mio fratello, una cugina che era come una sorella per noi e poi la madre di M. Carla. Dolori grandi ma forse ancora poco rispetto al lungo dipanarsi della mia malattia che ha segnato tutti i giorni e tutte le ore di questo ultimo tempo. Cinque ricoveri in un anno, due grandi interventi e tanti momenti in cui tutto poteva finire e poi tutto riprendeva ad andare avanti… paura, speranza, dolore, rabbia, angoscia, delusione, sconforto, gioia, fiducia, attesa… tutte le emozioni del mondo vissute in un alternarsi continuo. Ogni volta che stavo molto male la mia voce si faceva sommessa e flebile, facevo fatica anche a dire qualche parola, io che ho sempre parlato tanto. Ma soprattutto mi sentivo perso perché non era la mia voce e risultavo quasi estraneo a me stesso... Vedevo che anche M. Carla era impressionata da questo sintomo della voce che era proprio il segno di mancanza di vita e spiava mille volte il suono della mia voce in questi mesi perché per lei era quello il segno positivo o negativo del mio stare bene o male. E la speranza e la gioia riprendevano quota insieme all’alzarsi del tono della mia voce. Dopo l’ultimo ricovero, più debilitato di sempre, ho fatto fatica a riprendermi ma un giorno ho visto M. Carla sorridere serena... avevo fischiettato, ci siamo guardati ed in quel momento abbiamo capito che tornavo alla vita. La sintesi di tutto quello che abbiamo detto sta forse in questo ultimo quadro di Van Gogh. Anche qui una persona e una finestra: è un uomo adulto, se non forse anziano, ma potreste immaginare che siate ognuno di voi al suo posto

Analizziamone insieme i particolari

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1 2 3 1) una finestra che riflette qualcosa di indistinto, dietro quei vetri non ci sono alberi, non c‟è paesaggio, non c‟è vita... o forse si intravede qualcosa di indefinito, proprio come ci appare oggi la nostra società se ci affacciamo alla finestra: un insieme indefinito e indistinto, rumoroso e chiassoso, precario, provvisorio, instabile, che però non sembra esprimere alcuna vita; 2) di fronte a questa realtà possiamo scegliere di chiudere gli occhi, non vedere, fare finta che può andare bene anche così, dire che va tutto male ma restare con gli occhi chiusi, magari isolarsi nel soggettivo percorso della memoria, del ricordo, del rimpianto nostalgico o nella fantasia di sogni lontani, fuori dal reale. Ognuno di noi potrebbe essere quest‟uomo che, da solo, chiude gli occhi per trovare conforto nel ricordo di quanto vissuto o nel possibile dell‟immaginazione, per non vedere il vuoto che ci circonda e per non sentire il peso e il disagio di un vivere che appare senza punti di riferimento stabili e definiti. 3) Ma c‟è un particolare che ci sembra rappresenti e sintetizzi bene quanto abbiamo detto. L‟uomo ha alla sua sinistra una fiamma accesa che dà calore, colore e vita a quel sia pure piccolo spazio di parete che la stessa fiamma illumina. Questa fiamma ci è apparsa come il segno della speranza che rimane viva e che, se alimentata, può tornare a dare vita alle cose e all‟uomo. 4) E infine un altro elemento, oltre la fiamma accesa, deve entrarci nella mente e nel cuore: i piedi, proprio quei piedi che sembrano fermi e invece sono i più vicini alla fiamma accesa.

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Fermiamo il nostro sguardo su questi piedi, sentiamoli i nostri piedi e poi chiediamoci: sono piedi del mondo o piedi nel mondo? Se li sentiamo solo del mondo rimarranno fermi, statici, gravati dalla stanchezza e dalla delusione, sopraffatti dalla precarietà e provvisorietà che questo mondo di oggi ci regala, incapaci di ogni forma di cammino. Ma se li sentiamo, o li vogliamo far essere nel mondo, allora questi piedi diventeranno piedi che si alzano, che camminano, che percorrono e calcano le strade del mondo, il mondo interiore del vissuto personale e il mondo che vive intorno a noi, alla ricerca delle risorse e delle possibilità che possono nutrire la fiamma. La vita quotidiana con tutte le sue precarietà, le sue fragilità, le sue problematicità, i suoi slanci e i suoi limiti, le sue gioie, fatiche e sofferenze, le sue possibilità, novità, risorse, è la nostra sfida di oggi. La vita va vissuta ma va anche narrata perché narrare è diventare consapevoli. La narrazione è consapevolezza, è la costruzione di un‟identità, l‟unica risposta possibile alla frammentazione; è un prezioso strumento, di consapevolezza, di trasformazione, di acquisizione del senso della propria identità e della propria vita; può permettere di aprire gli occhi, alimentare la fiamma, riprendere il cammino, battere ogni contesto di buio e di morte, tornare alla sorgente della luce e della vita. Dalla consapevolezza dei nostri limiti e delle nostre perdite possono nascere le risorse per rimettere in moto la vita. Forse non sempre viviamo in modo consapevole quanto ci accade e ciò impedisce una chiarezza dei problemi e la difficoltà ad affrontarli con responsabilità. Ancora una volta vogliamo andare a vedere l‟etimologia della parola “responsabilità” che tante volte ci viene suggerita e raccomandata. Responsabile è un aggettivo che proviene da un presunto verbo latino “responsare”, che a sua volta nasce dal sostantivo responsus che è una forma sostantivata del verbo respondere (rispondere). Questo del rispondere è il termine che ci è giunto a noi in modo più chiaro e come tale è stato assimilato, ma nella radice di questa parola troviamo due elementi: re-sponsus. 26


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Sponsus è il sostantivo di spondere che significa promettere e che a sua volta viene da un verbo usato nell‟area ittita, spendo, che significa libare. Libare è precisamente un “versare goccia a goccia” e allora chi vuole essere o sentirsi responsabile non può esaurire il suo impegno tutto in una volta o per niente o in modo discontinuo, deve invece versare goccia a goccia il suo impegno, mantenendo costante nel tempo la sua attenzione e la sua disponibilità così da far sentire all‟altro tutto il valore di un impegno che si fonda sulle proprie risorse ritrovate ed attivate e sull‟amore nostro per noi stessi prima di tutto ma anche per tutti coloro che ci vivono accanto. L‟amore, infatti, è il fondamento di ogni relazione, di ogni possibile costruzione, di ogni concreto divenire. Abbiamo visto come oggi la società sia una realtà molto articolata, difficile e complessa e come sia necessaria l‟interpretazione di questa complessità, cercare il filo da riavvolgere nella complessità dei contenuti, dei valori, dei pensieri e delle esperienze per ricomporre la frammentazione. Inoltre la vita manda spesso all‟aria le carte che noi cerchiamo più volte di fare stare in piedi secondo il nostro obiettivo ma bisogna imparare a non cadere di fronte a questi mulinelli di vento che scompigliano le nostre carte. Questa è la trasformazione in atto e questa è la sfida che non deve coglierci impreparati, nella consapevolezza che il più temibile dei nemici è l‟indifferenza insieme alla rassegnazione. C‟è la necessità di risvegliare le menti e i cuori addormentati. Altrimenti, senza accorgercene, scivoleremo in un buio che sempre più si farà morte di progetti e di sentimenti, mentre la prima cosa che ognuno desidera e di cui ha diritto è vivere in pienezza la propria vita. La via è dentro di noi, nel nostro respiro, nel nostro pensiero, nel nostro cuore... è molto vicino ma può essere anche molto lontana se non la prendiamo nelle nostre mani. La distanza tra vivere o morire è solo una nostra scelta.

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Dibattito seguito all’incontro con i coniugi Volpini (appunti di Maria Teresa Capalbo e Martina Francesca Leone) Giorno 6 febbraio, presso l‟auditorium della nostra scuola, si è tenuta una conferenza con i coniugi Carlo e Maria Carla Volpini, coppia dell‟Équipes Notre -Dame e consulenti familiari di Roma. Questo dibattito ha riguardato proprio noi giovani, come coloro che hanno la vita davanti e che hanno il dovere di dare un senso alla propria vita. Si vive in una realtà frammentata dove una marea di domande si sovrappongono, queste ultime nascono dal nostro io. La coppia ci ha spiegato in che cosa consiste una consulenza, attraverso la quale si può avere un confronto per cercare le nostre risposte e andare avanti. Raccontare la propria vita è un momento di consapevolezza, poiché la vita per essere raccontata va vissuta. I coniugi Volpini, attraverso il racconto della loro vita, hanno fatto ragionare sulla realtà odierna. Essa rispetto ad alcuni anni fa è profondamente cambiata intorno a noi. La nostra società è formata da “coriandoli” che stanno accanto ma non riescono a formare gruppo, tutto ciò è grave poiché il gruppo porta alla crescita. Carlo Volpini ha sostenuto che la società di un tempo funzionava perché alla base c‟era una famiglia unita. Tuttavia, egli sostiene che oggi si cerca di capire quali sono le strade per raggiungere la coesione sociale di un tempo. Mentre Maria Carla esprime un parere che rimanendo dietro ad una finestra si possono vedere sia le cose belle che le cose brutte, ma se si continua a stare dietro non riusciremo mai ad arrivare veramente alla realtà. La conferenza è continuata nel racconto delle loro varie esperienze di vita come: l‟adozione, il servizio nelle case famiglie, la malattia che ha colpito Carlo. La sintesi di tutto ciò è rappresentata nel quadro di Van Gogh che ci hanno mostrato. Di fronte a questa realtà possiamo scegliere di vivere con gli occhi chiusi e lasciare che la vita ci passi sopra, oppure viverla con gli occhi aperti cercando il senso di ognuno di noi. Un dettaglio, che è presente in questo quadro, è una fiamma, vista come segno di speranza, che rimane viva e che se alimentata, può tornare a dare vita alle cose e all‟uomo. Il senso di tutto ciò è che possiamo scegliere di essere trascinati oppure rialzarci e costruire qualcosa da soli. La via è dentro di noi, nel nostro respiro, nel nostro pensiero, nel nostro cuore. È molto vicina ma può essere anche molto lontana se non la prendiamo nelle nostre mani. La distanza tra vivere o morire è solo una nostra scelta. Possiamo vivere cercando la sorgente dentro di noi.

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Dopo che ci hanno raccontato una parte della loro vita, Maria Carla Volpini ci invita a esporre le nostre domande, i nostri dubbi su qualcosa che non abbiamo capito. Il dibattito inizia con Natalia Scanga, IV A Afm: quando avete parlato della vostra storia ci avete reso partecipi e ci avete coinvolto emotivamente. Maria Carla Volpini: la vostra compagna ha messo l‟accento sull‟importanza della condivisione, essa è molto importante anche se non è facile perché molti condividono solo cose belle. Tommaso Aiello, V A, rappresentante d‟istituto: visto che avete affrontato l‟adozione, cosa pensate dell‟adozione delle coppie omosessuali e/o di tutto ciò che sta succedendo in parlamento? Maria Carla: si sta per aprire un grosso dibattito, nella legge Cirinnà non si fa riferimento all‟adozione, né per le coppie omosessuali né per le coppie etero: si parla di stepchild adoption, cioè dell‟adozione del figlio avuto precedentemente dal compagno o dalla compagna. Per quanto ci riguarda non siamo d‟accordo tra noi. Carlo è d‟accordo mentre la mia posizione è questa: sono pienamente favorevole al riconoscimento delle coppie, degli adulti che fanno queste scelte. Per quanto mi riguarda in quanto consulente, non credo che una coppia omosessuale non abbia incidenza sulla crescita di una persona. Carlo Volpini: il problema non è legato ad un‟opinione tecnica. Quello che fa differenza non è il sesso della coppia, ma l‟amore che essa trasmette. Se la coppia eterosessuale non trasmette amore potrebbe essere un problema. Maria Carla Volpini: faccio un discorso sulla responsabilità tra adulti, se una coppia omosessuale sceglie di vivere assieme, fa parte della loro scelta tutto ciò che ne consegue, quindi anche l‟impossibilità di avere figli! Tommaso Aiello: allora, in sostanza, il matrimonio sì, ma l‟adozione no perché penso che un figlio debba avere una presenza materna e una presenza paterna (applausi). 29


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Anna Tocci, IV A Afm, interviene con un riferimento all‟adozione e chiede: è possibile avere più informazioni sull‟adozione, la vostra adozione? Carlo Volpini: sono due fratelli, la nostra scelta nasce da una volontà di non far crescere un figlio unico nell‟adozione. Sono due fratelli, ma completamente diversi. Il primo figlio è stato abbandonato alla nascita, il secondo figlio invece è stato con la madre per sette mesi, ma quando questa donna capisce che il primo figlio stava in una struttura all‟avanguardia decide di portare anche il secondo lì dove stava il grande. Maria Carla: il primo è meno attaccato alla vita: se non hai nessuno che si prende cura di te, cresci con la consapevolezza che non devi occuparti di niente e nessuno. Ha avuto problemi sia nell‟apprendimento sia nelle relazioni, nel creare legami forti. Il secondo ha sperimentato un attaccamento molto forte e un abbandono molto forte, passando da una realtà affettiva al nulla. Oggi all‟età di 40 entrambi hanno delle relazioni stabili, uno sposato e uno convive. A livello affettivo hanno ricomposto il mosaico. Ma nel corso degli anni le cose sono state difficili. Il primo figlio a 19 anni ha voluto cercare i suoi veri genitori, credendo che i genitori fossero in India, volle partire per l‟India. Si è pagato il viaggio con i suoi risparmi, ma noi abbiamo cercato un giovane da mandare con lui. Abbiamo trovato un ragazzo di nome Alberto, gli abbiamo pagato il viaggio. Sono stati in India per quarantadue giorni; in quei giorni Alberto è stato male e nostro figlio si è preso cura di lui; sono diventati amici, lo sono tuttora e Alberto ancora oggi non ha detto nulla sul fatto che gli abbiamo pagato il viaggio. Nostro figlio è rimasto molto amante dell‟India e dell‟Oriente, forse quando un figlio non viene riconosciuto inizia a crearsi con un po‟ di fantasia sul posto di provenienza e sull‟identità. E ora si è sposato con una ragazza orientale. Carlo: il secondo è molto più vivace. Negli anni si è mostrato inquieto quando noi partiamo. Ancora da grande è sempre nervoso quando noi dobbiamo partire, non è per niente contento: questa forma di abbandono gli è rimasta, cosa che per l‟altro non è nessuna preoccupazione. Questi segnali che hanno avuto da bambini, sono rimasti nella loro vita. Questo nervosismo gli è rimasto costantemente anche se ora è un adulto. A 8 anni, un giorno disse a Maria Carla che gli mancava qualcosa. La mamma lo ha incoraggiato a parlare e disse che gli mancava un libro. Non era però la vera ragione di tristezza. Maria Carla insistette e lui disse che era per un problema che assolutamente nessuno poteva risolvere. Allora Maria Carla gli disse che però se un peso si porta in due può risultare più leggero: “La borsa della spesa ha due manici perché il peso possa essere condiviso”. Allora il ragazzo disse: “Mi manca la mamma”. Immaginate Maria Carla a quella risposta! Maria Carla: ricordo che prima di arrivare a dire “mi manca la mia mamma” ho dovuto sollecitarlo, poi disse: “Ho un problema che non mi puoi risolvere”. Io gli dissi: “È vero, ma la borsa della spesa è a due manici: il peso è lo stesso ma portato in due pesa di meno. Il tuo problema cerchiamo di metterlo dentro la 30


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borsa e di portarlo assieme. Se mi dici che problema hai, condividiamo il peso che hai”. Però non è sempre stato così tenero, all‟età di 17 anni disse : “Io non devo nulla a voi, perché voi non siete i miei genitori. A me non importa niente”. Andava a girare per Roma da solo, aveva sempre un‟ansia e un‟angoscia, poi chiamava per essere prelevato, aveva il desiderio di essere accolto da noi. Carlo: in sostanza, per fare i genitori adottivi bisogna essere coppia solida, più dei genitori naturali, poiché sono tanti i segnali che possono mettere in difficoltà la coppia. Tommaso Aiello: perché non fare la scelta più semplice, la fecondazione artificiale invece dell‟adozione? Maria Carla: per noi la vita è la vita, non ci andava di fare differenze tra un bambino nato da noi o un bambino già nato, dovevamo portare avanti la vita, e c‟è un limite fin dove si può arrivare. Abbiamo provato a fare un‟altra adozione in Colombia, ma per problemi burocratici è stata chiusa. I bambini avevano cinque o sei anni, e questa presenza ha creato in loro una serie di difficoltà, e quindi decidemmo che non si poteva fare. Abbiamo scelto la loro vita. Carlo: la ricerca scientifica allora non era così avanzata come adesso. È evidente che quando abbiamo iniziato l‟adozione la fecondazione assistita era ancora sperimentale. È stata una scelta rinunciare a qualcosa che somigliasse a noi, per loro. Francesca Incutto, IV A Turismo, facendo riferimento all‟esperienza del servizio in chiesa: la ragazza che avete ascoltato in quella casa-famiglia, che fine ha fatto? Maria Carla: Yocelyn ha avuto un‟altra delusione, perché si era innamorata di un poliziotto, egli le disse che l‟avrebbe sposata, lei si affidò a lui, ma si rivelò tutt‟altro. È ritornata alla casa-famiglia, dove ha chiesto di rimanere fin quando non fosse stata capace di essere autonoma. Un‟altra cosa bella che abbiamo fatto, fu un‟adozione a distanza in Brasile, prendendoci a carico una bambina di nome Denise. Ci siamo scritti per tutta la sua crescita, fino all‟università. L‟abbiamo incontrata, e lì nelle favelas fu considerata una regina poiché studiò. Si è sposata e ha anche dei figli. Alfio Moccia: sono contento di tornare in questa scuola, questo grazie al mio carissimo amico Tommaso. Il senso di quest‟incontro è testimonianza di vita, di queste due persone che ci hanno portato esperienze. Tutto ciò può essere utile per sapere che non tutti fanno le stesse scelte, e che la vita ha tanti modi per essere vissuta. Purché responsabilmente, si può anche cambiare idea mentre si vive; però bisogna fare sempre qualcosa, e non vivere secondo quello che fanno gli altri. Bisogna avere iniziativa, magari sbagliare, correggersi, sempre con l‟aiuto di qualcuno che ti sta vicino: cercatelo. Non state mai da soli, perché è più facile sbagliare quando si è soli, ed è facile rimanere nell‟errore. Questo è il mio augurio: che possiate stare sempre in compagnia, e allegri. 31


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In conclusione, la preside interviene per un saluto finale: l‟incontro di oggi in certo senso ci ha fatta apprendere che essere soli in una società così complessa fa paura, eppure con grande forza si supera ogni tipo di difficoltà. Siamo al secondo anno del nostro percorso, ma oggi qualche risposta cominciamo a intravvederla: per esempio la coppia. La coppia è una grandissima forza, come ci hanno testimoniato i coniugi Carlo e Maria Carla Volpini. E la famiglia: la famiglia è la linfa vitale dell‟affettività e dell‟equilibrio futuro della persona. La società ha bisogno dell‟aiuto e dell‟intervento di ognuno di noi, per questo, ragazzi, con impegno e serietà, non arrendetevi mai.

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Valori umani e culturali della riforma della scuola Incontro con Sergio Cicatelli (Auditorium ITE “V. Cosentino”, 12 marzo 2016)

Con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale il progetto governativo su La Buona Scuola è diventato legge. Si tratta di una raccolta di misure che vengono a modificare il funzionamento della scuola italiana e che hanno assunto notevole spazio nel dibattito politico recente, sia per l‟oggettiva rilevanza dell‟argomento, sia per l‟esposizione mediatica che il governo (principalmente nella persona del suo presidente) ha avuto sull‟argomento. In premessa va senz‟altro giudicato positivamente l‟investimento di risorse sulla scuola. Dopo anni di tagli, dettati dall‟idea che la scuola fosse principalmente una spesa improduttiva, si è tornati ad investire sulla scuola, anche se gli sforzi sembrano concentrarsi più sull‟intervento sociale (eliminazione del precariato) che sul piano culturale. L‟intero progetto ruota intorno all‟assunzione di oltre centomila precari, secondo una logica che in un certo senso inverte il rapporto tra causa ed effetto: di norma ad un progetto educativo e culturale dovrebbe seguire la ricerca delle risorse necessarie per realizzarlo; in questo caso si è partiti dalle risorse a vario titolo disponibili (i precari) per costruirvi intorno un progetto di scuola, che cerca di rispondere anche a emergenze di vario genere: raccordo migliore tra scuola e lavoro, diffusione di una cultura (e di una strumentazione) digitale, trasparenza ed efficienza organizzativa, sicurezza ed edilizia scolastica. Fin dal suo esordio, il Presidente del Consiglio Renzi aveva posto la scuola al centro dell‟azione di governo. Come aveva dichiarato nel discorso di presentazione al Senato per la fiducia (24-2-2014), “noi pensiamo che non ci sia politica alcuna che non parta dalla centralità della scuola”. Il punto di partenza sarebbe stata l‟edilizia scolastica (che in realtà produce effetti soprattutto sui lavori pubblici), ma nei mesi successivi sarebbe progressivamente maturato un programma di interventi più ampi sulla scuola in cui il Presidente del Consiglio, più che il Ministro dell‟istruzione, decideva di esporsi personalmente. A sua volta il ministro Giannini, nel presentare in Senato le sue linee programmatiche (27-3-2014) rivendicava al Governo il fatto di essere “il primo, a partire dall‟immediato Dopoguerra, ad aver posto l‟istruzione al centro dell‟agenda politica”. Ad anticipare gli sviluppi successivi il Ministro dichiarava che “la questione più importante nel mondo della scuola […] è indubbiamente rappresentata dalla patologia tutta italiana del precariato” (aggiungeva però che il precariato era da riassorbire “in un‟ottica di medio e lungo periodo”). 33


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Durante l‟estate si creava una grande attesa per l‟intervento sulla scuola. Elaborato da un piccolo comitato (prevalentemente esterno al Ministero), il 3 settembre veniva finalmente pubblicato il progetto dal titolo La Buona Scuola, che raccoglieva in 136 pagine dalla grafica accattivante una serie di proposte raccolte intorno a sei capitoli principali: un piano di assunzione straordinario di docenti; nuove modalità di formazione e valorizzazione della professionalità; autonomia e semplificazione amministrativa; integrazioni al curricolo di studi; raccordo con il mondo del lavoro; apertura alle risorse private per le scuole. Il documento partiva dal presupposto che “l‟istruzione è l‟unica soluzione strutturale alla disoccupazione” (p. 5) e individuava le principali emergenze della scuola nello squilibrio tra organico di diritto (insufficiente) e precari (sovrabbondanti). Era facile trovare la soluzione in un piano straordinario di assunzioni, quantificato in 148.100 unità. Queste assunzioni avrebbero assicurato il potenziamento di alcuni insegnamenti, andando a caratterizzare il nuovo asse culturale della scuola italiana: storia dell‟arte, musica, sport. Tra le proposte di maggior interesse, ma anche oggetto di maggiore polemica, c‟era la volontà di valorizzare il merito dei docenti. Alla fine di un iter complesso ma abbastanza rapido è stata approvata la legge 13-7-2015, n. 107, che reca il titolo di “Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione e delega per il riordino delle disposizioni legislative vigenti” e si presenta sotto forma di un unico articolo ripartito in 212 commi, per via della fiducia posta al Senato su un maxiemendamento che ha assorbito l‟intero testo del ddl. È il caso di soffermarsi in primo luogo sul titolo del provvedimento, che già da solo mette in evidenza aspetti e intenti significativi. Anzitutto, si parla di “riforma”, con un termine che ci appare francamente sproporzionato, almeno in relazione al sistema scolastico, che ha visto ben altre e più significative riforme, da quella Gentile a quella della scuola media, da quella Berlinguer a quella Moratti. La legge 107 non tocca l‟ordinamento e si limita a intervenire sulle regole di funzionamento della scuola, badando più al personale che agli alunni, più agli aspetti gestionali che alla proposta educativa (se non in minima parte). Fatta questa premessa, dobbiamo notare che la sedicente riforma si applica al “sistema nazionale di istruzione e formazione”, espressione che costituisce una novità nel panorama legislativo degli ultimi vent‟anni. La legge 53/03 e ancora prima la legge 30/00 avevano istituito il “sistema educativo di istruzione e di formazione”; la legge 60/00, sulla parità scolastica, aveva istituito il “sistema nazionale di istruzione”: la nuova dizione sembra essere una sintesi di queste due locuzioni, senza però che sia stata fornita una spiegazione della novità, né che essa sia stata oggetto di dibattito precedente o successivo. Come motivi di continuità siamo sempre in presenza di un sistema, cioè di una organizzazione complessa e articolata, e il sistema è sempre costituito dai due rami dell‟istruzione e 34


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della formazione (anche se quest‟ultima è oggetto di scarsa attenzione). Come fattore di discontinuità c‟è la qualifica del sistema, che da educativo diventa nazionale, con una trasformazione su cui merita di soffermarsi. La formula originaria – tanto nella riforma Moratti quanto nella riforma Berlinguer – aveva trovato nella dimensione educativa il fattore unificante dell‟azione scolastica (istruzione) e professionale (formazione). Educazione vuol dire attenzione alla persona, alla sua crescita e alla sua specificità, a prescindere dalle dimensioni più particolarmente cognitiva o operativa che – nonostante le continue e sempre più frequenti contaminazioni – possono caratterizzare rispettivamente il mondo della scuola e quello della formazione. Trasformare il sistema da educativo in nazionale vuol dire avere in mente soprattutto l‟identità politica (in senso alto) e amministrativa del sistema. Nel momento in cui, come vedremo, la legge intende attuare l‟autonomia scolastica, il richiamo alla dimensione nazionale sembra essere una clausola di sicurezza (o una riserva mentale) rispetto ai possibili sviluppi incontrollati di tale autonomia. Del resto, il sistema di cui la legge si occupa è praticamente solo quello statale: le scuole paritarie (per le quali aveva senso parlare di “sistema nazionale” nella legge 60/00) sono del tutto trascurate e subiranno solo alcuni effetti perversi della legge (per esempio l‟emorragia di docenti che decideranno di passare nei ruoli dello Stato). La prospettiva è dunque essenzialmente statalista e l‟aggettivo „nazionale‟ può esserne un‟efficace e ulteriore testimonianza. Infine, il titolo della legge precisa la sua natura di legge delega, dalla quale dovranno derivare nei prossimi mesi una quantità di decreti legislativi, tra i quali sembra essere sottolineato implicitamente quasi solo quello che conterrà il nuovo Testo Unico (“riordino delle disposizioni legislative vigenti”), ma la dizione si presta a identificare anche qualche altro tipo di delega. La categoria del “riordino” ci sembra comunque appropriata al compito di mettere ordine nella impressionante stratificazione di norme che si sono accumulate negli ultimi anni. Entrando nel merito della legge, partiamo dai primi quattro commi, in cui sono esposte le sue finalità. Il primo comma individua l‟obiettivo principale nella volontà di dare “piena attuazione all‟autonomia delle istituzioni scolastiche”. Come dovrebbe essere noto, le finalità della scuola italiana sono desumibili dalla Costituzione, che all‟art. 3 fissa per la Repubblica l‟impegno a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e la uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l‟effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all‟organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. La scuola è sicuramente uno degli strumenti con cui si possono rimuovere quegli ostacoli e l‟obiettivo assegnato alla scuola in questo contesto è quindi di favorire lo sviluppo della persona e la partecipazione all‟organizzazione del Paese: due finalità di natura rispettivamente antropologica e politica, che la scuola non può trascurare o ridimensionare. 35


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La legislazione ordinaria ha tradotto i principi costituzionali in maniera abbastanza coerente, soprattutto per quanto riguarda il primo aspetto. Il Testo Unico individua la finalità della scuola nella “piena formazione della personalità degli alunni” (DLgs 297/94, art. 1); il regolamento dell‟autonomia parla di “sviluppo della persona umana” (Dpr 275/99, art. 1); la riforma Moratti fissa il fine del sistema educativo nella “crescita e la valorizzazione del persona umana” (legge 53/03, art. 1). Insomma, la finalità della scuola è essenzialmente quella di mettersi al servizio della persona dell‟alunno per favorirne la crescita in ogni sua dimensione: una finalità essenzialmente educativa. Di tutto questo, purtroppo, non si trova traccia nel primo comma della legge 107/15, che invece enumera una serie di obiettivi ai quali viene subordinata l‟attuazione dell‟autonomia: “affermare il ruolo centrale della scuola nella società della conoscenza”, dichiarando perciò subito che al centro dell‟interesse c‟è la scuola e non l‟alunno; “innalzare i livelli di istruzione e le competenze delle studentesse e degli studenti”, recuperando almeno in parte quell‟attenzione pedagogica che sembra sfuggire alla legge; “contrastare le diseguaglianze socio-culturali e territoriali”; “prevenire e recuperare l‟abbandono e la dispersione scolastica”, non in nome della crescita della persona ma “in coerenza con il profilo educativo, culturale e professionale dei diversi gradi di istruzione”; “realizzare una scuola aperta”, che a sua volta si qualifica come “laboratorio permanente di ricerca, sperimentazione e innovazione didattica, di partecipazione e di educazione alla cittadinanza attiva”; “garantire il diritto allo studio” e “le pari opportunità di successo formativo e di istruzione permanente dei cittadini”. Come si vede, non compare mai la persona ma solo il cittadino, che ne è una parziale manifestazione funzionale e subordinata al sistema socio-politico. L‟attenzione non è per l‟alunno ma per la scuola, secondo una visione essenzialmente amministrativa che rispecchia alcuni pericolosi slittamenti semantici di recenti disposizioni legislative (per esempio i regolamenti del secondo ciclo, in cui il profilo degli studenti si è trasformato nel profilo degli indirizzi di studio). Nell‟insieme, dunque, manca un respiro pedagogico e trova conferma la chiave di lettura avanzata nell‟interpretare la trasformazione del sistema da educativo in nazionale. Il comma 2 ribadisce tale impostazione elencando le ulteriori responsabilità delle istituzioni scolastiche, tutte di carattere organizzativo e funzionale: organi collegiali partecipativi, flessibilità, diversificazione, efficienza ed efficacia del servizio scolastico, integrazione e ottimizzazione delle risorse e delle strutture, innovazione tecnologica, coordinamento territoriale, potenziamento dei saperi e delle competenze, apertura al territorio. Gli ultimi obiettivi sono legati alla pro36


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grammazione triennale dell‟offerta formativa, che viene qui anticipata rispetto alla più specifica trattazione nei commi successivi. Un carattere ancora organizzativo ma in parte anche metodologico-didattico hanno gli altri obiettivi presenti – un po‟ alla rinfusa – nel comma 3, dove si parla di realizzazione del curricolo di scuola, valorizzazione delle potenzialità e degli stili di apprendimento, valorizzazione della comunità professionale, adozione del metodo cooperativo, rispetto della libertà di insegnamento, collaborazione, progettualità, interazione con famiglie e territorio. A tutto questo dovrebbe provvedere la flessibilità consentita dall‟autonomia, di cui solo alcune forme vengono citate – non si capisce bene perché – a titolo esemplificativo. Al comma 5 compare per la prima volta quella che, a nostro parere, costituisce forse la principale novità della legge. Si tratta dell‟organico dell‟autonomia (OA), che modifica in maniera sensibile l‟assegnazione del personale alle scuole. L‟OA è stato presentato come l‟erede (o l‟interprete) dell‟organico funzionale, che fin dagli inizi dell‟autonomia scolastica era stato individuato come fondamentale strumento di realizzazione dell‟autonomia stessa. Se ne era parlato nelle prime norme relative all‟autonomia, ma in concreto non si era mai passati dalle parole ai fatti. In concreto l‟OA costituisce una quota di personale assegnato definitivamente alle scuole da oggi in poi per far fronte a varie forme di progettualità. Sulla natura dell‟OA, però, il quadro non è del tutto chiaro. Ai sensi del comma 5, l‟OA “è istituito per l‟intera istituzione scolastica, o istituto comprensivo, e per tutti gli indirizzi degli istituti secondari di secondo grado afferenti alla medesima istituzione scolastica”. Esso è “funzionale alle esigenze didattiche, organizzative e progettuali delle istituzioni scolastiche” ed è destinato ad assicurare “attività di insegnamento, di potenziamento, di sostegno, di organizzazione, di progettazione e di coordinamento”. In altre parole, l‟OA dovrebbe coprire tutte le attività della scuola, ordinarie e straordinarie, curricolari ed extracurricolari. In forma ridimensionata, però, l‟OA compare al comma 63 come costituito solamente “dai posti comuni, per il sostegno e per il potenziamento dell‟offerta formativa”. Il comma 68 invece torna ad ampliare il raggio d‟azione dell‟OA facendovi rientrare “l‟organico di diritto e i posti per il potenziamento, l‟organizzazione, la progettazione e il coordinamento”. Queste oscillazioni concettuali non giovano all‟identità dell‟OA e producono complicazioni di vario genere. Per il primo anno di attuazione (2015-16) l‟organico per il potenziamento è fissato dalla Tabella 1 allegata alla legge, che prevede 55.258 posti complessivi, tra scuola primaria e secondaria di I e II grado, di cui 6.446 di sostegno. A partire dal 2016-17 questo organico di potenziamento confluirà nell‟unico OA (cc. 68 e 95), con l‟incognita della sua effettiva composizione dal momento che essa sarà determinata dal fabbisogno espresso dalle scuole: questo sarà ininfluente 37


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sulla composizione dei posti nella scuola primaria, dato che tutti i docenti appartengono a un‟unica graduatoria, ma sarà differenziato per classi di concorso nei due gradi della secondaria, dove molto dipenderà dalle richieste avanzate dalla scuole per avere docenti dell‟una o dell‟altra disciplina. I posti di potenziamento devono essere finalizzati a uno degli “obiettivi formativi prioritari” individuati dal comma 7: a) competenze linguistiche (italiano, inglese e altre lingue); b) competenze matematico-logiche e scientifiche; c) musica, arte, cinema e altri media; d) cittadinanza attiva, intercultura, diritto, economia; e) legalità e sostenibilità ambientale; f) alfabetizzazione artistica e mediale; g) disciplina motorie, alimentazione, sport; h) competenze digitali; i) interazione con famiglie e territorio; l) metodologia laboratoriale; m) prevenzione della dispersione e inclusività (Bes, ecc.); n) apertura pomeridiana delle scuole e riduzione degli alunni per classe; o) alternanza scuola-lavoro; p) percorsi individualizzati; q) riconoscimento del merito degli studenti; r) italiano come seconda lingua per alunni stranieri; s) sistema di orientamento. L‟appartenenza strutturale dei posti di potenziamento all‟OA viene a modificare sensibilmente l‟offerta formativa delle scuole, che dunque si caratterizzerà per uno o più degli obiettivi sopra indicati (sarà impossibile che siano tutti) e sposterà al di là della sola dimensione disciplinare l‟idea di curricolo attualmente praticato nelle scuole. Se questi obiettivi diventeranno a loro volta “curricolari” è presto per dirlo, ma l‟innovazione sembra incidere sulla natura della scuola più di quanto si possa immaginare. Altra significativa innovazione è la trasformazione del Pof da annuale in triennale. La misura è funzionale alla gestione dell‟OA, in quanto è soprattutto questo ad assumere cadenza triennale per assicurare alle scuole maggiore stabilità progettuale e continuità didattica. Il Pof, anche nella sua versione triennale, ruota intorno alla progettualità curricolare, extracurricolare, educativa e organizzativa delle scuole. Tra queste dimensioni quella curricolare è di solito quella cui si dedica minor attenzione, nella convinzione (erronea) che il curricolo sia comunque stabilito a livello centrale e che gli spazi di libertà siano affidati più ai singoli insegnanti che alle scuole. La legge 107 sembra confermare questa tendenza, soffermandosi su alcuni aspetti complementari della proposta curricolare, che ora andiamo ad esaminare. 38


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Anche se saranno le singole scuole a individuare le integrazioni da inserire nella propria offerta formativa grazie ai posti di potenziamento, rimane il fatto che dall‟alto sono stati individuati i campi da potenziare. Come era stato promesso fin dal progetto originario su La Buona Scuola, si incentiverà l‟inglese, la storia dell‟arte, la musica e l‟educazione motoria. Anche se sembra una scelta condivisibile, dettata dalla volontà di colmare alcuni vuoti della formazione scolastica – tanto più incomprensibili in un Paese come l‟Italia che ha un patrimonio artistico e musicale di primaria importanza a livello mondiale – le integrazioni al curricolo sembrano determinate soprattutto dall‟esigenza di svuotare le corrispondenti graduatorie di precari. Se avessimo avuto migliaia di precari di formazione medica o paramedica, probabilmente sarebbe stata incentivata la cultura sanitaria (almeno il primo soccorso è stato comunque inserito nei percorsi di scuola secondaria dal comma 10). Solo per gli studenti dell‟ultimo triennio delle scuole secondarie di secondo grado è prevista l‟introduzione nel proprio curriculum di insegnamenti opzionali (c. 28). Il limite principale a questa facoltà è dato dal fatto che deve trattarsi di insegnamenti già attivati nella scuola, cioè compresi nell‟OA senza dar luogo a ulteriori oneri. Il curriculum così integrato e arricchito dovrebbe confluire in una “identità digitale” dello studente, che dovrebbe servire anche a fini di orientamento e di accesso al lavoro. Il medesimo curriculum dovrebbe poi essere tenuto presente dalle commissioni nel corso dell‟esame di Stato conclusivo del secondo ciclo. L‟arricchimento del curriculum è dichiaratamente finalizzato a favorire un migliore accesso al mondo del lavoro e proprio l‟occupabilità degli studenti è uno dei principali obiettivi delle misure prese in materia di alternanza scuolalavoro, un capitolo avviato con il regolamento del 2005 (DLgs 77) ma finora rimasto sempre ai margini degli interessi delle scuole. Le attività di alternanza saranno previste negli istituti tecnici e professionali per almeno 400 ore nell‟ultimo triennio e nei licei per almeno 200 ore. Saranno attività da svolgere nei periodi di sospensione delle attività didattiche, ma dovranno essere regolarmente inserite nei Pof. Il valore formativo del lavoro è indiscutibile e una seria alternanza potrà iniziare a scardinare la mentalità tradizionale che vede separate prima la stagione dello studio e poi quella del lavoro, ma la trasformazione non sarà certamente rapida, anche se la quota di ore in alternanza è tutt‟altro che trascurabile. In questo contesto stupisce che il solo comma 44 sia dedicato all‟istruzione e formazione professionale, che in materia di alternanza e di rapporto con il mondo del lavoro può essere di esempio a tutto il mondo della scuola. Vanno nella medesima direzione i commi 45-55, dedicati agli istituti tecnici superiori, che assicurano uno stretto legame con il mondo del lavoro, ma in questa sede non ce ne possiamo occupare più diffusamente. 39


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È il caso invece di soffermarsi sull‟attenzione dedicata alla didattica laboratoriale, che nel testo della legge ritorna più volte e in vari contesti. In proposito andrebbe anzitutto chiarito il significato della laboratorialità, che può essere intesa come concreta attività pratica negli appositi laboratori di cui alcune discipline possono disporre oppure come stile didattico applicabile a tutte le discipline e tendente a trasformare la lezione da processo di trasmissione unidirezionale in attività che preveda la partecipazione attiva, originale e sperimentale dello studente. Riteniamo che la legge intenda riferirsi soprattutto al primo significato, ma senza trascurare qualche affermazione più impegnativa secondo il significato più generale di laboratorialità (sulle oscillazioni concettuali si vedano i commi 1, 7/i, 58, 60, 181-d/2). Tra le innovazioni che la legge 107 intende promuovere la digitalizzazione del sistema occupa sicuramente una posizione strategica. Già da una decina d‟anni si è introdotto, non solo nella scuola, il Codice dell‟amministrazione digitale, prima con il DLgs 82/05 e poi con il DLgs 235/10. Nei commi 56-62 si prevede l‟adozione da parte del Miur, a partire dall‟anno scolastico 2015-16, di un Piano nazionale per la scuola digitale, finalizzato a sviluppare e migliorare le competenze digitali degli studenti, rendendo la tecnologia digitale “strumento didattico di costruzione delle competenze in generale” (c. 56). Obiettivi del Piano sono: a) la realizzazione di attività volte allo sviluppo delle competenze digitali degli studenti; b) il potenziamento degli strumenti didattici e laboratoriali necessari; c) l‟adozione di strumenti tecnologici per favorire la governance del sistema; d) la formazione dei docenti all‟applicazione della cultura digitale nell‟insegnamento; e) la formazione del personale ata all‟amministrazione digitale; f) il potenziamento delle reti, con particolare riferimento alla connettività delle scuole; g) la valorizzazione delle buone pratiche delle scuole anche mediante una rete nazionale; h) la definizione di criteri per l‟adozione di libri di testo in formato digitale. Come si vede, si mescolano obiettivi didattici e amministrativi, considerando la digitalizzazione un fattore comune della vita quotidiana. Espressione di questo nuovo paradigma culturale può essere la già esaminata proposta di dotare ogni studente di un‟identità digitale (c. 28), da inserire, insieme a numerosi altri dati, nel Portale unico dei dati della scuola (c. 136), ambizioso strumento onnicomprensivo gestito dal Miur, che dovrebbe ospitare: i bilanci delle scuole, i dati del Sistema Nazionale di Valutazione, l‟anagrafe dell‟edilizia scolastica, l‟anagrafe degli studenti, gli incarichi di docenza, i Pof 40


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(compresi quelli delle scuole paritarie), i dati dell‟osservatorio tecnologico, i materiali didattici autoprodotti dalle scuole, il curriculum degli studenti, il curriculum dei docenti, la normativa di interesse scolastico, dati sulle erogazioni liberali versate alle scuole da soggetti esterni. Questa impressionante mole di dati porrà inevitabilmente problemi di tutela della riservatezza, ma dovrebbe produrre effetti anche in termini di semplificazione amministrativa, quanto meno perché non sarà più possibile richiedere all‟amministrazione le informazioni già disponibili sul Portale (c. 140). E tutto questo dovrebbe realizzarsi solo con la spesa di un milione di euro nel 2015 e centomila euro negli anni successivi per la manutenzione (c. 141). L‟assunzione di oltre centomila precari costituisce politicamente il nucleo di tutta la manovra, ma in questa sede non sembra il caso di soffermarcisi dato che interessa prevalentemente gli insegnanti coinvolti nell‟operazione. Una volta completata questa tornata straordinaria di assunzioni si procederà solo con concorsi ordinari cui potranno partecipare esclusivamente candidati in possesso di abilitazione (c. 110); e l‟abilitazione sarà titolo di accesso anche per le graduatorie di istituto (c. 107). Tralasciando dunque tutto ciò che riguarda la gestione del personale e le nuove competenze dei dirigenti scolastici, si può concludere con le numerose deleghe previste dal comma 181. Entro 18 mesi (cioè entro gennaio 2017) dovranno infatti essere emanati almeno 9 decreti legislativi sulle materie distintamente elencate dalla legge. La prima delega è particolarmente importante poiché prevede il riordino di tutte le norme relative al ridenominato sistema nazionale di istruzione e formazione. Ciò avverrà principalmente attraverso un nuovo Testo Unico ma anche mediante la rubricazione per materie omogenee e un riordino che non esclude modifiche innovative. L‟argomento su cui forse si concentra maggiormente l‟attenzione degli insegnanti è però la ridefinizione del percorso di formazione iniziale e delle modalità di reclutamento. In merito la legge mira alla semplificazione del sistema e alla valorizzazione sociale e culturale della professione, da perseguire attraverso il coordinamento delle competenze di scuole e università, l‟avvio di regolari concorsi nazionali per l‟accesso a un tirocinio triennale retribuito, la revisione del curricolo formativo con l‟incremento dell‟area pedagogico-didattica, il conseguimento di un diploma di specializzazione per l‟insegnamento secondario da valutare sulla base di standard nazionali, la graduale assunzione della funzione docente nel corso del triennio di tirocinio, l‟adozione a regime di tale procedura anche per l‟accesso alle supplenze, il riordino delle classi di laurea magistrale, ecc. Più semplice sembra la delega per promuovere l‟inclusione degli alunni con disabilità attraverso nuovi e specifici percorsi formativi e valutativi. In parte do41


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vuta è poi la revisione dei percorsi di istruzione e formazione professionale, che risentirà verosimilmente della riforma costituzionale in corso di approvazione. Molto più problematica è invece l‟istituzione di un sistema integrato di educazione e di istruzione da 0 a 6 anni, che dovrebbe trasferire sotto le competenze del Miur tutto il settore dell‟assistenza all‟infanzia finora affidato alle incerte risorse degli enti locali. La materia è estremamente vasta e complessa e non è possibile entrare più di tanto nei dettagli in questa sede. A riprova delle difficoltà poste dal settore del tutto nuovo c‟è il fatto che si è reso necessario escludere dal piano straordinario di assunzioni tutto il personale della scuola dell‟infanzia proprio perché se ne dovranno ridefinire i profili. È piuttosto ordinaria la delega relativa al potenziamento del diritto allo studio, che dovrebbe avvalersi soprattutto delle nuove opportunità offerte dalla tecnologia elettronica. Costituisce invece una novità la dichiarata volontà di promuovere la cultura umanistica e valorizzare il patrimonio artistico e culturale, con particolare estensione al mondo dello spettacolo nelle sue diverse forme (teatro, musica, cinema). Il riferimento è coerente con il nuovo taglio del curricolo scolastico e può essere letto come un asse culturale – o almeno un ramo – da sviluppare nella formazione delle giovani generazioni. Piuttosto tecnica è la delega per rivedere e riordinare la normativa sulle scuole italiane all’estero, mentre appare più rilevante l‟ultima delega, relativa alla normativa che regola la valutazione e certificazione delle competenze, una materia di recente e non ancora consolidata introduzione nella prassi scolastica, su cui sono in corso sperimentazioni che attendono di essere messe a regime.

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Dibattito seguito all’incontro con Sergio Cicatelli (appunti di Capalbo Maria Teresa e Benedetta Olivella, V B Sia)

Giorno 12 febbraio, si è tenuta la terza conferenza di quest‟anno del ciclo “Quale uomo, quale cultura, quale scuola per XXI secolo”. Essa è stata tenuta da Sergio Cicatelli, sull‟argomento “I valori umani e culturali della riforma della scuola”. Ad introdurre l‟ospite è stata la dirigente scolastica Brunella Baratta, che ha posto l‟interrogativo su quali siano le modalità per sviluppare i valori umani e culturali secondo la riforma della “Buona scuola.” Successivamente, ha preso la parola il prof. Sergio Cicatelli, partendo dalla legge 13 Luglio n. 107, che reca il titolo di “Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione e delega per il riordino delle disposizioni legislative vigenti”. Si deve prestare attenzione al titolo, ha segnalato, perché questa riforma viene divulgata come legge sulla “Buona scuola”, però nel titolo non compare mai l‟espressione “Buona scuola” ma neanche in tutta la legge. Essa viene usata come un modo per propagandare l‟operazione che si fa a livello legislativo. La legge 107 non tocca l‟ordinamento e si limita a intervenire sulle regole di funzionamento della scuola, badando più al personale che agli alunni, più agli aspetti gestionali che alla proposta educativa. Attraverso questa legge viene riformato il sistema nazionale d‟istruzione e formazione. Nel linguaggio giuridico è la prima volta che si sente parlare di “sistema nazionale” d‟istruzione e formazione, finora le riforme avevano istituito il sistema educativo d‟istruzione e formazione. Con questa riforma il sistema educativo diventa un sistema nazionale. Nella seconda parte del titolo si parla di delegare il riordino delle disposizioni legislative vigenti attraverso una “legge delega” che prevede l‟emanazione di nove decreti delegati. Questa legge è formata da 200 commi, si parla di offerta informativa tramite la quale vengono fissate le finalità della scuola nella “piena formazione della personalità degli alunni”. Ricordiamo che il regolamento dell‟autonomia parla di “sviluppo della persona umana”; la riforma Moratti fissa 43


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il fine del sistema educativo nella “crescita e la valorizzazione del persona umana”. Insomma, la finalità della scuola è essenzialmente quella di mettersi al servizio della persona dell‟alunno per favorirne la crescita in ogni sua dimensione: una finalità essenzialmente educativa. Quello che più interessa è il curriculum dello studente che va ampliato sulla base dei proprio interessi, questo arricchimento è dichiaratamente finalizzato a favorire un migliore accesso al mondo del lavoro e proprio l‟occupabilità degli studenti è uno dei principali obiettivi delle misure prese in materia di alternanza scuola-lavoro. Questa legge cerca di mettere in evidenza che non esiste una separazione tra mondo della scuola e mondo del lavoro, essi devono interagire. Il lavoro ha un significato essenzialmente formativo, l‟alternanza scuola-lavoro è il modo in cui vediamo il lavoro entrare nella scuola. Si devono fare 400 ore di “pratica sul posto di lavoro” negli ultimi tre anni di scuola, e si deve capire che queste 400 ore non sono alternative allo studio, perché chi ha fatto una buona alternanza si è reso conto che serve a imparare più cose rispetto a quanto se ne imparano nell‟aula scolastica. Un altro aspetto che la scuola affronta è l‟orientamento, esso serve ad orientare, a indirizzare gli studenti al lavoro ed aiutarli a realizzarsi personalmente. La legge pone attenzione anche alla valutazione. Si valuta per classificare o per migliorare? Generalmente si valuta per migliorare, ma molti percepiscono la valutazione come una classificazione; la valutazione serve a scoprire i punti di forza e i punti di debolezza per andare avanti. La cultura della valutazione oltre a porre l‟attenzione alla qualità complessiva della scuola, comporta un‟attenzione alla responsabilità. Ciò significa che quando si va a valutare bisogna chiedersi perché si è fatto in un certo modo. Questo è il compito della valutazione al livello del sistema, ciò vuol dire che la responsabilità è l‟attenzione nuova che serve per il funzionamento della scuola. Se si capisce perché una scuola funziona bene anche altre scuole possono essere fatte andare bene. Per far sì che la scuola funzioni occorre poi che gli insegnanti si aggiornino, che siano in continua ricerca di quegli strumenti che permettono di soddisfare le esigenze degli alunni. Infine, si deve ricercare non tanto la quantità ma la qualità, e si deve premiare il merito di chi ha fatto bene le cose. Questa riforma parla molto di didattica laboratoriale, che può essere intesa come concreta attività pratica negli appositi laboratori di cui alcune discipline possono disporre oppure come stile didattico applicabile a tutte le discipline e tendente a trasformare la lezione da processo di trasmissione unidirezionale in attività che preveda la partecipazione attiva, originale e sperimentale dello studente.

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Al centro della legge c‟è la scuola, ma al centro della scuola cosa c‟è? Le finalità della scuola italiana sono desumibili dalla Costituzione, che all‟art. 3 fissa per la Repubblica l‟impegno a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l‟uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l‟effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all‟organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. La scuola è sicuramente uno degli strumenti con cui si possono rimuovere quegli ostacoli e l‟obiettivo assegnato alla scuola in questo contesto è quindi di favorire lo sviluppo della persona e la partecipazione all‟organizzazione del Paese: due finalità di natura rispettivamente antropologica e politica, che la scuola non può trascurare o ridimensionare. Questa legge non riguarda direttamente noi studenti ma riguarda i docenti, operatori fondamentali del sistema scolastico. Dopo la relazione di Cicatelli si è aperto un dibattito su alcuni aspetti della questione che per noi studenti sono fondamentali. Andrea Tricò, IV B Sia: per quanto riguarda l‟alternanza scuola-lavoro,quali sono le premesse, i presupposti e gli obiettivi? Sergio Cicatelli: l‟alternanza serve a far entrare nella scuola la cultura del lavoro, e cioè far capire che si cresce e si impara non soltanto sui libri ma guardando, osservando chi lavoro e cercando di cominciare ad entrare nel sistema produttivo, cercando di far capire come funziona il mondo del lavoro, che funziona in maniera diversa dalla scuola. Gli obiettivi e presupposti sono: imparare a entrare nel mondo del lavoro, cominciare a vedere in quali settori siete più por45


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tati, capire quanto dura una giornata di lavoro, fare esperienza e mettere in atto ciò che si è imparato a scuola. Andrea Tricò: che possibilità ci sono per le ragioni economicamente deboli come la Calabria di fare dell‟alternanza scuola-lavoro un punto di forza della formazione? Sergio Cicatelli: indubbiamente voi vi trovate in una posizione poco favorevole. Capisco che qui ci possono essere più difficoltà, perché prima di tutto mancano le strutture ricettive dove si possono fare esperienze di questo genere, però l‟alternanza scuola lavoro può essere fatta in maniera creativa. Voi siete un istituto tecnico, probabilmente vorreste fare alternanza in settori produttivi, amministrativi dove quello che avete studiato può servire; però potrebbe interessare qualcosa di diverso per far capire che ci sono delle possibilità differenti da quelle solite, da quelle che uno si potrebbe aspettare. Michele De Gregorio, V C Sia: i valori culturali di oggi risentono molto

dell‟incontro tra varie culture. Come si attrezza la scuola? La riforma ne tiene conto? Sergio Cicatelli: sì, per certi aspetti ne tiene conto. La scuola si sta attrezzando per affrontare in generale il problema della presenza di culture diverse. È chiaro che non si può affrontare in maniera astratta, se nella scuola non ho studenti stranieri è inutile che si iniziano a fare progetti di intervento, però la multicultura non è soltanto il confronto tra le culture ma anche una forma di apertura a posizioni diverse. Anche se voi venite tutti da questa zona, in realtà 46


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ognuno è portatore di una cultura diversa. La scuola è sempre stata un luogo di confronto interculturale e ora si tratta solo di allargare questo modello. Giovanni Audia, V B Sia: riguardo all‟ingresso nel mondo del lavoro, secondo lei quali sono i migliori sistemi per orientare i ragazzi verso i giusti settori? Sergio Cicatelli: i migliori sistemi ci sono, ma il problema è capire che cosa vuol dire fare orientamento. Ho l‟impressione che quest‟ultimo, sia visto in maniera sbagliata nella scuola perché è fatto spesso come forma di reclutamento da parte delle agenzie come l‟università. Questa non è orientamento, è una propaganda. L‟orientamento serio è un servizio, cioè mettere la persona giusta al posto giusto, ma nella realtà odierna funziona così: “ti dico io dove devi andare”. Esso dovrebbe essere un aiuto per lo studente, per portarlo a scoprire le sue potenzialità e fargli capire dove queste possono essere applicate al meglio. Per fare questo la scuola ha bisogno di un supporto esterno come psicologi che collaborano contemporaneamente con gli insegnanti, somministrando test che indicano cose che la scuola non riesce a cogliere. Un buon orientamento dovrebbe fare scoprire le proprie intelligenze, secondo l‟approccio dello studioso americano E. Gardner che parla di intelligenze multiple. Giovanni Audia: come secondo lei si può premiare al meglio il merito degli studenti? Sergio Cicatelli: esistono vari sistemi, quello che di solito viene attuato è offrire vantaggi economici o borse di studio. È un discorso difficile da mandare giù in quanto se parliamo di premiare, si seleziona qualcuno lasciando fuori qualcun altro. Ognuno di noi, vorrebbe salire sul podio ma è chiaro che ci diamo da fare in funzione di quell‟obiettivo. Se non fosse previsto un podio, scomparirebbe l‟impegno. Una scuola deve essere capace di premiare colui che centra l‟obiettivo, ma la scuola non deve essere vista come una specie di competizione. Il merito deve essere premiato con il sistema giusto, perché se premio sulla base di un sistema sbagliato non credo più alla validità del sistema. Il problema è trovare degli strumenti che riconoscono meriti reali. Federica Bruno, IV B Sia: il ruolo degli studenti negli organi collegiali è rafforzato o indebolito dalla riforma? Sergio Cicatelli: per certi aspetti è rafforzato, perché per esempio nel comitato di valutazione sono presenti. Il problema è quanti sono gli studenti in questi organi, perché la presenza di un gran numero di loro può comportare delle decisioni maggiori per l‟istituto. La legge ha introdotto la presenza di uno studente nel comitato per valutare gli insegnanti. In un certo senso i poteri studenteschi crescono, ma ci si riunisce per decidere insieme, non da soli. Elvira Mazzulla: vorrei sapere qualcosa sulla scuola digitale e qualcosa in più sulla didattica laboratoriale. Didattica attiva e partecipativa: ma con quali strumenti? I docenti devono cercare strategie per la didattica laboratoriale adeguate a ciascuno studente: non si chiede troppo all‟insegnante? 47


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Sergio Cicatelli: la scuola chiede sempre troppo agli insegnanti. Ma questo è nella natura delle cose. È sempre stato così, ma oggi il problema appare più complesso e arduo. Spero che gli insegnanti siano formati per affrontare questo tipo di sfida, cioè per riuscire ad applicare metodologie nuove. La didattica laboratoriale non è solo laboratorio, ma significa fare in materia concreta ciò che si svolge normalmente in classe, per fare questo non servono per forza degli strumenti tecnologici particolari. Alla fine della conferenza prende la parola la dirigente: “Ci fermiamo quest‟oggi perché il tema è particolarmente complesso. Sergio Cicatelli ci ha presentato la parte della riforma che poteva essere affrontata con voi studenti. Direi che è stato efficace e lo ringraziamo. Ormai è chiaro che la scuola deve reinventare tutte le sue modalità”.

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Nomadelfia, una proposta originale di una società diversa Incontro con Sandro di Nomadelfia (Auditorium ITE “V. Cosentino”, 23 aprile 2016) Nomadelfia: la fraternità è legge Buongiorno. Permettete che mi presenti. Mi chiamo Sandro, compirò 66 fra alcuni giorni, faccio parte della Comunità di Nomadelfia da 43 anni, sono sposato. Mia moglie si chiama Donatella e abbiamo avuto 12 figli, parte nati dal matrimonio e parte accolti in affido come fanno comunemente tutte le famiglie di Nomadelfia. La parola Nomadelfia viene dal greco e significa: legge di fraternità. Siamo un piccolo popolo d volontari cattolici, cioè un insieme di famiglie che hanno scelto liberamente di vivere insieme, organizzando secondo il Vangelo un‟intera società, anche se piccola, nella quale viviamo mettendo i beni in comune, lavorando insieme senza avere “padroni e servi”, accogliendo in affido nelle nostre famiglie tanti ragazzi in difficoltà. Il legame che ci tiene uniti è prima la solidarietà, ma in modo più profondo e decisivo la fede, per la quale se Dio è padre noi siamo fratelli e tra fratelli si è l‟uno per l‟altro, tutti per uno uno per tutti come una cosa sola. Tra i primi cristiani non c’era l’indigente Nomadelfia si trova in Toscana vicino Grosseto su un territorio di 4 km quadrati e da qualche anno anche a Roma. Attualmente è formata da una sessantina di famiglie che vivono secondo lo stile delle prime comunità cristiane: un cuore solo, un‟anima sola, nessuno dice sue le cose che ha perché tutto è posseduto in comune. La comunione dei beni è solo il punto di partenza per arrivare a dare la vita l‟uno per l‟altro, come appunto chiede Gesù nella sua preghiera all‟ultima cena: che siano consumati nell‟unità come un solo. Nomadelfia è stata fondata da una grande figura di sacerdote, don Zeno Saltini (1900-1981). All‟età di 20 anni Zeno ha una discussione violentissima con un giovane anarchico che lo attaccava dicendo: “Voi cattolici avete un bellissimo vangelo, ma siete incoerenti alla vostra legge. Tra i primi cristiani non c‟era l‟indigente, invece voi dopo 20 secoli non siete ancora fratelli e avete i ricchi e i poveri, gli sfruttati e gli sfruttatori, gli oppressi e gli oppressori”.

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Zeno rimane sconvolto, decide di rispondergli con la vita, più tardi diventa sacerdote e il giorno della sua prima messa accoglie come figlio un giovane appena uscito da carcere. Con questo gesto supera il concetto della semplice assistenza, perché questo giovane non è più un estraneo, un subalterno, un forestiero, un assistito, ma entra a far parte della famiglia, gli diventa figlio. Perciò dà origine a un rapporto di tipo nuovo non più basato sulla parentela o sull‟interesse economico, ma sulla solidarietà e sullo spirito. Da allora più di 5000 figli sono stati accolti nelle nostre famiglie, dove hanno ritrovato un padre, una madre, dei nuovi fratelli, l‟abbraccio di un popolo intero. Ogni uomo nasce al mondo, tutti ne siamo responsabili Dice il Vangelo che quando la donna sta per partorire soffre, ma poi è lieta perché è nato un uomo al mondo. Dice che è nato al mondo non solo ai sui parenti. Perciò appartiene all‟umanità e tutti ne siamo responsabili. È con questo spirito che le nostre famiglie sono disponibili ad accogliere in affido, alla pari dei propri, ragazzi in difficoltà. In Nomadelfia trovate donne - noi le chiamiamo “mamme di vocazione”, fanno una scelta di verginità ma sentono molto forte il carisma della maternità – e coppie di sposi che hanno tirato su 15-20 figli. Le prime famiglie addirittura 4050. E questo è stato possibile perché le famiglie si aiutano tra di loro. “I figli non sono nostri, sono di Dio”, diceva una delle nostre mamme. A una società che va dal rifiuto del figlio alla ricerca del figlio a tutti i costi, modellato secondo i propri desideri e aspettative, Nomadelfia ricorda che i figli non sono un oggetto, una proprietà dei genitori. Dobbiamo imparare ad amarli senza possederli e dovremmo arrivare a sentirci padri e madri di tutti, non soltanto dei nostri. A questo proposito, a Nomadelfia parliamo di “maternità e paternità in solido”. Questo significa che in Nomadelfia gli adulti si assumono una responsabilità comune nei confronti dei figli. E pur avendo naturalmente ciascun figlio la propria famiglia, però ogni Nomadelfo si impegna ad amare, educare e mantenere tutti i figli, senza fare differenze tra i propri e quelli degli altri. Questo dà ai figli un grande senso di sicurezza, perché crescono sentendosi amati da tutti, e permette a noi genitori di essere più forti e di aiutarci, secondo linee comuni, anche nell‟educazione che è diventata una vera e propria emergenza. Famiglie fraternizzate La famiglia non è un fatto ideologico o religioso, è un dato antropologico. La famiglia (uomo-donna-figli) è una realtà sociale, che viene prima dello Stato, ed è la cellula fondamentale di ogni società. Ma la famiglia oggi attraversa una grandissima crisi. 50


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Alla crisi della famiglia Nomadelfia ha risposto in primo luogo facendo collaborare in questa sua forma sociale fraterna la forza del matrimonio, la forza della verginità l‟una accanto all‟altra, così che l‟una aiuti l‟altra a vivere in pienezza e coerenza la propria scelta. E in secondo luogo ha risposto unendo le famiglie, perché la famiglia sola si trova in grande difficoltà. È per questo che le nostre famiglie non vivono isolatamente ma riunite in gruppi familiari, ciascuno dei quali è formato da 3 o 4 famiglie. Se venite a trovarci vedete sparsi nella tenuta dove abitiamo questi gruppi, uno qui, uno lì, uno più in là ancora e così via. Dal punto di vista abitativo il g.f. è fatto da una casa centrale,dove le famiglie mangiano e vivono la vita quotidiana come una “famiglia di famiglie”, e da casette indipendenti messe attorno dove le famiglie dormono. Inoltre ogni tre anni c‟è il cosiddetto “scioglimento dei gruppi”. Ciascuna famiglia, nella sua interezza, lascia il proprio gruppo per andare a vivere con altre famiglie in un gruppo diverso, così da essere liberi dalle cose e disponibili a vivere con tutti. Nel g.f. le famiglie sono più forti perché sono insieme. Una famiglia supera il proprio individualismo aprendosi serenamente alle altre famiglie, il figlio con problemi o portatore di handicap è il più seguito, l‟anziano non è un peso ma è il nonno di tutti rispettato, amato, curato, l‟ammalato può contare sul sostegno degli altri. Naturalmente sappiamo bene che non tutti possono vivere comunitariamente come facciamo a Nomadelfia, ma vorremmo che l‟esempio delle nostre famiglie arrivasse come un invito rivolto a tutti, credenti e non credenti, a portare questo spirito di fraternità nei paesi, nei quartieri, nei condomini, nelle parrocchie affinché le famiglie formino tra loro delle reti, imparando ad aiutarsi e a collaborare. Una cultura e una scuola nuove La scuola è strettamente legata al tipo di società che si vuole costruire. Secondo noi occorre oggi una cultura nuova per formare un uomo capace di costruire un mondo di fratelli in armonia con l‟intera creazione. Per questo fin dal 1968 abbiamo realizzato una nostra scuola interna, cosiddetta familiare, che è una forma prevista dalla Costituzione Italiana, in cui abbiamo elevato l‟obbligo scolastico a 18 anni. Prepariamo noi direttamente i nostri figli, anche con l‟aiuto di insegnanti esterni e anche collaborando con alcune scuole statali di Grosseto, presentandoli poi come privatisti agli esami di stato. Abbiamo fatto questa scelta non per isolare i nostri figli, ma per attuare un insegnamento unitario e più coerente con i nostri principi. E con il tempo vorremmo realizzare anche una università di Nomadelfia, per approfondire in modo organico le idee da cui scaturisce la nostra vita, per confrontarci con le altre culture e aprirla successivamente a tutti i giovani che vorranno. Siamo solo all‟inizio di un cammino arduo ma esaltante per fare una scuola che sia di popolo, per51


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ché c‟è un‟intera comunità che educa, vivente, affinché ogni momento della vita sia scuola e ogni momento della scuola sia vita, e fondata sulla solidarietà, così da permettere a ciascuno di sviluppare le proprie capacità non in competizione ma in collaborazione con gli altri, e non per farsi una posizione ma per imparare ad essere utili all‟umanità. Così i nostri giovani viaggiano, vedono il mondo, lavorano, studiano. Se il fine della scuola è quello di insegnare a vivere, occorre farli vivere. L‟aula è solo un momento di un processo educativo che abbraccia la vita intera. Anzi aula diventa il mondo intero, e i maestri sono tutti coloro che ti insegnano qualche cosa. L’economia al servizio dell’uomo Altro aspetto fondamentale della società è quello che riguarda l‟economia, il lavoro, il denaro. Avete sentito che in Nomadelfia mettiamo i beni in comune e non esiste la proprietà privata. Infatti ogni Nomadelfo abbraccia volontariamente la povertà evangelica, rinunciando a possedere e a qualsiasi diritto di carattere economico. Ma accanto a questo c‟è anche il rifiuto di qualsiasi forma di sfruttamento e di speculazione, perché l‟uomo non è una merce che si possa vendere e comprare. Appunto né servi né padroni come con un‟espressione incisiva e forte diceva don Zeno. Nomadelfia è un esempio di cristianesimo vissuto anche in una dimensione sociale e la sua legge non permette che un uomo possa guadagnare sul lavoro di un altro, vivere di rendita, speculare. Volendo vivere la fraternità anche nel rapporto di lavoro, non lavoriamo all‟esterno, per non entrare in questa dinamica di datore di lavoro e dipendente, ma in attività di Nomadelfia gestite fraternamente. Ciascuno di noi è disponibile a fare qualsiasi lavoro e nessuno è pagato. Infatti tra di noi non circolano soldi, non perché disprezziamo i soldi. I soldi sono titoli di scambio, strumenti, mezzi necessari alla vita e vanno messi al servizio di tutti, ma siamo fratelli e tra fratelli si condivide. Perciò abbiamo una cassa comune gestita da un economo nominato da noi, che amministra Nomadelfia come una grande famiglia. Oltre alla povertà che deriva dal non possedere, affinché non accada che si possa condurre un tenore di vita elevato anche senza possedere personalmente,abbiamo fatto la scelta di uno stile di vita sobrio ed essenziale, eliminando lo spreco, il lusso, il superfluo, la ricerca di forme eccentriche. Certi servizi come la stalla li facciamo a turno, i lavori ripetitivi e pesanti in massa, tutti insieme. Insomma vogliamo ricordare a tutti che al centro dei sistemi economici e sociali, bisogna mettere non la ricerca esasperata del profitto che porta l‟umanità in un vicolo cieco, come ci insegna la crisi che stiamo vivendo, ma il rispetto dell‟uomo e delle sue esigenze.

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Fermento di trasformazione sociale e politica del mondo attraverso la testimonianza Nomadelfia non è nata per essere chiusa in se stessa ma per portare il suo messaggio di fraternità a tutti ed essere un fermento di trasformazione sociale e politica del mondo, partendo però dall‟esempio. Ecco un nuovo modo di fare politica, cominciando dalla gente comune che associandosi e fraternizzandosi, potrebbe essere lievito di una società più giusta. Quando a 18 anni, cioè tanto tempo fa, conobbi don Zeno e Nomadelfia questo incontro cambiò per sempre la mia vita. Io sono figlio di contadini, che hanno fatto tanti sacrifici per farci studiare. Ed io a 23 anni ho lasciato perdere e sono andato a Nomadelfia. Il primo lavoro che ho fatto è stato di andare dietro alle pecore, di fare il pastore. Mio padre non capiva che si potesse scegliere di essere poveri. A me Nomadelfia sembrava invece come le apparizioni del primo francescanesimo, quando giovani ricchi, colti, brillanti lasciavano tutto per seguire Francesco nella povertà e nella fraternità. Di don Zeno mi colpiva la forza e la sua grande fede. Affermava che basterebbe che tutti ci riconoscessimo uomini per rendere il mondo migliore e che ogni cristiano dovrebbe essere Alter Christus, come un altro Cristo. Diceva: “Passate in mezzo alla gente come una primavera di vita nuova, che vedano scolpito sul vostro volto un mondo nuovo che nasce”. Dei Nomadelfi mi affascinava il fatto che semplicemente mettendosi insieme e associandosi fra di loro, senza aspettare e andare contro nessuno, davano origine a un mondo di fratelli. La proposta: una civiltà fraterna Cosa propone Nomadelfia? Quando nel 1980 abbiamo incontrato papa Giovanni Paolo II a Castelgandolfo, il Papa ha usato un‟immagine straordinaria. Ha visto Nomadelfia come un seme che ora è piccolo ma come seme piccolo deve crescere, diventare grande e forse permeare successivamente la civiltà del mondo futuro, come in altri tempi ha fatto già il monachesimo. Ha intuito di Nomadelfia la sua natura di popolo che propone agli altri popoli una civiltà nuova, i cui capisaldi sono: l‟uomo visto come immagine e somiglianza di Dio, quindi con una dignità altissima, dal suo concepimento alla sua morte naturale; la famiglia, non chiusa in se stessa ma aperta agli ultimi, soprattutto ai ragazzi in difficoltà, e fraternizzata con le altre famiglie il lavoro visto come atto di amore, collaborazione con Dio e con i fratelli per migliorare la creazione e produrre i beni necessari a tutti, quindi è una realtà sacra che non può essere oggetto di compravendita e di speculazione,

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l‟azienda, l‟impresa economica vista come comunione di persone, bene di rilevantissima importanza sociale e non banale strumento di arricchimento e di sfruttamento, in una parola: un‟economia al servizio dell‟uomo con il rispetto del principio della destinazione universale dei beni che è uno dei fondamenti dell‟insegnamento sociale della Chiesa. I beni della creazione non sono solo per alcuni privilegiati ma devono arrivare a tutti e dovremo trovare le forme giuridiche, economiche e sociali perché tutti possano vivere dignitosamente e garantire uno sviluppo solidale dell‟umanità, come un‟unica grande famiglia di popoli. È una prospettiva storica esaltante per la quale dobbiamo impegnarci e alla quale dobbiamo guardare con speranza. La forza della fede: ognuno cominci da se stesso Non vogliamo raccontarvi bugie facendovi credere che siamo buoni, bravi e tutto sia facile. Vivere insieme è bello ma comporta anche grandi difficoltà che vanno superate con una forza che porti l‟uomo a vincere in se stesso le spinte negative e distruttive dell‟egoismo. Per noi questa forza è la fede. Noi non siamo persone straordinarie, ma proprio per questo siamo convinti che se riusciamo noi, gente comune con i difetti di tutti, a vivere da fratelli, tutti – in mille forme diverse – possono riuscire. Ognuno là dove si trova deve fare la propria parte, cominciando da se stesso, per essere il cambiamento che vorrebbe vedere negli altri. Invece ci si lamenta molto, ma poi ci si mette in fila per fare come tutti. Ai giovani ricordiamo quello che diceva Giovanni Paolo II in occasione di una Giornata Mondiale della Gioventù: “Se foste quello che dovreste essere, appicchereste il fuoco nel mondo intero”, perché lo trasformereste non con la violenza, ma con la giustizia, con la fraternità, con l‟amore. Perciò vi auguro di passare nella vita come angeli, facendo il bene. Grazie, venite a trovarci a Nomadelfia.

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Dibattito seguito all’incontro con Sandro di Nomadelfia (appunti di Benedetta Olivella e Maria Teresa Capalbo, V B SIA)

Giorno 23 aprile 2016 si è tenuta la quarta conferenza del secondo anno del ciclo “Quale uomo, quale cultura, quale scuola per il XXI secolo?”. Essa è stata tenuta da un cittadino della comunità di Nomadelfia, Sandro Scifoni, il quale ha raccontato come è nata la comunità e come si vive in essa. Sandro Scifoni vive da 43 anni a Nomadelfia; è sposato e ha 12 figli, parte nati dal matrimonio e parte ragazzi che gli sono stati affidati. Questa comunità è composta da 320 persone volontarie che vivono su un territorio di 400 ettari: essi sono cattolici, uniti con lo scopo di creare una nuova civiltà fondata sul vangelo. Il sig. Scifoni specifica che la sua comunità è formata da famiglie che hanno voluto mettere insieme i propri beni per aiutare ragazzi in difficoltà; il legame che li tiene insieme non è solo la solidarietà, ma anche la religione. La comunità venne fondata da un sacerdote, nato nel 1900, don Zeno Saltini, che decise di rispondere ad una critica, riguardante il vangelo, con la vita, facendosi sacerdote, e con l‟accoglienza di un ragazzo, che era stato in carcere, come figlio il giorno in cui ha celebrato la prima messa. Da allora più di 5000 ragazzi sono stati accolti nella comunità. Secondo i cittadini di Nomadelfia ogni uomo è responsabile di colui che nasce al mondo, e i figli non sono nostri ma di Dio. Essi si sentono padri e madri di tutti e non solo dei propri figli: ogni nomadelfo aiuta i propri figli e sente figli suoi anche quelli di altre famiglie. Le famiglie vivono riunite in gruppi familiari, composti da 2 o 3 famiglie che mangiano insieme nella casa centrale mentre dormono in case indipendenti. Ogni 3 anni i gruppi familiari si sciolgono e si ricompongono per rafforzare i propri rapporti. Questo succede per essere disponibili con tutti, per far superare l‟egoismo e per far aprire ogni famiglia alla concretezza di tutti i giorni. Non devono esserci differenze, il bambino disabile viene amato da tutti e l‟anziano rimane in casa propria per raccontare la propria storia, a differenza di 55


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quello che succede nella società odierna nella quale l‟anziano viene mandato nella casa di cura. In ambito scolastico, i cittadini di Nomadelfia sostengono che la cultura deve essere diversa per diventare tutti fratelli. La scuola, nella comunità, è sotto la responsabilità dei genitori e con la collaborazione del comune di Grosseto. Hanno fatto questo per far aprire la propria cultura, per creare una scuola basata sulla solidarietà in cui ognuno diventa indispensabile per l‟altro. Un altro punto importante è l‟economia e il denaro. A Nomadelfia non esiste proprietà privata, perché ciascun cittadino rinuncia a qualsiasi bene. La comunità è governata da una legge che vieta che un cittadino sfrutti il fratello. Nessuno viene pagato anche se lavorano, in quanto tutto è in comune. Ogni cittadino ha il proprio lavoro, ma quando si tratta di fare lavori impegnativi o pesanti, i “lavori di massa”, come la raccolta delle olive o la vendemmia, lavorano tutti insieme. Nomadelfia è nata per mandare un messaggio, non è nata per chiudersi in essa ma per essere aperta al mondo e per farsi conoscere attraverso danze, spettacoli, seminari estivi, musical che vengono portati in diversi teatri d‟Italia. Essa propone una civiltà nuova, fraterna. I capisaldi di questa società sono: · l‟uomo visto come immagine e somiglianza di Dio; · la famiglia che non sia chiusa in se stessa; · il lavoro visto come un atto d‟amore per migliorare la produzione; · l‟azienda concepita come impresa economica al servizio dell‟uomo. La sfida del futuro è trovare gli strumenti che permettano a tutti di vivere in serenità e in fratellanza l‟uno con l‟altro. Vivere insieme è bello, apre gli orizzonti però comporta difficoltà. Bisogna avere una forza spirituale per superare l‟egoismo e per loro questa forza è la fede. Sono convinti che se riescono loro a vivere come fratelli, ci riusciranno tutti. Ognuno di loro deve cercare di cambiare in se stesso quello che vuole vedere negli altri. Molte cose fatte 56


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da piccole persone possono cambiare il mondo. Sandro Scifoni ci invita a ritrovarci a Nomadelfia per confrontarci con i loro giovani, perché confrontarsi con altri è sempre positivo. Dibattito: Agostino Stellato, V B Sia: ci sono altri posti in cui si vive come a Nomadelfia? Scifoni: noi ci troviamo a Grosseto e a Roma. A differenza di altri movimenti che si sono diffusi molto, Nomadelfia è rimasta piccola. Però molte persone si rifanno alla nostra esperienza, non solo in Italia ma anche all‟estero, con le quali facciamo patti di fraternità. Per fare una vita così, per abbracciare una vita come quella di Nomadelfia, ci vuole un cambiamento radicale e non è facile. Io penso che Nomadelfia abbia davanti a sé un grande futuro. Se pensiamo al monachesimo, vediamo che tutto parte da una piccola realtà. Questo modo di vivere potrebbe diffondersi e anche riuscire a costituire una valida alternativa all‟attuale società. Tommaso Cariati: puoi raccontarci qualche caso di comunità nata con l‟aiuto di Nomadelfia? Scifoni: per esempio, a Udine ci sono due di queste esperienze. Due anni fa la Caritas ha organizzato un convegno per queste esperienze di famiglia, e se ne sono presentate quaranta di queste comunità. La maggior parte di loro dicevano che si erano ispirate all‟esperienza di Nomadelfia. Andrea Tricò, IV B Sia: dove procurate il necessario per vivere? Scifoni: tante cose le produciamo noi e le vendiamo ad un giusto prezzo: produciamo il vino, l‟olio e il formaggio. Siccome siamo in pochi, abbiamo dato molta importanza, piuttosto che ad attività di carattere produttivo, ad attività di carattere apostolico. La logica che usiamo noi è quella del dono, cioè io ti do e ti metto a disposizione ciò che di meglio ho e tu mi dai, se puoi, le cose che mi servono per vivere. Ma alla base ci vuole la fiducia reciproca. 57


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Ida Alpino, IV A Afm: a Nomadelfia si possono sposare solo tra loro oppure possono farlo con altri? Scifoni: no, assolutamente. Può succedere che si sposino tra di loro, al cuore non si comanda. Però ci sono un sacco di reti di rapporti con tante realtà, si viaggia, si conoscono molte persone. Io, per esempio, mi sono sposato con una ragazza di Nomadelfia. Quando io ho scelto di andare lì, lei voleva andarsene, insomma io entravo e lei usciva. Attraverso l‟amore per Nomadelfia è nata quest‟altra storia di amore. E di storie così ce ne sono tante poiché Nomadelfia è aperta a tutti. Andrea Tricò, IV B Sia: esistono professioni come avvocato, ingegnere, poliziotto; ci sono tribunali e professionisti? Scifoni: no, non c‟è la polizia. Dal punto di vista dell‟organizzazione, è molto interessante perché Nomadelfia è organizzata come uno stato di diritto, con la divisione dei poteri e ad ognuno spetta un diverso compito, purché avvenga il rispetto delle leggi. Esiste l‟assemblea, costituita da tutti i nomadelfi, che prende decisioni fondamentali; il potere esecutivo è rappresentato da un presidente e due vice-presidenti (un maschio e una femmina); poi c‟è una piccola magistratura interna chiamata collegio dei giudici, persone che non giudicano e che aiutano le persone in difficoltà; il consiglio amministrativo che si occupa dell‟economia; il congresso dei figli, del quale fanno parte tutti i ragazzi con età maggiore di 12 anni; e c‟è la figura del sacerdote che è una garanzia, ovvero garantisce che tutti i nomadelfi seguono la via tracciata dal fondatore. Abbiamo uno statuto in cui sono riuniti tutti i nostri principi. Alessandra Luberto: i giovani di Nomadelfia si concepiscono diversi da quelli della società “normale”? Si confrontano con loro? Scifoni: i giovani della comunità vivono in un contesto diverso, e hanno una percezione di loro diversa. L‟adolescente nomadelfiano è colui che vive insieme agli altri, questo è una grande risorsa perché per educare un giovane c‟è bisogno di un villaggio. I nostri giovani hanno questo ambiente sociale attraverso il quale si trasmettono certi valori in profondità. Brunella Baratta: quali impegni prevede Nomadelfia per la giornata di un giovane? Scifoni: in età scolastica c‟è la possibilità di una vera scuola, si va nelle aule, si fanno esperienze, si fanno viaggi. Non abbiamo il concetto dello studente modello; per insegnare a vivere si deve vivere, loro partecipano ad attività di lavoro, di carattere diverso, organizzate da Nomadelfia, attività che abbracciano tutta la vita. Anche loro partecipano ad attività sportive, fanno feste, si ricreano e hanno una rete di amicizia. La vita di un giovane di Nomadelfia è molto viva, una vitalità che una famiglia sola non riesce a garantire. A volte riflettiamo e diciamo ai nostri giovani: “guardate che neanche i figli dei ricchi si possono permettere tutto questo”. La nostra forze è la debolezza. Siamo deboli e per questo siamo forti. Siamo l‟uno per l‟altro. 58


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Andrea Chiappetta, V A Afm: come pensate di poter conciliare una società pluralista come la nostra con una comunità massificata come quella di Nomadelfia, che a mio avviso presenta un problema di unificazione di pensiero? Secondo me sorge un problema del pensiero unico che non è trascurabile. Scifoni: è vero che siamo immersi in una società pluralista e a Nomadelfia c‟è una grande unità di vedute. Ma è profondamente democratica, alla base di essa c‟è un scelta di libertà: ciascun cittadino ha scelto questo tipo di vita in cui si riconosce. Andrea Chiappetta: io intendevo, senza una società laica e pluralista come la nostra, una comunità di stampo nomadelfico non sarebbe esistita, perché è proprio il pluralismo che permette una crescita di valori differenti. Scifoni: è vero che una realtà come quella di Nomadelfia è possibile perché in Italia viviamo in un regime di libertà, se vivessimo in una società dove non è possibile associarsi magari non esisteremmo. Per fortuna in Italia non si può impedire a un gruppo di cittadini, purché lo faccino nel rispetto delle leggi dello Stato, di associarsi per vivere in una maniera differente. Però ribadisco che Nomadelfia è una realtà molto aperta: chi non vuole restare può andare via liberamente e se possiamo lo aiutiamo; chi è stanco della società pluralista, come dici tu, viene e lo accogliamo, aiutandolo a orientarsi e inserirsi. Andrea Tricò: partendo dalla tua esperienza personale, hai avuto qualche ripensamento, dubbi, nel corso degli anni? Ci sono casi eclatanti di crisi e rimpianti? Scifoni: io personalmente, anche nei momenti bui, perché non si è sempre dello stesso spirito, non ho avuto mai ripensamenti, ma nella comunità capita che qualche persona si accorga che quello non è più il suo ideale di vita: è possibile lasciarla. Chi entra non diventa subito un nomadelfo ma c‟è un periodo di prova. Di solito c‟è un interesse per Nomadelfia e si comincia un periodo di tre anni di noviziato per conoscerci a vicenda. Si deve scoprire se c‟è una vera e propria vocazione a seguire Cristo nella forma proposta da noi. Agostino Stellato, V B Sia e Vincenzo Manfredi, V A Sia: pagate le tasse, usate gli ospedali italiani? I

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ragazzi studiano e poi fanno gli esami nelle scuole italiane. Quali sono le fonti di finanziamento? Scifoni: a volte mancano gli strumenti giuridici che permettano forme nuove di vita associata. Noi lavoriamo e non veniamo pagati, per lo Stato questo non è possibile perché si tratterebbe di lavorare in nero. Un altro problema è quello della proprietà, in Italia è impossibile “possedere” nella forma prevista da Nomadelfia. Abbiamo trovato degli strumenti giuridici che ci permettono di risolvere i problemi che ci riguardano. Per quanto riguarda il lavoro, abbiamo creato delle cooperative, le cooperative pagano i contributi e abbiamo diritto alle previdenze che spettano a tutti i cittadini italiani, paghiamo le tasse e dobbiamo stare ben attenti perché non possiamo permetterci di essere superficiali. Per quanto riguarda la proprietà privata noi non vogliamo possedere e per questo abbiamo creato una fondazione che ha figura giuridica che può possedere tutti i beni immobili di Nomadelfia. Tommaso Cariati: se volessimo far nascere un‟esperienza sul modello di Nomadelfia qua in Calabria, in venti o trenta persone, che cosa dovremmo fare? Voi vivete su un territorio di 400 ettari, quanto terreno servirebbe a noi? Voi ci aiutereste? Scifoni: intanto bisogna che ci sia questa volontà di farlo. Poi si vedrebbe quali forme studiare che siano più adatte a voi, perché Nomadelfia ha ispirato tante forme che prendono alcuni valori, forme che si incarnano nella situazione in cui si trovano. Bisogna vedere cosa siete disposti a fare e poi si trova la forma giuridica. Ma prima di tutto ci vuole la volontà di vivere in modo diverso. Tommso Cariati: Potremmo contare su un canale diretto fra noi e voi e poter dire: “noi siamo Nomadelfia di Calabria”? Scifoni: certo, potete mantenere un canale diretto, possiamo aiutarvi a crearlo e possiamo fare un patto di fraternità come stiamo facendo con altri. Ci sono tante realtà con cui facciamo dei patti di fraternità perché questa cosa deve diffondersi nel mondo. Gloria Sprovieri: da come l‟avete descritta sembra un‟isola felice. Vogliamo sapere se negli anni è accaduto qualche episodio increscioso. C‟è stato qualche furto, qualche caso di droga? 60


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Scifoni: noi accogliamo molti ragazzi in difficoltà, quindi ci confrontiamo continuamente con il disagio. Dove c‟è fraternità la persona si risana. Abbiamo subito qualche colpo, delle cose sbagliate, tutto perché ci si fida delle persone. Non ci sono molti episodi ma di uno ne sono stato protagonista. È accaduto che un tizio si è presentato come giornalista, diceva di lavorare presso un‟agenzia giornalistica francese. È stato con noi per un po‟ di giorni, andava dappertutto a intervistare la gente. Io allora mi occupavo dell‟archivio e registravo i discorsi importanti, usavamo delle apparecchiature molto costose, professionali, provenienti dalla Svizzera. Il giornalista chiese in prestito un registratore per fare il servizio: non gli prestai solamente il registratore ma tutta l‟apparecchiatura. La mattina dopo non si è presentato, mi aveva portato in albergo dove alloggiava e disse all‟albergo che avrei pagato io. Avevamo degli amici in questura e siamo andati a informarci se in giro avevano segnalato qualche tipo poco raccomandabile. Siamo tornati in comunità e lo abbiamo raccontato a Don Zeno, lui ci domandò se volevamo denunciarlo e disse che quel falso giornalista era venuto come un angelo buono. Un mese dopo arrivò una telefonata da Bari, dicendo che avevano preso uno, questo tizio aveva derubato l‟Azione Cattolica di Bari, ed era stato segnalato alla polizia perché si era fatto fotografare insieme a loro e così hanno potuto descriverlo bene. È stato acciuffato e aveva con sé anche tutta la nostra apparecchiatura: alla questura disse che l‟apparecchiatura gli era stata prestata, il che non era falso. Poi sono dovuto andare a Bari a recuperare tutto. L‟incontro si è chiuso con la distribuzione di una grande quantità di opuscoli su Nomadelfia, l‟invito a visitare la comunità, e i ringraziamenti da parte della preside Baratta.

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Etica professionale e responsabilità sociale: il caso della scuola Incontro con Piercarlo Maggiolini (Auditorium ITE “V. Cosentino”, 18 maggio 2016) Premessa Comincio con un testo sul comportamento poco responsabile degli alunni, e dei loro genitori. “La colpa non è dei maestri, che coi pazzi devono fare i pazzi. Infatti se non dicessero ciò che piace ai ragazzi, resterebbero soli nelle scuole... E allora? Degni di rimprovero sono i genitori che non esigono per i loro figli una severa disciplina dalla quale possano trarre giovamento... Essi devono abituare gradualmente i giovani alle fatiche, lasciare che si imbevano di letture serie e che conformino gli animi ai precetti della sapienza... Invece i ragazzi nelle scuole giocano”. Sapete di chi è questo testo? È tratto nientemeno che dal Satyricon di Petronio. Niente di nuovo sotto il sole. Ora chiediamoci come dovrebbe essere inteso il lavoro dell‟insegnante. Vi racconto una storiella molto istruttiva. “Un visitatore entrò nel cantiere ove nel Medioevo si stava costruendo una cattedrale. Incontrò un tagliapietre e gli chiese: „Che cosa stai facendo?‟ - L‟altro rispose con malumore: „Non vedi, sto tagliando delle pietre‟. Così egli mostrava che considerava quel lavoro increscioso e senza valore. Il visitatore passò oltre e incontrò un secondo tagliapietre; anche a questo chiese cosa faceva. „Sto guadagnando di che vivere per me e la mia famiglia‟, rispose l‟operaio in tono calmo, mostrando una certa soddisfazione. L‟altro proseguì ancora e, trovato un terzo tagliapietre, gli rivolse la stessa domanda. Questi rispose gioiosamente: „Sto costruendo una cattedrale‟. Egli aveva compreso il significato e lo scopo del suo lavoro, si era reso conto che la sua opera umile era altrettanto necessaria quanto quella dell‟architetto e quindi in un certo senso aveva lo stesso valore della sua. Perciò eseguiva il suo lavoro volentieri, anzi con entusiasmo”. Tratto da Roberto Assagioli. Facciamo un altro piccolo passo. Che cosa è l‟etica? “Ritengo che l‟etica debba essere soprattutto un luogo in cui la gente viene incoraggiata, animata, confortata. La grande parola dell‟etica è: tu puoi fare di più, ti è possibile fare meglio, sei chiamato a qualcosa di più bello nella vita, 62


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essere onesti è possibile ed è un‟ avventura straordinaria dello spirito. Proprio di tale spirito di ottimismo abbiamo bisogno per non perderci in lamentazioni sterili e obbedire al precetto fondamentale dell‟etica: cerca di essere più autenticamente te stesso, di essere più vero, più libero, più responsabile.” Tratto da C. M. Martini. Il docente è innanzitutto un formatore, un educatore Il docente in generale non è certo solo una persona che per mestiere trasmette conoscenze ad altre persone ma è innanzitutto un educatore, e non deve mai dimenticare di esserlo. Senza dilungarmi troppo sulla funzione e le sfide dell‟educazione nella società contemporanea, val la pena riportare la sintesi che ne ha fatto qualche anno fa l‟Unesco (nel rapporto diretto da Jacques Delors, L’éducation; un trésor est caché dedans, 1996) . L’educazione tra crescita personale e sviluppo professionale L‟educazione si colloca al centro dello sviluppo sia della persona sia della comunità; il suo compito è quello di consentire a ciascuno di sviluppare pienamente i propri talenti e di realizzare le proprie potenzialità creative, compresa la responsabilità per la propria vita e il conseguimento dei propri fini personali. L‟educazione, fornendo a tutti l‟accesso al sapere, ha innanzitutto questo compito universale: aiutare gli uomini a capire il mondo e a capire gli altri. I quattro pilastri dell’educazione L‟educazione nel corso della vita è basata su quattro pilastri: · imparare a conoscere, · imparare a fare, · imparare a vivere insieme · imparare ad essere Ø Imparare a conoscere,combinando una conoscenza generale sufficientemente ampia con la possibilità di lavorare in profondità su un piccolo numero di materie. Questo significa anche imparare ad imparare, in modo tale da trarre beneficio dalle opportunità offerte dall‟educazione nel corso della vita. Ø Imparare a fare, allo scopo d‟acquistare non soltanto un‟abilità professionale, ma anche, più ampiamente, la competenza di affrontare molte situazioni e di lavorare in gruppo. Ø Imparare a vivere insieme, sviluppando una comprensione degli altri ed un apprezzamento dell‟interdipendenza (realizzando progetti comuni e imparando a gestire i conflitti) in uno spirito di rispetto per i valori del pluralismo, della reciproca comprensione. 63


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Ø Imparare ad essere, in modo tale da sviluppare meglio la propria personalità e da essere in grado di agire con una crescente capacità di autonomia, di giudizio e di responsabilità personale. A tale riguardo, l‟educazione non deve trascurare alcun aspetto del potenziale di una persona: memoria, ragionamento, senso estetico, capacità fisiche e abilità di comunicazione. Il docente come professionista Praticamente tutti gli analisti convengono che da tempo il rapporto tra insegnante e allievo, a tutti i livelli, stia subendo un profondo mutamento che ha implicazioni anche dal punto di vista etico: ad un atteggiamento paternalistico è subentrato un atteggiamento di tipo professionale. Essere professionisti significa adottare nello svolgimento della propria attività i criteri della competenza, dell‟autoformazione, della responsabilità, del merito e dell‟autonomia. Per i professionisti la conoscenza scientifico-tecnica è di basilare importanza: essi ne sono i portatori e i distributori, e spesso contribuiscono alla creazione di nuova conoscenza. Ci sono molte definizioni di cosa sia una professione. Si potrebbe adottare la seguente (di A. Hortal, 1996): un insieme di attività lavorative può essere chiamato professione in senso pieno solo se sono presenti tutte le seguenti caratteristiche: a) svolge una funzione sociale specifica; b) per il professionista è il sostentamento di vita; c) è fondata su un corpo specifico di conoscenze teoriche e abilità pratiche che non possiedono i non professionisti; d) la trasmissione di queste conoscenze ai nuovi professionisti è istituzionalizzata; e) c‟è un controllo da parte dei professionisti sull‟esercizio professionale. Alla luce di tutto ciò, si può affermare che il lavoro dell‟insegnante è un‟attività che ha tutte le caratteristiche per le quali si definisce una professione. Analizzando uno ad uno i punti precedenti notiamo infatti che la docenza (Hortal, 1994): a) presta un servizio specifico alla società, in particolare: - quello di rendere capaci gli studenti di acquisire conoscenze e abilità necessarie per esercitare un servizio competente e responsabile in un determinato settore delle attività professionali riguardo a qualche aspetto della vita umana (salute, protezione giuridica, abitazione, produzione etc.); - quello di ampliare le conoscenze metodologicamente verificate; b) è un‟attività svolta da un‟insieme di persone, i professionisti, che a essa si dedicano in forma stabile e da essa ottengono il sostentamento di vita; 64


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c) si accede alla docenza dopo un lungo processo di abilitazione, requisito indispensabile per essere accreditati a esercitarla; d) I professionisti formano un collettivo più o meno organizzato, il corpo docente, che ha o pretende di ottenere il controllo monopolistico sull‟esercizio della professione. La professione docente presenta un‟identità articolata e complessa, in cui si intrecciano diverse variabili. Il cuore dell‟attività dell‟insegnante sta, come si diceva, nella dimensione educativa del suo compito, fondata sulla tensione ideale a “prendersi cura” della persona nella sua globalità, facendosi carico sia dei suoi “bisogni” (talora mutevoli e contingenti), sia delle più profonde esigenze connesse alla dignità della persona come tale. “Insegnare è una parte importante del compito di educare; educare è sempre, per lo meno, insegnare a vivere” (Hortal). L’etica della professione docente Hortal (1994) cita un‟interessante interpretazione di H. Spencer (noto sociologo “evoluzionista” dell‟800) delle “origini delle professioni”. Secondo Spencer, la nascita delle differenti professioni sono un passo nell‟evoluzione verso una crescita della vita. La professione del medico è ovviamente paradigmatica: curando malattie e alleviando il dolore aumenta la vita. Ma così è anche per le altre professioni. In particolare, “il professore, sia con l‟istruzione che fornisce che per la disciplina che impone, rende i suoi allievi capaci di adattarsi ad ogni lavoro in modo più efficace e di ottenere proventi per la propria sussistenza, e così aumenta la vita”. Secondo questa logica, e adattando alla professione docente i principi generali dell‟etica professionale, Hortal individua tre principi in base ai quali i docenti danno il loro principale contributo all‟“aumento della vita”. Principio di beneficenza Questo principio afferma che un professionista etico è quello che fa il bene nella sua professione facendo bene la sua professione. Ogni etica professionale deve avere il suo incentivo nei beni intrinseci che si propone realizzare e ogni professionista deve agire a beneficio dei propri “clienti”. La difficoltà nel rispettare questo principio deriva dal contesto in cui viviamo e lavoriamo: la nostra società è fondata su beni estrinseci quali potere, denaro e prestigio, e spesso si cade nella tentazione di capovolgere la relazione tra beni estrinseci e intrinseci. Il bene intrinseco del lavoro docente è che gli allievi imparino. L‟insegnamento non è per il bene del docente ma piuttosto per il bene di chi impara, questo è il principio di beneficenza. L‟esercizio eticamente responsabile della professione docente porta con sé almeno questa responsabilità: insegnare, intendendo l‟insegnamento come aiutare ad imparare. Insegnare presuppone l‟avere a 65


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propria volta imparato ed essere aggiornato rispetto a ciò che si insegna. Insegnare, naturalmente, implica sapere insegnare e questo implica farsi capire, suscitare nello studente il desiderio di imparare. Principio di autonomia Il principio di beneficenza porta con sé una mancanza di simmetria tra il professionista e il “cliente”: il professionista sa cos‟è meglio per il beneficiario e tende a cadere in atteggiamenti di tipo paternalistico. Il principio di autonomia rappresenta l‟obbligo, per i professionisti, di dialogare con i propri assistiti e prestare loro attenzione. Questi sono infatti persone e in quanto tali hanno tutto il diritto di esprimere opinioni e preferenze, che i professionisti devono prendere in considerazione. In ambito scolastico, il professore deve sapere rinunciare a forme di attuazione della sua professione che rappresentino un uso indebito della sua posizione, evitando abusi contrari al rispetto della dignità dell‟allievo. La superiorità in età, esperienza o sapere, non può servire, per esempio, per cercare di esercitare un‟influenza di tipo ideologico, né tanto meno qualunque forma di sfruttamento, manipolazione, abuso o maltrattamento. Il principio di autonomia segnala che l‟educando deve poter esercitare la sua autonomia consapevole dei propri diritti e cosciente delle proprie responsabilità. Principio di giustizia Quella professionale non è mai una “partita” a due tra professionista e assistito, ma – almeno – a tre: professionista, cliente e società. I professionisti non esercitano la professione in totale autonomia: sono immersi in un contesto sociale al quale prestano dei servizi specifici e nel quale hanno un ruolo preciso. L‟etica professionale incrocia l‟etica sociale nel fare intervenire criteri di giustizia al fine di determinare priorità e distribuire risorse scarse. Ogni professionista dovrebbe cercare di capire quale sia il suo specifico contributo al bene comune. I docenti, come qualunque professionista, devono compiere il proprio dovere agendo all‟interno delle proprie competenze e senza mai oltrepassare questo limite. Perciò non basta insegnare bene (principio di beneficenza) e rispettare le persone (principio di autonomia); in tutte le professioni, e specialmente nella docenza, bisogna lavorare a favore del bene comune della società. L‟etica professionale rimane incompleta e distorta se non entra nella prospettiva di un‟etica sociale da dove capire in che cosa il proprio esercizio professionale contribuisce o può contribuire a migliorare la società. Ambiti della deontologia professionale del docente Un modo per stabilire e censire gli elementi che dovrebbe contemplare una deontologia professionale del docente consiste nell‟analisi degli ambiti di incidenza dell‟attività professionale. Detto in altro modo, la deontologia professio66


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nale del docente deve normare da un punto di vista etico le relazioni del professionista con i suoi principali stakeholder. In termini generali, per quanto riguarda la professione docente, secondo Jover, è possibile distinguere cinque grandi ambiti, in cui si esercita – principalmente – l‟influenza del docente: · ambito della professione, · ambito dell‟istituzione, · ambito della relazione con i colleghi, · ambito della relazione con gli allievi · ambito della società. Ambito della professione I codici deontologici delle differenti professioni raccolgono norme relative a questo ambito, nel quale possono a loro volta distinguersi due grandi gruppi di doveri: a. quelli che contribuiscono alla fiducia pubblica nella professione; b. quelli relativi all‟elevazione dei livelli professionali. Contribuire alla fiducia e al rispetto verso la professione esige soprattutto che il professionista mostri livelli adeguati di competenza, padronanza della sua specialità e buona condotta, tanto nello sviluppo della sua attività specifica che come rappresentante della professione. Vista la responsabilità che si assegna all‟educazione nella configurazione della società di oggi e di domani, il principale criterio in questo ambito si può riconoscere semplicemente nel rispetto di quei principi che affermano l‟importanza della dignità della persona umana, i diritti inviolabili, la libertà di pensiero, etc. In questo modo, sarebbe ad esempio contrario alla deontologia professionale che un professore manifestasse davanti a suoi allievi delle idee razziste. In quanto all‟elevazione dei livelli professionali, questo incide principalmente sulla contribuzione al progresso della professione, mediante il perfezionamento e la ricerca. I più importanti aspetti che deve contemplare questo perfezionamento possono formularsi nel seguente modo: 1. i professori devono acquisire e mantenere il sapere che trasmetteranno ai loro allievi; 2. i professori devono essere motivati a rimettere costantemente in discussione i propri metodi per ottenere un costante miglioramento; 3. i professori devono sforzarsi di acquisire e completare le qualità del carattere che sono necessarie per il miglior compimento possibile dei doveri professionali (attenzione alle esigenze degli allievi, autocontrollo, pazienza, interesse e curiosità intellettuale…). Ambito dell’istituzione A differenza di altre professioni nelle quali è ancora frequente la libera professione, nonostante siano comunque immerse in un processo di crescente istitu67


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zionalizzazione, nella professione docente predomina l‟esercizio istituzionalizzato, il quale apre un altro campo di doveri professionali. Rientrano in questo campo tutti quei doveri relativi al buon funzionamento della scuola: dal compimento degli obblighi specifici del docente, fino alla partecipazione nelle distinte attività che vengono organizzate. Si possono sottolineare i tre principi seguenti: 1. I professori dovrebbero garantire, grazie ai loro contributi, che la loro scuola abbia una politica precisa e coordinata relativamente ai vari corsi di studio e alle singole discipline, e un insieme accettato di norme e regole da seguire. 2. I professori che occupano posti di direzione e gestione dovrebbero garantire l‟esistenza di canali aperti di consultazione e dibattito, e agire come modelli di condotta davanti agli altri professori. 3. I professori dovrebbero garantire che la loro scuola offra agli allievi condizioni di studio gradite e adeguate Ambito della relazione con i colleghi Parallelamente al processo di istituzionalizzazione, le professioni si sono sempre più evolute da una pratica individuale ad un lavoro di squadra. Questa evoluzione è necessaria a causa della crescente specializzazione delle funzioni, la quale fa sì che la visione globale di un problema e l‟attenzione completa ad un cliente non sia oramai possibile se non con la cooperazione tra distinti specialisti. Anche nella professione docente vediamo oggi che la soddisfazione nell‟esercizio dipende in gran parte dalla comunicazione che si stabilisce tra i vari docenti. In questo ambito possono distinguersi due grandi principi etici: rispetto e collaborazione. Il primo di essi stabilisce: “Come collega, il professore ha gli obblighi che derivano dalla comune appartenenza alla comunità dei docenti. Nello scambio di valutazioni critiche e idee, mostra il dovuto rispetto verso le opinioni degli altri. Riconosce i suoi debiti nei confronti degli altri e si sforza di essere obiettivo nei suoi giudizi professionali circa i colleghi...” Quello che, passando al di sopra di queste barriere, giustifica il dovere di cooperazione è il fine primordiale della deontologia professionale: il beneficio dell‟allievo, al quale deve essere garantita l‟offerta di un insegnamento di qualità. Qualità che oggi sappiamo dipendere, più che dalle risorse materiali, da determinati fattori di tipo più psicosociale, tra i quali si trovano sicuramente l‟interazione positiva tra i professori, la definizione di alcuni obiettivi comuni, la congruenza tra le metodologie usate, etc. Ambito della relazione con gli allievi Nelle diverse professioni, l‟ambito dei doveri verso il “cliente” diretto costituisce il nucleo centrale della deontologia professionale. Nella professione docente, a causa del carattere non esclusivamente strumentale della relazione edu68


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cativa, tale ambito acquisisce un significato speciale. A questo proposito è esemplificativo un commento di Sockett (1985), citato da Jover: “Nella pratica generale, e particolarmente in medicina psichiatrica, la relazione tra il dottore ed il suo paziente è governata da un codice; e, tuttavia, la relazione stessa può essere parte della cura o della terapia. Il carattere di questa relazione professionale è abbastanza differente da quello che si stabilisce tra un notaio e il suo cliente nel firmare l‟acquisto di una casa o nel fare testamento. L‟insegnamento è, in questo aspetto, simile alla medicina. Cioè, le regole che governano la relazione tra professore e allievo, qualsiasi esse siano, sono parte del vincolo educativo. Il professore agisce, intenzionalmente o no, come un modello o un esempio di come dovrebbero essere fatte le cose; attraverso il modo in cui tratta gli allievi indica quello che è o non è una forma adeguata di comportamento. Per fare un semplice esempio: il professore che è puntuale e che si scusa con la classe per un errore occasionale sta mostrando agli allievi che questo è, per lui, buona condotta.” Qui il principio centrale è il rispetto della persona dell‟allievo, che implica tanto il dovere di non sottometterlo a condizioni che possano rappresentare un attentato contro la sua integrità personale, fisica, psicologica, etc., quanto quello di essere al servizio del suo pieno sviluppo come uomo. Questo è il principio generale dal quale derivano altri principi deontologici specifici, tra i quali sottolineiamo i seguenti: § Principio di diligenza Rispettare la persona dell‟allievo non significa solo astenersi dall‟agire in un certo modo, bensì, soprattutto, lavorare per lo sviluppo dell‟allievo come uomo. Questo impone al professore il dovere di diligenza. Per analizzare il significato di questo dovere è molto utile la distinzione che si effettua in teoria giuridica tra obblighi contrattuali di attività ed obblighi contrattuali di risultato. Se il principio che guida gli obblighi contrattuali di risultato è proprio il conseguimento del risultato, il principio che guida gli obblighi di attività è quello di diligenza, che si attualizza tanto in livelli adeguati di esecuzione tecnica, quanto in una serie di atteggiamenti: attenzione, interesse, zelo, etc. Quando parliamo del fatto che il professore deve lavorare per lo sviluppo umano dell‟allievo, ci troviamo quindi di fronte ad un dovere di diligenza. L‟educazione è un fine generale che deve orientare la docenza; il professore deve mettere in campo tutti i mezzi necessari al successo del suo compito. Nonostante ciò, la natura peculiare dell‟attività educativa implica, come esigenza intrinseca allo stesso concetto di educazione, l‟assunzione, da parte dell‟allievo, di quanto viene proposto: questo può far sì che il successo dell‟insegnamento non arrivi in realtà a prodursi, nonostante l‟impegno del professionista. Non si tratta solo di non poter controllare o prevedere la totalità delle variabili in gioco: il concetto di educazione include infatti la libertà dell‟educando, in quanto “agente” e non semplice “paziente” della sua educazione. 69


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§ Principio di non discriminazione Questo principio stabilisce: “Basandosi su motivi di razza, colore, credo, sesso, origine nazionale, stato civile, credenze politiche o religiose, famiglia, ambiente sociale o culturale o orientazione sessuale, e in maniera ingiusta, l‟educatore: a. non escluderà nessuno studente della partecipazione in nessun programma, b. non negherà benefici a nessuno studente, c. non eserciterà favoritismi con nessuno studente”. § Principio di verità Quando ci si dedica volontariamente ad attività di insegnamento e ricerca, di scoperta, valutazione, trasmissione della conoscenza, si incontra per forza il problema del riconoscimento delle differenze tra ciò che è vero e ciò che è falso. In questo contesto bisogna conoscere i metodi e i criteri che aiutano a distinguerli, ben sapendo che ciò può non essere cosa facile. Non è infatti sempre facile determinare dove stia la verità, ma ciò non autorizza a ripiegarsi in un comodo scetticismo, bensì esige un sforzo ancora maggiore. Questo è il dovere di verità, ed è ben espresso da Shils (1984), citato da Jover: “...il professore deve fare attenzione a non cadere nel dogmatismo nell‟esposizione della sua materia, o cercare di esercitare un‟influenza impropria sui suoi studenti, facendo in modo che arrivino ad aderire al suo proprio particolare punto di vista. Egli deve fare il possibile per mostrare ai suoi studenti che il suo punto di vista non è l‟unico ragionevole e che altri possono avere differenti interpretazioni o proposte, delle quali gli studenti devono essere messi a conoscenza. Arrendersi alla tentazione del dogmatismo è essere infedele all‟obbligo di comunicare la verità”. § Principio di disinteresse È chiaro che questo principio in nessun modo presuppone che il professionista non possa cercare con la sua pratica il suo interesse personale legittimo, ma ha un significato più specifico che gli impedisce, per esempio, di avvalersi dell‟informazione ottenuta attraverso la relazione professionale per il suo beneficio privato. Si tratta, pertanto, di una specificazione del principio generale del rispetto dell‟altro che, usando la celebre formulazione kantiana, implica il considerarlo come un fine, e non esclusivamente come un mezzo. Ma è possibile una lettura più profonda di questo principio. La relazione professionale è una relazione asimmetrica. Il professionista si trova in un certo senso in una posizione superiore a quella del cliente: possiede una conoscenza, informazione, abilità, esperienza che il cliente non ha e su di esse si fonda la relazione. La stessa cosa succede nella relazione educativa. E succede che quella che deve essere una relazione asimmetrica di aiuto, può trasformarsi in una relazione 70


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asimmetrica di dominazione che strumentalizza la persona dell‟allievo per metterla al servizio degli interessi, ad esempio ideologici, per non dire economici o di carriera dell‟educatore. Evitare questo rischio esige il disinteresse, ma inteso ora come orientamento verso la libertà dell‟allievo, per permettergli di raggiungere la sua autonomia e consolidare una posizione personale (vedi il principio di autonomia sopra citato). § Principio del segreto professionale Come il precedente, anche questo è un principio deontologico classico comune a diverse professioni e già raccolto nel Giuramento di Ippocrate. Questo principio è necessario quando il professionista ha accesso ad informazioni confidenziali e intime del cliente che, se non fosse per la relazione professionale, gli sarebbero sconosciute, e stabilisce che: a. Il professore rispetta la natura confidenziale della sua relazione con l‟allievo. b. L‟educatore non rivelerà informazioni riguardanti gli studenti ottenute nel corso del servizio professionale, a meno che tali rivelazioni servano a propositi professionali, cioè siano richieste dalla legge. Spesso si preferisce parlare di principio di discrezione per far riferimento ad un ambito più ampio, in modo che non si tratti esclusivamente di non rivelare dati confidenziali, bensì di un atteggiamento di discrezione generale che raggiunge tutto ciò che è relativo al cliente, nel nostro caso l‟allievo, sia o non sia confidenziale. Ambito della società Distinguiamo in quest‟ultimo ambito due gruppi di doveri: a. Doveri di cittadinanza. b. Promozione dei valori sociali. In quanto membro della sua società, il professore ha, in primo luogo, gli stessi doveri di qualunque altro cittadino. Sono i doveri di cittadinanza, che non assumono nessun significato speciale nel caso dei professori, non derivano dalla pratica della docenza bensì semplicemente dall‟essere parte di una comunità, essere un cittadino. Un professore non deve né più né meno lealtà alla sua società, alla sua Costituzione o alle sue istituzioni di quanto non ne debbano il resto dei cittadini. Tuttavia, in virtù del contributo sociale che giustifica ogni professione, ogni professionista ha delle responsabilità sociali specifiche. Nella professione docente la funzione sociale svolta ha un‟importanza speciale: non solo, come il resto delle professioni, costituisce oggi un elemento indispensabile per il funzionamento della società, ma ha il potere di plasmare la società del domani, generando una società etica o, al contrario, una società amorale. 71


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Il professore, pertanto, deve essere cosciente di questa responsabilità sociale che gli viene affidata e assumerne l‟onere mediante la formazione etica e civica e la promozione dei valori che influenzano la convivenza in società (libertà, giustizia, uguaglianza, pluralismo, tolleranza, comprensione, cooperazione, rispetto, senso critico, etc.), portando l‟allievo non ad una semplice assimilazione passiva, bensì ad una riflessione critica, anche attraverso un‟attuazione della sua professione in accordo con quegli stessi valori. Vedi il principio di giustizia citato sopra. In questa logica, la libertà di insegnamento non può essere interpretata come libertà di trasmettere i propri principi o i propri valori, ma come capacità di costruire, liberamente, una libertà soggettiva capace di scegliere e abbracciare i principi e i valori considerati migliori. Valori di riferimento In questa sede possiamo definire l‟integrità dell‟insegnante come l‟impegno a onorare cinque valori fondamentali: onestà, fiducia, correttezza, rispetto e responsabilità. Da questi valori scaturiscono i principi di comportamento che consentono alle comunità scolastica di tradurre gli ideali in azione. Una comunità accademica fiorisce quando i suoi membri rispettano questi cinque valori fondamentali. Quando essi si connettono con le dichiarazioni della missione istituzionale e con le politiche e pratiche quotidiane, viene sostenuto e coltivato un clima di integrità. Onestà Una comunità scolastica integra pretende verità e conoscenza, richiedendo onestà intellettuale e personale nell‟imparare, insegnare, ricercare e nello svolgimento dei servizi. Questo è il prerequisito per la piena realizzazione di fiducia, giustizia, rispetto e responsabilità. Le politiche di una buona scuola deplorano l‟inganno, la menzogna, la frode, il furto e altri comportamenti disonesti che mettono in pericolo i diritti e il benessere della comunità e diminuiscono il valore dei titoli di studio. L‟onestà inizia con se stessi e si estende agli altri. Nella ricerca della conoscenza, studenti e docenti devono allo stesso modo essere onesti con se stessi e tra di loro, sia che si trovino in classe, in laboratorio, in biblioteca o sul campo da gioco. Coltivare l‟onestà pone le basi per un‟integrità duratura, sviluppando in ognuno il coraggio di fare scelte difficili e accettare la responsabilità delle azioni e delle loro conseguenze, anche se ciò comporta dei costi a livello personale.

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Fiducia Una comunità accademica integra sostiene un clima di fiducia reciproca, incoraggia il libero scambio di idee e dà a tutti la possibilità di raggiungere i potenziali più alti. La gente risponde all‟integrità con la fiducia. La fiducia è promossa anche dai docenti che stabiliscono linee-guida chiare per i compiti assegnati e per la loro valutazione; dagli studenti che preparano un lavoro che sia onesto e curato; e dalle scuole che stabiliscono standard chiari e coerenti e che supportano l‟onestà e la ricerca imparziale. Solo con la fiducia si può credere nella ricerca degli altri e muoversi in avanti con nuovo lavoro. Solo con la fiducia si può collaborare con gli individui, condividere informazioni e idee senza paura che il proprio lavoro venga rubato o che la propria reputazione venga intaccata. Solo con la fiducia le comunità credono nel valore sociale e nel significato di un‟istituzione scolastica. Giustizia-correttezza Una comunità scolastica integra stabilisce standard, pratiche e procedure chiare e si aspetta giustizia nell‟interazione con studenti, docenti e amministratori. Una valutazione giusta e accurata è essenziale nel processo educativo. Per gli studenti, importanti componenti di giustizia sono prevedibilità, aspettative chiare e un riscontro coerente e pronto alla disonestà. Anche i docenti hanno il diritto di aspettarsi un trattamento giusto, non solo da parte degli studenti ma anche dai colleghi e dall‟amministrazione. Tutti i gruppi all‟interno dell‟università hanno un ruolo nell‟assicurare la giustizia, e una mancanza da parte di un membro della comunità non giustifica una cattiva condotta da parte di un altro. Rispetto Una comunità scolastica integra riconosce la natura partecipativa del processo d‟apprendimento, e onora e rispetta una molteplicità di opinioni e idee. Per essere il più possibile gratificante, l‟insegnamento e l‟apprendimento esigono coinvolgimento attivo e rispetto reciproco. Studenti e docenti devono rispettare se stessi e rispettarsi tra di loro come individui, non come mezzi per arrivare a un fine. Devono inoltre rispettarsi per estendere i confini della loro conoscenza, provare nuove capacità, costruire sui successi e imparare dai fallimenti. Gli studenti mostrano rispetto frequentando le lezioni, essendo puntuali, prestando attenzione, ascoltando il punto di vista degli altri, essendo preparati e contribuendo alle discussioni, rispettando le date di scadenza e dando il meglio delle loro possibilità. Essere maleducati, demotivanti o elementi di disturbo è l‟antitesi di una condotta rispettosa. 73


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I docenti mostrano rispetto prendendo sul serio le idee degli studenti, fornendo feedback costruttivi al loro lavoro e riconoscendoli come individui. Tutti devono mostrare rispetto per il lavoro degli altri riconoscendo i propri debiti intellettuali attraverso un‟opportuna citazione delle fonti. È evidente come i valori che costituiscono l‟integrità accademica siano interdipendenti: il rispetto delle persone comporta anche giustizia e un trattamento onesto, e tutto ciò favorisce un ambiente di fiducia. Responsabilità Una comunità scolastica integra sostiene la responsabilità personale e conta su provvedimenti di fronte agli illeciti. Ogni membro di una comunità scolastica – ogni studente, docente, amministratore – è responsabile nel sostenere l‟integrità del sistema scolastico e della ricerca. La responsabilità condivisa distribuisce il potere di effettuare il cambiamento, aiuta a superare l‟apatia e stimola il coinvolgimento personale nel sostenere gli standard d‟integrità accademica. Essere responsabili significa prendere provvedimenti contro gli illeciti, nonostante la pressione, la paura, la lealtà a qualcuno o la compassione. Per lo meno, gli individui dovrebbero assumersi la responsabilità della loro onestà e dovrebbero scoraggiare e cercare di prevenire cattive condotte da parte di altri. Questo potrebbe essere semplice come copiare le proprie risposte durante un esame o difficile come denunciare un compagno che ha imbrogliato. Qualsiasi siano le circostanze, i membri di una comunità accademica non dovrebbero tollerare o ignorare la disonestà altrui. Bibliografia citata · M. Campagnoli, “Visioni sul mondo e prospettive future”, Convegno “A che serve una Commissione di Garanzia?”, 25 novembre 2009 (www2.scform.unibo.it/carta_intenti/Convegno/Campagnoli.doc) · J. Delors, “L’éducation; un trésor est caché dedans”, Unesco, Parigi, 1996 · A. Hortal, “La ética profesional en el contexto universitario”, Universidad Pontificia Comillas, Madrid, 1994 · A. Hortal, “Seven Theses on Professional Ethics”, Ethical Perspectives 3/4 (Dec. 1996) pp.200-205 · G. Jover, “Education in Europe: policies and politics”, Spriger, 2002 · E. Shils “The academic ethics”, Chicago University Press, 1984 · H. Sockett, “Toward a professional code in teaching”, in “Is teaching a profession?”, P. Gordon, University of London, Institute of Education, Heinemann, 1985

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Dibattito seguito all’incontro con Piercarlo Maggiolini (appunti di Tommaso Cariati)

Dopo la conferenza di Piercarlo Maggiolini sull‟importante tema “Etica professionale e responsabilità sociale. Il caso della scuola”, ovviamente c‟è stato un po‟ di dibattito. Anzi, mentre il professore esponeva i principi della responsabilità e dell‟etica professionale, alcuni dei presenti avvertivano l‟esigenza di intervenire e dire la propria. Nella prima fase non ci sono state domante vere e proprie, solo osservazioni. C‟è stata però una seconda fase in cui le domande stavano venendo fuori, ma, poiché si era fatto tardi, il professore ha suggerito di raccoglierle per un nuovo incontro, o per un dialogo telematico. Così otto domande sono state raccolte e inviate per posta elettronica, alle quali Piercarlo Maggiolini ha risposto, sempre per posta elettronica. Prima fase. Intorno al principio del rispetto del diritto della società, A. Rinaldo afferma, interrompendo: “Gli insegnanti sono disonesti perché promuovono studenti ignoranti e incompetenti che nella società non trovano alcun ruolo”. Risposta. Non rispondo subito, dopo vedremo il principio di diligenza. Nel rapporto medico-paziente, il paziente può voler morire ma il medico deve fare di tutto per salvarlo. Venendo al rapporto docente-discente, non si deve rispondere dell‟esito, ma del processo: in altre parole la vostra responsabilità è quella di fare di tutto per aiutare lo studente, e dovete essere in grado di dimostrare che davvero l‟avete fatto. Il resto dipende da tante variabili. Tenete presente che la partita si gioca in tre: docenti o scuola, studente, società. Il docente deve pensare anche alla sua responsabilità nei confronti della società che gli paga lo stipendio. M. Cioffi osserva: “Tutto questo parlare di etica, di regole, di codici mi fa pensare che forse il mondo è entrato in una fase in cui i valori si sono polverizzati: insomma, se in una scuola dobbiamo riunirci per parlare con uno studioso di etica e responsabilità sociale, vuol dire che siamo andato oltre il limite”. R. In un certo senso è così. Però i principi che voi scrivete nel codice etico non sono principi che non devono essere violati per nessuna ragione, ma principi che si scrivono prima per poterli usare come bussola e come termine di paragone con il vostro operato, una volta che avete agito. Servono anche a comunicare con gli altri attori coinvolti, direttamente o indirettamente, nel processo realizzato nella scuola: le famiglie, la società, le aziende. C. Bianco osserva: “Qui bisogna considerare che siamo entrati in una fase in cui i professori che promuovono, anche in assenza dell‟acquisizione delle com75


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petenze previste, sono considerati bravi, e le scuole che promuovono hanno più successo nel mercato degli utenti”. R. Se consideriamo i sondaggi della fondazione Agnelli, osserviamo che la valutazione esterna è più oggettiva del numero dei promossi. Anche se pure gli indici della fondazione Agnelli sono criticati e forse non sono perfetti. I dati che vengono fuori da queste indagini dovrebbero poi essere letti caso per caso tenendo conto delle difficoltà oggettive incontrate dalla singola istituzione scolastica. Per esempio, in una scuola come la vostra, come si fa a creare unità di intenti se dovete tenere insieme il turismo, la finanza, i sistemi informativi aziendali, la ristorazione, l‟agricoltura ecc.? Però se ci sono due realtà oggettivamente simili e vengono fuori risultati troppo diversi, bisogna chiedersi onestamente perché accade e come si potrebbe ovviare. Il confronto è utile perfino per capire se ci sono buone pratiche che potrebbero essere adottate o adattate. “Noi che lavoriamo con i ragazzi, dice A. Rinaldo, sappiamo che i risultati non si vedono subito, che a volte bisogna sapere aspettare, perciò non so quanto le misurazioni dei modelli di enti come la fondazione Agnelli siano efficaci”. R. Questo è vero. Potrebbe essere utile contattare gli ex studenti per capire quali strade hanno trovato aperte, quali porte sono rimaste chiuse, quali salti mortali hanno dovuto fare. Perfino per chiedere loro: “Che cosa ti è stato utile?”, “Che cosa ti è mancato?”. I. Ottolenghi fa presente che le inchieste sulla popolazione studentesca che ha lasciato la scuola costano e spesso le scuole non hanno le risorse per realizzarle. R. Dovreste cercare di mettere in piedi un sistema stabile di rapporti con gli ex studenti. Comunque qualche risorsa bisogna pure investire. Non si fanno le nozze con i fichi secchi. “Nei consigli di classe che valutano gli studenti, spesso non c‟è unanimità di vedute, nonostante tutte le griglie e i criteri stabiliti a priori”, dice C. Bianco. R. Però il docente in cuor suo, al di là del voto che dà, e delle regioni personali, sa come stanno le cose. Il codice etico non fotografa il comportamento che tutti tengono. È un modello di riferimento, qualcosa a cui tendere, un‟aspirazione. Considerate il codice etico di Johnson &Johnson del settore Health care americano: si tratta di un‟azienda, non di una scuola o di un‟agenzia di volontariato, eppure si è data un codice nel lontano 1943, che è considerato uno dei migliori ancora oggi. Quel codice etico, detto “il nostro credo”, sta in una pagina. Che cosa dice? Mette al primo posto i medici, gli infermieri, i pazienti, mentre mette all‟ultimo posto il profitto e gli azionisti: è una linea netta di aspirazione che tutti capiscono. Come vedete, non è il punto di partenza, ma l‟obiettivo a cui tendere e l‟orientamento che deve informare i comportamenti e i processi. Dice ciò verso cui tendere, non quello che già siamo. È come la carta costituzionale per lo Stato. Seconda fase: otto domande aperte. 76


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1) Tutti i discorsi che si fanno sull‟etica a scuola (e all‟università) dovrebbero coinvolgere almeno studenti e genitori, perché siamo tutti nella stessa barca. Purtroppo però né gli uni, né gli altri sono all‟altezza della situazione. Perché scoppia il problema dell‟etica? Perché nel mondo globale e liquido non c‟è più etica. Non è un paradosso? 2) Riprendendo la metafora del cantiere in cui si costruisce la cattedrale, nella scuola quale cattedrale visibile si costruisce? Nella scuola d‟oggi c‟è ancora una cattedrale, magari invisibile, da costruire o c‟è una fiera, una torre di Babele da costruire? (Non abbiamo forse trasformato il globo, la “casa del Padre mio”, in un mercato?). 3) Riprendendo la battuta, secondo la quale nel mondo liquido globalizzato forse non è più vero che il comportamento “etico” è il migliore, segnalo che il mio amico Alfio, ex professore di lettere, componente di Sos scuola, quando parliamo di queste cose chiede: “Di quale etica parliamo? Sapete che ci sono tante etiche?”. Che cosa ne pensi? 4) A proposito di etica, Galimberti dice che oggi l‟etica è patetica perché vorrebbe imporre a chi può, alla tecno-scienza, di rinunciare a fare ciò che può. Infatti, notoriamente, se una cosa è possibile, prima o poi qualcuno la farà; e molti oggi pensano che le cose bisogna farle prima che le facciano gli altri, i concorrenti, i nemici. Che cosa ne pensi? 5) Don Milani diceva più o meno che l‟educazione è possibile soltanto in una società stabile come la società rurale. Se fosse così si spiegherebbe pienamente la cosiddetta emergenza educativa, e il nostro lavoro, compreso il tuo, sarebbe un gigantesco buco nell‟acqua. Che ne pensi? 6) Giuseppe Limone ha scritto che la scuola (e l‟università) è una funzione della Repubblica. In altre parole, non solo è riduttivo considerare la scuola come azienda o come un ente che deve garantire risultati certi programmati a priori, ma è riduttivo anche considerarla un servizio alla stregua della magistratura o della sanità: la scuola è una funzione della repubblica come il parlamento: niente parlamento, niente Repubblica, niente scuola di qualità, niente Repubblica (altro che professori=professionisti, come i medici!). Abbiamo una Carta bellissima, ma se i padri costituenti vedessero la società di oggi, si strapperebbero i capelli: loro avevano sognato un altro mondo, un altro uomo: istruito, colto, intelligente. Grazie a quell‟eredità oggi non diamo, nei casi migliori, le perle ai porci? E negli altri casi non rischiamo di essere semplicemente ininfluenti? 7) Böckenförde, uno studioso tedesco, ha scritto che una società liberale e secolarizzata vive di presupposti che essa non può garantire. Se fosse vero, il destino della nostra società sarebbe un progressivo e inarrestabile declino. Come dire, lo sapevamo: è l‟entropia. È il declino dell‟Occidente. L‟opera delle persone di buona volontà allora servirebbe solo a procrastinare l‟implosione? 8) A Nomadelfia, dove la fraternità è legge, dove si condivide tutto, dove non circola denaro, dove le persone rinunciano a ogni possesso e a ogni potere, 77


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l‟educazione dei giovani è praticata nella scuola familiare interna e “in solido”: tutti sono responsabili di tutti. Anzi, si direbbe che a Nomadelfia tutto è scuola ed educazione, nelle aule e fuori di esse, in età scolare e anche dopo; anzi dalla culla alla tomba, e funziona. Aveva ragione don Milani? Raccolte le otto domande aperte, il prof. Cariati le spedisce al prof. Maggiolini. L‟esperto risponde che trova le domande interessanti ma ha bisogno di tempo. Dopo alcuni giorni però giunge la risposta a ogni domanda tranne alla n.7, per la quale il prof. Maggiolini sollecita un chiarimento. Il prof. Cariati allora replica: “Carissimo Piercarlo, mi hai sorpreso: ero pronto ad aspettare mesi. Grazie per il tentativo che stai facendo. Ovviamente, come docente e studioso di etica, le questioni ti toccano. Per ora non dico nulla nel merito: voglio leggere anche gli allegati, e riflettere. Riguardo alla domanda 7, posso solo provare a fare degli esempi, visto che io stesso non ho approfondito il pensiero dello studioso tedesco. Faccio degli esempi. Ho amici atei, semplici e pieni di valori: forse sono così perché, senza saperlo, hanno succhiato il vangelo insieme al latte della madre: che cosa sarà dei loro figli, i quali crescono in una società secolarizzata? La nostra Costituzione è stata scritta da gente che non usava solo la ragione, perfino i comunisti erano simili ai miei amici atei semplici: le radici di tutti quei signori erano profonde e attingevano linfa chi sa dove. È stato detto che perfino la Rivoluzione francese ha tratto i suoi tre principi dal vangelo, negandolo. Che dire del Sessantotto? Dal Sessantotto è partito il fenomeno che, quaranta anni dopo, è diventato “individualismo maturo”, come dicono certi studiosi. Ma la società globalizzata, liquida e individualista può garantire una spinta trasformatrice dalle proporzioni enormi, simile a quelle che sono state necessarie per produrre la Rivoluzione francese, il Risorgimento italiano, la Resistenza e la Carta costituzionale? La società laica e secolarizzata sarebbe superiore, più evoluta delle società che l‟hanno preceduta, ma su che cosa si basa? sulla ragione? sulla scienza e la tecnica? sul diritto? sull‟efficienza? sui codici etici? Siamo sicuri di poter fondare tutto sulla ragione, sui codici etici e sull‟impegno? Galimberti forse non dice espressamente che non è possibile una nuova etica, ma non lascia intendere che una nuova etica c‟è già? L‟efficienza e il successo (per esempio quelli della tecno-scienza). Perciò il successo e l‟efficienza, dei campioni sportivi, delle modelle, della pubblicità, ma anche della mafia e dei politici corrotti, farebbero tanta presa sui nostri giovani: in fondo, loro sarebbero coerenti con lo spirito del tempo. Non ti pare? Con affetto, Tommaso. Risposte alle singole domande aperte. 78


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D: Tutti i discorsi che si fanno sull‟etica a scuola (e all‟università) dovrebbero coinvolgere almeno studenti e genitori, perché siamo tutti nella stessa barca. Purtroppo però né gli uni, né gli altri sono all‟altezza della situazione. Perché scoppia il problema dell‟etica? Perché nel mondo globale e liquido non c‟è più etica. Non è un paradosso? R: Forse di etica (o morale) in generale s‟è sempre parlato, almeno stando al lascito dei filosofi. In fondo la vera domanda dell‟etica fino all‟epoca moderna è stata: come possiamo vivere felici? E la felicità gli uomini l‟hanno perseguita da sempre (pur non essendo quasi mai facile conseguirla “a tavolino”). Le etiche “applicate” invece nascono man mano che sorgono (o sono percepiti) i problemi che si vogliono risolvere. Vedi l‟esempio dell‟“etica degli affari” (o anche la Responsabilità Sociale dell‟Impresa). Nasce quando il livello di immoralità negli affari (e le imprese “irresponsabili”) raggiunge un livello assolutamente inaccettabile. Così credo stia avvenendo nella scuola. Non s‟era mai parlato di (a maggior ragione obbligato a fare) codici etici in ambito scolastico. Certamente DEVONO essere coinvolti anche famiglie e studenti. So per certo che scuole analoghe alla tua hanno “patti” che impegnano in tal senso. Li ho trovati a partire dal sito del Miur che presenta l‟offerta formativa delle varie scuole. Ti allego un esempio di una scuola della provincia di Como (con un indice della Fondazione Agnelli di 87, contro il vostro poco più di 40). In teoria dovreste avere anche voi questo patto di corresponsabilità da far firmare ad ogni famiglia e studente (almeno maggiorenne). La vera guerra è quella verso l‟“indifferenza” (più ancora che verso l‟individualismo). Ricordi la mail che ti mandai a capodanno? D: Riprendendo la metafora del cantiere in cui si costruisce la cattedrale, nella scuola quale cattedrale visibile si costruisce? Nella scuola d‟oggi c‟è ancora una cattedrale, magari invisibile, da costruire o c‟è una fiera, una torre di Babele da costruire? (Non abbiamo forse trasformato il globo, la “casa del Padre mio”, in un mercato?). R: Cosa significa che la scuola (e il lavoratore della scuola) ha come missione quella di “costruire una cattedrale”. E‟ evidente che scopo di ogni vera educazione è quella di “costruire l‟uomo”, anzi “costruire la persona” (o se vogliamo, quella di contribuire a che ogni persona diventi se stessa: ricordi Buber?). Affidando a te il compito di fare un po‟ di semplificazione e discernimento, ti allego la recente lectio magistralis (riguardante l‟educazione universitaria, ma direi l‟educazione tout court) di Ravasi, che rappresenta bene cosa e come si può intendere il compito di “costruire una cattedrale” facendo l‟educatore a scuola. D: Riprendendo la battuta, secondo la quale nel mondo liquido globalizzato forse non è più vero che il comportamento “etico” è il migliore, segnalo che il mio amico Alfio, ex professore di lettere, componente di Sos scuola, quando par79


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liamo di queste cose chiede: “Di quale etica parliamo? Sapete che ci sono tante etiche?”. Che cosa ne pensi? R: Di che etica stiamo parlando? Ci sono tante etiche. È vero. Basta la storia della filosofia a dimostrarlo. E‟ ovvio. E allora? Dov‟è il problema? Persino quando parliamo del Vangelo, potremmo dire: di che vangelo stiamo parlando? Ci sono più vangeli (e parlo sono di quelli “canonici”). Ma il fatto che ci siano più etiche (così come ci sono più vangeli!), non vuol dire che allora ognuno si fa la sua etica a suo piacimento, à la carte. L‟etica è tale solo se è argomentata, cioè c‟è una riflessione onesta e seria che la sostiene (e che si confronti, appunto, anche con le altre etiche già presenti, motivando soprattutto le eventuali differenze). Ci si rende conto che si può allora parlare di metaetica, che cerca di capire le contraddizioni ma direi più spesso la complementarità, e la “situazionalità” storico-culturale di un‟etica (l‟etica, come i vangeli, come le scritture, nasce in un contesto, è in qualche modo “incarnata”). Non so se ti basta. D: A proposito di etica, Galimberti dice che oggi l‟etica è patetica perché vorrebbe imporre a chi può, alla tecno-scienza, di rinunciare a fare ciò che può. Infatti, notoriamente, se una cosa è possibile, prima o poi qualcuno la farà; e molti oggi pensano che le cose bisogna farle prima che le facciano gli altri, i concorrenti, i nemici. Che cosa ne pensi? R: Vero quel che dice Galimberti (tra l‟altro ha scritto un libro voluminosissimo su queste cose – Psiche e techne – che non ho mai avuto il tempo di leggere). Ti allego un‟intervista illuminate sul tema. Riportiamo due estratti di Galimberti: “Oggi la tecnica non è più un mezzo perché, essendo diventata la condizione universale per realizzare qualsiasi scopo, essa diventa il primo scopo: ciò cui ci si rivolge, innanzitutto, e alla cui conquista tutti gli uomini tendono. Solo che, quando un mezzo diventa scopo, si rivela anche un mezzo senza scopi. Per cui la tecnica a questo punto è diventata scopo. Quindi la cosa si fa ancora più drammatica, poiché essa tende esclusivamente al proprio potenziamento”. Secondo brano: “Direi che la tecnica non è ancora la forma universale del mondo, innanzitutto per una ragione geografica, perché la tecnica è un evento solo occidentale. Inoltre, anche all‟interno dell‟occidente ci sono dei residuati antropologici, nel senso che oggi ancora il potere politico può dire alla tecnica ti potenzio qua e non ti potenzio là... Perché si arrivi all‟egemonia totale ci vuole ancora un po‟ di tempo: in questo senso dico “non si è ancora fatta sera”, però non vedo l‟alternativa”. Come vedi, Galimberti non dice, a mio avviso, che nell‟età della tecnica non ci sia posto per l‟etica (un‟etica), ma che le etiche fin qui elaborate non sono adeguate, appunto, in questa età della tecnica. Ciò non vuol dire che non sia pos80


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sibile (anzi, è necessario) elaborare una etica per l‟età tecnologica come si propone esplicitamente di fare (si è proposto di fare, perché è già morto) Hans Jonas col suo “Principio responsabilità” (tradotto in pratica dal “principio di precauzione”). Se vuoi è un‟estensione per i nuovi tempi dell‟etica della responsabilità illustrata da Weber. Perché parlo del “principio di precauzione”? Perché è la manifestazione concreta che la politica ha realizzato (attraverso leggi) per adottare il “principio responsabilità”. D‟altra parte tutto il pensiero (intriso di dimensione etica) ambiental-ecologico, il pensiero sullo “sviluppo sostenibile” come contenuto (e obiettivo) oggi del Bene Comune non va forse in questa direzione? E lo stesso pensiero del Papa nella “Laudato sì”? Ciò non vuol dire che se prende piede questa nuova etica non ci saranno più persone irresponsabili, immorali, criminali (anche fra politici, scienziati, tecnologi, etc.) beninteso, come ci sono sempre state in barba a tutte le etiche del passato! Sono meno pessimista di Galimberti. E comunque, che alternativa abbiamo: stare con le mani in mano dichiarando la nostra impotenza? D: Don Milani diceva più o meno che l‟educazione è possibile soltanto in una società stabile come la società rurale. Se fosse così si spiegherebbe pienamente la cosiddetta emergenza educativa, e il nostro lavoro, compreso il tuo, sarebbe un gigantesco buco nell‟acqua. Che ne pensi? R: Non conosco il riferimento di don Milani e le argomentazioni da lui prodotte per sostenere la sua affermazione. A ben vedere società “stabili” non ne sono mai esistite. Solo che l‟evoluzione in passato era molto più lenta di oggi sì che parevano stabili. Oggi è la rapidità dei cambiamenti che pone formidabili sfide educative. Sia in generale (cosa insegnare, se tutto cambia?) sia nel campo etico (bellissimo il primo capitolo del libro di Richard Sennet “l‟uomo flessibile”. Se non lo conosci, leggi almeno la recensione in http:// www.pandorarivista.it/articoli/recensione-a-luomo-flessibile-di-richard-sennet/). A ben vedere, tutta l‟impostazione della scuola italiana dalla riforma Gentile fin forse a pochi anni fa (le ultime riforme forse hanno fatto più danni che benefici) aveva dato una sua risposta: quella storicistica. Cioè ti racconto la storia: la storia della letteratura, della filosofia, etc. Persino il vero catechismo è narrativo: ti racconto una storia, non è evangelico l‟approccio manualistico del catechismo della Chiesa cattolica! Persino dei concetti della scienza si cercava non di rado di mostrare come erano nati, per rispondere a quali domande. Così vedi le cose in prospettiva temporale. E così puoi capire quel che si “pensa” (o avviene) oggi perché sai anche da dove ciò viene. Anche per le scienze sociali (economia, sociologia, scienze manageriali) non di rado un approccio anche storico aiuta molto a capire ciò che oggi si propone come best way (interpretativa e normativa: perché best?).

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Allora cosa penso e come mi comporto io? Non ho purtroppo presente quel che la migliore didattica / pedagogia propone per fronteggiare la rapidità dei cambiamenti predetti. Dovresti conoscerla tu, che sei più vicino al fronte! La frontiera della conoscenza va garantita ovviamente, nei vari ambiti (una scuola di medicina in cui non si insegni come OGGI si può diagnosticare e curare una certa malattia non sarebbe accettabile). Ma resta fondamentale da un lato fornire le cosiddette conoscenze di base, concettuali, ragionevolmente “stabili” (tipo quello che per i Sistemi Informativi ho cercato di comunicare nella lectio che mi avevi commissionato) e dall‟altro insegnare ad “imparare ad imparare”, a partire dall‟imparare a porsi le domande giuste, a capire quali sono i problemi (normalmente ben più stabili delle soluzioni più o meno tecniche disponibili). A volte si insegnano solo le soluzioni, dando per scontati i problemi! Insegnare come valutare i pro e i contro delle varie soluzioni (diremmo insegnare metodologie: di solito più stabili dei contenuti). E così via. D: Giuseppe Limone ha scritto che la scuola (e l‟università) è una funzione della Repubblica. In altre parole, non solo è riduttivo considerare la scuola come azienda o come un ente che deve garantire risultati certi programmati a priori, ma è riduttivo anche considerarla un servizio alla stregua della magistratura o della sanità: la scuola è una funzione della repubblica come il parlamento: niente parlamento, niente Repubblica, niente scuola di qualità, niente Repubblica (altro che professori=professionisti, come i medici!). Abbiamo una Carta bellissima, ma se i padri costituenti vedessero la società di oggi, si strapperebbero i capelli: loro avevano sognato un altro mondo, un altro uomo: istruito, colto, intelligente. Grazie a quell‟eredità oggi non diamo, nei casi migliori, le perle ai porci? E negli altri casi non rischiamo di essere semplicemente ininfluenti? R: Mi piace l‟espressione di Limone, ma se limitata alla scuola (o università) rischia di essere autoreferenziale. Funzioni della Repubblica sono anche il lavoro (“la Repubblica è fondata sul lavoro”!), la salute, la giustizia (garantendola sul fronte interno ed esterno ovviamente). Le modalità per implementare tali funzioni, al pari della funzione istruzione/educazione, possono essere diverse, ma anche senza lavoro non c‟è Repubblica, senza salute non c‟è Repubblica, senza giustizia non c‟è Repubblica. Come si dice, sono diritti (coi corrispettivi doveri) di cittadinanza, in quanto cittadini, non certo in quanto clienti, consumatori, etc. D: Böckenförde, uno studioso tedesco, ha scritto che una società liberale e secolarizzata vive di presupposti che essa non può garantire. Se fosse vero, il destino della nostra società sarebbe un progressivo e inarrestabile declino. Come dire, lo sapevamo: è l‟entropia. È il declino dell‟Occidente. L‟opera delle persone di buona volontà allora servirebbe solo a procrastinare l‟implosione? R: Non conosco l‟autore che menzionate. Potreste chiarire la domanda, perché se non capisco non posso rispondere. 82


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D: A Nomadelfia, dove la fraternità è legge, dove si condivide tutto, dove non circola denaro, dove le persone rinunciano a ogni possesso e a ogni potere, l‟educazione dei giovani è praticata nella scuola familiare interna e “in solido”: tutti sono responsabili di tutti. Anzi, si direbbe che a Nomadelfia tutto è scuola ed educazione, nelle aule e fuori di esse, in età scolare e anche dopo; anzi dalla culla alla tomba, e funziona. Aveva ragione don Milani? R: Sì, ha ragione don Milani. Nomadelfia è certamente una gran bella cosa ma se la vediamo a prescindere dal giudizio che diamo sui valori lì praticati, rischia di essere una comunità “totalitaria”. Funziona finché c‟è anche una società fuori e si è liberi di entrare e di uscire. In fondo tutti i regimi totalitari avevano una preoccupazione educativa fortissima: volevano fare delle “Nomadelfie” a loro misura grandi come lo Stato, senza possibilità soprattutto di uscire. E non è neppure concepibile una società fatta tutta di diverse “Nomadelfie” (che pure molti vorrebbero!), in base alla religione, al reddito, all‟etnia, ai gusti, etc. Resta però verissimo che “tutto è scuola ed educazione”. Il dramma non è il pluralismo delle agenzie educative (famiglia, scuola, chiesa, società sportive, etc.). È oggi la totale “incoerenza” fra tali agenzie, ma soprattutto il fatto che certe “agenzie” (penso alla pubblicità, spettacolo, sport, etc.) sono di fatto egemoni (di solito veicolando il messaggio univoco, chiaro e forte che la prima cosa che conta è il denaro, la seconda è… il denaro, la terza è… ancora il denaro), e vanificano il lavoro educativo delle altre e più responsabili agenzie. Come diceva un docente di una scuola della Svizzera italiana, “è inutile che io insegni a scuola il rispetto delle regole, l‟onestà, etc. se poi il ragazzo – ad incominciare dai genitori, magari, ma certo solo guardando la televisione – vede che tutti, specie le persone più importanti, praticano il contrario!

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Seconda parte Le altre attivitĂ

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Seminario di introduzione alla piattaforma JOOMLA! (appunti di Benedetta Olivella e Claudia Minervino, 26 settembre 2015)

Giorno 26 settembre 2015, grazie al professore Cariati, abbiamo assistito, nell‟auditorium della nostra scuola, al seminario informativo di introduzione alla piattaforma open source Joomla!, con la partecipazione dell‟ingegnere Antonio Terracina, accompagnato da Luigi Buono, entrambi membri di Joomla! Calabria. I due hanno deciso di divulgare la piattaforma in quanto essa è poco conosciuta tra noi studenti. Inizialmente, Antonio Terracina ha spiegato, attraverso una presentazione di power point e un filmato, che la piattaforma è un CMS e attraverso essa possiamo gestire dei contenuti semplici ma anche complessi sul web. Ha la capacità di realizzare: siti di vario genere come forum ma anche siti di gestione eventi; un esempio di sito realizzato con la piattaforma Joomla! è quello della nostra scuola, all‟indirizzo www.iisrende.gov.it. Oltre alle varie potenzialità della piattaforma, l‟ingegnere Terracina si è soffermato sui suoi vantaggi, dicendo che è caratterizzata da un data base nel quale possono essere inseriti dei contenuti attraverso l‟editor WYSIWYG e che è dotata della funzione SEO, che ci permette di scrivere le pagine del sito che vogliamo creare. Durante il seminario, si è venuti a conoscenza che la piattaforma prevede due punti di vista: IL FRONTEND, cioè quello che noi vediamo all‟esterno, e il BACK-END cioè l‟accesso ad esso in modo interno. Alla fine, gli ingegneri ci hanno informato che in tutto il mondo e quasi in tutte le città d‟Italia, vi è un evento Joomla!, per conoscere la piattaforma dalle grandi potenzialità, che può essere utilizzata da chi è appassionato d‟informatica, come uno slancio verso il mondo del lavoro. Il professore Cariati, ha chiesto, in conclusione, se era possibile tenere al “Cosentino” dei corsi su Joomla!, guidati dagli amici di Joomla! Calabria, e ha ottenuto la loro disponibilità al “costo di 20 euro”, ovvero la quota di associazione a Joomla! Calabria.

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Gita a monte Cocuzzo, in autunno (appunti di Tommaso Cariati; foto di Nunzio Bilotta, 25 ottobre 2015)

È domenica. Dopo la messa celebrata da p. Pino Stancari a San Carlo Borromeo, partiamo alla volta della Catena Costiera, direzione sud-ovest. Siamo una comitiva molto varia. Qualcuno si è aggregato vincendo la sua ritrosia. Altri hanno aderito con entusiasmo.

Abbiamo fretta perché sappiamo quale spettacolo impareggiabile ci aspetti. Monte Cocuzzo, anche se alto poco più di 1.500 m, è una montagna molto interessante da diversi punti di vista: assicura sempre l‟avventura e offre panorami bellissimi. Non è mica la prima volta che vi andiamo.

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All‟ultimo minuto abbiamo coinvolto anche fratello Alessandro della comunità dei Gesuiti di Rende. Roberta Runca non risponde all‟appello; partiamo. Nei pressi del centro commerciale di Rende riceviamo una telefonata: non è dispersa, è soltanto in ritardo. Accostiamo: la carovana si ferma e l‟aspetta.

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Puntiamo verso Cosenza e ci inerpichiamo a destra verso Mendicino. Passiamo in mezzo al centro storico e saliamo verso la cresta, lungo la strada panoramica per Fiumefreddo. Il panorama è bellissimo. Le castagne sono già sull‟asfalto; le noci nei campi sono per terra. Lasciata la strada per il mare, saliamo a sinistra per il rifugio e l‟area pic-nic. Prima del rifugio incontriamo uomini e donne che recano vrancate di funghi.

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Siamo tentati di cambiare la mission, ma resistiamo.

Oltre il rifugio lasciamo le macchine e cominciamo a salire: qualcuno fa comunque una breve digressione per annusare il terreno a caccia di funghi. Lungo la pista qualche castagno ha elargito vari frutti che non sfuggono ai piÚ esperti: li raccoglie e li mangia. Usciti dalla faggeta ci si affaccia sul Tirreno. Ci sono nuvole sparse ma lo spettacolo merita una sosta. Il fotografo fa una digressione per affacciarsi dal belvedere e scattare foto memorabili; ne è contento.

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Riprendiamo a salire. Molti seguono la pista, altri si avventurano per scorciatoie improvvisate. Alessandro raccoglie vavusi, un poco sfatti. America e Roberta sono interessati ai cunocchiti, alias mazze di tamburo. Gianni si arrende; la moglie gli fa compagnia: consumeranno insieme la colazione al sacco e ci aspetteranno. Il posto dove sono giunti comunque permette loro di respirare a pieni polmoni, anche lo iodio del Tirreno, e di fare incetta di immagini, cangianti per via delle nuvole sparse sospinte di qua e di là dal vento. Noi giungiamo sulla vetta e andiamo oltre, sia per trovare un posto riparato dal vento, sia per “avvicinarci” il più possibile ad Amantea e a quella cima possente di monte che buca le nuvole in lontananza. Qualcuno dice che si tratti dello Stromboli, altri dicono Montalto, in Aspromonte; altri ancora suggerisce che si tratti dell‟Etna. Vista la possanza, la posizione, e la distanza, probabilmente è proprio il gigante siciliano a mostrarsi fiero al di sopra di una spessa coltre lattiginosa di nubi immobili, alto più di 3.300 m, il Mongibello.

Lo spettacolo è superbo. Siamo stanchi, ma non troppo. Abbiamo fame.

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Consumiamo il pasto frugale condividendo le leccornie della giornata: il vino di Valle La Fontana, le noci e i fichi di casa Cariati, i taralli di Anna, la crostata di Rosina.

Purtroppo alle nostre spalle ci sono i segni della civiltĂ che arrugginiscono. 92


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C‟è chi alla civiltà non sa proprio rinunciare.

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Qualcuno riesce a schiacciare anche un pisolino. Poi ripartiamo. Appena possibile, Tommaso si lancia nel bosco, ai margini del quale sono ciuffi di pinacchi. Annusando annusando, mentre si saliva, aveva adocchiato qualche rosito e sentito, irresistibile, il richiamo della foresta: si rendeva necessaria una perlustrazione accurata. Così, mentre gli altri percorrono la strada esattamente a ritroso, lui sparisce nel bosco, promettendo si raggiungere la comitiva al rifugio per lo stretto sentiero che si snoda tra gli alberi. Quando tutti si ritrovano all‟area di pic-nic, è sera. Si scattano alcune foto di gruppo e si riparte alla volta di Cosenza. La sera, la padellata di rositi, misti a tricolomi, cunocchiti e prataioli, soffritti con aglio e pancetta, e consumati con buon vino, permette di fare un‟esperienza fantastica tanto quanto quella dello spettacolo superbo sulla Catena Costiera, sulla Sila, sul Tirreno, sull‟Etna visti dal Cocuzzo.

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La barca fa acqua, come salviamo la scuola? (appunti relativi all‟incontro di Sos scuola del 26 novembre 2015)

L‟incontro si svolge a casa di Tommaso e Chiara in c.da Valle La Fontana, Castiglione Cosentino, davanti a un fuoco allegro e scoppiettante. Sono convenuti Lia Biasi, Alfio Moccia, Giuseppina Pingitore, America Oliva, Maria Rosaria Sorrentino. Sono presenti ovviamente i padroni di casa. Alfio: io penso che ci sia un tema di grande attualità che ci fa incontrare e confrontare: la barca fa acqua e rischia di affondare. I problemi della scuola non sono della scuola, ma della società. La scuola è diventato un luogo di conflitto e confronto perché non c‟è un pensiero guida. Perfino le leggi sono diventate opinione. I giovani non hanno più una guida sicura. La scuola-barca fa acqua, ma la causa sta fuori. Un tempo la scuola aveva più autorevolezza e componeva meglio i conflitti. L‟autorevolezza le derivava anche dal fatto che era più evoluta, più avanti della società. Oggi i ragazzi vedono la scuola più indietro rispetto ai servizi di cui godono a casa e quindi per loro non è strumento di emancipazione ma di regresso. Se aggiungiamo che la società e la famiglia sono lacerate, il quadro è completo. America: io mi sento in crisi permanente. A scuola ogni giorno dobbiamo affrontare situazioni nuove. Il nostro è un lavoro difficilissimo. Studio sempre, mi sento agitata e inquieta. Tra l‟altro il nostro lavoro non ci fa vedere i risultati; anche se, almeno nel tempo, mi è capitato di vedere qualche frutto. Però in questi ultimi tempi lavoriamo con ragazzini veramente smarriti. A volte penso che se continuiamo così ci lasciamo la salute. La scuola è cambiata troppo anche a causa delle innovazioni, che subisce. Alfio ha ragione: forse la famiglia dispone di migliori servizi: bagni più belli, computer e playstation più aggiornati. Con alcuni genitori non riesco a confrontarmi costruttivamente: si ha l‟impressione che viviamo in due mondi totalmente diversi, e si entra facilmente in conflitto, in collisione. Ci si chiede: che cosa cercano nella scuola? Giuseppina: la verità è che la scuola restituisce i ragazzi alle famiglie così come li ha ricevuti. I ragazzi educati ritornano educati, quelli maleducati restano maleducati; quelli che hanno voglia di studiare ricevono qualcosa, quelli che non ne hanno ritornano ignoranti. La scuola fa un gigantesco buco nell‟acqua. Recentemente mi sono ritrovata per caso a dialogare con persone che con la scuola non hanno nulla a che fare, ma avevano un‟idea precisa dal punto di vista politico. Secondo loro negli ultimi venti anni i nostri politici hanno fatto di tutto per demolire la scuola pubblica, un patrimonio democratico vitale per il paese. 95


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Probabilmente c‟è stato un progetto politico scellerato che ha minato tutto il sistema. Tutto quello che via via ci è stato presentato come novità, in contraddizione con ciò che ci era stato presentato il giorno prima, sempre come nuovo e assolutamente da seguire, in realtà erano cavalli di troia che servivano a scardinare il sistema. Siamo passati dal programma alla programmazione, dalla scuola articolazione periferica del Ministero alla scuola dell‟autonomia, al POF, al PTOF, ai BES, alle avanguardie educative. La mia impressione è che ci si è preoccupati del mezzo più che del fine e così, pur con tanti mezzi, per così dire, non si sa più perché ogni giorno noi incontriamo i giovani, per anni. Chiara: quando Tommaso ha proposto “La barca fa acqua” ero molto critica perché ritenevo che noi in senso globale non possiamo fare niente. Però la scuola è cambiata tanto negli ultimi anni e gli alunni sono peggiori: ne cogli gli esiti osservando che le conoscenze degli studenti sono vicine allo zero, come dicono anche tutte le indagini. Io faccio questa professione da otto anni soltanto ma è abbastanza per rendermi conto di persona che gli alunni sono sempre peggiori. Però insegnando nella scuola media inferiore credo di disporre di uno spaccato privilegiato; ebbene, vi dico che c‟è una responsabilità delle famiglie e della classe politica, ma c‟è anche una responsabilità della scuola. Innanzitutto, al di là di ciò che è scritto nelle sacre carte, pochi insegnanti hanno la consapevolezza di trovarsi a lavorare con persone, non con robot. In secondo luogo, molti insegnanti giocano a scaricabarile: gli alunni alla media mancano delle basi di lettura, scrittura e matematica, io non posso farci niente; alle superiori, gli alunni non sanno leggere e comprendere un testo poco più che banale, è colpa degli insegnanti delle medie: io che cosa posso farci? Insomma un po‟ di autocritica non fa male. America dice di essere in crisi. Ma quanti insegnanti ci sono nelle nostre scuola che non si lasciano mai sfiorare dal dubbio che forse certi approcci non sono efficaci? Quanti insegnanti prendono veramente a cuore i loro alunni? Quanti insegnanti cercano modalità nuove e ogni volta diverse per intercettare lo stile di apprendimento di ciascun alunno? Lavorare così è, naturalmente, faticoso ma, credo sia l‟unico modo per non lasciarci andare allo scoraggiamento. Maria Rosaria: ho partecipato a un viaggio all‟Expo. Sul pullman abbiamo dovuto effettuare gli abbinamenti per le stanze. Una ragazza timida è stata emarginata al punto che nessun abbinamento andava bene per lei. Lei aveva espresso apertamente ai compagni il suo pensiero, rifiutando le condizioni che i compagni volevano imporle, ma non hanno voluto integrarla. Noi dobbiamo capire che la nostra forza sta nel lavoro in team, e questo può essere un buon obiettivo per cui lavorare con i ragazzi. Ora ci sono i progetti, che sono una innovazione: si può lavorare in squadra e superare il punto di vista individuale. Forse potrebbe essere questa una via per superare la crisi. Io credo che certe innovazioni sono utili. Per esempio, il Clil ha rappresentato una scossa in una scuola che era un po‟ sclero96


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tizzata. Chiara dice che gli alunni sono sempre peggiori. Abbiamo il RAV dal quale risulta che, per esempio, gli alunni non sanno leggere; ebbene noi che cosa facciamo? Insomma, aiutatemi a capire. Lia: io ho lasciato la scuola pubblica da poco. In trentotto anni ho fatto un‟esperienza ricchissima, anche con tutti i problemi che abbiamo dovuto via via affrontare. Il mio principio è sempre stato quello di andare avanti con pochi progetti, ma buoni. Io ne ho fatto tanti, ma sempre vagliando le ricadute sugli studenti; e li ho sempre valutati. Ho incontrato tante opposizioni e ho dovuto lottare contro quelli che criticavano il mio operato. Recentemente sono stata colpita dal Papa quando ha detto che uno stato che non investe sulla scuola è uno stato senza futuro. Giuseppina diceva che forse c‟è stato un disegno politico che ha condotto all‟affossamento della scuola. Io non so, però è vero che in Italia abbiamo dovuto fare i conti con tagli, riduzione del personale, aumento degli alunni per classe, riduzione delle ore settimanali di insegnamento. Non so che cosa succederà con la legge 107. Però c‟è un punto che vorrei mettere in evidenza. Io partirei dall‟”IO” e non mi preoccuperei del “NOI”, di cui si parla troppo. Come dice Chiara ognuno dovrebbe fare autocritica e domandarsi se il suo lavoro è efficace o no e in che modo lo si può rendere più efficace, ma senza aspettare che ce lo dica il ministro o il preside. Il docente valido non è quello perfetto, che non esiste: è colui che sa che il suo lavoro è perfettibile. Insisto: bisogna portare avanti le proprie idee, anche se è difficile. Poi bisogna mettersi nei panni degli altri. Penso che la scuola avrà sempre tanti problemi, ma bisogna andare avanti con coraggio, avendo o cercando idee da attuare. Tommaso: Maria Rosaria chiede: che cosa dobbiamo fare? America dice: sono in crisi. Lia dice: avere idee ed attuarle; il docente valido è quello che sa che il suo lavoro è perfettibile. Il primo problema oggi però è che si sta buttando via il bambino con l‟acqua sporca. Negli ultimi venti anni abbiamo avuto una riforma ogni cinque anni: tutti si sono esercitati con la scuola, ma come dice Giuseppina, peggiorandola sempre un po‟. La radice della nostra crisi, come persone e come docenti, sta nel fatto che siamo stati presi tra due fuochi, il fuoco del cambiamento della società indotto dalle nuove tecnologie, e il fuoco dei cambiamenti istituzionali e metodologici che pretendevano di dare risposta ai cambiamenti della società. Solo qualche profeta rimasto inascoltato si è accorto che, come dice il vangelo, non si mette vino nuovo in otri vecchi. I cambiamenti via via registrati da una parte sono stati cavalli di troia e una mano di calce su un edificio fatiscente, dall‟altra hanno veicolato l‟idea che i docenti, anche i migliori, erano totalmente inadeguati; da qui la crisi dei più sensibili, certo non dei fannulloni. Vorrei però dirvi due cose. Primo: i risultati migliori io li ottengo non scimmiottando tutte le novità di cui si sente parlare ogni giorno, messe in circolazio97


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ne spesso da pedagogisti che non sanno che cosa fare, ma quando riesco a coniugare metodi nuovi e metodi vecchi. Per esempio, io credo che sia utile spingere gli alunni a cercare da soli delle notizie su qualche argomento usando Internet, ma credo anche che in matematica, latino, informatica non si possa abbandonare del tutto la lezione frontale. Io la pratico tutte le volte che la ritengo indispensabile e pretendo che il preside non interferisca. CosĂŹ come pretendo che gli studenti prendano atto, magari progressivamente, che lâ€&#x;apprendimento serio e profondo richiede concentrazione, silenzio, pazienza, non chiasso, presentazioni veloci di Powerpoint (adatte a colpire la fantasia di potenziali clienti), filmatini di Youtube ecc. Secondo: credo che in futuro gli insegnanti dovranno riappropriarsi del ruolo che spetta loro: riflettere a trecentosessanta gradi sullâ€&#x;intero sistema e prendere posizione, anche sulle scempiaggini dei ministri, dei pedagogisti e dei presidi, a partire dal collegio dei docenti, ultimo baluardo di democrazia.

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Il caso e la volontà, la vocazione e l’impegno (testimonianza di T. Cariati alla scuola media di Spezzano Albanese, 2 dicembre 2015)

Sono stato invitato a parlare di me. La vostra professoressa mi ha detto di parlarvi della varietà e particolarità delle mie esperienze. Io non amo parlare di me, ma per voi ho deciso di farlo. Divido il mio discorso in tre parti. Nella prima mi soffermo su alcune delle esperienze che ho fatto nella vita. Nella seconda vi racconterò come il caso ha giocato nella mia vita. Nella terza vi parlo di come vivo attualmente, cioè delle esperienze che faccio quotidianamente. Alcune esperienze Se mi chiedete che cosa faccio nella vita, vi rispondo che sono un professore di informatica nella scuola superiore. Svolgo questa professione da circa trent‟anni ed è grazie ad essa che mi guadagno il pane. È un lavoro che ho scelto di fare perché insegnare mi piaceva, e nonostante tutto, mi piace ancora. È un lavoro che mi stimola perché mi permette di stare in contatto con i giovani, mi costringe a studiare e mi offre un punto di vista particolare sulla società. Io insegno informatica ma mi interesso di tante cose. L‟informatica voi la collegate immediatamente ai dispositivi digitali che usate tutti i giorni, ma in realtà è anche una scienza molto importante e per certi versi difficile. Per i primi quindici anni dopo la laurea, oltre a lavorare nella scuola, ho lavorato anche all‟Università della Calabria. Mi sono occupato prima di basi di dati, cioè di una branca dell‟informatica. Poi sono passato a occuparmi di organizzazione aziendale e di sistemi organizzativi. Ho collaborato con un paio di docenti ordinari e ho fatto ricerca e pubblicazioni. All‟università ho però tenuto anche corsi a contratto, diciamo come professore supplente. Alla fine degli anni Novanta sono entrato, da adulto, nello scoutismo e mi sono occupato per alcuni anni di educazione dei ragazzi e dei giovani mediante la metodologia inventata dall‟inglese lord Baden Powell. In quegli anni ho anche fondato un gruppo a Castiglione Cosentino, dove vivo. Nella scuola nella quale lavoro da un quarto di secolo, il “Cosentino” di Rende, nel 2005 con un gruppo di amici ho fondato un gruppo misto formato da studenti, docenti e genitori di alunni, denominato Sos Scuola. Il gruppo si riunisce periodicamente per discutere di qualche argomento interessante, di un libro che abbiamo letto o di un film che abbiamo visto. Tre o quattro volte all‟anno organizziamo gite, escursioni, visite guidate. Abbiamo un sito web all‟indirizzo www.sos-scuola.it sul quale pubblichiamo le nostre riflessioni, gli appunti dei viaggi che facciamo, le foto, i lavori e i progetti degli alunni. Alla fine di ogni anno i lavori più importanti, già pubblicati sul sito, vengono raccolti, per conservarne meglio memoria, in un opuscolo a stampa denominato Bollettino. Il Bol99


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lettino viene confezionato artigianalmente e stampato in copisteria a nostre spese. Per esempio, la biblioteca del “Cosentino” riceve in omaggio una copia di ogni numero del bollettino e le custodisce. Perciò se voi entrate in biblioteca, in un certo scaffale trovate dieci opuscoli di Sos Scuola: sono i bollettini dal numero 1 al numero 10. Il gruppo ha compiuto dieci anni e gode di buona salute. Attualmente sta offrendo alla comunità scolastica del “Cosentino” un ciclo di conferenze dal titolo molto importante “Quale uomo, quale cultura, quale scuola per il XXI secolo?”. Il lavoro che faccio con il gruppo, e con il sito del gruppo, mi permette di integrare validamente il lavoro che faccio in aula con gli studenti. L‟ultima esperienza che ho deciso di menzionare riguarda la pubblicazione di alcuni libri. Questo che vi mostro è solo l‟ultimo della serie: si tratta di un libro di racconti di viaggi. Si intitola “Viaggio nelle Regioni d‟Italia”, pubblicato da Rubbettino, un editore calabrese abbastanza importante a livello nazionale. Un altro libro uscito da Rubbettino si intitola “La scuola fuori registro”. Si tratta di racconti di vita scolastica: ci sono gli alunni, i presidi, ma soprattutto i miei colleghi. Non mi dilungo, ma di libri ne ho pubblicato una decina. Come il caso ha giocato nella mia vita State seguendo molto attentamente. Forse trovate interessante quello che vi sto dicendo. Forse vi siete convinti che io sia un personaggio di quelli che vanno in tv e siete curiosi di sapere da dove vengo, dove sono nato, che cosa ho studiato. Forse state pensando che sono nato in una grande famiglia e che ho frequentato scuole importanti. Vi leggo in faccia queste curiosità. Io sono nato cinquantasei anni fa a Ortiano, una contrada del comune di Longobucco, che si trova nella valle del Trionto, praticamente in montagna. Ortiano è un luogo periferico e rurale. Io sono cresciuto in campagna e nei boschi e fino all‟età quattordici anni ho praticamente parlato quasi soltanto in dialetto. Sì, certo, ho frequentato la scuola elementare ma a quel tempo la scuola durava da ottobre a maggio, spesso non ci si andava, spesso si iniziava il 15 ottobre, spesso mancavano le maestre, si frequentava per poche ore al giorno, si facevano pochi compiti, e, soprattutto, si parlava dialetto anche a scuola. Inoltre, cosa molto importante da questo punto di vista, non si viaggiava e non c‟era la televisione. Il mio mondo era integrale. La televisione ho cominciato a guardarla molto saltuariamente quando avevo già 11 o 12 anni: si vedeva Tarzan, Charlie Chaplin, Carosello. Negli anni in cui io ho completato la scuola elementare, in Italia sono state approvate leggi che estendevano o favorivano il diritto allo studio. Perciò, mentre mia sorella che era un po‟ più grande di me, e tutti i suoi coetanei, finita la scuola elementare si sono fermati, io e i miei compagni abbiamo avuto la fortuna di frequentare la scuola media. La scuola media però si trovava al Destro, altra frazione di Longobucco, un poco più importante di Ortiano. Il Destro si trova a una quindicina di chilometri dal posto dove abitavo io, e per andarci bisognava 100


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percorrere una pista in terra battuta e affrontare alcuni torrenti come l‟Ortiano e il Trionto, e vi assicuro che d‟inverno non era affatto una passeggiata. In quegli anni però il comune aveva cominciato a offrire un servizio di trasposto per mezzo di un pulmino, e quando la strada non era interrotta da qualche frana si andava in carrozza. Vi assicuro però che quando io avevo la vostra età si camminava sempre, tutti camminavano. La prospettiva, comunque, finita la scuola media, era quella di imparare un mestiere, andando dal mastro falegname o dal mastro barbiere; l‟altra possibilità era quella di andare in Germania: mio padre aveva lavorato sette anni in Germania, alcuni miei cugini lavoravano in Germania. Io, da questo punto di vista, ero già avanti perché avevo sviluppato una buona manualità e attitudine a svolgere i lavori umili, aiutando i miei genitori in campagna, dalla più tenera età, come un gioco. Ho frequentato la scuola media al Destro per tre anni. Nel mese di marzo del 1973 una grandissima frana ha devastato il territorio dove abitavo e siamo stati costretti ad abbandonare tutto. La mia famiglia ha scelto di trasferirsi a Mirto, sullo Ionio, vicino a Rossano. Perciò, quello che non era possibile vivendo a Ortiano, che era in capo al mondo, si rese possibile abitando a Mirto. Da Mirto era possibile andare a Rossano e frequentare la scuola superiore, e così fu, per cinque anni. Si poneva però il problema di continuare ad aiutare la famiglia. Ma a Mirto eravamo sradicati, privi di un appezzamento di terreno dove esercitare l‟attività manuale. Però a Mirto in quegli anni c‟era un boom edilizio spaventoso e chi aveva voglia di lavorare e sapeva stare in un cantiere si guadagnava da vivere. Perciò, d‟inverno andavo a scuola e d‟estate lavoravo nei cantieri edili come manovale. La prospettiva restava sempre quella di terminare la scuola e di emigrare a Milano o a Torino, come facevano molti ragazzi diplomati di Mirto poco più grandi di me. Il giorno in cui ho sostenuto il colloquio degli esami di maturità, finita la prova, sono andato, come accadeva spesso, a fare l‟autostop per rientrare a Mirto. Si ferma un giovane che non conoscevo con una 127: andava proprio a Mirto. Una volta in macchina cominciamo a parlare. Mi chiede da dove vengo. Gli racconto degli esami. Mi chiede che cosa intendo fare dopo. Gli dico che non vedo prospettiva diversa di quella di fare la valigia. Mi chiede perché non vai all‟università. Gli dico che non ne ho i mezzi. Mi dice che lui si è appena laureato in ingegneria all‟Università della Calabria. Gli dico che non ne sapevo niente. Mi dice che l‟Università della Calabria non è lontana e che è residenziale, nata in quegli anni per permettere a gente come me di studiare. L‟incontro casuale con Pino Fraia, così si chiamava quel giovane, ha avuto lo stesso effetto che cinque anni prima aveva avuto la frana che ci aveva sloggiato da Ortiano e ci aveva fatto trasferire a Mirto: anche in questo caso il destino, che sembrava ineluttabile, è stato superato da un evento imprevisto, questa volta meno traumatico della frana. Mi iscrissi alla facoltà di ingegneria e mi laureai con il massimo dei voti. 101


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Ciò che vivo attualmente Ora, brevemente, vi racconto come vivo e quali esperienze faccio quotidianamente, oltre a scrivere, mandare avanti Sos Scuola, insegnare informatica. Appena il lavoro me lo permette, vado in montagna. Faccio passeggiate, escursioni, arrampicate. Faccio anche torrentismo. Vado per funghi e per asparagi. Vado a piedi o in bicicletta, proprio come quando avevo undici anni. Faccio il vino con le mie mani, dalle uve prodotte dalle viti che coltivo nell‟appezzamento di terreno che ho intorno alla casa, nel comune di Castiglione Cosentino, vicino a Cosenza. Faccio l‟olio dai miei sette ulivi, coltivo le patate, le fave, i pomodori, poto viti e alberi. Tutto rigorosamente a mano, come si faceva negli anni Cinquanta del secolo scorso, con zappe, accette, falcione, segacci: i motori spaventano gli uccelli. Raccolgo noci e mandorle; prugne e mele cotogne, con cui facciamo le marmellate; cicorie, capperi, funghi, finocchi, piselli selvatici, ortica, vitalbe per le minestre, le frittate, i soffritti. Sto seguendo due corsi di inglese, perché il ministro dice che dovrò insegnare informatica nella lingua di Shakespeare. Io che ho imparato l‟italiano come prima lingua straniera, avendo praticamente parlato dialetto fino all‟età di 14 anni. La domenica vado alla messa, immancabilmente. La mattina non esco di casa senza pregare, almeno un poco. Grazie per l‟attenzione, e in bocca al lupo per le scelte che tra alcuni mesi dovrete compiere. Ricordate che il futuro non dipende solo da voi. Alla fine della testimonianza, gli alunni hanno fatto una serie di domande, mostrando così di essere stati veramente interessati dall‟evento. La professoressa di lettere, il giorno dopo, ha fatto un brain storming con la classe sull‟esperienza dell‟incontro con l‟autore. Alla pagina seguente sono riportate le risonanze degli alunni dalle quali si evince che questi ragazzi hanno un bel grado di maturità.

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