Bollettino n. 10

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Bollettino di SOS scuola n. 10 (Attività e appendice) A.s. 2014/2015

Attività

ITE “V. Cosentino”


Per saperne di pi첫 http://www.sos-scuola.it

Finito di stampare: dicembre 2015

Impaginazione a cura di Chiara Marra


Bollettino di SOS scuola n. 10 (Attività e appendice) A.s. 2014/2015

Attività

ITE “V. Cosentino”



Indice Quale uomo, quale cultura, quale scuola. Primo incontro: Voi non siete speciali p. 2 Secondo incontro: Vivere il presente, scrutare e costruire il futuro 18 Terzo incontro: Emergenza scuola fra saperi e senso 32 Gita di SOS scuola da Santojanni a Monte Scuro 37 Gita di SOS scuola a monte Luta 42 Gita di SOS scuola da Le Castella a Strongoli 49 Quale uomo, quale cultura, quale scuola per il XXI secolo? Ciclo biennale di incontri Quale uomo, quale cultura… Progetto 53 Un umanesimo senza fanatismi, laico e razionale, per cogliere appieno le proporzioni del rapporto uomo-natura e costruire una società libera, carica di etica civile 56 Dibattito 61 Quando ho scoperto che io non sono Dio 63 Dibattito 66 Persona, ragione, conoscenza all’altezza del mondo contemporaneo 69 Dibattito 71 Don’t Repeat Yourself Knowledge can keep us warm and DRY 75 Dibattito 78 Etica digitale. Per essere consapevoli del lato oscuro della Rete 82 Dibattito 87 Si chiude al “Cosentino” la prima fase della ricerca sull’uomo e la scuola nel XXI secolo 92



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SOS scuola compie dieci anni. Buon anniversario e lunga vita, SOS scuola! Il programma per un anno di festa è una grande ricerca sul tema:

Quale uomo Quale cultura Quale scuola Leggi i testi-spunti di riflessione, segui il dibattito e i risultati all’indirizzo web http://www.sos-scuola.it.

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Primo incontro: Voi non siete speciali! (Castiglione Cosentino, casa Cariati, 13 novembre 2014)

Tommaso: siamo felici, Chiara ed io, di avervi qui riuniti a casa nostra. Siamo una dozzina e ci sono quattro studenti: che bella sorpresa. Emilia è a Milano per motivi di salute ma ci è vicina spiritualmente. Infatti ci ha mandato una breve riflessione tramite Skype, che Chiara dopo ci riferirà. Iole è partita ieri per la Cina dove pare si trovi il figlio. Quando ritornerà ci farà una bella testimonianza. Giuliano sta lavorando per noi per il restyling del sito ed è anch’egli con noi, almeno mentalmente. Ci siamo confrontati a lungo per decidere il da farsi con il gruppo e con il sito: la tentazione è stata di chiudere. Però Emilia mi ha detto: «Se un piccolo gruppo come Sos scuola ha camminato per dieci anni con le proprie gambe, producendo una bella mole di attività, documenti, relazioni, vuol dire che l’idea che l’anima è buona». America ha detto: «L’anno scorso ho partecipato poco, alla fine dell’anno mi sono sentita inaridita». Il problema più grosso per noi lo ha evidenziato Pino Caminiti. Ha detto: «Credevi di poter dare una mano a fare uscire la scuola dalla palude, e bisogna dire che avete fatto cose egregie, ma ora sei stato sopraffatto dall’insulsaggine e dalle sabbie mobili nelle quali ti trovi ad operare; ti capisco». Nella pratica alla fine di agosto e agli inizi di settembre pesavano le novità che hanno travolto il Cosentino, l’assenza di Giuliano, il quale ora lavora tra Fuscaldo e Rossano, il clima di pesante degrado in cui lavoriamo (non ci sono registri, ti cambiano le regole del gioco ogni anno, le classi spesso sono assemblate senza criterio, molti colleghi tirano a campare, magari correndo a mettersi in mostra con il dirigente di turno perché Renzi dice che ora si farà carriera, gli alunni, tranne casi particolari, non hanno né basi né interesse per lo studio). Dopo un lungo travaglio interiore abbiamo deciso che Giuliano, sia pure a distanza, continua a occuparsi dell’aggiornamento del sito, e gliene siamo grati (della parte amministrativa del sito però ci occupiamo Chiara ed io); abbiamo stampato il bollettino relativo al nono anno di cui ognuno può prendere copia, magari dando, come ogni anno, un piccolo contributo alle spese, che tra sito e bollettino sono meno di cento euro. Le riunioni quest’anno però si svolgeranno nelle case dei componenti, non a scuola. Questa modalità offre diversi vantaggi: la casa è più ospitale, la riunione si può tenere a qualsiasi ora, non dobbiamo chiedere niente o dare conto, a nessuno. Abbiamo anche deciso che ogni riunione ruoterà intorno a un aspetto particolare del tema generale Quale Uomo, Quale Cultura, Quale Scuola. L’aspetto particolare che vogliamo approfondire di volta in volta avrà come traccia un testo di dieci o dodici pagine che troverete sul sito.

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Accanto al testo-guida, dopo la riunione comparirà anche il file degli appunti del dibattito. Ad ogni incontro potremo anche stabilire la data, l’ora e il luogo dell’incontro successivo. Ovviamente, sul sito pubblicheremo sia queste notizie, sia le riflessioni che ci giungeranno anche per posta elettronica da parte di coloro che non possono partecipare alla riunione, ma vogliono dare il proprio contributo al dibattito. Per la prima riunione abbiamo inviato l’invito a molte persone che in questi anni hanno avuto a che fare con il gruppo, e abbiamo ricevuto cenni di incoraggiamento, per esempio, da parte di Piercarlo Maggiolini, Dora Ciotta, Pino Caminiti. Speriamo di poter riabbracciare alcuni degli studenti che hanno lasciato traccia del loro passaggio. Sarebbe bello se ci raccontassero quello che fanno e in che modo il gruppo ha contribuito a farli diventare quello che sono. Chiara: sintetizzo velocemente i tre testi che abbiamo assemblato nel primo file. C’è un articolo che prende spunto dal discorso e dal libro del professore americano Mc Cullough, intitolati “Voi non siete speciali”. C’è poi il testo di un discorso che lo stesso Mc Culough ha fatto in Italia al festival della mente di Sarzana. In questo testo colpisce il primo paragrafo. L’autore chiede quale sia la metà di otto e dice che sì può essere quattro ma anche “ot” o “to”, ma anche “å” o “3” o delle fettine di otto solo un poco più sottili di quello dato. Infine c’è un articolo di D’Avenia, uno scrittore che immagina come avrebbe dovuto essere il suo primo giorno di scuola. Emilia: pur essendo a Milano ho voluto mandare un mio contributo tramite Chiara. Innanzitutto ribadisco il mio pensiero riguardo all’opportunità che Sos scuola continui a svolgere le sue attività: un gruppo che esiste da dieci anni è bene che continui ad esistere, magari cercando tutte le strategie per coinvolgere nuovamente gli studenti, che sono la ragione ultima per cui il gruppo è stato pensato e avviato dieci anni fa. Poi il mio punto di vista sui testi letti. I primi due sono testi utili ai fini dell’orientamento personale proprio perché suggeriscono di stare con i piedi per terra, di guardare alla realtà della propria persona e di non correre né dietro alle fantasticherie, né dietro alle aspettative, a volte eccessive, che altri hanno su di noi. Resta il fatto che ciascuno di noi porta in sé la sua unicità da coltivare e salvaguardare. Il terzo testo è condivisibile in toto. Penso sia bello immaginare così la scuola e il rapporto con gli insegnanti. Rosina: del brano che Sos scuola ci ha proposto da leggere mi hanno colpito tante idee. Molte di esse erano state già frutto di mie riflessione nel corso degli anni della mia lunga carriera scolastica. Purtroppo però, come molti altri principi che avrebbero dovuto ispirare una didattica e una metodologia aderente ai “veri” bisogni dei ragazzi, anche queste idee si sono scolorite e abbrutite nel tempo. È 3


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vero che dietro un’affermazione c’è tutto un mondo da mettere a fuoco e comprendere, come dice il prof. Mc Cullough, siamo tutta gente di scuola e non c’è bisogno di ribadirlo, ma vorrei porre l’attenzione sul perché noi tutti non riusciamo a dare questa valenza al nostro lavoro, perché consapevolmente, ci siamo lasciati brutalizzare da un sistema impazzito. La mia impressione è quella che la funzione della scuola è vittima di una dicotomia fastidiosa: da un lato i dirigenti (e comunque tutti quelli che non costituiscono il front-office) che ottusamente continuano a proporre a noi docenti di ispirarci a ideali grandiosi e comportamenti da missionari; dall’altro la consapevolezza, nostra, che “così non funziona”; che se da un lato si parla bene; dall’altro si razzola male. Che se da un lato si parla di insegnamento adeguato alle istanze individuali o ambientali delle quali l’alunno è portatore, dall’altro ci propongono le prove Invalsi e gli Esami di Stato da superare, che ci chiedono target precisi, abbastanza alti e uguali per tutti. E poi la realtà economica, i posti da preservare, la scuola usata come ammortizzatore sociale, e allora: tutti promossi! E allora: a che serve sforzarsi per imparare? E allora: a che serve sforzarsi ad insegnare? In questa confusione ci siamo persi! Frastornati tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere. Nunzio: punto 1: “Voi non siete speciali” I genitori non devono caricare se stessi e i giovani di eccessive aspettative. Dovrebbe essere responsabilità della scuola riconoscere talento, attitudini e, perché no, il genio. Essa deve essere messa in condizione di operare in questo senso con mezzi e persone adeguate. Allora si potrebbe dire “voi potreste essere speciali”. Se scopriamo che non lo siete accettatelo perché non è un disonore. Punto 2: “La metà dell’otto” Quello che potrebbe essere scambiato per un quesito da settimanale di enigmistica è invece un interessantissimo metodo mentale che, se fosse assimilato e adoperato, contribuirebbe molto a diminuire l'intolleranza nel mondo e aprirebbe a molte più scoperte nei mondi delle scienze, delle arti, della politica ecc. Punto 3: “Il primo giorno (di scuola) che vorrei” È in stretta relazione metaforica con “la metà dell’otto”. In fondo, nemmeno tanto velatamente, i ragazzi si aspettano che qualcuno gli insegni a riconoscere “la metà dell’otto” senza che i loro docenti vengano “distratti”, in questo compito, dai problemi di vita personale e di categoria professionale. Giovanna: io ho serie difficoltà, anche stamattina i ragazzi mi hanno fatto arrabbiare. Io assegno i compiti ma loro se ne fregano. Io dico: «Dovete scrivere il testo e poi dovete svolgere l’esercizio». Loro dicono «ma io faccio così». Se tu non scrivi la traccia e qualche commento, hai scritto una serie di numeri che non hanno senso. Io correggo, esorto, incoraggio: il giorno dopo siamo punto e da 4


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capo. La famiglia è sempre pronta a giustificare. Questi ragazzi sono troppo viziati e troppo coccolati e protetti: si sentono in una botte di ferro perché i loro genitori vengono e li difendono. Noi operiamo con ragazzini che hanno famiglie che non funzionano. Giustificano i figli perché hanno sensi di colpa nei confronti dei piccoli, o perché sono inadeguati o perché li abbandonano tutto il giorno. Poi fanno delle uscite … «avete visto quanto sono stato bravo» ecc. solo perché vogliono sentirsi speciali, presuntuosi. Anni fa ho dovuto contrastare una ragazza egocentrica e presuntuosa che sapeva sempre tutto, ma tu non sei la classe, la misura della classe. Anna: io penso che l’immagine della metà di otto sia molto interessante. Noi non siamo stati abituati a pensare alle alternative e alle diverse prospettive della realtà. Inoltre, “tu non sei speciale” non lo condivido, perché noi siamo tutti speciali e abbiamo bisogno di attenzione particolare. America: avevo letto di questo prof. americano. Come prima cosa mi colpisce il fatto che si dica “tu non sei speciale”, perché farli sentire speciali senza basi è il primo passo per creare nei ragazzi delle aspettative senza fondamenti. Questo significa porli di fronte a delle mete da raggiungere per le quali non sono attrezzati, ma siccome sono speciali la meta è loro dovuta. Ognuno di noi è speciale, ma per raggiungere una meta deve attrezzarsi per farlo. Anch’io ritengo che una grossa responsabilità l’hanno i genitori perché quando i ragazzi arrivano da me sono già convinti che sono speciali, e non è facile ristrutturare un ordine mentale rigidamente predefinito. Allora ti dicono: «Ma io questo lo faccio, lo scrivo così». Io dico: «Se tu lo scrivi così, io non capisco, e tu non scrivi per te stesso ma perché un altro capisca». Praticamente non si lasciano correggere, sono pieni di presunzione. Si pongono dal lato di chi presume di essere nel giusto. Ognuno è speciale, nel senso che ognuno ha dentro qualcosa che ti chiama a essere speciale, ma tu devi attrezzarti per vivere questo tuo essere speciale. Alfio: gli spunti e l’andamento della discussione dimostrano che noi siamo impreparati ad affrontare il problema. La realtà sta avanti a noi e noi fatichiamo a starle dietro. Qui ci si preoccupa molto di un ruolo che ha sempre avuto la scuola: acquisire le competenze. Insieme a questo compito c’era quello di promuovere socialmente il ragazzo. La scuola è rimasta con questi parametri fissi per molto tempo. Pensate che ai miei tempi il ragazzo che andava a scuola proveniva da ambienti che erano molto più arretrati dell’ambiente scolastico. Noi andavamo volentieri a scuola perché a scuola stavamo meglio che a casa. A scuola incontravamo anche i compagni. A scuola c’erano l’acqua, la strada, la luce elettrica … Per noi era bello quando si andava a scuola. Oggi invece la scuola è il luogo della volgarità, anche in senso fisico. Certamente le nostre case sono molto più confortevoli, accoglienti, attrezzate delle scuole. Tutte le compo5


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nenti, alunni, docenti e altri, dovrebbero unirsi contro i veri nemici comuni della scuola, cioè coloro che dovrebbero darci una scuola a norma di Costituzione e non ce la danno. Dovremmo individuare questi nemici, attraverso una analisi sociale, economica, politica, perché c’è qualcuno che sta lavorando perché voi giovani restiate ignoranti. Dovete solo imparare formule, come per i call center che non sono nemmeno un posto di lavoro. Poi dovete crescere con sani principi: per esempio, la regola permette di gustare meglio la libertà. Le regole ci vogliono perché non siamo isole, ma viviamo con gli altri. Poi vedo che ci sono giovani che vanno a cercare cose violente, vanno a vedere come in Afghanistan fanno saltare le teste. Vogliamo andare a vedere che esiste il bene e il male: c’è un’altra dimensione del bene e del male: è bene ciò che mi piace o che mi fa stare bene. Stiamo costruendo una società amorale. La morale è una bussola che mi permette di capire dove devo andare. Il libero arbitrio resta ma devi sapere che se sgarri devi pagare. Chiara: una possibile soluzione al problema, quella che possiamo tutti praticare nelle nostre classi, secondo me esiste, anche se i colleghi che insegnano da vent’anni più di me mi diranno che io penso questo solo perché sono ancora giovane e idealista. Comunque sia, più vado avanti, nella mia breve esperienza di insegnante, e nella mia esperienza di vita, più mi convinco che l’antidoto allo sfascio della scuola sta in ciò che ci costituisce come persone, cioè la possibilità di stare in relazione. Se questi quattro studenti sono stasera qui, credo dipenda dal fatto che ad invitarli sia stato Tommaso, perché penso che il fatto che li abbia invitati lui, con cui c’è un certo tipo di rapporto, li abbia motivati a partecipare all’incontro. Noi insegnanti abbiamo una grande possibilità nelle classi. Quando io dico stare in relazione con gli alunni, è chiaro che parlo di una cosa che comporta grandissima fatica, perché non si tratta di stare in relazione con un’entità astratta e generica che si chiama classe, ma si tratta di stare in relazione con ciascun alunno di quella classe, e questa è una fatica non da poco. E purtroppo questa disponibilità non dipende dall’età anagrafica dell’insegnante, perché sappiamo che ci sono colleghi, anche giovani, che affermano: «Alla fine a me dell’alunno non me ne frega niente». A me vengono i brividi, quando sento queste affermazioni, perché allora sarebbe meglio andare a lavorare in un ufficio, piuttosto che in una scuola, perché forse manca il senso di quello che stiamo facendo. Allora, tutto il discorso delle strategie per motivare gli studenti funziona nella misura in cui io mi metto in gioco come persona. In questo caso gli alunni mi autorizzano a confrontarsi con me anche sui rapporti fra loro e gli altri insegnanti, e gli studenti riconoscono onestamente chi sa relazionarsi con loro e chi pretende solo che imparino la lezione. A mio avviso quello che caratterizza un insegnante è la disponibilità a stare profondamente in relazione con gli alunni, con i colleghi e con gli altri in generale, come Sos scuola ha intuito fin dall’inizio. 6


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Nella selezione degli insegnanti io darei più spazio alle capacità empatiche che alle competenze strettamente disciplinari che sono, ovviamente, fondamentali, ma non bastano a fare un buon insegnante. Guido Attanasi, in un messaggio dopo l’incontro, ha scritto: Ciao prof., grazie per l’invito, ma non sono potuto venire. Tanti auguri per il decimo anniversario del gruppo! Ho dato comunque uno sguardo all’articolo di Mc Cullough. Ho selezionato le frasi che più mi hanno colpito:  «Negli ultimi anni i miei allievi, spronati da genitori che per la loro formazione investono molto, hanno sempre più difficoltà a valutare i propri talenti, pensano che un master darà loro lavoro e diventano narcisisti, incapaci di gestire l’insuccesso».  «Credendo di aiutarli, i genitori li caricano di aspettative. E ritardano domande fondamentali: “ho talento o no? Quello per cui sto studiando mi piace o no?”». Non a caso, il manuale Ragazzi, non siete speciali! è dedicato «agli adolescenti, ma soprattutto a mamma e papà. È da loro che nascono moltissime delle ambizioni sbagliate dei ragazzi, e delle loro frustrazioni».  Più tardi ripiega, senza voglia, sull’insegnamento. «Un lavoro ordinario. Che però mi piacque moltissimo. E non solo: mi ha poi consentito di scrivere un libro, proprio sull’insegnamento. Realizzando, alla fine, il mio sogno da ragazzo».  «La mente è, o dovrebbe essere, libera di vagare, agile, spontanea, incapace di star ferma, sempre alla ricerca di prospettive originali, di scoperte eccitanti». Mi sembra che il tema sia molto interessante non solo per gli adolescenti ma per tutto il mondo giovanile, in quanto è in questo periodo che si fanno scelte che indirizzano, in modo più o meno chiaro, la strada futura delle persone e quindi anche la loro felicità. Perciò mi sembra fondamentale puntare sui sogni più “profondi” dei ragazzi, che per esempio per Mc Cullough era scrivere un libro. A proposito di questo vi proporrei di ascoltare, magari anche nel gruppo se volete, la canzone di Giorgia Vivi davvero, che mi è capitato di ascoltare in questi giorni nell’ambito della missione parrocchiale per i giovani a San Carlo Borromeo, a Rende. Anche lì si fa riferimento ai sogni quali motore della vita di ogni persona. Ciao. Guido Daniele Attanasi.

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Pino: il nostro amico Pino Caminiti nel 2000 scrisse: «Quanto sta accadendo nel mondo della scuola è certo il riflesso di una società malata, gravemente malata. Ma questa è una verità parziale e non basta a giustificare lo spettacolo oggi offerto dagli addetti ai lavori. All’interno della scuola è infatti crollata una regola che ha attraversato i secoli senza essere scalfita da crisi di valori o da turbinii sociali; una regola mai scritta, e tuttavia da sempre struttura portante di ciò che fu – pure con limiti evidenti – luogo di formazione ed è ora ridotto ad un immane circo equestre. Il riferimento va al rispetto verso il docente degno di tal nome, verso la figura tradizionale del “maestro”: assediato dalla banalità, impegnato a difendere soltanto il proprio decoro, obbligato in certi casi a misurarsi con colleghi e dirigenti improponibili anche nel terzo mondo, egli non è più “centrale”. La “centralità”, a detta dei pedagogisti, deve riservarsi ad altri soggetti, perlopiù espressi in sigle (il PEI, l’IDEI e il recentissimo, fonosimbolico POF). Ma i pedagogisti rinnovano di continuo il lessico, senza mutare la vacuità delle loro dissertazioni». Nel 2004 Pino è ritornato sull’argomento e ha scritto: «Leggo su un importante quotidiano che il liceo classico è in ripresa. La testata è fra quelle che, raccogliendo il retaggio intellettuale dei “saggi” in auge negli anni Settanta, hanno contribuito ad irridere il patrimonio delle lettere antiche. Un epigono di quei saggi, vera punta di diamante del pedagogismo alla moda, registra con soddisfazione la ripresa di cui sopra. Non è un pentito: semplicemente, pur avendo scritto decine di volumi – in un linguaggio tutto da decriptare, popolato da eccentrici neologismi, e comunque riassumibili in poche righe – non ricorda alcuni punti del suo catechismo per la scuola italiana. Non è qui il caso di elencarli: basti far presente che il suo richiamo alla “pari dignità di tutte le discipline”, sintonizzato con il peggio delle sigle sindacali e della burocrazia ministeriale, ha aperto le porte allo scempio della qualità. Scempio non arginabile, almeno in tempi brevi, perché favorito da schieramenti politici che non configgono mai su fatti strutturali e discutono (sempre col conforto dei “saggi” di turno) sulle modalità della massificazione. Un’ultima cosa: il pedagogista di cui stiamo parlando si rallegra per la riaffermazione dei “saperi forti”, individuati nel latino e nel greco. Ne consegue che esistono anche saperi deboli, i quali però, nelle vesti di discipline, hanno una dignità forte, anzi fortissima». In occasione di questo dibattito Pino ci ha scritto: «Alle parole che compaiono nei due scritti riproposti da Tommaso, aggiungo quanto segue: gli spettacoli circensi nel mondo della scuola si sono moltiplicati; il pedagogismo (cioè la pedagogia di bassa lega) è imperante e senza freni ed è ormai penetrato nei gangli delle comunità scolastiche. Uno dei suoi esiti è il pullulare di dirigenti del tutto inadeguati, che blaterano di “monoenni”, di “capitali professionali” e che, spesso, ignorano la sintassi e la grammatica della lingua italiana. Espressioni come “se potrei farlo, lo farei”, o “ascoltiamo chi conoscono i fatti”, escono dalle labbra o dalla penna di maestre d’asilo o di periti professionali che, conseguita una 8


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laurea (come e dove non si sa), dirigono licei di buona tradizione. Onestà intellettuale impone però di rammentare che nella scuola esistono anche docenti di prim’ordine, professionalmente impeccabili e culturalmente degni di occuparsi di ricerca in qualche università seria. Essi, proprio per questo motivo, non sono messi in condizione di lasciare il segno nelle comunità di appartenenza e si contentano, nell’attesa angosciosa della pensione, di formare le menti dei pochi alunni disposti ad ascoltarli». Tommaso: vi propongo una riflessione in vari punti, portando qualche testimonianza. Non sarò breve; vi chiedo di avere pazienza. Prendo le mosse dal titolo del discorso del professore americano: Voi non siete speciali. Si tratta di una bella provocazione, infatti contraddice sia il sentire dei giovani, anche di quelli qui presenti, sia la realtà: ognuno di noi è originale, unico e irripetibile, quindi più che speciale, come detto anche da Emilia. Mc Cullough dice: «Vi hanno viziati, coccolati, idolatrati. Ma …». Gli studiosi sanno che il giovane d’oggi è spesso figlio unico, desiderato e immaginato perfetto, proprio perché unico, da genitori spesso avanti nell’età, i quali hanno aspettato tanto per avere il figlio che desiderano, quello al quale non deve mancare nulla. Tutti i bambini e gli adolescenti sono egocentrici, ma il sistema sociale attuale gonfia l’Io a dismisura, mentre quello in cui i genitori avevano figli a diciotto o venti anni, e ne avevano tanti, imponeva a ogni bambino e ragazzo di fare i conti con i limiti della situazione familiare oggettiva, dalla quale riceveva un salutare insegnamento: tu non sei il centro del mondo, nessuno qui è il centro del mondo: nessuno può ricevere tutta l’attenzione dei genitori. Questi ragazzi, nonostante la crisi, hanno tutto prima che nasca in loro l’esigenza o il desiderio. Basti pensare a tutte le feste che fanno: compleanni, onomastici, Natale, Capodanno, Epifania, chiusura della scuola, tutta l’estate, Halloween ecc. ecc. Per loro si compra l’acqua minerale più costosa, i vestiti firmati fin dalla più tenera età, il prosciutto senza polifosfati; si iscrivono alla piscina, alla scuola di danza, alla scuola di musica ecc. ecc. Come dice il professore americano: sono viziati, coccolati, idolatrati. Il loro Io è stato fatto diventare ipertrofico. Sono stati lasciati liberi di saltare sui divani con le scarpe, di prendere a botte i compagni antipatici, di non andare a scuola tutte le volte che non ne hanno voglia e sono stati promossi senza meriti. I pediatri hanno dettato le norme alle mamme, i pedagogisti hanno dettato le stesse norme ai professori: il bambino e il ragazzo deve esprimersi, non deve essere corretto, se no cresce frustrato, il legislatore ha preso atto e ha ratificato la situazione. Il risultato è che un preside viene denunciato da uno studente di diciotto anni, è accaduto, perché ha mostrato la sua pagella al padre. Pensavamo di liberare il genio o l’angelo che credevamo si nascondesse nel nostro bambino e invece abbiamo liberato la bestia. Ecco alcuni esempi. 9


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A Enza, una nostra amica, l’anno scorso hanno tagliato le ruote. Due genitori hanno picchiato la vicepreside del liceo Telesio. In una scuola di Rende, i voti nel registro elettronico di una classe in cui alcuni sono stati bocciati sono stati manipolati indebitamente. Agli esami gli studenti copiano da una specie di orologio elettronico da polso che in realtà è un computer nel quale si può caricare qualsiasi contenuto, o dallo smartphone. In una classe numerosa di quindicenni si osserva che i maschi sono tutti schierati all’ultima fila (per nascondersi meglio, chiacchierare tra loro, manovrare con gli smartphone e stare col corpo dentro e con la mente e il cuore da un’altra parte) o lungo il muro esterno, perché la distanza tra i loro corpi e l’esterno dell’aula è solo trenta centimetri (tutti comunque lontani dalla lavagna). Le ragazze sono invece concentrate lungo il muro interno. Come volete che trascorrano le ore di lezione? Ve lo lascio immaginare. Un giorno, dopo aver fatto posare i cellulari sulla cattedra e avere ottenuto la promessa che sarebbero stati attenti, il docente chiede che tirino fuori quaderni, penne e libri e inizia la lezione. Dopo dieci minuti, mentre le ragazze sono attentissime i ragazzi cominciano a distrarsi, a sbadigliare, a girarsi e a farsi scherzi ecc. Il docente li riprende, li incoraggia, li redarguisce e va avanti, con pazienza e ironia. A un certo punto la situazione diviene impossibile … Alla lezione successiva il professore si presenta un quarto d’ora prima, scrive la lezione sulla lavagna, sistema i banchi in modo funzionale a seguire la lezione e assegna i posti mettendo i più discoli nei primi banchi, alternando un maschio e una femmina. La lezione fila liscia come l’olio; persino quelli che non hanno nessun interesse per la materia sono intrigati, compiaciuti. Alla fine un ragazzo si alza e dice: «Che bella lezione abbiamo fatto!». In una classe di sedicenni, il primo giorno di scuola il professore chiede: «Che cosa avete studiato lo scorso anno?». Alcuni tacciono, altri vorrebbero parlare ma non osano. I più spigliati prendono la parola: «Diciamo che il professore Lo Russo non è stato capace di coinvolgerci». Una risposta raffinata, degna di avvocati azzeccagarbugli e genitori saputelli e pronti a minacciare i docenti e a ricorrere al Tar. Nella stessa classe c’è un tale che non porta zaino, né penne o quaderni. È spesso fuori dell’aula. Accumula note perché, per esempio, dalla ricreazione rientra sempre in ritardo, va spesso in bagno o al bar a rifocillarsi e, quando la classe è in laboratorio, si diverte a vagare con una sedia a rotelle da un capo all’altro della sala. L’anno scorso è approdato nella scuola verso metà anno quando era chiaro che là dove era iscritto non ingranava, e non ha ingranato neppure nella nuova scuola: che cosa hanno fatto i benedetti insegnanti? Lo hanno promosso … Questo è il risultato. Enza, la collega dalle gomme tagliate, mentre spiegava la Divina commedia, si sente chiedere da una ragazza: «Ma questo Dante non aveva niente da fare? Come è che pensava tanto?». La prof. le spiega che l’Uomo è un essere pensante; tutti, non solo Dante, dovremmo pensare, meditare, riflettere, vagliare, discer10


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nere. A noi la prof. disse: «Forse il pensiero più elevato che lei riesce a concepire riguarda il vestito da mettere la sera o il rossetto con cui dipingere le labbra». Una mamma, alla fine del primo trimestre, in una sala gremita di docenti, genitori e alunni, apostrofa con tono sbagliato: «Professore, mi spieghi perché mia figlia ha preso tre!». Il professore, chiamato a lavorare con trentadue alunni in una classe difficilissima, per due ore alla settimana soltanto, pensando ai governi e ai ministri che hanno riversato il loro moltissimo genio nella scuola, e al fatto che probabilmente quella mamma ha votato acriticamente quei politici, sbotta: «Signora, mi spieghi lei perché sua figlia prende tre. Dopo tutto io la conosco da poco e la vedo, se va bene, due volte alla settimana insieme a tanti altri: spesso poi è in ritardo. Lei invece conosce sua figlia meglio di me; o no?». Una mia parente ha detto alla professoressa che dava lezioni di ripetizione di latino a sua figlia: «Che poi questo latino non serve a niente!». Quando l’ho saputo, le ho detto: «Come ti sei permessa? Che cosa ne sai tu se il latino serve o non serve?». Noi italiani, al bar siamo tutti commissari tecnici della nazionale, in treno siamo tutti avvocati, politici, giudici; a scuola siamo tutti professori e pedagogisti. Ricordo che alcuni anni fa una collega ha interpellato un suo amico esperto di animazione di strada, di aiuto alle persone in condizione di grave disagio, sul caso molto problematico di un suo alunno. Ella riteneva che l’approccio morbido e accogliente fosse sufficiente a farlo uscire dal pantano familiare e sociale in cui si trovava. L’esperto di disagio sociale ascoltò attentamente, fece alcune domande, poi tirò un sospiro e disse: «Ci sono cose che la scuola non può fare, ci sono cose che deve fare il tribunale dei minori, altre che devono fare i servizi sociali». Il ragazzo è stato tolto alla famiglia e affidato a una casa-famiglia di un paese abbastanza lontano dal suo, ed è stato iscritto a una scuola del posto. Dopo un po’ di tempo il ragazzo ha cominciato a mostrare evidenti segni di cambiamento. Per noi è stata una bella lezione: ci sono cose che la scuola non può fare, e non deve tentare di fare per falsa pietà, altrimenti danneggia anziché aiutare. Una scuola che ha perso la bussola e non sa più qual è la sua missione fa continuamente pasticci. Al liceo si consegue la patente del motorino, la patente del computer, si fanno corsi di educazione al bello, di chitarra e di bridge, ma non si insegna più, o si fa finta di insegnare, la matematica, la fisica, l’italiano; si fanno progetti d’ogni tipo e viaggi all’estero, ma il compito viene svolto copiando dallo smartphone o dall’orologio che in realtà è un computer nel quale si possono caricare interi libri di testo. Un dirigente scolastico, nel suo discorso di insediamento in una nuova scuola, parlando al corpo docente ha detto: «Voi siete capitale professionale, e siete chiamati a sviluppare il capitale umano che sono gli alunni, secondo le aspettative del capitale sociale, cioè le famiglie, le istituzioni, le aziende, la società». 11


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Vedete, il linguaggio è esplicito: il modello che il dirigente ha in testa è stato mutuato da qualche modello aziendalista ed economicista ultracapitalista. Tu puoi aggiungere tutti gli aggettivi che vuoi: “sociale”, “umano”, “professionale”, ma sempre “capitale” resta. Un tempo alcuni, parlando degli studenti, dicevano “materiale umano”, ora si dice “capitale umano” e c’è da essere contenti perché sembrerebbe che gli studenti vengano nobilitati; ma “capitale” sono. Questo linguaggio suscita ilarità e indignazione. Ilarità perché a volte si legge che il “capitale sociale” di una società, di un’azienda “è interamente versato” e si parla del capitale dell’azienda, dei soldi, insomma. Ancora: nelle aziende si usa l’espressione “capitale umano” per intendere il personale, le maestranze, i quadri ecc. Come è possibile che nella scuola gli alunni siano equiparati alle maestranze di un’azienda? A rigore, ammettendo che la scuola sia come un’azienda, dovrebbe essere il personale, cioè docenti, bidelli, tecnici e applicati di segreteria, a formare il “capitale umano”, non gli alunni. Infine: “capitale sociale” è un’espressione adottata dai sociologi alcuni anni fa: credevano forse, scimmiottando l’economia, di rendere la sociologia un poco più “scientifica”. Superato il momento dell’ilarità, subentra l’indignazione. Vedete, gli studenti qui presenti si sono risentiti perché il titolo “voi non siete speciali” non possono condividerlo. Ebbene, come possono condividere la concezione di chi li considera “materiale umano” o “capitale umano”? Come possono riconoscersi in un modello che ignora completamente tutte le loro istanze di persone originali, uniche e irripetibili? Impossibile. Per quanto riguarda l’immagine dell’8 e della metà di 8, il professore americano al festival della mente di Sarzana dice: «La mente è, o dovrebbe essere, libera di vagare, agile, spontanea, incapace di stare ferma, sempre alla ricerca di prospettive originali, di scoperte eccitanti». Fermo restando il fatto che un docente che si rispetti certamente lavora in modo da fare sviluppare negli allievi la capacità di astrazione, la capacità critica, la capacità di ragionare con la propria testa: discernere, vagliare, giudicare, siamo sicuri che una mente “incapace di stare ferma”, che cerca sempre “scoperte eccitanti” sia buona, “ben fatta”, come dicono alcuni studiosi? Stiamo attenti, perché questi ragazzi “cercano sempre cose eccitanti”, magari tramite i social network o tramite i videogiochi che fanno schizzare sangue in tutte le direzioni. Stiamo attenti perché una mente “incapace di stare ferma” non è una mente che vaglia, pondera, ragiona, giudica; è una mente schizofrenica. D’accordo che non bastano le risposte esatte date ai problemi preconfezionati, perché la vita propone problemi sempre nuovi. Ma uscire dagli schemi per vedere, in modo divergente, gli oggetti, le idee, la realtà da punti di vista differenti non vuol dire che tutte le risposte siano buone, efficaci, efficienti, auspicabili. Per esempio, se mi trovo al sesto piano di un palazzo, e considero quali possibilità ho per scendere al piano terra, scopro che posso scendere per le scale, posso scendere per l’ascensore, posso scendere annodando lenzuola e facendo molta attenzione, posso 12


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scendere con un montacarichi o con una gru, ma non è consigliabile buttarsi dal balcone! In altri termini: usciamo dagli schemi ma non possiamo esplorare tutte le possibili soluzioni (Herbert Simon docet), né possiamo mettere in atto soluzioni dannose, pericolose, stupide per il solo gusto di provare tutto, comprese le droghe, i sassi al cavalcavia, le sevizie di un compagno timido o disabile, lo stupro di gruppo, e “guidare a fari spenti nella notte per vedere se è difficile morire”, come cantava Battisti (alcuni anni fa è uscito un libro intitolato Prevedibilmente irrazionali in cui si teorizzava che gli uomini decidono sempre con la pancia e la pubblicità li tiene in pugno; ci si chiede: di quale Uomo si parla? dell’Uomo della pietra e della fionda, dell’Uomo immaginato dai nostri padri costituenti e dai redattori della carta dei diritti delle Nazioni Unite o dell’uomo del nostro tempo addestrato al consumo acritico?). Da anni propongo alcuni problemi nel test d’ingresso per stuzzicare la fantasia e la capacità di ragionare dei miei alunni. Uno di questi presenta un quadrato diviso in sedici quadrati uguali e chiede di dire quanti quadrati si vedono. Notare che non si parla di quadrati e quadratini, ma solo di quadrati, cioè di quelle figure astratte che si definiscono in geometria. Alcuni vedono solo il quadrato grande; altri vedono solo i sedici quadratini; altri gli uni e l’altro per un totale di diciassette quadrati; altri ne contano venti; qualcuno ventisei. Il totale, a ben vedere, è trenta quadrati. L’apparenza, come al solito, inganna! Il secondo problema di cui voglio parlarvi è formulato così: vai alla fontana con due damigiane, una da tre litri e una da cinque litri; come fai a tornare a casa con quattro litri esatti di acqua? Qui le risposte, man mano che passano gli anni, si fanno sempre più fantasiose e insensate. Quest’anno, in una terza, solo un rumeno è riuscito a trovare la soluzione. La classe non riusciva a capire il procedimento nemmeno dopo che il rumeno gliel’ha spiegato due volte. La cosa grave non è tanto che non riescano a trovare l’algoritmo del problema, ma il fatto che non si rendano conto dell’insensatezza di certe ipotesi, come «riempio la damigiana da tre litri a metà e quella da cinque pure a metà»: peccato che tra i dati del problema non si dica che le damigiane sono graduate. Uscire dagli schemi va bene, ma ci vuole materia grigia e un lungo allenamento. Quanto allenamento fanno i nostri studenti? Vedete, un tempo, agli studenti che trovavano noiosa e inutile la matematica si rispondeva che la essa contribuisce a sviluppare il raziocinio, che serve anche se si farà l’avvocato. Agli studenti che trovavano noiosa la poesia o la storia dell’arte, si rispondeva che la poesia affina lo spirito, utile dunque anche se si farà l’ingegnere. Vi sono molti oggi che rispondono che la poesia affina lo spirito? Esiste ancora lo spirito nei modelli pedagogici basati sul capitale o su altre sciocchezze simili? Vi sono molti oggi che rispondono che la matematica, il latino, il greco contribuiscono a sviluppare il raziocinio? Quella mia parente della quale ho parlato prima non ha detto alla professoressa di latino della figlia che il latino non serve a niente? 13


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Voglio citare due casi emblematici. Alcuni anni fa, un professore universitario di fisica, Lucio Russo, ha pubblicato un pamphlet intitolato Segmenti e bastoncini. In esso spiegava che i suoi studenti del primo anno di fisica non sapevano districarsi con i concetti astratti di quadrato, angolo, cerchio, retta, segmento. A quest’ultimo preferivano il “bastoncino”. Peccato che la geometria nasca in Grecia proprio quando si sostituiscono i concetti astratti ai bastoncini e alle pertiche. Il secondo esempio e di questi nostri tempi tribolati. Recentemente la professoressa americana Jeannette Wing, docente universitaria di computer science, cioè informatica, ha lanciato una parola d’ordine che si è subito estesa a macchia d’olio anche in Europa: il “coding”. Che cosa è il “coding”? È la programmazione dei computer mediante algoritmi, come quello che serve per tornare a casa dalla fontana con quattro litri d’acqua, e mediante linguaggi di programmazione. Forse l’abbuffata di cartoni animati, pubblicità, film, videogiochi, multimedialità, social network non ha fatto bene ai nostri cocchi di mamma. Forse la Wing ora si rende conto che gli studenti che le giungono dalla scuola non hanno la capacità di astrazione e di ragionamento che servono per formare dei buoni informatici. Forse non è un caso che la sua iniziativa, che mira a far fare esperienza di programmazione a tutti gli alunni dai quattro anni in su, sia stata sponsorizzata da una grande azienda del mondo digitale. Un’ultima notazione e una preoccupazione su questo punto. La notazione: fino a una dozzina d’anni fa, gli studenti che giungevano in terza, avendo studiato le equazioni e le disequazioni, sapevano distinguere infallibilmente il segno “>” dal segno “<”. La situazione è andata via via degradandosi fino al punto che in una classe la metà degli alunni non sa questa cosa elementare, ma tutti vanno avanti senza problemi. Molti alunni di scuola superiore non sanno calcolare l’area di un rettangolo, non sanno fare le divisioni per due, non sanno distinguere tra retta e segmento: sono linee, dicono. La preoccupazione: i fanatici delle macchine sognano una scuola imbottita di computer, lim, tablet, powerpoint, social network, YouTube e sistemi multimediali; sognano pure la flipped class, la classe rovesciata o capovolta, quella classe in cui, come disse una dirigente scolastica intellettuale molto aggiornata, “gli studenti insegnano e il docente apprende”. Una scuola così sarebbe veramente efficace e risolverebbe tutti i problemi che affliggono da anni i sistemi educativi e formativi dell’Occidente. La preoccupazione: c’è gente che ha in testa modelli economicistici dell’uomo e pensa che le macchine siano la panacea: abbattono i costi, eliminano la conflittualità e permetterebbero di ottenere una scuola più efficace. Ebbene, qualcuno avrà già concepito l’idea di infarcire una scuolacapannone di mezzi tecnici, di lasciare, per così dire, gli studenti liberi di fare quello che vogliono, sorvegliandoli con videocamere che trasmettono le riprese a una sala operativa; dalla sala operativa partono segnali di allarme, con l’indicazione dell’aula dove si verificano disordini, che vengono visualizzati su appositi 14


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pannelli luminosi, accompagnati da segnali sonori, dislocati nei punti nevralgici dell’edificio, dove stazionano gendarmi-buttafuori palestrati, muniti di frusta che accorrono immediatamente nel punto segnalato. E i docenti? I docenti non servono. Bastano pochi superesperti che, asserragliati in una specie di torre d’avorio, si occupano solo di “programmare” l’apprendimento scaricando quello che serve da Internet, preparare, aiutandosi con la rete, le verifiche che verranno somministrate dai secondini mediante computer, e decidere quali studenti, capitale umano, devono essere scartati. Alfio chiedeva: «Chi è il docente? Chi sono gli studenti? Chi sono i genitori?». Sui genitori non dico nulla: ho già detto di striscio citando la mia parente, quei tali che hanno picchiato la vicepreside, e la signora che ha detto «Professore, mi spieghi perché mia figlia ha preso tre!». Sugli studenti ho cercato di dire più di qualcosa. Dirò sui docenti e qualcosa, perché no?, anche sui presidi. Alcuni anni fa un ispettore giunto da Roma, per tenere un corso di aggiornamento, disse: «Un tempo era bravo il professore che sapeva la materia; alcuni anni fa era bravo il docente che sapeva insegnare; oggi è bravo il docente che sa tenere la classe». Questo accadeva sette o otto anni fa. Oggi spesso il docente è un burocrate o un tour operator: organizza visite guidate, viaggi d’istruzione e periodi di soggiorno-vacanza-studio all’estero. Il docente è bistrattato, affaticato, deluso, demotivato, bruciato, stritolato; il docente è un parafulmine; è incazzato e affamato. Mentre aumentano le responsabilità con classi numerose e difficilissime, con funzioni e impegni sempre più vasti, il potere d’acquisto dello stipendio si è dimezzato con il passaggio all’euro, e di nuovo con il contratto e gli scatti bloccati. Adesso, dopo che Renzi ha promesso che alcuni faranno carriera, molti, anche senza idee, si sono buttati a togliere la castagne dal fuoco ai presidi, anch’essi spesso spaesati e oppressi. Si distinguono alcune categorie: i mancati avvocati che insegnano diritto, contano sulla parlantina, anche se a volte parlano a vanvera; quelli di informatica, o che vantano qualche competenza nell’uso dei computer (tanto per molti sempre informatici sono), che si sono resi indispensabili per mandare avanti la baracca dematerializzata; quelli di inglese che credono che senza di loro non si possa fare più niente, visto che tutti dobbiamo imparare la lingua di Shakespeare, pena essere ricacciati all’inferno, dato che la lingua di Dante non conta niente. Dimenticavo i professori di educazione fisica. Questi signori sono in fortissima ascesa, a volte anche più di quelli di informatica e di quelli di inglese: loro possono contare su una grande vitalità psicofisica (fanno ginnastica, lavorano all’aria aperta, non correggono compiti, non devono decidere se bocciare o promuovere), sul fatto che gli alunni ormai amano solo l’ora di educazione fisica, sull’assenza di Superego favorita dal fatto che non si sono mai confrontati con i grandi temi del sapere scientifico e letterario. Dimenticavo: ci sono i cosiddetti professori di sostegno. Il sostegno è diventato il vero cavallo di Troia. Ci sono scuole in cui il 15


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cinquanta per cento dell’organico è formato da professori di sostegno, e alcuni usano questo ruolo come trampolino di lancio. Veniamo ai presidi. Ho già detto del preside e del “capitale”. Un preside è cascato dalle nuvole quando ha scoperto che l’organico non era sufficiente a tappare i buchi creati dai tour operator, anche titolari di funzione strumentale, quindi stretti collaboratori del dirigente, in missione strapagata all’estero (mentre i loro studenti stavano nelle aule desiderando di imparare magari l’abc della preziosa lingua della Regina), qualche insegnante fantasma, i molti insegnanti che gli uffici competenti nominano in ritardo, qualche docente ammalato. Gli studenti premevano perché venisse reiterata la prassi di farli entrare alla seconda o anche alla terza ora, e farli uscire una o due ore prima della fine delle lezioni, e il dirigente scopriva che «allora la scuola non fa ciò che promette». Perciò nessuna deroga all’orario, si dividano i docenti: quello di sostegno resta in classe e quello di matematica sostituisce in una classe che non ha mai visto, quello tecnicopratico resta in classe e il docente di economia aziendale va a sostituire, col risultato che non si lavora né da una parte né dall’altra. Si è giunti anche a fantasticare degli studenti lasciati da soli, impegnati a studiare secondo il modello postpostmoderno della classe rovesciata, in cui gli studenti apprendono da soli e poi insegnano al docente (tutto ciò dimenticando il problema della vigilanza, che altrove veniva dallo stesso dirigente considerato come il vero compito dell’insegnante). Ci si chiede: ma dove erano i dirigenti quando Gelmini e Tremonti aumentavano sconsideratamente il numero di alunni per classe, portavano le ore rigidamente a sessanta minuti, aumentavano il numero delle ore effettive di insegnamento per docente, e stringevano tutte le maglie cucendo addosso ai poveri insegnanti una camicia di forza? Dove erano i dirigenti? Ci sono dirigenti che improvvisamente scoprono che vi sono norme che non vengono applicate da quindici anni, perciò siamo tutti fuorilegge. Nell’ambito della programmazione esiste da due o tre lustri la cosiddetta quota del 20% dell’autonomia, e da almeno uno la quota del 30% o 35% di flessibilità. Non sto in questa sede a spiegare che cosa siano e a che cosa servano. Dopo anni in cui nessun preside se ne è preoccupato, mentre qualcuno l’ha usata per salvaguardare il posto di lavoro dei professori di ruolo, ne arriva uno che studia le carte e dice: «Bisogna almeno parlare di quota dell’autonomia». Alla domanda: «Come la intende?», risponde: «Bisogna studiare». Giusto, occorre un criterio, e un algoritmo; ci vuole un algoritmo, magari non il coding, ma un algoritmo sì. Dopo un paio di mesi si presenta in consiglio di classe e dice: «Il professore di economia aziendale deve ricevere un’ora dagli altri professori». Potenza degli algoritmi: ma come? «Mettetevi d’accordo: il professore di economia aziendale, per esempio, prepara un modulo didattico il cui svolgimento sarà affidato agli altri docenti, quello di educazione fisica, di religione, di italiano ecc. Il professore di informatica si accorda con quello di matematica il quale svolgerà in una delle sue ore gli argomenti di informatica». Insorge la prof. di matematica, che prima 16


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della Gelmini faceva cinque ore con l’aiuto del’insegnante di laboratorio e ora ne fa solo tre da sola: «Ma, preside, ho appena iniziato il programma, come posso andare avanti con due ore soltanto?». Si potrebbe continuare: gli studenti hanno carenze in greco? Niente paura, c’è la quota del 20%: il professore di greco riceve un’ora dagli altri: egli prepara il modulo ed è responsabile dell’apprendimento, delle verifiche e della valutazione di ogni studente, ma gli argomenti verranno svolti dai professori di storia, di educazione fisica, di chimica, di biologia. Tutto questo in classi pollaio, estremamente eterogenee, scarsamente motivate e agitatissime. Vedete, se andate su YouTube scoprite che è scoppiata una nuova moda. Poiché gli studenti sono come sono e gli insegnanti non sanno più che cosa fare, alcuni pionieri delle innovazioni didattiche e fanatici delle tecnologie digitali si sono messi a registrare la lezioncina di geografia in camera da letto, o in cucina, a casa propria, e a caricarla su YouTube. Poi passano l’indirizzo agli studenti i quali, se vogliono, se la studiano a casa. Qualcuno chiede: ma il professore che cosa fa a scuola? Chiacchiera con gli studenti, di geografia o d’altro, non importa, l’importante è non creare traumi ai cocchi di mamma; l’importante è, come diceva quell’ispettore romano, saper tenere la classe! Amici, questa pratica certifica la morte della scuola, quel luogo in cui studenti e professori, con ruoli diversi ma con la stessa finalità, si sforzavano di lavorare insieme e diventare uomini e donne. A me sembra che si possa dire che la lezione con gli alunni in carne ed ossa sta al fare l’amore come la lezione registrata sta al farsi le seghe. Concludo: Alfio ha detto ai ragazzi qui presenti che noi, adulti e loro, siamo nella stessa barca in mezzo al mare. Tutti cerchiamo la felicità, ma nessuno è un’isola. Ebbene, tempo fa ho visto su TED un monaco benedettino che parlava della felicità; diceva: «Tutti gli uomini cercano la felicità. In genere, quando ci sentiamo felici siamo grati. Questo schema va capovolto, perché per questa via possiamo illuderci di essere felici per qualche istante, ma subito la felicità svanisce. Perciò, non quando siamo felici, siamo grati, ma quando siamo grati, siamo felici». La via della felicità passa per questo paradosso: se voglio essere felice devo applicarmi a comprendere che devo essere grato; grato per quello che ho ricevuto, per la vita, per il sole, per la pioggia, per gli amici ecc. Una volta imboccata questa strada, non resta che concepire la vita come cammino, un cammino fatto di tappe in cui distinguere tre momenti: stop, look, go. Chi insegnerà ai giovani, e agli adulti, che può essere pericoloso avere “una mente incapace di stare ferma”? Dal canto suo, sant’Ignazio di Loyola insegna che non è il molto sapere che sazia, ma il sentire e gustare interiormente. Chi insegnerà ai nostri giovani, e agli adulti, a non dipendere patologicamente dai social network e dagli smatphone?

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Secondo incontro: Vivere il presente, scrutare e costruire il futuro (Castiglione Cosentino, casa Cariati, 17 dicembre 2014)

Chiara: ricordo brevemente i contenuti “assegnati” per oggi. Il tema è lo stesso che abbiamo dibattuto l’anno scorso durante l’ultima riunione: Vivere il presente, scrutare e costruire il futuro. L’incontro dovrebbe essere un approfondimento di ciò che abbiamo prodotto l’anno scorso. Perciò i materiali che dovevano servire da traccia di riflessione spaziano dal dibattito dell’anno scorso ad alcuni testi di Umberto Galimberti, ad opportuni approfondimenti su ipertesti e multimedialità. Ricordo che la riunione dell’anno scorso si è basata sulla presentazione di un prodotto multimediale realizzato da due studenti di quinta di Tommaso e su un filmato in cui Umberto Galimberti parlava di tecno-scienza, di etica e di futuro e concludeva che “l’etica è patetica”, “l’uomo è antiquato”, “nessuno sa dove stiamo andando”. In un certo senso il lavoro dei due studenti voleva essere un esempio della complessità messa in scena dalla tecno-scienza, ma anche un invito a cercare piste da percorrere per uscire dall’impotenza e dal nichilismo di cui parla Galimberti. Tommaso: parto da due affermazioni fatte nel contesto di Sos scuola e da una considerazione. La prima affermazione: Gaëlle l’anno scorso, durante la riunione sul pensiero di Umberto Galimberti e sui sistemi multimediali, disse che non ovunque succede quello che succede in Occidente e che forse questa situazione nichilista non durerà. La seconda: Alfio la volta scorsa ha detto che ai suoi tempi la scuola era più avanti rispetto alla società, che da quella scuola riceveva la formazione, mentre oggi sembra essere più indietro. La considerazione: l’anno scorso abbiamo discusso per il terzo anno di seguito sul tema “Tecnologie digitali, produzione e trasmissione della cultura, e democrazia”, e abbiamo concluso con Galimberti, il quale si poneva la stessa domanda contenuta nel nostro sottotitolo: “Dove stiamo andando?”, e rispondeva praticamente “Nessuno lo sa”. Ebbene, personalmente mi sento chiamato in causa forse più di tutti voi da questi temi. Lo sono come uomo, come cristiano, come insegnante ed educatore, ma anche come docente di informatica, quella branca della tecno-scienza che in pochi decenni ha rivoluzionato il mondo più di ogni rivoluzione fatta con fucili e ghigliottina; questo è il punto: come il computer ha cambiato il mondo. Detto questo, vi prego di aver pazienza perché farò un largo giro, ma ritornerò al punto di partenza. Inizio raccontandovi brevemente la mia esperienza. Nel 1978 ho fatto il primo incontro con il computer, al primo anno di ingegneria. Programmavamo in 18


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Fortran e con le schede perforate. Nel 1984 mi sono laureato con una tesi sui Sistemi informativi aziendali (Decision support systems, per la precisione), ma ho scritto la tesi con una vecchia macchina per scrivere Olivetti. Nel 1987 sono entrato nella scuola come docente di informatica, dopo aver superato il primo concorso bandito in Italia per questo insegnamento. Nella scuola dove sono stato mandato, a Paola, si programmava in Basic e in Cobol e si lavorava con un minicomputer Honeywell. Quando siamo arrivati, io e un collega, abbiamo abbandonato il Basic e abbiamo introdotto il Pascal. L’anno seguente abbiamo abbandonato il minicomputer e abbiamo introdotto i personal IBM collegati in rete locale. Qualche tempo dopo, accanto al Cobol abbiamo introdotto Rbase 5000, un DBMS relazionale. I personal computer avevano il processore 8086, funzionavano con l’MS-DOS, e avevano 640 KB di memoria Ram, e 20 MB di Hard disk, 10, o niente. In seguito abbiamo abbandonato il Cobol ed Rbase e abbiamo introdotto Dbase IV. Poi sono arrivati Windows, Office e Internet; erano gli anni Novanta. Si parlava già di lavoro a distanza, nuove forme di organizzazione, new economy, organizzazione virtuale, e-commerce, banca on line e web marketing. I primi dieci anni del nuovo secolo hanno visto maturare tutto quello che già si era annunciato. Accanto a tutto questo, è arrivata la rivoluzione della telefonia, da una parte attraverso l’intreccio dell’informatica e delle telecomunicazioni, dall’altra attraverso telefoni, smartphone, tablet ecc. Insomma, il mondo ha vissuto una specie di alluvione travolgente e senza fine. Spesso ci si sente come in mezzo a un diluvio universale, di bit, anche perché tante volte si cerca il nuovo per il nuovo, si confonde il mezzo con il fine, si denigra tutto ciò che non è all’ultima moda, si impiegano mezzi potenti per scopi banali, come quando si spara con i missili sulle mosche o si tagliano le unghie con la motosega. In questo contesto, simile alle sabbie mobili, i nostri ragazzi non sanno più che cosa vuol dire impiegare mezzi in rapporto ai fini da perseguire: se c’è il Caterpillar, inutile usare la pala, dicono. Se c’è la calcolatrice, perché imparare la tabellina e le divisioni? se c’è Google perché studiare? Facciamo un passo oltre. Che cosa è la “multimedialità”? Guardiamola in faccia. Un sistema multimediale è un insieme di contenuti di conoscenza eterogenei collegati tra loro, una specie di testo sincretico. Secondo Giovanni Cosenza, in un sistema multimediale “una stessa istanza di enunciati mette in gioco una pluralità di linguaggi, più sistemi semiotici”. Maragliano nota che la multimedialità sta all’incrocio tra tre tradizioni mediali e culturali: la stampa, caratterizzata da oggettività, analiticità, chiusura; gli audiovisivi, caratterizzati da soggettività, globalità, apertura; l’interattività in base alla quale l’utente svolge una funzione coautoriale. Notiamo però subito che Umberto Galimberti dice che il testo costringe a riscrivere, perché la lettura costringe a decostruire e a rimontare il testo che si legge. Mi pare che qui gli studiosi non siano d’accordo. C’è poi Calvani che afferma che la multimedialità evolve verso la singolarizzazione e verso l’ipermedializzazione. Leggiamo il testo tratto da Wikipedia: “Più recente19


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mente, negli ultimi due decenni, la multimedialità ha subito trasformazioni verso due distinte direzioni che Calvani definisce ‘singolarizzazione’ e ‘ipermedializzazione’. Con il primo termine si intende il cambiamento che ha consentito uno spazio crescente all’attività del soggetto, mediante il passaggio da una multimedialità ‘fruita’ (cinema, televisione) ad una multimedialità ‘costruita’, intesa come ambiente di scrittura e di espressione personale. Con ipermedializzazione si fa riferimento alla dimensione ‘iper’, ossia la possibilità di navigare o allestire più piste possibili non più solo unidirezionali”. Ecco, io non so se sia un bene o un male; non stiamo diventando schizofrenici? Quanta acqua del diluvio è passata sotto i ponti in meno di quarant’anni da quando io, che sono un ingegnere e insegnante di informatica, ma anche una persona con sensibilità artistiche e culturali varie, ho incontrato il computer (e vivo sulla mia pelle tutto questo cambiamento)? Leggiamo ancora da Wikipedia: “Già nel 1995 Nicholas Negroponte preconizzava che quando tutti i media sarebbero divenuti digitali si sarebbero avuti due risultati fondamentali: i bit si sarebbero potuti mescolare facilmente, rendendo pervasiva la ricombinazione multimediale; sarebbe nato un nuovo tipo di bit che avrebbe parlato di altri bit, come etichette (oggi li chiamiamo tag); ne sarebbe derivato un altro cambiamento radicale nel panorama dei media. Altri autori parlano dell’emergere di rich media – visibili ad esempio nei formati pubblicitari online che fanno uso di audio, video, animazioni e tecnologia e che quindi vanno oltre i comuni banner grafici o i link testuali – in cui si evidenzia l’obiettivo di creare un’esperienza sempre più interattiva e coinvolgente per il fruitore, organizzata secondo modalità che non si potrebbero ottenere con i singoli mezzi considerati separatamente, seguendo quello due dei principi guida dell’evoluzione dei media, ovvero la metamorfosi e l’ibridazione”. Ci siamo, con l’acqua alla gola. Altre considerazioni importanti, o inquietanti, per noi insegnanti nascono dal fatto che la multimedialità può essere pensata per formare con la multimedialità, alla multimedialità, attraverso la multimedialità, nella multimedialità, sulla multimedialità. Leggiamo in Wikipedia: “Formare con la multimedialità: da sempre in atto anche nella formazione di tipo tradizionale, prevede l’utilizzo della multimedialità per rendere meno monotono l’insegnamento; si traduce in una rottura della lezione frontale e in un innalzamento dei livelli medi di attenzione. Formare alla multimedialità: quando si utilizza la multimedialità per costruire ipermedia. Questo sistema, cambia la prospettiva pedagogica dell’insegnamentoapprendimento, in quanto promuove una pedagogia della diversità intesa come valore aggiunto. Formare attraverso la multimedialità: opportunità di utilizzare strumenti per favorire l’alfabetizzazione dei soggetti ai linguaggi non verbali e/o possibilità di mettere a confronto prospettive, modi di pensare diversi utilizzando la multimedialità. Formare nella multimedialità: si fa riferimento alla formazione a distanza, oggi definita anche ‘on line education’. La multimedialità diviene 20


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‘ambiente di apprendimento’, il docente un ‘facilitatore’. Formare sulla multimedialità: individua la multimedialità come oggetto di riflessione, per promuovere nei soggetti in formazione atteggiamenti corretti e consapevolezza critica, intesa come risultato di un percorso personale che prevede ‘attività di lettura critica’ della multimedialità e ‘attività di analisi critica’ del suo consumo”. Ancora Wikipedia: “L’utilizzo dei nuovi media genera delle vere e proprie trasformazioni nel recepire, trasmettere e organizzare le informazioni sia nei docenti che nei discenti. È necessario considerare come le tecnologie provochino modificazioni nell’organizzazione della mente e analizzare i conseguenti cambiamenti che avvengono nei processi della conoscenza e della comunicazione. Queste trasformazioni, approfondite dallo studioso Derrick de Kerckhove che ha introdotto il concetto di “cervello cibernetico”, impongono un ripensamento delle funzioni cognitive della mente e di conseguenza delle modalità stesse di insegnamento/apprendimento. La multimedialità favorisce l’apprendimento immersivo. I giovani vivono in un ambiente sonoro, caratterizzato dal sistema dei media (tv, radio, telefono...), di conseguenza apprendono molto spesso anche inconsapevolmente mediante la partecipazione e condivisione di contenuti audio/video. Questa tipologia di apprendimento multimediale si differenzia nettamente da quello monomediale che avviene per astrazione, infatti l’apprendimento ‘gutenberghiano’ è caratterizzato dalla tecnologia visiva, scrittura e stampa, che ha catapultato il mondo nel silenzio. Pertanto la galassia multimediale ha restituito l’oralità, modificando anche le modalità di apprendimento. L’uso dei nuovi media muta anche l’ambiente scolastico, considerato cross-mediale perché l’ampliamento dei new media “costringe” necessariamente la scuola a rivedere non solo i metodi didattici, considerati ormai obsoleti, ma anche gli ambienti e spazi di apprendimento. Il digitale introduce delle novità nel ruolo dei soggetti coinvolti formatore/formando ma anche una rivisitazione della ‘cassetta degli attrezzi’. Le caratteristiche dello spazio ridefinito possono essere riassunti nei seguenti punti: - la didattica svolta in aula implica presenza, mentre utilizzando ambienti multimediali lo spazio didattico assume una nuova dimensione perché la lezione si svolge in uno spazio ‘aperto’. Questo comporta una nuova forma di interazione tra i soggetti: i ruoli definiti in presenza si trasformano, il docente non è più una figura ‘centrale’, il suo ruolo cambia verso quello di facilitatore. La comunicazione tra i membri della classe virtuale si trasforma passando dallo schema gutenberghiano, che prevedeva la comunicazione basata sul principio uno a molti, a quello reticolare molti-molti. La concentrazione/dispersione è un’altra caratteristica che differenzia la didattica tradizionale da quello fruibile on line, e in un ambiente multimediale. Si va da una concentrazione data dall’utilizzo del libro, alla dispersione dovuta alla molteplicità dei contenuti dell’attività formativa. Gli insegnanti, sono tenuti a rinnovare gli strumenti didattici quali penna, carta, lavagna, gessetti, in virtù dei nuovi media, integrandoli con e-book, computer, LIM, ecc”. 21


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Infine, giungiamo ai principi chiave per chi pratica la multimedialità come mezzo di insegnamento-apprendimento. “Contiguità spaziale: gli studenti apprendono meglio quando le parole e le immagini corrispondenti sono presentate vicine; contiguità temporale: gli studenti apprendono maggiormente quando parole e immagini sono presentate nello stesso momento, poiché saranno più in grado di mantenere le rappresentazioni mentali insieme nella memoria attiva e di connetterle; coerenza: gli studenti imparano di più quando il materiale interessante ma non rilevante per il tema trattato – testo, figure, suoni – è escluso dalla presentazione; modalità: gli studenti apprendono di più quando il messaggio multimediale è presentato come testo parlato piuttosto che scritto; ridondanza: gli studenti apprendono maggiormente da animazioni e narrazioni piuttosto che da animazioni, narrazioni e testo”. Sempre da Wikipedia apprendiamo “che nell’ambito della multimedialità esistono osservazioni ed indagini che hanno evidenziato alcuni effetti negativi sul ricordo e sulla comprensione, conseguenti alla somministrazione del materiale in un formato multimediale. Una spiegazione possibile è che la multimedialità, pur offrendo nuovi modi di esprimere i contenuti, spesso viene utilizzata con l’unico scopo di rendere maggiormente attraente il materiale, in modo da focalizzare su di esso l’attenzione del destinatario del messaggio, ma ignorando le condizioni che sono alla base dei principi dell’apprendimento multimediale”. Sono affermazioni contraddittorie, interessanti, forse inquietanti. Vi faccio notare comunque, con soddisfazione, che il lavoro multimediale, presentato l’anno scorso dai due ragazzi della V B, alla riunione di Sos scuola e agli esami di stato, va proprio in questa direzione. Voleva chiarire che non basta, per essere efficaci nella comunicazione o per essere fotografi o registi, ancorché di sistemi multimediali, prendere strumenti belli e pronti, e facili da maneggiare, e usarli: occorre sempre essere creativi e esercitare il giudizio critico. C’è sempre un mestiere da apprendere. A questo punto, parlando di computer, multimedialità, Web e cambiamenti continui e radicali che ci fanno sperimentare il mondo come un’immensa distesa di sabbie mobili, vi faccio un’altra provocazione: a che cosa serve l’innovazione? È la più potente arma competitiva; serve a dominare la complessità; serve ad acquisire il potere e a mantenerlo. La tecnologia è una potente leva competitiva che permette e chi ha di avere sempre di più. Pensate al tema del digital divide, cioè della disparità tra chi può accedere a servizi digitali potenti e chi no: è la solita guerra tra chi ha i soldi e chi non li ha. Pensate: se le tecnologie permettono di abbassare i costi di produzione, e i prodotti si vendono a prezzi mediamente uguali, o superiori, dove va il differenziale? E poi non ci sono costi sociali della modernizzazione? Ci sono, eccome. C’è un costo sociale che nessuno calcola: costo culturale, perdita di valori e di facoltà dell’uomo; stress da cambiamento: viviamo, l’abbiamo detto, una specie di diluvio universale, eternamente immersi nel presente; burn out in molti settori, con conseguente necessità di ri22


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conversione, depressioni, suicidi; c’è un costo in termini di vite umane che nessuno calcola. Pensate al tema dei cellulari insanguinati. Voi sapete, dato che abbiamo incontrato l’italo-congolese John, che ha fatto la marcia da Reggio Emilia a Reggio Calabria, e si è fermato nella nostra scuola, che in Congo i bambini vengono impiegati nelle miniere nella raccolta a mani nude del Coltan, una sabbia nera che serve a costruire i nostri cellulari, e che li fa ammalare e li uccide. Quel materiale, che lì costa pochi centesimi, sul mercato mondiale viene venduto a diverse centinaia di dollari. Pare che addirittura la guerra civile che insanguina quel paese serva a mantenere questo stato di cose che fa arricchire chi è al potere nei diversi gangli della società. Ho letto recentemente che l’IBM ha annunciato tre miliardi di investimenti per i chip del futuro. Ricercatori e ingegneri esploreranno i limiti della tecnologia del silicio a 7 nanometri e si mettono al lavoro per il futuro post-silicio. Si tratta di scendere da 22 a 7 nanometri e si cerca di usare il nuovo materiale inventato qualche tempo fa, il grafene. Chiediamoci: è tutto oro quel che luccica? Pensate al rapporto tra sicurezza e privacy. Pensate ai casi Assange e Snowden. Pensate alla sicurezza dei sistemi informatici e alla cyber war. Pensate agli hacker, ai virus, ai worm, ai trojan, al ransomware, che, come leggiamo in Wikipedia, “è un tipo di malware che limita l’accesso del dispositivo che infetta, richiedendo un riscatto (ransom in inglese) da pagare per rimuovere la limitazione. Ad esempio, alcune forme di ransomware bloccano il sistema e intimano all’utente di pagare per sbloccarlo, altri invece cifrano i file dell’utente, chiedendogli di pagare per riportarli in chiaro”. Recentemente ho letto che per il 2015, McAfee prevede che gruppi di malintenzionati cercheranno di estendere la loro capacità di “evitare il rilevamento” per periodi ancora più lunghi, con soggetti non statali volti a guadagnare sempre maggiori competenze nello spionaggio informatico per monitorare e raccogliere dati importanti tramite estese campagne di attacchi mirati. I ricercatori prevedono sforzi più aggressivi per identificare le vulnerabilità di applicazioni, sistemi operativi e reti, e un focus crescente sulla scoperta dei limiti delle tecnologie di sandboxing dal momento che sempre più hacker tentano di eludere il rilevamento basato su applicazioni e hypervisor. Alla domanda: come si chiuderà il 2014? “Sarà ricordato come ‘l’anno della fiducia incrinata’, spiega di Vincent Weafer, senior vice president di McAfee Labs, parte di Intel Security. Una serie di eventi senza precedenti ha scosso la fiducia delle persone e del mercato in modelli di fiducia su Internet di lunga data, d’un tratto è calata la fiducia dei consumatori nella capacità delle aziende di proteggere i loro dati, e all’interno delle stesse aziende la fiducia nella propria capacità di rilevare e deviare gli attacchi mirati in modo tempestivo. Per riguadagnare la fiducia persa, nel 2015 – aggiunge Weafer – sarà necessaria una maggiore collaborazione all’interno del mercato, nuovi standard adatti a un nuovo panorama delle minacce, e nuove posture di sicurezza che restringano la finestra del tempo di rilevamento con un utilizzo maggiore dei dati sulle minacce. Abbia23


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mo bisogno di arrivare a un modello di sicurezza perfettamente integrato, fin dalla progettazione, in ogni dispositivo e a ogni livello della struttura informatica”, conclude il manager. Ecco la lista che McAfee ha stilato sui trend previsti per il 2015: Crescita nell’uso di tattiche di guerra e spionaggio informatici; in crescita la frequenza, la redditività e la gravità degli attacchi indirizzati a dispositivi Internet of Things; sarà sempre più intenso il dibattito sulla privacy; il ransomware si evolve nel cloud; nuove superfici di attacco e nuove competenze; gli attacchi ai punti vendita (POS) aumentano e si evolvono con i pagamenti digitali; shellshock; vulnerabilità dei software sotto attacco; nuove tattiche di evasione per sandboxing. Riguardo alla libertà e alla democrazia, Stefano Rodotà, padre della privacy in Italia, sostiene che la consapevolezza della vulnerabilità dei sistemi informatici, dell’uso distorto o improprio dei dati sulle persone e della conoscenza, nonché dell’importanza dell’accesso egualitario alla Rete “deve farsi sempre più acuta quando si considera il passaggio, ormai in atto, verso l’‘Internet delle cose’, che nasce dal fatto che un numero sempre più ampio di cose viene costruito in modo da poter comunicare e ricevere informazioni. Gli esempi si moltiplicano, sono tratti dalla vita quotidiana, dalla possibilità che il frigorifero venga connesso con il supermercato per segnalare la necessità di rifornirmi di ciò che si sta esaurendo. Il mondo materiale viene connesso a Internet. Una possibilità che può essere estesa alle persone e ai loro corpi, tanto che si parla di un Internet ‘di ogni cosa’, per annunciare l'avvento di una società che si presenta come una rete globale integrata”. Prosegue: “Questa descrizione sommaria rinvia a una situazione nella quale i dati, per il modo in cui sono raccolti e possono essere utilizzati, consegnano sempre di più le persone alla concreta possibilità che la loro identità sia costruita da altri. E il vero problema nasce dal fatto che le informazioni raccolte servono non solo a costruire profili che rendono la persona sempre più trasparente e vulnerabile, ma vengono affidate ad algoritmi, trattate con tecniche probabilistiche che costruiscono una identità ‘al futuro’, ipotetica e persino distorcente, che tuttavia può divenire strumento di conoscenza e valutazione. Di fronte a questa espropriazione, solo il riferimento forte ai diritti indica la via per restituire a ciascuno la sovranità su se stesso. Si compone così il quadro costituzionale definito dall’intreccio tra dimensione delle regole e dimensione dell’innovazione e che richiede massima attenzione ai principi di riferimento”. E aggiunge: “Lo ha compreso Obama sottolineando l’importanza della neutralità della Rete, riferimento indispensabile per garantire l’eguaglianza e la ‘generatività’ della Rete, cioè la sua capacità di innovazione, altrimenti sequestrata dai soggetti maggiori con evidenti distorsioni delle stesse dinamiche economiche. E nel suo intervento si coglie un riferimento al fatto che soggetti come Google svolgono ormai una funzione di servizio pubblico, che esige un nuovo quadro istituzionale. A queste dinamiche si torna ad opporre l’affermazione che vuole la Rete come luogo di una libertà ‘naturale’, messa in pericolo da qualsiasi regola. Ma la 24


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realtà è lontanissima da questa rappresentazione. La Rete è tutt’altro che uno spazio vuoto di diritto. È l’oggetto del desiderio d’ogni potere totalitario che impone norme volte a limitare l’accesso, a introdurre discriminazioni e censure, dalla Cina alla Turchia, all’Ungheria. Ma soprattutto la Rete è ferreamente disciplinata dai grandi soggetti transnazionali che la governano, gli ‘Over the Top’, che con i loro ‘terms of service’, le condizioni contrattuali, definiscono in maniera unilaterale e incontrollabile la condizione di tutti coloro che stanno in Rete, incidono sulla conoscenza, sull'idea stessa di lavoro. Il governo non solo dei tre miliardi di persone già presenti su Internet, ma dell'intero spazio planetario da esso creato, deve essere ricondotto a una logica costituzionale che comincia ad essere costruita”. A proposito di “neutralità della Rete”, in Wikipedia leggiamo: “La neutralità della rete (nota anche con i termini inglesi network neutrality, net neutrality, internet neutrality o NN), è un principio giuridico, riferito alle reti residenziali a banda larga che forniscono accesso a Internet, servizi telefonici e trasmissioni televisive. La definizione esatta varia, ma viene ritenuta ‘neutrale’, dalla maggior parte dei sostenitori di questo principio, una rete a banda larga che sia priva di restrizioni arbitrarie sui dispositivi connessi e sul modo in cui essi operano, cioè dal punto di vista della fruizione dei vari servizi e contenuti di rete da parte dell’utente finale. Un’altra definizione più radicale, anche se riprende per alcuni versi quella precedente, coinvolge il ruolo dei pacchetti IP attraverso la rete: una rete neutrale è in grado, rispetto ai singoli pacchetti di cui si compone l’informazione, di non dare priorità differenziate tra i diversi pacchetti, mentre una rete “non neutrale”, da questa prospettiva, ad esempio farebbe distinzioni tra livelli di servizio (e priorità) tra i diversi pacchetti di informazione”. Per esempio, mi chiedo se i pacchetti degli Sms viaggino con la stessa priorità dei pacchetti di Whatsapp. Chiediamoci ancora: Come cambia la capacità di memorizzazione, di concentrazione e riflessione critica delle persone nel mondo digitale connesso? Noi insegnanti siamo particolarmente interessati a questi problemi. Segnalo un pamphet di alcuni anni fa di Raffaele Simone intitolato significativamente La terza fase. In questo libro lo studioso di linguistica offre una riflessione su problemi come questi e sostiene che sta avvenendo una mutazione antropologica. Del resto Galimberti nei testi che abbiamo letto in vista di quest’incontro parla della perdita della capacità di distinguere tra impulso, emozione e sentimento, e forse anche della perdita del rapporto tra realtà e realtà virtuale. C’è anche la perdita del senso della prospettiva, vivendo appiattiti sul presente. Galimberti segnala come la persona sana vive nel presente con una tensione verso il futuro, tenendo conto del passato, aggiungiamo noi. Di Galimberti voglio riprendere un brano in particolare. “Nello sviluppo psicologico, noi abbiamo sostanzialmente tre gradini da percorrere. Il primo è l’impulso, che ci è dato per natura; e chi si ferma all’impulso non si esprime con le 25


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parole, ma con i gesti: si pensi come esempio al bullismo. Il secondo livello è quello dell’emozione, ovvero della risonanza emotiva che i miei gesti e le mie parole producono dentro di me: prendiamo come esempio il noto caso di Erica e Omar, che, dopo aver ucciso la mamma e il fratellino, escono come ogni giorno per bere una birra; questo tranquillo ritorno alla quotidianità significa che il gesto compiuto non ha avuto alcuna risonanza emotiva. Il terzo e ultimo livello è quello del sentimento, che non è dato per natura, ma per cultura: tutti i popoli, dai più primitivi a quelli contemporanei, hanno raccontato miti, storie dove sono indicati nomi e percorsi sull’ordine sentimentale: per intenderci, nella mitologia greca, noi ritroviamo una fenomenologia dei sentimenti impersonati da Zeus, che è il potere, da Atena che è intelligenza, da Afrodite che è sessualità, da Apollo, la bellezza, da Dioniso, la follia, da Ares, l’aggressività, … Da questo tipo di racconti si imparano i sentimenti. Noi, oggi, non abbiamo più miti. Però abbiamo quell’immenso patrimonio, che si chiama letteratura. Un patrimonio dal quale potremmo imparare che cosa sia il dolore, che cosa sia la gioia, che cosa l’amore, la noia, il suicidio, lo spleen; un patrimonio che, però, ci permettiamo di ridurre ai minimi termini rendendolo sterile. Riduciamo la letteratura a una serie di date, di nomi contenute in un I-pad o in un computer: è chiaro che così i giovani non possono imparare i sentimenti. E quando una persona prova un sentimento, ma non sa comprenderlo, non ne sa dare un nome, vive uno stato di angoscia dovuto al non sapere di cosa stia soffrendo e il perché stia male. Il mito, la letteratura, invece, fornivano e potrebbero fornire un lessico, le parole e i paradigmi per orientarsi nello scenario emotivo, ma soprattutto sentimentale. Io ricordo che nelle sue lezioni sosteneva che la persona equilibrata vive nel presente con una tensione al futuro. Solo il maniacale vive rinchiuso nel presente; solo il depresso vive rinchiuso nel passato. Le vorrei chiedere: la nostra epoca, demolito il futuro, è depressa o maniacale? La nostra epoca vive davvero le sole estasi temporali del passato e del presente. La prospettiva diretta verso il passato riguarda soprattutto le persone anziane – e puntualizzo che sono solito considerare anziana una persona che ha più di cinquant’anni, ovvero l’età in cui si inizia a guardare con nostalgia al passato e si iniziano le frasi con l’espressione ‘ah, ai miei tempi’. I giovani, invece, vivono nell’assoluto presente, mossi dalla convinzione che la vita è ‘uno stupido scherzo’ e tanto vale vivere in diretta ventiquattro ore al giorno e riderci sopra. Ma vivere nell’assoluto presente è decisamente deresponsabilizzante. La responsabilità è la comprensione degli esiti che la mia azione avrà sul mio passato (personalità e reputazione) e degli effetti che avrà sul futuro: ma se per il giovane – che vive in uno stato di maniacalità – passato e futuro sono assenti, viene meno anche la responsabilità”. Ancora, rispondendo alla domanda: “Lei sostiene che le persone non pensano; e che non pensano anche perché non leggono. Non c’è una sorta di contraddizione performativa nel dire in libri che non si leggono libri? Quali canali si possono oggi sfruttare per raggiungere le teste e smettere di colpire la pancia?”, 26


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Galimberti dice: “Io penso al libro come a un emblema, come un simbolo: quando leggo un libro, sono costretto ad attivare un pensiero; io sono l’autore di ogni libro che leggo. Quando leggo, interpreto; quando leggo, entro in un mondo che è altro rispetto al mio mondo. Il libro obbliga alla creazione del libro stesso che si sta leggendo [invece, facciamo osservare noi, i ‘fanatici’ della multimedialità sostengono che l’ipertesto attiva la funzione coautoriale]. Oggi la società è inchiodata di fronte a tv e pc, dove si registrano passivamente delle impressioni: si ricevono immagini, spesso anche ad alta velocità, al punto che vengono trattenuti solo dei frammenti. Davanti alla televisione non si deve creare o immaginare; si deve solo vedere. L’immaginazione è un’operazione attiva, mentre la recezione delle immagine è pura passività: quando io vedo uno spettacolo non penso, resto semplicemente impressionato. Il pensiero non si attiva, io non invento niente all’interno di una visione”. Vi faccio notare che, alla luce delle argomentazioni di Galimberti (ma non è il solo a farle), c’è da essere orgogliosi di aver scelto il titolo: “Vivere il presente, scrutare e costruire il futuro” per quest’incontro, ma anche per l’ultimo dell’anno scorso. Siamo proprio sani di mente! Concludo, ritornando all’inizio, a me sembra che, se noi abituiamo i ragazzi a vivere secondo il principio “la vita è tutto un gioco”, essi non si sentiranno mai invitati a cercare nel vivere qualcosa di più, un’eccedenza che sempre ci sorpassa, e, giocando giocando, possono farsi molto male. In secondo luogo farei osservare a Gaëlle che forse “questo tempo non è destinato a durare in eterno”, ma quanto ci costa costruire un mondo dissennato e viverci dentro? Quanto ci costa trovare il centro e la misura quando ci allontaniamo anni luce dal centro della vita? Quanti sono i fortunati che li troveranno, il centro e la misura, con tutte le “strutture di peccato”, secondo la nota definizione di Giovanni Paolo II, che accettiamo passivamente o fabbrichiamo con le nostre mani? Infine, potrei rispondere anche ad Alfio con una serie di domande. Siamo sicuri che la scuola di oggi è più indietro rispetto alle famiglie e alla società, e deve farsi più avanti? Sarebbe indietro rispetto a che cosa? Alla dematerializzazione, alla digitalizzazione, alla Lim, a Power Point, al registro elettronico, alle video lezioni, ai verbali dei consigli in Internet, alla flipped classroom? Non può darsi il paradosso che è più avanti chi resta indietro? Dopo tutto il vangelo avverte che molti degli ultimi saranno i primi. Emilia: ho letto il resoconto dell’incontro e mi pare che già questo possa bastare alla riflessione. Tutto questo discorso non possiamo affrontarlo se non attraverso un’ottica di natura morale. Se uno dovesse leggere il presente oggi e pensare al futuro leggendo i quotidiani di stamattina, dovremmo dire che “l’uomo è lupo all’altro uomo”. Io non riesco a spiegarmelo, puoi capire le guerre, ma che nello stesso paese, come lo Yemen, dove vengono uccise bambine solo perché sono di un’altra religione e si chiede: “ma quale futuro c’è davanti a 27


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noi?”. Dagli appunti dell’incontro dell’anno scorso mi hanno colpito l’intervento di Chiara, quando dice che senza la speranza il suo lavoro di insegnante non avrebbe senso, e l’intervento di Tommaso, quando dice che siamo fedeli di un Dio che è il Vivente. È chiaro che non mi sento di dire a chi non è credente che deve avere lo stesso tipo di speranza che ho io da credente, però forse uno può avere speranza nell’umanità, anche se oggi, nonostante tanti sistemi di comunicazione, sembriamo tutti più soli. A mio avviso, per questo incontro, c’è un materiale enorme, che potrebbe servire per lavorare a lungo. Sono temi di enorme profondità, che dovrebbero essere meditati e su cui si potrebbe riflettere a lungo. Chiara: un nostro conoscente, insegnante di storia e filosofia nella scuola superiore, ha postato, l’altro giorno, su Facebook, un articolo, commentando il quale sostiene che oggi non è necessario vessare gli studenti costringendoli ad imparare a memoria poesie, formule e definizioni, facoltà indispensabile un tempo, quando le famiglie erano poco fornite di libri; ma oggi bisognerebbe insegnare ai ragazzi semplicemente dove reperire le informazioni. Come obiettivo sono d’accordo anch’io, perché è chiaro che a lunghissima scadenza il nostro compito di insegnanti è quello di formare i ragazzi a scoprire come e dove accedere alle informazioni e come filtrarle, ma io faccio esperienza quotidianamente di come non basti fornire ai ragazzi gli strumenti per reperire le informazioni. Vi porto un esempio: ho mostrato ai miei alunni di seconda media, durante una lezione di lessico, il sito del DOP (dizionario di ortografia e pronuncia) e quello di Wordreferences e un alunno, ripetente, mi ha chiesto come faccio a sapere tutte queste cose e gli ho risposto che io studio. Non basta avere lo strumento in mano. Intanto bisogna imparare ad usarlo, e capire quali sono le possibilità che lo strumento ti mette a disposizione, intanto perché puoi anche fare grossi pasticci, poi perché si può accedere senza riflessione a pornografia, violenza (giochi e video), contenuti non adatti ai ragazzi. Io continuo a dire che la speranza esiste, ciascuno di noi la trovi dove vuole, dove ritiene più opportuno cercarla. La speranza esiste, persino Leopardi, nella poesia “La ginestra”, sostiene che la speranza risiede nel mettersi insieme degli uomini. Che la speranza esista non ho dubbi, che la tecnologia possa essere utilizzata anche a scuola, insieme all’uso della memoria… Rosa: c’è la posizione di Chiara che vede speranza in quello che fa, a mio avviso bisogna fare un passo indietro. Arrivando qui ho visto tanti strumenti multimediali (tablet, smartphone, Skype): abbiamo visto Emilia che così ha potuto partecipare alla nostra discussione, ma l’uso che se ne fa dipende dalla persona che li usa. Questi strumenti sono venuti a colmare un vuoto. Il vuoto lasciato dai valori, dal coraggio di una volta. Una volta c’erano grandi individualità, oggi sono scomparse. A mio avviso gli strumenti non sono negativi, ma vanno a colmare la mancanza di valori all’interno della società, anche a causa di chi dif28


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fonde attraverso questi mezzi visioni negative della vita e della società. Non potremo mai insegnare agli alunni a usare questo strumenti, perché loro li useranno sempre per le “marachelle”, sono pochi i ragazzi che si appassionano alla programmazione. I ragazzi sono diventati più carenti, ma gli strumenti sono strumenti, in queste scuole, a parte un po’ di educazione alla cittadinanza, non puoi incidere più di tanto. Questi mezzi vengono usati in una società malata, perciò vengono usati in modo “malato”. Il problema è che ai ragazzi non si può insegnare la ricerca. Giovanna: gli strumenti sono strumenti, che fanno quello che noi chiediamo loro di fare, noi dobbiamo insegnare ai ragazzi a fare il processo per risolvere i problemi. I ragazzi sono così perché sono il frutto delle famiglie e della società malata. I ragazzi sono vittime di questo sistema. La responsabilità è nostra, degli adulti. I ragazzi vedono come ci poniamo quando entriamo in classe, si rendono conto di essere inseriti in una società malata. Nunzio: non credo si debba condannare l’uso di certi strumenti, ma l’abuso. Quando non esisteva Internet la pornografia esisteva lo stesso. Chiara: vorrei riprendere il discorso e aggiungere una cosa. Oggi, nella terza, parlavo di orientamento. Un alunno ad un certo punto mi dice: “Prof, io vorrei fare una scuola dove si fa informatica, o dove si impara a fare il meccanico”. Allora gli ho chiesto: “Tu a quale informatica stai pensando? A quella in cui puoi smanettare con smartphone e computer? Guarda che non è questa l’informatica che si insegna a scuola. Studiare informatica vuol dire imparare a programmare, vuol dire usare la logica. L’informatica è parente della matematica, del latino, dello studio serio della grammatica italiana…”. Lui mi guarda e mi dice: “No, mi sa che l’informatica non fa per me…”. Nunzio: io ho conosciuto dei laureati in filosofia che erano ottimi informatici, sistemisti dell’IBM. Avevano una formazione mentale molto seria e rigorosa, adatta all’informatica. Chiara: il discorso che prende le mosse dal video di Galimberti era un discorso piuttosto ampio, a 360 gradi, tanto che, mentre Galimberti diceva che il mondo è dominato dalla tecnica, Nunzio aggiungeva che il mondo è dominato dall’economia, dal denaro. Torno a dire che, secondo me, a causa delle scelte economiche, a causa delle scelte della società, le famiglie dei nostri alunni non sono preparate per educare i figli a come stare davanti alla tecnica. Per cui questi ragazzini sono pieni di strumenti tecnologici (tv, psp, xbox, Iphone…), però non sanno scrivere in italiano. Allora, il fatto che siano pieni di diavolerie tecnologiche, non esclude che ci sia una discrasia tra tutta questa disponibilità materiale e 29


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i bisogni di relazioni, di affetto, di vicinanza, di cura che i ragazzi continuano ad avere oggi, come 50 anni fa. Rosa: secondo me le famiglie che operano queste discrasie sono le famiglie non attrezzate socialmente e culturalmente. Mia figlia ha fatto il liceo classico e questi ragazzi hanno sia strumenti tecnologici, sia una buona cultura generale. Queste famiglie avvantaggiate culturalmente danno ai figli segnali diversi… Chiara: dunque dai conferma alla mia ipotesi che la scuola non si può esimere dal dare ai ragazzi le dritte educative. Tommaso: la nostra scuola negli anni è peggiorata. A causa della Moratti tutti corrono verso i licei e nei tecnici abbiamo per la maggior parte ragazzi che una volta sarebbero andati nei professionali. Rosa: i ragazzi del classico hanno una buona cultura, i nostri alunni sono molto più indietro. Credo ci sia anche un risvolto che deriva dalla classe sociale di appartenenza. Tommaso: io ho sentito parlare di cose terribili anche al liceo classico: eccessiva ingerenze dei genitori in come si fa scuola ai loro figli. D’altra parte, l’anno scorso due genitori a Cosenza hanno picchiato la vice preside a fine anno… Un’altra persona raccontava di aver avuto una assegnazione provvisoria per fare latino e greco: l’hanno presa di mira i genitori degli alunni e hanno costretto il preside ad assegnarle un altro incarico. Non mi sembrano esempi edificanti di scuola. Giovanna: che esempio diamo agli alunni? Se un genitore va a scuola a difendere ad oltranza i figli, che testimonianza dà? Di cosa ci lamentiamo? Tommaso: una postilla, sull’importanza della memoria. Io sono uno smemorato, com’è noto. Chi dice che la memoria non serve e si sbilancia in questa maniera, prende una cantonata grandissima. Perché bisogna chiedersi: l’uomo com’è fatto? La memoria è importante o no, nella struttura dell’uomo? Allora dobbiamo svilupparla, non possiamo dire che non serve… Si può fare cultura senza memoria? Se i computer sono stati pensati sul modello della mente umana, con la memoria centrale, senza memoria non c’è l’uomo. Senza memoria l’uomo non può fare riflessione, non può fare ragionamenti. Per rendersene conto basta andare a studiare i casi di chi, a causa di un trauma, ha perso la memoria… Gli strumenti devono essere utilizzati per favorire le capacità umane, non per ostacolarle. 30


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Nunzio: diceva Dante: “non fa scienza l’aver inteso senza lo ritener…” (Paradiso, canto V)

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Terzo incontro: Emergenza scuola fra saperi e senso (Castiglione Cosentino, casa Cariati, 5 marzo 2015)

Tommaso: ho conosciuto Giuseppe Limone, autore del testo che abbiamo letto, a Roma una decina di anni fa. Svolgeva una relazione sull’idea di “persona” e il suo approccio mi è apparso immediatamente serio e interessante. Come Limone suggerisce, tutti si sciacquano la bocca col concetto di “persona”, di “solidarietà”, “accoglienza”, “inclusione” ma spesso ripetono frasi fatte, fanno affermazioni retoriche, rilanciano slogan o imbastiscono discorsi deboli, vuoti di contenuti e di pensiero. L’approccio di Limone mi è sembrato immediatamente serio e degno di essere approfondito. Ricordo che mi sono alzato e ho chiesto riferimenti bibliografici che mi aiutassero a capire in quale alveo del sapere, in quale filone di pensiero si muoveva. La cosa che mi colpì più di tutte era il fatto che non parlava della persona in un orizzonte comune, né in un orizzonte etico, ma cercava punti d’appoggio filosofici per fondare un modello epistemologico della persona. In seguito ho incontrato Giuseppe Limone in tre o quattro occasioni. Sono perfino andato a Caserta a seguire un dibattito in un convegno internazionale di studi su Emmanuel Mounier, il fondatore, in Francia negli anni Trenta del ’900, della rivista «Esprit» e del Personalismo comunitario. Giuseppe Limone insegna Filosofia della politica e del diritto alla Seconda università di Napoli ed è poeta. Si tratta di un vulcano sempre in eruzione che produce pensiero originale e bellissimo, proprio come certi zampilli di lava incandescente. Ho avuto l’opportunità di porre domande a Limone e di sentirmi dire da lui che le mie domande gli piacevano. Per esempio, nei giorni scorsi gli ho scritto, chiedendogli un paio di cose, e mi ha risposto che è necessario riflettere molto su quello che sta accadendo all’umanità, e che il cosiddetto post-umano è l’esito della ipertecnologizzazione del mondo, e una tragica illusione se si spera di sostituire il post-umano all’umano. Ho avuto anche l’onore e il piacere di recensire una sua raccolta di poesie intitolata Notte di fine millennio. Premesso questo, vi dico subito che potrei condividere molti pensieri sul breve testo che avevamo per oggi, a cominciare proprio dal titolo, ma non mi dilungherò perché forse presto potremo incontrarlo a scuola nel ciclo di conferenze che stiamo mettendo in piedi sul tema Quale uomo, quale cultura, quale scuola per il XXI secolo? e ognuno potrà abbeverarsi direttamente a una sorgente poderosa e cristallina. Parto dal titolo: L’emergenza Scuola e Università fra i saperi e il senso: per alcune considerazioni inattuali. I termini “emergenza”, “saperi e senso”, 32


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“considerazioni inattuali” mi invitano a nozze. Si parla di discipline, di materie, di scienze, negli ultimi tempi sempre più spesso solo di “saperi” e si pensa soprattutto alle conoscenze o alle nozioni tecnico-scientifiche, perfino in ambito umanistico, anche perché si pensa che questo sia il terreno solido sul quale si costruiscono le competenze con cui forse si mangia. Il resto è poesia, o filosofia, dunque inutile. Quelle cose solide che sono dati, nozioni, conoscenze osservabili e misurabili però oggi stanno nei computer e nelle reti, perciò non serve a nulla memorizzarle, quindi non serve a nulla la scuola. Il problema è che abbiamo buttato il bambino con l’acqua sporca: trascurando il senso delle cose, e considerando solo le cose, oggi siamo rimasti con un pugno di mosche in mano. Perciò, mai come oggi, come dice Limone nel titolo, ma non soltanto, e non soltanto lui (Benedetto XVI, per esempio, ha parlato spesso di emergenza educativa), è necessario interrogarsi sul senso della vita, di quello che impariamo, di quello che facciamo, di quello che consumiamo, di quello che comunichiamo. Qui Giuseppe Limone ci parla di cinque forme di catastrofe che incombono sull’umanità, se non ci accorgiamo che occorre cambiare rotta e vivere stili di vita più umani e sostenibili: «I, la sostenibilità in termini di uno sviluppo che non travalichi i limiti oltre i quali c’è la catastrofe ambientale; II, la sostenibilità in termini epistemologici, nello specifico senso che nessuno specialismo scientifico è più radicalizzabile in quanto tale, a pena di catastrofe della stessa scientificità; III, la sostenibilità in termini culturali, nel senso che ogni cultura e ogni visione del mondo debbono saper collocarsi nel quadro di condizioni invalicabili, in cui le differenze possano sussistere come tali, a pena della catastrofe di ognuna e di tutte; IV, la sostenibilità in termini valoriali, nel senso che a nessuna differenza culturale e a nessun mondo delle differenze è possibile svilupparsi se non all’interno di un minimo indiscutibile di valori forti condivisi; V, la sostenibilità in termini di senso, considerando che siamo pervenuti al punto tragicamente maturo – alto e pericoloso – per il quale nessun sapere scientifico può più prescindere dal problema del senso, a pena di catastrofe della stessa scientificità e della stessa civiltà». Per quanto riguarda l’espressione “considerazioni inattuali”, vi dico che Limone parla chiaro con una passione non comune, e quando parla prende di mira stereotipi e luoghi comuni, stanandoli dove meno ci si aspetterebbe di trovarli, allo scopo di costruire una vera e propria ecologia della mente, perché ritiene che siamo tutti un poco intorpiditi e bisognosi di essere liberati dalle pastoie ideologiche, anche quando crediamo che le ideologie siano morte. Ecco, Limone parla un linguaggio se necessario anche politically incorrect perché a lui interessa solo la verità, non risultare simpatico o fare bella figura. 33


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Veniamo ora a qualche altra affermazione che l’autore fa in questo breve scritto. Egli dice che la scuola non deve essere considerata neppure un servizio ai cittadini, e sarebbe già tanto; volevano trasformarla in azienda e l’hanno ridotta a un circo equestre, come dice Pino Caminiti: a un simulacro di se stessa e una parodia dell’azienda. Giuseppe Limone dice che la scuola deve essere un generatore della società civile, una funzione fondamentale dello Stato, come il parlamento, quindi lo Stato deve essere al suo servizio, non il contrario. Ma per poter operare a questo livello ha bisogno di personale qualificato e motivatissimo, di mezzi e risorse finanziarie garantite a livello costituzionale, al riparo della scure del governicchio di turno. Vi pare che oggi la scuola, sia pure con presididirigenti, Lim, wireless e tablet, assomigli vagamente a questo modello? Per nulla; perché abbiamo smarrito il ben dell’intelletto. Abbiamo confuso, come dice Limone, “vecchio” con “antico”, “scienza” con “sapienza”, “modernizzazione” con “civiltà”, dimenticando che al centro dell’interesse della scuola c’è, non la formazione di un lavoratore per l’azienda, ma l’educazione della persona umana, misteriosa, unica, irripetibile, originale, difettiva e perciò costitutivamente relazionale, piccola e finita ma dotata di una sete di immensità che la apre all’infinito. Ecco, una scuola che, parafrasando Limone, coltiva “una ragione che ha perso il rapporto costitutivo con la relazione, con le emozioni, con il senso, gira a vuoto”, avendo perso la ragione. Scrive Giuseppe Limone: «Urge, infatti, oggi, come non mai, la sensibilità al problema del senso, ossia a quel fine in sé, che non ha bisogno di fini a sé esterni per valere come bene e che stempera la sua luce su tutti gli atti e i momenti, anche conoscitivi, che vivono nell’orizzonte di un tal fine. Né va dimenticato che uno di questi frammenti di senso, fini in sé, è la dignità. La dignità di ogni persona, che dà argini alla ragione e varchi alla speranza e che fa sì che una vita – ogni vita – sia, alla sua luce, degna di essere vissuta». Una scuola che pretende di intrattenere le persone sul vuoto o che avalla la richiesta degli studenti di essere luogo in cui loro socializzano liberamente, dal vivo e virtualmente con i mezzi digitali, ma senza mai applicarsi a qualcosa che abbia senso, e senza mai rendere conto delle proprie azioni, ha fallito e può anche chiudere i battenti, con buona pace di tutti coloro che hanno lavorato accanitamente per distruggerla. Paola (ha letto il testo sul sito e ha inviato un breve commento): gli insegnanti non vengono forniti degli strumenti di cui hanno bisogno, perché nella scuola non si producono pacchi ma, come dice Giuseppe Limone, si educano persone. Rosa: la responsabilità di questa situazione però non è tutta dei ragazzi né tutta del sistema. I genitori coccolano troppo i loro figli, arrivando al punto di pretendere di eliminare ogni loro dispiacere o sofferenza. I ragazzi invece devo34


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no imparare ad affrontare gli ostacoli, anche quando si presentano sotto forma di frustrazioni o vengono percepiti come piccole ingiustizie. Chiara: gli insegnanti sono stati via via depauperati del senso del loro essere. Addirittura devono quasi vergognarsi di proporre valori agli studenti. Le famiglie degli alunni ci considerano spesso dei falliti. Giovanna: i valori che vengono proposti agli studenti sono quelli della società corrotta. Chiara: voglio riprendere il filo del ragionamento, partendo da alcuni spunti di riflessione di Giuseppe Limone. Gli insegnanti sono magistrati di una funzione pubblica, che consiste nell’istruire, educare, formare, far pensare. Leggendo il testo apprendiamo poi che Vico mette al centro della civiltà il senso del pudore, il sentimento del confine, violando il quale non c’è che la catastrofe. Limone dice che bisognerebbe immettere in qualsiasi scuola, di qualsiasi tipo, discipline di carattere critico-filosofico, non per aggiungere materie ma nella logica di “più alti sguardi conoscitivi e di nuove interazioni”, e invece lo sguardo criticofilosofico è stato eliminato anche dalle discipline che lo permetterebbero. Tommaso: un tempo si diceva “la matematica serve a sviluppare il raziocinio”, “la poesia serve ad affinare lo spirito”. Chi si preoccupa oggi dello spirito e del raziocinio? Vi ricordo che già una decina di anni fa un preside mi disse: “Professore, andiamo avanti, non facciamo filosofia”. Iole: sono d’accordo con Limone. Sembra che oggi siamo andati davvero in profondità. C’è bisogno di dignità della persona e del senso del limite. In Cina, dove sono stata alcuni mesi fa, andare a scuola è ancora un privilegio. In Italia invece la scuola per tutti è stata fraintesa. Secondo me la crisi della scuola inizia con l’abolizione degli esami di riparazione, e prosegue con il preside che diventa dirigente. America: l’abolizione degli esami di riparazione voleva essere un passo avanti verso il principio di uguaglianza delle opportunità per tutti. Si è trattato di un atto costituzionalmente corretto. Purtroppo però gli studenti hanno bisogno di essere accompagnati da adulti nei quali si abbia fiducia e socialmente riconosciuti come essenziali. Emilia (ha letto il testo sul sito e ha spedito un appunto): benché abbia lasciato la scuola da diversi anni, condivido quanto sostenuto da Giuseppe Limone sull’ignoranza sempre più diffusa dei ragazzi e sulla mancanza di senso nella vita dei giovani e, forse, anche in quella dei loro genitori. Nella scuola non si 35


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parla pi첫 di educazione e di pensiero ma di economia e tecnica, il colpo di grazia per un sistema che per generazioni ha garantito un servizio fondamentale.

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Gita di SOS scuola da Santojanni a Monte Scuro (24 maggio 2015)

Partecipanti: Tommaso Cariati, Rosina Filippelli, Anna Garofalo, Chiara Marra, Paola Troiano

Viburni (foto di Paola Troiano) 37


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Paola e Tommaso (foto di Chiara Marra)

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Il lago di Cecita visto dal valico di monte Scuro (foto di Chiara Marra)

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Sotto il crocifisso del valico di monte Scuro (foto di Chiara Marra)

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Anna e Chiara sulla via del ritorno (foto di Paola Troiano)

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Gita di SOS scuola a monte Luta (7 giugno 2015)

Partecipanti: Tommaso Cariati, Rosina Filippelli, Anna Garofalo, Chiara Marra.

La valle del Crati (foto di Rosina Filippelli)

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Osservando il panorama (foto di Chiara Marra) 43


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In cammino (foto di Rosina Filippelli)

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Il mar Tirreno visto dal crinale (foto di Tommaso Cariati)

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Chiara e Tommaso al rifugio (foto di Rosina Fillippelli)

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Anna, Chiara e Rosina al rifugio dopo il pranzo al sacco (foto di Chiara Marra)

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Camminatori (foto di Chiara Marra) 48


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Gita di Sos scuola da Le Castella a Strongoli (28-29 agosto 2015, di Chiara Marra)

Ci siamo incontrati, Tommaso ed io, la mattina di venerdì 28 agosto nei pressi di Crotone, con Rosa, Paola e Maria, una cugina di Rosa che sarebbe venuta con noi nella visita ai diversi luoghi. Prima tappa Le Castella, per il giro sul battello con il fondo trasparente per apprezzare il fondale della riserva marina di Capo Rizzuto. La cosa più bella è stata arrivare dal mare nei pressi del Castello

e poter fare il bagno. La vista dei fondali è stata piuttosto deludente: abbiamo potuto apprezzare solo la Posidonia oceanica

e un relitto forse di epoca romana. Inoltre ci ha colpito molto negativamente aver visto uno scarico da cui sgorgava detersivo, nei pressi del porticciolo di Le Castella, in piena riserva marina protetta… Per fortuna subito dopo ci siamo spostati a Isola Capo Rizzuto per visitare l’Aquarium, piccolo ma ben allestito, dove siamo stati ammessi anche a vedere 49


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due esemplari di tartaruga Caretta Caretta che venivano curati nel Centro di recupero.

Dopo un veloce pranzo al sacco, e una passeggiata lenta sul lungomare verso la bellissima torre, siamo partiti alla volta di Capo Colonna, per andare a visitare l’area archeologica e il museo. Ad un certo punto, però, lungo la strada, ci siamo imbattuti nel cartello che indicava il monastero delle carmelitane scalze. Abbiamo fatto lì una breve sosta e ne abbiamo approfittato anche per salutare Isabella Gagliardo, suora in quel monastero da 14 anni. L’area archeologica di Capo Colonna è abbastanza curata, il museo è ben allestito e si può visitare gratuitamente.

A sera, Tommaso ed io ci siamo fermati a Torre Melissa, ospiti di Rosa e Paola, che ci hanno offerto anche una gustosa cenetta. 50


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Il giorno dopo, guidati da Francesco Colombraro, abbiamo affrontato la visita a Strongoli. Il prof. Colombraro ci ha mostrato di tutto: presunte zone archeologiche ricoperte da cemento, piazze, chiese, castelli, monumenti, dandoci un’idea molto ricca di come dovessero essere il paese e la zona circostante centinaia e centinaia di anni fa.

Dopo pranzo abbiamo riposato un po’ e poi abbiamo trascorso un paio d’ore sulla spiaggia. A sera Paola e Rosa ci hanno tenuto a farci rimanere con loro e ci hanno portato a Cirò marina a mangiare la pizza al Turriazzo e il gelato in una buonissima gelateria di fronte al Museo civico. La mattina di domenica, dopo la messa, siamo ripartiti per tornare a casa attraverso la Sila che ci ha regalato, come sempre, aria fresca e paesaggi incantevoli.

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Quale uomo, quale cultura, quale scuola per il XXI secolo? Ciclo biennale di incontri

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Quale uomo, quale cultura, quale scuola per il XXI secolo? Progetto per orientare studenti e docenti nella società complessa di Tommaso Cariati 0. Premessa Il mondo nel quale viviamo è stato detto da alcuni complesso, da altri globalizzato, da altri ancora liquido, da qualcuno post-post-moderno o addirittura post -umano. La società viene variamente qualificata come liquida, frammentata, digitale, virtuale. La persona, che in questo mondo deve vivere, percepisce una realtà nella quale tutti, omettendo di spiegare le ragioni e il senso di iniziative, proposte, pretese, la spingono o la strattonano di qua e di là, fondamentalmente ciascuno per il proprio tornaconto o in base al proprio disorientamento. I giovani, percependo in genere il mondo come opaco e spaventoso, la vita priva di senso, il futuro inesistente, si adeguano a vivere alla giornata, eterni bambini inchiodati nel presente o patologicamente legati al passato. In questo conteso, il mondo dell’educazione e dell’istruzione, se si eccettuano pochi casi felici, anziché svolgere il ruolo di guida o, come scrive Giuseppe Limone, di rigeneratore della società civile, turbato dalla crisi generale, dai continui mutamenti del quadro legislativo, dalla burocrazia, dal linguaggio e dai metodi economico-ingegneristici, a volte tayloristici, anche se verniciati di modernità digitale, non di rado si avvita su se stesso annichilito come sotto un diluvio universale. 1. Motivazione In questo paesaggio può accadere, ed è accaduto, che uno studente di una scuola pubblica, rappresentante d’istituto, si presenti dal dirigente chiedendo di invitare, nell’ambito della “giornata della didattica alternativa”, uno studioso, un matematico, uno scienziato famoso affinché ci illumini su questioni cruciali della vita e dell’istruzione. Ebbene, questo progetto ha lo scopo di raccogliere la richiesta dello studente, leggendovi una domanda di senso che agita gli adolescenti, che in genere rimane inascoltata, di portata ben più vasta di quello che appare, ma anche avvertendo i rischi che si corrono affidandosi a questo o a quel maître à penser, magari autoproclamatosi tale e celebrato dai mezzi di comunicazione di massa, per cercare insieme la via di casa. 2. Idea progettuale Il progetto consiste in un ciclo di dieci o dodici conferenze che studiosi di diverse aree disciplinari, come Piercarlo Maggiolini, docente di Etica digitale del Politecnico di Milano e presbitero, Giuseppe Limone, docente di Filosofia della politica e del diritto della Seconda università di Napoli e poeta, Gino Crisci, Rettore dell’Università della Calabria, Pino Stancari, biblista e presbitero gesuita, 53


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Piergiorgio Odifreddi, matematico e saggista ateo, svolgeranno a turno presso la sede dell’IIS ITE“V. Cosentino”-IPA “F. Todaro” di Rende sul tema generale “Quale uomo, quale cultura, quale scuola per il XXI secolo?”. Ogni studioso affronterà liberamente il tema generale, partendo dal punto di vista della propria area di ricerca e in base alle proprie convinzioni, offrendo una relazione circostanziata di quaranta minuti e sostenendo, subito dopo, il dibattito con studenti e docenti. Ogni conferenza avrà il titolo che lo studioso vorrà darle; il testo della relazione, fornito dall’autore, e una sintesi del dibattito, a cura dell’istituto, verranno pubblicati in un apposito sito web in modo che i conferenzieri successivi, preparando ciascuno il proprio intervento, potranno giovarsi delle riflessioni prodotte fino a quel punto. Il progetto verrà pubblicizzato nelle altre scuole di Rende e, con modalità da concordare di volta in volta con gli organizzatori, classi o gruppi di interesse esterni potranno partecipare alle conferenze. I testi integrali delle relazioni, come consegnati dagli autori, e quelli del dibattito, integralmente o rimaneggiati, potranno essere pubblicati, oltre che nel web, anche in apposite opere editoriali, per le quali si intende che gli autori sono d’accordo. 3. Soggetti promotori I soggetti promotori del presente progetto sono l’IIS ITE “V. Cosentino”-IPA “F. Todaro” di Rende e il gruppo Sos scuola, il quale, in piccolo, ha già promosso, per il suo decimo anniversario, l’apertura di un proprio cantiere sul tema di questo progetto. 4. Soggetti fruitori Il progetto è rivolto in primis agli studenti delle quarte e delle quinte classi dell’istituto promotore e ai docenti che saranno in servizio con quelle classi nelle ore in cui le conferenze avranno luogo, e indirettamente a tutti i docenti. Il progetto si rivolge però anche a tutte le scuole di Rende e, indirettamente, alle famiglie degli studenti, anche tramite il web. 5. Tempi di attuazione Il ciclo di conferenze avrà inizio nel mese di marzo 2015 e proseguirà tutto l’anno scolastico 2015/2016, con cadenza mensile. Ogni incontro avrà la durata di circa due ore e si svolgerà preferibilmente dopo la ricreazione. 6. Modalità di attuazione e pubblicizzazione Per ogni incontro verrà stampato un manifesto che recherà, oltre al titolo generale: “Quale uomo, quale cultura, quale scuola per il XXI secolo?”, il titolo particolare, la data, l’ora e il luogo dell’incontro. Copia del manifesto verrà inviata a tutte le scuole di Rende e al Comune ed affisso in tutte le sedi dell’IIS. La notizia dell’incontro verrà pubblicata, oltre che sugli organi di informazione locali, sia sul sito dell’IIS ITE “V. Cosentino”-IPA “F. Todaro”, sia sul sito del gruppo Sos scuola, all’indirizzo www.sos-scuola.it, sul quale verranno pubblicati tutti i materiali relativi alle varie conferenze. Le classi saranno coinvolte attivamente in un lavoro di preparazione, di partecipazione e di reportage in un processo di didattica attiva, cooperativa e laboratoriale. 54


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7. Spazi e mezzi Gli incontri avranno luogo nell’auditorium “Giovanni Paolo II” dell’IIS ITE “V. Cosentino”, via Repaci, Rende. Altri strumenti disponibili sono: impianto di amplificazione, collegamento alla rete, videoproiettore, Lim, un certo numero di tablet, libri degli studiosi e biblioteca, Internet, giornalino, Facebook, sito web del gruppo Sos scuola. 8. Ricadute sulla didattica Il progetto produrrà conoscenza e consapevolezza negli studenti e negli altri fruitori, diretti e indiretti. Genererà spirito di iniziativa e di collaborazione e sprigionerà energia motivazionale in tutti i partecipanti. Produrrà anche competenza in quanto impegnerà praticamente gli studenti nella redazione di domande, nell’uso di un microfono davanti a un pubblico, nella redazione di testi di sintesi e di articoli, nella produzione di ipertesti e filmati per il reportage. 9. Prodotti I prodotti che potranno vedere la luce sono, in itinere, le relazioni degli studiosi, le sintesi dei dibattiti a cura degli studenti, ambedue i tipi per il sito del gruppo Sos scuola, articoli per il giornalino della scuola e per la stampa locale; periodicamente, il bollettino di Sos scuola; alla fine, un’eventuale opera a stampa in cui raccogliere gli atti del percorso. 10. Criteri di valutazione Il successo del progetto verrà valutato sia in itinere, sia alla fine del percorso. Alcuni parametri di valutazione sono: a) grado di impegno e coinvolgimento degli studiosi; b) livello dei contenuti, grado di chiarezza e calore delle comunicazioni; c) livello di partecipazione al dibattito; d) grado di impegno e partecipazione di studenti e docenti nelle fasi di preparazione, attuazione e reportage di ogni incontro; e) crescita negli studenti dell’interesse, dell’attenzione e della motivazione anche nello studio quotidiano.

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Un umanesimo senza fanatismi, laico e razionale, per cogliere appieno le proporzioni nel rapporto uomo-natura e costruire una società libera, carica di etica civile (Auditorium ITE “V. Cosentino”, 19 marzo 2015)

Giulio Iovine Ricercatore CNR, professore all’Unical di geologia applicata Questi i principali punti trattati: Laicità: solo in uno stato laico credenti e non credenti sono uguali. Scienza e fede, un rapporto problematico, da Galileo Galilei ai giorni nostri. L’onere della prova, la tolleranza, il potere delle religioni organizzate. Appena la Chiesa è divenuta religione di stato ha assunto una posizione egemone sulla società. Il drago nel garage di Carl Sagan. Una storia fantastica usata come metafora della non scientificità della fede. Le religioni dovrebbero essere sostenute economicamente soltanto da chi le segue, mentre nessuno è al corrente dell’entità dei fondi pubblici che in un modo o in un altro sostengono la Chiesa cattolica. Stefano Sangiovanni Ingegnere dell’informazione, attivista politico, coordinatore del circolo Uaar di Cosenza Democrazia e sovranità In democrazia la sovranità appartiene ai cittadini; in Italia lo afferma l’articolo 1 della Costituzione. Ai cittadini e a nessun altro; nemmeno a dio, ad esempio, come talvolta viene affermato più o meno esplicitamente, o comunque inteso in senso lato dalla Chiesa e dai papi: quante volte abbiamo sentito dire a papa Ratzinger che “la sovranità ultima è di dio”. Se le persone non sono titolari della sovranità allora non possono che essere sudditi di altro sovrano, come peraltro per secoli è stato. Sovranità a dio e ai cittadini non sono conciliabili: nel primo caso si tratta di teocrazia, e solo nel secondo caso di democrazia. I gruppi fondamentalisti esprimono in modo categorico questo principio: ad esempio affermando che il Corano è la fonte costitutiva di uno Stato. In tale contesto non ci sono cittadini ma fedeli. I cattolici fondamentalisti chiedono la stes56


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sa cosa: che la fonte primaria di ispirazione dell’ordinamento sia il proprio testo sacro, cioè che in qualche misura le leggi dello Stato si adeguino alle leggi della bibbia e ciò che vale come legge per i fedeli valga per la generalità delle persone. In altre parole, sintetizzando, ciò che è peccato deve essere reato. Eppure la religione dovrebbe occuparsi delle anime, in particolare dell'amministrazione futura, post-mortem delle stesse. Ma storicamente non è stata mai questa l'impostazione che ne ha dato la Chiesa. Anzi, la Chiesa non ha fatto altro che occuparsi dell’amministrazione terrena, condannare sistematicamente le manifestazioni implicite ed esplicite di sovranità dei cittadini in termini di rivendicazione dei diritti delle libertà individuali. Sovranità di dio e quella dei cittadini sono dunque inconciliabili, a meno che ognuna di esse riconosca all'altra uno spazio in cui la sovranità della prima si ritrae non possa esercitarsi. Definire questi spazi vuol dire stabilire cosa è di dio e cosa e di cesare, ed essere però anche disposti a stabilire chi deve essere il rappresentante della volontà di dio. Ma di quale dio? Come deve essere impostato l’ordinamento di fronte alle tante forme di religioni? In uno regime laico lo Stato non favorisce ne sfavorisce nessuna delle esperienze religiose, le quali agiscono liberamente e si confrontano in regime di parità, nel rispetto della legge (art. 3 della costituzione). In questo modo lo Stato laico si comporta esattamente come se le religioni non ci fossero. Lo stato è di per sé una società perfetta: non ha bisogno di nessuna Chiesa, ma Chiesa e Stato sono indipendenti e sovrani (art. 7 cost). Il confronto paritario è caratteristica dei sistemi laici, perciò anche questa (l’iniziativa dell’ITE di Rende) rappresenta una iniziativa laica benemerita. Cosa accade nei fatti Democrazia e laicità, a parole tutti dicono di volerle, ma nei fatti? Stato laico e democratico vuol dire uguaglianza, pieno diritto di cittadinanza per tutte le espressioni, di pensiero e di vita, non mera tolleranza. È quello che accade nella realtà? Vediamo. Si dice dalle parrocchie, dalle televisioni, persino i politici lo dicono: l'omosessualità è un peccato contro natura, quindi deve essere vietata o non riconosciuta, o al massimo vissuta in clandestinità. Cioè tollerata. Ancora una volta, per la Chiesa e per i fondamentalisti il peccato deve essere reato. Altri casi. L'aborto è un peccato, quindi deve essere impedito dagli obiettori; l'uso dei contraccettivi e la stessa educazione sessuale deve essere disincentivata (il tema dell’educazione sessuale, anche se importantissimo, è sottratto dalle scuole e dai media). Emblematico l’incitamento di Giovanni Paolo II a farsi obiettori “di coscienza” per impedire doveri professionali: eppure l’aborto è un diritto. (È forse per la valenza di questi tipi di messaggi contro la democrazia che questa scuola ha voluto dedicargli l’auditorium?). 57


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Senza soffermarci nella specificità di tanti casi diversi, abbiamo la costante riproposizione, magari in forme più accorte, più sofisticate, del vecchio principio teocratico: peccato è reato. Una teocrazia soft, che pur sempre teocrazia è. Ancora ad esempio, per Ratzinger: “l'uomo può esercitare la propria democrazia ma solo nell'ambito della legge naturale impressa da Dio”. Limiti alla democrazia Chiediamoci se è opportuna una democrazia senza limiti? La risposta è No. Questo lo dicono anche i papi. Hanno ragione? A fronte di medesime conclusioni ci possono essere ragioni diverse, e molto contrastanti. Esistono infatti modi diversi per limitare la democrazia. I “Limiti teocratici alla democrazia” teorizzano il concetto della “laicità sana” e il pericolo relativismo del pensiero. Ma con questo si intacca la condizione essenziale della democrazia, e lo si fa proprio per porre limiti alla uguaglianza sostanziale delle parti in causa al fine di preservare una supremazia: senza privilegi non si conserva il potere. I limiti costituzionali alla democrazia, viceversa, tendono alla tutela dei diritti inalienabili dei cittadini, diritti che nessuna maggioranza deve poter cancellare. Anche nei sistemi democratici senza la definizione e la tutela di una sfera di libertà individuale si correrebbe comunque il rischio di dispotismo della maggioranza. Si faccia riferimento ad esempio al caso della rivoluzione francese o della rivoluzione russa: esperienze partite da nobili principi di democrazia e sfociate poi nella imposizione e nella repressione autarchica di maggioranze sempre più ristrette. La libertà di una sfera individuale non soggetta alla logica democratica delle maggioranza è allora la clausola di salvaguardia per la democrazia. È proprio questo genere di limitazione costituzionale una garanzia affinché la sovranità democratica non possa essere esercitata contro se stessa. La sovranità dei cittadini va vista dunque anche come esercizio individuale e non solo collettivo. La libertà di ogni cittadino di avere riconosciute le proprie individuali concezioni del mondo. Non solo tollerate rispetto a quelle prevalenti, ma riconosciute con paritario diritto di cittadinanza. Per far sì che permanga la democrazia bisogna far sì che ciascuno possa aver garantito che i suoi diritti fondamentali non siano messi in discussione da alcuna maggioranza: libertà di pensiero e di espressione; libertà di decidere chi frequentare, chi amare, con chi sposarsi, come curarsi e anche come morire. La laicità quale limite costituzionale di garanzia democratica, è un principio fondamentale, anzi primordiale di civiltà, che garantisce lo spazio di libertà per tutti (anche per la stessa chiesa cattolica). Eresie in libertà Libertà di espressione è anche libertà di satira, di dissacrare il potere, compreso quello religioso. Nel caso tragico dell’attentato al Charlie Hebdo abbiamo 58


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visto tante manifestazioni di solidarietà alle vittime, eppure insufficienti: perché è stata condannata la brutalità del gesto ma non l’effettivo attentato alla laicità e quindi alla democrazia. Si consideri che nel sistema illiberale italiano il problema non si sarebbe posto, perché quel tipo di giornale sarebbe stato censurato sin dall’inizio. La satira spesso offende e uno ci può rimanere anche molto male. Ma è proprio questo lo spazio di libertà: poter dissacrare ciò che per gli altri è sacro e intoccabile; poter mettere in dubbio ciò che per gli altri è fuori discussione. Democrazia è allora il diritto ad essere eretici (il caso Galileo o Giordano Bruno ci insegnano). Chi non ci sta lo fa perché vuole difendere il suo privilegio antidemocratico. Emblematico è stato il commento di papa Francesco all’indomani della strage di Charlie Hebdo: “Se uno offende la madre è normale che poi riceva un pugno”. Tra l’altro è quello che disse anche Gesù (!): se uno vi da uno schiaffo, voi dategli un cazzotto. Sciocchezza illiberale che pure nei media italiani non ha minimamente ricevuto la critica che avrebbe meritato. Sarebbe stato educativo affermare che in uno stato civile alle offese eventualmente si risponde in tribunale e mai con l’arbitrio della violenza. Non importa cosa ci piacerebbe sentir dire e cosa invece non vorremmo mai sentire: è il monito di Charlie Hebdo nel paese di Voltaire: “non approvo quel che dici ma difendo il tuo diritto a dirlo”. La questione di laicità è una questione di principio democratico, che va presa in serissima considerazione perché è questione massimamente concreta, di cui ne va della nostra esistenza in tutti i suoi aspetti più profondi. In conclusione: la laicità è presidio di democrazia. Chi si rifugia unicamente nelle maggioranze, chi non ammette la concreta applicazione della laicità, non è democratico. La differenza tra i due tipi di limiti di cui abbiamo parlato fa emergere la differenza tra L'etica civile e l’etica religiosa o dogmatica. L’etica civile, è etica sociale e nello stesso tempo individuale; etica della cittadinanza, della libertà e della democrazia. Essa si contrappone all'etica della paura ed è diametralmente contraria all'Etica della Verità. L’etica civile è etica del relativismo, del rispetto reciproco. È etica laica. La laicità può e deve appartenere a tutti, credenti e non credenti. Laico è chi antepone la propria coscienza ai miti e ai tabù; non laico è chi antepone il magistero di un potere. Così ci possono essere credenti laici (i cosiddetti cattolici adulti) e non credenti non laici (cosiddetti atei devoti). I primi usano lo spirito critico, i secondi lo spirito dogmatico, cioè ancorato a dei concetti fissi o a delle entità di potere. Essere laica, critica e razionale, animata da etica civile, cioè da etica di cittadinanza, è l'augurio che facciamo alla nostra società e dunque a voi. 59


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Antonio Malfitano Insegnante di scienze, produttore artistico cinematografico e teatrale Quale apostolo tradì Gesù? Quanti sono i comandamenti cristiani? Chi ha costruito l’arca del diluvio? In molti conoscono le risposte a queste domande. Pochi però sanno che Gesù aveva quattro fratelli (Marco 6, 2), che gli autori dei vangeli non lo hanno mai conosciuto, che egli era ebreo e non cristiano. La maggioranza dei cattolici non ha mai letto i vangeli, pertanto è disinformata sul proprio credo. La conoscenza dei vangeli canonici e apocrifi, le analisi filologiche dei testi sacri, la critica della storia del cristianesimo sono informazioni indispensabili affinché un individuo, credente o meno, maturi il senso critico atto a porsi legittime domande (ed eventualmente a trovare le proprie risposte) sulla fede e le religioni. Il dubbio, la curiosità, la ricerca dei “perché” costruiscono lo scetticismo che portano alla comprensione (per chi poi si definisce ateo) che non è Dio che ha creato l’uomo, bensì l’uomo che ha creato Dio. L’anticlericalismo è maggiormente avvertito nelle questioni inerenti la libertà dell’individuo come essere vivente. Religioni e fanatismi negano il diritto a non credere, censurano le idee, impongono l’etica religiosa con l’ingerenza nelle leggi dello Stato, che dovrebbe essere laico per Costituzione. L’etica è invece intima, diversa da individuo a individuo per concezione genetica, pertanto va rispettata e salvaguardata dalle intolleranze. Vivere da atei significa anche difendere e rispettare l’etica individuale, nel rispetto delle libertà e dei diritti altrui, secondo il nichilismo positivo: “non esistono fenomeni morali, ma solo interpretazioni morali dei fenomeni” (Nietzsche). Atei si nasce, credenti si diventa: forse l’uomo non può vivere senza Dio? La storia dell’uomo insegna che le divinità sono alienazioni per facilitare la comprensione dell’incomprensibile ed affrontare le paure di malattie e morte. Tali paure possono essere sconfitte dalla ragione, dalla concezione del ruolo dell’uomo nell’universo, dalla comprensione delle leggi fisiche quali l’entropia, dal senso di evoluzione come individuo (oltre-uomo) e civiltà, così da vivere bene senza Dio.

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Dibattito seguito all’incontro con Stefano Sangiovanni, Giulio Iovine e Antonio Malfitano (appunti di Anna Crocco, Francesca Viteritti, R. Maria De Rose)

Avviato il 19 marzo il ciclo di conferenze sul grande tema Quale uomo, quale cultura, quale scuola per il XXI secolo? all’IIS “Cosentino”-“Todaro” di Rende. L’incontro si è svolto nell’auditorium dell’istituto, in via Repaci. La dirigente Brunella Baratta ha introdotto i lavori e ha presentato il progetto biennale che prevede una dozzina di eventi. Sono intervenuti Stefano Sangiovanni, coordinatore del circolo Uaar di Cosenza e ingegnere dell’informazione, Giulio Iovine, ricercatore CNR e professore di geologia applicata, Antonio Malfitano, produttore artistico e teatrale.

I relatori hanno cercato di illustrare un tema scottante, in tempi di attentati terroristici di matrice religiosa: come vivere “un umanesimo senza fanatismi, laico e razionale, per cogliere appieno le proporzioni nel rapporto uomo-natura e costruire una società libera, carica di etica civile”. Ha coordinato il dibattito Tommaso Cariati, docente di informatica, fondatore e animatore del gruppo Sos scuola, che ha promosso il progetto insieme all’istituto. 61


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Gli studenti, i docenti, i tirocinanti hanno partecipato attivamente al dibattito, sapendo di vivere in un mondo complesso e frammentato, in cui urge dotarsi di una bussola per non sbandare. Andrea Chiappetta, rappresentante degli studenti in seno al consiglio d’istituto, che aveva sollecitato l’incontro, ha dichiarato la sua soddisfazione perché il tema gli sta molto a cuore. La domanda che ha posto ai relatori è stata: «Può esistere veramente un ordinamento laico in Italia se poi si fanno passare i Patti lateranensi e i crocifissi nelle scuole come residuo storicoculturale?». Alessandro, un tirocinante, dice che la sua esperienza nella Chiesa in quanto cattolico è più che positiva. Rivolgendosi ai ragazzi, domanda se hanno chiesto questo incontro in cui parlare di laicità perché vedono la Chiesa e la loro vita solo come una serie di regole e di proibizioni. Risposta di uno dei relatori: noi non siamo qui per cercare di convincere le persone ad essere atee, anzi non è nel nostro interesse. Io personalmente credo che Gesù è un patrimonio dell’umanità. Volevo dire ai ragazzi: pensate con la vostra testa, informatevi e prendete le vostre decisioni senza farvi influenzare e poi scegliete la vostra strada. La professoressa Girone chiede un approfondimento sui concetti di laicismo, laicità e ateismo. Alfio Moccia, docente in pensione dell’istituto e membro del gruppo Sos scuola, ha invitato tutti a considerare che nessuno possiede la verità, nessuno è ateo in eterno e qualcuno può anche perdere la fede.

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Quando ho scoperto che io non sono Dio Incontro con Pino Stancari s.j. (Auditorium ITE “V. Cosentino”, 26 marzo 2015, appunti di Chiara Marra)

Non mi capita spesso di parlare in una scuola, ma sono consolato dall’incontro con i giovani. Più invecchio, più mi piace prendere contatto con i giovani. Non so cosa scopriremo insieme, ma certo salterete due ore di scuola. Il titolo a cui alludeva la vostra preside ha a che fare con l’esperienza autobiografica e questo è sempre difficile. Vorrei dirvi qualcosa di mio, ma per essere più incisivo vorrei iniziare da quattro parabole che vi abbiamo fornito in fotocopia. Primo testo: Mt 13,44 44

Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo.

Il regno dei cieli: c’è una scoperta nella vita, una scoperta che, con qualche regressione, ci fa rendere conto che c’è qualcosa che conta nella vita, che dà senso alla vita. Quest’uomo si è impegnato nel corso della vita, a lavorare su quel campo, e adesso succede che trova un tesoro nel campo. Non lo trova in un altro posto, giocando alle macchinette o in un gratta e vinci, ma in quel campo. Trova un tesoro e lo nasconde. Perché? Perché non se lo porta a casa? Lo nasconde e, pieno di gioia, vende tutto, mette in gioco tutto e poi compra il campo. Poteva portare via il tesoro, nessuno ne sa niente, ma non lo fa. La gioia dell’uomo è quella di chi sperimenta che c’è un motivo per mettere in gioco la sua vita e comprare il campo. Nella fatica della vita c’è una gioia, un dono straordinario che lo convince di come sia importante mettere in gioco tutto quello che lui ha e che lui è. È un richiamo importante per come sono andate le cose nella mia vita. Ho scoperto che il mondo gratuitamente mi è donato, ho scoperto che il tesoro sta nella mia vita quotidiana, nel mio lavoro, nel mio studio, nei miei rapporti con gli altri. Così ho scoperto che io non sono mio, ma sono parte di un dono, di un tesoro la cui scoperta genera una gioia indescrivibile.

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Secondo testo: Mt 13,45-46 45

Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; vata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra.

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tro-

Qui la scena cambia. Il mercante è alla ricerca di pietre preziose. Perciò è sempre in giro ed è in cerca di avventure. Ad un certo punto, trova una perla di grande valore. Una, cioè l’unica perla di grande valore. Quel tale ha trovato quell’unica perla che è per lui. Per questo vale tanto. Perché è per lui. Quella perla sta a dimostrare che sono stato atteso, visitato da qualcuno che ha pensato a me. Per me c’è la scoperta che qualcuno si è preso cura di me, che qualcuno mi ha pensato, preparando quella perla che è per me. Io ci sono perché appartengo a qualcuno che mi ama, mi considera, mi stima. Appartengo a qualcuno che mi ha pensato, mi ha atteso, mi ha amato. Allora posso abitare in un angolo di mondo, ma è quell’angolo di mondo che riguarda proprio me. In questo io trovo il gusto di essere amato. Qualcosa di simile mi è capitato. Nella mia misura umana io sono straordinariamente amato. La mia vita è l’occasione propizia per scoprire che qualcuno mi ama. Terzo testo: Mt 13,31-32 31

Espose loro un'altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. 32Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell'orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami».

Il granellino di senape è minuscolo, ma poi cresce e diventa un albero enorme. La parabola non parla solo del passaggio dal piccolo al grande, ma dice che quando quell’albero è cresciuto diventa dimora degli uccelli. Allora la crescita sta in una esperienza qualitativa. Diventiamo grandi man mano che impariamo ad accogliere gli altri nella nostra vita. Man mano si amplia l’orizzonte di questa accoglienza, benché io sia limitato nella mia esistenza. Io ci sono, io esisto, in quanto accolgo. Io ci sono per scoprire che gli altri fanno parte di me e che io ho bisogno di essere accolto. Non potremmo mai vivere se non accogliamo e se non siamo accolti. È una scoperta che mi conduce lontano dalla pretesa di gestire il mondo a mia misura.

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Quarto testo: Mt 13,33 33

Disse loro un'altra parabola: «Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata».

Si parla sempre della scoperta che viene raffigurata attraverso l’immagine del lievito nella farina. Al v. 33 c’è l’aggettivo tutta. Quel pizzico di lievito sono io, è ciascuno di noi. Io ci sono perché tutta la farina sia fermentata. Io vivo per la vita di tutti. Nel mio piccolo ho fatto questa scoperta: cosa vuol dire che ciascuno di noi, nella sua piccolezza, vive per far vivere tutti, quelli con cui siamo in contatto, ma anche quelli che non conosciamo. La mia vita ha un’ampiezza universale. Vi ho offerto quattro passi che hanno dato senso alla mia vita, ma anche voi siete ricchi di risorse per scoprire la vostra vocazione alla vita.

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Dibattito seguito all’incontro con Pino Stancari s.j. (appunti di Anna Crocco, Francesca Viteritti; supporto tecnico di Maura Bruno)

Quando ho scoperto che io non sono Dio? è stata la domanda che il biblista Pino Stancari s.j. giovedì 26 marzo ha posto a se stesso prima che a studenti e docenti dell’IIS “Cosentino”-“Todaro”. L’incontro si è svolto nell’auditorium Giovanni Paolo II gremito. Esso rappresenta la seconda tappa del ciclo biennale di conferenze sul tema Quale uomo, quale cultura, quale scuola per il XXI secolo? Padre Pino Stancari, come ha detto con un paradosso Tommaso Cariati, è un calabrese di Bologna. Egli infatti si è stabilito in Calabria quaranta anni fa e svolge un’opera di disseminazione dell’evangelo capillare e profonda. Le parole del biblista hanno preso l’avvio da alcune parabole di Gesù e hanno toccato il tema importante del senso della vita. “Io non sono Dio”, “io non sono mio”, “la vita ha senso nella relazione con gli altri”, “la vita è dono che deve essere accettato e donato agli altri” sono alcune delle affermazioni che hanno risuonato nell’aula. Il dibattito è stato interessante e ha messo in luce la grande varietà dei punti di vista nella società complessa e secolarizzata in cui viviamo. La preside Brunella Baratta ha introdotto i lavori ed è intervenuta invitando gli studenti a cogliere con senso di responsabilità tutte le opportunità di crescita che la vita e la scuola offrono loro. Seguite il dibattito sul web all’indirizzo www.sos-scuola.it

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Andrea Chiappetta, IV FM: Come mai dopo la decretazione dei “tre capitoli” nel concilio di Nicea si rende anatema la reincarnazione malgrado anche Gesù e i padri della chiesa ne parlano esplicitamente? P. Pino: Questo tema mi sembra molto lontano da quello che ci siamo prefissi di trattare questa mattina. Marco, IVA SIA: Che cosa dobbiamo pensare, padre Pino, della Trinità? P. Pino: Il mistero di Dio sta nelle relazioni, come la vita sta nella relazione. La Trinità è una fecondità inesauribile nella relazione fra le tre Persone divine. Riguardo al mistero della Trinità c’è da immergersi nel mistero della vita. Non è un principio o un riferimento teorico, ma una pienezza di vita. Michele Lanza, VB SIA: Nello scorso incontro uno dei tre relatori ha affermato che la Chiesa limita nella costituzione italiana la libertà della persona/cittadino, secondo lei è vero? P. Pino: Se la fede è un atto di libertà per eccellenza, tutto ciò che serve a promuovere questo atto di libertà non può andare contro la libertà costituzionale. Francesco Salvati, scuola media di Spezzano Albanese: Perché bisogna imparare il Credo per poter fare la Cresima? P. Pino: Il Credo è un atto di libertà, la fede è l’atto di libertà per eccellenza e imparare il Credo ti aiuta a confermare la fede che i tuoi genitori hanno scelto per te con il Battesimo. Gianluca, tirocinante: Qual è la relazione tra non sentirsi Dio e la possibilità di trovare quella perla di cui parla il testo biblico? P. Pino: Non sentirsi Dio è il presupposto fondamentale per iniziare questo cammino di vita. Morena Cascati, IVC SIA: Cosa ne pensa dell’invidia e delle ingiustizie nelle classi? P. Pino: L’invidia è una delle malattie della relazione, e anche la giustizia va intesa nel contesto delle relazioni con gli altri. È giusta la relazione che sostiene la difficoltà dell’altro. Giacomo D’Ambrosio, VB SIA: Se esiste Dio perché c’è tutto questo male nel mondo? P. Pino: Il male è una malattia della libertà umana, però il dono dell’amore che abbiamo ricevuto è più forte del male. Andrea Chiappetta, IV FM: In un cammino mistico di ricerca divina vi è bisogno di libertà, essa non viene annullata dal cattolicesimo tramite i dogmi? P. Pino: No, perché i dogmi sono un sedimento che serve a favorire la libertà. Emma Perri, VA: Come si può conciliare il razionalismo (e l’utilitarismo) di noi giovani con la fede?

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P. Pino: La razionalità non è in contraddizione con la fede poiché attraverso essa impariamo a vivere. Il mistero non sta “al di là”, il mistero sta qui. È in questa misura di spazio e di tempo che ci muoviamo in un cammino di scoperta. Cosimo Ascente: Padre Pino, cosa ne pensa della scuola? P. Pino: Io mi divertivo moltissimo a scuola (studiando, naturalmente); vi auguro di trovare anche nella scuola le spinte per mettere in gioco la vostra vita.

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Persona, ragione, conoscenza all’altezza del mondo contemporaneo Incontro con Giuseppe Limone (Auditorium ITE “V. Cosentino, 4 maggio 2015, appunti di Rosina Filippelli)

Il prof. Limone ha iniziato il suo intervento dichiarando il suo immenso piacere nel poter lavorare con i docenti che si appassionano alla vita dei ragazzi e ha voluto sottolineare quanto l’apporto di ognuno sia importante per il percorso che ci accingiamo a fare. Tale percorso parte da due punti: 1) l’idea di persona (spesso citata a sproposito); 2) il concetto di complessità. L’idea di persona è antichissima, mentre l’idea di complessità è molto recente, ma sembrano fatte l’una per l’altra tanto si intersecano alla perfezione. Normalmente si dice individuo per intendere persona, ma il prof. Limone ci tiene a spiegare bene le parole, anzi a “riabilitare l’onore delle parole” perché, ritiene che ”se la parola si ferma a se stessa diventa strumento di corruzione”. Per operare il distinguo sui due termini introduce il concetto di “atto gratuito”. La fonte di tale concetto è un’opera di André Gide “Les caves du Vatican” dove si parla di un suicidio che non avendo nessun movente viene descritto come “spontaneo”. Tale leggerezza in un atto così cruento è assimilabile ai moderni video-game dove il sangue fa parte del gioco. D’altra parte durante la Guerra del Golfo i bombardamenti su Bagdad erano presentati come “bellissime stelle filanti”. Che dire della guerra israeliano-palestinese di quest’estate, della quale si mostravano immagini di israeliani che dalle loro fresche terrazze osservavano i bombardamenti su Gaza (ndr). Ritornando al prof. Limone, egli si scusa per la chiarezza di termini che usa, ma asserisce che data l’importanza della scuola è necessario farlo, visto che siamo in una società della conoscenza, e la conoscenza ci porta alla complessità e alla persona intesa come individuo, cioè con il significato di unicità. Bisogna intendere però che “complessità” non si deve confondere con “completezza”, complessità vuol dire avere conoscenze non complete, conoscenze sempre aperte all’imprevedibile. Tutto ciò avviene in un processo che procede velocemente. In tale processo ci sono le persone, cioè noi. Quale è, allora il nostro modo di stare in questa complessità? Possiamo starci secondo la teoria della sola conoscenza scientifica che si compone della teoria, della ideologia e del metodo. Queste componenti, sebbene ci dicono, ad esempio riguardo al diritto positivo, cosa è un diritto (teoria); che un diritto deve essere sancito dallo Stato (metodo), possono anche darci l’idea 69


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errata che ogni cosa messa in atto dal diritto positivo sia ben fatta (ideologia). Usando, quindi, solo queste categorie non si può arrivare alla vera conoscenza. Si dovrà completare lo schema di osservazione introducendo altre componenti come ad esempio: l’Arte, la Religione ecc. Più competenze si intrecciano, più si arriva ad una migliore conoscenza. Quindi dobbiamo concludere che la sola conoscenza scientifica ha dei limiti perché è scardinata dalla scala dei valori; e anche che la sola conoscenza filosofica li ha, perché non è mai specializzata nell’intento di contemplare l’interezza. Pertanto entrambe devono collaborare altrimenti la prima (conoscenza scientifica) diventa ideologia; e la seconda (conoscenza filosofica) rischia di essere dispersiva. Il prof. Limone prosegue affermando che il problema e il significato della vita e della persona si proporranno sempre e non saranno mai definitivi nella loro formulazione, perché legati al concetto di unicità della persona stessa. Attualmente ci si vuole propinare l’idea che noi siamo copie dei modelli che ci vengono proposti e la scienza rafforza questa idea in quanto essa stessa studia dei campioni e osservandone solo l’esteriorità dei comportamenti. Al contrario è necessario sostenere l’unicità della persona in quanto ognuno è un punto di vista o meglio “ogni persona trabocca rispetto alla conoscenza che se ne può avere”. Dalla proporzione Individuo sta alla modernità come persona sta alla complessità che la prima parte della relazione costituisca la scienza moderna e la seconda la scienza della complessità. Nella complessità si inserisce l’atto di esistere di ognuno, la sua dignità che è bene prezioso per tutti. Ogni volta che compiamo una scelta nella libertà, affermiamo noi stessi e proprio la libertà è componente essenziale della conoscenza. Se manca la libertà viene meno la scelta e si ritorna al livello dell’atto gratuito di cui sopra. Si pone legittimamente una domanda: si può contestare usando metodi che non riconoscono la libertà degli altri? Nel rispondere a questa domanda ci si deve rifare ad un concetto che funge da linea guida, il concetto di bene comune. Questo non è mai una scusa per sacrificare le condizioni del singolo a quelle della collettività ma anzi ci deve ricordare che a dare la misura del grado di civiltà di una nazione non è il criterio della maggioranza, ma la condizione di vita degli ultimi.

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Dibattito seguito all’incontro con Giuseppe Limone (appunti di Anna Crocco, Rosa Maria De Rose; supporto tecnico di Maura Bruno)

Come previsto, si è fatta seria e impegnativa la ricerca sul tema Quale uomo, quale cultura, quale scuola per il XXI secolo? all’IIS “Cosentino”-“Todaro” di Rende. Lunedì 4 maggio alle ore 11.15, nell’auditorium Giovanni Paolo II in via Repaci, Giuseppe Limone ha tenuto una conferenza dal titolo Persona, ragione, conoscenza all’altezza del mondo contemporaneo. Il professore Limone è filosofo e poeta, docente di Filosofia del diritto e della politica presso la Seconda Università di Napoli; fondatore della rivista «Persona». Con la terza tappa la ricerca è entrata nel vivo delle questioni che interpellano le persone responsabili del nostro tempo, veloce e complesso: per quale “uomo” produciamo e veicoliamo la conoscenza? quale “uomo” abbiamo in mente quando facciamo un intervento didattico? a quale “uomo” pensiamo quando vediamo i disperati della terra affondare nel Mediterraneo? quale “uomo” hanno in mente i terroristi e i fondamentalisti? a quale umanità pensano le élite economiche e tecniche? Il professore Limone ha presentato il suo punto di vista sulla persona e ha fatto considerazioni sulla libertà, sulla dignità, sulla fecondità, sulla complessità di ogni persona umana. Egli infatti è autore di sviluppi originalissimi del pensiero di Emmanuel Mounier, il filoso francese, scomparso purtroppo giovane, che nella prima metà del secolo scorso ha elaborato una dottrina nota come Personalismo comunitario. Ha aperto i lavori la preside Brunella Baratta, che è anche autrice di un libro sulla complessità. Ha coordinato l’incontro Tommaso Cariati, fondatore del gruppo Sos scuola. Il dibattito è stato intenso e ha messo in luce la grande varietà dei punti di vista nella società complessa e secolarizzata in cui viviamo. Pino Caminiti, docente di lettere in pensione, è intervenuto nel dibattito per sottolineare l’importanza per la scuola di discutere di questi temi. Alfio Moccia, docente in pensione e membro del gruppo Sos scuola, ha evidenziato la necessità di individuare pochi punti essenziali che tutti dovrebbero condividere per costruire un’umanità degna dell’Uomo.

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Andrea Chiappetta, IV FM: Visti degli scontri di questi giorni a Milano contro l’Expo, secondo lei si possono etichettare i gesti vandalici come atti gratuiti nel senso di André Gide, o sono da ricondurre alla voglia di uccidere un Edipo non riconosciuto in famiglia? G. Limone: Alcune persone, purtroppo, hanno voglia di menare soltanto le mani, mentre altri hanno voglia di contestare lo stato, ma se si menano solo le mani c’è alla base un problema educativo. Così facendo non si ottiene nulla dallo stato. Francesco Montalto, V A: Qual è il concetto di normalità nella società di oggi? Quale dovrebbe essere perché ci sia un’umanità eticamente corretta? G. Limone: L’umanità ha il valore delle singole persone. Non ci deve essere nemmeno il più debole, inferiore, sfavorito che soffre perché altrimenti l’umanità è responsabile della sua sofferenza. L’umanità che ci auguriamo è un umanità in cui pur essendo tutti diversi, ognuno si possa esprimere al meglio nel proprio talento. Andrea Maiuri, V A: Perché nella società moderna tutti noi siamo portati ad apparire e a mettere da parte i nostri principi morali, quali sono le cause che hanno portato a questa situazione? G. Limone: Oggigiorno c’è desiderio di apparenza perché in realtà non vogliamo essere emarginati dalla società. Ognuno dovrebbe partire da se stesso in relazione con l’altro per fare comunità.

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Pino Caminiti: Qual è la differenza tra individuo e persona, visto che secondo Jung l’individuo è al livello più alto possibile? G. Limone: Individuo e persona, se consideriamo il punto di vista di Jung, sono due termini che indicano la stessa cosa, però individuo è più generico e corrisponde a un numero mentre persona è l’individuo guardato col suo volto, guardato ancora più individualmente.

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Alessia Lanni, VB SIA: Dato che si è discusso molto della persona ed è stata citata la dignità, cos’è la dignità? G. Limone: La dignità è sempre la singola persona distinta da ogni altra e in quella singola persona risiede il bene comune. Alfio Moccia: Come possiamo fare per avere un sistema di valori condiviso? G. Limone: Ognuno in quanto esiste, esiste prima che lo stato dice che esiste. I valori si capiscono solo dopo la catastrofe.

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Don’t Repeat Yourself Knowledge can keep us warm and DRY Incontro con Giuseppe Vincenzi (Auditorium ITE “V. Cosentino”, 6 maggio 2015)

La sigla che cito nel titolo di questo articolo è uno dei principi della programmazione informatica: citarlo mi è sembrato opportuno parlando di educazione all’informatica e alla programmazione. Ma cos’è la programmazione informatica? O ancora più genericamente cos’è l’informatica oggi per un giovane? Probabilmente la risposta che molti daranno a queste domande, finirà per descrivere l’informatica e soprattutto la programmazione informatica, come un mondo chiuso e fatto per ingegneri e appassionati quasi patologici dei computer e dell’elettronica. Non a caso ormai la figura dello sviluppatore è costantemente associata alla parola NERD: letteralmente uno SFIGATO, rinchiuso nella sua cameretta, a scrivere milioni di righe di codice per realizzare qualche suo software che, probabilmente, solo lui capirà a cosa serve realmente. Ma non è per niente così. L’informatica è anche fatta di NERD, ma ha soprattutto bisogno di gente curiosa, con lo sguardo aperto a diverse discipline (quindi assolutamente non solo ingegneri) e con una spiccata passione per la comunicazione: perché l’informatica è innanzitutto l’arte, passatemi il termine, di gestire l’informazione. La dimostrazione del fatto che non siamo riusciti a comunicare il “mestiere” dell’informatica ai giovanissimi sta nei dati diffusi sul rapporto tra domanda e offerta di lavoro nel mondo della programmazione: in questo momento di alta disoccupazione, l’Information Technology, e soprattutto il comparto legato allo sviluppo software, è in netta controtendenza. C’è gran bisogno di sviluppatori, e sono sempre più rari. Pochi tra i giovanissimi hanno scelto in questi ultimi 5 anni un percorso professionale di questo tipo. Certo negli anni ’90 era più facile avvicinarsi ai linguaggi di programmazione: l’informatica era ancora un piccolo mistero e, chi aveva una certa dose di curiosità, al di là delle sue reali capacità informatiche, si avvicinava ai computer e al loro linguaggio, per capirne quantomeno le potenzialità. Chi come me, in quegli anni, era un adolescente o ancora più giovane, vedeva nei computer una forma di gioco nuova rispetto ai Lego, o al Meccano, o ai personaggi della PlayMobil: cominciavamo a chiedere come regalo dei computer come il Commodore64, con il quale potevamo iniziare ad avere le nostre prime esperienze di giocatori di videogiochi. 75


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Certo la grafica era ancora primordiale, ma la cosa interessante era che ancora vedevamo bene il “dietro le quinte” dell’informatica: per far partire un gioco, eravamo costretti a eseguire comandi nelle “shell di comando” e quindi, anche senza averlo scelto, ci ritrovavamo a familiarizzare con delle parole chiavi dei linguaggi di programmazione e dei sistemi oprativi dell’epoca. Ognuno di noi poi poteva decidere che tipo di conoscenza voleva del mezzo informatico: c’era chi comprava i giochi, che allora erano contenuti in supporti a nastro (quelle che i più chiamavano musicassette), e imparava solo i comandi base per eseguirli; c’era invece chi voleva personalizzare la sua esperienza, e ad esempio andava in edicola a comprare dei mensili nei quali era riportato il codice sorgente dei giochi, che doveva essere riscritto a mano sul proprio computer, avendo poi possibilità di apportare delle modifiche o delle personalizzazioni al gioco. Le generazioni dagli anni 2000 in poi vivono un rischio che, in realtà, ha contagiato anche una buona parte della mia di generazione: utilizzare un’informatica fatta per l’utente finale che è facile da usare, molto più di quella di 20 anni fa, ma che è diventata una “scatola nera” per i suoi utenti. Ora non vediamo più gli ingranaggi del giocattolo: usiamo le nostre applicazioni, sia sul Web, sia sul nostro smartphone, spesso non avendo alcuna idea di come siano fatte, di cosa ci sia “dietro le quinte”. A mio parere la scuola è proprio in questo vuoto che deve inserirsi: deve prendere il giocattolo e aprirlo, smontarlo, mostrarne agli studenti gli ingranaggi. La scuola dovrebbe far sapere ai suoi studenti che dietro l’utilizzo di un’applicazione dello smartphone, c’è un codice, un sistema operativo, un hardware: senza per questo obbligare le persone a interessarsi all’informatica nel senso professionale del termine, ma solo per far conoscere meglio cosa c’è dietro un oggetto che quotidianamente è nelle nostre mani. D’altronde a scuola tutti abbiamo studiato la matematica, ma non tutti siamo diventati dei ragionieri, dei commercialisti, o degli ingegneri. Però anche i pianisti sappiamo che esiste un’operazione matematica che si chiama radice quadrata: la conoscenza, anche quando ci sembra inutile, accresce inconsciamente le nostre capacità di comprensione del mondo che ci circonda. Prendiamo ad esempio il browser Chrome e navighiamo su un sito internet a nostro piacimento: se clicchiamo sul tasto F12 vedremo apparire una finestra con dentro il codice HTML che, interpretato dal nostro browser, genera la pagina che vediamo. Secondo la mia idea di scuola, in classe bisognerebbe mostrare che dietro un sito c’è un codice, senza soffermarsi sulla sintassi del linguaggio specifico: l’importante è far capire cosa “fisicamente” c’è dietro quella pagina, e qual è il ruolo di “interprete” di un browser come Chrome. Credo che a scuola sia importante insegnare “cos’è” un browser, piuttosto che investire il tempo nello spiegare “come si usa” un determinato browser. 76


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Così come credo che a scuola sia importante insegnare “cos’è” un linguaggio di programmazione, piuttosto che soffermarsi sulla sintassi di uno specifico linguaggio. La scuola, per quanto riguarda altre discipline diverse dall’informatica, si è sempre posta l’obiettivo di dare agli studenti gli “strumenti” che potessero aprirgli poi la strada dell’approfondimento specifico di una materia: io ho frequentato il Liceo Scientifico dove, ad esempio, mi hanno insegnato cosa fosse l’Algebra Lineare, insegnandomi i principi base, che poi sono stati lo strumento che mi ha consentito di approfondire e superare esami di Analisi Matematica nel mio corso di studi in Ingegneria dell’Automazione Industriale. Ecco, io credo che, allo stesso modo, la scuola debba fornire le basi “teoriche” all’informatica, dando in mano al singolo studente la conoscenza e gli strumenti che, qualora volesse fare dell’informatica la sua professione, gli consentiranno di approfondire, ma con basi che agevolano il suo studio. Per entrare nello specifico, io ad esempio farei utilizzare a scuola Linux, e dei mini-pc come il Raspberry PI: questi strumenti “obbligano” gli utilizzatori a guardare gli ingranaggi dell’informatica e a “sporcarsi le mani” con le righe di comando. Ma d’altronde gli anni in cui siamo a scuola, sono gli anni in cui possiamo “imporci” e “lasciarci imporre” delle scelte di metodo che ci obbligano a utilizzare il tempo che abbiamo per scoprire mondi nuovi: più tardi ognuno di noi avrà sempre meno tempo (e spesso sempre più voglia) di conoscere mondi lontani dai propri interessi del momento e dalle tendenze che crediamo naturali. Java per me è diventato il mio lavoro quotidiano, nonché una passione che coltivo ogni giorno con piacere: eppure quando l’ho incontrato ero un giovane studente di robotica, appassionato per l’algebra, e amante della musica, della filosofia e del teatro. Mai avrei pensato di avvicinarmi ad un linguaggio di programmazione, fino a che, obbligato appunto dalla scuola, e nello specifico da un esame nel mio corso di studi, ho scoperto la programmazione orientata agli oggetti: ho scoperto quanta creatività ci potesse essere nell’ingegneria del software, e non sono più riuscito ad allontanarmi da questa disciplina. Tanto che l’ultimo mio libro, “Sette grani di caffè contro lo stress – Guida per sospetti programmatori Java” (disponibile gratuitamente sul web), è proprio un manuale in cui cerco di spiegare i principi della programmazione orientata agli oggetti, nel linguaggio Java specificatamente, usando la filosofia di Platone. Come si può intuire proprio da questo esempio sulla mia pelle, occuparsi di informatica e di programmazione, non vuol dire affatto occuparsi di bassi “tecnicismi”, ma significa invece riflettere su concetti ben più complessi. Quale miglior modo, quindi, che affrontare una società complessa come la nostra, se non quello di allenarsi a modellizzarla e formalizzarla, non con il fine di controllarla, come faremmo con un computer o un braccio meccanico, ma solo con l’obiettivo di comprenderla e, se siamo bravi, di anticiparla. 77


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Dibattito seguito all’incontro con Giuseppe Vincenzi (appunti di Anna Crocco, Francesca Viteritti; supporto tecnico di Maura Bruno)

Continua la ricerca sul tema Quale uomo, quale cultura, quale scuola per il XXI secolo? all’IIS “Cosentino”-“Todaro” di Rende. Mercoledì 6 maggio, nell’auditorium Giovanni Paolo II, è sceso in campo il giovane ingegnere e artista di Cosenza Giuseppe Vincenzi, che vive e lavora a Parigi. Dopo aver lavorato in diverse importanti aziende del settore informatico, egli è approdato nella capitale francese dove è consulente per lo sviluppo software in ambiente Java presso Groupe AUSY. Don’t Repeat Yourself: Knowledge can keep us warm and DRY è stato il titolo della conferenza. Ha introdotto e coordinato i lavori Tommaso Cariati, docente di informatica e fondatore del gruppo Sos scuola, che ha promosso il progetto insieme all’istituto. Giuseppe Vincenzi ha dovuto innanzitutto spiegare il senso nascosto del titolo. Don’t Repeat Yourself si può tradurre con “Non ripeterti” ed è un messaggio forte lanciato a docenti e a studenti perché rimanda al fatto che i lavori ripetitivi, le mansioni tayloristiche standardizzate, oggi, e ancor più in futuro, vengono affidati ai computer e ai robot. Alle persone vengono richieste invece capacità creative e di critica filosofica. Il sottotitolo spiega che Knowledge can keep us warm and DRY, cioè per non ripetersi c’è una sola via, quella della conoscenza. Anche questo, in tempi di demotivazione e di smarrimento, è un messaggio altissimo lanciato nella scuola, ambiente di educazione e formazione per mandato costituzionale. L’incontro è stato interessantissimo sotto molti punti di vista. È stato un confronto serrato sui temi specifici dell’informatica, della produzione del software, dei linguaggi de programmazione, dei sistemi informativi aziendali, degli smart phone; è stato la testimonianza di un cosentino che cerca lavoro nel mercato globale e lo trova in una metropoli distante 2.000 km dalla sua città; ed è stata l’occasione per fare una riflessione sul rapporto tra vocazione tecnico-scientifica e vocazione artistica, visto che Vincenzi è anche musicista e autore di teatro. Sui temi specificamente informatici e aziendali, il relatore ha sostenuto che nella formazione dei giovani non si dovrebbe insistere con l’addestramento all’uso di programmi come Word o Excel; non devono mancare invece le basi dell’informatica e dei principi della programmazione, così come non deve mancare lo stimolo alla creatività. Ha aggiunto che può essere dannoso l’addestramento all’uso di programmi particolari, e non è indispensabile la padronanza esasperata di uno specifico sistema operativo o di un dato linguaggio di programmazione, come Pascal, C++, Java. 78


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«Costruite la basi dell’informatica e i pilastri della programmazione con un qualsiasi linguaggio, o, meglio, con uno pseudolinguaggio, gli studenti dovrebbero passare a usare metodologie di analisi dei requisiti e di progettazione di sistemi software, come Uml (Unified modeling language)», ha detto Vincenzi. Tommaso Cariati, chiudendo la mattinata dei lavori, ha ricordato che il prossimo incontro del ciclo di ricerca su “Uomo, cultura e scuola” è previsto il 15 maggio sui “lati oscuri della Rete” e sarà tenuto da Piercarlo Maggiolini, docente di Sistemi informativi e Etica digitale al Politecnico di Milano. Seguite il dibattito e interagite sul web all’indirizzo www.sos-scuola.it.

Francesca Incutto, III AT: Quale scuola hai frequentato? G. Vincenzi: Ho frequentato il liceo scientifico “Pitagora” e mi sono laureato in ingegneria. Francesca Incutto, III AT: Qual è la differenza tra Java e Visual Basic? G. Vincenzi: Sono due linguaggi di programmazione un poco diversi. Però i principi della programmazione, sono simili. Andrea Muoio IV AFM: Non crede che i linguaggi di programmazione siano diventati inutili in quanto ci sono editor visuali che rendono superato l’atto di programmare? G. Vincenzi: Dieci anni fa i linguaggi di programmazione erano indispensabili, ora no. Però i linguaggi bisogna conoscerli per fare qualcosa di specifico o personalizzato, e ricordate che la capacità dell’analisi filosofica sta alla base della programmazione.

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Tommaso Cariati: Cosa sono i sistemi informativi aziendali? G. Vincenzi: Nei Sistemi Informativi Aziendali dobbiamo trasferire tutte le informazioni che caratterizzano un’organizzazione, impresa, azienda, ente pubblico. Essi racchiudono tutti i flussi di un’azienda. La cosa importante è studiare i modi di rappresentazione di dati e flussi. Un professore francese di economia, chiamato a disegnare il sistema informativo di una grande azienda ha definito un modello che ha chiamato “Piano regolatore dei sistemi informativi”: in pratica c’era tutta l’azienda. Tommaso Cariati: Quali tecniche, modelli e metodologie utilizzare per rappresentare dati e flussi di un’azienda, UML? G. Vincenzi: Ce ne sono diverse. Si potrebbe adottare la metodologia UML (Unified Modeling Language). Tommaso Cariati: In quale momento del percorso formativo di questi studenti si può cominciare a parlare di rappresentazione di dati con l’UML? G. Vincenzi: Già da subito, anche all’età di 15 anni bisognerebbe spiegare agli studenti come schematizzare un blog per imparare a modellare una realtà attraverso i dati. Walter Rosa: Con i Sistemi Informativi Aziendale si parla di informatica? G. Vincenzi: Sì, è prioritario rispetto a tutto il resto. Amdrea Muoio, IV AFM: Non crede che il facile ottenimento di programmi su piattaforma come Linux, Windows sia limitante alla creazione di nuovi programmi?

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G. Vincenzi: No, un’azienda ha delle dinamiche che vengono gestite da software che devono rispondere a criteri di qualità, affidabilità, robustezza. Bisognerebbe consigliare ai manager di valorizzare i flussi e non preoccuparsi del resto. Definite le specifiche, si passa il piano a specialisti informatici. Da un punto di vista industriale è impossibile usare software libero.

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Etica digitale. Per essere consapevoli del lato oscuro della Rete Incontro con Piercarlo Maggiolini (Auditorium ITE “V. Cosentino”, 15 maggio 2015)

Faccio una premessa: tra i tanti temi e problemi oggetto dell’etica digitale mi soffermerò soltanto su un paio, quelli che mi paiono tuttora sottovalutati pur essendo davvero importanti, soprattutto nel mondo giovanile e della scuola. Inizio l’incontro mostrandovi un breve filmato in cui si vede un giovane (laureato! E con un ottimo curriculum) alle prese con un colloquio di lavoro. Mentre il colloquio procede, l’intervistatore consulta i social network e usa le notizie che vi trova per mettere letteralmente “a nudo” il candidato! Il filmato termina, infatti, con il giovane nudo e pieno di lividi (come appare su un social network, e così come ormai lo “vede” l’intervistatore) che viene congedato con la promessa di una pronta risposta, e l’intervistatore – appena il giovane è uscito dalla stanza – che cestina il curriculum del malcapitato. Negli USA (ma – ho potuto costatare – anche da noi ormai) spesso chi cerca personale da assumere verifica su Internet i requisiti degli aspiranti a un impiego. Nel 70% dei casi (dicono alcune ricerche) alcuni candidati sono stati respinti per motivi rintracciati in rete. Con questo filmato introduco il tema, spesso sottovalutato, dell’e-reputation (cioè, la reputazione in rete), evidenziando come la pervasività delle tecnologie digitali sollevi un mucchio di problemi etici. Sul tema dell’e-reputation vorrei narrarvi l’interessante caso di un parroco di Novara (e di Babbo Natale!), perché è un caso che conosco personalmente, ed è un caso a mio avviso davvero emblematico. Questo parroco, ormai anziano, nel 2008, ha detto in una messa prenatalizia ai bambini di una scuola elementare cattolica di “non farsi rubare Gesù Bambino da Babbo Natale” (qualificato come personaggio favoloso al pari di Cenerentola e Biancaneve). Una madre si è lamentata della cosa con un giornalista locale, che pubblica con grande risalto la notizia su un modesto giornale locale (col titolo: "Hanno ucciso Babbo Natale"!). La notizia - ritenuta particolarmente "curiosa" - è stata poi ripresa dall’agenzia ANSA e poi, in base a quest'ultima, dal corrispondente da Roma della BBC (e in questi passaggi intanto la madre predetta diventa "dozzine di genitori" che protestano). In un paio di giorni le “pagine” su Internet che citano il parroco novarese (e lo citano proprio per nome: Dino Bottino!) balzano da un centinaio scarsi a più di … diecimila, nelle più svariate lingue del mondo (una ventina, compreso l’islandese, l’estone, il lituano, l’ungherese, l’albanese, il cinese, il vietnamita, l’indonesiano, per non parlare 82


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del norvegese, svedese, polacco, russo, rumeno, sloveno, etc.), in siti sparsi su tutto il mondo: una quarantina di paesi, dalle Isole Figi, Nuova Zelanda, Australia, Timor Est, Indonesia, Vietnam, Cina, persino Azerbaigian e Kazakistan, per passare al Sud Africa e all’Angola e giungere in Brasile, Stati Uniti, Canada, fino ad un bel pezzo d’Europa: gran parte dei paesi nordici, molti paesi dell’Est e qualche paese occidentale. E c’è veramente di tutto e di più: da cattolici che accusano il parroco novarese di essere peggio dei pedofili, perché violenta non il corpo ma l’anima dei bambini, a neopagani - i Raeliani - che lo difendono! Mi paiono però importanti gli insegnamenti che possiamo trarre. Su Internet le notizie sovente vengono rimbalzate da un sito all'altro senza alcuna verifica, del tutto decontestualizzate e spesso prive della fonte della notizia stessa, perché la verosimiglianza fa aggio sulla verità e non di rado - quando la leggenda è più interessante della realtà - si preferisce la leggenda! Determinante è il ruolo dei commenti (spesso decine persino nel modesto caso citato) e dei blog. Di sicuro resteranno per lunghissimo tempo le tracce telematiche sulla persona coinvolta, e nel caso di questo parroco – al di fuori di chi lo conosce più o meno personalmente – agli occhi di chi ne cercherà informazioni su Internet sarà per il 99% soprattutto “l’uomo – anzi, il prete cattolico – che uccise Babbo Natale” (con la relativa coda di insulti, minacce, sberleffi …). Ma l’e-reputation non riguarda solo le persone, ma anche le organizzazioni, le imprese, in particolare hotel, ristoranti. Vi racconto il caso che ho vissuto alcune settimane fa in Spagna, a Lleida, una cittadina della Catalogna. Un piccolo, ma reputatissimo, ristorante cura in modo esasperato, apparentemente incomprensibile, il rapporto con i clienti (ad esempio, concedendo abitualmente, a quanto pare, che due clienti usino un tavolo da quattro posti, perché stiano … più comodi! E così impedendo che altri clienti possano entrare nel ristorante, o debbano aspettare a lungo che si liberino posti). E la spiegazione che mi è stata data era che altrimenti i clienti su Trip Advisor gli avrebbero danneggiato immediatamente l’immagine (dicendo ad esempio che è un ristorante dove si sta stretti e scomodi!). Morale della favola: la comunicazione in rete non sempre è utile, può essere dannosa, qualche volta fa male a distanza di tempo, perché ciò che pubblicate rimane, oserei dire, per sempre! Perciò la comunicazione in rete va curata sempre molto attentamente. Ma vediamo un’altra cosa: come viene trasmessa la conoscenza in Rete. Per cercare informazioni su un determinato argomento non andiamo più in una biblioteca ma usiamo abitualmente i motori di ricerca, in particolare Google. Che cosa accade se andiamo su Google e cerchiamo notizie su un argomento o una persona, per esempio “Madonna”? Utenti diversi otterranno sempre la stessa risposta alla medesima domanda oppure no? Risposta di uno nella folla: no. Domanda: Perché? Silenzio (Anzi: boh!). I motori di ricerca usano degli algoritmi. Questi algoritmi sono sconosciuti, perché protetti dal segreto industriale. Ebbene: il motore di ricerca di Google usa 83


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cinquantasette parametri per cercare e mostrare all’utente le informazioni che secondo il motore di ricerca lo interessano. Nel cercare per il suo utente, Google tiene conto delle ricerche che quell’utente ha fatto in passato su quel dispositivo, quindi gli presenta sempre la stessa minestra, o quasi. Nel senso che nel tentativo di aiutarlo gli riduce la visibilità sul mondo. Ma c’è di più: normalmente ciò che è più “popolare” prevale (cioè precede nella lista delle pagine presentate) ciò che è più “importante”. La riprova? Alcuni di voi provino a cercare “Madonna” e vedete che cosa accade. Innanzitutto le prime e più numerose pagine evidenziate riguarderanno di sicuro la nota cantante rock e solo marginalmente Maria di Nazareth. E poi comunque anche relativamente a Madonna cantante le pagine e l’odine in cui compaiono saranno diverse per ciascuno di voi. Provate a cercare “Peccato originale” e vedete il risultato: in molti casi al primo posto non compare il noto episodio biblico ma il film dal titolo omonimo (con Antonio Banderas e Angelina Jolie!). Ci si rende conto che i motori di ricerca danno risposte distorte, guidate anche da finalità commerciali. In Internet il marketing e la pubblicità la fanno da padrone. I motori di ricerca introducono quindi problemi etici e di democrazia. Anche e soprattutto perché, cosa più grave, non dicono chiaramente come e perché vi fanno vedere certe cose e non altre. Vediamo un altro aspetto della trasmissione della conoscenza, considerando in particolare le notizie giornalistiche. Un tempo ci si aggiornava esclusivamente attraverso i giornali (o la radio e Tv, perché il discorso che qui faccio vale anche per loro). I giornali cartacei presentavano (e presentano tuttora) le notizie ciascuno secondo il proprio punto di vista, ma il lettore sapeva in partenza qual era il punto di vista adottato a seconda che la notizia venisse riportata sul «Corriere della Sera» o sull’«Unità». Non solo: era il lettore che fra le numerose notizie selezionava secondo propri e deliberati criteri cosa leggere e cosa no, non necessariamente sempre allo steso modo (un’occhiata poteva sempre cadere su notizie che a priori non era detto che lo avrebbero interessato). Gli articoli venivano scritti e impaginati in modo da confezionare un prodotto, il giornale, che fosse interessante nel suo insieme per il più elevato numero di lettori-acquirenti. L’obiettivo infatti era quello di soddisfare più persone e quindi il giornale era più della somma delle sue parti. Oggi invece, con i giornali online dove valgono i singoli click (in base ai quali affluisce la pubblicità che ripaga l’editore e il provider), ogni articolo deve giustificarsi per se stesso. E quindi molte notizie specie se lunghe e impegnative (come le inchieste) non vengono lette oppure lette da pochi, e quindi si tende a pubblicare notizie brevi, non approfondite, e come predetto quelle più popolari ma non necessariamente più importanti. Vedete come cambia la natura dei media e come si pongono problemi etici nuovi? Spesso chi legge un articolo sul web non si preoccupa, né sarebbe facile farlo, di verificare chi è l’autore, chi l’editore, chi l’ha messo in rete (e la relativa autorevolezza e 84


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affidabilità). Spesso è difficile perfino desumere la data di pubblicazione della notizia. Un tempo almeno sapevamo se il giornale era del giorno o di un mese prima, e soprattutto chi ne era garante: il giornalista, l’esperto, il premio Nobel (!), l’editore o addirittura una università o istituzione culturale. Il fenomeno creato da Internet è stato denominato il “grande spacchettamento” e ci fa credere che possiamo trovare solo ciò che ci interessa, senza scorie o detriti, e senza sforzi. Ma la cultura dell’abbondanza è anche una cultura mediocre e superficiale, come predetto. Con i nuovi media entrano in crisi i vecchi agenti che filtravano la comunicazione, assumendosene la responsabilità: professori, opinion leader, giornalisti, direttori di giornali, ecc. Oggi chi valida l’informazione? Tutto ciò che circola è spesso considerato, specialmente dai soggetti più deboli e sprovveduti, come i ragazzi, tutto degno della stessa considerazione (come nei talk show...). C’è un problema di validazione della conoscenza. Con l’avvento di Internet devono essere i singoli fruitori a validare e selezionare l’informazione. La scuola dovrebbe educare ad acquisire ed esercitare tale capacità. Vorrei tornare un attimo su un aspetto già prima evidenziato implicitamente: i filtri che realizzano la “personalizzazione polarizzante”, che comportano il rischio, molto reale come visto, di entrare in relazione solo con realtà simili a noi (che non è male a priori, ma attraverso i filtri di personalizzazione persone simili avranno informazioni simili), e che fanno sì che la visione del mondo risulti distorta, cioè ci fanno vedere solo il mondo che i motori di ricerca in maniera automatica “ritengono” ci interessi, e così non ci consentono, o rendono comunque più difficile, il confronto, che sta alla base della democrazia e della stessa crescita culturale e ricerca scientifica. Il 4 dicembre 2009 è una data storica: Google ha introdotto i filtri di personalizzazione, e ciò è considerato il più grande cambiamento nel mondo dei motori di ricerca e quindi delle modalità di accesso e trasmissione della conoscenza. In realtà, il fenomeno è duplice: personalizzazione e polarizzazione. Così ci troviamo dentro una “bolla” creata dai filtri di Internet. La bolla è invisibile e non trasparente. Ad esempio, in TV siamo noi a scegliere un programma, un telegiornale, in rete no: in questo la bolla è subdola. La bolla ci divide e porta alla radicalizzazione delle idee. Questo è un tema di etica digitale assolutamente, oggi, sottovalutato ma di straordinaria importanza, perché attiene alle modalità di trasmissione della conoscenza e alla formazione dell’opinione pubblica, e, come si comprende bene, tocca i temi della libertà individuale e della democrazia. L’etica digitale ha a che fare con numerosi altri temi e problemi, beninteso. Faccio solo degli esempi. Specie attraverso i social network avvengono furti di identità. Il tema della privacy è enfatizzato ancora una volta dalla diffusione dei social networks, ma anche dal cloud computing, che permette di affidare i dati aziendali e personali a soggetti sconosciuti che non sai che uso ne potranno fare. 85


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Con i sistemi digitali avvengono controlli capillari nell’ambito del lavoro. La nuova legge sul lavoro permette – a quanto pare – il controllo a distanza sull’attività dei lavoratori, prima rigorosamente vietato. Tutti questi sono problemi di etica digitale. Un altro problema è la violazione della proprietà intellettuale. Un tempo non era tanto semplice copiare il lavoro intellettuale degli altri (testi, ma anche musica, film). Oggi con i mezzi elettronici e la facile duplicazione dei documenti, l’imitazione e il plagio diventano questioni all’ordine del giorno. Come vedete, da una parte tutto diventa più semplice, ma solo apparentemente, perché dall’altra tutto si complica. Internet offre grandi opportunità, sconosciute solo alcuni decenni fa. Però non è tutto oro quello che luce. C’è un lato oscuro della Rete, come scritto nel sottotitolo della conferenza. Da una parte si aprono spazi di libertà, di cooperazione: e-democracy, open government, open data, ecc., dall’altra nasce un problema di e-reputation, di diritto alla privacy, perfino di diritto all’oblio. Possiamo parlare di cyberwar, di terrorismo in rete, di computer crimes, non solo della primavera araba favorita dalla rete, e possiamo parlare della governance di Internet: un problema di una portata enorme per il futuro della rete. L’uso dell’informatica nella finanza e nell’economia non sta solo facilitando le transazioni economico-finanziarie ma favorisce come mai prima la speculazione e la manipolazione dei mercati (vedasi il caso dell’High Frequency Trading: le transazioni ad alta velocità). Un’ultima osservazione su cui vi invito a riflettere: come mai la società in cui viviamo è la società più interconnessa che mai l’umanità abbia visto e nel contempo è la società dove mai si è così sofferto di solitudine (in barba a tutti i social network e social media)?

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Dibattito seguito all’incontro con Piercarlo Maggiolini (appunti di Anna Crocco, Rosa Maria De Rose; supporto tecnico di Maura Bruno)

È giunta alla quinta tappa la ricerca sul tema Quale uomo, quale cultura, quale scuola per il XXI secolo? Il progetto, promosso congiuntamente dal gruppo Sos scuola e dall’IIS “Cosentino”-“Todaro” di Rende, è nato con l’intento di orientare docenti e studenti nella società liquida e complessa. Venerdì 15 maggio, Piercarlo Maggiolini del Politecnico di Milano ha dialogato con la comunità scolastica riunita nell’auditorium Giovanni Paolo II sui “lati oscuri della Rete”. Un tema di grandissima attualità che interroga genitori e docenti perché, come ha detto il relatore, “ciò che vediamo del web con i normali motori di ricerca è solo la punta di un immenso iceberg. Il resto resta sommerso ed è detto deep web o dark web, la parte del web dove avvengono crimini, traffico di droga, commercio di armi ecc.”. Al “Cosentino” la scuola raccoglie le sfide del nostro tempo e le affronta, promuovendo la consapevolezza delle opportunità che si presentano ma anche dei rischi che si corrono nell’era di Internet. Tanto più che i giovani e gli adolescenti, tramite social network, pseudo servizi e allettamenti vari, restano spesso vittime di malintenzionati di ogni risma, e talvolta si trasformano in aguzzini. Piercarlo Maggiolini è uno dei primi studiosi italiani di Sistemi informativi e applicazioni aziendali dei computer, è autore di diverse opere ed è docente di Etica digitale, una nuovissima disciplina accademica. È una persona coltissima e ricca di esperienza che ha iniziato la sua carriera accademica all’università della Calabria, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. La partecipazione è stata molto attiva. Gli studenti hanno posto domande “sull’impotenza degli Stati” a controllare e a sanzionare fenomeni malavitosi attraverso il web, sulla “direzione che assumeranno le nuove tecnologie”, su come difendersi navigando in Internet. Gli studenti stanno facendo scuola in modo innovativo, attivo e laboratoriale, perché dalla rielaborazione di appunti, foto, registrazioni, audio e video, traggono documenti che vengono pubblicati nel web all’indirizzo www.sos-scuola.it. Piercarlo Maggiolini ha spiegato che occorre difendere la propria reputazione in Rete, evitando di condividere proprio tutta la nostra vita sui social network, perché al momento della ricerca di un lavoro, o al momento della stipula di un contratto, quello che avremo messo “in piazza” ci si può ritorcere contro. Un altro importantissimo argomento trattato con gli studenti ha riguardato le modalità e gli algoritmi usati da Google ogni volta che noi cerchiamo qualcosa nel web. Si tratta di più di cinquanta criteri che nessuno conosce, che permettono al moto87


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re di ricerca di presentarci solo ciò che, secondo lui, ci interessa, in base a una personalizzazione della ricerca. Questo fatto conduce a una fortissima distorsione e polarizzazione nella circolazione dell’informazione che gli esperti, per analogia con la bolla finanziaria di alcuni anni fa, chiamano “bolla di Internet”. Alcuni studenti hanno posto domande sui sistemi informativi aziendali e sulla loro evoluzione. Ciò perché al “Cosentino”, all’indirizzo Amministrazione Finanza e Marketing, articolazione Sia, si diventa esperti proprio di Sistemi Informativi Aziendali. Si è trattato, in questo caso, di una incursione molto seria nelle discipline cardinali della scuola: l’economia aziendale, l’informatica e l’organizzazione. Un’altra materia scolastica toccata è stata il diritto, quando si è affrontato il tema della privacy e della legge che la tutela. “Purtroppo, spesso la legge sulla privacy viene violata dagli Stati con la scusa che essi devono garantire la sicurezza dei cittadini dai terroristi o dai cyber truffatori. Ma questo conduce ai ben noti casi Snowden, Assange ecc.”. L’incontro è stato introdotto da Brunella Baratta, dirigente dell’istituto, mentre i lavori sono stati coordinati da Tommaso Cariati, docente di informatica e animatore del gruppo Sos scuola. Il ciclo di conferenze riprenderà in settembre e avrà cadenza mensile.

Francesco Fasuolo, IV A SIA: Quali sono i pro e i contro della tecnologia? P. Maggiolini: Certamente l’uso della tecnologia è un potenziamento della capacità dell’uomo. I contro vengono fuori sempre dopo, chi inventa il futuro non dovrebbe vedere solo gli aspetti positivi, ma anche quelli negativi.

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Francesco Fasuolo, IV A SIA: Guardando il progresso tecnologico, come si evolverà la tecnologia? P. Maggiolini: Secondo me si evolverà come noi non sappiamo; quindi è meglio non fare previsioni. Francesco Fasuolo, IV A SIA: Con l’informatica quali rischi si corrono per le abilità mentali e le reazioni umane? E cosa si può fare per evitare questi rischi? P. Maggiolini: In realtà il rischio che alcune abilità vengono atrofizzate è molto alto. Ci vorrà un modo per non far perdere queste abilità perché ormai la nostra vita dipende dalle tecnologie.

Giacomo D’Ambrosio, IV B: Che cos’è il deep web? P. Maggiolini: Non si può dare una risposta veloce perché è un argomento complesso in quanto rappresenta più del 90% di quello che è postato in rete. Lo chiamiamo cosi perché c’è tutto quello che è vietato e, devo dire la verità, è pericoloso, un utente che va a sbirciare può avere problemi con la polizia postale. Ci vuole molta prudenza anche per chi vuole solo curiosare. Ti manderò della documentazione per e-mail. Andrea Chiappetta, IV C: Come può lo Stato intervenire per tutelare la privacy dei cittadini dal web e dalla tracciabilità informatica? P. Maggiolini: È un grande problema, perché c’è una bella legge sulla privacy che tutela sulla carta i diritti dei cittadini, ma questa legge viene violata continuamente dagli stati per ragioni, dicono, di sicurezza. Angela Girone: Perché i giovani hanno questo grande interesse verso la tecnologia?

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P. Maggiolini: In realtà chi dovrebbe rispondere sono appunto i giovani. A parte il bisogno di relazionare, credo che in una relazione faccia a faccia interferiscono molti fattori sia nell’amicizia che nell’amore, quindi risulta rischioso il faccia a faccia, invece in un rapporto mediato dalla tecnologia si è molto più disponibili. Attraverso la tecnologia si risolve un po’ il problema della timidezza, bisogna essere comunque prudenti.

Alessia Lanni, VB: Cosa pensa dei Sistemi Informativi Aziendali? P. Maggiolini: I Sistemi Informativi Aziendali sono cambiati con i fenomeni iniziati con la rete, una volta collegavano le parti interne delle varie grandi imprese: la contabilità, il personale, il magazzino. Il grosso dei Sistemi Informativi Aziendali riguardavano le medie grandi imprese, ora riguarda un po’ tutte le imprese. Oggi con le reti i SIA sono i sistemi interaziendali. Alfio Moccia: Tutte le informazioni di Google, chi è che le elabora? Google chi lo sceglie? Dentro Google potrebbe lavorare uno di questi ragazzi? P. Maggiolini: C’è gente che lavora per Google, ma in realtà cosa ci sia dentro Google non si sa, è un segreto. Iole Greco: Pensiamo di usare la rete o di essere usati? Molti ragazzi invece di ascoltare giocano, usano Facebook, colloquiano tra loro, allora queste cose sono state create per addormentare l’intelligenza dei giovani? P. Maggiolini: L’uso esagerato della tecnologia rende il nostro cervello plasmabile e ci rende stupidi.

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Seguite il dibattito e interagite sul web all’indirizzo www.sos-scuola.it.

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Si chiude al “Cosentino” la prima fase della ricerca sull’uomo e la scuola nel XXI secolo di Maria Teresa Capalbo e Claudia Minervino

Nella nostra scuola ITES “V. Cosentino” di Rende, il professore Tommaso Cariati tra marzo e maggio 2015 ha organizzato cinque dibattiti con tematiche differenti, svolti nell’auditorium “Giovanni Paolo II” in via L. Repaci, ma tutti riferiti al tema generale “Quale uomo, quale cultura, quale scuola per il XXI secolo?”. Questi primi cinque incontri costituiscono la prima fase, che così si chiude con grande successo, di un ciclo biennale di conferenze. Il primo dibattito, “Un umanesimo senza fanatismi, laico e razionale”, nel quale sono intervenuti Stefano Sangiovanni, coordinatore del circolo Uaar di Cosenza e ingegnere dell’informazione, Giulio Iovine, ricercatore CNR e professore di geologia applicata, Antonio Malfitano, produttore artistico e teatrale, è stato tenuto il 19 marzo 2015. I relatori hanno cercato di illustrare un tema scottante: come vivere “un umanesimo senza fanatismi, laico e razionale, per cogliere appieno le proporzioni nel rapporto uomo-natura e costruire una società libera, carica di etica civile”. In questo dibattito i principali punti trattati sono stati:  Laicità: solo in uno stato laico credenti e non credenti sono uguali.  Scienza e fede, un rapporto problematico, da Galileo Galilei ai giorni nostri.  L’onere della prova, la tolleranza, il potere delle religioni organizzate. Appena la Chiesa è divenuta religione di stato ha assunto una posizione egemone sulla società.  Il drago nel garage di Carl Sagan. Una storia fantastica usata come metafora della non scientificità della fede.  Le religioni dovrebbero essere sostenute economicamente soltanto da chi le segue, mentre nessuno è al corrente dell’entità dei fondi pubblici che in un modo o in un altro sostengono la Chiesa cattolica. Nel dibattito è intervenuto Andrea Chiappetta, rappresentante degli studenti, che ha posto una domanda ai relatori ovvero: “Può esistere veramente un ordinamento laico in Italia se poi si fanno passare i Patti lateranensi e i crocifissi nelle scuole come residuo storico-culturale?”. Alla domanda hanno risposto: “Noi non siamo qui per cercare di convincere le persone ad essere atee, anzi non è nel nostro interesse. Io personalmente credo che Gesù è un patrimonio dell’umanità. Volevo dire ai ragazzi: pensate con la 92


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vostra testa, informatevi e prendete le vostre decisioni senza farvi influenzare e poi scegliete la vostra strada”. Il secondo dibattito, “Quando ho scoperto che io non sono Dio”, è stato tenuto il 26 marzo 2015 ed è stato animato da padre Pino Stancari s.j. Le parole del biblista hanno preso l’avvio da alcune parabole di Gesù che toccavano il tema importante del senso della vita. “Io non sono Dio”, “io non sono mio”, “la vita ha senso nella relazione con gli altri”, “la vita è dono che deve essere accettato e donato agli altri” sono alcune delle affermazioni che hanno risuonato nell’aula. Questi sono i testi a cui ha fatto riferimento il padre gesuita:  Primo testo: Mt 13,44 44 Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo.  Secondo testo: Mt 13,45-46 45 Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; 46trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra.  Terzo testo: Mt 13,31-32 31 Espose loro un'altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. 32Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell'orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami». Il terzo dibattito si è tenuto il 4 maggio 2015 con Giuseppe Limone, docente di filosofia della politica e del diritto della seconda università di Napoli. Egli ha tenuto una conferenza dal titolo “Persona, ragione, conoscenza all’altezza del mondo contemporaneo”. Il prof. Limone ha affermato che il problema e il significato della vita e della persona si proporranno sempre e non saranno mai definitivi nella loro formulazione, perché legati al concetto di unicità della persona stessa. Durante questo dibattito è intervenuto Francesco Montalto con la seguente domanda: “Qual è il concetto di normalità nella società di oggi? Quale dovrebbe essere perché ci sia un’umanità eticamente corretta?” , alla quale il prof. Limone ha risposto: “L’umanità ha il valore delle singole persone. Non ci deve essere nemmeno il più debole, inferiore, sfavorito che soffre perché altrimenti l’umanità è responsabile della sua sofferenza. L’umanità che ci auguriamo è un’umanità in cui, pur essendo tutti diversi, ognuno si possa esprimere al meglio nel proprio talento”. 93


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Il quarto dibattito si è tenuto il 6 maggio 2015 con Giuseppe Vincenzi, ingegnere dell’Automazione industriale, consulente sviluppo software in Java (Groupe AUSY, Paris). Egli ha tenuto una conversazione dal titolo “Don’t Repeat Yourself: Knowledge can keep us warm and DRY”. Giuseppe Vincenzi ha dovuto innanzitutto spiegare il senso nascosto del titolo. Don’t Repeat Yourself si può tradurre con “Non ripeterti” ed è un messaggio forte lanciato a docenti e a studenti perché rimanda al fatto che i lavori ripetitivi, le mansioni tayloristiche standardizzate, oggi, e ancor più in futuro, vengono affidati ai computer e ai robot. È stato un confronto serrato sui temi specifici dell’informatica, della produzione del software, dei linguaggi de programmazione, dei sistemi informativi aziendali, degli smart phone; è stato la testimonianza di un cosentino che cerca lavoro nel mercato globale e lo trova in una metropoli distante 2.000 km dalla sua città; ed è stata l’occasione per fare una riflessione sul rapporto tra vocazione tecnico-scientifica e vocazione artistica, visto che Vincenzi è anche musicista e autore di teatro. In questo dibattito è intervenuto il prof. Tommaso Cariati con la seguente domanda: “Che cosa sono i sistemi informativi aziendali?”. Vincenzi ha risposto: “Nei Sistemi Informativi Aziendali dobbiamo trasferire tutte le informazioni che caratterizzano un’organizzazione, impresa, azienda, ente pubblico. Essi racchiudono tutti i flussi di un’azienda. La cosa importante è studiare i modi di rappresentazione di dati e flussi. Un professore francese di economia, chiamato a disegnare il sistema informativo di una grande azienda ha definito un modello che ha chiamato ‘Piano regolatore dei sistemi informativi’: in pratica c’era tutta l’azienda”. Il quinto ed ultimo dibattito è stato tenuto il 15 maggio 2015 da Piercarlo Maggiolini del Politecnico di Milano. Un dibattito sui “Lati oscuri della Rete”. Un tema di grandissima attualità che interroga genitori e docenti perché, come ha detto il relatore, “ciò che vediamo del Web con i normali motori di ricerca è solo la punta di un immenso iceberg. Il resto resta sommerso ed è detto deep web o dark web, la parte del web dove avvengono crimini, traffico di droga, commercio di armi ecc.”. Piercarlo Maggiolini ha spiegato che occorre difendere la propria reputazione in Rete, evitando di condividere proprio tutta la nostra vita sui social network, perché al momento della ricerca di un lavoro, o al momento della stipula di un contratto, quello che avremo messo “in piazza” ci si può ritorcere contro. In questo dibattito è intervenuto Giacomo D'Ambrosio della IV B Sia con la seguente domanda: “Che cos’è il deep web?”, alla quale Maggiolini ha risposto: “Non si può dare una risposta veloce perché è un argomento complesso in quanto rappresenta più del 90% di quello che è postato in rete. Lo chiamiamo cosi perché c’è tutto quello che è vietato e, devo dire la verità, è pericoloso, un utente che va a sbirciare può avere problemi con la polizia postale. Ci vuole molta prudenza anche per chi vuole solo curiosare”. 94


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Questi dibatti sono stati svolti con lo scopo di orientarci nella società complessa. Ora sappiamo che vivere non è come fare una bella passeggiata al corso.

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