Bollettino n. 12

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Bollettino di SOS scuola n. 12 A.s. 2016/2017

ITE “V. Cosentino”


Per saperne di piĂš http://www.sos-scuola.it

Finito di stampare: gennaio 2018

Impaginazione a cura di Chiara Marra


Indice

Sos scuola è sempre in pista… p. 1 L’osmosi tra scuola e società... 7 Cambiare la scuola si può, e si deve... 10 Persona e comunità 14 Gita di SOS scuola ai paesi arbresh 19 Gita di SOS scuola a monte Curcio 24 Escursione alla Grande porta del Pollino 27 La nostra scuola si apre al mondo… 31 Lavoro di un referente BES… 33 Dimmi che scelte fai e ti dirò chi sei 37 Quale uomo, quale cultura, quale scuola per il XXI secolo? Ciclo pluriennale di incontri Dall’analogico al digitale... 40 Dibattito 56 Essere imprenditore culturale in Calabria 58 Dibattito 66 Repubblica fondata sul lavoro... 71 Dibattito 79



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Sos scuola è sempre in pista. Programmiamo insieme le attività per un nuovo anno (riunione del 19 gennaio 2017, appunti di T. Cariati)

All’incontro partecipano alcuni docenti del Cosentino, un anziano insegnante, tre docenti di altre scuole, cinque studenti delle classi IV A Sia e V B Sia, quattro cittadini di Nomadelfia. Durante la riunione interviene la preside Baratta. Andrea Tricò documenta l’incontro con foto e filmati.

Dopo un breve giro di conoscenza, viene presentato il gruppo Sos scuola. Si tratta di un gruppo misto formato da insegnanti, studenti e genitori fondato da Tommaso Cariati con alcuni amici dodici anni fa. Il gruppo persegue tre finalità: promuovere relazioni autentiche tra i componenti del gruppo e all’esterno, sviluppare e trasmettere saperi validi, suscitare e rafforzare il senso di responsabilità. Le attività che il gruppo promuove e vive sono di due tipi: la riunione mensile, durante la quale si ascolta una relazione, si discute di un film, si parla di un libro e poi si interviene, ed esperienze “conviviali”, come gite in luoghi di interesse culturale, spirituale o naturalistico. SOS scuola opera nella scuola, ma non è né un organo né un progetto della scuola come istituzione.

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Due strumenti che il gruppo utilizza sono il sito web all’indirizzo www.sos-scuola.it e il bollettino annuale.

I lavori e le attivitĂ del gruppo e dei ragazzi vengono accolti subito nel sito allo scopo di documentare le attivitĂ e di motivare e gratificare gli studenti.

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Ogni anno poi i materiali prodotti vengono raccolti in un opuscolo stampato chiamato bollettino, per meglio conservarli a futura memoria. Il bollettino viene realizzato con mezzi artigianali, usando un computer, Publisher, una stampante, una fotocopiatrice, una spillatrice. L’opuscolo viene anche trasformato in e-book e reso fruibile sul sito. Dopo la presentazione di Sos scuola, Tommaso passa la parola a Chiara perché spieghi la presenza dei quattro cittadini di Nomadelfia. La primavera scorsa la prof.ssa Marra, che lavora nella scuola media di Spezzano Albanese, ha aperto una corrispondenza epistolare tra i suoi alunni e gli alunni della scuola media di Nomadelfia. In seguito, è stato chiesto alla dirigente della scuola di Spezzano se si potevano accogliere otto studenti per sostenere in Calabria gli esami di terza media. La richiesta è stata accolta e in giugno 2017 verrà a Spezzano un gruppo di alunni e professori della comunità grossetana per un periodo di due o tre settimane. La presenza dei quattro cittadini di Nomadelfia si spiega dunque con l’opportunità di conoscere per tempo la scuola media di Spezzano, la dirigente, gli insegnanti, gli studenti. Dopo l’intervento di Chiara, prendono la parola Zeno e Cristiana di Nomadelfia. Alcuni dei presenti si mostrano molto interessati e fanno domande sul funzionamento della comunità di Nomadelfia.

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Mentre si discute amabilmente, interviene la preside Baratta, la quale loda il lavoro di Sos scuola, auspica una collaborazione più estesa, chiedendo ai presenti, specialmente ad Alfio Moccia, di contribuire a riaprire la biblioteca, e, quando scopre che vi sono quattro ospiti provenienti dalla comunità di Grosseto, non può trattenere la meraviglia, e conclude: “Meno male che c’è Sos scuola”.

Va via la preside e viene presentato il balletto realizzato da Sara e Giovanbattista della V B Sia per la giornata mondiale contro la violenza sulle donne, 25 novembre 2016, filmato da Andrea, con l’aiuto dei compagni e incorporato da Stefania e Alessandra in un sito web progettato e realizzato per l’occasione (www.femminicidiocosentino.altervista.org).

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lare.

Il video suscita un grande interesse e viene seguito con attenzione partico-

Benché sia stato fatto con mezzi poveri, l’opera interpreta magnificamente il tema “femminicidio” e suscita forti emozioni. A questo punto, Tommaso introduce l’argomento “attività per i prossimi mesi” e propone tre incontri da farsi a scuola e tre gite-escursioni. Per le prime due riunioni, propone di leggere il libro intervista La scuola è mondo di Marco Rossi-Doria, uomo di scuola, formatore con le metodologie della scuola attiva e laboratoriale, sottosegretario alla Pubblica istruzione nei governi Monti e Letta. Riunioni: 1. fine febbraio, prima metà del libro di M. Rossi-Doria; 2. aprile, seconda metà del libro di M. Rossi-Doria; 3. giugno, con gli amici di Nomadelfia, sul tema La comunità, la casa della persona.

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Si discute con interesse la proposta e si delibera che le tre riunioni possano valere come attività di autoformazione degli insegnanti. Tommaso si impegna a inoltrare la richiesta alla dirigente Brunella Baratta, aggiungendo che sarebbe bello se si potesse invitare Marco Rossi-Doria al Cosentino a guidare una giornata di formazione per tutto il personale. Gite-escursioni: 1. marzo, gita a Lungro (sede dell’omonima eparchia), Acquaformosa (per ammirare i mosaici), Frascineto (per visitare il museo delle icone) e Civita (canyon Raganello) per un percorso Arberesh; 2. maggio, escursione al Cozzo del Principe nel Parco Nazionale della Sila; 3. giugno, con gli amici di Nomadelfia, escursione nel Parco Nazionale del Pollino. La proposta viene discussa e approvata. L’incontro termina dandosi appuntamento alle 20.30 in pizzeria, al Vecchio Mulino di Castiglione Cosentino.

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L’osmosi tra scuola e società. Salvezza o dannazione?

(riunione del 2 marzo 2017, appunti di M. Flotta)

In data 02/03/2017 si è svolta presso il laboratorio “Giallo” dell’ITE Cosentino di Rende la seconda riunione dell’anno 2017 del gruppo Sos scuola. Partecipano all’incontro: Tommaso, docente di informatica; Giovanna, docente di matematica; Nunzio, pensionato; Chiara, docente di lettere; Alfio, ex docente di lettere e appassionato componente storico del gruppo Sos scuola, Emma, docente di lingua francese; Angela, docente di lettere; Mariaelisa, docente di economia aziendale; e gli alunni Andrea, Stefania e Alessandra della V B Sia. L’incontro inizia con una breve introduzione di Tommaso, che lancia spunti e riflessioni sul libro La scuola è mondo. Conversazioni su strada e istituzioni, appassionante viaggio di Marco Rossi-Doria nella scuola del nostro tempo. Per l’incontro, i partecipanti hanno letto la prima metà del libro. Gli studenti presentano gli ultimi lavori multimediali e ipertestuali, segnatamente il sito web realizzato dalla IV A Sia sull’esperienza dell’Open day e il video “E se fossi io la vittima?” realizzato da Andrea, Stefania, Alessandra e altri compagni di classe sotto la guida del professore Cariati. Discorrendo sul libro di Rossi-Doria, le prime impressioni sono espresse da Emma, la quale manifesta apprezzamenti sull’autore, che definisce “persona perbene” sulla base di quello che trasmette attraverso le sue righe. Ciò che l’ha colpita è la rivendicazione da parte di Rossi-Doria del diritto alla libertà del docente, oggi particolarmente in pericolo a causa dell’intricata normativa che imbriglia e non lascia esprimere il docente in termini di didattica e metodologie, anche per il tempo che spesso viene rubato alla progettazione e alla programmazione, per dar spazio ad attività diverse e di dubbia utilità. Interviene Chiara, la quale paragona il modello formativo degli insegnanti degli anni passati descritto dall’autore con l’esperienza del gruppo Sos scuola: un tempo avveniva una sorta di formazione “fra pari”, docenti anziani e neo docenti, nell’ambito anche di incontri di confronto e discussione “fra amici”. Nella scuola di oggi mancano queste occasioni di confronto, a parte le riunioni canoniche e istituzionalizzate, spesso più occasione di scontro che di confronto. Il gruppo Sos scuola propone queste occasioni informali di dibattito costruttivo fra docenti, proponendo anche un trait d’union con studenti e famiglie. Chiara continua con le proprie impressioni sul libro, parlando delle difficoltà della scuola in un contesto di trasformazione sociale, di rapporti difficili, di famiglie iperprotettive. L’autore fa esempi di esperienze di “scuola buona”, che dovrebbero essere diffuse e rese note per trarne esempio e insegnamento. Si fa riferimento inoltre alle riflessioni di Rossi-Doria sul recupero della dispersione scolastica.

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Al termine dell’intervento di Chiara, Tommaso e gli alunni presenti all’incontro illustrano alcuni lavori apprezzabili eseguiti da alcuni studenti, ottimi esempi di scuola attiva, per progetti e laboratoriale: - Il sito www.cosentinopenday.altervista.org, realizzato dai ragazzi della IV B SIA. In questo lavoro ogni alunno della classe è diventato protagonista, nella realizzazione di un progetto comune. La classe, a parte pochi elementi, ha presentato al termine del primo trimestre molte insufficienze: la realizzazione di questo progetto ha smosso lo stato di apatia e disinteresse che presentavano gli alunni, collaborando a un obiettivo comune. - Il video “E se fossi io la vittima”, reperibile su Youtube all’indirizzo http://youtu.be/6-BstQVcBes, è un filmato molto efficace sul bullismo, realizzato da alcuni ragazzi della V B Sia. Tommaso e gli altri docenti esprimono soddisfazione e apprezzamenti per l’encomiabile lavoro realizzato dai ragazzi. Si ritorna alla discussione sul libro, esprimendo considerazioni personali sulla scuola e sul ruolo del docente. Emma denota in molti colleghi mancanza di senso di appartenenza, demotivazione, in una professione che purtroppo per alcuni risulta essere un ripiego. Molti giovani docenti entrano con arroganza, e manca un vero e proprio passaggio di conoscenze e know how fra vecchi e nuovi docenti. Alfio approfondisce sulla crisi del ruolo del docente, a causa innanzitutto di una crisi della società. Si è assistito in passato ad un passaggio da scuola “autoritaria” (prima della rivoluzione del ’68) a scuola “autorevole”, ma ultimamente c’è un disfacimento di tale autorevolezza. La società si modifica ma non si modificano le sovrastrutture (Stato, istituzioni etc). In passato le istituzioni e le agenzie educative non entravano mai in contrasto fra di loro (scuola, famiglia, chiesa, politica etc). Oggi si assiste ad una preoccupante confusione, le regole non sono condivise, il concetto di male e bene è diventato soggettivo. Alfio continua riflettendo sulla mancanza di severità della scuola odierna, si evita di bocciare sia a causa di complesse normative sia per evitare contrasti con le famiglie. Interviene Angela, che descrive alcune petizioni che girano sui social per rimuovere la fiscalità nelle scuole (no voti, no giudizi). La scuola tuttavia deve essere maestra di vita, bisogna evidenziare le differenze fra individui, così come avviene poi nella vita “da adulti”. Ci deve essere una promozione per merito. Bisogna trovare una via di mezzo fra quelli che Rossi-Doria definisce docenti “salvifici” e docenti “persecutori”. Chiara: bisogna creare un clima di classe favorevole a stimolare l’apprendimento di tutti. Interviene Giovanna, la quale aggiunge che una delle armi vincenti degli insegnanti è la coerenza, il docente è un modello da seguire. Cita e racconta alcune esperienze scolastiche personali. Critica alcuni aspetti delle ultime riforme, e parla della difficoltà oggettive di gestire i “diversamente abili” all’interno della classe nelle ore in cui non è presente il docente di sostegno. 8


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Mariaelisa parla della demotivazione di alcuni insegnanti, che restano seduti alla cattedra e non stanno fra gli alunni. Creano clima di terrore, non stabiliscono un rapporto di reciproca stima. Tommaso approfondisce la riflessione soffermandosi sulla pagina 25 del libro e riportando al centro il tema “L’osmosi tra scuola e società. Salvezza o dannazione?”. Scrive Rossi-Doria: “Una cosa è certa: quel che non si può continuare a fare è dire a centinaia di migliaia di docenti che devono fare alcune cose e, poi, lasciare che ne debbano invece fare anche molte altre, senza che ciò sia pattuito”. Come hanno detto bene Alfio e Chiara, la società è cambiata completamente rispetto ad alcuni anni fa, soprattutto a causa delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. I ragazzi sono totalmente diversi dai loro fratelli maggiori e vengono a scuola con strumenti che li distraggono da quello per cui si dovrebbe stare insieme in aula. Il mondo è entrato prepotentemente nella scuola, siamo stati travolti dai cambiamenti e proviamo disagio e smarrimento. Al docente vengono richiesti innumerevoli adempimenti burocratici, e gli vengono ribaltate addosso responsabilità per situazioni che spesso non può fronteggiare. Le varie riforme, troppe negli ultimi anni, hanno stravolto la funzione docente, mettendo i contenuti disciplinari in secondo piano. Ci vengono richieste competenze, abilità e prestazioni per le quali non siamo stati formati. In questa situazione, senza un nuovo patto tra le istituzioni, la società e i docenti, il sistema non può che essere caotico, frustrante, inefficace. Si termina l’incontro con un breve saluto di Nunzio, e si invita a visitare il suo sito: www.fotodellacalabria.it Si propone una escursione domenicale per i primi di aprile, a cura di Alfio. Si tratterà di un percorso “Arbresh”, e si visiteranno le città di Lungro, Acquaformosa, Civita, Frascineto. Attendiamo con trepidazione di visitare questi luoghi simbolo della tradizione albanese.

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Cambiare la scuola si può, e si deve. Di male in peggio no, grazie!

(riunione dell’8 giugno 2017, appunti di C. Marra e T. Cariati)

Sono presenti all’incontro, nel laboratorio giallo del Cosentino, Tommaso, Chiara, Alessandra, Alfio, Mariaelisa, Emma, Rosina, Giovanna. Il tema è interessante e trae spunto dal libro di Marco Rossi-Doria La scuola è mondo, del quale si è letta e commentata la prima parte nell’incontro del 2 marzo u.s. La seconda parte del libro affronta questioni importanti come il rapporto tra teoria e pratica e l’approccio laboratoriale e cooperativo nei processi di insegnamentoapprendimento. Rosina: il lavoro dell’insegnante è bellissimo ma sono stati capaci di ridurlo a questioni di griglie. Come sia potuto accadere che un lavoro fondamentale e delicato come è il nostro sia stato trasformato in senso burocratico e reso irriconoscibile, inducendo in ognuno di noi una crisi di identità? Il libro di RossiDoria ci aiuta a prendere coscienza di quello che sta avvenendo nella società, nella politica, sulla pelle di insegnanti e alunni. Tommaso: mi soffermo su tre questioni e faccio un’annotazione a margine. La prima questione: se vogliamo una scuola non trasmissiva, come sostiene chiaramente Rossi-Doria, non possiamo sottoporre gli insegnanti a corsi di aggiornamento trasmissivi, fatti come conferenze, rivolti a cinquecento persone stipate in una sala cinematografica. I formatori devono essere bravi ad applicare, loro per primi, tecniche e metodologie non trasmissive. Naturalmente servono migliaia di tali formatori, e non si può pensare di risolvere i problemi dell’innovazione metodologica con qualche proclama e con i corsi online. Seconda questione: la gente si chiede come mai la scuola sia ridotta in macerie. Rossi-Doria ribadisce che, durante il governo di Berlusconi, in cui per la scuola decidevano Tremonti e Gelmini, dal settore sono stati tolti 8,4 milioni di euro ogni anno. Vi rendete conto? Noi di Sos scuola c’eravamo e lo sappiamo bene, ma quanti non se ne sono resi conto o se ne sono dimenticati? Un tale disinvestimento, dice Rossi-Doria, non è mai avvenuto prima nella storia dell’Italia unita, salvo forse in tempi di guerra, né in altri paesi europei. Vedete, cambiare la scuola si può, ma spesso la si cambia in peggio. Terza questione: trovo interessante che Rossi-Doria elenchi un grande numero di casi di progetti didattici in cui si alterna sapientemente la pratica con la teoria, per permettere agli studenti di partire da quello che a loro interessa maggiormente, costruire insieme a loro un progetto di opera che abbia un senso pieno nella realtà e lasciare che lo attuino sostenendoli o facendoli sostenere da esperti del settore. Da questo punto di vista, l’alternanza scuola lavoro è una bella sfida, ma non l’unica via, anche se per noi, vista la fragilità del tessuto imprenditoriale locale, sembra una partita persa in partenza. 10


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A margine, un’annotazione: sono compiaciuto che Rossi-Doria non ponga mai l’enfasi sulle tecnologie come rimedio universale ai mali della scuola, ma punti sempre sulla relazione docente-gruppo di discenti, docente-discente, team di docenti-gruppo classe. Mi sembra una questione non secondaria, visto che taluni farneticano di riempire le aule di computer e di abbandonare gli studenti a se stessi e in balia della rete, magari facendo a meno dei docenti. Elisa: mi ha colpito che Rossi-Doria metta in evidenza come le nuove metodologie vengano calate dall’alto. Non possiamo meravigliarci del marasma che c’è nella scuola, perché è lo stesso marasma che c’è nella società e nella classe dirigente. Rosina: prima di proporre una nuova metodologia da impiegare con una classe, bisogna potersene appropriare in modo da padroneggiarla; così come si sta facendo, tutto rimane superficiale. Abbiamo sempre pensato di essere lavoratori con dei diritti. Non so quanto i giovani colleghi si rendano conto che molte delle cose che vengono richieste loro non sono dovute! Emma: prendo spunto da ciò che leggiamo alla pag. 135. Concordo pienamente con il fatto che anche i dirigenti vanno aiutati a migliorare e se non riescono vanno allontanati dalla scuola. Ritornando sul tema della formazione per una scuola non trasmissiva: al cinema Garden abbiamo fatto un “corso” allucinante”. In questo corso, dalle 17.30 alle 20.30, una “formatrice” molto “televisiva” ci ha fatto sentire delle nullità. Più che un corso è stato uno spettacolo, uno show pensato per annichilire l’uditorio. Per quanto riguarda invece il rapporto tra teoria e pratica e l’alternanza scuola lavoro, non sono d’accordo con Rossi-Doria. Forse in questo sono condizionata dall’esperienza che sto facendo dall’interno come tutor in uno di questi corsi. Ma si sa che qui da noi, come diceva Tommaso, ci sono mille difficoltà in questo campo. Io penso che il contatto con il mondo del lavoro per i ragazzi debba essere limitato e condotto con arte. Penso che i ragazzi dovrebbero pensare a studiare, a leggere qualche buon libro, a riflettere, e tenuti lontani dal mondo del lavoro, soprattutto per non venirne spaventati, visto come esso è qui da noi. Giovanna: non credo che sia sbagliata la normativa sull’alternanza, forse è sbagliata la sua applicazione. Credo che non sia giusto far vedere ai ragazzi tutte le disfunzioni del mondo del lavoro, ma è valida l’idea di fare avvicinare i giovani alla realtà, anche perché i ragazzi saranno chiamati a confrontarsi con i giovani europei che queste esperienze fanno da tempo. Mio figlio lavora all’estero, si confronta continuamente con gente di altri paesi e riferisce che gli altri sono molto più dinamici, preparati, autosufficienti e intraprendenti dei nostri giovani. Alfio: gli studenti tacciono. Al massimo fanno intervenire i genitori, per esempio in occasione degli esami. Alcuni diventano furbi: ottenere il massimo risultato col minimo sforzo è il loro motto. Bisogna qualificare l’educazione. Per esempio, la ripetenza è una patologia sulla quale l’insegnante non ha saputo in11


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tervenire per tempo. Poi bisogna chiedersi: come facciamo orientamento? A me preoccupa che la scuola sprechi i soldi in mille rivoli, progetti e progettini, ma il sistema forse peggiora. Alessandra: io, come alunna di quinta, penso che si dovrebbe partire dalla famiglia. A me è stata insegnata l’importanza della scuola come luogo di formazione, prima che come luogo dove si prendono i voti. Certo la scuola dovrebbe essere più adeguata ai tempi in cui viviamo, perché non sempre lo è. L’alternanza è utile per capire meglio se stessi, per avere consapevolezza delle proprie capacità e competenze, per avere l’occasione di mettersi in gioco con professionisti ed esperti. L’alternanza però deve camminare di pari passo con la scuola. Per me e i miei compagni è stato molto utile aver coniugato la pratica con la teoria. L’anno scorso ho fatto un’esperienza organizzata dal prof. Cariati che ci ha condotto a realizzare siti web con Joomla! un potente strumento usato dalle aziende per sviluppare siti web importanti nell’ambito dei Sistemi informativi aziendali. Quest’anno con alcuni compagni ho organizzato un seminario sul femminicidio e, con l’aiuto del prof. Cariati, abbiamo documentato tutti i passaggi realizzando con Expression Web, un software della Microsoft, un sito web che ci ha consentito di esplorare tutte le fasi di un processo complesso: ideazione del seminario, organizzazione dell’evento, gestione rapporti con i relatori, invenzione e realizzazione della locandina, realizzazione e gestione evento in pubblico, progettazione e realizzazione del sito web, illustrazione del sito a tutta la comunità scolastica. Questo modo di lavorare è senz’altro coerente con le opere e i progetti descritti da Rossi-Doria. In questi ultimi mesi, inoltre, sempre grazie all’interessamento del prof. Cariati, stiamo facendo una bella esperienza in una multinazionale giapponese del settore informatico che ha una sede a Rende, la NTT DATA. Ho sentito raccontare di esperienze di alternanza superficiali o insignificanti, noi siamo stati inseriti in azienda con condizioni simili a quelle dei dipendenti: badge temporaneo, buoni pasto, chiavi delle stanze, accesso alle risorse, indirizzo di posta elettronica con il nome dell’azienda ecc. E stiamo lavorando a un progetto originale: un sito sul Cosentino, che potrà essere utile anche in futuro: per esempio, le classi che verranno in seguito potrebbero curarne l’aggiornamento e l’espansione. In azienda sono tutti molto disponibili a darci informazioni e consigli, ma abbiamo anche moltissima autonomia nel portare avanti il nostro progetto. Ecco, anche quest’esperienza assomiglia molto a quanto descrive Rossi-Doria. Per il resto, in tema di rapporto tra teoria e pratica, questi tre progetti non sono certo gli unici. In informatica, per esempio, il prof. ci insegna una cosa in HTML e subito ce la fa provare con il computer o con uno smart phone, a volte prima ci fa sperimentare una cosa in Visual Basic o in SQL e dopo ci spiega bene come vanno le cose. Poi ci fa immaginare un progetto più ampio, partendo dai nostri interessi, da fare con Expression Web o in Access e ce lo fa sviluppare lavorando in piccoli gruppi. Chiara: a proposito di quanto dice Rossi Doria sull’alternanza scuola lavoro voglio solo mostrarvi un video di Nomadelfia news in cui i ragazzi di terza 12


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media, che verranno a Spezzano Albanese a fare gli esami, hanno fatto qualche mese fa. Vedrete come, in un sistema integrato quale può essere una comunità come Nomadelfia, il “problema” di come e quando avvicinare i giovani al lavoro non si ponga affatto: la persona viene formata ed educata nella sua interezza, e presto è chiamata a rendersi conto di come il lavoro sia un valore per il singolo e per la comunità intera. Tommaso: grazie a tutti per i preziosi contributi. Vi segnalo che in questi giorni la ministra ha messo l’imprimatur sull’opera omnia di don Milani, uscita nei meridiani Mondadori. E che il Papa ha riconosciuto ufficialmente il ruolo “profetico” del priore di Barbiana, scrivendo una lettera per l’occasione della presentazione dell’opera omnia a Milano e programmando un viaggio a Barbiana il 20 giugno p.v. Ricordiamo a tutti che il 12 giugno ci rivediamo per incontrare gli amici di Nomadelfia e discutere del tema “Persona e comunità”, e che il 18 giugno facciamo una escursione sul massiccio del Pollino. Non mancate.

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Persona e comunità

(riunione del 12 giugno 2017, appunti di C. Marra e T. Cariati)

Sono presenti Tommaso, Chiara, Rosina, Alfio, Alessandra, Eugenio, Lorenzo, Angelo di Sos scuola; Maria, Chiara, Dorotea, Sara, Marco, Dario, Daniele e Jonatha, otto ragazzi della comunità di Nomadelfia impegnati negli esami di licenza media a Spezzano Albanese, e tre adulti, Paolo, Cristiana e Silvia, che li accompagnano. L’incontro si divide in due parti. Nella prima parte si dà l’opportunità a Eugenio Zingone, Lorenzo Sicilia e Angelo Algieri, della IV A Sia, di presentare alcuni dei siti realizzati con il CMS Joomla! dalla classe durante l’esperienza di alternanza scuola lavoro. I siti riguardano vari ambiti, dal calcio al ciclismo, dalla moda ai viaggi, al body building.

Alfio porge i saluti agli ospiti e, visto che faranno gli esami a Spezzano Albanese, tratteggia per loro la storia degli albanesi di Calabria. Tommaso introduce la seconda parte dell’incontro spiegando i tre motivi che hanno spinto il gruppo a proporre il tema del rapporto tra persona e comunità: 1. alcuni studiosi parlano delle grandi dittature del ’900 come di “ideologie comunitarie”, destando perplessità in coloro che hanno un’idea di comunità che mal si concilia con la dittatura e il totalitarismo; 2. ai nostri giorni si parla spesso di comunità, anche nella scuola, anche nel web, ma per altre vie sappiamo che la società attuale si caratterizza per l’individualismo, la frammentazione e la liquidità dei rapporti, non certo per i legami comunitari; 3. la presenza degli amici di Nomadelfia, una comunità molto singolare, in cui certamente si vive un particolare rapporto tra le esigenze del singolo, da una parte, e i vincoli e le potenzialità della società, dall’altra.

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Silvia: noi abbiamo l’esperienza che ci è stata donata da don Zeno. Io sono nata a Nomadelfia, dato che i miei genitori si erano trasferiti lì. Don Zeno ricordava spesso il detto “quando una donna partorisce, soffre, ma poi gioisce perché è nato un uomo al mondo”. Senza gli altri, senza il mondo, non si può vivere. Naturalmente la comunità impone delle regole. Nell’adolescenza si contestano le regole, anche da noi si discute sulle regole. Il rispetto delle regole è fondamentale per il bene della comunità. Rosina: le regole che i singoli vivono come limitazione servono non solo per il bene della comunità, ma anche a beneficio del singolo. L’individualismo cozza contro la comunità, ma l’individuo può fare a meno della società? Questo è il nodo da sciogliere. Un bel nodo se pensiamo che molte delle nostre istituzioni mettono al centro la proprietà privata, il successo, la carriera. Cristiana: alla base della nostra comunità ci sono i valori universali e cristiani che scegliamo volontariamente di seguire. Il cristianesimo ha ribaltato le regole del mondo: “ama il tuo nemico”, “la proprietà non è del singolo ma di tutti” ecc. Noi, tutti, abbiamo bisogno degli altri; lo dimostrano i fatti. Bisogna usare più spesso “noi” e “nostro”, e meno “io” e “mio”. Negando questo fatto, neghiamo una realtà vera e importante. Le cariche, per esempio, vanno intese come servizio responsabile nei confronti della collettività. La persona, il singolo va valorizzato al massimo perché esprima i doni che ha ricevuto dal Signore, ma a beneficio della comunità, non per sé stesso.

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Paolo: il cristianesimo protestante ha introdotto l’idea che ci si possa salvare da soli. Ma l’idea che si possa essere felici da soli è una bugia. I siti che hanno più successo sono i social network perché rispondono a un’esigenza profonda dell’uomo, stare in contatto con gli altri. Le relazioni mediate dai social sono rassicuranti e sono un tentativo di stare in relazione evitando le ferite che derivano dal contatto reale. Silvia: don Zeno ha voluto fondare la nostra comunità guardando ai valori del vangelo, ma anche a quelli della società patriarcale, cercando dei modi che valorizzassero i pro e riducessero al minimo i contro. Perciò una comunità non basata sul sangue e sull’interesse, ma basata su relazioni profonde che devono essere sempre purificate. Sara: all’esterno di Nomadelfia le cose funzionano diversamente, perché noi viviamo insieme e ci aiutiamo. I ragazzi della nostra età usano molto Internet, mentre noi stiamo molto all’aperto, aiutiamo gi adulti nelle faccende, gli anziani nei loro bisogni. Marco: noi a Nomadelfia non abbiamo cellulari perché non ci servono. Non ho niente di mio, ma non sento il bisogno del possesso, mi sento libero. Non passiamo molto tempo a guardare la TV, ma stiamo insieme, parliamo, giochiamo. Io ho otto fratelli, ci si aiuta a vicenda e non mi sento mai solo, anche quando i genitori non ci sono. Alfio: non vi sentite diversi dagli altri? C’è il rischio di dover faticare per un riadattamento alla vita di fuori? Chiara: non c’è bisogno di vivere a Nomadelfia per sentirsi diversi. Io sono cresciuta in una famiglia numerosa e cristiana e, visto lo stile particolare di vita che caratterizzava la mia famiglia, avvertivo la differenza con i miei compagni del liceo. 16


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Paolo: ho imparato a non giudicare mai le persone, ma i fatti. A Nomadelfia impariamo a vivere le relazioni e questo ci serve per la vita, dentro la nostra comunità, come fuori, come è successo a me quando sono stato all’università. Tommaso: Alfio è una persona molto aperta e socievole. Che cosa ti ha aiutato a diventare così estroverso e attento a tutti? Hai fatto parte di una famiglia numerosa? C’entra la musica e essere arberesh o sono state le tue esperienze politiche, e i tuoi studi? Alfio: sono stato in collegio a Roma fino a ventun’anni. Era un ambiente internazionale. Questo, credo, mi ha aiutato a essere attento a tutti. Poi non dobbiamo dimenticare che l’apertura è un fatto culturale.

Tommaso (rivolto ai ragazzi di Nomadelfia): secondo voi c’è un buon equilibrio da voi tra le esigenze di realizzazione del singolo, le esigenze di libertà e indipendenza, da una parte, e le regole e i vincoli della comunità, dall’altra? Vi è mai capitato di sentire lamentele a riguardo? Daniele: nella mia famiglia eravamo in undici. Alcuni membri sono andati via da Nomadelfia. Io ho capito che non tutti hanno la chiamata a stare a Nomadelfia. Alessandra: secondo me, siamo noi fuori di Nomadelfia a essere più limitati, perché noi siamo liberi solo sulla carta, nei fatti, in una società malata, le cose stanno molto diversamente, basta guardare le ingiustizie e la disoccupazione. A Nomadelfia, da quello che capisco, si vive in modo più sano ed equilibrato, più serenamente e senza discriminazioni. In conclusione, Tommaso mostra il libro di Giuseppe Limone, Persona e memoria, uscito recentemente da Rubbettino, e spiega che è un’ottima lettura per approfondire il tema “Persona e comunità”, che il pensiero dell’autore l’ha guidato nella scelta del tema odierno e che sperava di potere offrire durante la riunione qualche spunto tratto dal libro. Mancando il tempo, inserirà alcune annotazioni negli appunti. Scrive Limone nel capitolo intitolato “Sul rapporto tra il singolo e la comunità”: «La persona è sia dipendente da ogni altra, sia indipendente da ogni altra. Nella sua dipendenza essa esprime il suo doveroso nesso relazionale; nella sua indipendenza, esprime il suo sussistente diritto unitario». Questo perché, come è noto, la persona è unica, irripetibile, originale. La persona però, aggiunge Limone, «in quanto non dispone del suo essere ciò che è, vive – nel suo essere indipendente – la sua indisponibile dipendenza dall’essere ciò che è e non altro». Più avanti, leggiamo che la persona è «un fenomeno che agisce, distaccandosi e distinguendosi da un fondo. Un fenomeno che agisce e che porta. Una parte che si distacca. Una parte che si relaziona con altre. Una parte fatta di parti. Divisa e indivisibile da ciò da cui si stacca. Divisa e indivisibile dalle altre parti con cui dialoga. Divisa e indivisibile in sé. Frutto del grembo da cui si stacca. In 17


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rapporto con gli altri frutti. Partorita dalle stesse parti di cui è frutto concentrato. Una figura». Limone concludendo precisa: «La persona, staccata dal suo grembo, appare un inviato. Capace di dire io. Capace di relazionarsi con dei tu. Capace di apparire come un chi. Capace di stare all’interno di una comunità. Filosoficamente, una formazione memoriale intelligente. Storicamente, una formazione corallina, cioè plurale e una». L’incontro termina con la condivisione dei cibi che ognuno ha portato, e con la promessa di rivedersi domenica 18 per l’escursione sul massiccio del Pollino.

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Gita di SOS scuola ai paesi arberesh della provincia di Cosenza (2 aprile 2017, appunti di A. Morrone, foto di C. Marra)

Domenica 2 aprile 2017 un folto gruppo di amici e simpatizzanti di Sos scuola si è mosso alla volta di Acquaformosa, Lungro, Civita e Frascineto per un itinerario arbresh. La prima tappa si è svolta ad Acquaformosa (acqua che dà salute). Il paese, collocato ad un’altitudine di 756 metri sul livello del mare, fa parte della minoranza linguistica arbresh, presente in tutto il territorio dell’Italia meridionale. La popolazione custodisce usi, costumi e tradizioni e conserva il rito grecobizantino, soggetto alla giurisdizione ecclesiale dell’Eparchia di Lungro. Nella chiesa parrocchiale intitolata a San Giovanni Battista siamo stati accolti da padre Rafael che ci ha raccontato di Acquaformosa e dei paesi arbresh. Per circa 400 anni gli albanesi sono stati senza diocesi, solo nel 1919 è stata istituita quella di Lungro. La chiesa parrocchiale, dedicata a San Giovanni Battista, è stata costruita dagli albanesi che abitavano l’allora casale agli inizi del 1500. Probabilmente venne ultimata già nel 1526. Cadente, fu demolita e ricostruita tra il 1936 ed il 1938. Dal 1989, per volontà del parroco, Vincenzo Matrangolo, si sta realizzando la decorazione a mosaico moderno, antico solo nell’immaginazione per i personaggi utilizzati. Viene definito come un miracolo perché la popolazione non poteva permettersi questa realizzazione, è stata resa possibile solo grazie ai risparmi e ai beneficiari americani, amici del parroco. Per la realizzazione dei mosaici, il parroco ha voluto l’artista locale Biagio Capparelli, che ha studiato presso l’Accademia di Belle Arti di Roma ed è poi ritornato ad Acquaformosa. Importanti e imponenti i mosaici della chiesa rappresentano Gesù nell’Ultima Cena, il passaggio dall’Antico al Nuovo Testamento, l’Annunciazione; in pratica una Bibbia a colori che, insieme alle sue tessere luccicanti e vivide di colori, sono uno strumento artistico per trasmettere la bellezza della fede. Le tante tessere, varie e diverse, ma confluenti in figura manifestano l’armonia nella molteplicità delle persone, che insieme costituiscono la comunità e la Chiesa.

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Ci siamo poi trasferiti a Lungro. Sito a 650 metri sul livello del mare, è sede dell’Eparchia bizantina, che raccoglie sotto la propria giurisdizione tutte le comunità albanesi continentali che hanno conservato il rito bizantino. L’antica lingua albanese, i riti religiosi orientali e i tipici costumi della cultura d’origine sono tramandati e conservati gelosamente. Qui ci siamo subito recati alla Cattedrale di San Nicola di Mira, principale chiesa dell’Eparchia, nella quale abbiamo potuto assistere alla visita di S.Em. Athanasios, Metropolita di Achaia, accolto nella fraternità dal Vescovo, S.E. Donato Oliverio; allora abbiamo partecipato alla celebrazione della Santa Messa in greco-bizantino. La visita di Athanasios segue il solco della tradizionale vocazione ecumenica della Eparchia di Lungro degli italo-albanesi dell’Italia continentale che, negli ultimi anni, per iniziativa del suo Vescovo, ha ospitato numerosi esponenti della chiesa ortodossa. L’accoglienza al Metropolita ha seguito il protocollo che si è andato consolidando nel corso degli ultimi anni e che prevede, tra l’altro, l’esposizione delle bandiere greca e albanese sul balcone della curia vescovile. Giunto nella Cattedrale di San Nicola di Mira, Athanasios ha assistito alla celebrazione della divina liturgia alla quale erano presenti abitanti di vari paesi come San Benedetto Ullano. Di grande rilievo il gesto compiuto nel corso della celebrazione dal Metropolita che, dopo il piccolo introito, ha rotto il protocollo seguendo il vescovo Donato all’interno del Vima: un gesto dall’enorme valore simbolico, la vicinanza fisica cercata per testimoniare quella spirituale. Di profonda rilevanza anche le parole con cui il vescovo Donato ha riassunto, nel corso dell’omelia, i tratti fondamentali della storia degli arbresh, rimarcando le origini storiche del legame mai interrotto con il Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli e con la Chiesa autocefala ortodossa di Grecia. È stata ricordata l’importanza del Concilio di Firenze sulla cui base è stato permesso agli avi arbersh, ortodossi, di essere accolti come fratelli nei territori latini del Sud Italia. La Chiesa italo-albanese, ha affermato il vescovo, si è trovata a convivere con 20


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una duplice giurisdizione: quella territoriale di Roma e quella ecclesiastica di Ocrida la quale provvedeva alla necessità pastorali, ordinando i presbiteri. Questa singolare situazione si protrasse ufficialmente fino al 1564 ma, in incognito, si protrasse fino al 1767, anno in cui il Patriarca di Costantinopoli su richiesta del sultano abolì la metropolia di Ocrida. Per questo motivo l’arcidiocesi ortodossa di Ocrida viene considerata la chiesa madre di quella italo-albanese. Possiamo affermare che la chiesa italo-albanese da oltre 500 anni si mantiene fedele alle proprie tradizioni orientali, al proprio rito bizantino, alla lingua greca, alla lingua albanese, al ricordo di Giorgio Kastriota Skanderbeg e alle tradizioni dei propri antenati. Nei sacerdoti e nei fedeli cristiani è evidente la piena coscienza della propria identità etnica, culturale e liturgica. Nella storia dell’ortodossia la chiesa di Lungro rappresenta davvero un fatto unico in quanto essa è strutturata con un proprio vescovo, clero e culto, e lingua liturgica in un territorio di competenza giurisdizionale latina e quindi al di fuori dei territori nazionali stabiliti dai concili ecumenici della chiesa orientale.

Dopo la divina liturgia ci siamo spostati a Civita. A 450 metri sul livello del mare, all’interno della riserva naturale Gole del Raganello e nel cuore del Parco nazionale del Pollino, è tra le storiche comunità albanesi d’Italia, non lontana da Ejanina e Frascineto. A Civita abbiamo gustato un ottimo pranzo al ristorante “L’antico ulivo”.

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Dopo pranzo, trovando irresistibili le sue bellezze naturali, abbiamo deciso di fare una passeggiata fino al Ponte del diavolo ammirando le superbe montagne rocciose e suggestive del canyon del Raganello.

Risaliti nel centro storico abbiamo visitato la parrocchia di Santa Maria Assunta, costruita in stile barocco nella seconda metà del XVI secolo, accolti dal papàs Antonio Trupo. L’impianto è orientale: guarda verso il sorgere del sole e reca i simboli e le forme della teologia bizantina: l’iconostasi, l’altare quadrato, le icone e gli affreschi. La chiesa ha un’architettura di tipo basilicale con decorazioni interne di stile tardo barocco. Nel 1988, per volere del papàs Antonio Trupo, è stato sostituito l’altare latino con l’iconostasi in legno di noce e di ulivo, tipica delle chiese di rito greco-bizantino. Infine, dopo una veloce visita, da parte di alcuni di noi, al museo etnografico di Civita, ci siamo recati a Frascineto. Anche Frascineto conserva ancora la lingua, la cultura e le tradizioni d’origine e le funzioni religiose in rito bizantino, soggette alla giurisdizione ecclesiale dell’Eparchia di Lungro. Si stende di fronte al Parco nazionale del Pollino a 486 metri sul livello del mare, su un’ampia pianura. Qui sfidiamo il vento freddo per incontrare il papàs Antonio Bellusci che ci farà conoscere la sua biblioteca. 22


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Nel cuore del Pollino, la biblioteca-museo di Frascineto “Antonio Bellusci” conserva un vero patrimonio di storia e tradizione. Inaugurata il 28 aprile del 2001, contiene testi sulle minoranze storico-linguistiche, poesie, testi letterari e storici, tesi di lauree. Una biblioteca che è molto più che un contenitore di libri. I monti del Pollino possono essere ammirati dalla stessa sala di lettura, e il luogo che la ospita è la casa stessa del suo fondatore, il protopresbitero Antonio Bellusci. Il raggio di azione è ampio, perché la biblioteca conserva migliaia di volumi, foto, registrazioni e altro materiale riguardante non solo la presenza arbresh in Calabria, ma anche le comunità di origine albanese sparse in Italia e nelle altre nazioni in cui gli albanesi si sono dispersi. Una biblioteca fortemente specialistica dunque, e che ha proprio in questa sua specializzazione il suo punto di forza. È raro, infatti, trovare altrove altrettanto materiale sul tema, il che fa diventare la biblioteca meta ogni anno di numerosi studiosi che vogliano avvicinarsi al settore. Nell’edificio si possono ammirare inoltre numerosi oggetti della vita quotidiana di queste comunità, a rappresentare le tracce della cultura popolare. Coesistono così la Biblioteca e il Museo Etnografico “Argalia–Il Telaio”. Prima di uscire dalla biblioteca ci è stato chiesto di lasciare un piccolo pensiero con la propria firma per testimoniare la nostra visita e ci siamo prestati volentieri a lasciare un nostro ricordo sul libro degli ospiti.

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Uscita di SOS scuola a monte Curcio (2 giugno 2017, appunti di C. Marra, foto di aa.vv.)

Ci siamo ritrovati alle 9.30 davanti a casa di Tommaso e Chiara e ci siamo avviati verso Camigliatello, dove abbiamo incontrato un altro pezzo della nostra compagnia e abbiamo fatto scorta di salsicce da arrostire e pitte fresche fresche. Destinazione monte Curcio. Siamo saliti con l’impianto di risalita che funziona ogni tanto per i pochi turisti di passaggio dalla Sila.

Scesi dalla cabinovia abbiamo raggiunto una piccola area pic nic predisposta con i tavolini e un punto fuoco utile per preparare la brace per arrostire le nostre salsicce. Gli uomini, coordinati da Tommaso, si sono dati da fare per raccogliere la legna, preparare il fuoco e appuntire gli spiedi.

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Intanto Chiara, che è a dieta, si prepara il petto di tacchino nella gavetta scout utilizzando il fornellino a gas.

Il pranzo, gustoso e ricco, è andato avanti con le cose che ciascuno aveva portato da condividere con gli altri, e alla fine ci siamo rilassati cantando qualche stornello accompagnati dalla chitarra di Alfio.

auto.

Finito il pranzo ci avviamo per affrontare il sentiero che ci riporterĂ alle

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Escursione alla Grande porta del Pollino con gli amici di Nomadelfia (18 giugno 2017, appunti di T. Cariati, foto di C. Marra)

Alle 8 in punto si parte da Rende. Alle 8.45 arrivo a Frascineto, dove ci aspettano undici persone di Nomadelfia, otto ragazzi impegnati negli esami di terza media a Spezzano Albanese, e tre accompagnatori adulti. A Colle Impiso non è facile sistemare le auto, visto il grande numero di veicoli che quasi ostruiscono la strada. C’è tanta gente: sembra una fiera, una festa popolare o il pellegrinaggio verso un santuario.

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Lungo la salita, attraverso la faggeta, i gruppi si mescolano, avvengono riconoscimenti, si scambiano opinioni, si discorre del rischio di pioggia. Appena fuori dal bosco il sole è splendente, le vette e le serre si mostrano nella loro maestà . Molti si riposano, alcuni si interessano al branco di cavalli, altri si rifocillano consumando qualcosa, tutti sembrano felici.

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Si riprende a camminare. I gruppi si sparpagliano, vista l’immensità degli spazi e la molteplicità delle mete. Noi siamo diretti alla grande porta, perciò saliamo verso il filare dei pini loricati posti al margine della piana pietrosa del Pollino. I ragazzi si lanciano in una corsa e poi in una marcia rapida. Gli adulti salgono lentamente. In prossimità degli alberi singolari si discorre del pino loricato e della sua corazza. La serra sulla destra è una barriera ferrigna che impedisce lo sguardo sulle campagne di Castrovillari e sullo Ionio. Ancora uno sforzo e giungiamo alla Grande porta. Quell’esemplare di pino loricato, dal tronco gigantesco e dalla chioma bellissima, che è l’icona del parco nazionale del Pollino, abbattuto da sciagurati alcuni lustri fa, è ormai ridotto a un triste mucchio di legna in decomposizione.

Ci riposiamo e consumiamo qui il nostro pasto. Si propone ai più ardimentosi di salire sulla serra delle Ciavole per gettare uno sguardo oltre il muraglione immenso, punteggiato di molti esemplari di pino loricato, ma si preferisce fare dietro front. Si fanno ipotesi di escursioni future verso le vette più famose, ma per ora siamo sazi.

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Man mano che si scende, avvertendo la stanchezza, si comincia ad avere contezza delle distanze percorse e delle ascese.

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La nostra scuola si apre al mondo: ospitiamo otto ragazzi di Nomadelfia per gli esami di Stato (di Chiara Marra)

Nel corso di questi ultimi giorni la scuola media dell’IC “Rita Levi Montalcini” ha vissuto un’esperienza interessante e coinvolgente: abbiamo avuto otto ragazzi di Nomadelfia come privatisti agli esami di Stato. Nomadelfia, il cui nome significa “legge di fraternità”, è una comunità cattolica composta da circa trecento persone che si trova nel comune di Grosseto, in Toscana, su una superficie di 4 kmq, dove si vive sul modello delle prime comunità cristiane. Nomadelfia ha le scuole all’interno della comunità e perciò i propri figli, ogni anno, devono sostenere gli esami di fine ciclo nelle scuole pubbliche. Già lo scorso anno, dopo la visita mia e di mio marito a Nomadelfia, avevo avviato uno scambio epistolare fra i miei alunni della 2 B e i ragazzi di seconda media della comunità grossetana e così, grazie a questi contatti, è nata, dal dialogo con la coordinatrice della loro scuola media, Cristiana, l’idea di verificare se fosse possibile far sostenere gli esami di terza media ai loro ragazzi qui a Spezzano Albanese. A novembre ne ho parlato con la dirigente e mi ha chiesto del tempo per riflettere, ma poi, forse convinta dal mio entusiasmo e dal suo desiderio di affrontare sempre nuove sfide, mi ha dato la sua disponibilità a parlarne in collegio docenti per dare il via all’esperienza. Il collegio docenti ha approvato la proposta e così abbiamo invitato i coordinatori della scuola familiare di Nomadelfia a Spezzano perché ci presentassero la loro realtà e i ragazzi che avremmo esaminato a giugno. Nel mese di gennaio quattro coordinatori della scuola della comunità sono venuti in Calabria e, in un incontro con la dirigente e con tutti gli insegnanti della scuola media, hanno spiegato chi sono, qual è la loro idea di scuola, e le caratteristiche delle persone che avremmo esaminato. Ci hanno poi mandato tutti i documenti necessari per l’iscrizione dei ragazzi all’esame in qualità di privatisti, in un dialogo che ha visto coinvolti anche i nostri assistenti amministrativi della segreteria. Finalmente, con l’insediamento della commissione d’esame siamo entrati nel vivo di questa avventura. Anche la presidente di commissione, la prof.ssa Rosina Gallicchio, si è lasciata coinvolgere volentieri nel fatto singolare di esaminare come privatisti otto persone provenienti dalla lontana Toscana. Gli otto ragazzi sono stati bravi, ciascuno ha dato il meglio di sé negli scritti, ma ancor più nei colloqui, durante i quali, con convinzione, disinvoltura e umiltà ci hanno mostrato la ricchezza dell’esperienza che vivono, in termini di entusiasmo per tutto ciò che li circonda, di passione per l’arte e per la musica, di 31


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sicurezza nell’espressione linguistica sia in italiano che nelle lingue straniere, di serietà nello studio delle scienze e della tecnologia, di attenzione alla storia e ai processi che governano i fenomeni dell’attualità. I nostri alunni sono stati contenti di aver conosciuto ragazzi della loro età che conducono una vita simile alla loro, ma nello stesso tempo diversa. Noi insegnanti siamo grati della possibilità che abbiamo avuto di vivere questa esperienza che ci ha resi più ricchi sul piano umano e sempre più desiderosi di conoscere e far conoscere ai nostri studenti realtà belle e significative come quella di Nomadelfia. Spezzano Albanese, 28.06.2017

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Lavoro del referente BES, classe IV A Sia, a.s. 2016/’17 (di Tommaso Cariati)

Alla fine del primo trimestre molti studenti della classe presentavano situazioni negative nella maggior parte delle discipline. Il referente BES, munito del tabellone dei voti, ha sollecitato la classe a riflettere, invitando ciascuno a reagire e la classe a diventare un gruppo coeso e cooperante. Il referente ha spiegato che, secondo Howard Gardner, esistono molte intelligenze e che se uno non possiede l’intelligenza specifica della matematica, del diritto o della storia non vuol dire né che è stupido, né che non può apprendere, almeno fino a un certo punto, la matematica, la storia, il diritto, magari partendo dai propri punti di forza e utilizzando strumenti e metodi che gli sono congeniali. Gli studenti si sono mostrati molto attenti e hanno seguito i consigli del referente BES, il quale così si è trasformato in una sorta di tutor-coach. Gli ambiti sui quali si è puntato subito sono stati quattro: 1. Valorizzare pienamente il progetto “Quale uomo, quale cultura, quale scuola per il XXI secolo?” e SOS Scuola. 2. Usare HTML e CSS o Expression Web per studiare qualsiasi materia, smontando i contenuti da apprendere in tante parti e collegandole secondo un criterio logico-referenziale definito in uno schema ipertestuale, come già sperimentato da tempo in informatica; 3. Abbinare uno studente bisognoso di sostegno a uno “bravo”, sempre sotto la supervisione dei docenti, e del docente referente BES in particolare; 4. Progettare e realizzare in team, secondo la logica laboratoriale e d’impresa, “Teambrascu”, del materiale informativo (tre striscioni ciascuno alto un metro e lungo quattro) da collocare in punti strategici dell’Istituto in occasione dell’Open Day, e, in parallelo, realizzare un sito web in cui documentare tutto il progetto. Questi progetti sono stati realizzati in gennaio. Il sito è stato realizzato e pubblicato e può essere raggiunto dal sito di SOS scuola. Esso si presenta come in figura:

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Nel mese di febbraio la situazione era migliorata: c’era maggiore cooperazione e spirito di squadra, alcuni avevano realizzato ipertesti su argomenti di storia e di diritto, e, soprattutto, tutti gli studenti, guidati dal docente di informatica/referente BES, avevano realizzato, ciascuno con un proprio ruolo e dando un particolare contributo, gli striscioni progettati, collocandoli nei posti previsti, e il sito web. Tuttavia, alla fine del secondo trimestre la situazione risultava ancora mediamente negativa per gli studenti con forti carenze e profonde lacune. Il referente BES allora ha puntato a mettere a frutto le energie creative e la volontà che si stavano sprigionando, invitando la classe a prendere contatto con tutto il materiale che era stato prodotto l’anno precedente con il software open source Joomla! all’indirizzo www.corsosia1.altervista.org, proponendo e ottenendo dal collegio dei docenti che la classe partecipasse a un’esperienza di venti ore di alternanza scuola-lavoro mirata a progettare e realizzare siti web con questa piattaforma di tipo CMS (Content management system). Inoltre, d’intesa con i colleghi del consiglio di classe, si sono predisposti sei PDP con cui si è sintetizzato il lavoro che con la classe si stava portando avanti, e con ciascuno studente in particolare. Ciascun PDP conteneva ovviamente anche riferimenti all’eventuale rallentamento dell’esposizione dei nuovi contenuti, al rinvio, quando necessario, delle prove di verifica, alla somministrazione di altre prove, dopo un periodo di recupero, con micro lezioni in itinere da parte del docente e l’aiuto del compagno-tutor, se una prova risultava negativa. Ogni PDP è stato illustrato alla famiglia dello studente, appositamente convocata, la quale lo ha sottoscritto. Il progetto “Siti web con Joomla!” ha visto una partecipazione interessata e continua da parte degli studenti ed è terminato con la realizzazione di molti siti su argomenti di interesse degli studenti. I prodotti finiti sono stati pubblicati nel web e si possono visionare partendo dal sito di Sos scuola dove si trova la seguente maschera.

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Gli studenti sono stati invitati a presentare i loro lavori a compagni e docenti in varie occasioni agli incontri di SOS Scuola. Questo espediente è risultato essere una spinta potente per mettersi alla prova in pubblico e superare le ritrosie, raccogliere con orgoglio i meritati apprezzamenti degli altri, vedere accrescere l’autostima, auto valutarsi. Purtroppo non tutti gli studenti, curati in modo personalizzato come descritto, sono riusciti a evitare di perdere l’anno, ma tre di loro ce l’hanno fatta, e tutti hanno avuto almeno la sufficienza in informatica. Inoltre, noi crediamo, l’esperienza che ciascuno ha vissuto diventerà bagaglio utile per il suo futuro. Il lavoro è risultato complessivamente positivo, da tesaurizzare e riproporre come modello. In particolare, sembra interessante l’armonioso rapporto tra l’uso delle tecnologie digitali nella didattica; il lavorare per progetti su materiali autentici, con argomenti scelti dallo studente e con obiettivi che per lui risultino insieme una sfida e un’impresa; l’incoraggiare, il suggerire, il curare l’autostima e le relazioni autentiche all’interno dell’universo classe. Da questo punto di vista, noi crediamo, bisognerebbe meditare a lungo e profondamente sulla domanda: “Servono più tecnologie o serve una sapiente armonizzazione tra tecnologie e metodologie, vecchie e nuove, tenendo sempre presente la persona umana?”. Questa domanda dovrebbe condurre a porsene una seconda: “Servono coordinatori, referenti BES, tutor di alternanza, docenti di potenziamento, docenti di competenze digitali ecc. stressati dalla confusione dei ruoli e dalle molte richieste di mettere insieme documenti imposti da una visione burocratica e meccanicistica, o servirebbe un coordinatore-tutor-coach per ogni classe, selezionato e formato ad hoc, sgravato da una parte degli impegni didattici e con il compito di curare in modo speciale i rapporti con il gruppo classe e con ciascuno, e con l’incarico-missione di responsabile del progetto didatticoeducativo-formativo riguardante la classe e ciascuno studente?”. Infine, bisognerebbe porsi la più importante di tutte le domande, quella alla quale si dedicarono studiosi come Emmanuel Mounier, padre del personalismo comunitario, e alla quale si dedica con passione e genialità da decenni Giuseppe Limone, filosofo e poeta napoletano contemporaneo; si tratta di una domanda triplice: “Chi è a livello ontologico ed ermeneutico la persona, la persona che è 35


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l’alunno, ogni alunno considerato singolarmente con il suo vissuto e la sua biografia, ma anche con tutte le sue risorse nascoste; e chi è la persona che è il docente, ogni docente, considerato anch’egli con il suo vissuto e la sua biografia, con le sue risorse e la sua esperienza, ma anche con i suoi limiti; e dove vive oggi la persona, in una casa-tana, in una fiera o in una comunità-casa?”. Castiglione Cosentino, 26 giugno 2017

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Dimmi che scelte fai e ti dirò chi sei* (di Tommaso Cariati)

Scegliere è vivere, vita è scegliere. Dimmi quali scelte fai e ti dirò chi sei. Ma scegliere non è atto capriccioso, casuale, prepotente di chi obbedisce a un impulso. Non è nemmeno il mero imboccare una strada tra tante. Non tutto ciò che desideri è possibile, dovendo fare i conti con i vincoli della realtà. Non tutto è utile e conveniente, dovendo fare i conti con il bilancio dei costi e dei benefici delle scelte. Non tutto ciò che desideri, e conviene, è buono, bello, giusto. Scegliere è un processo decisionale complesso. Implica raccogliere ed elaborare dati: valutare i pro e i contro, i vincoli e le opportunità delle varie opzioni. Significa valutare la coerenza tra le proprie convinzioni, l’immagine che si ha di sé, la propria proiezione di sé nel futuro. Vuol dire pure valutare tutto questo in rapporto ai propri talenti, alle proprie risorse e possibilità, alla propria vocazione. Significa anche, nei casi cruciali della vita, affidarsi, dato che, dopo aver tutto valutato, considerato, calcolato, rimangono dubbi sul da farsi, essendo il futuro nelle mani di Dio. Chi non sceglie spreca la vita. Non cogliere “l’attimo fuggente” può essere talvolta fatale. Anche se il non scegliere è pure una scelta, e in qualche caso può essere l’opzione più conveniente. Ma se non scegliere è uno stile di vita, allora è l’anticamera della morte. Vi sono molti ambiti di scelta. Scegliere se sposarsi o no, e con chi sposarsi, non è lo stesso che scegliere se comprare o no l’auto. Vi sono situazioni in cui prevalgono i dati oggettivi e le procedure di calcolo. Ve ne sono invece altre in cui a prevalere sono i fattori soggettivi e valoriali. Vi sono casi in cui la mia scelta non ha effetti rilevanti su altre persone, e scelte che invece hanno importanti conseguenze. E vi sono scelte che non possono essere compiute individualmente, ma richiedono un processo decisionale comunitario. Se scegliere è vivere, e vita è scegliere, ogni processo decisionale chiama in causa la libertà, perché solo chi è libero sceglie. E chiama in causa il coraggio, perché scegliere significa tagliare via le altre opzioni. E chiama in causa la responsabilità, perché le mie scelte hanno conseguenze, e la responsabilità delle mie azioni è solo mia. E chiama in causa la competenza, la cultura, la sensibilità. In quest’ottica, crescere e studiare significherebbe nient’altro che imparare a scegliere. E imparare a compiere scelte libere, intelligenti, coraggiose e responsabili sarebbe nient’altro che imparare a essere uomini e donne in pienezza.

* Articolo pubblicato sul giornalino dell’Istituto

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Quale uomo, quale cultura, quale scuola per il XXI secolo? Ciclo pluriennale di incontri terzo anno

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Dall’analogico al digitale. Cause, natura e conseguenze del cambiamento nell’era di Internet di Giuseppe O. Longo (Auditorium ITE “V. Cosentino”, 7 ottobre 2016)

La relazione è divisa in due parti. La prima riguarda la filosofia digitale, mentre la seconda esplora il cosiddetto mondo post-umano. Prima parte.

La filosofia digitale: l’informazione principio primo?*

1. La ricerca del principio primo Uno dei primi problemi affrontati dalla filosofia occidentale fu la ricerca di un elemento unificante, di un principio primo che costituisse l’origine e il fondamento dei fenomeni variegati e delle sostanze e forme diverse che si presentano in natura. Talete (VII-VI sec. a. C.) indicò il principio primo, o arché, nell’acqua, forse per la sua presenza ubiquitaria in natura e per la capacità di assumere tre stati diversi. Altri filosofi greci identificarono l’arché in altre sostanze, dall’aria al fuoco. Si distinse tra questi pensatori Pitagora, che indicò l’arché in un principio astratto, il numero: ciò costituì una novità importante, non essendo il numero né materiale né spirituale, bensì presentandosi come una immaterialità logica e concettuale, capace tuttavia di sostanziare il cosmo. Se a ’numero’ si sostituisce ’informazione’ si passa agevolmente, come vedremo, dalla filosofia pitagorica alla filosofia digitale. Molti secoli dopo, Galileo (1564-1642) affermò che l’Universo non si può intendere se non se ne intende la lingua, che è la matematica: e pensava a triangoli, cerchi e simili. Anche in questo caso c’è il tentativo di individuare, sotto la congerie eterogenea delle sostanze e dei fenomeni che ci circondano, un principio unificante. La ricerca dell’arché continua anche oggi: i fisici si sforzano di dare un quadro unitario della realtà sia cercando la grande unificazione delle quattro forze fondamentali sia cercando di costruire le teorie del tutto. È forse un’esigenza di carattere psicologico che si perpetua nei secoli e obbedisce al nostro bisogno di esorcizzare la complessità del reale riducendola a una congetturale semplicità soggiacente: si tratta di una congettura di carattere non fisico, bensì metafisico. E a questo proposito conviene nominare il grande filosofo e insigne matematico cui più di ogni altro si richiamano i sostenitori della filosofia digitale, Gottfried Wilhelm von Leibniz (1646-1716), il quale, tra l’altro, formulò la proposta di una mathesis universalis, inventò l’aritmetica binaria e formulò il con*Pubblicato sulla rivista Prometeo, 34, n. 134, giugno 2016, Mondadori, Milano, pp. 6-13

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cetto di ’migliore dei mondi possibili’: quello che è a un tempo il più scarso di ipotesi e il più ricco di fenomeni. È interessante notare che questa duplice caratteristica si riscontra nelle teorie matematiche (pochi assiomi e molti teoremi), in biologia (un genoma che è più o meno lo stesso per tutti i diversissimi fenotipi), nel dominio dei frattali (poche regole semplicissime per una profusione straordinaria di forme). In particolare ciò vale per gli automi cellulari, algoritmi che sono alla base della filosofia digitale: pur essendo generati da regole semplicissime, essi manifestano una varietà stupefacente di esiti evolutivi e sono per esempio capaci di imitare, sia pure alla lontana, il comportamento di certi organismi viventi. 2. Il computer macchina filosofica

L’invenzione del calcolatore elettronico ha inaugurato un’era nuova sotto molti profili. Questa macchina straordinaria ha molti impieghi e molte virtù: esegue calcoli, gestisce impianti e banche di dati, simula processi, è protagonista delle ricerche di intelligenza artificiale, ha consentito di inaugurare teorie matematiche nuove, è l’elemento base di internet e di tutto ciò che da internet è scaturito. In più è una macchina filosofica, essendo l’ispiratore della filosofia digitale. Senza il computer non si sarebbe mai manifestata la potenza della computazione, non sarebbe mai stato esplorato il dominio degli automi cellulari, non sarebbe mai affiorata l’idea che la realtà sia, al suo fondo, un tessuto o struttura di informazioni. Esso dunque ha contribuito in modo essenziale al passaggio da una visione materialistica-energetica a una visione informazionale della realtà. In questo senso il computer ha segnato il ritorno ad una filosofia in senso forte, cioè a una metafisica e a un’ontologia, allontanandosi da una serie di incarnazioni deboli e parziali sviluppatesi negli ultimi tempi (filosofia del linguaggio, epistemologia, filosofia del diritto, filosofia della scienza e via enumerando). Sotto questo profilo, alcuni hanno parlato di un ritorno alla filosofia presocratica, con le sue grandi domande sull’arché e sulla natura profonda della realtà. 3. Continuo e discreto Nel corso dei secoli la matematica si è presentata secondo due fisionomie, per lo più contrapposte, a volte invece intrecciate. Queste due forme corrispondono a due concezioni della realtà: per la prima l’Universo e i suoi fenomeni hanno natura continua, per la seconda tutto è discreto. Grosso modo, la visione continua è alla base dell’analisi, della meccanica classica, dello spazio-tempo relativistico. Dalla visione discreta sono fiorite l’algebra, la teoria dei numeri, il calcolo combinatorio. Inoltre sul discreto è basato l’edificio della meccanica quantistica, anche se vi si annidano territori all’insegna del continuo, come le distribuzioni di probabilità. Le due concezioni si rispecchiano negli strumenti rispettivamente analogici e digitali e, sotto questo profilo, la semplicità concettuale, la facilità di costruzione e la comodità d’uso delle apparecchiature digitali nell’informatica e nelle telecomunicazioni hanno impresso un impulso fortissimo alla matematica discreta e alla visione discreta della realtà. 41


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Come ho anticipato, il protagonista di questa svolta è stato il computer: uno strumento ha dunque condizionato le concezioni teoriche, filosofiche e metafisiche, confutando certi pregiudizi di tipo idealistico. Un impulso gagliardo ha subìto l’aspetto computazionale della matematica: ai grandi teoremi di esistenza e unicità tipici dell’analisi si è sostituita la ricerca concreta delle soluzioni: sono quindi diventate importanti la valutazione delle risorse di calcolo, la precisione dei risultati, la ricerca degli algoritmi migliori. Ma anche sotto il profilo teorico si sono aperti vasti spazi: la teoria della calcolabilità, la ricorsività, le macchine di Turing. Alcuni matematici e informatici contemporanei, come Gregory Chaitin, rifiutano la continuità in nome di affilate argomentazioni sull’irrealtà dei numeri ’reali’, sui quali si basa per intero l’analisi classica, e si fanno promotori di una concezione discreta e operativa della matematica, in cui signoreggiano i programmi per computer, le operazioni logiche discrete e gli automi cellulari. Gli automi cellulari furono introdotti nel 1968 da John Conway col suo gioco Life, che in realtà è un solitario. L’unico giocatore, partendo da una configurazione arbitraria di celle su una scacchiera e applicando semplici regole di nascita, sopravvivenza e morte delle celle, vede fiorire una successione di configurazioni la cui dinamica, aperta o periodica, ricorda l’andamento di certi fenomeni biologici, come il comportamento degli stormi di uccelli o delle colonie di insetti sociali. 4. L’informazione Il computer e le apparecchiature per la trasmissione dei segnali hanno impresso un forte impulso al concetto di informazione, che, recessivo fino a qualche decennio fa rispetto a quelli di materia ed energia, si sta prendendo oggi una rivincita clamorosa. I fisici teorici parlano ormai di universo informato e di universo bello, introducendo qualificazioni finora estranee alla loro solida e rigorosa disciplina. Il fisico John Archibald Wheeler (1911-2008) scrisse: Il tempo che ho dedicato alla fisica durante la mia vita mi appare diviso in tre periodi. Nel primo, che va dagli inizi della mia carriera fino ai primi anni Cinquanta, ero tutto preso dall’idea secondo cui “Tutto è particelle”. Tentavo di costruire tutte le entità di base – neutroni, protoni, mesoni, e così via – a partire dalle particelle più fondamentali e leggere: elettroni e fotoni. Il secondo periodo si potrebbe chiamare “Tutto è campi”. Dal momento in cui m’innamorai della gravità e della relatività generale, nel 1952, fino alla mia tarda carriera perseguii la visione di un mondo fatto di campi, in cui quelle che si presentavano come particelle erano in realtà manifestazioni di campi elettrici, magnetici e gravitazionali. Ora sono tutto preso da una nuova visione: “Tutto è informazione”. Più rifletto sul mistero dei quanti e sulla nostra singolare capacità di comprendere il mondo in cui viviamo, più mi persuado che la logica e l’informazione possono avere un ruolo basilare nelle fondamenta della teoria fisica … E continuo a cercare.

E giunse a riassumere la primazia dell’informazione rispetto alla materia con la locuzione It from bit (Cioè “la materia deriva dall’informazione”, di cui il 42


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bit rappresenta l’unità). Un altro grande fisico, Richard Feynman (1918-1988), premio Nobel (1965), scriveva Mi lascia sempre perplesso il fatto che, secondo le leggi della fisica come le comprendiamo oggi, sia necessaria una macchina calcolatrice e un numero infinito di operazioni logiche per individuare ciò che accade in una regione dello spazio o in un intervallo di tempo piccoli a piacere... Così ho fatto spesso l’ipotesi che, alla fine, la fisica non avrà più bisogno di un’enunciazione matematica, e si scoprirà che le sue leggi sono semplici come una scacchiera di automi cellulari. Si tratta, tuttavia, di una speculazione come un’altra.

Konrad Zuse (1910-1995), cui si deve il primo computer programmabile della storia, lo Z-3, e il primo linguaggio di programmazione di alto livello, il Plankalkül, nel 1967 scrisse un importante saggio intitolato Rechnender Raum (Spazio calcolante), in cui, dopo aver costatato l’inspiegabile ma evidente corrispondenza tra il comportamento delle particelle digitali (bit) e quello delle particelle subatomiche; la quantizzazione sempre più convalidata delle grandezze fisiche, con il conseguente abbandono del “dogma” del continuum in natura; la progressiva coincidenza, nella terminologia e nei concetti, della teoria dell’informazione e della fisica; il ruolo degli automi cellulari, già in grado di risolvere equazioni differenziali nell’esplorazione dell’Universo,

concludeva che l’Universo doveva essere, appunto, un grande calcolatore. Naturalmente, di fronte a questa potente suggestione ispirata dal computer, e visto che la realtà ci è inaccessibile, ci si può chiedere se questa macchina riveli davvero la natura profonda della natura, ci assicuri cioè che tutto è informazione, computazione, algoritmo. Insomma, il computer è davvero una sonda che pesca nell’inconscio del mondo rivelandocelo? Oppure si tratta di una metafora, di una suggestione attraente ma ingannevole? 5. Il Convegno del 1981 Nel maggio 1981 si tenne al Massachusetts Institute of Technology un convegno su “Fisica e computazione”, cui parteciparono Feynman, Wheeler, Zuse e tanti altri studiosi, tutti interessati a gettare un ponte tra fisica e informazione. L’organizzatore del convegno, Edward Fredkin, aveva partecipato nei primi anni Sessanta all’allestimento del famoso Computer Science and Artificial Intelligence Laboratory del MIT ed è a lui che si deve la locuzione “filosofia digitale”. Nel suo contributo, intitolato The Computing Universe, Zuse riferì ai convegnisti la genesi dell’idea dell’Universo come Grande Computer e sottolineò il ruolo del concetto di informazione, nuova grandezza fisica capace di prendere il posto delle vecchie grandezze quali energia, massa, quantità di moto. Anche Wheeler e Feynman si posero sulla stessa linea. Il contributo di quest’ultimo, Simulating Physics with Computers, non solo sottolineava la capacità del computer di simulare perfettamente la realtà fisica, prevedendone l’evoluzione, ma anche indicava nella computazione il minimo comun denominatore del mondo e 43


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del computer. La natura dinamica della computazione distingue queste impostazioni dalle antiche visioni di Pitagora e di Galileo, per i quali il numero e in genere la matematica sono principi essenzialmente statici. Merita di essere ricordato il contributo Physics and Computation del coorganizzatore del convegno, Tommaso Toffoli, le cui frasi iniziali sono ancor oggi ampiamente citate: In un certo senso la Natura da miliardi di anni sta continuamente computando il proprio stato successivo: tutto quello che noi dobbiamo fare – e in effetti possiamo fare – è farci dare un passaggio da questa enorme computazione in corso e cercare di scoprire in quali punti essa si avvicina al luogo dove vogliamo andare noi.

Al termine del convegno del MIT, erano tutti piuttosto convinti che l’asserzione “il Cosmo è un Grande Computer” non fosse da intendere come una semplice metafora, bensì come un valido strumento euristico. Non è possibile seguire qui gli innumerevoli sentieri e incroci che, prima e dopo il convegno del 1981, sono confluiti nella grande corrente della filosofia digitale. Basti ricordare alcuni contributi: le reti neurali, la vita artificiale, l’intelligenza artificiale, la cibernetica di Norbert Wiener, la teoria dell’informazione di Claude Shannon, la scoperta della doppia elica di Watson e Crick; inoltre, come ho accennato, molti aspetti fondamentali della meccanica quantistica. Devo ora dedicare un po’ di spazio a tre figure fondamentali nello sviluppo della filosofia digitale. Per le parti 6 e 7 rimandiamo alla versione integrale sul sito www.sos-scuola.it

8. Sette possibili obiezioni alla filosofia digitale Concludo questa breve sintesi della filosofia digitale enunciando alcune obiezioni a tale visione: 1) L’ipotesi che il bit sia l’unità fondamentale della realtà dev’essere ancora verificata scientificamente. È vero: i filosofi digitali accettano questa obiezione, che è basata sulla natura metafisica di questa filosofia. 2) L’ipotesi che l’informazione sia il fondamento della realtà è metafisica e non scienza. In parte è vero: i filosofi digitali ammettono che la teoria contenga una componente metafisica, ma sostengono che essa presenta un alto tasso euristico ed esplicativo nei confronti del mondo fisico. Del resto, ogni teoria poggia su basi metafisiche (chi sostiene di non avere una metafisica, in realtà ne ha una sbagliata). 3) Per esistere e per propagarsi, l’informazione ha sempre bisogno di un supporto materiale o energetico. Quindi non può essere il principio primo. 44


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A questo proposito i filosofi digitali si dividono: alcuni si limitano ad assegnare all’informazione lo stesso statuto di principio primo attribuito nella tradizione fisica alla materia e all’energia, istituendo una sorta di arché trinitaria e paritaria. Per altri, più radicali, l’informazione è l’unico principio primo. Ma se l’informazione non può essere ridotta al suo supporto, essa non può neppure prescinderne. La posizione moderata, trinitaria, sembra più accettabile di quella radicale. 4) La filosofia digitale pone l’immateriale a fondamento della realtà, quindi è una nuova forma di spiritualismo. I filosofi digitali accettano la prima parte dell’affermazione, ma non la seconda. Essi sostengono di aver individuato una terza dimensione ontologica, che si colloca nel mezzo del tradizionale dualismo tra Spirito e Materia. Oggi i fisici parlano di “universo informato”: l’universo sarebbe una rete cosmica di relazioni (la relazione è un concetto informazionale). La fisica teorica afferma che le proprietà della realtà ultima sono rispecchiate nelle strutture matematiche, immateriali, cui la filosofia digitale aggiunge la dinamica della computazione. Immaterialità non spirituale, dunque, bensì matematica e info-computazionale. 5) La filosofia digitale contraddice il “rasoio di Occam”. Tutt’altro, ribattono i filosofi digitali. Il rasoio si applica non all’esuberanza delle forme naturali, bensì alle leggi fondamentali che le producono e che, stando alla visione di Wolfram, si riducono a un piccolo numero di programmi semplici (automi cellulari). 6) La filosofia digitale contraddice il senso comune. Che l’universo sia un Grande Computer urta in effetti contro il senso comune. Ma il progresso della scienza è sempre avvenuto all’insegna di un allontanamento progressivo dal senso comune e dalla percezione immediata. 7) La filosofia digitale implica che il mondo sia solo una simulazione. Non è vero: per la filosofia digitale non viviamo dentro una simulazione, ma dentro una computazione. Non esiste nulla di cui la realtà sarebbe una simulazione: l’Universo non ha modelli da replicare, semplicemente esegue il suo programma. Quanto alla simulazione, è proprio la natura computante comune all’Universo e al computer che consente di simulare (riprodurre) in quest’ultimo un numero crescente di fenomeni del primo. Per la bibliografia rimandiamo alla versione integrale sul sito www.sos-scuola.it

Seconda parte.

Tecnologie cognitive e post-umano**

Il tema del post-umano, che alcuni considerano ancora appartenente alla fantascienza e che secondo altri invece si affaccia prepotente alla scena della realtà, è di grande e urgente rilievo sociopolitico, oltre che tecnico e scientifico, 45


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e lo dimostra, tra l’altro, l’attenzione che gli ha riservato l’Unione Europea in un rapporto che esamina prospettive, benefici e rischi del post-umanesimo. Vorrei cominciare con alcune citazioni: Per gli esseri umani è naturale superare continuamente i propri limiti. La spinta a trasformare sé stesso e il proprio ambiente fa parte dell’essenza dell’uomo. – Max More Tutti gli esseri hanno creato qualcosa al di sopra di sé: e voi volete essere il riflusso di questa grande marea e retrocedere alla bestia piuttosto che superare l’uomo? – Friedrich Nietzsche Si apre una nuova era, dove l’evoluzione stessa è soggetta all’autorità dell’uomo. – Jeremy Rifkin Non è irrealistico pensare che la specie umana possa, a breve termine, prendere nelle sue mani la propria evoluzione. – Jürgen Habermas L’evoluzione umana è un capitolo pressoché chiuso della storia della vita. Possiamo attenderci che dall’uomo nasca una nuova specie, che andrà oltre i suoi risultati così come egli ha superato quelli del suo predecessore homo erectus. E’ probabile che questa nuova forma di vita intelligente sarà fatta di silicio. – Robert Jastrow Madre natura, ti siamo riconoscenti per ciò che ci hai fatto diventare. Indubbiamente hai fatto del tuo meglio [...], ma ci hai creati vulnerabili alle malattie e ai difetti e ci obblighi a invecchiare e a morire proprio quando cominciamo a raggiungere la saggezza. – Max More Se vorremo costruire macchine capaci di apprendere e di modificare il comportamento in base all’esperienza, dovremo accettare il fatto che ogni grado di indipendenza fornito ad esse potrebbe produrre un ugual grado di ribellione nei nostri confronti. Una volta uscito dalla bottiglia, il genio non avrà alcuna voglia di ritornarci, e non c’è motivo di aspettarsi che le macchine siano ben disposte verso di noi. In breve, solo un’umanità capace di rispetto e deferenza sarà capace di dominare le nuove potenzialità che ci si aprono davanti. Possiamo adottare un atteggiamento umile e condurre una vita buona con l’ausilio delle macchine, oppure possiamo adottare un atteggiamento arrogante e perire. – Norbert Wiener La natura non poteva correre un rischio maggiore di quello di far nascere l’uomo. [...] Nell’uomo la natura ha distrutto sé stessa. – Hans Jonas La paura più profonda è che alla fine la tecnologia ci faccia perdere la nostra umanità, cioè l’imprecisata qualità essenziale che ha sempre costituito la base della nostra autocoscienza e dell’individuazione dei nostri scopi esistenziali, nonostante tutti i cambiamenti della condizione umana che hanno avuto luogo nel corso della storia. – Francis Fukuyama

** Relazione presentata al Convegno su ’Progresso scientifico e progresso umano’ organizzato dall’area di ricerca interdisciplinare SEFIR, ’Scienza e Fede sull’Interpretazione del Reale’, Roma 22-24 gennaio 2015

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Da queste citazioni traspare la forte coloritura emotiva che accompagna la possibilità che l’uomo prenda in mano le redini della propria evoluzione trasformandosi in un post-uomo. Come tutte le grandi conquiste della tecnologia, anche questa suscita entusiasmo o all’opposto viva preoccupazione: ciò dimostra che la tecnologia non è neutra, ma suscita sentimenti ed emozioni profonde. Essa ha forti connotati magici e una forte valenza mitopoietica. Le tecnologie più avanzate, dalla genomica alla robotica, dall’informatica alle nanotecnologie, ci promettono (o ci illudono di) onniscienza, onnipotenza e perfino immortalità. Ma la tecnologia eredita dal suo inventore Prometeo, abile truffatore e insieme sommo artefice, un’ambivalenza di fondo. Essa suscita un entusiasmo illuministico e positivistico per la prospettiva che offre di liberarci dai nostri limiti, ma insieme preoccupa per i nuovi vincoli che impone: è affrancamento e schiavitù. Fin dall’antichità la tecnica ha questo volto duplice: offre grandi opportunità ma nasconde insidie pericolose. La punizione di Prometeo è il segno della gelosia degli dèi e allude a una sorta di sacralità della natura: l’uomo non deve valicare le Colonne d’Ercole poste a limite della sua hybris. Se la natura dell’uomo lo spinge sempre a superarsi, egli nutre anche l’oscuro timore che la sua audacia sia punita. La spinta verso il post-umano si colloca nel solco di una tradizione millenaria, quella della creazione del second’ordine. Da tempi antichissimi l’uomo ha tentato di imitare l’opera creatrice attribuita agli dèi, fantasticando e narrando di esseri artificiali, ma anche costruendo meccanismi (automi) di meravigliosa fattura a imitazione delle forme e delle funzioni degli organismi naturali Le opere narrative (si pensi alla leggenda del Golem, al mostro di Frankenstein e alle numerosissime opere della fantascienza letteraria e cinematografica contemporanea), non si devono cimentare con le difficoltà costruttive, quindi sono molto più suggestive, ma anche i fabbricatori di automi hanno prodotto in passato manufatti mirabili: dagli Alessandrini, attraverso gli Arabi fino alla grande tradizione europea, gli automi hanno popolato le corti e i palazzi dei potenti, suscitando meraviglia e stupore per la loro raffinatezza. Ma i prodotti di questa meccanica onirica restavano lontanissimi dal loro modello, l’uomo. Fu solo nel secolo scorso che con l’invenzione del calcolatore elettronico si ebbe la sensazione di aver colmato il divario, almeno per ciò che riguardava le capacità cognitive. Il computer, opportunamente programmato, poteva pensare, emulando dunque la caratteristica più importante dell’uomo. La nascita dell’intelligenza artificiale fu accompagnata, come al solito, da entusiasmo e scetticismo: affermare che il calcolatore pensa a molti sembrava e ancora sembra destituito di fondamento, e comunque richiede una definizione precisa, e molto problematica, del termine pensare. Tornando al post-umano, le forme in cui si esso può presentare oggi sono: i nativi digitali, il robot, il ciborg (o cyborg), l’uomo OGM, la Creatura Planetaria, l’uomo in codice… 47


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Le sue svariate declinazioni fanno tutte capo al corpo, alla mente e alla dimensione evolutiva. Le tecnologie (nell’accezione più generale) da sempre interagiscono con Homo sapiens trasformandolo in Homo technologicus: se è vero che l’uomo costruisce gli strumenti tecnici, questi a loro volta retroagiscono sull’uomo, circondandolo e perfino invadendolo, e trasformandolo in un simbionte ciborganico in cui la parte biologica e la parte artificiale convivono più o meno felicemente. Oggi questa trasformazione in simbionte biotecnologico è molto visibile: è evidente che l’uomo (tecnologico) è una creatura in continuo divenire (e ciò confuta il fissismo). Inoltre la trasformazione ha assunto carattere volontario, programmatico e consapevole, poiché è diretta a due ordini di finalità: Da una parte finalità terapeutiche, per recuperare in tutto o in parte facoltà compromesse o perdute o per porre rimedio a patologie più o meno gravi. Dall’altra finalità migliorative, per potenziare e accrescere facoltà naturali o per generare capacità inedite. Gli effetti migliorativi riguardano l’individuo ma anche, se sono ottenuti attraverso la manipolazione del genoma, la specie. Ciò che così si prospetta è una vasta rivoluzione teorica e pratica, che coinvolge e stravolge molti dei concetti che la tradizione ci ha consegnato e molti aspetti della nostra società e della nostra cultura. Sul piano teorico sfumano molte distinzioni consolidate, in primo luogo quella tra naturale e artificiale, e viene messa in discussione la cosiddetta “sacralità della natura”. Ormai l’uomo, armato delle sue tecnologie, cessa di riprodursi secondo i meccanismi della lotteria cromosomica e comincia a prodursi in base alle specifiche progettuali che più gli piacciono. Un altro baluardo etico-culturale che viene scosso dalla prospettiva postumanista riguarda la definizione di persona: poiché le pratiche genomiche, nanotecniche, informatiche e robotiche incidono radicalmente sul corpo e poiché il corpo è fondamentale nella definizione di persona, di identità personale e di tutte le caratteristiche che si riferiscono alla persona (libertà, responsabilità, giudizi di valore), ecco che le tecnologie del post-umano incidono in misura decisiva sulla nozione di persona. Specie nel loro aspetto migliorativo e non terapeutico, le modificazioni non avvengono soltanto attraverso metodi e attività praticate da tempo e più o meno esplicitamente riconducibili alla tradizione naturale, come esercizi fisici, alimentazione, droghe e simili, ma li travalica per sconfinare nell’artificialità più genuina. Operate sul (corpo del)l’uomo, tali pratiche rendono dunque problematica la definizione di identità umana. Si apre qui il problema se esista nell’uomo qualche caratteristica essenziale, o tratto assoluto o “indisponibile”, cioè non assoggettabile a manipolazione pena lo snaturamento o la disumanizzazione; un tratto insomma che consenta di distinguere ciò che è prodotto per via chiaramente tecnica da ciò che è derivato dall’evoluzione non compromessa o inquinata dall’intervento umano. 48


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Se questo tratto indisponibile esistesse, il rapporto tra naturale e artificiale corrisponderebbe al rapporto tra umano e non umano. Se all’opposto si ammettessero senza riserve nella categoria dell’umano i prodotti delle manipolazioni tecnologiche, equiparandoli agli esiti dell’evoluzione naturale, si aprirebbe la strada all’avvento del post-umano sintetico: ciò segnerebbe la totale confusione tra l’uomo e il non uomo, tra l’uomo e l’altro e si innescherebbe un’evoluzione in cui natura e cultura (intesa soprattutto come tecnologia) sarebbero indistinguibili. Tali considerazioni fanno sorgere una domanda di fondo: si deve accettare come inevitabile questa evoluzione biotecnologica verso il post-umano? Oppure si deve considerare la specie umana nota fin qui come una sorta di patrimonio inalienabile (e patrimonio di chi? dell’umanità stessa?)? E in nome di che cosa dovremmo optare per l’una o per l’altra scelta? Se l’uomo, com’è stato affermato, è un essere naturalmente artificiale, come si può pensare di snaturarlo arrestando il suo sviluppo verso il post-umano, che, in questa visione, sarebbe un esito, appunto, naturale? Infatti, si può argomentare, se l’uomo fa parte della natura, anche tutti i suoi prodotti ne fanno parte a buon diritto, anche quando dovessero comprendere forme nuove di umanità. In questo senso l’uomo sarebbe il mezzo di cui la natura si servirebbe per accelerare e arricchire l’evoluzione: la natura delegherebbe all’uomo l’invenzione e la pratica ulteriori dell’evoluzione, abdicando a una funzione ormai stanca o esaurita. All’opposto, se si ritiene che l’umanità (come si è sviluppata fin qui) sia un valore, il passaggio al post-umano segnerebbe la scomparsa o almeno l’atrofizzazione dell’umanità, della biologia umana e della cultura umana. A quest’ultima visione si può controbattere ponendo la questione del momento di passaggio o del punto di non ritorno: quando, esattamente, l’umano cede o cederebbe il passo al post-umano? L’uomo non è forse sempre stato postumano, nel senso di essere sempre stato ibridato con l’altro – piante, animali, cibo, farmaci, droghe e, oggi, le macchine – e modificato, aumentato e migliorato dalle pratiche artificiali? Insomma, il passaggio, al post-umano non è forse sempre esistito nella nostra storia, graduale e progressivo anche se sempre più veloce, piuttosto che brusco? Siamo sicuri che esista un momento in cui (o una tecnologia per cui) si può o si potrebbe dire: qui cessa l’umano e comincia il post-umano? Questo punto di vista da una parte renderebbe meno traumatico il concetto di post-umano, inserendolo in uno sviluppo evolutivo continuo e naturale (o natural-culturale), ma dall’altra conferirebbe all’uomo, di qui in avanti, la piena responsabilità della propria evoluzione, mettendo in luce una discontinuità, questa sì radicale: se è vero che l’uomo è sempre stato post-umano, è anche vero che soltanto oggi se ne rende conto, grazie alla potenza smisurata acquisita dalla tecnica. Questa nuova consapevolezza pone in tutta la sua drammaticità il problema etico. 49


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I post-umanisti più radicali, specie americani, non hanno troppi dubbi e adottano il punto di vista della continuità tra natura e uomo, anzi ritengono che la tecnologia sia ormai la “vera” natura: e alcuni si spingono fino ad affermare che, poiché credono profondamente nella tecnologia, non possono continuare a credere nella natura. Più cauti e preoccupati sono gli europei, tra i quali alcuni filosofi (Hans Jonas, Jean Baudrillard) credono ancora in una sorta di sacralità della natura e nell’esistenza di tratti umani essenziali, scomparsi o alterati i quali l’umanità non esisterebbe più. Resta comunque stabilito che il fissismo, cioè l’idea che la persona sia data e definita una volta per tutte, è un concetto superato: da sempre l’uomo fa la tecnologia e allo stesso tempo la tecnologia retroagisce sull’uomo, modificandolo in profondità. Oggi, grazie alle tecnologie più avanzate, questa retroazione è diventata estrema, tanto da rendere manifesto ciò che prima era nascosto: in primo luogo, come si è detto, il carattere inerentemente post-umano dell’uomo e, in secondo luogo, l’estensione all’uomo della manipolazione volontaria e consapevole da tempo praticata sulla natura. Tramonta così la dicotomia classica tra uomo e natura, per cui l’uomo era soggetto e la natura oggetto. Applicando in modo esplicito, finalistico e consapevole anche a sé stesso le tecnologie trasformative e interferendo con i meccanismi evolutivi, anche l’uomo diventa oggetto oltre che soggetto, consacrando un’altra (con)fusione tra due concetti che fino a tempi recentissimi erano stati rigorosamente distinti. L’uomo ormai rientra a pieno titolo nella natura, cioè nel dominio dei propri interventi trasformativi. Non siamo più solo un prodotto dell’evoluzione, ora siamo anche agenti della nostra evoluzione. In entrambi i loro aspetti, terapeutico e migliorativo, le tecnologie che stanno alla base delle versioni presenti e prossime del post-umano, alludono al desiderio di longevità e di sanità fisica e mentale. Una delle spinte più potenti verso il post-umano è quella di promettere e permettere una vita lunga e piacevole, priva di infermità e di deterioramento psicofisico (spinta inestricabilmente connessa a quella dei profitti derivanti all’industria del post-umano). Questo desiderio e questa promessa sfociano facilmente in un miraggio insostenibile, quello dell’immortalità: vorremmo che la pienezza della vita durasse per sempre, avviandoci – giovani, belli, vigorosi – sulle strade dell’esistenza infinita. Ma apparteniamo al regno della biologia, dove l’immortalità non ha cittadinanza: essa resta un miraggio, che vive soltanto nei miti e nei sogni. O negli incubi. Tuttavia, molti ricercatori del post-umano parlano di immortalità e teorizzano una durata illimitata della vita ottenuta con gli espedienti più vari: ibridazione con le macchine, costruzione di corpi artificiali e rinnovabili, riversamento della mente in supporti inalterabili... Tra i potenziamenti contemplati dalla prospettiva post-umanista sono in prima linea quelli mentali, volti all’incremento delle capacità cognitive e alla 50


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conseguente possibilità di rispondere alle domande fondamentali della scienza. Alla base della ricerca scientifica e del potenziamento mentale sta un principio in apparenza semplice: la conoscenza è un bene, l’ignoranza è un male. E sulla base di questo principio gli scienziati continuano a cercare risposte agli assillanti interrogativi concernenti il cosmo e l’uomo, a cominciare dall’inquietante domanda di Leibniz: perché c’è qualcosa piuttosto del nulla? Sulla strada di queste risposte si frappone un ostacolo secondo alcuni insuperabile, legato alle limitazioni dei nostri sensi e delle nostre capacità intellettive. Poiché siamo frutto dell’evoluzione, dobbiamo accettare che, come ogni altra specie, anche noi non potremo mai risolvere certi problemi: non solo vi sono cose che non sappiamo e forse non sapremo mai, ma anche cose che non sappiamo neppure di non sapere. Tuttavia, come noi rileviamo i limiti delle altre specie e le superiamo quanto a intelligenza, così possiamo ipotizzare che, potenziandoci a sufficienza e diventando esseri superumani o transumani, potremmo trascendere i nostri limiti e conoscere le verità ultime sul cosmo e su noi stessi. I termini “superumano” e “transumano” sono in sostanza sinonimi di “post-umano”, ma alludono esplicitamente al superamento dell’umano e alle caratteristiche mentali superiori che avrebbero i nostri successori. La prospettiva transumana è sostenuta da parecchi ricercatori, da Stephen Hawking a Daniel Dennett, che contemplano la possibilità che gli uomini si fondano con sistemi di intelligenza artificiale. Su questa linea di pensiero si pone anche Marvin Minsky: persuaso che vivere più a lungo, incrementare l’intelligenza e accrescere il sapere siano obiettivi desiderabili e in sé positivi, Minsky ha speculato sulle possibilità che la tecnologia offre di modificare sia il corpo umano, facendolo vivere indefinitamente, sia il cervello, facendogli apprendere una quantità illimitata di cose. L’uomo attuale, a tecnologia limitata, sarebbe via via sostituito dall’uomo ad alta tecnologia, un homo technologicus in cui la simbiosi biologico-artificiale sarebbe sempre più sbilanciata verso il secondo termine, conferendogli poteri e capacità enormi. Il futuro immaginato per queste nuove creature non potrà essere attuato mediante la biologia, perché nonostante i progressi della medicina, dell’igiene e dell’alimentazione la durata massima della nostra vita è inscritta nel nostro patrimonio genetico e non può valicare certi limiti. Lo stesso per le nostre capacità mentali. Per superare queste limitazioni, bisognerà ricorrere a protesi e a sostituzioni parziali o totali di organi biologici con apparati artificiali, cosa che la tecnologia odierna ci consente di fare. A questo proposito scrive Minsky: Non occorre dire che ricorrendo alla tecnologia ci trasformeremo pian piano in macchine. Ciò significa che le macchine si sostituiranno a noi? Credo che non abbia molto senso esprimersi in termini di “noi” e “loro”: preferisco di gran lunga considerare queste macchine intelligenti del futuro come “figli della nostra mente”.

Le protesi saranno applicate anche al cervello, con conseguenze di portata enorme. I "figli della mente" saranno creature nuove, per le quali sarà necessaria 51


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anche un’etica nuova, che, secondo Minsky dovrebbe concernere il nostro diritto di avere figli, di modificare i nostri geni e di morire, se ci garba. Nessuna delle etiche più diffuse, umanistica o religiosa, si è dimostrata capace di affrontare i problemi che già incombono su di noi. Quanti uomini dovrebbero stare sulla terra? Che tipo di uomini dovrebbero essere? Come dovremmo dividerci lo spazio a disposizione? E’ evidente che dovremo modificare le nostre idee sulla procreazione. Oggi i figli sono concepiti per caso, un domani essi dovranno invece essere "composti" secondo desideri e progetti ben ponderati. Inoltre, quando costruiremo i nuovi cervelli, non sarà obbligatorio che essi comincino a funzionare, come i nostri, con conoscenze tanto scarse sul mondo. Quali cose dovrebbero sapere i "figli della mente"? Quanti dovremmo produrne e chi dovrà decidere i loro attributi?

Si tratta di un’etica utilitaristica e progressista, basata sul rafforzamento cognitivo, piuttosto lontana dalle concezioni solidaristiche ed ecumenistiche che si sono sviluppate, e con tanta fatica, di recente. E non si può non sottolineare che dietro questo tipo di etica spunta l’immagine inquietante dell’eugenetica. Conclude Minsky: Una volta liberati dalle limitazioni della biologia, saremo in grado di decidere la durata della nostra vita – compresa l’opzione dell’immortalità – e di scegliere altre capacità inimmaginabili. [...] Saranno i robot a ereditare la terra? Sì, ma essi saranno figli nostri. Noi dobbiamo la nostra mente alla vita e alla morte di tutte le creature che in passato hanno affrontato quella lotta che si chiama evoluzione. È nostro compito vigilare perché tutta questa fatica non vada sprecata senza costrutto.

Al di là della domanda se questa prospettiva ci piaccia o ci sgomenti, resta naturalmente da vedere quale sia il senso (per noi, uomini di oggi) di tutto ciò. Ma forse il problema del senso è uno di quegli antiquati problemi filosofici che riguardano l’uomo vecchio e non avranno più senso, appunto, per il post-umano. A chi dimostra perplessità nei confronti di questo scenario, Minsky risponde che è nostro preciso dovere morale impegnarci a favore dello sviluppo della scienza e non della conservazione della situazione attuale. Il sogno di Minsky è quello di tradurre la personalità dell’uomo in programmi da far girare su computer (non per nulla egli è stato uno dei massimi esponenti dell’intelligenza artificiale), con la possibilità di potenziarli e aggiornarli continuamente e, inoltre, di farne più copie. Anche per il roboticista Hans Moravec il futuro dell’umanità sarà caratterizzato dall’abbandono del corpo e dall’emigrazione nel ciberspazio, una realtà virtuale e insieme reale che offre possibilità illimitate di longevità e di conoscenza. Questi ibridi superdotati si dedicherebbero alla ricerca e alla soluzione degli enigmi dell’universo. La scienza pura sarà per Moravec l’unico scopo degno dell’esistenza degli uomini (o delle macchine?) superintelligenti, il resto sarà insignificante: Questo è il nucleo della mia fantasia: che i nostri discendenti non-biologici, senza la 52


Bollettino n. 12 maggior parte delle nostre limitazioni, potranno riprogettare se stessi, potranno perseguire la conoscenza basilare delle cose… Le cose come l’arte non sembrano molto profonde, giacché sono primariamente modi di auto-stimolazione.

Queste considerazione si prestano naturalmente a valutazioni molto critiche da parte di chi ama l’arte, come molti di noi. Il passaggio dalla speculazione astratta alle possibilità pratiche di intervento ha acceso il dibattito, senza che vi sia un prevalere assoluto del punto di vista razionale e scientifico. La conoscenza è diventata azione, quindi siamo posti di fronte al rischio e alla responsabilità. Per riassumere, le ambizioni dei post-umanisti sono: - superare i limiti fisici legati alla corporeità, alla senescenza e alle malattie - potenziare le capacità e le funzioni corpo-mentali e magari scoprirne di nuove - (ri)progettare la specie umana - attraverso tutto ciò attuare l’aspirazione alla felicità che da sempre anima l’uomo. È forse intorno al concetto sfuggente di felicità che si misura la portata rivoluzionaria del post-umano tecnologico più spinto. Un tempo si perseguiva la felicità cercando di condurre una vita buona e virtuosa accettando la fragilità e i limiti dell’umano, in primo luogo la finitezza della vita terrena, salvo poi rinviare l’immortalità alla vita ultraterrena. Nella prospettiva post-umana, la felicità si perseguirebbe tramite la realizzazione completa di ciascun individuo, cioè tramite il superamento di tutte le limitazioni, la sconfitta di tutte le patologie e, alla fine, della morte stessa. Questo percorso di miglioramento condurrebbe l’uomo alla vita e alla felicità perfette, prolungando così l’opera della natura o, in chiave religiosa, collaborando fattivamente al compimento della creazione: la Creatura aiuta il Creatore. Mi limiterò ad accennare alla costruzione del post-umano individuale, che può seguire due strade, quella che porta alle creature ciborganiche e quella che porta ai robot. In altri termini: o s’interferisce con la natura, correggendola e potenziandola (ciborg), oppure si imita la natura per via affatto artificiale (robot). La parola ciborg deriva dalla crasi di cibernetico e organico e indica gli esseri che scaturiscono dall’inserzione in un organismo animale o, soprattutto, umano, di protesi artificiali: organi di senso, organi effettori e addirittura inserzioni cerebrali e interfacce cervello-computer. Il ciborg segna il passaggio dalla tecnologia diffusa intorno al corpo alla tecnologia insinuata nel corpo. Il ciborg è una creatura mista, un simbionte di cibernetico e organico: si parte da un corpo e lo si inzeppa di protesi e dispositivi artificiali: fino a che punto resta un essere umano e in base a quale criterio?

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Viceversa il robot è creatura tutta artificiale: in un corpo artificiale si inserisce un’intelligenza artificiale e, un domani, si collocheranno emozioni artificiali e magari una coscienza artificiale. Il robot inoltre è caratterizzato, già ora, da una certa autonomia e da una certa capacità di apprendimento, che lo rendono un candidato plausibile a un’evoluzione corpo-mentale di tipo sia umanoide sia alternativo all’umano. L’evoluzione imitativa dell’umano potrebbe portare a macchine indistinguibili da noi per le funzioni (intellettuali, attive, percettive, emotive...) anche se distinguibili per i materiali e in parte per la struttura e l’aspetto. Si tratta comunque di precisare i meccanismi dell’evoluzione, che, almeno all’inizio, si presenterebbe eterodiretta e fortemente finalizzata, a differenza di quella biologica e, in parte, anche di quella culturale, che sono intrise di aleatorietà e contingenza. Mediante il riversamento delle nostre menti nelle intelligenze artificiali dei robot, secondo la prospettiva dei “figli della mente” delineata da Minsky, i robot potrebbero raccogliere la nostra eredità e rientrare a pieno titolo nella visione post-umana. In conclusione, la vastità e la profondità delle implicazioni dell’avvento del post-umano ci obbligano a una riflessione trasparente e non ideologica sul futuro prossimo e lontano dell’umanità, tenendo conto che le decisioni prese ora potranno influire sul nostro destino, indirizzandolo verso direzioni che siamo in grado di controllare solo in piccola parte. Infatti la complessità del reale, in interazione con la complessità dei prodotti tecnologici, rende difficile se non impossibile prevedere gli esiti a lunga scadenza delle nostre innovazioni. La nostra capacità di agire ha superato di gran lunga la nostra capacità di prevedere le conseguenze delle nostre azioni, che potrebbero essere diverse da (o addirittura contrarie a)le nostre intenzioni (eterogenesi dei fini). Da ultimo accenno alla necessità che le innovazioni tecno-scientifiche non siano guidate solo dall’inventiva e dall’ambizione dei ricercatori e dalla ricerca del profitto da parte delle aziende, ma siano vagliate anche alla luce dei valori e delle aspirazioni della popolazione, evitando sia l’euforia tecnologica sia il rifiuto programmatico delle novità. Per la bibliografia rimandiamo alla versione integrale sul sito www.sos-scuola.it

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Durante la conferenza del prof. G. Longo i ragazzi e i docenti si sono posti le seguenti domande: Ercolino Cannizzaro, docente dell’IPA Todaro di Rende: - L’ipotesi dell’esistenza di Dio è del tutto contrastante con la scienza? Scienza e religione sono compatibili? Longo: Su Dio nessuno sa niente, ogni religione fa la sua ipotesi, come la scienza. Alcuni, nonostante siano scienziati, pensano che Dio esista. In realtà non lo so ma penso non ci sia contraddizione tra Dio e filosofia digitale. Alunni della IV B Sia dell’ITE “V.Cosentino”: - Qual è stato il libro che vi ha dato più soddisfazione? Longo: I miei libri mi sono tutti molto cari, li leggo e rileggo. Non compro quelli degli altri per paura che mi piaccino più dei miei. - La scuola insegna ancora a programmare. È importante continuare? Longo: No. Io non so programmare e vivo felicemente. È necessario capire, non programmare. Alunni della V B Sia dell’ITE “V.Cosentino”: - Si dice che la tecnologia disumanizza, cosa pensa lei a riguardo? Longo: Secondo alcuni la tecnologia disumanizza, rende l’uomo diverso, ma non tutti sono d’accordo. Secondo me, la tecnologia non disumanizza. - Secondo lei, l’uomo sarebbe riuscito a progredire fino a questo punto senza Internet? Longo: In realtà Internet fa regradire. L’uso eccessivo della Rete ci fa perdere delle capacità come la memoria. - Secondo lei, con la crescita progressiva della tecnologia dove arriveremo? Longo: È una domanda a cui nessuno sa rispondere. Nessun appello di tipo morale o religioso può bloccare la tecnologia. - Utilizzando gli strumenti tecnologici nella scuola, aumenterebbe l’interesse degli studenti? Longo: No, non credo. Penso che quando si studia deve esserci un contatto fisico e questo si può avere solo con i libri, non con i tablet. Poi tutto dipende dall’interesse degli studenti. - Com’è nato il suo amore per l’informatica e cosa l’ha portato a scrivere dei libri? Longo: Per l’informatica non provo amore ma interesse, che sconfina con la filosofia. I libri sono nati per molti miei interessi, non solo dall’interesse per l’informatica. - In uno dei suoi libri paragona l’informatica ad un grande Golem. Com’è nata questa idea? Longo: Nel mio libro "Nuovo Golem" ho paragonato l’informatica ad un grande Golem perché esso è stato creato per compiere lavori ma è privo di intelligenza. 56


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- In alcuni film compaiono scene in cui i robot prendono il comando del mondo e cercano di uccidere gli esseri umani. Lei pensa che potrebbe accadere una cosa del genere in futuro? Longo: Chi lo sa? L’uomo ha la costante paura che la creatura possa ribellarsi al suo creatore. - Perché nonostante le paure, l’uomo vuole essere un Dio moderno creando robot a sua immagine e somiglianza? E la tecnologia potrebbe arrivare a fare più di noi? Longo: Si continua a creare robot perché non tutti gli uomini hanno paura. Alcuni scienziati pensano che la tecnologia ci supererà ma questo non è prevedibile, possiamo solo aspettare per scoprire come andrà. L’importante è non dare troppo potere ai robot.

Maurizio Corasiniti, esperto sistemi informatici: - Quali potrebbero essere gli effetti del pensiero computazionale? Longo: Chi crede nella filosofia digitale crede che l’universo sia tecnologico. Teresa Sperli, docente dell’ITE “V. Cosentino”: - I pregressi nella robotica possono dimostrare che l’arché è nell’informatica? Longo: Secondo alcuni nella filosofia digitale si vede una qualque prova di ciò.

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Essere imprenditore culturale in Calabria nel XXI secolo di Florindo Rubbettino (Auditorium ITE “V. Cosentino”, 27 gennaio 2017)

Da dove inizia la nostra avventura? da un uomo, Rosario Rubbettino, mio padre, e dal mondo della scuola. Rosario Rubbettino era un giovane segretario di scuola media, vincitore di concorso a 18 anni, molto stimato e apprezzato, che però aveva il pallino dei libri e della stampa, e così da segretario della scuola si ingegnò a studiare un registro scolastico e altri sussidi per l’epoca molto innovativi. Mise su così nell’entroterra calabrese, alle pendici della Sila, una piccola tipografia artigianale con la quale avviò la produzione di questi prodotti pensati per il mondo della scuola e parallelamente una produzione editoriale sostanzialmente locale. Negli anni l’impresa è cresciuta fino a diventare una delle più moderne e tecnologicamente avanzate industrie tipografiche d’Italia e soprattutto un noto marchio nel mercato editoriale e nel mondo degli stampati per il mondo della scuola. Rosario Rubbettino è stato amministratore unico dell’azienda sino alla sua prematura scomparsa, avvenuta nel 2000. La storia imprenditoriale di Rosario Rubbettino ha in comune con molte altre storie di successo imprenditoriale il fatto di essere la storia di un uomo che ha avviato la propria attività praticamente dal nulla. È stato senza dubbio un grande imprenditore. Ma una sua particolarità su cui vorrei insistere dato il tema che oggi trattiamo, è quella di un legame profondo, viscerale, con il proprio territorio, cosa che gli ha consentito di realizzare una delle più fiorenti industrie editoriali italiane in una regione periferica qual è la Calabria e perlopiù in un territorio interno, disagiato e abbandonato. La scommessa di Rosario Rubbettino è stata quella non solo di far crescere e affermare la propria azienda, ma di far crescere un’intera realtà locale, di legare la crescita economica della propria intrapresa a quella materiale e sociale del proprio territorio, in perfetta armonia ambientale e sociale con esso. “Ho iniziato per dimostrare a me stesso che in un paese così, pur fuori dai circuiti, si poteva realizzare un’industria”. Qualche decennio fa, un grande meridionalista, Francesco Compagna, ricordava che solo quando i “terroni” andavano in “città”, quando cioè i meridionali si trasferivano dal loro mondo agricolo nella realtà urbana settentrionale, emergevano quasi insospettatamente delle capacità imprenditoriali che fino ad allora, nel mondo meridionale da cui provenivano, non erano riusciti ad esprimere. Rosario Rubbettino era convinto che il grande Compagna questa volta si stesse sbagliando e forse Compagna sarebbe stato contento di conoscere un imprenditore, Rosario Rubbettino appunto, che, nel suo piccolo paese all’interno della 58


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Sila catanzarese, ha fatto fiorire un’attività industriale e culturale nota in tutto il mondo e ha dato lavoro a più di 100 persone. La vita imprenditoriale di Rosario Rubbettino è stata la testimonianza di un grande impegno di responsabilità sociale. Come ha scritto Giulio Sapelli – ricordando il suo incontro con Rosario Rubbettino, –“qui ho ritrovato gli ideali olivettiani della mia giovinezza” e ancora “… In libreria incontro i libri Rubbettino e sulla carta geografica scopro che Soveria Mannelli è su su, abbarbicata sulla Sila e che in mezzo allo sfasciume pendulo di cui Giustino Fortunato mi parlava sempre dai suoi libri, un manipolo di pazzi (nel senso sapienziale greco del termine), contro quello sfasciume lottava”. Pierluigi Aceti ha scritto: “Nell’iniziativa Rubbettino è interessante notare il suo rapporto con l’ambiente e la capacità di coinvolgere persone in un rapporto educativo, di crescita personale e comune, nel realizzare un’industria non alienante. Da una parte vuole realizzare il rapporto con l’ambiente in tutte le sue possibilità sia naturali che culturali. Non è affatto secondario il suo contributo all’attivazione locale anche attraverso il sostegno di iniziative culturali. È un uomo d’azienda che continua a saper vedere i suoi boschi, i suoi prati, le diverse sorgenti dell’ambiente. Dall’altra parte è aperto all’innovazione tecnologica quanto alla qualità dei rapporti di lavoro, al clima della collaborazione”. Questo, in breve, il profilo, l’impegno e i valori del fondatore della Rubbettino. E con queste premesse, vivere e lavorare nella propria terra d’origine è stata una naturale conseguenza per me e mio fratello Marco, di due anni più giovane di me, entrambi laureati Luiss. Una scelta in controtendenza, perché oggi vivere e lavorare nella propria terra d’origine è diventato singolare. Per mancanza di opportunità, soprattutto se quella terra d’origine sta a Sud, ma anche perché, pur avendo le opportunità, come nel nostro caso di avere un’azienda già viva, è indubbio che spostarla in altre aree del paese sarebbe stato molto più comodo. In tempi di globalizzazione e di circolazione libera anche dei cervelli restare lì non è una scelta così scontata. Una scelta al limite dell’irresponsabilità e della follia. Irresponsabilità e follia aggravate dal fatto che non solo operiamo in Calabria, ma per di più non in un capoluogo di regione o di provincia, ma in un piccolo centro di 3.000 abitanti sperduto tra le montagne della Sila. Nella nostra vicenda si ribaltano quelli che sono i canoni e i luoghi comuni più diffusi: che non si possa fare impresa e per di più impresa editoriale, partendo da un territorio geograficamente periferico, disagiato, privo di infrastrutture e collegamenti, risorse umane qualificate e senza tanti asset che giustificherebbero una intrapresa di questo genere. Eppure nel nostro caso si è dimostrato che si può fare impresa, creare occupazione, proporre un progetto editoriale originale competendo alla pari e spesso vincendo anche la partita. È questo un dato importante, intrinseco alla nostra storia. Quello del credere nel cambiamento possibile. 59


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Qualunque studio e anche il senso comune su dove sarebbe più efficace non solo fondare, ma anche far crescere una casa editrice, individuerebbe certo tanti luoghi adatti per centralità geografica, per vivacità culturale, per facilità di comunicazione, per humus tecnico-editoriale, ma certamente convergerebbe su un’argomentazione: non è opportuno che una casa editrice sorga in un paesino della Presila calabrese. Ma la sfida è proprio questa: abbandonare la retorica e le belle parole sul Mezzogiorno, sulle tante ricette per lo sviluppo, sugli interventi possibili, spesso calati dall’alto, e fare il proprio dovere per provare a cambiare la realtà. Ci siamo spesso chiesti insieme ad amici e colleghi imprenditori cosa anima chi come noi decide di fare impresa al Sud. Qualcuno penserà che siamo dei missionari, viste le difficili condizioni di contesto. Altri penseranno che siamo degli opportunisti, visto che c’è anche chi ritiene che grazie al costo della vita più basso e agli aiuti di stato e dell’Unione Europea in fondo fare impresa al sud convenga. Io penso invece che siamo sognatori, ma un genere particolare di sognatori, sognatori di normalità. Sogniamo un pezzo di paese in cui possano finalmente prevalere la cultura dell’autonomia e non della protezione, dei diritti e non dei favori, delle regole e non delle scorciatoie, del rischio e non della rendita, dell’innovazione e non della conservazione. È questa la sfida più grossa di chi sta a fare impresa con i piedi ben piantati a Sud. E guardare a quella realtà con uno sguardo positivo. Quando mi chiedevano fino a qualche tempo fa cosa significa fare impresa a Sud io rispondevo con la solita litania. È più difficile che farlo altrove, perché mancano le condizioni di contesto, mancano le infrastrutture, la pubblica amministrazione è inefficiente, la criminalità, le banche, e via con il rosario di rito. Tutte cose vere. Poi mi sono un po’ stancato e ho ribaltato la risposta. Oggi rispondo così: “Sono fortunato, perché faccio solo il mio lavoro e il mio dovere in quel territorio; sono considerato un eroe, solo perché faccio ciò che altrove sarebbe la normalità. E poi sono fortunato perché ho la possibilità di lavorare in un posto meraviglioso che compensa la fatica e ripaga di tutti i sacrifici e che non cambierei per nulla al mondo”. Ecco, se tutti insieme provassimo, ognuno nel proprio campo, a riscoprire il nostro territorio e a guardarlo con orgoglio, credo sarebbe un primo passo per invertire la rotta. Noi meridionali siamo gente speciale. Siamo creativi, abbiamo, come direbbero gli economisti, un grosso stock di capitale relazionale, una grande umanità e una grande cultura. Sappiamo usare le mani e il cervello. E allora perché non far leva su tutto questo, perché non tornare a investire sulla nostra terra, perché non tornare a dissodare, in senso 60


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reale e figurato, zolla per zolla questa terra fertile e ricca di opportunità. Solo dal basso si può fare, i grandi progetti calati dall’alto servono a poco se non c’è questo sforzo collettivo. Occorre un’azione corale che coinvolga le persone comuni che dovranno riscoprire i luoghi e riappropriarsene, riconoscerli con orgoglio e sentirne il genius loci. Abbiamo vocazioni inaspettate, che non "vediamo" e che dobbiamo cogliere e valorizzare. Il destino delle aree interne non è obbligatoriamente quello della marginalità. Nel nostro caso l’impresa dà molto al territorio, ma da quel territorio e da quei valori l’impresa trae linfa vitale e si arricchisce. È un rapporto binario, uno scambio a somma positiva. Per quanto sia certo che le condizioni del fare impresa siano difficilissime, non c’è alcun motivo per ritenere che una ineluttabile legge di natura condanni i territori del Sud all’arretratezza. E neppure c’è motivo di pensare che ci sia un unico modello di sviluppo locale adatto a ogni contesto. Lo sviluppo locale non passa per la ripetizione meccanica di schemi che altrove hanno funzionato. È locale proprio perché aderisce alla realtà dei luoghi. Nel nostro caso la modernizzazione e lo sviluppo non si sono fermati alle pendici delle montagne. E come nel nostro caso c’è per fortuna una varietà di vocazioni e di intelligenze capaci di indicare percorsi differenti, facendo leva sui cambiamenti di paradigma. Nel nostro caso abbiamo puntato molto sull’innovazione tecnologica e nell’alta formazione dei collaboratori nella parte industriale (stampa e packaging) e nell’occupare spazi non presidiati nel campo editoriale e culturale. Dar voce a classici e autori lontani dal grande circuito, testi che riabilitavano il mercato, che riportavano alla luce patrimoni della cultura a lungo dimenticati, che ribadivano come la vera storia sia sempre revisionistica. Quello che l’editoria italiana - non di rado quella più «potente» e «influente» - ha proibito nei decenni passati è esattamente quella disputa tra idee che solo può arricchire la vita morale e intellettuale di un popolo. Coprire dunque un vuoto culturale che ha per lungo tempo nascosto a intere generazioni i più preziosi contributi degli studiosi che più hanno gettato luce sulle dinamiche della società aperta, sull’economia di mercato, sullo spirito innovativo dell’imprenditore, sui principi della cooperazione inintenzionale che si ha in una società libera e su ciò che rende tale società superiore a ogni esperimento interventistico e pianificatorio. Abbiamo ritenuto che il recupero di una significativa parte del grande patrimonio della cultura liberale potesse dare contenuto alla nostra vocazione imprenditoriale, intesa come attività volta a soddisfare bisogni presenti nella società, ma lasciati insoddisfatti da altri operatori. E così ho visto la mia impresa crescere assieme alle idee alle quali ho creduto e dato spazio, quando non vi erano molti in giro disposti ad investire in esse 61


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neanche poche lire. Tra la storia imprenditoriale e quella dei libri che ho prodotto si è venuto a creare un rapporto simbiotico. La vicenda della Rubbettino, infatti, è stata anche la traduzione concreta dei principi che i volumi di Mises, Hayek, Popper - soltanto per citare alcuni autori del catalogo - hanno divulgato e promosso. Principi che tutti gli imprenditori conoscono bene, ma che nella società non hanno molta popolarità, forse proprio a causa delle vicende editoriali del nostro Paese. Un altro fronte di impegno della casa editrice è stato quello della legalità. Nel catalogo Rubbettino la presenza di studi e pubblicazioni sul fenomeno “mafie” rappresenta una componente importante. È anzi uno dei filoni identitari del marchio Rubbettino. Per fornire un dato quantitativo, nel nostro catalogo sono presenti circa 200 pubblicazioni che in qualche modo hanno come tema principale mafia, ’ndrangheta, camorra, criminalità visti in ottica storiografica, sociologica, politica, economica, letteraria. Senza contare ovviamente tutti gli altri titoli in cui di criminalità e mafie si parla. Questo impegno viene da lontano. I primi libri sulla mafia pubblicati da Rubbettino si pubblicavano a Soveria Mannelli all’inizio degli anni ’80 perché molti editori siciliani erano restii a pubblicarli. Si trattava di libri di vario genere: le relazioni della Commissione Parlamentare Antimafia, gli studi sulla società civile, l’organizzazione mafiosa e l’esercizio dei poteri nel Mezzogiorno contemporaneo, libri nei quali si facevano i conti all’economia mafiosa, il libro di Cristopher Duggan su “La mafia durante il fascismo” recensendo il quale Sciascia sul Corriere della Sera innescò la polemica sui professionisti dell’antimafia, ristampe importanti come “Nel regno della mafia” di Napoleone Colajanni e ancora libri sul fenomeno del pentitismo, sul ruolo delle donne e la mafia, sulla mafia al Nord, un corso integrativo di educazione civica per la scuola media intitolato “Conoscere le istituzioni per combattere la mafia” e via dicendo. Tutto questo negli anni ’80, prima della grande stagione stragista degli anni ’90. Il primo libro Rubbettino in cui si parla di ’ndrangheta è anche quello di quel periodo in cui poco o nulla si sapeva di questo fenomeno che poi si sarebbe affermato in maniera così dirompente. Lo stesso dicasi per le pubblicazioni sul fenomeno camorristico. C’è in questo impegno anche una continuità e una coerenza editoriale con gli altri filoni che contraddistinguono le scelte editoriali della casa editrice. Naturalmente e per ovvi motivi c’è una contiguità con l’attenzione al Mezzogiorno e agli studi sul meridionalismo che è un’altra componente forte della nostra linea editoriale. Ma c’è anche una coerenza con l’altro filone importante della casa editrice che è quello che potremmo definire di studi sulla società aperta. Cosa voglio dire? Credo sia evidente a tutti che la mafia è un fenomeno assimilabile a un regime dispotico, oserei dire totalitario. Non nel senso politologico del termine, ma sicuramente per penetrazione e condizionamento della società civile. 62


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Quindi un fenomeno che va a collidere con quelle che sono le logiche della società aperta che si fonda sul diritto, sulle regole, sulla tolleranza, sul merito e sulla competizione. Tutte logiche estranee ad ogni fenomeno criminale che fa della negazione del diritto, della prevaricazione, del potere della forza e non del confronto aperto i suoi punti di forza. Credo sia innegabile che la criminalità è un frutto della società chiusa e riesce a prosperare e sopravvivere nelle società chiuse. Società con una forte componente familistica, con logiche tribali e di chiusura verso il mondo esterno. È così che nascono le mafie ed è in questi contesti che le mafie riescono a esercitare un comando ora feroce ora bonario, basato sulla forza come sul consenso. La mentalità mafiosa in tali contesti inizia prima della mentalità criminale. Si può essere mafiosi e non essere criminali. Si cerca protezione, si cercano padrini, si cercano scorciatoie, non si reclamano diritti e libertà ma protezione e favori. Io ho l’impressione che il Mezzogiorno in cui viviamo, così pervaso dai fenomeni mafiosi, assomigli molto di più a una società chiusa che a una società aperta. È evidente che un fenomeno complesso come le mafie potrà essere sradicato solo con un lavoro culturale oltre che repressivo. E in questo l’editoria ha un ruolo fondamentale. E siccome nessuno ha la ricetta magica, guardare anche al fenomeno da angolazioni diverse, plurali, come appunto quello di una società che non riesce ad uscire dalla mafia perché poco aperta e con poca economia di mercato può essere una prospettiva utile. Parafrasando Bufalino, spesso ripreso da Falcone, che diceva che per combattere la mafia c’è bisogno di un esercito di maestri, aggiungerei che per combattere la mafia c’è anche bisogno di un esercito di editori. È banale dirlo, ma i libri e la circolazione di idee sono il miglior antidoto contro l’affermarsi di fenomeni mafiosi e criminali. È nei libri che ci si rifugia per capire. E così abbiamo dato vita alla campagna “Nonbaciolemani”, un modo per riaffermare l’importanza della cultura nella lotta al fenomeno mafioso, ma anche un modo per indicare nella legalità, nella libertà e nella dignità la strada per battere ogni mafia. Perché il principale strumento per affrontare le insidie del malaffare è armare l’intelletto. Tutti i regimi dispotici e autoritari che tendono al controllo delle coscienze e del territorio e all’esercizio della violenza temono i libri. E le mafie non sono diverse. La conoscenza è sinonimo di libertà. La cultura aiuta anche a distruggere i falsi miti, come quello degli uomini d’onore. È possibile costruire una “cultura della legalità” e bisogna partire proprio dalle giovani generazioni. È necessario educare i giovani ad avere il coraggio di sognare. Serve una leadership che sappia infondere fiducia nel futuro e nelle opportunità, ricordare soprattutto ai giovani che quello che hanno di fronte è un mondo colmo di possibilità e non un’inesorabile condanna al declino, stimolare 63


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la cultura del rischio rispetto a quella delle rendite, delle clientele, delle reti amicali e familistiche, degli imbrogli. In sostanza ripristinare a tutti i livelli il principio della legalità, del merito e della responsabilità. Uscire dal degrado, dal sommerso e dall’insicurezza. Ripristinare il senso civico e combattere l’estraneità e il risentimento, sentimenti che possono solo alimentare nuove illegalità. E poi tornare a coltivare la cultura dell’eccellenza e del bello. Tutto questo vuol essere “Nonbaciolemani”. Vorrei infine citare brevemente altri tre casi di attenzione della Rubbettino alla realtà sociale e al territorio in cui opera. La Fondazione Rubbettino che ha come finalità a) la promozione della cultura nel senso più ampio, con particolare riguardo alla valorizzazione del patrimonio culturale regionale; b) la diffusione del libro; c) l’educazione alla lettura. A tale scopo la Fondazione organizza una serie di incontri, con varie utenze (dalle scuole e quindi gli studenti ai cittadini variamente interessati, agli ospedali, alle carceri) che vanno dalla presentazione di un libro alla discussione su un tema di attualità o comunque di interesse, in grado cioè di suscitare e attrarre curiosità od attenzione, o intervenire con efficacia su quelle realtà suscettibili di trasformazione, ovvero di essere preservate e valorizzate. Una cultura intesa dunque non come mera acquisizione di informazione ma capace di produrre storia. La scuola librai La scuola librai Rubbettino nasce da una considerazione di fondo. La Calabria e il Mezzogiorno in generale sono un’area del paese dove si legge molto poco. È però ancor più vero che mancano le occasioni di incontro tra libri e possibili lettori. Ci sono poche biblioteche (molti depositi di libri) e, soprattutto poche librerie. Ci sono città con oltre ventimila abitanti e nessun punto vendita dove poter reperire libri. Molti librai pur lavorando con grande impegno a volte non hanno occasioni di crescita professionale e di confronto, e quelli più bravi che magari hanno partecipato in passato anche ai corsi della scuola per librai di Venezia si sentono spesso ai margini, alla “periferia dell’impero” dove è difficile mettere a frutto quanto appreso, ma soprattutto dove ci si sente slegati dai circuiti dell’editoria e delle librerie nazionali. Questo anche per via della peculiare orografia della regione che fa sì che i centri abitati spesso siano isolati e distanti tra loro. A tutti costoro si rivolge la Scuola librai Rubbettino, un format che prevede la partecipazione di esperti di settore, offerta in maniera completamente gratuita a tutti i librai del Sud. 64


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Il progetto Green Books. In Italia quasi il 50% delle aree boschive ha subito danni a causa di inquinamento atmosferico, deforestazione e incendi, cambiamenti climatici, attacchi parassitari. Per recuperare la qualità dei boschi e delle foreste italiane è necessario ricostituire la complessità degli ecosistemi. Ogni libro o pubblicazione a stampa ha un impatto ambientale. Il progetto Green Books ha un valore simbolico ma anche concreto per ridurre l’impatto ambientale e salvaguardare lo stato di salute del pianeta. Con esso la Rubbettino si impegna a piantare un albero per ogni libro pubblicato e a curarne la crescita. Gli alberi vanno a costituire il Parco Green Books, un parco dell’albero e del libro, a Soveria Mannelli, città dove ha sede la casa editrice.

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Dibattito seguito alla relazione-testimonianza di Florindo Rubbettino (appunti di S. Ferrisi e A. Morrone, V B Sia)

Iniziamo con una breve premessa, riportando i passaggi che maggiormente ci hanno colpito di questo incontro. Cominciamo con il dire che questo incontro è stato il dodicesimo del ciclo pluriennale di conferenze sul tema “Quale uomo, quale cultura, quale scuola per il XXI secolo?”, ma ogni volta siamo sempre più emozionati ed entusiasti perché in questi incontri riusciamo sempre a imparare più di quanto possiamo immaginare prima. Si tratta di incontri vivi, belli e significativi per la nostra crescita.

In questo incontro, abbiamo potuto apprendere della casa editrice Rubbettino, fondata nel 1972 da Rosario Rubbettino, e ora gestita dai figli. Rosario Rubbettino ha lasciato un libro intervista intitolato “Impronte”, che contiene, in una serie di domande e risposte, la storia della sua avventura culturale e imprenditoriale. Una storia che ha dell’incredibile perché il gruppo Rubbettino si trova a Soveria Mannelli, in mezzo alle montagne del Reventino, tra Catanzaro, Lamezia e Rogliano, in un posto in cui nessuno cento anni fa avrebbe potuto prevedere quello che poi è successo. Nel libro intervista Rosario Rubbettino ricorda che quando sono arrivate dalla Germania le macchine per il processo produttivo sono stati filmati cinque tir, nelle montagne della Sila! Florindo Rubbettino ci ha spiegato che in Italia ci sono circa 5.000 case editrici, tra cui le più grandi sono: Mondatori, Feltrinelli e De Agostini. Perciò, per far sì che l’azienda continui con successo la sua attività è fondamentale che si stia al passo con l’innovazione. Anzi, bisogna essere capaci di fare le cose meglio degli altri.

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Per scegliere un libro da pubblicare bisogna tener conto della storia della Casa e delle sue linee guida; si deve tenere in grande considerazione la qualità del prodotto come libro e come oggetto culturale; i libri poi devono lottare tra loro, perché i libri non parlano di verità assoluta, perciò combattendo tra di loro permettono al lettore di farsi un’idea più libera. L’editore è la persona che crede in quel libro. L’editore è uno che sceglie. Rubbettino riceve dieci-quindici proposte al giorno e deve selezionare. Con Gutenberg nasce la stampa tipografica. Prima, tutto veniva scritto dagli amanuensi, ma il processo era lento e i libri circolavano poco; inoltre la copiatura a mano comportava errori: a volte i copisti inserivano nel libro qualcosa di loro, alterando così il testo. Gutenberg prese tre cose che esistevano: l’inchiostro, i puntoni degli orefici e i torchi dell’uva e inventò la stampa. Con questi tre elementi riuscì a creare la stampa tipografica. Il libro ha un valore inestimabile: è quell’oggetto di approfondimento con cui si crea un rapporto. A volte, più si leggono libri e più si ha voglia di leggerne. La globalizzazione ha portato l’omologazione. Oggi si cercano, al contrario, le particolarità, in quanto ormai quello che viene realizzato in Italia, potrebbe essere realizzato anche in Cina. I contesti locali, come un piccolo borgo situato nelle montagne della Calabria, possono contribuire a differenziare i prodotti e a conquistare fette di mercato che altri non riescono a raggiungere. È in questo periodo, ci ha fatto capire Rubbettino, che noi giovani dobbiamo cercare di far vedere il meglio della Calabria e la sua bellezza nascosta. Bisogna avere la mente aperta, solo in tal modo possiamo trovare motivi per andare avanti e trovare lavoro.

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Durante il dibattito i presenti hanno posto una serie di domande, rispondendo alle quali Rubbettino ha arricchito enormemente la sua comunicazione. Alessandra Morrone: prendere il posto di vostro padre nell’editoria era un sogno che lei e suo fratello avevate già da piccoli o vi ha influenzato la sua morte prematura? F. Rubbettino: io e mio fratello siamo nati e cresciuti tra i libri. Attraverso la passione e i sacrifici di nostro padre è stato quasi naturale pensare di prendere il suo posto, ma non mi è mai stato imposto. Stefania Ferrisi: i ragazzi che sono diventati maggiorenni nel 2016 hanno potuto usufruire del buono di €500 per acquistare libri. Secondo lei, è stata una mossa giusta per invogliare i ragazzi a leggere? F. Rubbettino: io credo di sì. Destinare un buono ai neodiciottenni è stata una buona intenzione, ma doveva essere progettata meglio. Angela Costanzo: per pubblicare un libro l’autore deve spesso pagare l’editore, inoltre difficilmente vengono scelti i libri dei ragazzi. Cosa pensa a questo riguardo? Anche voi avete questa politica? F. Rubbettino: noi come Casa Editrice cerchiamo di scegliere i migliori, ma è pur vero che i fallimenti ci saranno sempre. Mimmo Gangemi pubblicò il suo primo libro con la Casa editrice Rubbettino e diventò famoso come scrittore. Un altro esempio è il libro “Anime nere” scritto da Gioacchino Criaco che diventò un best seller. La stessa cosa vale per Stefano Marelli che scrisse “Altre stelle uruguayane” e per Nicola Cosentino che scrisse “Cristina d’ingiusta bellezza”. Su questi ragazzi noi abbiamo investito senza pretendere nessun contributo. Purtroppo, però, ci sono libri di qualità che già dal principio sappiamo che non è possibile far circolare sul mercato. In questi casi chiediamo un contributo sotto varie forme. Federica Beltrano: quali sono i sistemi informatici che utilizzate per l’impaginazione dei libri e per la gestione delle vostre attività? 68


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F. Rubbettino: per l’impaginazione dei libri si usa Adobe Design, ma vengono utilizzati anche tanti altri sistemi software, ad esempio per le immagini, per i libri illustrati. Poi abbiamo tanti sistemi software e sistemi informativi per il magazzino, per i clienti e per tutto ciò che serve a mandare avanti l’azienda. Federica Beltrano: quali sono gli aspetti da approfondire in informatica ed economia aziendale per sviluppare una professionalità che potrebbe essere richiesta dalla vostra azienda? Il tecnico esperto di Sistemi informativi aziendali vi interessa come figura professionale? F. Rubbettino: oggi, in Italia, si cercano programmatori informatici. Molte aziende cercano persone con competenze relative alla progettazione e scrittura del software. Programmatori che per esempio si occupino di sicurezza.

Tommaso Cariati: a proposito di informatica e tecnologie digitali, in Italia si fatica con la diffusione dell’e-book? La Rubbettino che posizione ha a tal proposito? F. Rubbettino: essa pubblica sia libri cartacei, sia e-book. Con l’e-book è più facile trovare i libri, avendoli in soli pochi minuti; inoltre si può avere sempre con sé una grande quantità di libri. Ma il libro cartaceo resisterà a lungo in quanto si dice sia tecnologicamente perfetto. I mezzi di comunicazione resistono e si rafforzano tra loro, non vengono mai soppiantati da uno nuovo. Tommaso Cariati: che cosa trovano i nostri ragazzi arrivando da voi a Soveria Mannelli quando verranno a farvi visita? Un palazzo, un capannone? Il libro “Impronte” ricorda l’arrivo di grandi macchinari tecnologicamente avanzati provenienti dalla Germania con cinque Tir, negli ultimi 15 anni avete cambiato macchinari e processi produttivi? F. Rubbettino: noi apriamo sempre l’azienda alle scuole e cerchiamo di fare alternanza scuola-lavoro. Siamo felici di offrirvi una visita guidata in azienda. Con l’occasione potreste visitare anche il lanificio Leo. Arrivando a Soveria trovate un grande edificio industriale che ospita i tre reparti produttivi: pre-stampa, stampa, editoria. Ospita anche magazzini, sale riunioni e conferenze ecc. Quanto agli investimenti, per sopravvivere, non bisogna fare le cose uguali alle altre aziende; bisogna trovare particolarità, per questo è fondamentale la creatività dei giovani. Gli investimenti devono essere continui. Negli ultimi anni abbiamo aperto una nuova linea di prodotti, il packaging, per fronteggiare i segni di cedimento del mercato principale dell’azienda. Per fare ciò abbiamo dovuto acquistare macchine dedicate a questo particolare processo produttivo affine al principale. Stefania Ferrisi: in questo periodo sono in aumento gli imprenditori culturali in Calabria? F. Rubbettino: stanno nascendo nuovi soggetti, ma non per forza imprenditori. Nascono soprattutto associazioni che prendono in gestione i beni non utilizzati nella nostra regione, così riescono a far vivere luoghi destinati all’abbandono.

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Alessandra Morrone: come posso rendere nota la creazione di un mio libro alla vostra Casa editrice per far sì che venga poi pubblicato? F. Rubbettino: il canale più semplice è inviare il manoscritto via e-mail, oppure affidarsi ad agenzie letterarie. Giovambattista Mussuto: che cosa fate per proteggere l’ambiente? F. Rubbettino: la nostra azienda è certificata in modo da garantire la produzione di libri salvaguardando l’ambiente, quindi usando carta riciclabile. Inoltre, abbiamo creato un parco in cui ogni volta che viene pubblicato un libro si pianta un albero.

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Repubblica fondata sul lavoro. Quale lavoro, quello che uccide o il lavoro che promuove la vita? (Auditorium ITE “V. Cosentino”, 24 febbraio 2017)

1. La crisi del lavoro in Italia (Giorgio Marcello) Nel 2013 il tasso di occupazione per la popolazione di età compresa tra i 15 e i 64 anni è stato del 42% nel Mezzogiorno e del 62,9% nel Centro-Nord (da notare che il target fissato da Europa 2020 è pari al 75%). A livello regionale al Sud il tasso più alto si registra in Abruzzo (54,8%), il più basso in Calabria, dove lavora solo il 39% della popolazione in età da lavoro. Al sud si sono sperimentati gli effetti più pesanti della grande recessione. Nel periodo 2008-2013 l’occupazione cala al sud del 9% e al centro-nord del 2,4%. In questo periodo hanno perso il posto di lavoro 985 mila persone; di esse 583 mila sono residenti al sud, dove si trova solo il 26% degli occupati in Italia. Solo nel 2013 si sono persi 478 mila posti di lavoro, di cui 282 mila al sud. Nel secondo trimestre 2014 il Sud ha perso 170mila posti di lavoro rispetto all’anno precedente, contro -41mila nel Centro-Nord. Tra il secondo trimestre del 2013 e il secondo trimestre del 2014 l’80% delle perdite di posti di lavoro in Italia ha riguardato il Sud. Il tasso di occupazione italiano nel 2015 è risalito, superando il 60% (60,5%, era il 59,9% nel 2014), per i 20-64enni; tuttavia, il divario con l’Unione europea si è tuttavia ulteriormente ampliato. Nell’Ue a 28 paesi il tasso di occupazione (20-64) è salito di 9 decimi di punto al 70,1%: la distanza si è dunque ampliata, arrivando quasi a 10 punti percentuali. Cresce il divario anche con l’Eurozona, dove il tasso cresce di otto decimi di punto attestandosi al 69%. Il confronto con l’Europa resta dunque impietoso, e riflette, in larga parte, proprio il dualismo territoriale del nostro mercato del lavoro, con le regioni del CentroNord vicine alla media europea (68,0%) ed il Mezzogiorno lontano di circa 24 punti (46,1%, era al 45,6% nel 2014). Le professioni cognitive altamente qualificate hanno perso, tra il 2008 ed il 2015, oltre 1,1 milione di unità (-12,8%) a livello nazionale (mentre nell’Ue a 28 sono aumentate del 4,6%). Al Sud il calo è stato ancora più vistoso (-18,7%) rispetto al Centro-Nord (-10,8%). Si registra invece una crescita delle occupazioni non qualificate, a fronte di una contrazione del lavoro a tempo pieno più qualificato. L’ultimo Rapporto Svimez (2016) parla perciò di "ristrutturazione alla rovescia" del nostro mercato del lavoro, su cui hanno pesato, specialmente nelle regioni meridionali, il netto calo della domanda pubblica (allargata all’intero sistema della sanità, dell’assistenza sociale e dell’istruzione), il rallentamento della crescita dell’occupazione 71


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nelle grandi imprese che si caratterizzano per una domanda di lavoro più qualificata professionalmente, nonché la tendenza del sistema produttivo a mantenere la competitività più attraverso l’abbattimento dei costi che mediante la crescita della produttività con l’innovazione tecnologica. Il fenomeno dei neet (not in education, employment, training) è sempre più rilevante: nel 2013 ne sono stati censiti in Italia 3 milioni e 593 mila; 2 milioni circa si trovano al sud. Nel 2012 il 55% dei neet italiani è al Sud; tuttavia, dal 2007 al 2013 nel Centro-Nord i neet sono cresciuti del 47%, quattro volte più del Sud (12%). Anche questa è una forma gravissima di diaspora: una sorta di dispersione in presenza, per parafrasare il linguaggio della scuola. Con la crisi, la condizione di neet si è estesa anche ai giovani con titoli di studio più elevati: fra gli inattivi al Sud i diplomati sono il 37,5% e i laureati il 32,4%, contro rispettivamente il 21% e il 17% dell’altra ripartizione. La flessione dell’occupazione giovanile è diffusa a livello europeo anche se con ritmi generalmente molto più contenuti rispetto a quelli italiani. In particolare, nell’intero periodo 2001-2015 il calo medio annuo in Europa si attesta al 0,9%, è cioè pari a meno di un terzo di quello italiano. Solo Portogallo, Grecia e Romania registrano nel quindicennio tassi di variazione annui intorno al -3%, vicini a quelli dell’Italia (-3,3%), che tuttavia fa registrare la performance peggiore nello scenario europeo. La contrazione dell’occupazione giovanile tende a concentrarsi con la crisi nelle economie più deboli, oberate anche da più stretti vincoli di bilancio. I dati relativi ai giovani tra i 15 ed i 34 anni, raccolti da Svimez qualche mese fa, mostrano come l’Italia abbia quote inferiori a tutti gli altri paesi di giovani occupati. Il Sud si colloca in fondo ad ogni classifica europea, facendo registrare una condizione giovanile nel mercato del lavoro (e nella formazione) peggiore della Spagna, e persino della Grecia. Va detto che le difficoltà di accesso al mercato del lavoro, caratteristiche delle regioni meridionali e dei livelli di istruzione più bassi, negli anni della crisi hanno cominciato ad interessare anche le regioni del Centro-Nord ed i giovani con medio alti livelli di istruzione. Secondo Svimez (2016), numerosi fattori hanno inciso su questa dinamica. L’aumento della flessibilità e la diminuzione dei costi si sono prevalentemente realizzati a scapito dei giovani, estendendosi dai bassi livelli di istruzione ai più alti. Il cambiamento tecnologico che avrebbe dovuto favorire le giovani generazioni più istruite ha determinato per i paesi più avanzati una contrazione della domanda di lavoro, soprattutto nel settore industriale, compensata dalla forte crescita dei paesi emergenti. Il processo di terziarizzazione che avrebbe dovuto compensare la contrazione dell’industria ha incontrato negli ultimi anni, soprattutto nelle economie più esposte, diversi problemi connessi anche con il consolidamento dei bilanci pubblici. In particolare in Italia, ed in maggior misura nel Mezzogiorno, il forte declino della domanda pubblica ha avuto un forte impatto nel ridurre le opportunità di lavoro, in particolare per i giovani istruiti. Con riferimento ai giovani con livelli medio-alti di istruzione le difficoltà maggiori riguardano nel nostro Paese i diplomati, ma tra il 2008 ed il 2014 i tassi 72


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di occupazione dei laureati sono sensibilmente scesi (per poi risalire leggermente nel 2015). Se prendiamo in considerazione i giovani con 20-34 anni a tre anni dal conseguimento del titolo di studio emerge il forte divario assoluto tra i tassi di occupazione del Mezzogiorno, 26,7% e 37,1%, nel 2015, rispettivamente per i diplomati ed i laureati, contro valori del 49% per i diplomati e del 68,8% per i laureati del Centro-Nord. Sono cifre che non hanno paragoni in Europa e confermano la peculiarità della situazione giovanile meridionale: basti pensare che la media UE 28 è al 70% per i diplomati ed all’81% per i laureati; la Grecia fa peggio dell’Italia sia per i diplomati che per i laureati, ma con valori nettamente superiori a quelli del Mezzogiorno mentre la Spagna è in linea con i valori del Centro-Nord. Il complesso dei dati conferma la strutturale carenza di opportunità.

La mancanza di lavoro nell’area, che grava in particolare sulle giovani generazioni, rappresenta la principale causa della ripresa dei flussi migratori dal Sud verso il Nord, specie della forza di lavoro più giovane e qualificata. Più in generale, è il persistente divario di aspettative e condizioni generali di benessere a spiegare un fenomeno di dimensioni rilevanti, che sancisce il fallimento economico dell’investimento formativo nell’area (e infatti sempre più spesso risale già al momento della scelta universitaria: su questo ritorneremo più avanti) e produce una perdita netta di capitale umano in un Mezzogiorno in cui manca il brain exchange, cioè la capacità non solo e non tanto di trattenere ma di attrarre. Ed è per questo che, pur al tempo della mobilità e delle grandi migrazioni dal Sud al Nord del mondo, si continua a focalizzare l’attenzione sulle migrazioni interne, che rappresentano una caratteristica ancora molto peculiare del mercato del lavoro italiano, e si inseriscono in una dinamica demografica più generale davvero preoccupante. Tra il 2002 e il 2014 sono emigrati dal Sud verso il Centro-Nord oltre 1.627 mila meridionali, a fronte di un rientro di 973 mila persone, con un saldo migratorio netto di 653 mila unità. Solo nel 2013, si sono spostati al centro-nord 17 mila calabresi. Di questa perdita di popolazione il 73%, 478 mila unità, ha riguardato la componente giovanile, di cui poco meno del 30% laureati (133 mila). È da notare peraltro che tra i laureati, diversamente dagli altri livelli di istruzione, le donne sono sempre in numero superiore agli uomini. A questa massa enorme di persone che hanno trasferito la residenza, si aggiungono coloro che, mantenendola nelle regioni di origine, svolgono attività lavorative altrove, e che la statistica chiama “pendolari di lungo raggio”: nel 2015, questi ultimi erano 129 mila, la gran parte occupati a tempo pieno (120 mila) e sempre più all’estero (nel 2015, 16 mila, un dato in costante aumento negli ultimi anni), a conferma del fatto che si tratta di una vera e propria forma di emigrazione, caratterizzata per un’incidenza ancora maggiore di persone con buone credenziali formative: i giovani sono 54 mila e i laureati 38 mila, e complessivamente 63 mila svolgono occupazioni altamente qualificate.

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Nel Rapporto 2016, così scrive la Svimez: “Il fenomeno delle migrazioni interne, strettamente legato agli squilibri strutturali del mercato del lavoro e dell’offerta di beni e servizi, ha contribuito a produrre dei cambiamenti repentini e profondi nella demografia meridionale, che si sono inaspettatamente manifestati nel corso degli anni Duemila e che sembrano avere un carattere persistente, fino all’intreccio perverso di crisi economica, sociale e demografica degli ultimi anni”. Nel corso degli ultimi quindici anni la popolazione meridionale è cresciuta di soli 327 mila abitanti a fronte dei 3 milioni e 342 mila nel Centro-Nord; nello stesso periodo, la popolazione autoctona del Sud è diminuita di 297 mila unità mentre è cresciuta di 275 mila nel Nord. La popolazione italiana è cresciuta solo nel Nord grazie ai consistenti flussi migratori, che in entrambe le ripartizioni hanno avuto un ruolo fondamentale, che nel Mezzogiorno ha consentito di arrestare la perdita di popolazione. I dati del 2015 fanno registrare un ulteriore aggravamento della dinamica demografica. La popolazione meridionale è diminuita di 62 mila unità, dopo la flessione di circa 21 mila unità dell’anno precedente e di 31 mila del 2013; il calo del 2015 è stato determinato da una riduzione della popolazione italiana di oltre 101 mila unità, parzialmente compensato da una crescita degli stranieri di circa 40 mila unità. Anche nel Centro-Nord la popolazione complessiva è diminuita di 68 mila unità: -40 mila italiani e -28 mila stranieri; questo risultato induce a ritenere che il più contenuto calo della componente italiana della popolazione dell’area sia da attribuire anche al contributo delle migrazioni dal Sud. La perdita netta di giovani generazioni in età feconda, insieme alle aspettative di crescita e di benessere, stanno modificando nel profondo i comportamenti riproduttivi. Nel 2015 il numero dei nati nel Mezzogiorno, così come nell’Italia nel suo complesso, ha toccato il valore più basso dall’Unità d’Italia, 170 mila. Il dato allarmante del 2015 è sicuramente il portato di profondi mutamenti nel costume sociale, ma è anche legato alla dinamica economica degli ultimi anni, e alle conseguenti preoccupazioni sulle prospettive di reddito e di benessere delle famiglie: infatti, in un solo decennio, il Mezzogiorno ha perso il primato della fecondità femminile, mentre nel Centro-Nord si è manifestato un risveglio della maternità dovuto principalmente alla popolazione immigrata. Nel 2015 il tasso di fecondità totale (TFT) è pari a 1,30 nel Sud e a 1,41 nel Nord, e va ricordato che il livello di "sostituzione" naturale è pari a 2. Nella dinamica demografica si sta insomma configurando una nuova declinazione del dualismo Sud-Nord, forse ancora più difficile da affrontare. Le tendenze di questa nuova geografia demografica - tra forti migrazioni verso il Centro-Nord e l’estero, scarsa capacità di attrarre e integrare popolazione dall’estero, e crollo della natalità dell’area - rischiano di confermare le previsioni di una sostanziale implosione e di un rovesciamento della piramide anagrafica, con altrettanto prevedibili e allarmanti conseguenze sociali ed economiche. La diminuzione delle nascite e l’incremento della speranza di vita alla nascita fanno sì che l’Italia sia uno dei paesi più vecchi al mondo: in Italia il rapporto tra gli ultrasessantacinquenni e la popolazione con meno di 15 anni è pari al 151,4%; peggio di noi sta solo la Germania (160,0). I 74


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demografi parlano ormai di un vero e proprio tsunami demografico. Si tratta di un fenomeno non passeggero, e destinato anzi a diventare ancora più acuto in futuro: ad esempio, da qui al 2060 si prevede un aumento considerevole sia degli over 65, che degli over 75. Tutto ciò modificherà in modo incisivo gli equilibri tra generazioni all’interno della popolazione italiana, e determinerà verosimilmente un significativo incremento dei bisogni di assistenza e di cura. Si prevede che in Calabria il processo di invecchiamento accelererà lo spopolamento dei piccoli centri e delle zone più interne, e produrrà situazioni di malessere diffuso, con notevoli implicazioni sul piano delle politiche di protezione sociale. Possiamo ipotizzare che, a causa delle caratteristiche peculiari del welfare in Italia, quanti sono più esposti alla vulnerabilità, come le persone anziane, in Calabria – come nel sud in genere – correranno il rischio di scivolare più facilmente ai margini della vita sociale, a causa della estrema fragilità dei sistemi locali di protezione. Per fronteggiare adeguatamente la crisi del lavoro e le sue conseguenze, soprattutto al Sud, servono politiche in grado di favorire opportunità di lavoro, soprattutto a vantaggio dei più giovani. Nell’ultimo Rapporto Svimez (2016) si sostiene che le politiche per il lavoro, da sole, non possono però bastare a fare ripartire le regioni meridionali. I dati sopra presentati evidenziano che povertà, disuguaglianze e divari di benessere non sono connessi esclusivamente al lavoro, e che non è possibile, almeno nel breve periodo, anche guardando alla dimensione strutturale dell’inoccupazione al Sud, che solo dal versante della creazione di lavoro arrivi una risposta. Ci dicono, insomma, quanto siano necessarie e non più rinviabili misure organiche e non episodiche di contrasto della povertà. Servono interventi orientati a definire i livelli essenziali di assistenza sociale; a migliorare la qualità dell’assistenza sanitaria; a rinforzare tutto il sistema formativo e, in particolare la formazione terziaria: si tratta delle precondizioni necessarie per promuovere percorsi di sviluppo autentico. 2. Stralci tesina esami di stato di Aurora Caputo Ho svolto questo lavoro con l’obiettivo di conoscere qualcosa in più sul fenomeno che oggi purtroppo è molto diffuso, quello della disoccupazione. Attraverso le interviste e i vari pezzi aggiunti nella mia ricerca (uno di questi pezzi è il bel commento di Giorgio Marcello, che ringrazio ancora), ho potuto osservare il fenomeno della disoccupazione più a fondo, sotto vari punti di vista, che alla fine s’incentrano sempre sullo stesso argomento, la mancanza di lavoro. Essendo una donna, da quel che ho letto e constatato, sono un po’ preoccupata su quel che sarà il mio futuro e il mio ruolo nella società d’oggi, proprio perché oggi la donna, e soprattutto quella del Sud, è il soggetto in eccellenza con più difficoltà nel trovare un lavoro. Di seguito vi leggo stralci di alcune interviste (per comodità le chiamo prima, seconda e terza, anche se l’ordine nell’insieme delle interviste non è esattamente questo) che ho raccolto tra disoccupati ed esodati, cioè tra soggetti che vivono una condizione di emarginazione. Le interviste sono state realizzate se75


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condo le dieci domande che con il prof. Cariati abbiamo messo a punto quando abbiamo progettato la tesina. Dalla prima intervista: Dom. 6. In che modo l’azienda ha preparato la situazione che ha comportato la perdita del lavoro? 6. La causa della perdita del lavoro è stata semplice: un anno senza mai assunzione e poi di botto “non servi più”. Dom. 7. Quali azioni sta intraprendendo o pensa di intraprendere per cercare di procurarsi un’occupazione? 7. Ho investito del tempo nello studio. Questo inteso come crescita, non solo professionale, ma soprattutto personale. Dom. 8. Ritiene che ritornare sui banchi di scuola sia sufficiente per trovare una occupazione ? 8. Tornare a studiare non è affatto sufficiente. Bisogna crederci e avere forza di volontà. Non si studia per lavorare ma per sapere. Solo la cultura ci dà la forza di zittire i potenti ed i prepotenti incompetenti. Dalla seconda intervista: Dom. 3. Per lei qual era il senso del lavoro che svolgeva nell’ultimo impiego? 3. In primis sostentamento della famiglia, avere un ruolo, entità nella collettività. Dom. 4. Il lavoro contribuiva allora a sostenere la vita di altre persone? 4.Sì, della mia famiglia. Dom. 5. Che cosa ha provato lei e che cosa hanno provato i suoi familiari? 5. Quando questo succede ad una certa età si ha la consapevolezza/certezza che ti aspettano tempi duri. Si parla infatti sempre di disoccupazione giovanile, ma dei casi come il mio, a 50 anni, perdere o meglio essere defraudato del posto di lavoro, nessuno ne parla. È la fine. Famiglie come la mia, dove nel loro interno troviamo figli che lottano per un primo inserimento nel lavoro e genitori nel dramma, che si trovano nella situazione di troppo giovani per una pensione e troppo vecchi per un nuovo lavoro, ce ne sono davvero tante. Conclusione: fallimento della società che come la nostra si basa sulla famiglia. Dalla terza intervista: Dom. 3. Per lei qual era il senso del lavoro che svolgeva nell’ultimo impiego? 3. Il lavoro oltre ad essere una fonte di reddito è il luogo dove ogni persona realizza la sua creatività e manifesta concretamente i suoi valori di riferimento. Oltre alle competenze tecniche sono mobilitate le competenze sociali e relazionali. Dom. 4. Il lavoro contribuiva allora a sostenere la vita di altre persone? 4. Il lavoro contribuisce principalmente al sostegno economico della propria famiglia, ma il mancato guadagno si riflette anche sulle attività commerciali del territorio in cui un lavoratore risiede. Dom. 5.Che cosa ha provato lei e che cosa hanno provato i suoi familiari? 5. È un’esperienza molto dolorosa specialmente per chi non è più giovane ed ha l’obbligo sociale e morale di mantenere una famiglia. La nostra è stata una ban76


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carotta studiata a tavolino da indisturbati e spericolati faccendieri per rubare il trattamento di fine rapporto dei lavoratori e la liquidità presente in azienda. Lo Stato ed i sindacati non hanno voluto o saputo ostacolare il disegno criminale pur avendo ricevuto, con largo anticipo, diverse segnalazioni di comportamenti anomali dei vertici aziendali. Gli ultimi proprietari avevano già in corso procedimenti giudiziari per bancarotta fraudolenta. Al dolore di aver perso il lavoro si è aggiunta la rabbia di non essere protetto dalle istituzioni. 3. Precarietà al call-center (Fabio Le Rose) Buongiorno a tutti. Sono un tecnico informatico, attualmente alle dipendenze di un call-center dove mi occupo della gestione e manutenzione dei pc, della rete e dei sistemi informativi. Voglio mettervi a conoscenza della mia esperienza lavorativa nel mondo dei call-center e non sono pochi quelli in cui ho prestato il mio servizio di tecnico informatico… ho potuto così acquisire una visione più ampia di quella che potrebbe avere un semplice operatore in cuffia, essendo a contatto anche con coloro i quali prendono decisioni, anche sulla vita della gente per la quale, molto spesso, il call-center costituisce l’unico modo (o forse quello più semplice) di entrare nel mondo del lavoro. Chi è entrato almeno una volta in un call-center, conosce l’aria che si respira, la pressione psicologica che viene esercitata sui collaboratori, che sebbene siano semplici collaboratori, con le poche tutele che ha un collaboratore, hanno dei doveri da rispettare assimilabili a quelli di un dipendete a tutti gli effetti. Non c’è respiro, non c’è spazio per riflettere… si fa quello che ti viene detto di fare, anche se eticamente e umanamente non fa parte di te, non ti appartiene e non ti fa star bene con la tua coscienza. Perché l’importante è raggiungere l’obiettivo, l’importante è fare più “pezzi” ovvero, concludere contratti e non importa come… bisogna farli, ad ogni costo. Se si è davvero bravi, alle volte si riesce a racimolare anche uno stipendio per così dire “normale”, ma a che pro? Dopo essersi impegnati a fondo, dopo aver dato davvero tutto, ciò che rimane è poco più di un misero salario, privi di una reale esperienza formativa, senza alcuna crescita personale, usati, sfruttati e quando esausti… buttati, e non è un termine usato a caso, l’ho sentito con le mie orecchie. Perché quando le energie emotive ti abbandonano, sei già fuori… non rendi più, non servi più. Il call-center è un parcheggio per tenere “occupata” la gente che NON HA o NON VUOLE alternativa, in un limbo tra il NON FARE ed il FARE davvero qualcosa. È una sorta di ammortizzatore sociale che lo Stato potrebbe chiudere con una semplice legge ma non lo fa perché è meglio l’illusione di una stabile occupazione che un probabile stato di disoccupazione a carico in molti casi delle proprie casse. 77


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Il call-center deve essere inteso come elemento transitorio nella vita di chi ha ben altri obiettivi, ben altre priorità. Uno studente universitario che cerca il modo di pagarsi almeno in parte gli studi, un secondo lavoro per chi ha già un suo percorso stabile e certo… ma non può essere l’unica àncora alla quale aggrapparsi. Bisogna credere nelle proprie capacità… non siamo chiamati ad essere tutti famosi scienziati o medici luminari, bensì ad essere parte attiva e produttiva della società, ognuno secondo le proprie inclinazioni e capacità, altrimenti il rischio di guardarsi indietro e scoprire di non aver seminato nulla lungo il proprio cammino è alto… e riprendere le redini della propria vita è difficile. Realizzarsi, mettendo a frutto le proprie capacità al meglio, è l’obiettivo da raggiungere… che non è l’obiettivo degli imprenditori senza scrupoli, ma il nostro.

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Dibattito seguito alla relazione-testimonianza di Giorgio Marcello (appunti di S. Ferrisi e A. Morrone, foto di A. Tricò, V B Sia)

Giorno 24 febbraio 2017 abbiamo tenuto il tredicesimo incontro del ciclo pluriennale di conferenze sul tema “Quale uomo, quale cultura, quale scuola per il XXI secolo?”, affrontando il tema del lavoro, della disoccupazione e del lavoro che uccide perché non usato correttamente.

Abbiamo iniziato l’incontro con la lettera scritta da Michele, che si è ucciso a trent’anni perché stanco del precariato e di una vita fatta di rifiuti, letta dai nostri compagni Elvira Lepiane e Patrick Ciardullo.

Aurora Caputo, diplomata l’anno scorso ha letto brani delle interviste fatte ad esodati e disoccupati per la redazione della sua tesina di diploma sul tema della disoccupazione nella società informatizzata e globalizzata. Giorgio Marcello ci ha stupito perché nella vita si occupa di diverse cose. Da 15 anni insegna sociologia all’università e non è mai riuscito ad insegnare dietro una cattedra perché la percepisce come un distacco, inoltre si occupa per scelta di accoglienza e precariato, e la cooperativa R-accogliere, di cui lui è presidente, è riuscita ad offrire opportunità di lavoro a tante persone vulnerabili. Ha 79


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discusso del fenomeno della disoccupazione segnato, particolarmente in Italia, della necessità che la ricerca del lavoro sia collettiva e sia una sfida da affrontare giorno dopo giorno non individualmente. Il lavoro consente alle persone di crescere, di scoprire la propria vocazione, di diventare uomo e donna. Lo ha colpito la lettera di Michele per l’uso continuo della prima persona singolare (IO) quando afferma di non aver trovato il suo posto nel mondo, senza usare mai la prima persona plurale (NOI). Giorgio Marcello ci spiega che studiare aiuta a scoprire la propria vocazione, per essere di più, appropriandoci del sapere: studiare significa passare dalla “coscienza ingenua” alla “coscienza critica”, senza questo passaggio non serve la scuola; coscienza critica vuol dire rendersi conto che la realtà può essere cambiata insieme, non da soli, dove è possibile sviluppare conoscenze educative vere, perché “nessuno si educa da solo, ci si educa insieme”, dice.

Fabio Le Rose, tecnico informatico, ha svolto un’esperienza lavorativa occupandosi di assistenza tecnica nei call center. Testimonia che nei call center si viene usati, sfruttati e, quando non servi più, buttati. Perciò, il call center non deve essere visto come opportunità di lavoro unica e definitiva, ma, se lo si vuole, come secondo lavoro o come lavoro provvisorio, perché al call center non ci si realizza.

Infine ha preso la parola Dominique Marino, appartenente alla categoria dei 55 anni che perde il lavoro. Propone una domanda interessante: “Come si crea il lavoro?”, le imprese non riescono più a creare un lavoro dignitoso. Negli ultimi anni l’Italia ha perso il 25% del lavoro ed oggi ci troviamo ad avere occupazioni di bassissima qualità. La situazione è drammatica, i laureati lavorano non facendo ciò per cui sono stati formati. Bisogna forse studiare di più per avere competenze da usare nel caso in cui non trovi lavoro ed hai bisogno di crearlo. Otto persone hanno in mano la ricchezza di tre miliardi e mezzo di persone: solo la politica può ridistribuire il reddito. 80


Bollettino n. 12

Prima di passare al dibattito, abbiamo visto due filmati, il primo di Domenico De Masi (sociologo), trasmesso su La 7, a Piazza Pulita, e l’altro trasmesso al TG Calabria, in cui erano presenti delle testimonianze di ragazzi ripresi mentre lavoravano ma che dopo molto tempo non sono stati pagati.

Durante il dibattito i presenti hanno posto una serie di domande, rispondendo alle quali Marcello ha arricchito la sua comunicazione. Stefania Ferrisi: lo Stato aiuta veramente i disoccupati o potrebbe fare di più? G. Marcello: purtroppo non è facile rispondere questa domanda, ma provo a dire qualcosa. Noi viviamo in una regione con percentuale mostruosa di giovani disoccupati; le iniziative dello Stato sarebbero necessarie ma ora scarseggiano. Alessandra Morrone: già nel tempo del fascismo si parlava di suicidio a causa della perdita di lavoro ed oggi se ne sente parlare ancora più frequentemente, continuando di questo passo dove arriveremo? G. Marcello: mentre ascoltavo questa domanda, mi sono venute in mente le pagine di Durkheim sul suicidio anomico. I giovani di oggi stanno sperimentando la rottura tra vocazione e lavoro. In tedesco i due termini si dicono con la stessa parola e un tempo coincidevano veramente, ma oggi non è più così. Stefania Ferrisi: probabilmente il lavoro scarseggia, ma ci sono persone che non si accontentano di quello che trovano perché vogliono il lavoro perfetto per loro, cosa ne pensate a riguardo? G. Marcello: per risollevarci dobbiamo cercare insieme di prendere coscienza, trovare modi di intervento attivo. Probabilmente voi giovani farete meglio di noi. Alessandra Morrone: andare in cerca di lavoro altrove perché nel proprio paese si pensa non ce ne sia è una scelte valida o si potrebbe fare altro? G. Marcello: oggi una competenza fondamentale è la conoscenza delle lingue, che consente di andare altrove. Federica Beltrano: secondo lei è giusto che per normativa di legge sia stato posto un limite al rinnovo dei contratti a tempo determinato, se poi non si procede all’assunzione a tempo indeterminato?

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G. Marcello: il contratto a tempo determinato deve essere motivato da esigenze temporanee, se si rinnova più volte, vuol dire che il lavoratore è necessario all’azienda, allora è giusto che il contratto venga trasformato a tempo indeterminato. Federica Beltrano: secondo lei una iperscolarizzazione fra i giovani ha contribuito a creare disoccupazione fra le professioni che richiedono la laurea, a scapito dei mestieri più umili ma ugualmente importanti per la società? G. Marcello: non sono d’accordo nella premessa. In Italia non c’è iperscolarizzazione. Negli ultimi 5 anni, 1 ragazzo su 5 si ritira da scuola. In realtà invece, si avrebbe bisogno di più scuola per favorire l’attivazione di percorsi di sviluppo umano autentico.

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