quarto quaderno: gennaio 2010

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Quaderni della Scuola elementare di scrittura emiliana quarto quaderno gennaio 2010


Sono qui raccolti alcuni degli esercizi usciti dalla Scuola elementare di scrittura emiliana che si è tenuta alla libreria MODO infoshop Interno 4 tra il mese di settembre e il mese di novembre dell'anno 2009. Questo quarto quaderno succede a un primo quaderno uscito nel 2007 a cura dell'Arci di Reggio Emilia, associazione presso la quale si sono tenuti, nel 2006, i primi corsi della Scuola elementare di scrittura emiliana, e a un secondo e a un terzo quaderno, usciti nel gennaio e nell'aprile del 2009 sempre a cura della modo Infoshop di Bologna.


Compito della finestra:

descrivete quello che si vede dalla vostra finestra il 5 ottobre 2009 alle ore 15

S

ono in ritardo, le dieci di domenica sera. Eppure avevo tutto in regola: la scrivania orientata verso la portafinestra, la portafinestra che da sul balcone e davanti il mondo. II balcone è quello del secondo piano, anche se il primo piano è un semplice piano rialzato, quindi è meglio dire primo piano ammezzo. La scrivania punta il Nord, così come il letto, che secondo mia madre, che ha letto il feng-shui, fa molto bene. Io non lo so se fa bene, era l'unico modo per farci stare tutto in camera; così mi ritrovo con la scrivania che punta il Nord, anche se non so se è quello magnetico o geografico... devo ricordarmi di chiederlo a mia madre. Ma anche se mi siedo alla scrivania e con lo sguardo supero il metro che separa la scrivania dalla portafinestra e l'altro metro che separa la portafinestra dalla ringhiera del balcone, pam! Mi scontro con gli alberi del giardino davanti casa. Sono due ma l'abete è in disparte, con i sui rami, lui, saluta la camera a fianco dei miei e li incita al buon risveglio. L'altro invece, il mio, non sono nemmeno sicuro se è un tiglio o un olmo. Una volta ho conosciuto un tipo di nome Olmo. Era simpatico, socievole, ma gli rugava moltisissmo dover ripetere il suo nome davanti alle facce sbigottite della gente. Il mio olmo-tiglio invece non mi sembra così affabile ed è talmente vicino da buttarmi le foglie oro e marrone sul balcone, e guardandole bene, adesso che è autunno, capisco benissimo cosa vuoi dire brunito. (Luca Zirondoli)

L

a vista dalla finestra del mio studio è per metà coperta dal verde. Dall'angolo in basso a sinistra fino a quello in alto a destra si vedono solo le foglie di un. Un... «Amoreeee!», «Dimmiii!», «Ma la pianta qui è una magnolia?», «Sììììì». Una magnolia. Quasi non la riconoscevo senza fiori. Ora ha dei frutti, rossi. Ma non tutti rossi. Più come gruppi di bacche rosse. Però come attaccati a un pigna. Tipo un melograno, però al contrario, però con meno chicchi, e più opachi. Mmmh. Allora. W-i-k-i-p-e-d-i-a: M-a-g-n-o-l-i-a. "I frutti ovoidali in infruttescenze conoidi, contengono dei semi lucidi rossastri o arancioni". OK. La vista dalla finestra del mio studio è per metà coperta dal verde. Dall'angolo in basso a sinistra fino a quello in alto a destra si vedono solo le foglie di una magnolia. Si intravedono tra i rami degli indescrivibili frutti rossi e i mattoni della casa di fronte.


Nell'altra metà di finestra, in alto, rosso anche esso, l'abbaino del palazzo dirimpetto. Le tre finestre opache sono aperte. Aperte all'insù, per alto, per il lato corto, socchiuse verticalmente. A bocca di lupo? E poi: opache? Son proprio pannelli. Mica è una casa. Sarà il vano dell'ascensore? Ma ha solo tre piani... Un ripostiglio? «Stellinaaaa, vieni qua un attimo? Poi giuro non ti disturbo più! Quella cosa li rossa sul tetto come la chiami? Un abbaino?», «Ma no, è un attico», «Con le finestre così? Non ci può vivere nessuno», «Non è che uno deve viverci, tutte le cose che spuntano dai tetti si chiamano attici, beh più o meno, hai capito che intendo». 'Nsomma. Rimango perplesso e lui mi da un bacio. Guarda sempre fuori prima di darmi un bacio perché siamo due maschi e ha paura di dare scandalo. Non ho mai capito questo scrupolo, perché uno per vedere qui dentro deve fare i salti mortali: prima di tutto c'è la magnolia e poi c'è una strada tra noi e l'altro palazzo, e comunque siamo al secondo piano. Delle sei finestre che guardano qua tre son sempre chiuse, una è quella di un bagno ed è tutta smerigliata, che semmai dovrebbero essere i vicini a preoccuparsi di farci vedere le loro silhouette; e le altre due, al terzo piano, ecco magari da quelle ci vedono ma anche amen. «Senti, ti faccio tutte le domande adesso così poi torni a fare quello che facevi. Che facevi?» «Mettevo un po' a posto in cucina», «Poi fai un caffè?», «Dai dimmi», «Allora, vedi che il terzo piano è con l'intonaco giallo, poi sotto il secondo è a mattoni, la riga bianca in mezzo come la chiami?», «Oggesù... sarà una cornice, non lo so», «E quella riga di mattoni in verticale? pensavo di chiamare quella cornice», «Guarda che mica tutto c'ha un nome preciso», «No?», «Vado a fare il caffè», «Ok, ok, un'ultima cosa: la luce sulla strada quella che ha i tiranti che partono da qua e vanno all'altro palazzo come la chiameresti? un lampione? ma i lampioni non spuntano per forza da terra?» «Quanto zucchero?» «Uno grazie». Quando torna coi caffè in mano mi trova fermo a fissare diritto. Sto guardando il cactus appoggiato sul balcone e penso a come spiegare la disposizione delle spine che sono come due spirali che partono dalla cime e scendono in senso... Vabbé, ci sarà una parola sicuro. Ma non chiedo niente. Anche lui si mette a guardare fuori mentre beviamo il caffè. Passa una macchina e un motorino. Un piccione si siede sul tetto. Dalla finestra smerigliata del bagno sbuca un ragazza, ci guarda e appoggia una ciabatta sul balcone, una sola. (Luca Vanzella) La finestra della cucina si apre su una palazzina di rre piani, intonaco marrone chiaro sbiadito, finestre e balconi piccolissimi. I palazzi di questa strada, sono troppo vicini l'un l'altro e formano un camino musicale dove si incanalano i suoni per uscirne amplificati... Al terzo piano ci abita il bimbo Fabio. La finestra è oscurata da una tenda verde, molto sbiadita e appoggiata sulla ringhiera a formare una sorta di veranda. Il bimbo Fabio ha una pessima grafia, non studia, non legge, non sa fare i conti, non sa le tabelline, non si lava le mani, non si toglie le scarpe, non mette in ordine la sua stanza, non sta a tavola, non mangia la bistecca. Per punizione non può guardare la televisione, non può uscire, non può giocare, non avrà il giornalino che ha chiesto, non andrà al compleanno dell'amichetto, non avrà nemmeno la bicicletta. E gli sta bene perché è un asino a scuola,


il peggiore della classe, un maleducato, risponde male al papa e alla mamma, non da retta a nessuno, resterà senza amici e oggi che è sabato starà tutto il giorno in casa. Perché? Perché sì! Tutto il giorno in casa e basta! Non provi a ribellarsi che gli arriva uno schiaffo, anzi due che così impara! E che la smetta adesso di urlare che lo sentono tutti, anche i vicini che poi pensano che il bimbo Fabio ha proprio due genitori coglioni! (Isabella Pedrazzi)


Compito della parola inventata:

inventate una parola e scrivetene la definizione.

F

rignere. Da non confondersi con frignare. Verbo che tenta di descrivere l'atto del ridere mentre si piange, o meglio dell'impossibilità di non ridere mentre si vorrebbe soltanto piangere. Mi ricordo una mia morosa che si è rotta entrambi i polsi cadendo dall'altalena davanti ai suoi fratelli. Nonostante il dolore atroce che la faceva piangere, non riusciva a non ridere immaginandosi la figura che aveva fatto cadendo stupidamente dall'altalena. Sempre questa ex morosa, molto carina, tta l'altro, mi raccontava di aver riso per tutto il tempo pure quella volta che è finita nel tosso con l'automobile spaccandosi irrimediabilmente i due denti incisivi superiori. Va detto, che io stesso, personalmente, l'ho sempre vista divertitsi parecchio alla faccia delle figure fatte da altri. Bastava che qualcuno scivolasse per terra, per farla ridere mezzora, e, ancora meglio, se nella caduta si sentiva qualche 'crac'. Questo verbo, frignere, si usa anche nel verso contrario, descrivendo l'atto del piangere conseguente al gran ridere, oppure quando davvero non si sa se ridere o se piangere. Succede spesso quando si ride delle proprie battute mal riuscite, e, durante la risata prende forma la consapevolezza della grande figura di merda che si è appena fatta e che si sta prolungando proprio in virtù del proprio divertimento. In questo caso difficilmente si arriva a versare vere lacrime, ma lo strazio interno è atroce. (Stefano Gattini)

P

araponzola - Paraponzolare. Paraponzola: s. f. ma all'occorrenza anche m., volendo anche soprannome o nome proprio a seconda, di origine onomatopeica, derivante dal motivo paraponziponzipò. Di persona sofficemente goffa che nell'atto di muoversi coinvolge urtando con la sua fisicità gli oggetti intorno ed eventuali osservatori. Utilizzato per lo più in tono esclamatorio successivamente ai danni non troppo gravi creati: ma che paraponzola! Con tono di scherno bonario: ecco la paraponzola! Abbreviazione: parappa, es.sei proprio una parappa. Da paraponzola ha origine il verbo intransitivo paraponzolare, l"sign.: muoversi prendendo contro oggetti che prendono contro altri oggetti che prendono contro altri oggetti che prendono contro chi in quel momento era spettatore passivo della scena coinvolgendolo suo malgrado in cadute e dolori imprevisti che se non era lì era meglio. Nell'utilizzo del verbo vengono spesso sottintesi gli oggetti coinvolti nell'azione citando soltanto, ma proprio di sfuggita, il luogo es. — attenta a non paraponzolare dal divano, stai paraponzolando dalle scale, quel gatto stava paraponzolando dalla grata. 2"sign.: uso figurato, saltare fuori in maniera inaspettata e non ci puoi fare niente: mi


stanno paraponzolando addosso troppi impegni, è paraponzolata fuori una cena col capufficio la sera del corso di yoga. 3°sign.: coricarsi meritatamente perché è meglio che non fai altro a chiusura di una giornata di rimbalzi e spostamenti repentini in condizioni atmosferiche non proprio estreme ma poco ci manca es: che giornata oggi, non mi rimane che paraponzolarmi a letto. Sinonimi, per adesso, non ce ne sono, poi vediamo, (Andrea Bergonzini)

S

paludare o Spaludarsi. E un verbo di uso non comunissimo. Anzi si può dire che è poi ristretto alla sola comunità linguistica di FidenzaOvest-AIseno. Anzi per restringere il cerchio io tirerei in ballo solo la località Rimale, frazione del Comune di Fidenza. Però a pensarci meglio io i miei vicini, con tutto che non è che ci parlo spesso e che i più vicini sono oltretutto indiani, che fanno i vaccari, ecco non credo che si possa parlare proprio di una distinta comunità linguistica. Allora facciamo che è un verbo che lo uso solo io a casa mia. Tale verbo serve a descrivere una situazione particolare legata ad un oggetto nello specifico: il piumone. Che se c'è una gioia che ho nella mia vita, una soddisfazione, un traguardo raggiunto, quello lì è il mio piumone ikea, imbottitura sintetica grado di calore caldo. Quando ti svegli in un ottobre qualunque in Emilia che è domenica. Quando ti svegli in quella maniera lì, naturale diciamo. Senza l'interruzione artificiale di sveglie, radiosveglie, orologi elettronici da polso, sveglie del telefono cellulare. Allora si può parlare dell'atto dello spatuclamento. Apri gli occhi e li richiudi ancora. Il tempo per ripararti dal sole che entra di straforo dal buco che hai negli scuri. Un buco di picchio. Che per ripararti da quella luce lì ti rigiri su te stesso e ti avvolgi tutto dentro il tuo piumone. Piumone che nell'aria canaglia della campagna della pianura emiliana al confine tra Parma e Piacenza mi stratta a pieno il grado di calore caldo dichiarato all'atto della vendita. E allora per incanto c'è quella sensazione lì che te non puoi dire se dormi o sei sveglio. E navighi in questa bolla soffice come dentro un cotton fioc, e ti giri e ti rigiri come un bambino. E pensi che davanti c'hai tutta una domenica da non fare un cazzo. E allora ci sei te e il tuo piumone. E staresti li delle ore intere. Questo qui a grandi linee è quello che intendo per spaludare. (Matteo Martignoni)

S

trasbica. Strasbica è una che ce ne sono poche. Per lo meno, immagino che sia così. Io per esempio sono strasbica, però non è che puoi dirlo di tutte che sono strasbiche. Strasbica è una parola che ce la siamo inventati io e il mio amico Cleto una sera a Parigi. II mio amico Cleto è uno che ne sa tante, un intellettuale, però un intellettuale che si diverte e che è alla mano e che beve un sacco, anche a pranzo, però poi dopopranzo riesce pure a studiare, che io invece non ci sono mai riuscita. Lui lo vedi e pensi subito ad un risorgimentale perché c'ha i baflFetti e la barbetta e i capelli proprio come i risorgimentali, però io quando l'ho conosciuto per me era pure un angelo e quindi lo chiamo puttino. Lui invece a me mi chiama strasbica.


Strasbica ce lo siamo inventati, forse io me lo sono inventata, però poi è lui che mi ci ha chiamato sempre. Ce lo siamo inventati a quella festa anni '70 che lui faceva Renato Zero e io Alaska, con quelle camicette colorate e brutte che lui è magro e la sua gli stava bene e la mia invece sembravo proprio scema. Ce lo siamo inventati, forse l'ha inventato lui, perché io è da quando sono piccolina che ho un difetto agli occhi, che uno guarda un po' più in mezzo, e quello è lo strabismo. Allora quando lo dico a uno che mi vuole bene mi dice che è lo strabismo dì Venere, però se lo dico a uno che non gliene frega niente mi chiede se vuoi dire che c'ho gli occhi storti. Invece se lo dico a uno che non capisce quello che voglio dire allora mi metto a spiegare. È molto divertente quando lo spiego perché lo spiego senza tanti giri, direttamente con gli occhi. Perché se guardo sfocato sono dritti, ma se metto a fuoco t'occhio destro guarda più in mezzo. Quello è lo strabismo, che hai gli occhi storti insomma, e quando Io spiego lo capiscono tutti. A quella festa anni '70 io ero molto strabica perché ero stanca e quando sono stanca sono sempre più strabica del solito, che in quei momenti 11 solo uno che mi vuole bene bene bene potrebbe tirare fuori la storia di Venere. Allora Cleto, che mi vuole bene bene bene ma non è né bugiardo né ruffiano, semmai un burlone, ha iniziato a prendermi in gito. Strabica, strabica, sei strabica. A me è una cosa che proprio mi piace quando chi mi vuole bene mi prende in giro. Ma mi piace pure prendere in giro a me e allora lo chiamavo Garibaldi, poi Tiburzi gli dicevo, Tìburzi, Tiburzi, che era quel brigante maremmano. Poi, siccome Cleto oltre a essere un intellettuale e uno alla mano e un puttino è anche gay, quando ha iniziato a limonarsi un tipo, che io glielo dicevo che quella camicetta a lui che è magro gli stava bene, io l'ho preso in giro che era il mio puttino frocetto. Poi anch'io ho iniziato a baciarmi con una, che era pure carina, che quindi si vede che anche se io con quella camicetta mi sentivo Alaska scema, si vede che comunque c'avevo il mio perché. Capirai Clero quando m'ha visto, non gli è sembtato vero di potermi subito pareggiare con gli sfottò. Strasbica, me lo ricordo come fosse adesso, che mi sono sentita quella manina sulla spalla e ho tatto finta di niente, ma la manina insisteva e allora mi sono girata. Tac, Cleto lì. Io lo guardo con l'occhietto storto storto e lui geniale, sì in effetti se l'è inventato lui alla fine, che mi ha guardato furbo e non gli è sembrato vero di cominciare a dirmi che ero la sua lesbica strabica. Scrasbica, Strasbica, Strasbica. E' andato avanti così tutta la sera. Ecco, però come dicevo, non è che ce ne sono tante in giro di strasbiche. Credo. (Camilla Tomassoni)


Compito della biografìa:

scrivete una biografia.

M

io zio lo chiamavano il Conte. So che erano stati gli amici di San Rufillo che si trovavano al bar i tre scalini, a chiamarlo cosi, e il perché non ho mai avuto bisogno di chiederlo. Anche a chiedere a uno che passava di lì per caso chi secondo lui chiamavano il Conte in quel gruppo di amici lui avrebbe indicato senza dubbio mio zio. Il Conte era proprio un soprannome che gli calzava, perfetto, per quello gli è rimasto appiccicato tutta la vita. Mio zio era del trentacinque, aveva quattro anni più di mio padre e loro due erano gli unici maschi di una famiglia tutta di donne. Mio zio aveva anche un fratello gemello che però è morto di polmonite quando avevano cinque anni. Sembra che mio zio abbia sofferto molto di questo fatto e quando poi ha avuto dei figli ha avuto anche lui dei gemelli, uno l'ha chiamato Luigi come suo fratello. Quando è morto Luigi mio nonno e la sua famiglia abitavano ancora in Veneto, dopo qualche anno si sono trasferiti in campagna vicino a Bologna. Dopo degli anni è morto anche mio nonno e dal quel momento in famiglia si son trovati i due fratelli con loro mamma e quattro sorelle. Si son trasferiti in città, a San Rufillo appunto, dove hanno conosciuto i ragazzi, come li ha chiamati mio padre fino alla fine anche se ormai avevano tutti settantanni. Mio zio è andato a lavorare in una fabbrica dove facevano vernici vicino a Pianoro e lì è rimasto a lavorare tutta la vita. Di mio zio io mi ricordo soprattutto che si muoveva lentamente. Tutto quello che faceva lo faceva con dei gesti attenti e lunghi che io associavo all'eleganza. Per dire, quando arrivava a casa nostra e si doveva togliere il cappotto se lo sfilava molto lentamente, poi lo piegava a metà nel senso della lunghezza, lo appoggiava su un braccio e con l'altra mano intanto Io pettinava. Mentre faceva tutte queste operazioni che richiedevano dei minuti parlava, anche quello lentamente allungando le sillabe finali delle parole. Poi mi ricordo che quando ero piccola aveva una macchina dell'Alfa Romeo che si chiamava Giulietta e sul cruscotto di legno c'era la scritta metallica Giulietta in corsivo. Una volta che ero salita in macchina mi aveva detto che la sua macchina si chiamava come me e questo fatto mi aveva messo di buon umore. Questo è stato l'episodio in cui mi sono sentita più vicina a mio zio credo. Per il resto io mio zio lo vedevo cosi diverso da noi che non ho mai ben saputo come comportarmi. Qualche mese prima che morisse l'ho visto vicino alla piazza di un paese che sta a metà strada tra dove abito adesso e il posto dove da sempre i parenti di mio padre affittano una casa. C'era il marito di una mia zia che faceva manovra con la macchina e mio zio al bordo della strada che lo aspettava. Era elegante come sempre però così pallido e stanco che non sembrava più lui e io ho fatto finta di niente, sono andata per la mia strada senza fermarmi. Dopo a dicembre di quell'anno, cioè del duemilasette, è morto. Al funerale è successa una cosa bella, che io non ho partecipato a tanti funerali però mi sembra che succedono anche delle belle cose ai funerali, quella volta è successo


che i ragazzi di San Rufillo avevano fatto fare una corona di fiori, sopra c'era scritto ciao Conte. (Giulia Menarbin)

N

el 1909 nacque l'uomo, in un paese minuscolo vicino a Orvieto. Nel 1913 nacque la donna, in un paese minuscolo vicino a Orvieto. L'uomo di lavoro faceva il bracciante. La donna di lavoro aiutava in casa. L'uomo conobbe la donna e la donna si fece conoscere dall'uomo. Insieme, l'uomo e la donna, si sposarono e, uno alla volta, ebbero tre figli: il primo era un maschio, il secondo era un maschio ed il terzo anche lui un maschio. Ad un certo punto il Paese, con la P maiuscola, ordinò all'uomo di andare alla Guerra, con la G maiuscola, e l'uomo, non trovando scuse, dovette partire. In quello stesso momento il Paese, con la P maiuscola, tolse alla donna un marito, con la m minuscola e ai tre figli un padre, con l'iniziale anch'essa minuscola. Passati tre anni l'uomo tornò in licenza, tornò a casa e mentre camminava in campagna con il primo dei suoi figli maschi disse che se fosse stato un uomo coraggioso si sarebbe sparato su un piede. Disse questo, l'uomo, per non tornare di nuovo a combattere, ma non trovando il coraggio i suoi piedi furono salvi. La donna, alla questione dei piedi salvi, non fu presente. All'indomani l'uomo senza coraggio ripartì per la Jugoslavia, partì di nuovo, andò a combattere. La donna, che alla questione dei piedi salvi non fu presente, lo salutò fuori casa. L'uomo, ogni giorno che seguì la partenza, non fece più ritorno. Non tornò fino alla sua morte e non tornò anche dopo che fu morto. La donna, ogni giorno che seguì la partenza, uscì di casa e guardò lontano per vedere se l'uomo dai piedi salvi faceva ritorno; e così fece, senza saperlo, fino al giorno della morte dell'uomo e così fece, aspettare, aspettare, aspettare, fino al giorno della sua stessa morte. (Anna Rossi)

E

ra nata di luglio, in un giorno in cui la pioggia cadeva a catinelle e i meloni, le raccontava suo padre, ne trassero un gran giovamento. Crebbe con gambe lunghe e dritte e, proprio come aveva deciso intorno ai 12 anni, a 23 andò sposa a Giovanni. Il fidanzamento fu un'epifania, una vacanza dalla fatica della vita quotidiana, e per questo serbò per sempre in borsetta una sua foto vestita da diva del cinema, abito strizzato in vita occhiali da sole e la neve sullo sfondo. E lei sorrideva quando raccontava del freddo e dei tacchi a spillo che affondavano nella coltre. Dopo 2 anni arrivò Francesco e dopo altri 4 fu la volta di Elena la 'sempre veloce' che decise di venire al mondo in un giorno di alluvione, quella del 66. Non era ancora il suo momento e, mentre erano bloccati nella 600 col motore in panne e l'acqua che filtrava dalle portiere, la piccolina prese a dare segnali di impazienza. E lei non dimenticò mai più, tra la paura e l'incantamento di quell'acqua infinita, di come Giovanni la sollevò dal sedile dell'auto e, con le gambe che affondavano nell'acqua sino alle ginocchia, la portò in braccio al vicino bar. Dove trovò sollievo in una sedia di tavola e bevve il cappuccino più buono della sua vita, nel mentre qualcuno andava alla ricerca della levatrice. A 40 anni si sentì stanca e nervosa e metteva la cera ai pavimenti.


A 50 conobbe la morte dei suoi genitori, versò calde lacrime ma non fu vera sofferenza perché la morte è anche conclusione. Si regalò poi un bel cappotto di astrakan e persine l'intestino si rasserenò. I figli crebbero un po' ingrati e un po' no, Giovanni diventò bianco nei capelli e si inventò strani sguardi in tralice. Morì in ottobre in una cllnica di ospedale con gli occhi spalancati a cercare nel soffitto quel perfetto incrocio di linee della volta a croce di antica memoria. Una stella, che trovò alla fine nel bagliore verde di una lampada al neon. (Maria Montalbò)


Compito della sbobinatura:

sbobinate una conversazione e trascrivetela

N

iente c'è questa cosa che te la prima parte del travaglio non la fai in sala parto ma in una situazione in cui c'è di tutto, quelle che aspettano di fare il cesareo, quelli in visita a vedere i bambini appena nati e così. Io finché riuscivo provavo a camminare, in mezzo al corridoio tra la gente, avanti indietro con la mia camicia da notte. Lì ancora nella primissima fase non era un male... non so è difficile paragonarlo. Mi hanno chiesto se assomiglia al dolore delle mestruazioni, io non ho mai avuto un male così, però può essere che nella prima fase sia come un forte dolore mestruale, dopo sicuramente no. Dopo ha iniziato a diventare pesa, allora mi hanno portato su a fare la visita dopo un po' che avevo dei dolori forti, ma dei dolori che non sopportavo più. Non è un dolore continuo, cioè c'è un dolore di fondo alle ossa e poi c'è il dolore delle contrazioni. Le contrazioni arrivano a ondate e quando arriva l'ondata non sai più dove sbattere la testa. Allora mi hanno visitato e mi hanno detto che ero dilatata pochissimo, tipo un dito. E lì mi sono scoraggiata perché non sopportavo già più il dolore. Lì gliel'ho proprio detto all'ostetrica io non sono in grado, ho sopravvalutato le mie capacità di resistere al dolore, io non so come fare. Lei mi ha detto non hai prenotato l'analgesia, io ho detto di no, disperata. Dopo scendendo ho incontrato la ragazza con cui avevo cenato, lei mi ha detto che dall'aspetto non sembravo tanto addolorata. Il problema è la testa, perché lì sai che non sei neanche all'inizio. Non è neanche travaglio quello, lì sei ai prodromi, alla fase prodromica si chiama così, e vuoi dire che non hai neanche iniziato. Io che ho sempre parlato di parto naturale in quel momento, se fosse entrato qualcuno a dirmi ti facciamo un cesareo avrei detto sì vi prego. Quella ragazza mi ha detto che la prima fase non è facile per nessuno ma che poi si passa. Che è normale, anzi è una reazione positiva, che la nausea è positiva e che il dolore è positivo e che secondo lei era tutto positivo. È questa fase prodromica che è così. Insomma sono tornata in camera e lì però ero abbastanza avvilita perché le contrazioni erano molto forti e avevo un gran male però non erano frequenrissime, e poi avevo questo gran dolore alla schiena e questa gran pressione sul retto. Continuavamo così, io pensavo di essere indietro solo mi veniva questa gran voglia di spingere che non sapevo come gestire, perché se tu spingi ma non sei dilatata non serve a niente. Però facevo fatica a trattenermi, allora quando è arrivata l'ostetrica le ho detto tutto, lei ha detto va bene, andiamo a vedere. Mi hanno visitato e inaspettatamente mi hanno detto che ero dilatata di sei sette centimetri e che mi portavano in sala parto, io lì non me l'aspettavo proprio. In sala parto c'erano le due studentesse che mi hanno attaccata al monitor. Poi è arrivata l'altra ostetrica, la Dita Parma, quella che poi mi ha fatto partorire, quella che ha detto per me potresti partorire


anche attaccata a un albeto ma qui sono un po' rigidi sai se c'è il professore bisogna star sdraiati. Dopo siamo rimasti noi due con le studentesse. Luca faceva conversazione, come vi trovate a che anno siete e io continuavo a fare i miei esercizi, a far ruotare il bacino. Insomma dopo un po' di queste contrazioni qua è successo che ne ho sentita una pesissima. Veramente. Quindi poi ho proprio sentito che si apriva tutto, qualcosa di strano. L'ho proprio percepito che si dilatava un sacco, che mi si spostavano delle ossa. Sì c'è un momento in cui senti proprio il rumore delle ossa che si spostano per far passare il bambino. Le ossa si devono spostare e senti crac crac. Faceva paura però ero anche felice perché lì ho capito che era cambiato qualcosa. In quel momento lì oltre alla solita gran pressione sul sedere ho sentito anche una spinta davanti. Questo dolore il bello è che nel momento in cui ci sei dentro sei troppo impegnato a resistere e quando sei fuori dopo è passato. Quindi le ragazze hanno chiamato l'ostetrica che è arrivata e mi ha detto se intanto volevo andare a fare la pipì e io sono andata però non ci riuscivo perché si vede che la Nina era già lì davanti e bloccava la vescica, allora dopo un po' che provavo sono venuta fuori. Ho chiesto se dovevo insistere, lei mi ha detto no. Vedi tu mi ha detto, se lì seduta stai bene stai pute e io ho detto non vorrei mai fare la bambina nel water. Lei allora mi fa non credere che basti una spinta. 'Nsomma eravamo lì che discutevamo di questa cosa e mi arriva questa gran contrazione. Ho chiesto spingo e la Dila mi ha detto fai quello che ti senti. A quel punto io ho spinto ed è uscita la testa della Nina, io però non mi sono resa conto, non avevo capito perché ero in piedi, però ho sentito. Non mi ricordo cos'hanno detto però poi ho capito, anche perché la Dila si è precipitata a tenerle le testa. E dopo Luca mi ha detto che lui l'aveva vista uscire e aveva gli occhi aperti, perché lui era dietro di me, l'ha vista di faccia e aveva gli occhi aperti. Dopo ho avuto un'altra contrazione e ho spinto, è uscito il corpo e niente, è nata. (Giulia Menarbin)

C

on que' pantaloni arrocciati, un barbone! Perché le barbe son belle quelle curate, tenute bene, ma a qui modo lì, faceva, faceva proprio schifo. Io che per quarantanni so" stata accanto a un orno come Ademio, sempre premuroso, gentile, che mi portava un rispetto come fosse il primo giorno... e poi devo vedere che al mondo esiste certa gente! Almeno ittuo tu sai indol'è, ettu pigli la pensione, io icché piglio? Piglio di bischero. Vien via, Lella, un si dice... Ma come un si dice! No, queste cose un si dicono, d'altra parte no pe fa retorica ma son sempre i migliori quelli che se ne vanno. Ora, o che vo' mettere ittu marito coi mio? Un cominciamo a fa' paragoni eh, perché un va bene, i paragoni un si fanno. (Certo che Alberto è proprio un ragazzine per bene, ma icché fa? Odontoiatria? ah, sì, odontoiatria: DENTI. E gliel'ho detto, fa' alla svelta perché qui ce n'è bisogno.) (squilla il telefono) Vai, questo sarà Piero. Ah Emma, sì c'è la Franca gliela passo. Franca! L'è Lemma! 1,'Emma?! Uh madonnina arrivo... Emma! Pronto! Oggi? Oggi è l'uno, sì l'uno. I primo


di novembre, sabato primo novembre, i santi sì. Domani è i due, domenica due. Giri iffoglio dell'agenda, sì, lo giri, lo srrappi, ecco. Sì, va bene, arnvederci Emma, arrivederci. Voleva sapere che giorno è oggi, lo chiede a me perché la un vole fare brune figure con quelle donne di palazzo. Certo che tu ce l'hai tutte te Franca eh! O allora icché devo fare, ormai... d'altra parte essere cristiani vuoi dire aiutare gli altri. Tanto ora un si guarda più a queste cose. E poi ha visto, anche la tu socera quando s'è sposata era belle incìnta. No, via Lella, ora un iniziamo a fa questi discorsi. A me Ademio un m'ha mai detto nulla, io una volta ero entrata ni discorso, ma un mi disse nulla. Eppure a me me l'ha detto. Ovvia Lella, continua! Un si dice queste cose! Ora l'è morta un sta bene, l'è morta da neanche un mese. E allora? Che male c'è? Comunque ora un c'è più e io so rimasta sola, l'aveva novantsett'anni. No-van-ta-set-te. Era di ssei: Mille-novecento-sei. Che volere un vinsantino? (Elena Favilli)

12


Compito dell'elogio funebre:

scrivete un elogio funebre di una persona magari anche viva.

E

logio fùnebre di Vasco Rossi (1952-1985) Ebbene, per noi, oggi, turto l'infinito finisce qui. Oggi sappiamo che una vita spericolata come quella di Steve McQueen può anche interrompersi, a poco più di trent'anni, contro un palo della luce sulla Fondovalle Panaro, nei pressi di Ponte Samone. Ora quei tali che scrivono sul giornale stanno già ricominciando a parlare di coca, quella stessa che li aveva fatti sbavare come squali in presenza di sangue nei giorni del tuo arresto. Noi crediamo più vicine alla verità, ancorché scombiccherate, le voci di chi giura di averti visto, poco prima di metterti alla guida, ingurgitare per scommessa trenta borlenghi aiutandoti con due fiaschi di lambrusco. Lungi dall'essere una consolazione, reintegrerebbero però il tuo ruolo di scopritore del passaggio segreto tra via Emilia e Far West, tra filuzzi e rock'n'roll, ferma restando la consapevolezza che comunque noi non siamo mica gli americani. Senza voler dimenticare quello di probabile ultimo baluardo dell'ironia nella canzone d'autore italiana, ruolo che evidentemente porta sfortuna, considerando che l'avevi rilevato da Rino Gaetano. Certo: in molti dicevano che il carcere ti aveva cambiato. E il nuovo disco lo testimoniava: la voce rotta di "Una nuova canzone per lei" non è certo la stessa che cantava "Voglio andare al mare" o "Colpa d'Alfredo". Ma la maturazione è nelle cose: uno non può barcollare sul palco all'infinito, come nella memorabile serata di Sanremo, senza diventare la caricatura di se stesso. Ma ora? Ora rimarremo in balia delle lagnanze senili dei Dalla De Gregori Guccini Vecchioni, dello sdolcinato Venditti e dell'amaro Ramazzotti. Certo, non è a te che possiamo farne una colpa. A te dovremo dire grazie, invece, se qualcuno troverà il coraggio di intrufolarsi in quel passaggio segreto uscendone con nuove canzoni che sprigionino anche solo un decimo di quella desolata rabbia e quella beffarda allegria che ci hanno fatto amare le tue. Addio, Vasco. Non diventerai uno dei nostri santi od eroi, perché sei il primo a sapere che non ne abbiamo. Ma oggi ci sentiamo, se non il cuore spezzato, perlomeno il fegaro fegato fegato fegato fegato spappolato. (Stefano Pederzini) lì


A

dirla proprio tutta, di Wolmer Coloretti non gliene fregava poi niente a nessuno. (Francesco Niccolai)

E

così siamo qui riuniti. Io voi e... tu. Tu ch'eri così innamorato della vita. Devo ammettere che quando ho accettato questo compito per me molto oneroso — per il dolore che mi porta, voglio dire -, insomma quando ho accettato, ero in uno stato d'animo diverso... Non ero in un cimitero tanto per cominciare, ma al mare, con la cara Linda. Monsignore qui m'ha chiamato domenica mattina sul presto, m'ha dato il triste nunzio e m'ha chiesto di dire qualche parole in ricordo. Perché lui avrebbe voluto così, m'ha detto, Monsignore. E va bene: eccomi qui. Parole da dire ora, non è facile. Però. Che bella persona! Vero amici? Egli era un grand'uomo, sì. O almeno, io personalmente, lo colloco tra i grand'uomini di questa nostra città, che adesso sfortunata l'ha perduto. Ma sapete, e lei Monsignore, io non lo conoscevo poi molto più di voi. Sapevo di lui quel che sapete voi. Un'esistenza semplice, un quieto vivere di persona tranquilla, con la sua mamma, anche lei anima buona che ci lasciò. Ma sì, tutti noi amavamo quest'uomo buono e taciturno. Non parlava tanto, è vero, ma questa qui è o non è una gran virtù? E ora certo tacerà per sempre. E ora certo non potrà dirci perché, perché... Perché? Perché ci hai lasciato, così? Credetemi amici io ne so quanto voi. Ma il Signore certo sa, nell'alto del ciclo, là dove non giunge la nostra vista, e nella sua immensa misericordia certo perdonerà, un atto scellerato, anche s'è peccato. I colleghi dell'ufficio qui lo ricordano tutti con affetto, mai una protesta, solo lavoro. Che doti! Permettetemi di dire che ancor più che l'angoscia oggi è nei nostri cuori la speranza che ci dona l'esser qui a ricordare un uomo tanto buono... Credetemi, io ne so quanto voi. E ora Monsignore pregherà per lui. Nei secoli dei secoli, amen. (Mario Vetrone)

G

entile amico, anche Lei, come tutti, ha già provato il triste momento del lutto nella sua vita. Che dolore, che nodo alla gola... e che imbarazzo non trovare le parole per esprimere il proprio cordoglio e i propri sentimenti. Da oggi, con la nostra pubblicazione, potrà risolvere brillantemente questo problema In sole 50 pagine troverà consigli utili, espressioni e frasi per poter sostenere elegie e discorsi in qualsiasi occasione luttuosa. Dai parenti più stretti ai colleghi meno noti, tutti potranno trovare conforto nelle sue parole. Ecco qualche breve esempio, declinato su diverse situazioni - GENERICO (per ogni occasione) "Se siamo qui oggi è per rendere omaggio ad una persona che ha lasciato un segno nelle vite di tutti noi" "Siamo stati fortunati ad averlo conosciuto" "Avrebbe voluto vederci sorridere e non piangere!"


"Abbiamo perso un grande uomo, un persona pulirà" "Ci sra guardando da lassù'" - LEGAMI DI PARENTELA "Ha lasciato un vuoto incolmabile, che solo una famiglia unita può affrontare e superare. Come lui/lei stesso/a avrebbe voluto" - LEGAMI DI LAVORO - colleghi "noi colleghi non potremo mai dimenticarlo. Era uno di noi, era davvero parte integrante del gruppo. Sempre pronto a dare una mano a chi ne avesse bisogno. La sua esperienza sul lavoro era un faro per tutti" - LEGAMI DI LAVORO - superiori " Non era solo un "capo"... era un amico, un padre. Sempre pronto a dare il consiglio giusto. Non faceva mai pesare il suo ruolo" • - POLITICI - CARICHE AMMINISTRATIVE - PUBBLICHE "II suo lavoro non finiva nelle aule preposte. Faceva sempre politica, nel senso più alto del termine. Ma la prima cosa per lui era la famiglia, la difesa dei valori e dell'etica. L'Italia—la comunità—la città era la sua famiglia." — Centrodestra Introdurre frasi e parole quali - "anticomunismo" "sinistra" "destra" "gogna pubblica" "giustizialismo" "toghe rosse" "famiglia" "brandire come una clava" "popolo delle partite Iva" - Centrosinistra — Introdurre frasi e parole quali - "antifascismo" "sinistra" "destra" "giustizia" "progetto" "lavoratori" "famiglia" "indifesi" "ad personam" "mobilitazione" - MUSICISTI - ARTISTI - SCRITTORI "Siamo nati e cresciuti con le sue canzoni-film-libri" "Le sue non erano semplici canzoni—film—libri, era poesia. La cultura gli deve molto." Cogli al volo l'occasione, acquista il nostro libro! Affronta le prove della vita con una preparazione adeguata, non farti cogliere alla sprovvista!. (Enrico Bergamini)

O

gni persona che muore, o diventa buona, o diventa importanre, lo sappiamo tutti. Anche quando è morto Vincenzoni, il vicino scorbutico del terzo piano, che si è sempre fatto i fatti suoi e non si vedeva mai se non per rompere i coglioni perché c'è la porta che sbatte, disturba e da fastidio, quando è morto, ed è arrivato il TG, "c'è il quartiere che si stringe attorno a Vincenzoni". Che invece non ha mai contato niente, e si vede anche dalla foto in TV che quella lì è proprio la faccia di uno che parla solo per dire che c'è la porta che sbatte. Ma adesso diventa importante, e c'è "il quartiere che si stringe": infatti son tutti per strada, e a veder dalle telecamere era uno necessario, perché c'è pieno di gente nel quartiere. Invece, siam tutti in giro solo perché adesso, ognuno trova una scusa per uscire, una qualunque, solo per arrivare al piano terra, afferrare la maniglia del portone, e con tutta la forza che ha in corpo sbattere una portata che riempie di gioia tutto il condominio. Altro che "sconvolti e stretti nel lurro": nella maniglia! Senti che botti! /5


Oppure, se muore uno che era già buono, e pure importante, c'è un gran mucchio di viscidi che arrivano a ricordare i momenti passati con lui. E più ricordano di lui, e più stan parlando di loro: "io l'ho tirato su dalla strada, poi io..., io..., io..." oppure "lui m'ha tirato su dalla strada, poi io..., io..., io...". Però stavolta è morto uno, che su sta cosa del buono e importante, c'ha giocato un po' troppo. Buono, perché ha sempre avuto una parola buona per tutti, ma tutti, anche quelli che a cercarla e cercarla bisognava per forza inventarla e lui lo faceva. E importante, perché ad essere sempre così bonariamente viscidi, non siam mica buoni tutti; allora lui, che era buono, se lo tenevan ben stretto, ed è diventato importante. Troppo, perché son troppi anni che mi rovina tutti i sabati pomeriggio, con quei tre idioti che cantano "goodbye my darling goodbye my love" e si vede subito anche per loro che son tre di quelli da porta che sbatte. Beh, come piaceva fare a lui, voglio chiudere il ricordo citando un grande autore contemporaneo, e dire quindi che Vincenzo Mollica, quando è seduto di fianco ad Elton John, di fianco al piano, che sembran due sacchi di merda, ecco lui è quello più grosso. (Alessio Berrè)

G

irolamo ci ha lasciati. Inaspettatamente e facendo eclat, non nel suo stile. Avremmo immaginato un abbandono in sordina, un lasciar perder le tracce e invece è stato l'abbaiare furioso di Pascal a dar notizia di lui, riverso sul selciato del cortile della sua casa di ringhiera a Milano. Lui sempre misurato e regular quella sera aveva riso e bevuto un po'troppo. Se ne era andato banalmente con un inciampo in un vaso di fiori, aveva perso l'equilibrio e la ringhiera non lo aveva tenuto. Ed era volato giù, lui così leggero non era riuscito a volar via. Ci viene in mente la sua spocchia, la sua distanza spesso sconsiderata, le sue belle frasi puntute e qualche volta svagate perché per la scrittura lui aveva un dono, quelle frasi che lui chiamava 'i miei ghirigori sul nulla' che gli stavano a pennello perché lui era un po' così 'una sfoglia di uomo con dietro il nulla', lungo e sottile 'l'uomo che pattinava leggero sull'acqua'. Lui il signore dell'acqua, sì signore dell'acqua, perché si occupava di tariffe dell'acqua e se ne occupava con grande compenetrazione, e ne scriveva anche ed era diventato una piccola autorità. Anche se non amava il mare perché si annoiava e diceva che aveva la pelle bianca e il sole gliela bruciava. Noi lo sappiamo che qualche volta c'era e qualche altra non c'era, si negava al telefono o alzava di un tono la voce. Andava per schemi e sottrazioni e mi aveva lasciata con un palmo di naso quella volta che aveva deciso di salutare il nuovo anno liberandosi della metà dei libri che possedeva. E li aveva abbandonati in lunghe colonne su una panchina nel suo quartiere, e aveva buttato via Ungaretti e aveva lasciato in attesa nel girone del purgatorio la biografia di Platinette. Ma lo amavamo ugualmente inspiegabilmente, noi donne persino irretite, e lo ascoltavamo con stupito interesse anche quando ci raccontava del libro sulla storia degli acquedotti in Italia. E beveva solo acqua Sangemini perché quel leggero frizzare lo riportava all'infanzia ed era già una promessa di star bene. Ci pareva non empatico, non sentimentale, antipatico. Ma poi in qualche slot della sua vita era gentile e ci dava quello che non ci 16


saremmo aspettati e ci faceva felici e allora ci si stabiliva in mente. Adesso ci manca. A qualcuno mancheranno le sue tariffe e quegli studi su monopoli e mancate concorrenze. A me mancherà la sua sgradevolezza, quelle smorfie isteriche su parlare concitato e i baffi dell'ultimo anno che lui vanitoso diceva essere la cosa che più lo caratterizzava. I baffi che gli davano un'aria sgualcita anni 70 e che si sollevavano buffamente quando lui rideva a crepapelle. Non doveva lasciarci ed colpa sua se se ne è andato. Odiava Chagall con virulenza, 'il pittore naif delle cose sciocche" diceva, e deve esser per questo che è andato giù. Lui pattinava non volava. (Maria Montalbò)

I

eri notte nel suo appartamento milanese è stato ritrovato il corpo senza vita del fotografo Fabrizio Corona. Si crede che si sia trattato di omicidio. Già dalle prime ore del mattino alcune ragazzine hanno formato una coda davanti alla porta del suo appartamento. Alle spiegazioni dei carabinieri sul fatto che l'appartamento fosse sotto sequestro perché si sospettava un omicidio le ragazze hanno chiesto se poi dopo Corona poteva far loro una foto per un provino. Del resto come ammettere a se sressi la scomparsa di un simbolo controverso ma incapace di lasciare indifferenti come la personalità del noto fotografo milanese. Come rimanere indifferenti innanzi all'odissea di vallettopoli, affrontata con coraggio ed umiltà, al periodo di 77 giorni in prigione che ispirò al fotografo la scrittura del libro La mia prigione, testo già ritenuto fondamentale e già adottato da alcuni licei classici dell'hinterland milanese, paragonato da alcuni per sincerità di linguaggio a Le mie prigioni di Silvio Pellico? Perché condannare un essere umano solo perché accusato per estorsioni ai danni di diversi personaggi del mondo dello spettacolo e dello sport, assieme a Lele Mora. Perché giudicare chi è stato fermato da una pattuglia dei carabinieri e da un vigile mentre percorreva contromano la corsia preferenziale di via De Amicis a Milano a bordo della sua Bentley? Perché pensare male di un padre di famiglia che è stato fermato dalla polizia cantonale del Canton Ticino mentre sfrecciava a circa 220 chilometri orari alla guida della sua Lamborghini poi sequestrata perché risultato sprovvisto di patente? Che colpa ha un uomo contro cui è stata organizzata una congiura che ha rovinato il suo matrimonio idiliaco con Nina Morie, accusa che ha rivolto spesso ai magistrati inquirenti? Di tutto questo rimane una persona che ha sempre saputo reagire, ricordiamo la canzone già inno di una generazione — Corona non perdona, composro con il rapper Kalief — uno che credeva nell'amore libero oltre le barriere tanto da farsi fotografare nudo dopo aver consumato un rapporto sessuale con Belen Rodriguez in pubblico alle Maldive dove vige la legge islamica; una persona che scherzava con gli amici di sempre come quando collezionò multe per oltre 6.000 euro alla guida di una Mini Cooper inrestata al calciatore Marco Borriello. Fabrizio Corona fu sfortunato nelle circostanze come quando pagò il panino all'autogrill con banconote false, ma lui, come disse, era all'oscuro di tutto, e anche quando rinvennero nella sua casa milanese altre banconote false e una pistola lui era all'oscuro di tutto, una perenne vittima delle macchinazioni orchestrate contro di lui da persone che lo volevano rovinare. Un carattere forte che lottava e che incassava senza lamentarsi, come non ricordare quando, durante il memorabile facebook party a Marina di Gioiosa Jonica dopo che il pubbli17


co iniziò a fischiarlo e a gridargli frasi di scherno, pensò bene di rivolgersi direttamente a uno di loro dicendo «Aspetta che finisco lo spettacolo, poi ti vengo a prendere e ti riempio di cazzotti». La frase scatenò l'ira della folla. Il pubblico, inferocito, lo attese nella piazza e gli si scagliò contro, colpendolo con schiaffi e calci, e lui lì, a incassare, umile. Ma vogliamo ricordarlo come una persona allegra, che faceva scherzi ma che stava anche agli scherzi come quando al programma Le Iene fu mandato in onda un servizio dove la iena Paolo Calabresi fingeva di essere un importante regista americano che aveva proposto a Corona il ruolo di nemico di James Bond nel nuovo inesistente film 007, che sarebbe uscito nel 2010; in una scena del servizio Corona era legato ad una sedia e uno 11 vicino lo colpiva con schiaffi e Corona diceva: Dai, non mi fai male, più forte non mi fai male, dai, dai! Si accorse del finto provino solo alla fine. E tutte le famiglie a casa a ridere insieme. (Andrea Bergonzini)

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Compito del riassunto:

scrivete un riassunto

U

na potentissima divinità crea l'universo e assiste alle alterne vicende delle creature che abitano un pianeta attorno a cui ruotano un sole e altri pianeti, e tutto il resto dell'universo. Inondazioni, tradimenti, incesti, vendette, fornicazioni, uccisioni e disastri ecologici si susseguono sullo sfondo di un medioriente distorto e allucinato. Titanico melodramma di formazione scritto a più mani e diviso in due parti narrate in successione cronologica; non manca di momenti memorabili, idee potenti e trovate efficaci, anche se il ritmo non sempre è mantenuto e alcuni passaggi sono risolti in modo ambiguo. Nella seconda parte la nascita e la morte di un proletario dotato di poteri paranormali porta scompiglio nella vita sociale e politica palestinese. Prolisso, talvolta criptico, ma non privo di punti di forza; mantiene una buona tensione fino all'epilogo, molto suggestivo, anche se non è la fine del mondo. Ottimo successo di pubblico e critica. (Francesco Niccoiai) RIASSUNTI DI LIBRI CHE HO LETTO DA BAMBINO II piccolo principe di Antoine De Saint-Exupéry: c'è un bambino spacaballe, poi muore. Incompreso di Florence Montgomery: c'è un bambino ricco poi muore. I ragazzi della via Pài di Ferenc Molnàr: ci sono dei ragazzi che giocano, poi uno muore. II barone rampante di Italo Calvino: c'è uno che passa la vita sugli alberi, poi muore. RIASSUNTI DI LIBRI CHE HO LETTO DA ADOLESCENTE Ultime lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo: c'è uno che si innamora e poi muore. La metamorfosi di Franz Kafka: c'è uno che diventa uno scarafaggio, poi muore. Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde: c'è uno molto bello, poi muore. Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello: c'è uno che muore. No invece non è morto. 19


Amieto di William Shakespeare: c'è uno che ha dei dubbi se morire o no, poi muore. Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters: C'è una collina, son tutti morti. e via cosi (Matteo Martignoni)

C

'è questa serie di cartoni animati giapponese, a cui sono molto legato. E' una serie lunghissima, priva di ironia e piena di lacrime che si intitola Tommy la Stella dei Giants. I Giants sono una squadra di Baseball e Tommy vuole diventarne la stella facendo il lanciatore. La storia inizia con Tommy bambino, nel Giappone del dopoguerra, che viene allenato dal padre per diventare un giocatore fortissimo. A suo tempo il padre era una lanciatore fortissimo, ma in guerra rimane ferito a una spalla e la carriera finisce. Visto che poi è rimasto vedovo, ha due figli da sfamare e tutti i sogni infranti, finisce a fare il muratore alcolizzato. Appena snasa che il figlio potrebbe avere un qualche talento per il baseball lo convince ad allenarsi con lui. Tommy si fa convincere un po' perché il baseball gli piace, un po' perché c'è la voglia di riscatto, un po' perché al padre, nel Giappone del dopoguerra, non si poteva dire di no. Ma poi a un certo punto gli dice di no, perché il padre, come allenamento, gli infligge le peggio torture: gli tira palle in faccia, gli fa lanciare tizzoni ardenti ma soprattutto gli costruisce una imbracatura di molle che deve sempre portare. L'imbracatura a molle è come una tuta fatta di estensori a molle, che gli rendono faticosissimo ogni movimento, anche solo bere un bicchiere d'acqua, ma che cosi lo allenano sempre e comunque anche quando va a scuola o dorme. A quel punto Tommy dice no, smetto, e il padre gli urla, tu continui perché lo faccio solo per renderti un lanciatore fortissimo; sì ma che vita di merda dice Tommy, e il padre gli dice, la vita è una merda comunque, guarda me che sono vedovo, con due figli da sfamare e i sogni infranti e faccio il muratore alcolizzato. E intanto la sorella di Tommy guarda affacciata alla porta e piange e quando Tommy la vede guardare affacciata alla porta e piangere capisce che il padre ha fatto tanti sacrifici per loro, che gli infligge le peggio torture per il suo bene, che è suo padre e non può dirgli di no e che poi, dopotutto, il baseball gli piace davvero. Questa cosa succede di nuovo, quasi uguale, con Tommy al liceo, che entra nella squadra del liceo, e il padre pensa bene di farsi assumere per allenare la squadra del liceo e infliggergli lì le peggio torture, tipo farlo lanciare sotto la neve, farlo correre con i copertoni legati dietro la schiena, deriderlo pubblicamente. Tommy allora dice no, checcazzo, mi rendi la vita una merda pure qua al liceo; figlio ingrato, gli urla il padre, pensa a quanti sacrifici ho fatto per non farti fare il muratore alcolizzato ma farti diventare un lanciatore fortissimo; e allora la sorella guarda affacciata alla porta e piange e Tommy capisce che suo padre gli infligge le peggio torture per il suo bene e se non era suo padre non vinceva il campionato dei licei. Questa cosa succede di nuovo, quasi, uguale, con Tommy che lascia il liceo e entra nei Giants e il padre pensa bene di diventare l'allenatore di una squadra avversaria, nella spe20


ranza di infliggergli le peggio sconfitte. Tommy dimostra di essere un lanciatore fortissimo perché si inventa un lancio speciale, un super lancio, speciale e super perché la palla, a metà tragitto, sparisce. li padre fa di tutto per allenare i suoi battitori in modo che ribattano il super-lancio, perché non è bene che Tommy si sieda sugli allori, che anche se lancia una palla che sparisce non è ancora un lanciatore fortissimo. Alla fine il padre capisce il segreto del lancio e lo fa ribattere, Tommy maledice il padre e vuole lasciare il baseball e la sorella si affaccia alla porta e piange. Tommy allora capisce che non si deve disperare, che si deve inventare un altro superlancio, e che, alla fine, il padre l'ha sconfitto per il suo bene perché se no si sedeva sugli allori. Questa cosa succede di nuovo, un po' diversa, con Tommy che si inventa il secondo superlancio e il padre pensa bene di arruolare nella sua squadra il migliore amico di Tommy, per infliggere a suo figlio le peggiori umiliazioni e non farlo sedere sugli allori. Il superlancio stavolta è un lancio cosi lento che il solo girare della mazza fa spostare la pallina e la rende imprendibile. Per farlo Tommy deve torcere i tendini in modo così terribile che se continua a superlanciare si spezzeranno. Ma lui se ne frega, subisce questa peggio tortura e arriva alla finale del campionato imbattuto ma coi tendini che si potrebbero spezzare da un momento all'altro. Ultima partirà: contro la squadra del padre, ultimo lancio: contro il suo migliore amico. Il padre ha fatto sfiancare il migliore amico di Tommy così farà una battuta lentissima per prendere la palla lentissima. Tommy lancia, il tendine si spezza, il migliore amico colpisce la palla. Ma è un lancio così fiacco che i compagni di squadra eliminano il battitore. Tommy ha fatto vincere il campionato alla sua squadra. La sorella guarda affacciata e piange, il padre guarda e piange, Tommy piange: ora che è la stella dei Giants non potrà più giocare. (Luca Vanzella)

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Compito della sostituzione:

scegliete un breve testo e sostituite, all'interno di quel testo, una o più parole con parole che non hanno

niente a che fare con quel testo

I

I vecchio Dudley si rannicchiò nella poltrona, che stava a poco a poco prendendo la sua forma, e guardò dalla finestra verso un'altra finestra incorniciata di mattoni rossi anneriti, a cinque metri di distanza. Aspettava il geranio. Lo mettevano fuori tutte le mattine verso le dieci e lo ritiravano verso le cinque e mezzo. Giù a casa, la signora Carson e aveva un geranio alla finestra. C'erano un sacco di gerani giù a casa, gerani più belli di quello. I nostri, sì che sono gerani, pensò il vecchio Dudley, non questi aggeggi rosa con i fiocchi di carta verde. Il geranio che avrebbero messo alla finestra di lì a poco gli ricordava il piccolo Grisby giù a casa, che aveva avuto la polio e doveva esser messo fuori tutte le mattine sulla sedia a rotelle e lasciato lì a sbattere le palpebre al sole. Lutisha avrebbe preso quel geranio, l'avrebbe piantato nel terreno e, nel giro di poche settimane, avrebbe avuto un fiore degno di essere guardato. Quella gente lì di fronte non sapeva nemmeno cosa fosse un geranio. Lo mettevano a cuocere al sole tutto il giorno e lo appoggiavano proprio sull'orlo del davanzale dove il vento poteva rovesciarlo e farlo volar giù. Non sapevano nemmeno cosa fosse un geranio, nossignore. Non avrebbero dovuto averlo. Il vecchio Dudley sentì un nodo stringergli la gola. Lutisha sapeva far crescere qualunque cosa. E Rabie anche. Ora aveva la gola davvero serrata. Appoggiò la testa all'indietro e cercò di schiarirsi la mente. Non c'erano molte cose a cui poteva pensare senza sentire quel nodo stringergli la gola. [Flannery O'Connor — Tutti i racconti] II vecchio Dudley si rannicchiò nella poltrona, che stava a poco a poco prendendo la sua forma, e guardò dalla finestra verso un'altra finestra incorniciata di mattoni rossi anneriti, a cinque metri di distanza. Aspettava il morto. Lo mettevano fuori tutte le mattine verso le dieci e lo ritiravano verso le cinque e mezzo. Giù a casa, la signora Carson e aveva un morto alla finestra. C'erano un sacco di morti giù a casa, morti più belli di quello. I nostri, sì che sono morti, pensò i! vecchio Dudley, non questi aggeggi rosa con i fiocchi di carta vetde. Il morto che avrebbero messo alla finestra di lì a poco gli ricordava il piccolo


Grisby giù a casa, che aveva avuto la pollo e doveva esser messo fuori tutte le mattine sulla sedia a rotelle e lasciato lì a sbattere le palpebre al sole. Lutisha avrebbe preso quel morto, l'avrebbe piantato ne! terreno e, nel giro di poche settimane, avrebbe avuto un fiore degno di essere guardato. Quella gente lì di fronte non sapeva nemmeno cosa fosse un morto. Lo mettevano a cuocere al sole tutto il giorno e lo appoggiavano proprio sull'orlo del davanzale dove il vento poteva rovesciarlo e farlo volar giù. Non sapevano nemmeno cosa fosse un morto, nossignore. Non avrebbero dovuto averlo. Il vecchio Dudley sentì un nodo stringergli la gola. Lutisha sapeva far crescere qualunque cosa. E Rabie anche. Ora aveva la gola davvero serrata. Appoggiò la testa all'indietro e cercò di schiarirsi la mente. Non c'erano molte cose a cui poteva pensare senza sentire quel nodo stringergli la gola. (Isabella Pedrazzi)


Compito dell'inizio del romanzo:

scrivete l'inizio di un romanzo

A

me non me ne frega un cazzo. Di niente e di nessuno. Non è che sono cattivo, o che voglio fare il nichilista o l'alternativo ad ogni costo. Ma per fare il mio lavoro non si possono avere scrupoli. Il mondo delle ferramenta è un infetno. Sai quanti sono quelli che vanno in giro per negozi a svendere viti e rondelle di merda fatte in Cina? Beh io sono un agente di commercio coi controcazzi, e non mi faccio intimorire. Io arrivo, entro nel negozio, apro la valigetta, esco e ho l'ordine in tasca. Perché io ti vendo la roba migliore al prezzo migliore. I clienti abituali, quando mi vedono alla porta sanno già che stanno per fare l'affare della loro vita. Mi vien da ridete quando penso a quanti sono quelli che credono che io sia un esaltato. Parliamo di viti e chiodini come se fossero la cosa più importante del mondo mi dicono. Ecco bravo. Guardati intorno... le mensole di casa tua, i quadri di quei quattro artisti merdosi che hai sui muri, il lavandino della tua cucina di marca, tutta quella roba li, tutta quella roba che dipende da chiodi, dadi, bulloni e viti, spero che ti crolli in testa una di queste volte. Poi ti voglio vedere andare in ferramenta, e quel giorno lì spero di essere presente, quando ricomprerai tutto il necessario per rimettere in ordine la tua vita e ti lamenterai piagnucolando che, sa, la volta scorsa ho comprato della roba un pò scadente petché pensavo che un chiodo di un tipo o di un altro non facesse una gran differenza. E l'attenzione ai particolari che manca oggi. Specialmente i particolari più nascosti, quelli che tutti danno per scontati. Io invece lo so. Son le piccole, piccolissime cose, che fanno la differenza. Quando durante le mie visite passo da un cliente nuovo capisco subito se mi trovo di fronte ad una persona superficiale. Non sto certo parlando di cose tipo sentimenti, sensibilità, attenzione al prossimo. Stronzate. Puoi anche lottare contro la povertà o la fame nel mondo, ma se non capisci che in casa ci deve sempre essere un martello ed un buon cacciavite, allora è meglio che lasci stare perché io il inondo in mano tua non ce lo lascio. Se non capisci che le brugole che ti fornisco io ti dureranno per sempre ma preferisci roba più economica perché tanto una brugola è una brugola, allora siamo già a posto. Quando poi penso che i politici che ci governano o i direttori delle banche che ci tengono per le palle non sanno neanche come si monta uno scaffale da cantina, quando ci penso mi vien da piangere. Come puoi pretendere di guidare una nazione se non hai le basi per dare solidità al mobile che dovrebbe garantire il buon mantenimento delle conserve e del vino di casa tua!! Poi il mio impegno in politica finisce qui... fate quello che vi pare. Io non ho tempo da perdere in cose astratte. Io devo rendere solide le vite di tutti, con piccoli aiuti quotidiani e concreti. Io son quello che tiene in piedi lo sfondo, (a scenografia, il panorama in cui tu vivi la tua miseria quotidiana. Ma qualcuno quello sfondo lo dovrà pur mantenere stabile, o no? Ti sposi in chiesa? Chiediti chi ha venduto i chiodi che tengono su le lapidi della via 24


Crucis sulle pareti. Tu ti sei preoccupato dei fiori e degli invitati... ma io son quello che, più o meno direttamente, ha fatto sì che i culi flaccidi dei tuoi parenti stiano ben piazzati sulle panche di fronte al prete. (Entico Betgamini)

C

i vive un serpente a sonagli, nel mio garage. Se non l'ho mai visto, è perché quando vado a prendere la moto si nasconde dentro una pila di vecchi copertoni ed esce solo quando io sono già lontano con le orecchie occupate dal rumore del monocilindrico e non posso più sentir risuonare gli anelli della sua coda. Per ora non me ne preoccupo. Al momento giusto ci incontreremo. La mia moto è una Ducati Scrambler 450 e ha il serbatoio giallo. Dal libretto di circolazione risulta che il primo proprietario si chiamava Ramponi Gilberto, nato a Castello di Serravalle (BO) il 31 luglio 1948, e la data di immatricolazione è il 17 giugno 1970. Ho voluto cercare su Internet che altro è successo il 17 giugno 1970. Nulla di speciale: hanno giocato quella partita famosa, Italia-Germania 4 a 3. Io odio il calcio. Però tutti parlano sempre di quella partita. Anche mio padre ne parlava sempre. Anche dei mondiali di Spagna, dei gol di Paolo Rossi. Anche quest'anno l'Italia ha vinto i mondiali. Io non li ho seguiti, odio il calcio. Ma ho sentito che parlavano tutti di uno che ha dato una testata a un altro. Mio padre si chiamava Ermes. Era nato a Poggio Renatico, in provincia di Ferrara. In provincia di Ferrara un tempo era usanza battezzare le persone con nomi curiosi. Usava ancora il 12 febbraio 1950, quando nacque mio padre. I suoi genitori erano mezzadri. Il 4 gennaio 1951 ci fu l'alluvione del Reno e la loro casa venne sommersa. Persero quasi tutto ciò che avevano, che poi erano poche cose dal momento che tutto i! resto l'avevano perso durante la guerra. Si salvarono alcuni vestiti, qualche pentola e la pipa di mio nonno. La mia moto è una Ducati Scrambler 450. "Scrambler" è una parola inglese che si usava una volta per indicare le moto che andavano bene sia per strada che fuori strada. Adesso si usa il termine "enduro". Io fuori strada la uso ben poco. A volte faccio lo sterrato di Rasiglio, vado sotto la Via Crucis, tiro fuori la pipa di mio nonno e filmo. Un po'. Finché non mi viene da vomitare. La prima volta che ho fumato una sigaretta avevo 13 anni. Ho vomitato. Intorno avevo Matteo Foschi e Ivan Stanghellini, che fumavano, ridevano e mi prendevano in giro. La seconda volta non c'è mai stata. La prima volta che ho fumato la pipa di mio nonno avevo 25 anni. Ho vomitato. Ero solo, nessuno ha visto e nessuno ha riso. Ho vomitato anche la seconda volta, e la terza e la quarta. Vomito sempre quando fumo. La Via Crucis si chiama Via Crucis perché è una Via Crucis, con tutte le sue stazioni. Ma le processioni non ce le fanno più da anni e anni. E' una mulattiera ripidissima che sale fino in cima a una collina, e dal terreno affiorano rocce bianche e appuntite. Ora l'hanno sbarrata all'imbocco, ma per tanti anni ci sono passate le gare di regolarità. Solo i migliori arrivavano in cima senza scendere a spingere. Mio nonno si chiamava Rubens ed era del 1921. A vent'anni era in Albania. La pipa la comprò là. Era il suo portafortuna, diceva. Solo questo so dell'Albania. Non ha mai raccontato altro... 25


All'inizio mio padre non c'era. In casa c'era la mamma, c'era il nonno e c'era la nonna. Il babbo è via a lavorare, dicevano. E' arrivato che avevo cinque anni, più o meno. Aveva un bel sorriso, si è chinato e mi ha accarezzato su una guancia. Gli ho detto: Sai che so andare in bicicletta? E lui: Bravo, quando sei un po' più grande ti insegno anche a guidare il motorino. (Stefano Pederzini)

U

n sole bello grosso. Chiaro e tondo, e coi raggi saggi. Fatte tutte le sue cose, prese a modo le sue decisioni, se ne sta lì educato in mezzo al cielo da un po' di ore. Giornata insolita: cioè fredda, sì, - e sembra ancora più fredda perché son le prime — ma in effetti limpidissima — e sembra ancora più limpida perché siamo in Emilia. Forse per questo Gianni sta girando in vespa. Eccolo lì che va: capelli al vento, lunghi, gomiti in fuori, e schiena deliberatamente incurvata. Mette la quarta, ci apre a manetta, si volta verso il lettore ed esplode. Esplode un sorriso enormemente idiota che gli storpia la faccia già di suo fin troppo espressiva: "Stricca" - che così lo chiamavano alle medie - c'ha sempre avuto la faccia di uno che caga, però sulla turca, quando ti fan male anche i quadricipiti, Stricca caccia un peto, poi un altro, si tira una sberla e torna a guardar dritto sulla strada, mostrando il profilo. Ha inserita la quarta e non sta più nella pelle: si agita tutto scomposto, nemmeno a tempo con la musica che sta sbraitando mentre è lì che va, — si tratta di Pugni chiusi de "I ribelli" - va giù da Sabbione, verso le Due Maestà, - "puugniii chiiusi" e agita al cielo il sinistro - prende lo stradone nuovo - "non hooo più speraanzee" si batte il cuore — arriva al ponte sul Crostolo - "in meee c'è la nnotte" comincia a tirar calci di lato - ma la sta sentendo così tanto - "più neera" ha già cominciato a saltare sulla sella dando delle gran culate — che ignora il cartello "Casa Tua" e, lanciato come un Bresci, si butta in piega a destra verso Viale Umberto I. Le piante son spoglie, ma con quella brillante dignità che i raggi saggi distribuiscono equamente in queste giornate. Gianni Stricca si infila al volo nella ciclabile e fa lo slalom tra le querce. Non è un bravo guidatore, infatti accoppa un bimbo un banchiere e una vecchia. L'anziana signora ne risulta tagliata in due per il lungo. La metà cartiva si alza e lo manda istantaneamente affanculo, mentre quella buona si raccomanda di cuore "nani mo mettiti il casco che se vai in terra ti fai male! E va pian, che con gli squilibrati che van per strada oggi giorno...". Il bimbo invece, come si vede tutto bello spappolato, inizia a sbattere piedi e mani in quella pappetta di sé, e si schizza tutto attorno come ogni bambino non può trattenersi dal fare di fronte a una pozzanghera o un bel piattone di minestra, meglio se densa. Sarà infatti per lui una giornata divertentissima. Il banchiere, inizialmente piuttosto indispettito, alla luce dell'amichevole constatazione che la cosa non può che fruttar soldi, saluta con ritrovato sorriso il doloso centauro, dall'alto dell'albero in cui è stato spedito dall'uno. Stricca c'è, è in carena e va veloce. Merda se viaggia. Arriva in centro e in piazza del duomo ci sono: un cane che scappa e uno che lo insegue ma è chiaro che a breve ci da a mucchio, un cassonetto del rusco, una scolaresca che ha appena perso la maestra e non sembra dolersene, una lattina di coca, una bicicletta appoggiata d'avanti alla farmacia, un carabiniere di quartiere e il suo compare con la scarpa slacciata, la linguetta della lattina 26


di coca, il duomo, ovviamente, un vecchietto senza i denti davanti che suona l'organetto, una finestra rotta, un bel po' di palazzi tra cui il municipio, la distesa del caffè Europa e un tipo che sta togliendo la sedia a un altro che sta per sedersi, un edicola e un edicolante sulla dentatura del quale non ci sono elementi, una mamma e un bambino, una fontana e i piccioni, un cantiere edile e, di spalle, l'immancabile vecchietto che lo osserva con le mani giunte dietro la schiena, e nulla, ma proprio nulla può far pensare che smetterà questa sua attività di lì a poco, anzi. Però, da veder così, tra qualche minuto, vista l'andatura appena appena spensierata dello Stricca, che non sembra mica intenzionato a mollarci a breve, tutta quella gente qui, a veder dalla densità della piazza, oh non è poi mica sicuro, ma secondo me succede un lavoro che anche il vecchietto del cantiere si volta. Questo fatto che in ogni cantiere c'è sempre un vecchietto di spalle che lo guarda, è una di quelle cose che per Ivo, il babbo di Gianni, son delle vere e proprie ossessioni. (Alessio Berrè)

U

na nebbia che non ci si vede da qui a lì, una nebbia che mi mette tristezza, novembre, un mese che sfido io a dire che novembre non mette trisrezza. Lontane le maniche corte, il cocomero, le giornate lunghe che alle nove ancora si pattina ai giardini, lontano il mare, il windsurf e i gavettoni. Esco di casa. Ecco, ci mancava lui. No, lui no. Mi volto, faccio finta di non vederlo, non ti ho visto Peppe, il portone è ancora aperto, adesso rientro, mi sono dimenticata una cosa importantissima, dai che mi salvo. Macché. Lianca! Dove vai a Bologna? Vigliacco se non ti placca subito Peppe, ma quanto ci vedrai da lontano Peppe, che porti pure gli occhiali. Un ometto tutto storto, secco secco, ottant'anni suonati e una passione quasi feticista pet stringerti le mani. Di mestiere faceva il falegname all'inizio. Bravissimo a incidere e a intarsiare il legno, oltre che per comò, madie, porte e finestre, era famoso per le casse da morto. Dicono che una volta, che girava una brutra influenza, dicono che in una notte sia tiuscito a farne quattro una più bella dell'altra. Poi, quando i cofani mortuari non si intarsiavano più a mano, Peppe si è aperto un'attività di pompe funebri in cui ora lavorano i figli e i nipoti. Sul cartello del negozio c'è scritto Onoranze funebri Martelletti, ma come fosse un ristorante, tutti in paese dicono da Peppe, che vanno da Peppe a comprare i fiori, che bisogna sentire da Peppe per i lumini, che da Peppe lo sanno se la lapide in tufo si può fare o no. Ciao Peppe, sì vado a Bologna, devo vedere delle mie amiche che arrivano dall'estero, dall'Olanda Peppe. E non ho neanche finito di rispondere che mi acchiappa le mani. Alle sue di mani mancano due dita e mezzo, la pialla gli ha preso il medio della mano destra e la sega a nastro il pollice e mezzo indice della sinistra. Mi ha spiegato che succede sempre così, che la pialla ti prende il medio e la sega a nastro il pollice e l'indice, che quindi a lui gli è andata pure bene perché mezzo indice alla sega a nastro lui non gliel'ha lasciato. Dall'Olanda? Allora i tulipani fatti portare. Eh sì, i tulipani, bob, vediamo se me li portano.

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Ci vai in macchina a Bologna? Sì sì, in macchina. Sta' attenta eh, vai piano per strada che per strada con sta nebbia è brutta. Ecco, l'ha detto, lo sapevo. E vorresti toccarti da qualche parte, fare almeno uno scongiuretto con le dita, ma non puoi perché lui ti stringe le mani. Chissà se lo fa apposta? Sì sì Peppe, certo, adesso vado però perché così me la prendo con calma. Eh, brava, vai piano, che si va a sbattere sempre per correre troppo. E due, penso. Sì sì, tranquillo Peppe, ciao Peppe, ciao. Mi ripiglio le mie mani dalla sua stretta, sorrido cordialissima, mi volto e salgo in macchina. In macchina aspetto qualche secondo che si allontani e poi tocco tutto il ferro, metallo, lamiera che trovo in giro, tocco anche la plastica che non si sa mai. Tocco pure il rosario che è lì perché ci credo non ci credo, lo tolgo non lo tolgo, alla fine è rimasto lì e allora tanto che c'è lo tocco. E poi passo a toccarmi la tetta destra con la mano sinistra, che me l'ha insegnato la mia amica Alda che è superstiziosa e le sa tutte queste cose. Una volta mi ha raccontato che per aspettare qualcuno che passasse a prendersi la iella del gatto nero che le aveva attraversato la strada, a forza di aspettare ha perso il treno. Poi di Alda non mi ricordo mai se mi ha detto che ci si deve toccare veramente la tetta destra con la mano sinistra o viceversa. Allora nel dubbio mi tocco un po' a destra e un po' a sinistra sia con la destra che con la sinistra, tanto non mi vede nessuno. E mentre faccio questi gesti sconclusionati mi viene in mente di colpo di quando ero piccola e i compagni di scuola, tra cui i nipoti di Peppe che oggi lavorano alle Pompe funebri Martelletti, da Peppe, mi viene in mente di quando come scherzo per il mio compleanno i compagni di scuola mi avevano fatto il manifesto da morto. CORDA c'avevano scritto, che era morta CORDA, cioè io, Lianca Cordarelli, e che gli amici ne davano il lieto annuncio. Mi sa che ce l'ho ancora da qualche parte. Mi viene da ridere. Povero Peppe che tutti pensano che porti sfiga solo perché faceva bene le casse da morto. Mi sento un po' in colpa ma mi viene da ridere. Tocco un'altra volta il rosario, accendo i fendinebbia e parto che anche se è novembre e c'è una gran nebbia non sono più triste. (Camilla Tomassoni)

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opo una serie di rovesci di ogni tipo e nei diversi campi che caratterizzano la vita di uno, decisi di fare qualcosa per migliorare la situazione e lo feci. Poi ho deciso di tirare tutto fuori. Visto quello che ho combinato e ciò che sto per fare, be', è normale chiedersi cose tipo: da dove comincio? Ho deciso da dove cominciare, perché le decisioni le ho sempre prese veloce. E dirò prima di tutto questo: non mi sono fatto nemmeno un giorno di galera, mai, finora, in barba a chi ce l'augurava a tutti. Comunque, una volta non pensavo così. Non ci stavo così per ore sulle cose. Prendevo le mie decisioni di conseguenza, a un buon ritmo. Certe decisioni poi si prendono nei posti più strani. Io ad esempio non ho mai mollato il nuoto... Di solito, metto gli occhialini e mi immergo. Poi però mi son messo a guardare nello specchio d'acqua della piscina. Provate solo per un attimo a immaginare questa immersione. È tardi, non c'è più nessuno. Metto due dita in acqua per recuperare il concetto


della limpidezza. È dura in una piscina pubblica, ma il riflesso dell'acqua almeno quello è nitido. La prima che penso è questa: c'è un allora, allora quando tu eri al mio fianco, prima che anche tu, con questa città, cominciassi a prostituirti. Ho fatto pensieri per un bel po' in piscina. Ora nell'oscurità mi avvio lungo il viale, zaino in spalla. Le fronde mi fanno compagnia perché c'è vento stasera. Quanto conosco bene questo luogo! Da quanti fottuti anni ci sto intruppato con qualche altra diecina di cialtroni che frequento. Parlo di chi come me si è imbarcato su quella nave e in tutte quelle cose, che al tempo parevano quasi eroiche... Ma il fatto è che oltre il grigio fabbricato che costeggio c'è un boato che cresce, che avanza, come un'onda gigante che sta per arrivare. E io lo so: è l'avvenire. Bisogna sempre pensarci, a domani. È solo facendo passare più tempo, tanto tempo, che l'intersecarsi delle nostre esistenze acquisterà un significato superiore. Ci incontreremo allora e capiremo davvero chi siamo. Questo pensavo quando decisi e ti abbandonai, una prima volta. Poi è iniziata questa guerra silenziosa e la subdola invasione di un pensiero distruttivo. Ora tocca me... Prendo la moto e percorro forte tutta l'arteria che spezza in due quello che era il cuore semplice di questa città. Un tempo, prima che l'ipertrofia la colpisse, era un mondo saggio e pulito, con le sue strade vuote che si animavano per qualche festa, con le ruote luminescenti, le giostre, lo zucchero filato. A casa invece ora mi porto questa mano di smog, la sera tardi quando torno. Anche stasera in frigo non c'è niente. Ma questa volta è perché ho deciso: non ne ho bisogno, me ne vado, e farò quel che deve essere fatto. Chiudo il frigo e apro tutti gli armadi. Chiudo gli armadi e infilo l'ascensore dando per un'ultima volta uno occhio alla targhetta sulla mia porta blindata, con su inciso questo nome: Ornar Bassani. Salgo in auto. Ho preparato uno zaino con poche cose. Quelle che veramente contano sono in una grande borsa pesante. Carico turro. Penso solo che il passato è passato, questo non lo decidiamo noi, è già scritto. Ma ho pensato anche un'altra cosa: deve avvenire per tappe, senza fretta, una marcia cadenzata, una danza. Spesso quando si scappa si pensa solo ad andare più lontano possibile. Io farò qualcosa di diverso e forse di unico. Vado alla fonte, là dove tutto è cominciato. Vado a fare due cosette a casa mia. (Mario Vetrone)


Compito del Mi ricordo:

sul modello del libro di E Perec Mi ricordo, scrivete una serie di Mi ricordo.

M

i ricordo che una volta mentre andavo in bici ho ingoiato una mosca. Mi ricordo che quando avevano sollevato il sacco del pattume tutte le larve erano scappate a rintanarsi negli angoli piÚ bui della cucina. Mi ricordo che da piccolo mi nascondevo dietro le porte per cagarmi addosso. Mi ricordo che i bozzoli si erano induriti e avevano preso un colore rossastro scuro, e li avevo messi tutti insieme. Cercavo una stanza vuota, mi infilavo dietro la porta, spalancandola, e spingevo fuori quel che potevo. C'erano dei buchi sul tappo di carta stagnola; mi ricordo che avevo usato degli stuzzicadenti. Mi ricordo anche che mia sorella mangiava la sabbia e beveva l'acqua del mare, poi ruttava. Mi ricordo che mancava un sacco di tempo, mancava un sacco di tempo, poi alla fine è arrivata l'ora non era pronto niente. Mi ricordo che quando nascevano l'involucro del bozzolo gli rimaneva attaccato a una zampa. Giravano per il barattolo le une sulle altre, nascendo e morendo continuamente senza ritegno. Mi ricordo che il contadino bruciava i formicai con il cherosene. Mi ricordo che certe volte non mi riusciva di addormentarmi perchÊ pensavo che prima dovevo risolvere la questione di capire cosa c'era prima del mondo, prima dell'origine del mondo, e mi sforzavo di figurarmi il tempo che scorreva a ritroso velocissimo fino al nulla astrale e pensavo a cosa avesse generato il nulla e di cosa fosse fatto questo nulla enorme incomprensibile, e volevo stimare a tutti i costi la forma e la misura dell'universo, e allora per forza, rni ricordo, pensavo, per forza non riuscivo a dormire. Mi ricordo che non capivo da dove venivano tutti quegli escrementi (dopo, mi ricordo, l'ho capito che erano escrementi). Mia madre mentre dava l'aspirapolvere un giorno mi ha trovato lÏ, paonazzo, che tremavo, coi pugni chiusi, e ha capito subito. Quando pioveva ero contento, mi ricordo, perchÊ potevo rimanere in casa a disegnare. Quelle che non morivano stavano attaccate alla stagnola vicino ai buchi, e mi ricordo che dovevi scuotere il barattolo per vedere quelle che si muovevano ancora.


I ,.t |>i iiu.i M . l i . i i In min i n i l i i « « M n i « e l i -,|in |' p .ii(' < osVi.i un pi esci vaiivo mi ha detto che sc-iviv.i |>ri 'i un.m '. r i n n i MI|U Im e lursio I )uvi-, |>cii |>li Ilo chicslo Ma con la mano? Mi n i n n i l i Jn .1 un n i n i | i i i i i n > min i.ipivo IH-IIC se si stavano mangiando tra loro o i n c n i i . |'. i i In' 1 M I M I un i .i|>.ii n.ivo ili i n n i quegli escrementi. Mi n. o i , I n .mò I I C I M I [ i n i di chcii p.iia di occhiali da vista. Il numero raddoppia se si i orni,I. M I M I .un he quelli rolli. Mi i n nido i lic .ivevo Iciiu <li uno che si era evirato per scommessa perché aveva detto che se mi.i M|ii,idu vinceva 'mi taglio un matone' e poi non se la sentiva più di ritrattare. Mi ricordo che avevo pensato molte volte Muoiono come mosche. Avrò visto so quanti western: quando c'erano le sparatorie mia nonna urlava Tela! Tela! Alla fine mi ricordo che non mi stavo più tanto simpatico. Erano morte tutte credendo che il mondo fosse un barattolo mortale e merdoso di cannibalismo e sopraffazione - non stava a me renderglielo noto. Quando giocavo a calcio mi ricordo mi mettevano quasi sempre in porta. Al ritorno dalla prima partitella coi pulcini mi ricordo che ero tornato a casa e avevo chiesto Mamma cosa vuoi dire 'brocco'? E poi mi ricordo una sagra delle lumache di Poggio Murella e uno senza un occhio al concerto delle Spice Girls, e quando ho pianto guardando Fantozzi e che non sputavo mai per terra. Mi ricordo che ero rimasto perplesso perché mia madre dopo una breve pausa mi aveva risposto 'cavallo non di razza'. (Francesco Niccolai)

M

i ricordo le sere d'estate passate tra l'erba alta Mi ricordo quando catturavo le lucciole e una lucina fioca usciva dalle fessure delle dita Mi ricordo le libellule volare velocissime e dovevo scansarle altrimenti mi pungevano Mi ricordo mio nonno che ripeteva spesso che l'acqua serve solo per lavarsi Mi ricordo le nevicate, tutto un bianco abbagliante, ed io uscivo col bicchiere per raccogliere la neve da mangiare con lo zucchero Mi ricordo quella volta che la nonna ha bucato il collo dell'oca e l'ha appesa a testa in giù legandole le zampe con una corda Mi ricordo gii occhi dell'oca appesa mentre un filo rosso cadeva dentro al catino Mi ricordo mio nonno mentre suonava l'armonica, e quando non suonava l'armonica si metteva del tabacco sbriciolato nella bocca e quando non si metteva del tabacco sbriciolato nella bocca andava al Circolo dei Combattenti a bere il vino rosso Mi ricordo un giorno d'inverno quando mia mamma mi aveva vestito col cappotto, i guanti, la sciarpa ed il cappello in pelo e poi era uscita di casa dimenticandomi lì Mi ricordo in casa un silenzio troppo lungo che non capivo, così mi sono messa a giocare con la famiglia dei maialini di plastica Mi ricordo quella volta che la suora dell'asilo consegnava a mia mamma il simbolo da cucire sulla salviettina ed era rimasto solo il simbolino con la cazzuola Mi ricordo la prima volta che sono riuscita a chiudere un cerchio mi ha preso un senso

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di onnipotenza Mi ricordo che andavamo a Milano con la 850 e per me era una macchina bellissima Mi ricordo le domeniche pomeriggio allo zoo a dar da mangiare agli animali e l'elefante prendeva il pane secco con il naso Mi ricordo io e mio fratello uscire dal barbiere con la riga da parte e sul collo i resti dei capelli tagliati erano tanti pungiglioni Mi ricordo dei bagni in mutande nei fossi quando mi attaccavo all'erba per vincere la corrente Mi ricordo di quando mia mamma era in cucina e con i miei due fratelli in sala a far la lotta e a prenderci a sberle, a calci e a darci pizzicotti e poi qualcuno frignava che lei veniva da noi come un razzo e le dava a tutti e tre per questione di economia, che non aveva il tempo per capire di chi fosse la colpa (Anna Rossi)

M

i ricordo di aver allagato casa, al terzo piano di un condominio, i muraglioni di neve contro i cancelli arancioni e beige e la matta che dalla casa bassa in fondo alla via gridava "P-pà ! G-giÚ!" e rideva forte e felice mentre giocavamo. Mi ricordo il primo bacio, a occhi chiusi: ho immaginato una balena bianca nuotare nell'immenso oceano buio. Mi ricordo di aver difeso un amico dalla banda di ragazzi del quartiere mentre una vecchietta da una finestra con le tapparelle quasi abbassate gli intimava di lasciarci in pace; qualche anno prima, a causa di uno scherzo malriuscito, gli avevo rotto due denti con un pugno, a quel mio amico. Mi ricordo gli occhi rossi di una grossa lepre, spintami incontro dal movimento di mio nonno, il suo stupore, il mio: eravamo alti uguali. Mi ricordo la prima canna, ringraziavo tutti come a una premiazione. Mi ricordo "Shining" alla Tv e tortellini alla panna alle tre di notte nella piccola casa buia di un'amica sola. Mi ricordo la vecchia casa dei nonni, per anni è stata il modello base inconscio di tutte le case umili descritte da Dostoevskij. Mi ricordo la fine del primo amore, le strade larghe e vuote di Parigi, lo smarrimento infinito e la vista inquietante del quartiere La Defence. Mi ricordo i suoi morsi e le risate in un parchetto d'estate, saremmo potuti rimanere lÏ all'infinito... (Luca Zirondoli)

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Esercizio della presentazione:

presentatevi in cinque righe o. i M i .11 ii lo M li M » | t.n i M .1 I M I I A li in h .1 i he « i i Itivi'vii .un l.ii r .1 stilili.ut' un .inno e ciò l i ( u n 1.1 v.ilif',1.) ,i | i i ' M . i sul lei I o i lu dovevo i l r u i l r i r i os.i poi l.nr, t 111,i ime non i '.tvcvo messo 11 u.i si nuli.i pcii he è sciupi e mcj'Jio vi.ij'.pj.nc K'|',j',ei i , .1 u n i ci (o | M i n i o 1.1 m u n ì . i un lia gualchilo e mi ha ilei I o su IL 1.1, I in no iti In1 ( i n u i u .1 i n .11 uh.i i .il 1.1 Sl.uula. l ì per li la cosa non mi aveva mollo rassicuralo, an/i, mi aveva solo lano l i d c i e , ma poi a pensarci bene ho capito che invece aveva proprio ragione lei, e che non c'era proprio nulla da ridere, perché anche se in America non ce l'hanno la Slanda, io a pensarci l>ene, anche se in America e'hanno solo Walmart e Seven e Wholefood e quelle cose lì, e anche se io ora non ci sto più in America, e la Standa in Italia mi pare che l'abbiano chiusa, io in effetti quando ho paura penso sempre così: icché mi manca, vo' alla Stantia. (Elena Favilli)

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Maria Mori falbo Isabella Pedrazzi Matteo Martignoni Enrico Bergamin Alessio Berrè Luca Zirondoli Camilla Tomassoni Anna Rossi Luca Vanzella Mario Vetrone Stefano Pederzini Andrea Bergonzini Stefano Gattini Giulia Menarbin Elena Favilli Francesco Niccolai

info@modoinfoshop.com 34


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