Scorretto Magazine - Fuoriserie - A Christmas Lunchbox

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Scorretto Magazine

A Christmas lunchbox

Anno duemilasedici Fuoriserie #2


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Pubblicazione straordinaria Scorrettomagazine.wordpress.com www.facebook.com/Magazinescorretto


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Anno duemilasedici Fuoriserie #2 A Christmas lunchbox

Direttore irresponsabile Fabio Martellini

Redazione Scorretta e collaboratori

Artanis Naanìe, gian marco griffi, Silvia Perosino, Aldo Bagnoni, Svetlana Svetla, Helenio Ferrante, Alez, Donato Alfonso Sedàan.

Grafica e impaginazione Lestath87, Raphaëlle Smith, nbS

Direttore Creativo

Andrea Andereassen (Port Huron High School)

Copertina

Eraldo Ghietti “fine pranzo da re”

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Indice

03 Haiku di 浪人 04 Nataleria di gian marco griffi 16

Strange fruit di Silvia Perosino

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Anna di Artanis Naanìe

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La festa, da capo a piedi

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Abbiamo cotto l’uovo di Helenio Ferrante

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Zampone e lenticchie

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La cena di Natale di Svetlana Svetla

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Panettone al cioccolato bianco, marron glacé e zuccherini di Alez

di Aldo Bagnoni

di Donato Alfonso Sedàan

34 31 dicembre di Movimento Vegano per l’illuminazione e l’eventuale soppressione delle Coscienze Carnivore

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Haiku

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NATALERÌA di gian marco griffi

Isidro e Joaquín erano stati incaricati di trasferire la statua del Bambin Gesù dalla Cattedrale del Redentore al Duomo Civico in tempo per le celebrazioni della Giornata della Ricostruzione Mussoliniana del Natale, che come ogni anno si svolgeva la vigilia di Natale, in occasione dell’anniversario della famosa visita di Mussolini in città. Poiché il tragitto era piuttosto tortuoso, stretto e costituito da viottoli e vicoli, ma soprattutto perché così voleva la tradizione, i due erano costretti a trasportare il Bambin Gesù a mano, come avevano fatto nel corso degli anni tutti quelli che avevano svolto la stessa mansione. Isidro stava dietro e impugnava la statua per le caviglie tozze, lamentandosi di continuo. Stramaledetto sia il Natale, si lagnò camminando. Non capisco per quale motivo non possano costruire un’altra statua in modo che sia il Duomo che la Cattedrale ne abbiano una. Eh, le tradizioni, sbuffò Joaquín stringendo i polsi della statua. Le tradizioni son sacre! Esclamò, e fece una sosta prestando attenzione di appoggiare delicatamente il Bambin Gesù sul porfido. Si trovavano nei pressi del Tribunale, e la giornata era piuttosto fredda. Isidro guardò l’orologio contapassi. Ne avevano fatti settecentosette. Joaquín alzò il bavero del cappotto, si levò i guanti da lavoro e soffiò sulle mani. Mancavano seimilacinquecentoundici passi al Duomo. Isidro premette un tasto dell’orologio per controllare i battiti cardiaci; verificò che il suo cardiofrequenzimetro in dotazione fosse posizionato nella maniera corretta. Cristo santo, disse Isidro appoggiando anch’egli la statua a terra, mi verrà un infarto se non ci beviamo almeno una birra. Ma piantala, disse Joaquín. Non vorrai lasciare la statua del Bambin Gesù incustodita. Io ho bisogno di una birra, tuonò Isidro dirigendosi verso la caffetteria all’angolo tra la piccola piazza e il Tribunale. Mentre Isidro si allontanava, una vecchia vestita di scuro si avvicinò a Joaquín. Buongiorno, signora, buon Natale! strillò Joaquín. La vecchia scatarrò in terra a pochi centimetri dal Bambin Gesù. Signora, è forse impazzita? Domandò Joaquín.

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La statua giaceva sul porfido come una tartaruga riversa quando poggia sul guscio. La pancia del Bambin Gesù, protuberante e lattea, rifletteva la luce del sole e delle insegne lì vicine. La scultura non aveva alcun valore artistico ma possedeva un immenso valore storico e simbolico, giacché era stata benedetta da Mussolini in persona nel millenovecentoquarantanove. La vecchia non disse nulla. Squadrò Joaquín dalla testa ai piedi e provò a sputacchiare di nuovo, ma evidentemente aveva finito la saliva, così ne uscì un minuto spiffero e un leggerissimo filo di bava che le rimase attaccato al mento vagamente peloso. Signora, dichiarò Joaquín, dovrebbe vergognarsi. In quel momento passava un tizio che stava bighellonando accanto alle vetrine. È questo il modo di trattare una vecchia? Chiese il tizio che bighellonava. Se la vecchia scaracchia sulla statua del Bambin Gesù che andrà a impreziosire la nicchia della natività nel nostro Duomo per la Giornata della Ricostruzione Mussoliniana del Natale ebbene sì, affermò Joaquín, questo è il modo di trattarla. La vecchia si allontanò con passo lento, mentre alcuni passanti si erano fermati a osservare la statua. Eh, le tradizioni, disse un tizio. Il nostro grande Paese si fonda sulle tradizioni! Esclamò Joaquín. Poi dato che Isidro non si decideva a tornare provò ad accendersi una sigaretta, ma non riusciva a tenere acceso un fiammifero per colpa del vento che si era levato e gli intirizziva i lobi e il naso. Chiese cordialmente da accendere ad alcuni passanti, ma sembrava che nessuno ne avesse. Quando finalmente un giovane gli porse un accendino, Joaquín accese la sigaretta e disse: Grazie! E buon Natale! Il giovane bofonchiò qualcosa e se ne andò. Poco distante due addetti all’illuminazione stavano ultimando di sistemare una gigantesca scritta luminosa BUONE FESTE da una parte all’altra del viottolo. Porca miseria, stava dicendo uno degli addetti. Porca miseria sì, rispondeva l’altro. Che schifo di lavoro, disse il primo. Joaquín li guardò e disse: buon Natale! Uno dei due interruppe il proprio lavoro, guardò in basso e disse: buon Natale un corno! Finalmente Isidro uscì dalla caffetteria e impugnò le caviglie del Bambin Gesù, Joaquín impugnò i polsi, sollevarono la statua e ripresero a camminare con andatura abbastanza sostenuta, Isidro davanti e Joaquín dietro. Fate spazio! Urlava Isidro alla gente che procedeva per i vicoli guardando le 05


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vetrine, mangiando castagne arrosto o digerendo caffè al liquore. Fate spazio! In Piazza Bertran de Born i negozi erano tutti illuminati e c’era una gran folla che passeggiava avanti e indietro. Isidro e Joaquín fecero una nuova sosta da un lato della piazza, quello che vomitava continuamente persone dalla bocca del Palazzo Civico. Avevano percorso duemilatrecentosedici passi. Fa’ attenzione quando lo appoggi! Urlò Joaquín. Isidro tirò un calciò a una pietruzza, spazzolò il terreno con uno scarpone e fece attenzione che le chiappe del Bambin Gesù si adagiassero delicatamente sul suolo. Joaquín comprò una copia del suo magazine preferito all’edicola che c’era lì vicino. Il magazine si intitolava “Eternauti – Giornale d’Antitutto”, e pubblicava principalmente fumetti e racconti; il numero speciale natalizio era intitolato “AntiNatale”. Buon Natale! Esclamò all’edicolante dopo aver pagato. Quello non sembrò accogliere l’augurio e non disse niente; stava chinato su alcune riviste e cercava il posto migliore per esporle al pubblico. Ho detto: buon Natale! Ripeté Joaquín alzando il tono della voce. Dice a me? Domandò l’edicolante. E a chi se no, disse Joaquín. L’edicolante scaracchiò nella polvere al di fuori del suo cubicolo. Signore, disse l’edicolante con tono solenne, io sono ebreo da tredici generazioni. Può capire cosa me ne freghi del vostro stupido cristo e della sua nascita. Che il diavolo vi tenga per le caviglie quando tenterete di scavalcare le porte del Nostro Paradiso, disse Joaquín. L’edicolante sputò nuovamente in terra e disse: tenetevelo pure, il vostro Paradiso. Joaquín si allontanò schifato e raggiunse Isidro. Al centro della piazza stavano ultimando gli addobbi del grande Albero di Natale, ai cui rami erano caratteristicamente agganciati per i piedi gli atei; due agenti di Sicurezza stavano procedendo all’impiccagione degli ultimi cinque o sei corpi, che raccattavano dal cassone del loro camioncino; prendevano un ateo alla volta, uno per le mani e uno per i piedi, lo addobbavano con festoni e file di lampadine e lo riponevano sopra un argano, il quale sollevandosi meccanicamente grazie a un motorino alzava il corpo; un terzo agente manovrava l’argano, o la gru, per predisporre il corpo in corrispondenza di uno dei ganci sui rami. A quel punto un altro agente saliva sulla scala e fissava il corpo al gancio. Un Maresciallo del Ministero in alta uniforme stava fornendo spiegazioni ai passanti e ai turisti. 06


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Eraldo Ghietti

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Vedete cosa vuol dire rinunciare a Dio, diceva. Ma guardateli, i ribelli materialisti, i fanatici della matematica, i dottoroni e i luminari, trasformati in addobbi natalizi! Joaquín si avvicinò al grande albero e lì vide uno che conosceva. Questo è il figlio della mia macellaia, disse. Era infagottato in una tuta rossa che lo faceva sembrare una specie di Babbo Natale. Attorno alla testa portava una corona di luci intermittenti verdi e rosse. Joaquín guardò gli agenti mentre procedevano all’ostensione di una ragazza. Poi si rivolse al Maresciallo. Signore, disse. Maresciallo, lo corresse il Maresciallo. Maresciallo, disse Joaquín. Dica, disse il Maresciallo. Come è morto questo ragazzo? Domandò Joaquín indicando il figlio della sua macellaia. Non vedo ragazzi, qui, disse il Maresciallo. In quel momento Isidro sputò in terra. Cosa diamine sta facendo? Montò su tutte le furie il Maresciallo voltandosi verso di lui. Si crede forse di essere nel cortile di una puzzolente cascina immerdata dai polli? Isidro non disse nulla. Dovrei multarla per lordura del terreno municipale, disse il Maresciallo. Isidro lo guardò brevemente, poi gridò: Evviva Noi! Che razza di gente, bofonchiò il Maresciallo. Espettorare nel bel mezzo della nostra Piazza più bella, ai piedi del Grande Albero di Natale! Deve scusarci Signore, disse Joaquín. Maresciallo! Gridò il Maresciallo. Deve scusarci, Maresciallo, disse Joaquín. Stiamo trasportando la statua di Gesù Bambino dalla Cattedrale al Duomo. Indicò la statua appoggiata poco distante. Il Maresciallo diede un’occhiata all’albero. Piano con quell’atea! Piano! Urlò all’agente addetto al sollevamento corpi. La statua pesa una tonnellata, disse Isidro. Dobbiamo per forza fare una pausa ogni tanto, disse Joaquín. Siete dei buoni cittadini! Esclamò il Maresciallo. Dei buoni cittadini! Poi si rivolse all’addetto che manovrava l’argano. Più in basso! Più in basso! Ho la schiena a pezzi, si lamentò Isidro. Tutta la popolazione vi è riconoscente, continuò il Maresciallo. Lo credo bene, disse fiero di sé Joaquín, e alzò gli occhi per osservare le operazioni di impiccagione della atea. Più a sinistra! Urlò il Maresciallo. A sinistra! Il manovratore fermò l’argano. 08


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Più a sinistra, Cristo! Urlò il Maresciallo. Il manovratore spostò l’argano di qualche centimetro a sinistra. Una signora che teneva per mano un bambino stava passando dietro al Maresciallo. Maresciallo cosa fa, bestemmia? Domandò la signora che teneva per mano un bambino. Il Maresciallo impallidì. Io…mi scusi…non mi riferivo a…, balbettò impacciato. Stia attento, Maresciallo! Gridò la signora. Badi a come parla! Il Maresciallo, visibilmente imbarazzato, alzò un braccio, lo tese ed esclamò: Buon Natale, Signora! La signora si allontanò senza dire nulla. Il Maresciallo alzò lo sguardo verso gli agenti. Tutta colpa vostra, razza di imbecilli, inveì. Più a destra! Più a destra! Il manovratore spostò l’argano di qualche centimetro a destra. Ancora più a destra! Urlò il Maresciallo. Quando finalmente l’argano fu dichiarato in posizione, uno degli agenti si arrampicò sulla scala e agganciò il corpo della ragazza al ramo. Eh, le tradizioni! Esclamò il Maresciallo. La gente camminava avanti e indietro. Molti scattavano fotografie del Grande Albero di Natale. Non è un bellissimo albero? Domandò il Maresciallo. Davvero bello, disse Joaquín. Isidro si voltò dall’altra parte e sputacchiò sul porfido, poi col piede coprì lo sputo. Un vero schifo, disse, senza che il Maresciallo potesse udirlo. Guardate, gente! Urlò il Maresciallo ai passanti. Guardate cosa succede a rinnegare Gesù Cristo, Abramo, Isacco, Giacobbe, Maometto! La legge viene prima di tutto! Prima di tutto! Joaquín e Isidro fecero per risollevare la statua del Bambin Gesù, mentre il Maresciallo correva per la piazza prendendo i nomi di quelli che vomitavano per lo schifo o di quelli che semplicemente piangevano o scuotevano il capo alla vista dell’albero; segnava nomi e cognomi su un taccuino rosso natalizio. Bisogna fare attenzione, disse il Maresciallo. Attenzione! Ripeté schioccando la lingua. Guardate! Urlò ai due portatori del Bambin Gesù. Mi guardo intorno e vedo gente che scuote il capo, che parlotta, che piange in un angolo. Che razza di cittadini sono, quelli? Cittadini sull’orlo dell’abusivismo, cittadini inqualificabili, cittadini che bisognerà andare a trovare a casa per farci un discorsetto. Per questo prendo le loro generalità. Ci sono due atteggiamenti possibili di fronte al nostro magnifico Albero: la gioia stupita e l’indifferenza totale. Indifferenza totale? Chiese Joaquín, che aveva già impugnato i polsi del Bam09


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bin Gesù. L’indifferenza totale è apprezzata dal Governo, disse il Maresciallo. Per molti versi è molto meglio della gioia stupita. Chi può rimanere indifferente di fronte a un albero dai cui rami cascano ragazzi impiccati per i piedi? Domandò Isidro lasciando la presa dalle caviglie del Bambin Gesù. Non sono ragazzi! Tuonò il Maresciallo. Sono atei, cristo! E probabilmente comunisti. Come ve lo devo ripetere? Va bene, disse Isidro. Come dice lei. Perché, avete per caso qualcosa in contrario? Domandò il Maresciallo. Adesso che ci penso la vostra reazione non è stata propriamente di indifferenza. Ma è stata di gioia stupita! Disse Joaquín. Il Maresciallo osservò i volti di Isidro e Joaquín. Se la prossima volta che passate di qui non leggerò sui vostri volti neutralità e indifferenza vi toccherà fornirmi nome cognome e indirizzo. La gioia stupita è ammissibile una volta soltanto. E se uno è gioioso di natura? Chiese Joaquín. Ma quale gioioso di natura! Gridò il Maresciallo. La smetta di dire sciocchezze. La gioia è sempre sospetta, se lo ficchi in testa. È ammessa, a piccole dosi, ma è sempre sospetta. Joaquín impugnò i polsi del Bambin Gesù. E comunque l’indifferenza è il sentimento più diffuso, disse ancora il Maresciallo. Io osservo i volti di tutti i passanti, uno a uno, e annoto le espressioni di quei volti sul taccuino natalizio che il Ministero mi ha messo a disposizione. Tengo una statistica delle reazioni dei cittadini di fronte all’Albero di Natale. L’indifferenza è la reazione che il Governo reputa la migliore tra tutte le reazioni. La gioia stupita è altresì accettata. Scuotimenti di capo, lacrime, espressioni disgustate, conati di vomito, eccetera, sono intollerabili. Di questi prendo nome, cognome e indirizzo. Alzò lo sguardo verso la statua di Mussolini in cima al Palazzo Civico ed esclamò: ah, le leggi e le tradizioni del nostro Paese! Non fece in tempo a terminare la frase che tre ragazzotti gli fecero una mirabolante pernacchia. Il Maresciallo cominciò a voltarsi a destra e a sinistra per cercare di individuare i colpevoli, i quali si dispersero tra la folla. Isidro e Joaquín ripresero il cammino mentre il Maresciallo urlava “Sul taccuino!” “Nome e cognome!” “Sul taccuino!” “Nome e cognome!”. Dopo altri millecinquecentonove passi raggiunsero l’esterno del Ristorante incaricato di cucinare il cenone natalizio per Mussolini e i suoi. Era lo stesso che nel millenovecentoquarantanove servì la cena al vero Mussolini. Ho la schiena a pezzi, si lamentò Isidro. E i calli fanno un male cane. Io sono sudato marcio, disse Joaquín. Un cameriere gli si fece incontro. È uno scandalo, disse. 10


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Cosa? Gli domandò Joaquín. Questi cani che lordano il marciapiede di fronte al ristorante con escrementi di ogni tipo! Urlò il cameriere. Gli si avvicinò un vigile. Oggi ho staccato dodici multe, disse. Dodici multe? Domandò Isidro. Dodici multe per lordura di suolo pubblico, disse. Merde di cane. I nostri concittadini sono terribilmente arretrati, disse il cameriere. È uno scandalo, confermò il vigile. E il mio compito è quello di condurli sulla retta via. Portare la luce dell’igiene laddove risiede l’oscurità della sozzeria. Staccando multe, disse Isidro. Staccando multe, confermò il vigile. Piuttosto, disse indicando la statua del Bambin Gesù, oggi è la grande giornata eh? Stiamo cercando di raggiungere il Duomo in tempo, disse Joaquín. Il vigile guardò l’orologio. Quanti passi vi mancano? Duemilaseicentoottantasei, disse Isidro guardando il display del suo orologio al quarzo in dotazione. Uhm, disse il vigile, bisognerà che vi sbrighiate; avete ancora poco più di due ore. A quest’ora il figurante di Mussolini sarà appena sceso dal treno. Ma potete ancora farcela. Ci terrei a conoscere il menù del cenone, disse Isidro. È un segreto, disse il cameriere. Non possiamo proprio saperlo? Insisté Isidro. Nemmeno per sogno, confermò il cameriere. Bel riconoscimento, disse Joaquín. Cosa intende dire? Domandò il vigile. Ci stiamo spaccando la schiena per trasportare la statua e il mio collega non ha neppure il diritto di conoscere il menù del cenone, disse Joaquín. Non è proprio possibile, disse il cameriere. In questo caso, disse Joaquín, credo che la statua non arriverà in orario. Impossibile! Urlò il vigile. Non è mai successo in cinquantasei anni! Vi conviene tirare fuori quel fottuto menù, disse Joaquín, altrimenti succederà oggi. E va bene, disse il vigile. Poi si rivolse al cameriere. Va’ a prendere una copia del menù. Infattibile, disse il cameriere. Isidro accese una sigaretta. Bada, giovanotto, disse il vigile: se la statua del Bambin Gesù non arriverà in orario al Duomo succederà un gran casino. Allora, a quel punto, quando domanderanno di chi è stata la colpa, io dovrò necessariamente fare il tuo nome. Il cameriere rimase immobile. 11


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A proposito, qual è il tuo nome? Domandò il vigile. Col piffero che te lo dico, disse il cameriere. Ci metto dieci minuti a scoprirlo, ribadì il vigile. A quel punto il cameriere sbuffò, maledisse il vigile e Isidro tra sé e sé, entrò nel ristorante e un minuto dopo tornò fuori con un foglio, lo porse a Joaquín e se ne ritornò da dove era venuto, sempre bofonchiando maledizioni assortite. Joaquín prese il menù e lo lesse ad alta voce, come se stesse recitando una poesia: Antipasto variato di ostriche, gamberi e salmone marinato Gravlax consumato alla Carlo Alberto Orata del mar Tirreno alla Marconi Salsa Cavour Barchette alla Maralese Centro di filetto di bue all’antica moda abissina Salsa Alleanza Spuma di cappone alla Moschettiere Poncio alla Romana Fagiani arrosto all’Italiana Insalata alla Cairoli Soffiato di cavolfiore alla Mazzini Panettone alla Badoglio Salmone Galvax? Domandò il vigile. Gravlax, specificò Isidro. È una specie di salmone che vive nei nostri fiumi, disse Joaquín. Mai sentito, disse il vigile. Molto male, sentenziò Isidro. E il bue all’antica moda abissina? Domandò il vigile. Si cuoce sotto un metro di terra, disse Joaquín. E mentre cuoce, si danza, aggiunse Isidro. Una vera prelibatezza. È il caso che procediate, disse il vigile. Beh, disse Isidro impugnando le caviglie del Bambin Gesù, Mussolini sarà già in taxi. Si starà già dirigendo al Duomo, disse Joaquín. Prima c’è la sosta alla Fabbrica di Transistor, disse il vigile. Non esiste più da trentacinque anni, disse Isidro. La ricostruiscono solo per oggi! Esclamò il vigile. Come, non lo sapete? Bisogna che la Giornata sia ricostruita perfettamente! L’Ufficio Verosimiglianza è uno dei distaccamenti più zelanti del Ministero. Non come l’Ufficio di Polizia Municipale, che ci costringe a indossare queste penose uniformi. Gli scese una lacrima. 12


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Sarà il caso che ci affrettiamo, disse Joaquín impugnando i polsi del Bambin Gesù e sollevandolo. Duemilaseicentoottantasei, sbuffò Isidro mettendosi in cammino. § Il sagrato davanti all’ingresso principale del Duomo era invaso dalla folla. Tre guardie aprirono un varco per farci passare Joaquín e Isidro col Bambin Gesù. Transitarono tra gli applausi dei fedeli ed entrarono in Duomo, dove la folla era ancor più numerosa e impaziente; si diressero lungo la navata di sinistra, al fondo della quale gli addetti alla verosimiglianza avevano predisposto la capanna con le statue di Giuseppe e Maria, del bue, dell’asinello e di altri personaggi minori precisamente nello stesso modo in cui erano state predisposte nel millenovecentoquarantanove. Tra le statue di Giuseppe e Maria c’era la riproduzione dozzinale di una culla di legno imbottita con gommapiuma e paglia. Joaquín e Isidro percorsero gli ultimi quarantacinque passi e giunti alla capanna sistemarono con cura il Bambin Gesù nella culla di paglia sotto gli occhi attenti del sacrestano e di un paio di preti. Gli fu consentito di partecipare alla ricostruzione storica. Ambedue erano distrutti, col fiatone e le ossa rotte. Un dottore li accolse stringendogli la mano. Controlliamo per l’ultima volta il battito cardiaco, disse. Non vogliamo che tra un’ora vi venga un coccolone, vero? Joaquín e Isidro si levarono il cardiofrequenzimetro, lo riconsegnarono allo stesso dottore che quella mattina, quasi nove ore prima, li aveva forniti della dotazione moderna (unico strappo alla Ricostruzione Storica Ufficiale). Joaquín e Isidro si guardavano intorno mentre un gruppetto di infermieri procedeva a provargli la pressione arteriosa. Due minuti dopo entrò Mussolini; dietro di lui De Bono, Balbo e De Vecchi, accompagnati dal vescovo. Il figurante che impersonava Mussolini aveva una maschera la cui verosimiglianza con l’originale era stata valutata pressoché perfetta. Anche gli altri tre erano ricostruiti con tutti i particolari. Specie i baffi di De Bono, fece notare qualcuno. Mussolini avanzò in direzione della capanna grattandosi la gamba sinistra all’altezza del femore. Si grattò dietro la schiena. La gente rimase in silenzio. Joaquín e Isidro si sistemarono accanto al sacrestano. Mussolini si fermò, si grattò il collo. Perché si gratta? Domandò Joaquín. Il sacrestano inorridì. Santo cielo, ma non siete andati a scuola? Domandò. Non conoscete la Storia? Joaquín e Isidro si strinsero nelle spalle. Quando Mussolini fu a pochi passi dal Bambin Gesù, giunse le mani, imitato 13


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da tutti i presenti. Si grattò l’inguine. Fece il segno della croce, imitato da tutti i presenti. Si grattò la scapola e poi, più intensamente, il petto. Che diavolo, disse Joaquín. Ma che cos’ha, le piattole? Domandò Isidro. Cristo, come minimo avrà le pulci, confermò Joaquín. Siete due ignoranti, disse il sacrestano. Mussolini si grattò la chiappa destra. Il vescovo si fece passare un aspersorio dal chierichetto alla sua destra. Quello alla sua sinistra gli passò un secchiello di zinco con l’acqua santa. Mussolini si grattò la schiena, o tentò di farlo. Il giorno in cui Mussolini venne in visita ufficiale, spiegò il sacrestano a Joaquín e Isidro, soffriva di una terribile malattia esantematica. Poi esclamò solennemente: Era il ventiquattro dicembre millenovecentoquarantanove! Una malattia esantematica? Domandò Joaquín. Una terribile malattia esantematica, disse il sacrestano. E tuttavia ciò non gli impedì di venire qui, nel nostro Duomo, per baciare il Bambin Gesù e per benedirlo personalmente con l’acqua santa. Che uomo fantastico. Una terribile malattia esantematica? Domandò Joaquín. Perché, Mussolini non può essersi ammalato di scarlattina? Disse il sacrestano. Nessuno sa con certezza di quale malattia fosse affetto quel giorno. Mussolini si grattò il costato destro. Ecco, ha sbagliato, disse il sacrestano. Cazzo! In che senso ha sbagliato? domandò Joaquín. Nel senso che ha sbagliato la sequenza, miseriaccia. C’è un ordine ben preciso, s’affrettò a dire il sacrestano. Non è che possa grattarsi dove vuole e quando vuole. L’ordine è importante. Dopo la natica destra e il tentativo appena accennato alla schiena bisogna che si gratti l’inguine, e solo successivamente il costato. O pensavate che Mussolini si grattasse così, a caso? Il sacrestano guardò Joaquín e dichiarò: Mussolini non lasciava niente al caso. E come fate a saperlo, voi? domandò Isidro. Tzè, disse il sacrestano. Per decenni sacrestani e parroci si sono tramandati scrupolosamente l’ordine delle zone in cui Mussolini si grattò durante i quindici minuti di visita alla Natività del Duomo; il parroco dell’epoca, il lungimirante Don Juliano, le annotò tutte a margine del Vangelo di Luca. Lunga gloria a lui! Evviva noi! Urlò Isidro. Qualcuno si voltò verso di loro e li fulminò con lo sguardo, intendendo che avrebbero dovuto fare silenzio. Zitto! Disse il sacrestano portandosi il dito al naso. Perché grida così, è impazzito? Non disturbi la Ricostruzione! Joaquín notò tre tizi nascosti nell’oscurità, invisibili alla gente, che tenevano alzati dei cartelli illuminati da un occhio di bue sui quali c’era scritto: COLLO 14


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IN BASSO, CHIAPPA DESTRA, INGUINE, TENTATIVO SCHIENA, INGUINE, COLLO DIETRO, STOMACO, COSCIA SINISTRA, RETRO COSCIA DESTRA, SOPRACCIGLIO DESTRO, ecc. Era evidente che l’attore avesse dovuto studiare molto attentamente i gesti da svolgere, e dopo l’errore riprese a grattarsi nei punti giusti non lasciando trasparire la minima espressione di sconforto. La nostra fede è più forte di qualsiasi malattia! Esclamò il vescovo. La nostra fede è più forte di qualsiasi malattia! Esclamarono i presenti. Mussolini si grattò il sopracciglio destro. Ricevette l’aspersorio dal vescovo; si grattò in rapida successione dietro l’orecchio destro e dietro l’orecchio sinistro; impugnò l’aspersorio saldamente con la mano destra. Con la sinistra si grattò il ginocchio destro, poi risalì la gamba e andò a grattarsi quella zona che sta tra il testicolo sinistro e il retro della coscia; immerse l’aspersorio nel secchiello di zinco, si grattò la guancia destra, benedisse solennemente il Bambin Gesù. Tutti i presenti applaudirono con convinzione. Mussolini fece un passo in avanti grattandosi l’interno dell’orecchio sinistro, si avvicinò al Bambin Gesù, si grattò il mento, baciò la fronte del Bambin Gesù, si grattò sotto il naso, si voltò verso la gente, attese che dodici camerieri terminassero di apparecchiare l’enorme tavolata di fronte alla Sacra Famiglia, si mise sull’attenti, sbatté i tacchi degli stivaletti, tese il braccio destro, con l’altra mano si grattò rapidamente sotto il gomito e disse: Tutti a tavola! Tutti i presenti replicarono: Tutti a tavola! Poi cominciarono a mangiare, mangiare, mangiare, mangiare, mangiare.

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strange fruit di Silvia Perosino

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anna di Artanis Naanìe

Anna si svegliò, stranita. Malgrado le imposte aperte era ancora buio, quel buio chiaro delle mattine di dicembre. Il lettone era vuoto, come spesso, come sempre nelle ultime settimane. Gaspare era stato scacciato dalla cipolla e le aveva lasciato una vomitata sul pavimento e la sensazione di aver perso tempo. Quindici anni di matrimonio, due di fidanzamento: diciassette anni di assenze, viaggi, letti vuoti, uteri altrettanto. Diciassette anni in cui si era installato il silenzio. In cui ognuno aveva coltivato interessi diversi: lui con le partite di pallone, le orchidee e il fantacalcio, lei con la cucina e lo scrapbooking. Ci avevano provato, all’inizio, a fare tutto. E poi era bello l’inizio, gli inizi sono sempre belli, fatti di cuori che battono e di farfalle allo stomaco, sogni irrealizzabili e progetti concreti. Avevano seguito dei corsi di ballo insieme, avevano frequentato dei cineforum, avevano deciso di non avere la tv per avere più tempo per parlare. Avevano provato ad avere figli, per anni. Poi il silenzio si era installato lo stesso, tra un’orchidea e una torta, un ritorno e una partenza. Anna aveva atteso che il silenzio se ne andasse da solo. È un periodaccio, diceva alle amiche, passerà. Passano sempre, tutte le coppie li hanno, rispondevano loro. Pian piano il silenzio aveva fatto emergere all’attenzione di Anna quei dettagli che, pian piano, compongono una sinfonia inascoltabile. I calzini arrotolati. Le tabelle del fantacalcio. L’alone del deodorante sulle camicie. Il russare. Le serate della partita. L’assenza della tv. I magazine letterari da snob intellettuale. Tutti quei dettagli che sono solo sassolini ma che messi tutti nello stesso sacco diventano un masso. Era caduto, ormai, quel masso. Era caduto durante il viaggio di Gaspare in Giappone e lei lo aveva reso chiaro al suo ritorno. Gaspare aveva capito. Forse anche lui non ne poteva più, non lo sapeva e non le interessava saperlo. Era la mattina di Natale e Anna si alzò senza fretta: il menù era pronto, le ostriche in frigo, i gamberi già sgusciati, l’insalata russa solo da decorare, gli agnolotti fatti a mano riposavano in congelatore. Le rimaneva solo da farcire il tacchino e cuocerlo, aveva tempo di godersi ancora il caffé e prepararsi prima che arrivasse la famiglia a festeggiare. Erano rimasti tutti stupiti quando aveva annunciato che avrebbero festeggiato Natale da lei, lo aveva sentito

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alle loro voci, visto ai loro sguardi. Invece lei ne aveva proprio voglia, di invitarli a pranzo. Di avere la sua famiglia, solo la sua. Niente suoceri. Niente cognati. Niente “questo no e questo no e questo no e quento no”. Niente maledettissimi vasi di orchidea su ogni dannatissima mensola. Niente insopportabili discussioni sull’andamento del campionato. In quella casa sembrava non ci fosse mai stato un uomo o, quanto meno, quell’uomo. Spariti i fiori, i magazine, gli album Panini. Sparite anche le antologie letterarie, per far spazio ai libri di cucina, altrettanto inutili ed ingombranti. Era presa dai suoi pensieri, Anna, e dalla preparazione della farcia del tacchino (macinato di maiale, pane ammollato nel latte, castagne bollite, cipolle caramellate, pepe, sale) quando un messaggio sul cellulare fece vibrare il tavolo. Da Gaspare: “Addio, Anna.”. Lei lo guardò, girò il telefono e continuò farcire il tacchino, mentre un terribile presentimento si apriva come voragine al centro del suo petto. Ma era Natale, e Gaspare non avrebbe mai rovinato il Natale. Forse.

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La festa, da capo a piedi di Aldo Bagnoni

Testa e piedi interfacce primarie col mondo. Se non vuoi, il circostante con le mani puoi evitarlo, astenerti dal toccarlo. I piedi, no. Quelli stanno per terra costantemente, tranne quando riposi sul letto, e come per Anteo, alla terra s’appoggiano, e da essa traggono supporto, energia, spinta. Lontani dalla terra, la morte, come sdraiato sul letto che si fa giaciglio, sudario, lettiga. Così la testa. Dall’altra parte dei piedi, può essere considerata anche lei un’estremità. E di estremità si nutre, è fatta per contenere pensieri e ad essi dare vita, spingendoli all’estremo, come i piedi sospingono in avanti il corpo, conducendolo spesso sino all’estremo, anche lui. Sono steso sul letto, con la testa appoggiata sulle mani, le braccia ripiegate dietro il collo. I piedi uno sull’altro, le gambe incrociate, in una sorta di ibrido corporale tra lo scongiuro ed il rilassamento. La stanza è in penombra, è pomeriggio inoltrato, e dalle tapparelle semiabbassate filtrano le luci natalizie intermittenti. Tra due giorni sarà Natale, e la cosa non mi smuove di un millimetro, né fisicamente, né mentalmente. Se fumassi, guarderei gli anelli sinuosi da me prodotti ondeggiare, salire sino al soffitto, disperdersi e svanire nell’aria viziata già di suo della stanza. Ma non ho questo vizio, almeno quello no, e quindi posso solo immaginarmi la scena, e restare sdraiato e immobile. Un tempo l’albero era pieno di pupazzi di cioccolata e di palline di plastica bianca sabbiate e luccicanti di porporina, le luci si accendevano con prevedibile ed immota variazione di ritmo, e capitava spesso che si bruciassero. La spina della serie veniva inserita in una sorta di corta sezione di cilindro, in plastica verde, con dei buchi metallici, che serviva a renderla intermittente, che era il motivo della fascinazione e della rovina dell’evento e della sua attrice, quel filo con le minuscole lampadine colorate di ogni colore. La testa sono le luci, minuscole, brillanti, fantasiose come delle caramelle, i piedi la spina, che ricevono energia dal basso e tutto animano e smuovono, tutto innervano d’energia. Tanto era simile il loro costume a quello che fu mio, che pensavo sempre agli allestimenti festivi come ad un’allegoria dell’esistere universale, e mio in particolare. Il mio Natale, unico, continuativo, mai iniziato in un preciso istante e mai allo

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stesso modo terminato, è palingenesi, rinascita ripetitiva, celebrazione vitalistica della scomparsa di dio che potrebbe non tornare mai più. Una festa diuturna, mobile, tanto che tuttora lo conduco con me, nella mia testa, e m’accompagna, sui suoi piedi. Cosa posso farmene, delle feste, oggi? La festa, le feste, sono una boa, per me che nuoto con difficoltà estrema, ho bisogno di riferimenti ed approdi, e tento di non annegare. Testa fuori dall’acqua, e piedi che sbattono nel mare, le mani faranno il loro, ma non saranno esse a portarmi né a riva, né al largo. C’è da festeggiare qualcosa? Sì, l’idea nuda dell’esistenza, la scabra pietra cui ancorarsi, seppure per pochi momenti, e poi ripartire, di testa o di piedi. Il liquido amniotico eterno, che mi ospitò e potrebbe non contenermi mai più. Non ho padre, non ho madre, e non ho più neppure me stesso. Il mondo, io non ho, e non mi ha, mai. Mai mi ha avuto. Mai l’avrò. Doppierò ogni singolo approdo, ogni riflessione sarà una tappa del percorso che mi porterà a toccare terre attraverso pensieri, la testa i piedi un unico indistinto attrezzo sistema desiderio metodo coniugazione approdo sosta e infine tomba.

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Eraldo Ghietti 21


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abbiamo cotto l’ uovo di Helenio Ferrante

Un tizio grassoccio con una fisarmonica a tracolla si è presentato al mio tavolo da Salinger per vendermi un gratta e vinci. Salinger è il miglior ristorante della città, l’unico in cui a Natale ti servono il maialino di Cinta senese alle bacche di pepe Sichuan e ananas candito. E comunque questo tizio aveva biglietti dappertutto, incuneati nella fisarmonica, sul cappello, nel taschino della camicia; aveva biglietti di lotterie, biglietti dell’Enalotto, biglietti per concerti e per il teatro. Ma mi ha proposto il gratta e vinci. “Come ha fatto a entrare?”, gli ho chiesto. “Lo compra il gratta e vinci o no?”, mi ha chiesto lui. “Si sieda al tavolo con me”, ho detto io, “beviamoci qualcosa”. Il tizio ha appoggiato la fisarmonica sul parquet di Salinger, si è tolto il cappello, un enorme sombrero variopinto completamente ricoperto di biglietti e addobbi natalizi, e si è seduto su una sedia del settecento che puoi solo trovare da Salinger. “Per me un Lagavulin”, ha detto. Senza il cappello e la fisarmonica sembrava un normale cliente di Salinger, non fosse stato per il gilet invaso da spille di ogni genere, la puzza e i capelli lunghi sfibrati. “Porti un paio di Lagavulin”, ho fatto al cameriere, e mi sono messo comodo, spingendomi indietro con la sedia. “Allora, questo gratta e vinci? È Natale”, ha chiesto lui. “Gradisce dell’acqua?”, ho chiesto. Si è tracannato due bicchieri d’acqua con limone. Poi ci siamo messi a sorseggiare i nostri whisky. “Sigaretta?”, ho domandato sporgendone una dal pacchetto. Si è fatto una bella fumata. “Veniamo a noi”, ho detto, mentre osservavo la sua fisarmonica ricoperta di biglietti. Aveva biglietti per lotterie inimmaginabili, tra le quali riuscivo a individuare i biglietti della Lotteria per la Pace e la Buona Azione, quelli della lotteria fiaba per una vita solidale e ancora molti altri, dalla lotteria Sogno & Realtà alla lotteria abbinata a Gran Premi per cavalli. La fisarmonica, vorrei descrivervela, ma non ci ho mai capito niente di strumenti musicali. “Come ha fatto a entrare da Salinger?”, ho chiesto. “Il lavapiatti”, ha fatto lui mentre sorseggiava il Lagavulin e faceva un tiro

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di Marlboro. “Gli ho lasciato giù quattro biglietti della lotteria nazionale e un gratta e vinci per sua moglie. Mi ha fatto entrare dal retro, dove non ci sono gli scimmioni in completo scuro”. Il cameriere ha chiesto se gradivamo qualcos’altro. “Sì”, ho detto, “un altro giro di Lagavulin. E due sigari”. “Dove sta il bagno?”, ha chiesto il tizio. Sarà stato più giovane di me, anche se la barba e i capelli trasandati non lo facevano presagire. “In fondo al locale, sulla destra, appena dopo la scultura di donna”, gli ho detto, e appena si è alzato mi sono messo a guardare la sua roba. Tra i biglietti aveva anche qualche fotografia. Mi sono abbassato per guardarle meglio. In una c’era il tizio un po’ più giovane con Alain Delon. Nell’altra era con due bambini. In un’altra ancora si teneva a braccetto con Carmen Russo e Amanda Lear. Mi sono messo a riflettere sul significato di queste fotografie. Quando è tornato si è seduto al suo posto e si è tracannato il Lagavulin con un sorso. “Questo gratta e vinci?”, mi ha fatto. “Vuole provare una vera delizia?”, ho chiesto accendendomi il sigaro. Ho ordinato un Port Ellen da collezione, fuori produzione, che puoi trovare solo da Salinger. Salinger è l’unico posto in città dove ti puoi sedere a un tavolo, berti un paio di whisky e fumarti una sigaretta o un sigaro senza che qualcuno ti si scaraventi contro sbraitando come un maiale. È un posto da signori. “Che ne pensa del gratta e vinci?”, mi ha chiesto dopo essersi acceso il sigaro. “Quest’anno i miei biglietti sono particolarmente fortunati, ne ho già venduti più di una dozzina vincenti”, mi ha fatto. “Quanto guadagna facendo quello che fa?”, gli ho chiesto. “Abbastanza. E poi arrotondo con le mance per la fisarmonica”, mi ha detto. Ha rovistato col mignolo nell’orecchia sinistra. “Dove ha imparato a suonarla?”, gli ho chiesto. “In strada, giù, in centro. C’era uno, un tipo grosso senza una gamba che la suonava alla grande. Rubava gli spiccioli ai barboni. Mi ha insegnato tanto, quel figlio di puttana”. A questo punto non sapevo più cosa dire, ma mi sono sforzato di trovare qualcosa per fare conversazione con quel tizio. Qualcosa che potesse in qualche modo interessarlo. “L’altro giorno un ragazzo sordomuto mi ha spillato ottanta centesimi”, ho attaccato. “Secondo me mica era sordomuto davvero; non so se qualcuno ha mai provato a urlargli all’improvviso nelle orecchie arrivando da dietro; salterebbe come un coniglio, quel bastardo, glielo dico io”. Forse si poteva offendere, ma lì per lì non mi era venuto in mente niente altro 23


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da dire. “La maggior parte di quei ragazzi ci sente benissimo. Passano da un locale all’altro con quei pupazzetti da quattro soldi e quando escono si infilano le cuffie per ascoltare quella musica rap buona solo per negri, amerindi e portoricani”, mi ha detto. “Le piace il Port Ellen?”, gli ho chiesto. “E comunque io vado in giro a vendere biglietti, non pupazzetti”, ha detto mentre si sgolava il bicchiere di Port Ellen. “Le piace il Port Ellen?”, ho ripetuto. “Preferivo il Lagavulin”, ha risposto lui. Avevo delle fitte al costato, come se qualcuno mi stesse pugnalando con uno stuzzicadenti; un lavoretto ben fatto, non doloroso ma estremamente fastidioso, da far scoppiare il cervello. “Lei deve essere davvero triste”, mi ha detto il tizio mentre si versava dell’altro Port Ellen. “Non più di tanti altri”, ho risposto io. “Probabilmente è la causa della rovina di una famiglia. Due figli? Tre? Un’amante? Sua moglie con l’esaurimento? Cose che capitano”, mi ha detto, infilandosi l’unghia tra gli incisivi. “Beva il suo whisky”, gli ho detto. “Non si abbatta, è più facile rovinare tutto che costruire qualunque cosa”, mi ha detto. Sono stato in silenzio cercando di fissare un punto nel vuoto. “Ma il gratta e vinci me lo compra o no?”, mi ha chiesto il tizio. “Prima non le andrebbe qualcosa da mangiare?” Il tizio ha annuito, così ho fatto un cenno al cameriere. “I signori gradiscono ordinare?”, ha chiesto il cameriere. “Per me un altro bicchiere”, ho detto. Il cameriere si è voltato verso il tizio con la fisarmonica. “Per lei, signore?”, ha detto. “Che c’è?”, ha chiesto il tizio. “Le consiglio di cominciare con il nostro piatto forte: Abbiamo cotto l’uovo”, ha detto il cameriere. “Cosa sarebbe?”, ha chiesto il tizio. “Un uovo, signore. Cotto”, ha risposto il cameriere. “In pratica un uovo sodo”, ha confermato il tizio. “Se preferisce chiamarlo così”, ha detto il cameriere. “Un dolce natalizio ce l’avete?”, ha chiesto il tizio. “Se vuole cominciare con un dessert, le consiglio la nostra magnifica Sfera di pandoro semifreddo con mousse al cioccolato bianco”, ha detto il cameriere. “Prenderò un altro whisky”, ha detto il tizio. Il cameriere se n’è andato. Il tizio dei Gratta e Vinci si è guardato un po’ attorno, come se stesse cercando qualcuno. Ma non stava cercando nessuno. 24


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“A Natale siamo tutti più buoni?”, ho chiesto al tizio. “Credo proprio di no”, ha risposto lui. “Ma potrebbe dimostrarmi il contrario comperando un biglietto della lotteria”. “Mi è venuta un’idea”, ho detto. “Perché non suona un po’ la sua fisarmonica?”. Salinger è un vecchio ristorante in stile anglosassone con uno splendido parquet d’epoca e numerosi quadri alle pareti, molti dei quali davvero preziosi, come un Modigliani e un Dalì, ricevuti in dono dai pittori stessi. È il ristorante più antico della città, il più costoso, il più rinomato; è frequentato da politici, industriali, imprenditori, cantanti, scrittori e giornalisti. “Non mi sembra il caso”, ha risposto lui. “Andiamo, di cosa ha paura?”, gli ho fatto io per incoraggiarlo. Si è guardato un po’ intorno. Si è aggiustato la patta dei pantaloni. “Conosco i proprietari del ristorante”, gli ho detto. Si è chinato verso la fisarmonica e se l’è messa a tracolla. Era davvero ridicolo. “Ha qualche preferenza?”, mi ha chiesto. “Qualcosa di natalizio”, ho risposto. Lui ha chiuso gli occhi come se stesse pensando a qualcosa, come se stesse cercando di ricordare le note di una particolare canzone. Poi li ha riaperti improvvisamente, ha bevuto un sorso del suo whisky. “Allora comincio”, ha detto. “Il cappello”, gli ho detto. Si è infilato il cappello e ha cominciato a suonare O Tannenbaum con la fisarmonica, in principio dolcemente poi sempre più rumorosamente. Non era neanche malaccio. “Continui così”, gli ho detto, cercando di far sentire tutto il mio incoraggiamento. Nel locale si sono girati tutti verso il mio tavolo. Fuori era una giornata fredda, ma un buon camino aggiusta tutto, se puoi permettertelo. Il tizio ci stava dando dentro alla grande, era uno spettacolo pietoso. Trenta secondi dopo sono arrivati gli scimmioni in completo scuro e hanno fatto sloggiare il tizio con la fisarmonica e tutti i suoi dannati biglietti della lotteria, del teatro e dei concerti. “Stiamo andando alla deriva”, ho detto a quelli del tavolo più vicino al mio. Mentre lo trascinavano fuori dal locale a calci, il tizio mi ha guardato con occhi cattivi. “Buon Natale”, gli ho detto, e mentre lo facevo ho stracciato quel suo maledetto Gratta e Vinci. Qualcuno, al tavolo di fianco al mio, ha detto: Abbiamo cotto l’uovo. Gli altri hanno riso. “Signori, non siate scortesi”, ho detto io voltandomi, “è Natale”. 25


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Poi ho potuto ordinare il maialino di Cinta senese alle bacche di pepe Sichuan e ananas candito seguito da astice in doppia salsa spumosa e me ne sono rimasto per i fatti miei, senza impiccioni puzzolenti, a festeggiare Natale godendomi i piaceri della buona tavola, confortandomi nel pensiero che se a Natale tutti i buoni sono piÚ buoni, allora tutti i cattivi, per tutelarsi, avrebbero dovuto essere un po’ piÚ cattivi.

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ZAMPONE E LENTICCHIE di Donato Alfonso Sedàan Lo zampone mi ha sempre fatto schifo. Dai che cazzo, guardalo. È una zampa di porco infilata nella minestra. Oltretutto con le lenticchie è un abbinamento orrendo. Sembra qualcosa raccolto direttamente nella porcilaia. Insomma prendi un porco, gli tagli un arto, lo getti nel fango, prendi tutto con un badile, lo metti in un piatto e lo servi a tavola tra agrifoglio e candele rosse. Dimmi che non fa schifo. Ma tu l’hai mai toccato un cotechino? Cotto, dico. La pelle esteriore diventa gelatinosa. È appiccicaticcia, collosa. È una bava compatta che si sfalda tra le dita, che assume la consistenza del muco. Hai davvero il coraggio di chiamarlo piatto delle Feste? E poi io me le ricordo le Feste di tre anni fa, quando zio K. ci ha quasi lasciato le penne. Che fesso! Adesso che ci ripenso noto come zia H. avesse la pelle dello zampone. Le guance erano della stessa consistenza, colore giallognolo e puntinate di bianco e rosso. Qualche vena verdastra era affiorata intorno al mento. Quella sera zio K. invece continuava a ridere e bere, bere e ridere inframezzando l’alternanza con un’abbondante forchettata di lenticchie. Che scena del cazzo, già qui sarebbe sufficiente per voler smettere di ricordare. Zio K. a furia di ridere e ingozzarsi di lenticchie si stava strozzando. Aveva la faccia rossa paonazza, un conato gli gonfiò le guance poco prima che un’esplosione di tosse gli fece sputare sulla tavola tutto quello che aveva in bocca. Le lenticchie, merda, le lenticchie erano volate ovunque. Alcune masticate, altre ancora intere. Ce n’erano che galleggiavano nei bicchieri, n’erano finite nei piatti degli altri commensali, qualcuna bruciò tra le fiamme delle candele e altre finirono nelle applicazioni di finta pelliccia della giacca della moglie di zio R. che gli sedeva di fronte. Si alzarono quasi tutti da tavola a soccorrere lo zio K. o era solo una scusa per allontanarsi dalle lenticchie sputate ovunque sulla tovaglia. Io no, io stetti a sedere al mio posto insieme a T., la guardavo respirare a narici larghe cercando di calmarsi, ignara di quello che stava succedendo sul suo volto, ignara di quella lenticchia che oscillava nella fossetta di cupido coccolata dal tremolio del labbro. Finchè un’inspirazione più profonda delle altre la fece sparire nel suo nasino alla francese. No, perdiana, togliete dalla tavola quel cazzo di zampone con le lenticchie! No, perdiana, togliete dalla tavola quel cazzo di zampone con le lenticchie! 28


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la cena di natale di Svetlana Svetla La cena di Natale con la famiglia del suo fidanzato. Stavano insieme da un po’ ormai, ma di incontri con le famiglie di entrambi ce n’erano stati solo un paio. Per fortuna. Era una fortuna, pensava lei, diversi com’erano ogni volta era una pena. Due mondi diversi costretti nella stessa stanza con la loro visione di ogni singola cosa agli opposti. E quegli opposti non si incontravano mai, e nemmeno si avvicinavano. Succedeva sempre così, irrimediabilmente così: quando erano insieme si arroccavano ognuno sulle proprie posizioni. E questo si traduceva in una paradossale situazione fatta di chiacchiere e cordialità, senza mai silenzi imbarazzanti od eloquenti. No, quello non succedeva. Qualche rara volta al massimo ci si poteva avvicinare ad un silenzio imbarazzato ma poi il rischio veniva sempre scongiurato da una nuova proposta di argomento. L’argomento, gli argomenti. Tanti, vari, mille possibilità, infiniti appigli, un fluire di stimoli da cogliere, ma non succedeva. E non succedeva perché non c’era dialogo. Nessun dialogo, nessuna comunicazione, nessuno scambio. Due linee parallele che non si incrociavano mai, mai. Si avvicinavano di continuo, ma non un contatto, anche solo di striscio. Un dialogo tra sordi. Una pena per lei. Una grandissima pena, perché le due linee erano quelle della sua famiglia e della famiglia di lui, tenute insieme con la forza in nome delle convenzioni sociali che volevano che tra i due clan si intrattenessero rapporti, anche se forzati. E quale migliore occasione della cena di Natale per rispettare la tradizione? Lei non avrebbe voluto, ma sua madre, con la generosità che le era propria, decise di invitare tutti a casa sua. Suo padre si diede da fare per cercare le migliori leccornie, battendo supermercati e gastronomie. Sua madre aveva in mente un menù delle feste da Cucchiaio d’Argento di tutto rispetto e lei pensava che questa ottima premessa per la serata sarebbe stata il prodromo dello sfacelo. Lo sapeva, lo sentiva. Lo disse ai suoi, disse loro di scegliere cose semplici, non elaborate, di quelle che mangi tutti i giorni, niente sciccherie, niente raffinatezze e ricercatezze perché non solo non le avrebbero capite, ma le avrebbero anche disdegnate. Ma suo padre le rispose che era casa sua, la sua tavola e loro sarebbero stati suoi ospiti e lui e sua madre avrebbero mantenuto fede all’impronta di famiglia delle grandi occasioni, e non l’avrebbero cambiata per nessuno ed erano certi che l’altra parte avrebbe comunque apprezzato. Comunque apprezzato. Comunque apprezzato. Le risuonavano queste parole che sarebbero state le ultime parole famose e così fu. Arrivò la sera del 24. La cena si sarebbe tenuta nel salone di casa. La tavo-

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la era meravigliosamente imbandita. La tovaglia di fiandra bianca, i piatti e il sottopiatto, le posate, il poggia posate a forma di cane bassotto che sua madre aveva ricevuto in dono non ricordava più in quale festa a casa sua, il piattino per il pane, la porcellana fine con quei delicatissimi fiori di glicine tra il lilla e il pervinca sul bordo, i calici di cristallo col quell’impercettibile filo blu nello stelo, era tutto bellissimo. La tavola di casa sua non era mai stata così bella. Che spreco, pensò. Le si stringeva il cuore a vedere quanto lavoro c’era dietro, a vedere il volto sorridente ma stanco di sua madre per la giornata trascorsa ai fornelli e il sorriso di suo padre nelle vesti di padrone di casa. L’avevano fatto per lei, per la loro figlia, la figlia fragile e provata dalla vita, la figlia che era tutto, la figlia da cui non avevano potuto stornare il dolore. Era per lei quella meraviglia, lei lo sapeva, lo sapeva benissimo, ma sapeva anche che sarebbe stata la premessa per l’umiliazione a cui stavano andando incontro. Poveri amatissimi genitori, povera lei. Gli stolti, i gretti stavano per arrivare, di lì a pochi minuti, sarebbe stato lo sfacelo, era praticamente certo. Era stato un problema anche convincerli a venire. Non erano adusi a festeggiare il natale la sera del 24, avevano accettato di malavoglia, perché costretti, perché lei aveva insistito, aveva dovuto insisitere. C’era voluta anche una telefonata dei suoi per convincerli. E lei sperava in un no che non arrivò perché sarebbe stato maleducato rifiutare. Maleducato ma onesto. Ma le convenzioni sociali non prevedono l’onestà. Il citofono, le scale, eccoli. I saluti, i sorrisi, i cappotti sul letto della camera da letto, e poi seduti a tavola, comincia la cena. Culatello, carpaccio di manzo, Asiago giovane e Montasio, cavolfiore gratinato, bignè all’insalata russa, vol-au-vent alla mousse di tonno, frittelle di baccalà al seme di finocchio, frittatina di spinaci e ricotta. Il più e il meno nei discorsi: il tempo umido, il fastidio dei petardi, e un no ad ogni portata, un non ne mangio, non mi piace, cos’è questo. E suo padre lo spiegava cos’era questo, sorridente, affabile, paziente, ma lo assaggiavano appena dopo averci giocato con la forchetta sbrindellandolo in pezzi. Tagliolini al limone il primo piatto, e la cognata stanca e i suoi quando ce ne andiamo. I suoi genitori non potevano non accorgersene ora di quell’aria sui loro volti che diceva non volevo venire, ma più lo vedevano, più se ne accorgevano più diventavano gentili, più cercavano argomenti di conversazione nuovi, che duravano poco come gli altri. Perché non avevano molto in comune, quasi niente, anzi, e suo padre sembrava farlo apposta a scegliere argomenti che loro nemmeno comprendevano. La direzione d’orchestra della Filarmonica di Vienna per il concerto di Capodanno ricevette come commento che i maestri d’orchestra cacciano via le mosche con tutto quell’agitare di braccia. Ma perché? Perché non stare zitti? Perché non limitarsi a mangiare e basta? Perché commentare così, perché trovare solo argomenti completamente inadatti a quegli ospiti? Invocava il silenzio, cercava di intromettersi e portare il discorso su argomenti in cui avrebbero dovuto rispondere a lei e non ai 30


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suoi. I suoi che sfoggiavano cultura e savoir vivre, non l’avevano mai fatto, con nessuno, perché lo facevano ora con quella gente? Quella gente aveva partorito l’uomo con cui stava e lei vedeva tutto, tutto quello che non era ma sarebbe stato, e si diceva che lei stava col figlio, non con loro, ma sapeva che non potevano le due cose essere scisse. La differenza abissale sarebbe stata evidentissima molto presto, e quella sera trovò il coraggio di ammettere a se stessa che già si intravedeva, in realtà. Al roast beef di manzo con purè di patate ricollegò tutto: tra lei e lui era già tutto come quella cena, linee parallele che non s’incontravano se non era lei a ingoiare rospi e ad avvicinarsi a lui, secondo le sue modalità, o guai, dimenticandosi di sé stessa, o guai. O guai. Guai che temeva, che non voleva nemmeno a concepire di avere perché aveva paura, anzi era terrorizzata da lui, terrorizzata, era questa la verità. Lui era capace di un sottile gioco di prepotenza e supremazia che le toglieva ogni briciolo della sua già scarsa fiducia in sé stessa. E ora lui e la sua famiglia erano lì, riveriti come pascià dai suoi che in fondo si stavano umiliando, come lei stava facendo con lui. Sentì una stretta allo stomaco, la stanza le girava intorno, le orecchie le fischiavano, per un attimo non vide più nulla. Ma fu solo un momento, e non se ne accorse nessuno, tutti presi nel proprio ruolo di sudditi e regnanti al contrario. La sorella stanca frignava, come una ragazzina capricciosa, nonostante i suoi trent’anni i suoceri erano ormai arrivati al disappunto aperto di tanto ben di dio e di tanta gentilezza, e lui…lui non faceva altro che lodare la cucina di sua madre ad ogni portata, per partito preso, ormai, per affermazione di supremazia su lei e su loro e i suoi genitori continuavano a prostrarsi. Lei capiva perché. Nella loro filosofia perché ormai gli ospiti si erano rivelati per quel che erano anche ai loro occhi e la gentilezza sincera si era trasformata ormai in strumento per evidenziare la loro pochezza, era diventata ormai gentilezza affettata calcata da gesti come sbattere il piatto davanti all’ospite ma col sorriso sulle labbra e le belle parole in bocca. Lei nemmeno provava più a tentare di arginare i danni, l’odio le covava in ventre. Uscì da se stessa e osservò la scena dal di fuori: era il paradosso. Un autentico paradosso. Si offrì di andare in cucina a prendere la mousse all’arancia, quella l’aveva fatta lei. La portò in tavola, si disse che le era riuscita particolarmente bene e nel tragitto tra cucina e salone le tremavano le gambe e le mancava il respiro ma neanche stavolta lo diede a vedere. Si fece forza, la rabbia la riempiva di adrenalina. Poggiò il piatto sul tavolo con delicatezza e cominciò a riempire i piattini col dolce, ma non li porse agli ospiti, li tenne davanti a sé, intimando alla suocera che si stava alzando solerte per aiutarla di star ferma con un tono di voce gentile ma fermo e più alto del solito. Solo quando ogni piattino di porcellana bavarese ebbe la sua fetta e il suo cucchiaino lo prese e lo portò agli ospiti, lo mise davanti a loro e con rapidità fulminea pugnalò col coltello della carne il primo alle spalle e gli versò lo spumante nel bicchiere. Fece così per ognuno. Nessuno si mosse dopo i primi schizzi di sangue sulla mousse, 31


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nessuno. Nemmeno quando le teste ricadevano sui piatti, nemmeno quando uno di loro chiese aiuto con un sibilo di voce strozzata. Nessuno. Tutti pietrificati, ospiti e padroni di casa. Si muoveva solo lei. Ora l’ordine, il suo ordine, era stato ripristinato.

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PANETTONE AL CIOCCOLATO BIANCO, MARRON GLACÈ E ZUCCHERINI di Alez Non è solo trasgressione, non è il gioco di due persone troppo adulte, è una rivincita. Sì, ecco cos’è. È la tua rivincita verso il mondo, verso le mode, gli stereotipi che ti vorrebbero vedere fuori dal gioco della seduzione dei sensi. Ti vorrebbero vedere fuori dal baccanale lussureggiante delle curve toniche e modellate. Forme perfettamente emisferiche che fanno la fortuna di specialisti dello svuotamento e della farcitura. Sei bellissima, nonostante il nostro matrimonio non sia più fresco mi rendo conto di avere a fianco una donna ancora molto attraente. L’ilarità del momento, la gaiezza figlia della nostra complicità e il tuo corpo nudo che corre sulla spiaggia deserta e bianca. Hai raccolto la sfida senza esitazione e ti sei liberata di un costume che, a ben pensarci, non ha nessun senso indossare. Te ne sei liberata a scanso di un seno che ha perso il suo tono come gomma cotta al sole e di un sedere che è diventato un ingombro e così, bianco e senza costume né abbronzatura, sembra ancora più grande. Ti guardo correre come una bambina verso il mare mentre la brezza mi rimanda il suono delle tue risa e il tuo profumo. Non smetto di guardarti quando torni indietro spaventata dalla freddezza dell’acqua prematura per il bagno e facendomi una smorfia mi rimproveri di non avere avuto il tuo stesso coraggio. Sì, io non me lo sono tolto il boxer e probabilmente stavo aspettando proprio questo momento perchè mi piace il modo come me lo stai sfilando, con dentro gli occhi quella luce che avevamo da bambini quando giocavamo nel cortile della scuola all’intervallo. Sono nudo anche io e non provo nessuna vergogna, nessun pudore, anzi mi piace questo brivido che nasce dal trasgredire una convenzione di cui, ora, non me ne importa proprio niente. Siamo Adamo ed Eva, questa spiaggia è il nostro paradiso e improvvisamente non abbiamo più bisogno di foglie di fico. Fai del mio costume una bandiera e correndo mi sfidi a prenderti. Accetto e ti corro dietro, assaporando il vento passarmi attraverso parti del corpo che altrimenti non ne avrebbero mai goduto. La corsa ormai pesante scuote tutto il mio corpo, ma se l’ondeggiare della pancia era una sensazione nota, non lo è sentirmi sbattere i testicoli sulle cosce. Ti raggiungo, afferro il mio costume e mi lascio cadere nella sabbia trascinandoti su di me. Ti abbraccio. Abbiamo il respiro affannoso ma non distogliamo lo sguardo dagl’occhi dell’altro. Mi dici che mi ami, ti rispondo che mai avrei potuto desiderare una donna che non fossi tu, mi baci e mi confessi che mi sposeresti tutte le vite che possa vivere. 33


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31 dicembre di Movimento Vegano per l’illuminazione e l’eventuale soppressione delle Coscienze Carnivore

30 dicembre Al mattino Aziz Achmet tiene l’Equilax™ nascosto in un cassetto e non lascia che mi faccia la mia dose. Assume Equilax™ in solitudine, non diluito, direttamente dalla pipetta, seduto per terra, fissando la finestra in continuazione e borbottando nervosamente: “Mangiare animali è il male. Chi uccide animali sfregia la Natura. Chi sfregia la Natura deve morire”. Io m’innervosisco perché vorrei prendere la mia dose mattutina, ma Achmet dice che quel flacone è solo suo. Non so intendere l’atteggiamento di Aziz se non con una sorta di antipatia nei miei confronti. Domando agli altri ma gli altri mi ripetono di stare tranquillo, che Aziz è così di natura e che nei giorni che precedono un’operazione diventa intrattabile. Abrel dice che dobbiamo solo attendere che venga il momento, dopo di che la gioia per l’esito della nostra operazione riempirà i nostri cuori e ci farà stare meglio. Siamo rinchiusi in questo scantinato da una settimana, in attesa che venga il momento. Nessuno di noi sa con esattezza quando verrà il momento, ma ciascuno di noi sa che quando il momento verrà, qualcuno ce lo farà sapere, e allora sarà ora di agire. Quando sarà ora di agire, festeggeremo capodanno come Dio comanda, anche se Aziz Achmet continua a ripetere che per lui il nostro capodanno è privo di senso, che per lui il 31 dicembre è un giorno come tutti gli altri e altre stronzate del genere. Lo scantinato non è male. Il pavimento è pulito e lo spazio non manca; siamo in quattro e ognuno di noi ha una stanza per sé, ottima per i momenti di intimità e riflessione; la libreria è ben fornita, ma del resto non siamo qui per leggere. Abrel assume la sua dose di Equilax™ e anche Itzak assume la sua dose di Equlax™. Io sono in astinenza totale da tutti i componenti base di Equilax™, ovvero Acqua, Alcool, Senna (Cassia angustifolia, foglie), Malva (Malva sylvestris, fiori), Paritaria (Paritaria officinalis, sommità), Ramno (Rhamnus frangula, corteccia), Acacia (Acacia catechu, fiore), Anice stellato (Illivium verum, semi), Finocchio (Foeniculum vulgare, semi), Lavanda (Lavandula officinalis, fiore), Asparago (Asparagus officinalis, radice), Melissa (Melissa officinalis, sommità).

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Sento che se non assumo subito almeno sessanta gocce di Equilax™ il mio corpo inizierà una inesorabile decomposizione, il mio organismo sarà sconvolto, il mio sistema immunitario si ribellerà e io sarò preda di spasmi intestinali, emicranie, dislessia e cancro. Ciononostante Abrel dice che nessuno di noi può avvicinarsi a una farmacia. Tengo duro, anche se non so per quanto potrò resistere. Chiedo a Itzak una dozzina di gocce ma Itzak risponde che ne ha a sufficienza soltanto per lui. Ognuno pensa solo a sé stesso. Stiamo sei ore a osservare la macelleria. Chi entra, chi esce. Guardiamo il macellaio quando viene a fumare sul marciapiede. Teniamo d’occhio la situazione. Prima di cena ci raccogliamo, oltraggiamo i carnivori tramite operazioni di training autogeno e ripetiamo insieme il motto della nostra Organizzazione: “Mangiare animali è il male. Chi uccide animali sfregia la Natura. Chi sfregia la Natura deve morire”. Per cena mangiamo hamburger di soia con verdure bollite. Tutti si sparano una dose abbondante (novanta/cento gocce) di Equilax™ tranne me. Dopo cena dobbiamo compilare il modulo d’accertamento che ogni mattina un membro della nostra Organizzazione ci lascia nella posta. Prendiamo le buste, apriamo le buste, estraiamo il modulo, leggiamo e compiliamo. Quante volte al giorno pensi alle foche trucidate dai bracconieri? Diverse. Sogni mai tacchini, maiali e vitelli squartati sulla tavola del cenone di Capodanno? Talvolta. Hai ripetuto il motto della nostra organizzazione con gli occhi pieni di rabbia nei confronti dei carnivori? L’ho ripetuto. Quante volte? Una dozzina. Quando piove, pensi ai rospi che verranno schiacciati dai copertoni delle automobili in corsa? Capita. Stai riflettendo sulla possibilità di sacrificare la tua vita per salvare quella di un animale? Ci rifletterò. Il nostro compito è quello di combattere e alfine sgominare l’imperante Fleischgeist della nostra civiltà. Il Fleischgeist si sgomina un mattone per volta, un’azione per volta. Che azione hai fatto tu, oggi, per sgominare il Fleischgeist? – chi sta preparando un’azione può non rispondere alla domanda – non rispondo. Quando abbiamo compilato il modulo dobbiamo inserire il modulo compilato nella busta, richiudere la busta e infilarla nella casella della posta; un addetto dell’Organizzazione passerà a ritirarla il mattino seguente, prima di lasciare un’altra busta con un nuovo modulo da compilare. Scrivo una richiesta per un flacone di Equilax™. Subito dopo Itzak intona il nostro motto e ci legge a voce alta Eating Animals di Jonathan Safran Foer. Ci eccitiamo. 35


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Prima di coricarci Abrel ci prepara un chutney di banane rosa. Mangiamo con gusto. Abrel è il cuoco migliore dell’Organizzazione. La dotazione per questo genere di operazioni consiste in un grosso ricettario di cucina etica tratto dal sito internet Vegan3000, indispensabile per trascorrere lunghi periodi lontani dalle nostre case, e una marmitta norvegese per i piatti che richiedono una cottura prolungata come legumi e cereali. Abbiamo passato tutta la giornata a osservare i carnivori entrare e uscire dalla macelleria e abbiamo bisogno di addolcirci. I carnivori imbrogliano con facilità, mentono, non mantengono le promesse, sono disonesti e volgari, rubano, picchiano e commettono crimini sessuali. Il bisogno di carne li costringe a comportarsi in questo modo. Sarebbero disposti a diventare cannibali. Guardiamo il dvd dell’ultimo rogo editoriale. Bruciano Moby Dick, Il vecchio e il mare, Horcynus Orca, eccetera. Giochiamo a freccette sulla faccia di Hemingway con la barba bianca e il dolcevita. Fantastichiamo di incendiare la catena McDonald. Gli altri si sparano una dose di Equilax™, io no. Prevedo una notte d’inferno. Infatti sogno tacchini, maiali e vitelli squartati sulla tavola del cenone di Capodanno e un gruppo di cannibali in giacca e cravatta che si avvicinano per mangiarmi. Mi sveglio di soprassalto e cerco di rilassarmi camminando avanti e indietro.

31 dicembre Per colazione Abrel prepara spaetzle al tofu affumicato. Aziz Achmet si fa cinquanta gocce di Equilax™ sotto al mio naso e io mi innervosisco. Chiedo di uscire per andare in farmacia, ma mi viene impedito. Salgo al piano sopra, apro la cassetta della posta e c’è una busta sola, più grande del solito. Torno nello scantinato e la apro: c’è scritto che due di noi devono “prendere contatti con l’obiettivo”. Ho un tuffo al cuore. 36


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Abrel dice che bisogna sorteggiare i due che dovranno prendere contatti con l’obiettivo. Mettiamo quattro bigliettini chiusi sul tavolo. Itzak pesca i due nomi. Usciamo io e Aziz Achmet. Itzak mi guarda e mi appoggia una mano sulla spalla. Abrel si volta dall’altra parte. Aziz Achmet tira fuori il suo flacone di Equilax™ e butta giù quaranta gocce. Per farci coraggio recitiamo il nostro motto tutti insieme. Itzak dice: atteggiamento scientifico. Abrel dice: per il cenone di Capodanno preparo arrosto di seitan all’uva e pâté provençal sucré-salé. Appena dentro la macelleria mi viene da vomitare. Afferro il portaombrelli e mi ci chino sopra, ma non vomito nulla. Ho evidenti conati. Non ci sono clienti e il macellaio mi guarda con curiosità. Tutto bene? Mi dice il carnivoro bastardo. Non rispondo. Aziz Achmet prova a non guardare i quarti di bue che ci circondano, i conigli scuoiati, le salcicce che pencolano dal soffitto. Alza lo sguardo e nota il lupo e il fagiano imbalsamati. Dalla parte opposta c’è un agnello aperto in due con le costole in evidenza. Afferra con due mani il portaombrelli e ci vomita dentro. Il macellaio osserva la scena impassibile. Ha un coniglio intero sul tavolaccio; sangue sul grembiule e sulle mani; c’è sangue dappertutto. Come posso servirvi, dice. Aziz Achmet si sta pulendo la bocca e non riesce a parlare, io non so bene cosa dire. Cosa siete drogati, dice il carnivoro bastardo. Penso alle parole di Itzak. Ha mai sentito parlare della ricerca scientifica condotta dalla Diminutive Male Genitalia Disorder Research Organization (Dmdgdro)? Dico io. Il carnivoro bastardo mi guarda con aria interrogativa. Si capisce subito che non ha mai sentito nominare in vita sua la Dmdgdro. Quella ricerca scientifica, continuo, dimostra abbastanza definitivamente che il legame tra ciò che noi chiamiamo l’emozione di uccidere e un pene più piccolo rispetto alla media è statisticamente significativo. Aziz Achmet si guarda intorno, vomita ancora. Chiedo scusa, dice. Lascia perdere, dico io. Il carnivoro bastardo mi guarda dritto con quei suoi occhi bastardi e carnivori. Sono occhi hemingwayani, da bastardo cacciatore, da uccisori di animali. Ho capito tutto, dice. 37


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Afferra una specie di mannaia e stacca di netto la testa al coniglio. Il tonfo è dapprima sordo, poi netto. Ho i brividi. Sto sudando. Mi viene da vomitare, ma resisto. Aziz Achmet non resiste. Il carnivoro bastardo non è tanto grosso, penso, se dovesse venirmi incontro sarei in grado di difendermi. Lo tengo d’occhio mentre esce dal bancone e viene dalla nostra parte. D’istinto mi copro la faccia con le mani. Ho paura. Stia indietro, dico. Ho la voce un po’ tremante. Il carnivoro bastardo si ferma a un metro da noi; toglie il grembiule, si slaccia la cintura, tira giù pantaloni e mutande. Gli ciondola un pene enorme. Sarà lungo venticinque centimetri. Fuori dai coglioni, dice. Ci leviamo di torno, Aziz Achmet con il portaombrelli sottobraccio, io incespicando nel marciapiede. Strappo l’Equilax™ dalle mani di Aziz, mi sparo cento gocce. A cena mangiamo l’arrosto di seitan all’uva e il pâté provençal sucré-salé. Nel pâté manca un po’ di sale. Prova tu a cucinare con questa agitazione addosso, dice Abrel. L’arrosto di seitan invece è ottimo. Per mezzanotte ho un panettone con tofu e alghe che vi farà impazzire, dice Abrel. Un’ora prima di mezzanotte scendiamo per preparare i botti. Piazziamo l’esplosivo all’ingresso della macelleria. Quando torniamo su, ci scambiamo felicitazioni e qualche dono. Aziz Achmet si incazza. E rilassati un po’, gli dice Abrel. Mi rilasso un corno, dice Aziz Achmet. I soliti musulmani, dice Itzak. Per me Capodanno è un giorno come un altro, ripete Aziz Achmet. Ma che ti frega, dice Abrel. Scambiarsi doni e altre cazzate per l’inizio del Muharram non è soltanto bid’a, ma haram, dice Aziz Achmet. Nessuno lo contraddice, perché nessuno sa una parola di quel cazzo di arabo. A mezzanotte meno cinque ci mettiamo comodi. In televisione c’è Carlo Conti. Seguiamo il conto alla rovescia della Rai. A mezzanotte osserviamo la macelleria mentre fa un bel botto e festeggiamo il nuovo anno. Tutti tranne Aziz Achmet. Poi mangiamo il panettone tofu e alghe.

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