Scorretto Magazine 7- Sette

Page 1

Scorretto Magazine – Sette

1


Scorretto Magazine – Sette

2


Scorretto Magazine – Sette

Scorretto Magazine #7|Marzo 2017

DIRETTORE (NON) RESPONSABILE Fabio Martellini REDAZIONE SCORRETTA Aldo Bagnoni, Amelia Rossi, Artanis Naanìe, Claudio Ricci, Donato Alfonso Sedàan, Edward Dwight Eugene Navarro, Fabio Martellini, gian marco griffi, Gianluca Dario, Helenio Ferrante, Lollo, Pietro Zanterlo, Roberta Pagnoni, Svetlana Svetla, 浪人, Silvia Perosino HANNO COLLABORATO Typing Mela, Eraldo Ghietti GRAFICA E IMPAGINAZIONE Lestath87, Artanis Naanìe, Silvia Perosino DIRETTORE CREATIVO Andrea Andereassen (Port Huron High School) COPERTINA Silvia Perosino CONTROCOPERTINA Lestath87 (digital art)

Pubblicazione casuale scorrettomagazine.wordpress.com redazionescorretta@gmail.com

3


Scorretto Magazine – Sette

Indice Pag. 6

Editoriale

di Fabio Martellini

Pag. 7

Haiku

di 浪人

Pag. 8

Sette sette in sette sette per ogni sette sette in sette sette ognuno

di Ulisse Carlini

Pag. 9

Tre sette, forse quattro

di Alfonso Donato Sedàan

Pag. 13

In Voluptas Mors

di Roberta Pagnoni

Pag. 17

L'uno e il sette

di Pietro Zanterlo

Pag. 20

La trappola

di Claudio Ricci

Pag. 22

Di sette in sette

di Gianluca Dario

Pag. 25

Te ne restano due

di Aldo Bagnoni

Pag. 28

Le sette tette

di Artanis Naanie

Pag. 31

Il magico numero sette

di Typing Mela

Pag. 34

Il Tresettebello

di Lollo Rapets

Pag. 36

E fu sera, e fu mattina – Gaspare III

di Artanis Naanie

4


Scorretto Magazine – Sette

Pag. 41

Sette mesi

di Svetlana Svetla

Pag. 44

Immobile e silente

di Esther Nazione

Pag. 47

Una cittĂ di sette

di Helenio Ferrante

Pag. 54

Haiku

di Aldo Bagnoni

Il binario - scorrezioni Pag. 12

Agata

di Artanis Naanie

Pag. 19

Guido

di Gianluca Dario

Pag. 23

Genocleppo

di Lollo Rapets

Pag. 30

Bethania

di Amelia Rossi

Pag. 40

Vincenzo

di Gianluca Dario

Pag. 46

Adelina

di Lollo Rapets

Pag. 53

La sferruzzante

di Roberta Pagnoni

5


Scorretto Magazine – Sette

EDITORIALE di Fabio Martellini A chiedere alle persone quale sia il proprio numero preferito, con stragrande maggioranza vi sentireste rispondere il 7. Forse perché 7 ricorre in molti aspetti della nostra vita: la settimana è fatta di sette giorni; 7 sono i pianeti visibili nel cielo; 7 è l’unico numero tra l’1 e il 10 che non può essere moltiplicato o diviso all’interno del gruppo. Nel Cristianesimo ci sono 7 peccati capitali, 7 sacramenti, 7 arcangeli, mentre nel Giudaismo la menorah a 7 bracci simboleggia la creazione in 7 giorni. 7, peraltro, è il numero buddista della completezza. In fisica, 7 sono i colori dell’arcobaleno. E in astronomia: 7 sono i cieli dell’antichità. 7 sono le stelle più luminose delle costellazioni dell’Orsa maggiore e dell’Orsa minore. 7 sono i nani di Biancaneve, 7 sono le proverbiali vite di un gatto e 7 gli anni di sfortuna, al 7° anno di matrimonio la crisi coniugale. Ci sono poi le 7 arti liberali, essere al 7° cielo e fare il giro delle 7 Chiese. Da questa attrazione per il 7 non sono esclusi nemmeno i giochi e gli scherzi. Nella scopa il “7bello” è l’unica carta che da sola vale un punto e il dado, nonostante abbia sei facce, ha la particolarità che la somma delle facce opposte sia 7. Senza contare che tutti i bambini – almeno una volta nella vita – avranno subito il classico “Bubu7te!” da genitori o parenti. Il personaggio creato da Ian Fleming, l’agente segreto britannico James Bond, aveva come nome in codice zerozero7. 7 erano i Samurai nel capolavoro di Akira Kurosawa e i magnifici nel film di John Sturges. Quando ancora i numeri facevano la storia del calcio, il 7 era l’ala destra: funamboli sulla linea del fallo laterale, sfruttatori di praterie di contropiede, le “ali” del pallone erano artisti e folli in un calcio dove valeva la sola legge dell’uno contro uno: del centravanti contro lo stopper, del trequartista contro il mediano, dell’ala contro il terzino. Potremmo continuare a cercare una risposta, ma suderemmo 7 camicie.

6


Scorretto Magazine – Sette

7


Scorretto Magazine – Sette

SETTE SETTE IN SETTE SETTE PER OGNI SETTE SETTE IN SETTE SETTE OGNUNO, OVVERO: IL PRIMO RACCONTO CHE HA DEI SETTE COME PROTAGONISTI

di Ulisse Carlini

C’era una volta sette sette che andavano in sette sette ognuno, ma loro erano litigiosi perché ognuno voleva più sette degli altri. Un giorno fecero ognuno sette figli, e allora si misero a rubarsi i figli a vicenda e un giorno i sette figli dei sette sette compirono sette anni, e allora ogni volta che qualcuno cercava di rapirli al rapitore davano sette pugni e sette calci. Un giorno i sette figli dei sette sette fecero figli, e il giorno dopo i sette sette morirono, e nell’inferno si sentono ancora le loro sette grida ognuno, e queste non se le possono rubare.

8


Scorretto Magazine – Sette

tre sette, forse quattro di Alfonso Donato Sedàan

Era ormai passato da pochi minuti l'orario dell'appuntamento, quando Max e Giuditta bussarono alla porta di Michele. «Che cazzo di messaggio mandi, che se lo legge qualcuno siamo fottuti!» «Hey ciao, eh?!» Sottolineò Michele l'arrogante entrata di Max nel piccolo appartamento, poi si lasciò conquistare dai capelli biondi di Giuditta e la baciò sulle guance dimenticandosi di tutto il resto. «Dico che quello che facciamo non vorrei si sapesse in giro, chiedo troppo?» «E io dico solo che ti ho chiamato perché se non troviamo una soluzione, quello che facciamo non lo faremo più.» Intanto Michele fece cenno ai due di accomodarsi. Giuditta si lasciò cadere nella poltrona, Max invece preferì restare in piedi e camminare per la stanza, era irrequieto e voleva sapere cosa fosse accaduto di tanto grave. «Racconta, allora. Che cazzo è successo stavolta?» I suoi occhi erano due braci puntate su Michele, così neri che sembrava non avessero pupille. «Volevo aspettare anche gli altri. Insomma, volevo fare un discorso unico.» «Viene anche Riccardo?» Chiese Giuditta con una particolare eccitazione nello sguardo, distogliendo l'attenzione dal quaderno sul quale aveva iniziato a scarabocchiare qualcosa. «No, non può, ha detto che ci manda qualcuno dei suoi.» Giuditta tornò nella posizione molle di pochi istanti prima, estraniata di nuovo dal presente e concentrata a tracciare linee con la matita. «Dai, cazzo, sono già dieci minuti che siamo qui, che cosa devi dirci?» Proruppe Max, ancora più adirato dagli sguardi che Michele lanciava alle gambe di Giuditta. Gliel'avrebbe fatta pagare, se solo non fossero stati “amici”... «Eh va be', inizio a parlarvene. È per il magazzino, qualcuno ci ha sentiti.» «Laggiù? In quel cazzo di posto nel niente, qualcuno ci ha sentiti? E chi?» «Non lo so, so che stamattina mi ha chiamato Randi e mi ha detto che se non ci diamo una calmata sarà costretto a sbatterci fuori.» «Che figlio di puttana, gli diamo cinquecento euro per quella merda di posto che non 9


Scorretto Magazine – Sette

gliene frutterebbe nemmeno uno e invece di prendere le nostre difese, le difese dei suoi interessi... che cazzo fa? Ci sbatte fuori. Perchè non me lo dice chi è che si lamenta, ci penso io a chiudere la faccenda.» «Stai calmo Max, non serve. Come ho detto con Randi, staremo solo più attenti.» Il suono gracchiante del citofono fece sobbalzare Michele. Sperò che nessuno se ne accorgesse, ma il ghigno di Max era chiaro. Si alzò e aprì il portone, nonostante nessuna voce rispose al suo “chi è?”. Sapeva che l'apparecchio non funzionava, ma parlare nella cornetta era ormai un'abitudine. «Chi sono? Quelli di Riccardo?» Si informò Giuditta. «Boh, sì.» Michele rispose con un filo di voce, ancora vergognandosi per il segno di debolezza di poco prima. Però nessuno diede peso alla sua risposta. «Insomma che cazzo vuole da noi Randi?» «Senti Max, la finisci di usare un linguaggio da scaricatore di porto?» S'intromise Giuditta, probabilmente già innervosita da fatti antecedenti quella discussione. «Eccheccazzo!» Lo aggiunse in tutta fretta con una nota ironica che fece sorridere gli altri due, lo fece perché immaginò subito quale potesse essere la risposta di Max alla sua irriverenza. Intanto due donne vestite con abiti fuori moda e che le facevano apparire più vecchie di quel che fossero, erano entrate nell'appartamento. «Ciao, sedetevi là.» Le accolse Michele. «Stavo dicendo a Max qual è la situazione: in poche parole Randi è venuto a sapere da qualcuno che ci sono troppi traffici intorno al magazzino, che sebbene non vi abiti nessuno sopra, i rumori si sentono tutt'intorno.» Riassunse Michele. Giuditta da quando era entrata si era seduta e disegnava pentagrammi capovolti e teste di capro, ora però la sua attenzione era rivolta a quelle due giovani donne invecchiate dai loro vestiti. Erano soprattutto i gonnelloni che non riusciva a digerire, o forse no, forse era qualcosa negli sguardi. “Certo che Riccardo si è ridotto proprio male con queste!” pensò a fine delle sue riflessioni. «Allora che cazzo vuole Randi? Un aumento? Eh? Rompe le palle perché vuole altri soldi? Ma tu sai che cosa posso fargli io a quello?» «Ma no Max, non vuole soldi. Ha solo delle pressioni per tutto quello che succede nel magazzino.» «Michele,» Max cercò di recuperare un po' di calma, «io non so che cosa gli possono andare a dire, ma credo forse abbia più a che fare con i vostri esperimenti con la trinitrina. Siete stati voi a far saltare i vetri a buona parte dei serramenti. È uno dei vostri che ha perso una mano. Era di uno dei vostri il sangue... be' no, sul sangue non possiamo essere certi.» «Ah be' se vogliamo metterla sul piano delle accuse allora spieghiamo quel via-vai di 10


Scorretto Magazine – Sette

pecore. Non solo si sente belare, ma palline di escrementi portano fino al magazzino come le briciole di Pollicino.» «Via-vai... una al massimo.» Minimizzò Max. «Una ogni volta. Cazzo ci fate con le pecore?» «Ah! cazzo ci facciamo?! Ma tu hai idea di come sia diventato impossibile trovare una vergine oggi?» «Scusa? No, no, non lo voglio sapere o rischio di impazzire.» «E poi ti assicuro che la pecora è la scelta migliore. Se ne prendi una le ricerche cessano dopo pochi giorni, una volta finito ce la facciamo allo spiedo, ed è risaputo che quella più simile a quella della donna ce l'ha...» «NON LO VOGLIO SAPERE, HO DETTO!» Interruppe Michele portandosi le mani alle orecchie. «Va be'. Quindi che dobbiamo fare?» «Scusate, ma le gonnellone qui? Loro non hanno colpe? Non sarà anche quella roba che stampano di notte?» Intervenne Giuditta nel conto delle reciproche accuse. «No, scusate voi...» Una delle due donne, visibilmente in imbarazzo prese la parola e fece per alzarsi. Max le si parò davanti tenendo le mani sui fianchi per sbarrare loro ogni via di fuga. «Sì, ma chi cazzo sono queste?» «Non sono le amiche di Riccardo?» Domandò Giuditta. «Bho.» Michele era ora rosso in volto e in piena difficoltà per quelle estranee in casa sua, estranee a quei discorsi importanti e segreti. «Allora? Non siete le amiche di Riccardo?» Domandò Max ondeggiando il bacino in avanti, all'altezza delle loro bocche. «No, ci deve essere un malinteso, noi siamo i custodi delle parola di dio, siamo i guardiani delle anime, siamo le sentinelle che hanno il compito di mettervi in guardia sull'apocalisse...» Disse l'altra, afferrando dalla borsa una copia di un opuscolo raffigurante una scena di guerra e distruzione. «Mmm...» le interruppe Max «e per caso siete ancora vergini?»

11


Scorretto Magazine – Sette

il binario Agata di Artanis Naanie

Non sarei dovuta arrivare così in anticipo. Piove e mi si rovina la messa in piega. Poi siamo tutti qui sotto la tettoia stretti come sardine che posso pure sentire che odore hanno gli altri. Odio l'odore degli altri, usano dei profumi così… banali. Io scelgo sempre con cura il profumo. Credo che l'immagine che diamo da fuori sia il riflesso di chi siamo dentro e io dentro sono pulita, profumata ed elegante. Poi c'è gente come quel tizio lì che va in giro con un costume da Batman, come se avesse 12 anni. Forse nella testa li ha. Il signore che fissa l'orologio a cipolla ogni due per tre deve avere un appuntamento importante, peccato che tanto i treni non arrivino mai in anticipo. L'ultimo uomo ha un testone enorme: chissà come fa a tenerlo su, forse ha una sorta di corsetto che gli regge il collo, non lo so. Sembra possa finire decapitato da un momento all'altro. Sarebbe oggettivamente brutto se gli si staccasse la testa dal collo ora, e poi mi si sporcherebbe il vestito. Forse è meglio che mi sposti. Certo che la gente è strana. L'unica normale qui, a parte me, è la signora che fa la maglia. Una vecchina che fa la maglia, cosa c'è di più normale? Perché ora che guardo le altre… quella ha un gufo in testa! Come diamine fa a girare con un gufo in testa? Lo saprà o il gufo ha nidificato a sua insaputa in quella massa di capelli? Forse dovrei dirglielo. Forse dovrei farmi i fatti miei e basta, che come si suol dire chi si fa gli affari propri campa cent'anni. Che poi io non voglio vivere cent'anni, voglio vivere ora che sono giovane e bella, a cent'anni si è vecchi decrepiti, brutti e si puzza. Odio la gente che puzza, se dovessi cominciare a puzzare preferisco mi ammazzino. Comunque quella più strana è quella col cappello a forma di pasticcino. Un pasticcino, chissà perché. Ha lo sguardo perso nel vuoto, sembra stia sognando. Forse pensa ad un amore perduto, non lo so. Sto diventando romantica, chissà quando arriva sto treno.

12


Scorretto Magazine – Sette

IN VOLUPTAS MORS di Roberta Pagnoni Sarebbero dovute arrivare alla spicciolata, l'una portando con sè ancora l'urgenza della metro, l'altra scendendo elegante ed austera da una berlina a noleggio, ognuna con una diversa ventata newyorkese ad illuminarla, un trench allacciato forte su una vita stretta, passi rapidi in calze con la riga, una stola pretenziosa a valorizzare boccoli e fossette. Invece si ritrovarono tutte assieme all'ora precisa, nel grande atrio decorato a specchi che rimandava le loro sette figure così simili in infiniti multipli su ogni parete, e persino sul soffitto. La 1 pensò di dirlo alle altre, ma la 2 chiamò l'ascensore, e la 3 fece notare che per quanto esili, avrebbero dovuto fare due giri. La 4 se ne restò ad aspettare un po' defilata, mentre la 5 chiedeva a che piano dovessero andare, che aveva perso l'appunto e lì non c'era mai stata. La 6 ne approfittò subito per dire che aveva già lavorato con Halsman e la 7 pensò, ma non lo disse, che preferiva chiamarlo Phil. A dispetto del lusso dell'edificio e del prestigio dei committenti, lo studio era poco più che tre stanze spoglie, tinteggiate in base all'esposizione, più una ricolma di attrezzature e cianfrusaglie ed un'altra attrezzata a camera oscura. L'assistente indicò loro dove appoggiare i soprabiti, ma la 2 e la 4 preferirono tenerselo addosso: nonostante il profumo di caffè e la luce del sole che entrava a fiotti dai grandi finestroni. "Pensi forse di tenerti indosso quel bel cappottino tutto il giorno? Oh, te l'han detto che dovrai spogliarti?" "Fa freddo, io non mi spoglio, al freddo. Dove posso appoggiare le mie cose per il pranzo?" "C'è una stufa, di là. L'ultima volta funzionava." "Non avete ancora visto il Maestro e già vi lamentate, cercate di non rovinargli la concentrazione per delle banalità." La 6 sembrava dettare legge, ma nessuna parve particolarmente intimidita, neanche la 4, stretta stolidamente nel suo cappottino. La 7 si guardò nel piccolo specchio da borsetta, che le labbra fossero truccate come piaceva a lui, che restasse qualcosa di speciale a distinguerla da quelle sei strane copie di sé. La 2 pensò a suo figlio, rimasto in casa da solo, e si disse che non aveva alternative quindi stava facendo la scelta giusta. La 5 rabbrividiva con coraggio nella camicetta troppo leggera comprata in saldo, unico capo di marca, che sfoggiava solo nelle grandi occasioni. Halsman e Dalì le aspettavano nella stanza più grande, con le finestre oscurate, teli, cavalletti, intenti a versarsi caffè vicino all'imponente stufa d'angolo. 13


Scorretto Magazine – Sette

"Benvenute, benvenute tutte! Sarà una lunga giornata, ma adesso che vi vedo tutte assieme, so che riusciremo a rendere possibile l'impossibile!" le accolse il Maestro in persona, già vestito per lo scatto. Si capiva da come arricciava i baffetti, il compiacimento di cui era pervaso ed il desiderio di esternarlo, magari con uno dei suoi discorsi senza freno che la 3 avrebbe saputo recitare a memoria. La 1, la 3 e la 7 guardavano Halsman, che guardava fuori dalla finestra, per non guardare loro. La 5 chiese di avere una tazza di qualcosa di caldo, e la 6 disse che avrebbero dovuto alzare il calore della stufa e chiudere la porta, se volevano evitare l'effetto gallina appena spennata. L'immagine stemperò la tensione, gli assistenti portarono altre sedie, e tazze, ed appendiabiti. Philippe iniziò a preparare gli obiettivi mentre con poche parole a bassa voce dava indicazioni su come sistemare gli sfondi, ignorando completamente le sette donne. Come non esistessero. Loro, in realtà, nella sua mente non c'erano, semplicemente perché non dovevano esserci. In quel momento, la testa del fotografo era piena di simboli, di richiami, ricordi: di complicati calcoli e di fili logici. Tutto, il passato, le fughe, le accuse, sua madre e le sue amanti, suo padre ed il nuovo mondo, tutto si andava a riunire in quel teschio di carne femminile, la linfa della vita che è altro volto della morte, la vanità del piacere erotico che per quanto irresistibile è destinato a finire, sempre. La 5 stava ascoltando il Maestro con un'attenzione spasmodica, pensando che un domani lo avrebbe raccontato ai nipotini; la 3 a distanza ne soppesava i seni con lo sguardo, domandandosi se avesse o meno le fossette a fondo schiena. Era impaziente di misurarsi con le altre e scoprire qualche sguardo rivelatore, nei due suoi cari amici. L'uno non sapeva dell'altro, o forse sì, ma la 3 posava da sempre, aveva imparato a giocare coi limiti degli ego artistici prima che con le bambole. Sapeva che avrebbe dovuto aiutare Phil dagli esordi impacciati, così come sollevare Dalì nel suo dopopranzo di disperato astinente. La 1 fu la prima a togliersi le scarpe, e ad avvicinarsi allo schizzo del progetto. Capì subito che sarebbero state posizionate in base a precise caratteristiche fisiche, nelle prove un numero segnava la sagoma di quasi ogni corpo, o della parte del corpo che si sarebbe vista. Di fianco ad alcune c'era un punto interrogativo. Si domandò che numero fosse lei. Se fosse un sedere, un seno, un fianco. Un piede-dente. Finalmente nella stanza il calore dei fiati, più che la stufa, permise alle sette donne di spogliarsi. Halsman fu costretto a guardarle, per dire loro come sistemarsi ed iniziare qualche prova. Tentò un'occhiata collettiva, ma non poté sfuggire alle diverse risposte di ritorno. Soprattutto la 7, temeva. La 3 sorrise al suo solito modo, la 1 fingeva benissimo come d'accordo al provino, ma la 7 era stata qualcosa di diverso. Forse perché, come lui, era ebrea, e lo comprendeva troppo. Forse perché lo aveva aiutato. Non fosse stato per il Maestro, l'avrebbe tenuta fuori dal progetto.

14


Scorretto Magazine – Sette

Ma Dalì sapeva quanto lei avesse bisogno di lavorare, e l'aveva praticamente imposta come modello in base al quale selezionare le altre. Sapeva, nella sua distrazione, essere molto generoso. La 2 avrebbe ricevuto doppio compenso, perché aveva accettato di sostituire all'ultimo una collega ammalata. I tecnici avrebbero guadagnato per un giorno di lavoro quanto una settimana, ma se avessero osato contraddirlo una volta sola, non li avrebbe chiamati più. La 3 si sistemò coi piedi sui fogli di giornale, e per prima lasciò che ricoprissero di cipria la pelle già bianchissima. Furono sistemate le assi, la 5 e la 1 si misero carponi per farsi pitturare le piante dei piedi; la prima cercava di non pensare che di lei sarebbe rimasto alla storia solo il culo, la 1 cercava di non ridere e basta. La 7 teneva lo sguardo basso, aspettava le istruzioni e le eseguiva meccanicamente, tenendosi sempre a distanza da Phil. La 4 e la 2 furono scambiate di posto due o tre volte, prima di decidere chi dovesse arrampicarsi in cima al traballante soppalco, e chi invece sdraiarsi sul pavimento gelido. Il Maestro era entusiasta, si allontanava ed avvicinava all'insieme parlando di voluttà di corpi, complimentandosi in continuazione con le modelle per la loro bellezza, e pazienza, e forza. "Occorre la forza per realizzare la bellezza, e voi donne siete la summa, la forma d'arte che nessun creatore potrà mai eguagliare!", esclamava a modo suo, tra il pomposo e l'irridente, sistemandosi in continuazione il trucco. La 7 odiava l'idea che corpi di viva vita di donna venissero usati per rappresentare la rassegnazione mortale tipica dell'uomo, ma sapeva che non c'è forza di lombi che vinca sulle debolezze della mente. La 3 sperava di finire nel centro della composizione perché sarebbe stato l'unico volto visibile, ed era convinta di meritarlo, sia per il volto che per il vissuto. La 6 si domandò se la 7 avrebbe accettato un invito a cena, o almeno la 4, ed azzardò un sorriso ad entrambe. Halsman lavorava con concentrazione e metodo, rifugiandosi nei riti e negli automatismi della tecnica per sfuggire al vibrare ipnotico di quei sette corpi così vicini: alcuni li aveva avuti, gli altri avrebbe potuto averli in ogni momento. In quel momento, mentre le guidava, sfiorandole piano, avrebbe voluto non avere mai desiderato nulla. Il suo volto era teso, sotto gli occhiali ed i capelli radi si intravedeva lo stesso teschio che cercava, con braccia e carni e sentimenti, di modellare contro lo sfondo nero. La 5 aveva sempre più freddo e la 2 pensava che ormai era ora di cena e la 6 iniziava ad avere male allo stomaco per la tensione e la 1 aveva già temuto due volte l'arrivo di un crampo ma sempre mancava qualcosa, le ore stavano diventando lunghissime. Fu il Maestro a decidere di metterla al centro, poco prima di posizionarsi a favore di ripresa, cercando l'espressione adatta per l'immortalità. Philippe scattò e scattò, cercando di vedere solo il disegno, e non la 7 moltiplicata per sette, a ricordargli quanto tutto sia vano: e funzionò, finché lei non lo chiamò col suo nome.

15


Scorretto Magazine – Sette

Halsman la rivide altrove, e come allora pronunciò il suo nome, e fu come se l'avesse colpita. Dalì capì subito, impreparato davanti all'ennesimo dolore dell'amico, e lo scatto racchiuse tutto quanto, l'intensità e lo sgomento. Ingannando la fine. Regalando uno squarcio di realtà alla rappresentazione. La 6 e la 4 hanno avuto una relazione erotica breve, ma un'amicizia lunghissima e fruttuosa. Il figlio della 2 è diventato un personaggio importante, la 3 ha sposato un ingegnere e gira il mondo, la 1 ha continuato a darla ad ogni provino ed ha fatto una discreta carriera. La 5 ha avuto i nipotini che sognava, ma non ha mai detto loro di essere il culo di destra. Della 7 si sono perse le tracce.

"Se il ritratto fotografico di un essere umano non mostra la sua profondità psicologica non è un vero ritratto, ma un'immagine somigliante ma vuota. Quindi il fine nei miei ritratti non è tanto la composizione o il giocare con le luci, neanche il ritrarre il soggetto di fronte a uno sfondo significativo o la creazione di un'immagine prettamente visiva. Tutti questi elementi possono rendere esteticamente interessante un'immagine vuota, ma per parlare di vero e proprio ritratto la fotografia deve saper catturare l'essenza stessa del soggetto[...] Ogni faccia che vedo sembra nascondere - e, a volte fugacemente rivelare - il mistero di un altro essere umano. Immortalare questo mistero è diventato per me l'obiettivo e la passione della mia vita. Sono diventato un collezionista di riflessi del sé più profondo sulla lente del mio obiettivo per coloro che si sono posti di fronte alla mia fotocamera."

16


Scorretto Magazine – Sette

L'UNO E IL SETTE di Pietro Zanterlo

Quanto tempo è passato? E quanto ne deve passare? Non riesco mai a farmi un’idea, quando sto qui solo e inattivo a lungo. Mi annoio. E piove. La pioggia, nelle mattine di Gennaio nei campi della Brianza, non è solo fredda: è anche affilata, fastidiosa, sembrano piccoli chiodi di ghiaccio che ti pungono le guance a ripetizione. Aspetti di trovarti la faccia piena di puntini rossi sanguinanti, quando finalmente potrai rientrare e guardarti allo specchio. Dice: almeno hai i guanti. Zuppi di acqua ghiacciata, sai che roba. Che uno si sente anche un idiota, a star fermo sotto la pioggia battente. E per non sentirsi troppo idiota inizia a pensare ad altro tenendo fissi gli occhi su quei numeri che si muovono, più avanti. Potrei provare a ripararmi un po’ sotto il sette. Che poi non ho mai capito perché lo chiamino “sette”. Non ci assomiglia neanche un po’. Tanto per cominciare è un angolo retto, e l’unico sette scritto ad angolo retto è quello dei display digitali anni 80… ma quello ha la sbarra orizzontale più corta di quella verticale, no? Questo è tutto il contrario. E dall’altro lato? Come fanno a chiamarlo “sette” anche dall’altro lato? Al limite assomiglia alla Gamma maiuscola greca, se proprio vogliamo trovare un paragone. Per non parlare della parte di sotto. Da un lato una L, dall’altro… niente, non esiste un segno uguale. Ma non ho mai sentito dire “nella L”, no. Dicono “nell’angolino”. Come se un angolo retto fosse definibile “angolino”. Angolino è acuto, dai… un 30 gradi al massimo. Eppure per tutti quello lì sopra è “il sette”. Addobbato di immaginarie ragnatele da strappare via. Nell’immaginario collettivo, il tiro più spettacolare del calcio. E la parata, anche. Perché quando arrivi a prendere la palla lì sotto fai scena, tutti a dire “Bravo!” “Grande!”. Sono tutti convinti che abbia fatto un gran numero, magari più grande del sette. A volte anche l’attaccante avversario ti applaude, viene lì vicino prima del corner e ti fa “Bravo, portiere…”. E tu gli rispondi “Grazie, nove”. Perché nel calcio è così: tu sei un ruolo, anzi IL ruolo. Loro sono solo numeri. Gli avversari si chiamano per numero, l’arbitro chiama tutti per numero: “stia calmo, quattro. Si allontani dalla palla, undici”. A te no, e non solo non ti dà ordini, ma ti chiede anche se si può far partire il gioco: “E’ pronto, portiere?”. All’inizio lo chiede a te e a quell’altro laggiù in fondo, che incontri solo all’inizio e alla fine. Non ci si dà la mano, perché si hanno già i guanti, si fa un saluto strano, pugno contro pugno, ci si augura buona partita o anche soltanto “ciao”, che è sufficiente. I “numeri uno” sono un’altra razza, una casta eletta, fosse per loro giocherebbero tutti insieme contro gli altri. Li stiamo schiacciando, oggi. Restano tutti laggiù a spingersi, scivolare, schizzare ondate di 17


Scorretto Magazine – Sette

fango, sputare terra. E io qui, col naso che gocciola. Me lo pulisco coi guanti ghiacciati, e mi si gela il setto. Ah, già, il sette. Vado lì sotto, sul lato del palo che mi protegge dal vento. Ma ci resto pochi secondi, la porta vista da lì è troppo grande e troppo vuota, mi mette ansia, non sono al mio posto. Come un pesce fuor d’acqua. E infatti torno subito a immergere i piedi nella pozzanghera al centro dell’area piccola, tonno che sono. No, sotto il sette non ci si sta fermi. Ci si passa una volta ogni tanto, in tuffo magari, per fare un po’ di scena. Ma in realtà fare un passo di rincorsa, saltare e arrivare lì con una mano non è poi così difficile. Provate, provate voi se vi capita di passare in un campo. E’ molto più difficile arrivare nella L, o come la volete chiamare. Per arrivare nella L devi prima saltare e poi attendere che la forza di gravità faccia il suo lavoro, ci vuole più tempo. Certo, magari due centesimi di secondo, ma sono più che sufficienti a far passare la palla oltre la linea. Se provi a lanciarti subito verso la L non ci arrivi, ti fermi molto prima. Ci vuole il salto. Prima su, poi giù. Ma per qualche strano motivo quello impressiona meno. D’altronde ci sono abituato: ci sono le volte che fai un numero senza sapere neanche come, d’istinto, di reni, su una palla che non hai visto partire, arrivi con la punta delle dita a deviarla e… niente, tutti in silenzio, hai fatto solo il tuo dovere. Anzi, magari sbuffano anche perché c’è il calcio d’angolo. Altre volte, invece, prendi il tuo tempo e vai su una palla che si capiva da chilometri dove sarebbe andata e impazziscono come se avessi fatto una cosa impossibile per gli umani. Come nel caso dei tiri nel sette, appunto. Anche se arrivano piano e da lontano non fa niente, per i profani non conta il viaggio ma la destinazione. E se la destinazione è “l’incrocio dei pali” (chiamiamolo come si deve, maledizione), è sufficiente per parlare di “spettacolo”. Cazzo, sono ripartiti in contropiede. Prima volta dall’inizio della partita. I miei difensori tutti avanti, ormai ci avevano preso gusto. Meno male che il fango non fa rotolare bene la palla e l’attaccante deve rallentare. Si avvicina, faccio qualche passo verso fuori e sento una scarpa che resta catturata dal fondo melmoso della pozzanghera. Neanche il tempo di bestemmiare che il mio difensore centrale è arrivato a stendere in qualche modo l’avversario poco prima che entri in area. Punizione. “Quattro lì! Quattro in barriera! Più a destra, più a destra… la destra è l’altra, cazzo! Ancora un passo… no un metro, ho detto un passo! A sinistra ora! Sinistra mia, non la tua!” Si girano per capire meglio e fanno più casino. “Va bene, fermi lì, stringere le gambe!” Rincorsa. Tira. Gira. Facile. Quando diluvia è pericoloso provare a bloccarla, mettiamola in angolo. Passo, salto, ciaf. Il colpo della palla sul guanto mi schizza l’acqua in faccia. Sento urlare di gioia i compagni. Mentre mi rialzo arriva l’avversario che ha tirato. “Bravo, portiere!” “Grazie… Sette”.

18


Scorretto Magazine – Sette

Il binario Guido di Gianluca Dario Non ci posso credere che lo sto facendo davvero, che sto per salire sul treno che mi porterà da lei. Finalmente ci conosceremo da vicino, si è vero non è la prima volta che ci incontriamo, ma è la prima volta, dopo che ci siamo detti che forse sarebbe stato bello passare un po' di tempo insieme. Mesi e mesi a scriverci, a chiacchierare serenamente di noi e delle nostre vite, a sentire il bisogno l'uno dall'altra pur essendoci visti una volta sola. Com'è possibile tutto ciò? Non lo so, so solo che non vedo l'ora che arrivi quel treno e che vada il più veloce possibile. Però, se poi arrivo lì e intanto avesse cambiato idea? Se non dovesse avere più voglia di stare con me? Non so se potrei sopportarlo. Ma poi chissà cosa ci ha visto di buono in me, ma si sarà accorta di questa mia testa "fuori misura"? Boh, chi lo sa? Oh poi non è che sono proprio inguardabile, almeno sono vestito normale, non come questo qui che c'ha il costume di Batman. E sicuramente sono più apprezzabile di quest'altro che sembra avere cento anni, che per vedere l'ora usa ancora la cipolla, già è vecchio di suo, ma quell'orologio lo fa sembrare ancora più antico. Lei invece è bellissima, ogni volta che glielo dico risponde che non è vero, che non ci si sente. Invece è proprio così, guardo queste donne intorno a me e non riesco a non fare paragoni, a non trovare dei difetti. Una è troppo magra, una è troppo alta, un'altra addirittura sembra essere antipatica. La peggiore di tutte è quella che ogni tanto mi fissa con lo sguardo, tanto lo so cosa sta pensando, ma chi se ne importa. L'unica cosa che mi importa davvero adesso è salire su quel treno.

19


Scorretto Magazine – Sette

LA TRAPPOLA di Claudio Ricci

"Ah si eh? Dunque vorreste addirittura convincermi che tutta la vostra mistica stracciona del numero sette abbia un qualche significato intrinseco o “di ordine superiore” eh? Già vi vedo quanto vi gonfiate come tacchini (non come pavoni, proprio tacchini) e come continuate a riscaldare la minestra. I sette chakras, il settimo cielo, la primiera tutta composta da sette (ma ci avete pensato che i sette sono QUATTRO e non sette? No eh?), il settebello (che è bello perché ricorda il denaro, non per la sua natura di sette), il 'giro delle sette chiese' e quant'altro. Avete scomodato anche la Cabala e l'Alchimia. Anzi, loro si sono scomodate per prime con questa storia del sette, e voi avete solo preso a prestito il loro presunto sapere con scarso stile. MA VE LO DICO IO dove sta il conquibus. Il sette è 'tanto', fa figo e dà l'idea di abbondanza senza cadere nello sproloquio e nel troppo tedioso da contare. E poi è disparo. Ed è numero primo. Fine della storia. Inutile che alziate la mano, tanto non vi sto nemmeno a sentire! Se le cose sono cinque sono troppo poche e sono sfigate, se sono sei sono pare e divisibili, se sono otto sono di nuovo pare e se sono nove sono troppe e poi è divisibile per tre. E allora cosa c'è di meglio che ricorrere al sette? È figo, ha un suo equilibrio spocchioso. Ma dico avreste mai giocato volentieri a scopa facendo la primiera solo coi cinque? E avreste accettato una settimana senza più domeniche? E al cinema, avreste goduto delle avventure dell'”Agente 006”? E se i chakra fossero stati solo sei? quale avrebbero abolito, quello che sta sotto al buco del culo? Oppure ne avrebbero messi otto! Ma si! Facciamo anche un chakra della natica sinistra, che simboleggia e gestisce la fortuna.... Ridicoli! " L'uomo parlava con un tono di voce sempre più concitato, e gli occhi ormai erano sbarrati. Gocce di saliva cominciavano a scappargli dai lati della bocca, mentre il corpo era scosso da tremori a frequenza altissima. Chi lo osservava da dietro il vetro a specchio scuoteva la testa e mi faceva cenni di sconforto. "... e le SETTE! Quelle religiose o di ciarlatani vari! Perché pensate che si chiamino così? Perché se le avessero chiamate SESTE O OTTE sarebbe state senza senso e tutti avrebbero riso scioccamente!" Ormai il monologo squinternato rimbombava nella tetra stanzetta. Uno dei dottori disse che l'effetto dei farmaci stava di nuovo finendo. Il delirio rischiava nuovamente di inghiottirlo ed era ora di portarlo via. "Da quanto dura questa storia?" Chiesi. "Sproloquia sulle implicazioni del numero sette da sette anni." Rispose un secondo dottore, stancamente. "Le abbiamo provate tutte. Dalla terapia convulsivante ai farmaci di nuova generazione. L'effetto è sempre lo stesso. Si calma per circa sette ore, poi riprende." 20


Scorretto Magazine – Sette

Un terzo dottore aggiunse: "Ora il delirio ha tinte persecutorie, ma fra circa sette giorni (ha iniziato alcune ore fa) cambierà registro e straparlerà su quanto ami il numero sette e su quanto tutto sia divisibile o interpretabile mediante il sette". "Ma... perché?" domandai. Un quarto dottore era meno loquace e simpatico dei colleghi: "Giovanotto, il gioco dei perché lo facciamo dopo, in pausa... Stia ad osservare per il suo saggio e ci lasci lavorare, che dobbiamo stare qui sino alle sette". "Eh sì, abbia pazienza, un po' di silenzio, mica per cattiveria": non mi ero accorto che in penombra c'erano altri tre dottori, di aspetto patito e dall’atteggiamento dimesso. Passarono sette minuti di silenzio imbarazzante, e poi il farmaco fece effetto. L'eloquio dello sventurato cessò di botto e il suo aspetto divenne cereo, catatonico. Arrivarono gli infermieri e lo portarono via. Ora davanti e dietro il vetro regnava un polveroso silenzio, rotto solo dal confabulare antipatico dei sette portatori di camice. Mi alzai sconsolato. Era inutile perdere tempo lì. Avevo buttato una giornata. Sette ore buttate. Lo sguardo mi salì sino al corridoio, dove stavano accompagnando l'uomo, sorreggendolo e guidando i suoi passi incerti. Una porta si aprì e li inghiottì tutti. Oltre a lui erano sei fra infermieri, suore e quelli che sembravano due internisti. Tutto si richiuse. E lo fece su un cartello bianco attaccato sulla porta con due rozze strisce di scotch da pacchi. Stanza 7.

21


Scorretto Magazine – Sette

di sette in sette di Gianluca Dario

Sette i colori dell'arcobaleno, sette come i mari sotto questo cielo, sette come i nani della favola famosa, sette i fratelli e ognuno ha la sua sposa. Sette e trenta per la dichiarazione, sette e quaranta cantava una canzone, sette son le vite di cui dispone il gatto: che sulle quattro zampe resta sempre intatto. Sette i sacramenti per i cattolici credenti, sette sono i vizi o peccati capitali, sette pure i veli degli assorbenti con le ali. Sette le note sulla scala musicale, sette sono i colli dell'eterna capitale sette pure i re che ha avuto nella storia: che tutti e sette insieme non ricordo mai a memoria. Sette meraviglie in giro per la terra, che son sopravvissute agli orrori della guerra. Sette come i giorni di una lunga settimana: che lunedÏ è vicino, ma domenica è lontana.

22


Scorretto Magazine – Sette

Il binario Genocleppo di Lollo Rapets

Io non sopporto il disordine. Non sopporto il rumore. Non sopporto la gente. Soprattutto laggente. Ho sempre cercato di vivere senza creare disturbo a nessuno, non ci vuole molto. Basta farsi gli affari propri, non parlare ad alta voce, non fermarsi dove qualcuno potrebbe dover passare, non costringere chicchessia ad aspettare un tuo ritardo. Non ci vuole molto, a rispettare il prossimo –come te stesso- e vivere da invisibile, in santa pace. Fossero tutti così, facessero tutti come me, il mondo sarebbe un posto migliore. Invece i “laggente” (pluralia tantum, che manco sanno cosa significhi) parlano ad alta voce, si fermano in mezzo alle palle, danno informazioni imprecise, se ne fregano della decenza, come diceva il poeta. Chissà da che lato del treno sarà la prima classe. Una volta gli altoparlanti lo dicevano: “carrozze di prima classe in testa”, oppure “in coda”, ovviamente. Una volta, certo, quando le ferrovie venivano gestite con una logica di servizio e non di profitto. E già facevano schifo allora, comunque. Io viaggio sempre in prima classe. Ho iniziato a farlo almeno vent’anni fa, quando ho iniziato ad odiare i laggente. In prima classe era molto più facile trovare uno scompartimento vuoto per leggere in pace, o 23


Scorretto Magazine – Sette

pensare ai fatti propri. E anche il passeggero medio di prima classe, se capitava di condividere lo scompartimento, non era quasi mai ciarliero. Perfino quando erano in due, mica urlavano i propri affari a tutto il vagone, no, parlavano sommessamente. E normalmente parlavano di cose interessanti, in modo intelligente. Ma in generale, in prima classe regnava il silenzio. Anche ora che non ci sono quasi più quei begli scompartimenti da sei (dieci in un vagone di prima, dodici in un vagone di seconda… sembra niente ma voleva dire il venti per cento di spazio in più tra i sedili, per avere maggior distanza dal passeggero di fronte… bei tempi), si sta bene lo stesso. Ma ormai sono tanti anni che non prendo il treno. Intanto il tempo passa, e chissà quando arriva. In queste stazioni piccole mica te lo annunciano: stai ad aspettare e basta. I treni in ritardo non li sopporto, perché creano doppio danno: oltre alla perdita di tempo e magari agli impegni che sfumano, l’aspetto peggiore è che i laggente si sentono autorizzati ad attaccare bottone, a condividere l’esperienza dell’attesa, come se l’imprevisto creasse un rapporto, come se avessero qualcosa in comune con te. Dico, già siamo in ritardo, devi proprio rompere i coglioni? Poi ci sono quelli che si lamentano col capotreno o col capostazione, come se potesse servire a qualcosa. Niente, i laggente devono parlare per forza con qualcuno altrimenti forse non si sentono vivi. Piuttosto che niente ti chiedono che ore sono. Poi vedono magari quest’orologio (meccanismo perfetto, non perde un secondo, basta caricarlo ogni giorno esattamente alla stessa ora) e “Oh che bello! Anche mio nonno ce l’aveva uguale…”. Io nemmeno rispondo, al massimo faccio un sorriso mentre penso “beato tuo nonno, che è morto e non ti deve più ascoltare…”, ma continuano. Ci sono quelli che si mettono a raccontare storie del nonno, accrescendo la mia voglia di mandarli a raggiungerlo. Invece questi qui intorno mi piacciono, anche se siamo stretti sotto la pensilina negli unici due metri quadrati in cui non piove. Tutti in silenzio, tutti a pensare ai fatti loro. Verrebbe quasi voglia di salire sul treno con loro, avendo la certezza che resterebbero immersi nei loro pensieri per tutto il viaggio. Non ci staremmo in uno scompartimento però, perché siamo sette. Be', ma tanto io non devo mica partire. Anzi, non vedo l’ora che arrivi il treno così questi se ne andranno e scenderà Lei, la mia dolce rossa di Tropea, quella che quando le arrivi al cuore ti fa commuovere, l’unica persona al mondo che mi faccia rilassare e trovare qualcosa di buono anche nel disordine, nel rumore, e a volte anche nei lagg...be', ora non esageriamo. Che il treno non è mica ancora arrivato.

24


Scorretto Magazine – Sette

TE NE RESTANO DUE di Aldo Bagnoni

Te ne restano solo due, pensò, non senza un certo disagio. Quando sono caduto dal tetto, quell'innato senso giroscopico che tutti ci attribuiscono doveva essere andato a farsi una passeggiata, ma lunga. E quella fu la prima. Non si sa come, da sdraiato su di un fianco com'era, s'era tirato su, rimesso in piedi ed andato via, barcollando, ma solo leggermente. Costole, scatola cranica, tibie, tutto a posto, per caso fortuito e felice. Ma non si dica che cadono sempre in piedi, che è evidentemente una palese stronzata, una leggenda superstiziosa del popolino e stop. Sì, stavo meglio prima, ma comunque ero ancora lì. Poi l'auto parecchio tempo dopo, quando oramai m'ero ripreso, ma ero evidentemente restato un minimo rallentato nelle mie reazioni. Quell'animale aveva proseguito la sua corsa pazza senza neppure accorgersi d'avermi preso in pieno, e sbalzato sul ciglio della strada periferica che stavo percorrendo quel giorno. Dove cazzo vanno, a quella velocità, e soprattutto perché non fanno attenzione ai possibili danni che causano, in questo modo? La mia vita, per questi, quanto vale? Perché non se ne curano? Se capitasse a loro la stessa cosa? Rimasi parzialmente menomato, la mia coda, lunga e folta, a righe, bellissima, si spezzò e restò perennemente ad L. Ma anche così, potevo proseguire la mia esistenza, e alla fine me l'ero cavata con uno spavento e qualche giorno di forti dolori per tutto il corpo. Questa, invece, fu proprio estrema. Stava inseguendo la sua preda, e rischiava che gli sfuggisse, perché così piccola era comunque più ingestibile nelle traiettorie improvvise e disperate che elaborava per non farsi catturare. In genere la mia agilità nel guizzare da un lato all'altro è proverbiale e risaputa, ma quella volta non potetti gestire l'improvvisa inversione di marcia che quella pallina frenetica eseguì, devo dire ammirevolmente. Tanto di cappello a questo avversario, che riuscì ad infilarsi in una fessura, una crepa neppure troppo larga nel muretto che mi si parò di fronte improvvisamente. E contro il quale diede una fortissima craniata, emettendo un verso straziante ed al tempo stesso oltremodo stizzito, che noi tradurremmo come "porca puttana!", restando poi steso al suolo per un buon quarto d'ora. 25


Scorretto Magazine – Sette

Ma mi risvegliai sobbalzando, sentendo il rumore che facevano dei bidoni di latta sbattuti da uno sguattero nel vicolo, fuori dalla trattoria periferica vicino la quale s'era svolta la mia inutile e pericolosa caccia, e scappai via, per quello che potevo in quelle condizioni. E tre. La quarta volta, fu perché mica lui era tenuto a dover conoscere per filo e per segno il funzionamento di un cancello scorrevole automatico. Si era fermato a sedere proprio sul suo binario, di spalle, badando ai fatti propri, perso in pensieri indefinibili, e non l'aveva sentito sopraggiungere, dato che il suo udito era restato fortemente compromesso dal trauma cranico e dall'edema cerebrale formatosi nella sua testa a conseguenza della botta contro il muro. Per pura fortuna, non essendo troppo a ridosso del montante di fine corsa, riuscì a divincolarsi e a non restare schiacciato dal pesante meccanismo in movimento, ma un piede gli restò incastrato tra il binario ed il bordo inferiore, e fu trascinato lentamente, ma non troppo, verso la chiusura. All'ultimo istante lo strappai da sotto, ma questo mi costò l'amputazione di due dita. Minchia, me la sono vista brutta veramente, ed il dolore fu davvero tremendo. Ma sono ancora qui. Non c'è quattro senza cinque, come diciamo noi. In quel caso, la preda ero io. Venne inseguito da un branco di stupidi esseri sbavanti – questa è notoriamente l'accezione un po' snob che tutti quelli come lui hanno dei loro proverbiali avversari – e si trovò nella peggiore condizione possibile per uno come lui: in un vicolo cieco, spalle al muro contro una parete sgombra, liscia ed altissima, nessun appiglio, nessuna fessura, nessun anfratto, nessun oggetto dietro il quale celarsi e da frapporre tra sé e la morte certa. Lo afferrarono da ogni lato, urlando, e stavano per iniziare a tirare, ciascuno nella propria direzione, sino a straziarne le carni e disarticolarne lo scheletro. Ma in quel momento sopraggiunse l'anziana proprietaria della casa al piano terra, che in genere gli dava da mangiare e per cui lui costituiva l'unica compagnia, sia pure episodica – ma col passare del tempo via via più costante, dato che l'età avanzava anche per lui e la voglia di andarsene in giro scemava in misura inversamente proporzionale. Lei aveva una scopa in mano, con cui cominciò a colpire con tutta la propria forza la schiena e le teste dei quattro violenti in azione, che non erano poi così grossi, alla fine. Questo bastò per salvarmi il culo, anche in quel frangente, anche se la mia vita m'era già passata dinanzi agli occhi, e me l'ero anche fatta sotto, per dirla tutta. Quindi, secondo la comune accezione, oramai me ne resterebbero due. Sempre ammesso che questo sia vero. Ma io ne ho viste tante, e non credo facilmente a queste puttanate. Ma figuriamoci. I due ragazzini ebbero gioco facile a buttargli addosso la reticella. Lui si divincolò, emettendo stridori altissimi e soffiando, ma avviluppandosi ed incastrandosi con le unghie ed i denti nelle maglie che lo avvolgevano ovunque. Era vecchio e stanco, oramai, anche se conservava ancora un certo vigore, che il terrore aveva sicuramente amplificato, ma che 26


Scorretto Magazine – Sette

non poteva bastare a liberarlo in quella situazione a quel punto impossibile da gestire. I due ridevano e gridavano per l'eccitazione, e cominciarono a prenderlo a calci nei fianchi, con allegro furore. Iniziò a perdere sangue dalle orecchie, e urinava senza controllo, mentre i due, resi esperti da altre passate imprese del genere, afferrata la rete con un rastrello che si erano portati dietro, così come altri strumenti di tortura, iniziarono a trascinarlo di qua e di là, per tormentarlo, facendolo rotolare su sé stesso come un pallone vivente, cui affibbiavano di tanto in tanto ancora vigorose pedate, anche sul muso. Perse così alcuni denti, ed iniziò a sanguinare anche dalla bocca. La paura poté oltre ogni altra cosa. Vistosi perso, iniziò a dare potenti colpi di reni, ed impresse in qualche modo una direzione al suo rotolamento, fino a scivolare sul ciglio del sentiero della campagna periferica, giù nella scarpata, e finalmente precipitando morbidamente a valle. I due lo osservarono arrivare sino in fondo, e valutarono se fosse il caso di avventurarsi lungo la discesa, del resto piuttosto pietrosa e franosa. In quel momento, sopraggiunse il padre del più piccolo dei due, urlando insulti e minacce all'indirizzo dei due teppistelli, che vista la mala parata – era ancora orario di scuola, quello -, si diedero alla fuga, abbandonando ogni loro attrezzo, inseguiti dall'uomo. Sesta tornata. Lui, a quel punto, restò confuso ed immobile, avvolto inestricabilmente nella rete, sui binari della linea ferroviaria locale, incapace di muoversi. Tra breve sarebbe ripreso il traffico dei treni che riportano a casa studenti e pendolari. Sette? Evidentemente si tratta di una credenza senza fondamento: che vi avevo detto io? Ma vaffanculo.

27


Scorretto Magazine – Sette

Le sette tette di Artanis Naanìe

Non eravamo amiche da una vita. Ci siamo conosciute io, tu, Valentina e Chiara nei dintorni di un divorzio, un trasloco, un figlio ed un licenziamento, verso la metà della nostra trentina. È stato un caso - sempre che il caso esista - a mettere ognuna sulla strada delle altre, ognuna con un bisogno ed ognuna con una soluzione. È stato bello scoprire che esistevano amicizie femminili a più di due in cui non ci fossero invidie, cozzate di caratteri, lotte di ego. Quattro donne per sostenersi nel cammino che la vita ci mollava davanti. I nostri figli sono diventati amici, crescendo insieme. Abbiamo spiato, divertite, le loro treschette adolescenziali che tentavano di mantenere segrete. Sono un bel gruppo, solido, che attira a sé altre persone belle, come abbiamo fatto noi. I nostri mariti e compagni, quelli che sono andati, arrivati o tornati, hanno capito che eravamo da prendere in blocco, quattro per una e una per quattro. Abbiamo affrontato insieme le prove della vita, quelle brutte in cui abbiamo pianto l'una sulla spalla dell'altra, quelle belle per cui si festeggia fino all'alba, quelle per le quali bisogna bere per dimenticare e quelle che ancora adesso ci fanno ridere alle lacrime. Poi, quattro anni fa, è arrivato lui. Sotto la doccia hai sentito una cosa dura sotto al seno. È iniziato un vortice di visite, pianti, medici spocchiosi ed infermiere trafelate, buchi nel braccio, nella mano, nel seno. È iniziato il nostro lavoro di tenerti su, di farti ridere anche se i risultati continuavano ad arrivare, brutti e cattivi. Quando ti hanno tolto il seno ci siamo trovate in ospedale. Hai detto "mi mancherà, quella tetta" e Chiara ha risposto "dai, adesso abbiamo un nome figo da band, siamo le sette tette". Hai riso, poi hai pianto, perché ti faceva male la ferita. E poi abbiamo pianto tutte, perché quel maledetto linfonodo sentinella ci prendeva per il culo. Sono iniziati gli infiniti cicli di chemio. Ci siamo rasate tutte i capelli, ma quello che più ti pesava aver perso erano le sopracciglia. Una faccia senza sopracciglia è da alieni, mi dicevi. Minimizzavo, ma era vero. Le sopracciglia sono importanti, sebbene se tu eri bellissima anche senza, per me. Dopo un anno la vita è ripresa, lottando. I figli continuavano a crescere, i mariti a lasciare calzini in giro, i capi a rompere le scatole, e noi avevamo tutte un taglio di capelli corto. Abbiamo ripreso i nostri ritmi, le abitudini che costruiscono le amicizie, perché checché se ne dica l'amicizia come l'amore si rivela nei piccoli tempi condivisi. Sono passati tre anni, e poi, di nuovo, un punto duro. Lui non ha aspettato esami o altro, ha invaso il tuo corpo 28


Scorretto Magazine – Sette

alla velocità di un esercito. Ti abbiamo visto dimagrire fino a scomparire. Ti abbiamo vista rannicchiata su te stessa. Ti abbiamo vista abbandonare la lotta. Hai scelto le letture di questa funzione molto tempo fa ed oggi come allora te lo dico: c'è un tempo per ogni cosa, forse, ma questo non avrebbe dovuto essere il tuo. Dovevamo rimanere la banda delle sette tette ancora a lungo, diventare tutte nonne, trovare una casa di riposo insieme. C'è un tempo per vivere ed un tempo per morire e questo non doveva essere il tuo tempo per morire, Fede. Addio.

29


Scorretto Magazine – Sette

Il binario Bethania di Amelia Rossi

"Eh, Batman mi guarda mi osserva da un po'. Ho fatto proprio bene a mettere il rossetto "milfona n.5", è chic. E poi il nuovo vestito con la scollatura che il mio reggiseno ultra push-up rende meravigliosa. Va be', ho una seconda, ma così sembra quasi una terza. Lo vedo il suo sguardo che mi mangia con gli occhi. È vestito come un cretino e non sembra neanche tanto sveglio però forse è simpatico, in questi tempi di magra mi va bene anche lui. Poi c' è quell'altro con la testa grossa. Ha una testa che sembra Calimero, con lo sguardo da pesce lesso mi sta fissando le tette. Non lo so, forse sarebbe meglio lui di Batman almeno è vestito decentemente, vedremo se avrà il coraggio di staccare gli occhi da lì e mettere in fila due parole. E onestamente non ho capito se fissa me o il finto pasticcino in testa a quella. Chissà, magari è ricco... Siamo qui stretti sotto la pensilina ad aspettare il treno, piove, sento un "tuuu tuuuu" provenire dall'alto, da sopra: ci deve essere una civetta nei paraggi. Le civette portano fortuna o sfortuna? Io spero che questo giovanotto vestito da Batman si faccia avanti e mi inviti a casa sua, magari, sarebbe interessante. Mi fissa i capelli, questo è scemo. Speriamo che il treno arrivi, perché questo vestito è forse troppo scollato e comincia anche a fare fresco.

30


Scorretto Magazine – Sette

31


Scorretto Magazine – Sette

32


Scorretto Magazine – Sette

33


Scorretto Magazine – Sette

TRESETTEBELLO di Lollo Rapets

Quando ero ragazza ero campionessa di tresette. Non che ci fossero campionati per certificarlo, ma insomma non ne perdevo una. Non importava neanche chi fosse il mio compagno, era come se sapessi esattamente tutte le carte che avevano in mano gli altri al tavolo. Mi divertivo a frequentare i bar di periferia, o anche quelli dei paesini della provincia. Uscivo di casa dopo pranzo in bicicletta, pedalavo un’oretta o anche più, entravo in un paesino, mi infilavo nel bar della piazza proprio mentre ci si stavano radunando i vecchi del paese, in fuga dalle mogli, per far passare la giornata. E quando entravo io nel bar, be', la giornata cambiava. Ero molto carina, un fiore splendido come dicevano loro… almeno davanti a me. Tra loro non credo usassero esattamente le stesse parole. Tutti galanti, tutti gentili e sorridenti, mi offrivano da bere… signorina, una menta? Una cedrata? Da dove viene, bellezza in bicicletta? Questi erano i più arditi. Uomini d’altri tempi. E sì, erano davvero altri tempi. Poi chiedevo se qualcuno sapeva giocare a tressette. Figurarsi! Erano tutti maestri, ci mancherebbe. Mi invitavano a sedermi, che mi avrebbero insegnato i trucchi, i segni, la tecnica. Quello che si prestava a farmi da compagno partiva giocando seriamente, gli altri due più leggeri, un po’ per galanteria e un po’ per sincero intento didascalico. E io rispondevo sempre alla perfezione. Il primo colpo è culo, il secondo è un caso, il terzo inizia a essere coincidenza, il quarto… signorina, ma lei è bravissima! Chi le ha insegnato? I miei nonni, rispondevo. E così passavo il pomeriggio, battendo scientificamente tutti i giocatori del bar, scambiavano le coppie, si alternavano, ci provavano in tutti i modi. Niente. Vincevo sempre io, il mio compagno era solo una spalla, e se ne rendevano conto. Mente e cedrate a volontà, al tavolino. Ma mica solo per me, eh. Per loro, che dovevano restare concentrati, e per una giornata rinunciavano a grappe e amari lasciando il barista allibito a ogni ordinazione. Alle prime luci della sera, con un sorriso, dicevo che dovevo tornare a casa per cena e li rimandavo dalle mogli. Torni a trovarci, signorina! Torni che è un piacere giocare con lei! Ogni tanto tornavo, in modo assolutamente irregolare e comunque non troppe volte, per evitare che prendessero confidenza. Mai avuto problemi, mai molestie o avances fastidiose: prevaleva il rispetto per la mia incredibile arte nel tressette, loro massima passione. Ero bellissima e bravissima, la nipote che sognavano tutti. Dopo il mio passaggio, i bar erano sempre più frequentati: nessuno voleva rischiare di essere a casa proprio nel giorno in cui forse sarebbe ripassata di lì “Marisa, la bella del tressette”. Ricordo bene quando finì tutto questo. Fu nell’agosto del 1974. Avevo ventuno anni e mi sentivo padrona del mondo. Dovevamo passare Agosto dai nonni vicino a Bologna, ero contentissima. Dopo aver fatto strage nei bar umbri, mi preparavo alla conquista della Romagna che mi raccontavano pullulare di bar e di sezioni del partito comunista, piene di giocatori di carte. E magari anche qualche bel ragazzo, pensavo. Partii in treno da sola, i 34


Scorretto Magazine – Sette

miei genitori dovevano restare ancora qualche giorno a casa, mi avrebbero raggiunto col mio fratellino di lì a poco. Non arrivarono. Fu proprio il loro vagone a scoppiare sull’Italicus poco prima di arrivare a Bologna. Così cambiò tutto. Ma di quell’estate mi resta il ricordo più bello, proprio nel viaggio di andata, da sola. Per farmi viaggiare al sicuro, mi avevano preso il biglietto di prima classe sul treno dei ricchi, il Settebello. Aveva la terrazza panoramica sul vagone di testa, era fantastico. Come era fantastico il ragazzo che conobbi lì: alto, muscoloso… giocava nella nazionale italiana di pallanuoto. E be', successe. Aveva pure il preservativo. E mi ricordo anche di che marca.

35


Scorretto Magazine – Sette

E fu sera e fu mattina – Gaspare III di Artanis Nàanie

«Razors pain you; Rivers are damp; Acids stain you; And drugs cause cramp. Guns aren't lawful; Nooses give; Gas smells awful; You might as well live»

Dorothy Parker, Resumé

Capodanno. Era di nuovo capodanno, come tutti gli anni. Ed era l'ultimo capodanno, si disse Gaspare, dal divano. Era una settimana che tentava il suicidio. 7 giorni. A Natale si era detto che era l'ora. Aveva scritto un bellissimo biglietto d'addio, chiedendo scusa ai suoi genitori e blablabla, dicendo ad Anna che la amava e blablabla, che le sue ultime volontà per quanto concerneva la sua sepoltura le sapeva il suo amico Tito, quello della fabbrica di mobili, che gli aveva fatto una bara, che la vita faceva schifo e blablabla. Un bellissimo biglietto di addio di due pagine, scritto con la sua calligrafia precisa, leggibile. I biglietti d'addio si scrivono a mano, pensava, che se li scrivi a macchina poi magari pensano che è un finto suicidio. Il suo era vero eccome. Aveva scritto un messaggio ad Anna, "Addio" c'era scritto. Lo aveva mandato un po' prima di farlo, perché in fondo un po' ci sperava che avrebbe risposto, chiamato, le avrebbe detto che lo amava, di tornare a casa, che le mancava troppo. Ma quella stronza non aveva fatto niente. Niente. Neanche una risposta, neanche uno squillo. Una doppia spunta blu e basta, il silenzio. Allora lui si era diretto alla sua montagnola di pillole antidepressive, che accumulava da settimane, e aveva cominciato a scartarle. Ne scartò una manciata, si versò un bicchierone di whisky per buttarle giù – almeno che l'ultimo sorso della sua vita fosse qualcosa di buono – e inghiottì. Passarono 30 secondi e, senza neanche che se ne rendesse conto, ebbe un conato atroce e vomitò tutto nel lavandino. Gli bruciava la gola, gli si contorceva lo stomaco, sudava freddo, tremava. Vomitò bile per mezz'ora, poi i conati si calmarono lasciandosi dietro tutto il resto. Sembrava che suicidarsi con le pillole non 36


Scorretto Magazine – Sette

fosse così facile. E fu notte, e fu mattina. Il giorno dopo decise di cambiare metodo. In uno slancio lirico credette di essere Seneca e decise che recidersi i polsi sarebbe stata una buona idea. Non avendo una vasca da bagno aprì l'acqua della doccia, smontò la lama del rasoio e si infilò nel calore umido. Guardò la lama, guardò i polsi per dieci minuti buoni. Poi prese un gran respiro e avvicinò la lama al polso. Alla prima goccia di sangue, svenne. Si risvegliò qualche minuto dopo, un minuscolo taglietto sul braccio, fradicio e congelato. L'acqua calda era finita e lui aveva scoperto di essere ematofobo. E fu notte, e fu mattino. Il terzo giorno pensò a quante migliaia di persone erano morte tramite lo stesso, semplicissimo modo. Annodò alcune delle sue cravatte, fece un bel nodo scorsoio all'ultima, mise uno sgabello sotto al lampadario e si appese. Un ultimo bel respiro, profondo, svuotò i polmoni e diede un calcio allo sgabello. Immediatamente dopo diede un dolorosissima culata sullo spigolo dello sgabello, mentre in testa gli cadeva dello stucco, pezzi di controsoffitto e fili elettrici. Alzò lo sguardo e vide un'enorme trincea deturpare il suo monolocale in affitto. Imprecò in numerosissime lingue, diede una spolverata e si guardò un porno. E fu sera, e fu mattina. Il quarto giorno pensò al gas. A parte l'odore (ma poteva sognare di essere in un container di tartufi) il gas era una buona soluzione. Si diceva che addormentasse, prima di uccidere, e a lui sta cosa di morire nel sonno piaceva un sacco. Aprì le manopole del gas, controllò di aver chiuso le finestre e andò a letto. Si girò e rigirò, cercando di immaginare tartufi per scappare all'odore sempre più potente. Gli sembrò di addormentarsi, pian piano, quando una sirena dal volume incredibile gli lacerò i timpani: l'allarme per le fughe di gas si era attivato (lui non sapeva neanche di averlo, un allarme per il gas) e da lì a poco spuntarono i pompieri con le sirene spiegate. Vagamente rincoglionito Gaspare si trascinò alla cucina e chiuse le manopole, aprì con fatica le finestre e negò spudoratamente ai pompieri, quando bussarono. E fu notte, e fu mattina. Il quinto giorno decise che il gas era una buona soluzione, ma che era impossibile farlo in casa. Si vestì di tutto punto, cappello ed impermeabile, prese la macchina e si diresse in una zona leggermente periferica. Come aveva visto fare nei film infilò un tubo di plastica in quello di scappamento, lo infilò nel finestrino e accese il motore. Chiuse gli occhi mentre il CD del Requiem (gli pareva la musica adatta, andarsene con Mozart che suonava per lui) partiva a volume altissimo. L'abitacolo cominciò a riempirsi di fumo e puzza e Gaspare fece dei grandi respiri, come gli avevano insegnato a quel mini corso di teatro fatto da ragazzo. Ce l'ho fatta, pensò. Poi la macchina tossì, lo fece di nuovo, e poi si spense. Tossì anche Gaspare, aprendo gli occhi nel bruciore del fumo. Tentò di riavviare la macchina ma la lancetta della benzina che fissava la E di empty fu inesorabile. Senza benzina, niente gas. Senza gas, niente morte. Le imprecazioni di Gaspare cominciarono a sfiorare tutti i santi del paradiso, mentre usciva dalla macchina morta e puzzolente. Tornò a casa a piedi. E fu sera e fu mattina. Il sesto giorno decise che aveva bisogno di una pistola. Un colpo ed in un attimo sarebbe finito tutto. Il problema era trovarla, una pistola, dato che non aveva mai avuto un porto 37


Scorretto Magazine – Sette

d'armi neanche da caccia - la caccia era un'attività da barbari, sosteneva, e questa affermazione lo portava spesso a litigare con quelli dei suoi amici che aspettavano l'apertura della stagione come fosse stato Natale -. Decise di andare da un armaiolo, per cominciare. L'armaiolo gli fece vedere molte pistole, molto belle, automatiche, semiautomatiche, col tamburo, d'epoca, nuove e usate. Gaspare scoprì che acquistare una pistola costava tantissimo, in realtà, ma tanto lui dei soldi non avrebbe più avuto bisogno. Concordò per una semiautomatica usata, alla modica cifra di 350 euro - aveva tirato sul prezzo, ma d'altro canto 15 anni da commerciale dovevano pur essere serviti a qualcosa ed al momento di pagare l'armaiolo gli chiese il permesso per il porto d'armi. Gaspare tentò di svicolare: glielo porto domani, l'ho lasciato a casa, sa mia moglie mi ha cacciato di casa da poco e non ho ancora recuperato tutti i miei documenti, guardi le giuro che tanto mica la devo usare mi serve solo per sentirmi al sicuro… La coscienza professionale dell'armaiolo fu inscalfibile. Gaspare tornò a casa con 350 euro di mancata spesa e nessuna pistola. E fu sera, e fu mattina. Il settimo giorno decise che per procurarsi una pistola bisognava andare nei quartieri giusti. Si vestì in maniera più sciatta possibile e si diresse verso le periferie che la gente come lui definiva "brutte": torri di cemento stringevano parcheggi semivuoti, capannelli di ragazzi in tuta sedevano sui gradini dei palazzi con lo sguardo cattivo e scemo della tarda adolescenza priva di prospettive. Si fece lasciare dal taxi al centro del quartiere e bighellonò un po'. Tentò di attaccare bottone con un tizio che, solo, sembrava attendere qualcuno appoggiato ad un muro. Il tizio lo guardò come se fosse un alieno - ed un po' lo era, con il suo Woolrich e i jeans diesel e le scarpe pulite - e rispose "oh fratè, io c'ho dello scitto se vuoi, ma ste merdate non le faccio". Continuò a girare, attaccò bottone con altri due ragazzi - ottenendo le stesse risposte e chiedendosi comunque cosa diavolo fosse lo scitto e se ci si potesse suicidare -, cominciò ad avere fame, freddo, noia e disperazione. Fu a quel punto che lo abbordarono tre ragazzi. Gli chiesero se era lui che cercava una pistola. Gaspare rispose di sì, esultando internamente. Il più grande dei tre ne tirò fuori una, gliela puntò addosso e si fece dare i soldi della pistola - 350 euro -, il telefonino e l'orologio. Poi scapparono ridendo. Venne giù tutta una litania dei santi mentre Gaspare raggiungeva una strada vagamente trafficata per chiamare un taxi, senza sapere come lo avrebbe pagato. E fu sera, e fu mattina. Era capodanno. Gaspare era esausto dalla sua settimana: non avrebbe mai pensato che suicidarsi sarebbe stato così complicato. Ne aveva fatte, di ricerche, per capire quali fossero le sue opzioni. Sembrava averle finite. Era seduto sul divanetto del monolocale dal soffitto sfondato, in mutande e maglietta, davanti al pc. Non lo guardava, il pc, ci stava solo davanti e rimuginava. Rimuginava a come potesse fare. Pensava ad Anna, quella stronza, che non aveva mai risposto al messaggio e che anche se lo avesse fatto ormai non lo avrebbe mai potuto sapere. Rifletteva a quella bellissima lettera di addio che, santo cielo, era scritta con uno stile così bello e lirico che era un peccato mandarla a monte. Erano sette giorni che tentava di suicidarsi ed ancora non ci era riuscito, la cosa lo faceva sentire ancora più fallito di quanto non si sentisse già prima. Si grattò le palle e riportò lo sguardo sul pc. Sulla pagina di Facebook aperta, in basso a destra, lampeggiavano le finestre di due chat. La prima era del profilo di Anna: non aveva bisogno neanche di 38


Scorretto Magazine – Sette

leggere il nome, l'immagine profilo del gatto nero non era mai cambiata da quando lei aveva fatto il passo di iscriversi, un anno prima. Il messaggio diceva "ehi, come va?". La seconda chat era più interessante, perché l'immagine profilo era quella di una bellissima donna. Il messaggio diceva un "ciao, come stai?" che implicava una conoscenza che lui non ricordava. Incuriosito smise di grattarsi le palle e si avvicinò al computer. Chiuse la chat di Anna senza visualizzare il messaggio - tiè, stronza -, e cominciò a rispondere a quell'altra chat. Sette giorni, otto giorni…le bare non scadono, magari aveva ancora qualche ora per vivere.

39


Scorretto Magazine – Sette

Il binario VINCENZO di Gianluca Dario

Ecco, lo sapevo che sarebbe andata a finire così, lo sapevo che mi avrebbero guardato tutti in modo strano. Tutto per colpa di Peppe, aveva detto che mi sarebbe venuto a prendere in macchina e come al solito ha inventato una scusa. E ti pareva che non sarebbe pure venuto a piovere? Per fortuna che in questa stazione di periferia, almeno ci hanno messo 'sta pensilina, così mi posso riparare dalla pioggia. Ovviamente le poche persone presenti devono stare per forza qui vicino a me, tutti e sette stretti uno addosso a l'altro. E questa che non smette di guardare, ma che vuole? Forse solo perché mi è caduto lo sguardo nella scollatura, pensa che sia interessato a lei, magari mi avrà già classificato come un maniaco sfigato. Quasi quasi glielo dico che non le stavo guardando le tette, ma il reggiseno. È proprio un bel modello, gliele fa sembrare più grandi di quello che sono, ma mica le posso dire che mi piacerebbe essere femmina e vorrei poterlo indossare anche io un push-up come il suo. No, non se ne parla proprio, che la gente è piena di pregiudizi. Già mi guardano in modo strano per il modo in cui sono vestito, se sapessero il perché probabilmente cambierebbero atteggiamento, ma si sa, le persone giudicano in base a ciò che vedono. E intanto il treno è anche in ritardo, sta giornata si è messa proprio storta. Spero solo di non fare tardi, che i bambini dell'ospedale mi aspettano e vorrei arrivare in tempo per la festa.

40


Scorretto Magazine – Sette

Sette mesi di Svetlana Svetla Si erano conosciuti online, su Facebook, il social network che mette in collegamento le persone sole, anzi, la solitudine delle persone. Lui era una di quelle persone, e lei pure. Lui aveva una bacheca popolata di link demenziali e cose bellissime, poesia, letteratura, immagini, suoi scritti, tutti belli, tutti intimistici. Lei capì che lui doveva essere uno capace di molto più di quel che faceva apparire, anche se non aveva capito bene cosa lui facesse trasparire veramente di sé, eppure quel cervello l’affascinava, e l’affascinava tanto. Lei non se lo disse mai, per molto tempo, perché di cervelli belli ne vedeva tanti in quel posto inconsistente, ma erano tutti lontani, inesistenti, virtuali, e lui non faceva eccezione. Magari nella realtà erano tutti completamente diversi, siamo tutti bravi dietro lo schermo di un computer, pensava lei, però lo aveva notato. Sì, lo aveva notato, e capì (perché lo sentì) che lui aveva notato lei. Le cose rimasero così per un bel po’, per un tempo che lei non seppe mai definire. I rapporti erano sporadici, le chiacchierate rade, e lente, progredivano con difficoltà. Delle volte le occasioni di conversazione naufragavano, delle altre non c’era lui, o non poteva lei o semplicemente sembrava evidente ad entrambi che non ci fosse particolare voglia di interagire. Eppure da un certo punto in poi accadde che le conversazioni cominciarono a diventare un po’ più frequenti, sempre claudicanti, ma col tempo sempre meno zoppicanti. Non arrivarono mai ad una vera e propria intesa quotidiana fatta del racconto della giornata di ognuno dei due, ma comunque erano più vicini. Fino a che decisero di incontrarsi e così fecero. Non abitavano poi molto lontano l’uno dall’altra e vedersi non sarebbe stato troppo complicato. E da lì nacque una storia. Quando si dice “nacque una storia” si intende sempre una storia d’amore. Ma non necessariamente nasce una storia d’amore. Una storia può essere di tanti tipi, una storia è tante cose. Quando nasce una storia può essere tutto come niente. La loro fu tutto. Per certi versi fu troppo, per certi altri troppo poco. Fu una storia. Fu la loro storia. Lei lo guardava dritto in faccia, lo studiava. Doveva essere stato bello da ragazzo, più di adesso sicuramente. Aveva gli occhi marroni grandi ed espressivi, con uno sguardo tanto torvo quanto dolce: poteva essere lo sguardo di un serial killer o di un uomo disilluso o cattivo perché incattivito dalla vita. Non sapeva bene chi fosse, ma voleva capirlo. Sentiva di volerlo e doverlo capire. Per questo accettò di incontrarlo. Da quelle foto sulla sua bacheca lei vedeva una persona trascurata, una persona a metà, una di quelle che avrebbero potuto tanto ma qualcosa nella vita gli aveva impedito di esserlo, di realizzare quel tanto che aveva in potenziale, e per questo, fondamentalmente, aveva sepolto sé stesso, il vero sé stesso, sotto una coltre fatta di un lavoro di cui si accontentava, di una vita di solitudine con qualche affetto sparuto che aveva la propria di vita e nelle occasioni lo includeva in essa, ma prevalentemente era un uomo solo. Una solitudine alla quale lui si era ormai affezionato, che si era costruito e arredato, come una casa piccola che cerchi di rendere funzionale e gradevole perché sai che è l’unico posto in cui puoi stare, l’unico che hai e che ti appartiene. Il potenziale inespresso addolciva il cuore di lei, le parlava. Era affascinata da quel che lei vedeva, da quel che lei sapeva che esisteva al di là di ciò che lui mostrava, e ciò che lui mostrava, faceva o diceva, ciò che aveva realizzato di sé e ancor di 41


Scorretto Magazine – Sette

più quel che giaceva in profondità la richiamava a lui, l’attirava. E lei aveva bisogno forse di questo. C’era qualcosa in lui che la chiamava, era una sorta di curiosità emozionale e un bisogno quasi impellente di rendergli giustizia, di dirgli “io vedo chi sei, come tu vedi chi sono”. Lui si era fatto coraggio per chiederle quel primo appuntamento. Non aveva storie virtuali, e chissà da quanto non ne aveva di vere. Era solo, come era sola lei. Lo capirono e se lo dissero senza parlare e senza scriverlo su quella tastiera. Alla fine si videro. Impacciati, nemmeno troppo agitati a vederli, ma dentro di loro trepidanti. Erano come due relitti che si incrociano mentre vengono portati dal fluire dell’acqua sulla quale galleggiano, una sorta di scontro provocato, uno sforzo in più per opporsi alla corrente, cavalcare il flusso e andare alla deriva insieme, uno appoggiato all’altro, l’uno di fianco all’altro, uno impigliato nell’altro. E così fu. La prima volta fu il classico incontro tra due che non sanno bene cosa dirsi a parole perché non parlano con le parole. La seconda volta ci misero qualche parola in più e poi fu un crescendo di parole che andavano dritte dove l’uno voleva che andassero, ovvero a segno dentro l’altro e poi arrivò il momento in cui si sfiorarono, si toccarono e si amarono. Lui le prese una mano, lei lasciò fare, uno di fianco all’altro seduti su una panchina sotto un albero frondoso dei giardini, si baciarono. Un bacio che era coerenza, che era realtà, e lealtà. Un bacio spontaneo e naturale. Lo aspettavano entrambi. A quel bacio seguirono altri, nel crescendo più spontaneo e corposo che fossero in grado di avere l’uno verso l’altra. E in seguito fecero l’amore, a casa di lui, e fu bello. Bello come quando due solitudini si uniscono e si rifanno di ciò che hanno perso e si regalano la propria interezza. Quello scambio tra due esseri era la tregua, la sospensione, il riempimento di un vuoto. Era l’interezza non frustrata, il ricongiungimento, la congiunzione di due parti che formano un tutt’uno anche se non combaciano perfettamente ma comunque stanno insieme, e ci mettono tutte le proprie forze per stare insieme. Gli effetti di questa unione erano evidenti in lui, a chi sapeva vederli. Si traducevano in una minore trascuratezza: dormiva meglio ora, beveva e fumava di meno. I tratti del viso erano meno corrucciati, più distesi. Ora si sorprendeva a sorridere da solo mentre lavorava quando pensava a lei, e lui pensava sempre a lei. Non erano di quelle coppie da mille chiamate e mille messaggi, ma nessuno distaccava il pensiero dall’altro quando non era con l’altro, mai. Era tutto in funzione dell’altro nelle loro vite, anche se apparentemente non molto era cambiato nelle loro esistenze. Però quando si vedevano e facevano l’amore, continuavano a riempirsi l’uno dell’altra. E per loro quello era il senso di tutto. Erano vicini anche quando non lo erano fisicamente, erano uniti anche se lontani. Stavano respirando. Avevano ripreso a respirare. Poi però qualcosa cambiò. Non in loro, loro avrebbero continuato da lì fino alla fine. Non decisero loro che qualcosa dovesse cambiare. Fu qualcosa che accadde e basta, qualcosa che probabilmente era scritto che accadesse e così fu. Fu che lui aveva capito che la sua vecchia vita stava per essere messa da parte. Uno spostamento che non occupa nuovo spazio, come se ci si facesse più in là da dove ci si trova e si prendesse a camminare in un’altra direzione che non è quella a cui ritorni sempre, ma è un altro dove, un’altra strada, un altro percorso, non quello che conosci e a cui ritorni sempre, e quel nuovo dove 42


Scorretto Magazine – Sette

per lui era lei. Lui inesorabilmente tendeva verso quel dove, ma non avrebbe dovuto essere così. Non gli era mai piaciuta la parola destino, ma sapeva di averne uno. Uno bello scritto, irreversibile e inesorabile come tutti i destini. Se ne rese conto perché quando si guardava nello specchio la mattina quando si radeva faceva sempre la stessa considerazione, che quello che vedeva riflesso era un uomo a metà, un altro sé stesso. Ormai non pensava nemmeno più a cosa o a chi gli aveva impedito di essere del tutto, ora si guardava e sapeva che quell’uomo era l’unica persona che era riuscito ad essere e ne prendeva atto ad ogni passata di rasoio. Non se lo chiedeva più ma sapeva che c’era sempre stato qualcosa o qualcuno che gliel’aveva impedito. Era quello il destino che gli era toccato, evidentemente. Però sapeva anche che lei era la differenza in tutto ciò. Lo sapeva perché lo sentiva, e aveva deciso di andare da lei, di stare con lei, aveva deciso di provare a fare la differenza, la sua differenza, ma non poté. Non fu così. In sette mesi di frequentazione, quando i volti di entrambi stropicciati dalla vita cominciavano a diventare meno corrugati, ecco che il destino col suo disegno tornava a farsi sentire, ad imporsi, a completare la sua intenzione. Lui venne colpito sulla nuca con un bastone da un vicino di fondo, per una stupida questione di cui lui non si ricordava nemmeno più, una storia vecchia, di suo padre, di cui aveva solo sentito parlare ogni tanto in famiglia. Era stato il nipote del suo vicino di fondo a colpirlo, per la precisione. Un ragazzo che slatentizzò la sua schizofrenia proprio in quell’occasione, così recitò la perizia psichiatrica al processo. Lui fu la sua prima e unica vittima. Un colpo solo tra spalle e nuca, con una maggiore preponderanza sulla nuca. Cadde riverso a terra, di faccia. Stava sorridendo quando venne colpito. Il sorriso lasciò il posto al terrore, ma lui capì, capì perché sapeva, che quel colpo era scritto nella sua storia. Sapeva che il suo potenziale finiva lì, che la sua solitudine finiva lì, che lei, la sua differenza, la sua completezza finiva lì e tornò a sorridere, consapevole e rassegnato. Morì con quell’abbozzo di sorriso sulle labbra, con gli occhi grandi marroni con le ciglia lunghe sbarrati ma sereni. Finì tutto così. Era forse questo l’unico progetto che gli era stato dato di realizzare: avere sette mesi di completezza, per vedere com’era e sapere cosa non aveva mai potuto avere.

43


Scorretto Magazine – Sette

Immobile e silente di Esther Nazione

Immobile e silente nel buio della stanza un trastullar la mente al par di una vacanza Voluttuando leggera incurante e senza meta sopraggiunse la sera vellutata come seta Sette rintocchi sordi riecheggiarono lontano richiamandone i ricordi in cui perdersi pian piano In un denso fluir di colori sette quelli dell'arcobaleno il passato salta fuori incapace di porne freno un'eco di note musicali l'accompagnano a ritroso sette suoni simili ma ineguali in un rincorrersi affannoso Stralci di nenie e favolette ambientate in luoghi strani popolate da fate, regni e sette esseri goffi chiamati nani Grida risate corse affannose con un pallone e marcature strette immancabili cadute rovinose e strappi a sette sulle magliette

44


Scorretto Magazine – Sette

Scaramantici e superstizioni attribuiscono agli specchi rotti anni sette di jella e dannazioni ed a gesti e segni indotti Sette decisi forti rintocchi la strappano dal torpore trasalendo spalanca gli occhi il buio prende e assume colore la memoria priva ormai di sbocchi del giorno intravede il primo albore

45


Scorretto Magazine – Sette

il binario ADELINA di Lollo Rapets

Mi stanno guardando? Sì, mi stanno guardando. Come si fa a fare la faccia indifferente? Me lo aveva detto Denise: “zia, tu hai la faccia giusta per fare da impact tester ma devi imparare a rilassarti e far finta di niente. Se ti imbarazzi non funziona. Provaci, zia… non ci vuole molto!”. Adesso fingo di fissare il vuoto persa nei miei pensieri, faccio una faccia un po’ svanita… mi prude la faccia, cerco di grattarmi con disinvoltura. Chissà se ci cascano. Dunque, mi stanno guardando il ragazzone e la ragazza col cappellino bello. E anche quest’altra con il rossetto e la scollatura. Denise sarebbe contenta, direbbe che quelli sono proprio il “target” giusto. Per la tesi dell’accademia della moda ormai non basta più disegnare una linea, bisogna anche sperimentare la diffusione. Devo dire che questi cappellini a tema dolciario che si è inventata sono davvero carini. Li ha chiamati CapCakes, dice che anche il nome è importante. Deve essere diretto e facile da ricordare. Guerrilla Marketing, mi ha detto che si chiama. Andare in giro con qualcosa di nuovo e curioso come fosse la cosa più naturale del mondo. Prima lo fai vedere, poi lo pubblicizzi, e diventa trend. A me sembra strano. Eppure Denise è tanto intelligente, se lo dice sarà vero. Forse la rossa qui è una di quelle che lo sfoggerebbero a un matrimonio, tutta orgogliosa di far vedere alle amiche che lei è la più aggiornata in fatto di moda, e dimenticando (o fingendo di dimenticare) che la prima volta che l’ha visto ha fatto la faccia che sta facendo adesso. Sul treno poi dovrò andare avanti e indietro per i vagoni per farmi guardare da più gente possibile. Denise dice che devo studiare le loro reazioni, ma figurati se ci capisco qualcosa. Però intanto lo faccio, aiuto la mia nipotina che è tanto brava, e intanto magari mi guarda qualcuno di interessante… sono anni che non accade. Forse i Cap-Cakes di Denise mi renderanno interessante. Però è vero che devo essere più disinvolta, ma oggi è la prima volta che ci esco. Magari tra una settimana o due andrà meglio. Sperando che non mi guardino sempre tutti così male.

46


Scorretto Magazine – Sette

UNA CITTA' DI SETTE a short story by Helenio Ferrante “Ebbene”, disse lo sceriffo Parra, “questa è la nostra città completamente ecologica”. Ines annuì osservando gli edifici dal finestrino dell’automobile, seguendo con lo sguardo ciò che lo sceriffo Parra indicava. Sulla destra c’era la sede della Setta Ambiente Nazionale, a sinistra un grande palazzo sormontato dalla riproduzione pantagruelica di un fucile a pallettoni. Ines guardò il palazzo stupita. “Quella è la sede della Setta Libera Caccia”, disse Parra. “I cacciatori vanno d’accordo con gli altri ecologisti?”, domandò Ines. “Dipende”, rispose Parra. “Non con gli Animalisti Liberati, sì con i Verdi Episcopali”. “Verdi Episcopali?”, domandò Ines. “I Verdi Episcopali rivendicano il primato del mondo vegetale senziente sul mondo animale privo del dono della parola”, disse Parra. Accostò l’automobile, si voltò verso Ines. “Dopo decenni di scaramucce i Verdi Episcopali e la Setta Libera Caccia hanno firmato un’intesa: i Verdi Episcopali hanno ottenuto il permesso di costruire dodici palafitte biodegradabili all’interno della loro Azienda Venatoria e i cacciatori possono fare piazza pulita di tutti gli animali privi del dono della parola nei territori dei Verdi Episcopali”. Parra ripartì. “Ci sono animali a parte l’uomo dotati del dono della parola?”, domandò Ines. “Assolutamente sì”, rispose Parra. “Il merlo indiano, per esempio. Per non citare il parrocchetto cornuto, il kakapo, il pappagallo superbo, l’ara militare; ai cacciatori è tassativamente proibito cacciare queste specie animali”. “C’è qualcuna di queste specie da queste parti?”, domandò Ines incuriosita. “Certo che no!”, disse Parra trafficando con il cruscotto. “Le spiace se fumo?”. Si accese una sigaretta. “Faccia pure”, disse Ines. La via terminava a un incrocio a T, e Ines poté ammirare di fronte a sé due costruzioni simili, oblique in senso contrario l’una dall’altra. “Quelle sono le sedi degli Antispecisti della Grande Scimmia e degli Utilitaristi di Singer”, disse Parra. Ines guardava le costruzioni che si susseguivano con forme diverse. “Quella invece è la sede dell’Alleanza Homaranista”, disse Parra. Rallentò affinché Ines potesse guardare il palazzo. Aveva la forma di una gigantesca capanna. “Qual è l’ideologia degli homaranisti?”, domandò Ines. “Di preciso non saprei”, rispose il signor Parra, “ma so che nessuno di loro può professare 47


Scorretto Magazine – Sette

una religione”. Ines lo guardò piuttosto stupita. “In che senso?”. “Nel senso che gli homaranisti professano una libertà assoluta di interconnessione religiosa, purché rivolta al mondo vegetale”. “Cioè?”. “Cioè pregano gli alberi”, disse Parra. “Ma a un certo punto si resero conto che la maggior parte degli affiliati era solita farsi il segno della croce al cospetto del Sacro Tiglio”. Si fermò a un semaforo rosso. “Qualcuno protestò, così decisero di vietare qualunque atto religioso”. “Quindi”, disse Ines, “per consentire a tutti la libertà assoluta di professare la propria religione hanno proibito ogni forma di religione?”. “Esattamente!”, disse il signor Parra, “non è geniale?”. Scattò il verde e Parra ripartì. Appena oltre l’incrocio entrambi i lati della strada erano fiancheggiati da edifici stravaganti, costruiti secondo stili architettonici che Ines non conosceva. “Quella è la sede degli Ecologisti del Settimo Giorno”, disse Parra. L’edificio era formato da cinque o sei cubi addossati spalla a spalla, completamente edificati con sterco di vacca. “Gli Ecologisti del Settimo Giorno manifestano il proprio ecologismo solo di venerdì”, disse Parra. “Venerdì non è il quinto giorno della settimana?”, domandò Ines. “Dipende”, rispose Parra. “Dipende sempre tutto?”, domandò Ines. “Dipende”, rispose Parra. “A entrambe le domande. Per quanto concerne la prima, il venerdì è il settimo giorno della settimana per gli Ecologisti del Settimo Giorno, per gli Anti Vivisezionatori Equilibrati e per i Secessionisti del Fiore di Loto; per gli Scissionisti del Nuovo Ordinamento Naturale il settimo giorno della settimana è il martedì; per gli Smarcatori Contro-Antropocentrici è il mercoledì”. “Curioso”, disse Ines. “Ma per la maggior parte delle persone il settimo giorno della settimana è la domenica”, disse Parra. Percorsero una rotatoria e tornarono in direzione della sede degli Ecologisti del Settimo Giorno. “Vuole visitare la sede?”, domandò Parra. “Che giorno è oggi?”, domandò Ines. “Mercoledì”, disse Parra. “Ci sarà qualcuno?”, domandò Ines. “Lorna, la segretaria degli Ecologisti del Settimo Giorno, c’è tutti i giorni da mezzogiorno alle quattro del pomeriggio, tranne il venerdì. Il venerdì è dedicato alle azioni ecologiste”. 48


Scorretto Magazine – Sette

“Naturalmente”, disse Ines. “Posso farle una domanda?”. “Mi domandi tutto ciò che vuole”, disse Parra. “Negli altri giorni della settimana cosa fanno gli Ecologisti del Settimo Giorno?”. “Quello che vogliono. Una volta ho incontrato il signor Blumfoj, vicesegretario dell’associazione, che scaricava una lavatrice in un fosso. Ho frenato, ho tirato giù il finestrino e gli ho chiesto cosa stesse facendo, e sa che cosa mi ha risposto lui?”. “Ho il sospetto di saperlo”, disse Ines. “Mi ha risposto: oggi è giovedì. Proprio così mi ha risposto. E pensi che il venerdì fanno le ronde per acchiappare quelli che gettano un mozzicone di sigaretta per strada. Allora, vuole visitare la sede?”. “Magari un’altra volta”, disse Ines. Parra prese un’altra rotatoria e tornò indietro. “Capisco che il primo impatto con la nostra città può essere un tantino, come dire, disturbante”, disse Parra. “Ma col tempo si abituerà, non ho dubbi”. Ines si guardava intorno con una punta di preoccupazione. “Da queste parti siamo piuttosto interessati alle questioni ecologiche”, disse Parra. “Siamo, per così dire, ambientalisti”. Accese un’altra sigaretta. “E lei, signorina?”, domandò. “Qual è il suo grado di ecologismo? Si sente ecologista?”. Ines tentennò qualche secondo. “Devo per forza essere ecologista per abitare qui?”, domandò. “In qualche modo”, rispose Parra, “in qualche modo”. Ines era stata selezionata per gestire la prima agenzia di viaggi della città. “Non so se sono capitata nel posto giusto”, disse. “Lei è capitata nel posto perfetto!”, disse Parra. “Gli abitanti della città viaggiano spesso?”, domandò Ines. “Beh”, disse Parra, “anche questo dipende”. “Da cosa dipende?”, domandò Ines. “I Mimetici Unitari della Vegetazione rinnegano ogni mezzo di trasporto alimentato con sostanze nocive per la flora, quali per esempio benzine, gpl e metano, i Migratoristi Antiochiani viaggiano solo secondo i ritmi delle migrazioni degli uccelli, i Fondamentalisti Scismatici Della Bestia da Soma sono contrari all’utilizzo degli animali con finalità pragmatiche, dunque vietano di cavalcare cavalli, di salire su carri e carretti, carrozze, eccetera”. “Ho capito”, disse Ines perplessa. “Ma sono sicuro che lei riuscirà a trovare qualcosa di buono per tutti”, disse Parra. “Ah sì?”. “Ma certo! Per esempio potrà organizzare romantici viaggi in carrozza per i Mimetici Unitari, crociere che seguano l’itinerario delle gru cenerine per i Migratoristi Antiochiani, e 49


Scorretto Magazine – Sette

per gli Eucaristici della Foglia d’Eucalipto viaggi su misura in Tasmania, o Nuova Guinea. È precisamente di un’organizzatrice di viaggi che abbiamo bisogno”. Parra parcheggiò l’automobile in un grande spiazzo. “Non le sembra eccitante?”, domandò. “Più o meno”, disse Ines. “Ricordi soltanto di non nominare mai a un Eucaristico della Foglia d’Eucalipto i membri dei Koalisti Metodici Dell’Apocalisse”, disse Parra scendendo dall’automobile. Camminarono verso una costruzione sferica completamente in cristallo, o vetro. Sulla destra si estendeva un quartiere all’apparenza normale, con villette a schiera e al centro un edificio lungo e basso. “Che posto è quello?”, domandò Ines. “Questo è il mio quartiere”, disse Parra indicandolo, “e quella è la sede dei Veementi per l’Estinzione Volontaria del Genere Umano”. “Cioè allineati con la legge governativa”, disse Ines. Parra scosse la testa. “Signorina”, disse, “non confonda il Programma Governativo con il nostro. Noi professiamo l’estinzione pacifica del genere umano. Il Governo pretende che si facciano più figli, noi pretendiamo che non se ne facciano più”. “Quindi nessuno di voi ha figli?”, domandò Ines. “Io sono il quint’ultimo nato del quartiere, cinquantasette anni orsono”, disse Parra. “Sconvolgente”, disse Ines. “Non così tanto”, disse Parra. “La invito a pranzo. Il Palazzo dell’Ecosistema è territorio franco, adibito a ciascuna delle ideologie cittadine”. All’interno del grande palazzo sferico c’erano numerosi ristoranti. “Qui ha sede la più grande food court della città”, disse Parra. “Può trovarci ristoranti adatti per chiunque, dai Vegani Neocatecumenali ai Pacifisti Anabattisti, che mangiano soltanto cibi prodotti da esseri morti pacificamente”. Si decisero per un ristorante vegetalianista. “Cosa desidera?”, domandò Parra, “qui può mangiare solo verdure raccolte senza traumatizzare la pianta”. “Non sono sicura”, rispose Ines. “Vuole consultare un menù?”, disse Parra. “Lo strudel di mele cadute dall’albero naturalmente è magnifico”. Ordinò due strudel. “Intendevo dire: non sono sicura di potermi trasferire nella vostra città”, disse Ines. “Questo è fuori discussione”, disse Parra, “a noi tutti serve qualcuno che organizzi i nostri viaggi nel modo corretto”. “Non mi sento così ecologica”, disse Ines. “Non adesso, forse”, disse Parra, “Non ancora. Ma vedrà che col tempo riuscirà a integrarsi a meraviglia. Dapprima avevamo pensato che la sua agenzia poteva risiedere nel quartiere 50


Scorretto Magazine – Sette

della Confraternita Trinitaria dei Latto-Ovo-Vegetariani, intendendo per terzo elemento della Trinità il miele, ma poi abbiamo trovato un posto che è un vero gioiello, si trova nel centro del quartiere dei Naturisti Riformati Levigati; per la sistemazione invece le ho trovato un appartamentino nel quartiere dei Carnivori Evangelici Ultraortodossi, si troverà bene”. “Vuol dire che a casa non potrò mangiare verdure?”, domandò Ines. “No, tassativamente. I Carnivori Evangelici Ultraortodossi vietano qualunque forma di nutrizione vegetale. C’è una pena di dodici anni di carcere per i trasgressori. Ma stia tranquilla, quando è a lavoro potrà mangiare soltanto prodotti vegetariani”. Una cameriera servì i due strudel. “Ma non carne”, disse Ines. “Impossibile”, disse Parra. “Inoltre deve sapere che i Naturisti Riformati Levigati non indossano mai vestiti”. “Vuol dire che dovrò stare in agenzia nuda?”, domandò Ines. “Completamente nuda”, disse Parra, “e completamente depilata; secondo i Naturisti Riformati Levigati il corpo va spogliato non solo dei vestiti, ma anche dei peli: per questo si chiamano Riformati Levigati; i Naturisti Pudici degli Ultimi Giorni, al contrario, indossano vestiti ma non li lavano mai, sarebbe antiecologico”. Ines guardò lo strudel di mele cadute naturalmente dall’albero. Aveva un aspetto invitante. “Credo che rinuncerò, sono spiacente”, disse. “Non è previsto che lei rinunci”, disse Parra portandosi alla bocca una forchettata di strudel. “Come le ho già detto, a noi serve un’agenzia di viaggi e un’addetta all’agenzia. E quell’addetta è lei, signorina”. “Trovatene un’altra”, disse Ines. “Impossibile”, disse Parra masticando, “lei è stata selezionata tra dodicimilanovecentodiciotto richieste di lavoro. Non c’è nessun altro”. Parra fece per accendersi una sigaretta, poi si ricordò che la food court era territorio franco e la ripose nel pacchetto. Lì vicino c’erano al tavolo due Ecosistemisti Congiunturali pronti a denunciarlo non appena avesse acceso l’accendino. “Mi rifiuto di lavorare nuda. E anche di depilarmi le parti intime”, disse Ines con tono brusco. “È un vero peccato, non farebbe per nulla brutta figura”, disse Parra. “Ho notato che ha le misure e le forme giuste per lavorare nel quartiere dei Naturisti Riformati Levigati”. “Mi dispiace”, ribadì Ines. “Non dirà sul serio”, disse Parra inghiottendo un’altra porzione di strudel. “Sono serissima”, disse Ines. “Ma non può andarsene”, continuò Parra masticando, “noi glielo impediremo”. Ines fu colta da un’emozione strana, come inquietudine mista a terrore. “Quand’è così”, disse Ines, “adotterò uno stile di vita contrario a qualunque vostra ideologia”. “Non glielo permetteremo mai”, disse Parra fermamente. 51


Scorretto Magazine – Sette

“Getterò le pile alcaline nei bidoni della carta”, disse Ines. “La smetta”, disse Parra. “Fumerò in negozio, mangerò formaggio, uova e legumi a casa”, disse Ines. “Non aggiunga altro”, disse Parra, visibilmente irritato. “Lascerò i rubinetti aperti tutto il giorno e le luci accese tutta la notte”. Parra armeggiò con il suo telefonino. “Mi farò penetrare da diversi uomini senza alcuna protezione”, proseguì Ines, “finché non sarò gravida; e quando sarà il momento verrò a partorire nel vostro stupido quartiere”. Un paio di guardie in borghese si posizionarono alle spalle di Ines. Parra si calmò. Mangiò una fetta di strudel, guardò la giovane dritta negli occhi. “Signorina”, disse, “si prepari a trascorrere un bel po’ di tempo insieme a noi”. Le guardie afferrarono Ines per le braccia e la sollevarono. “Inizierà il percorso educativo domani alle nove”, disse Parra. Ines non capì. “Peccato che non abbia assaggiato lo strudel”, disse Parra, “era delizioso”.

52


Scorretto Magazine – Sette

Il binario La sferruzzante di Roberta Pagnoni L'ho sempre pensato che non esistono, le coincidenze. Niente accade per caso. Infatti non sono nata per caso da una famiglia di levatrici, e non ho scelto io il mestiere di far nascere creature; è successo perché così doveva accadere. Una volta che lo si accetta, è tutto più semplice: anche vivere una vita diversa dal solito percorso marito, casa e figli propri, non altrui, e trarne comunque gioia e soddisfazione. Ho sempre saputo andare oltre al mio dovere, che di base non è niente più che mantenere la calma nel caos, rassicurare ed accogliere: ma io cerco quel punto i cui fili si incontrano, ed il nodo diventa il grembo da cui il disegno si svela. Per questo, ora, sferruzzo. Sono calzetti minuscoli e minuscoli berretti; nei momenti più noiosi, persino minuscole braghine e giacchette. Tutto, tranne che sciarpe, per scaramanzia: mi ricordano quando si arrotola il cordone ombelicale al collo, e mi tornano le palpitazioni. Per questo, ora, sono qua ad aspettare il treno che mi riporta a casa, proprio con queste persone. Perché non credo alle coincidenze, le faccio succedere, e basta. Quel testone, così squadrato, lo riconoscerei ovunque: ci vollero ore, sua madre sudò sangue e bestemmiò in aramaico, ed il berretto per lui non fu tanto minuscolo. Anche la scollacciata la ricordo bene, strillava a pieni polmoni ogni istante, e pure il precisino, come dimenticarlo! Si svegliava ogni due ore e mezza per la poppata, puntuale come un soldatino, gli occhi già seri appena aperti. Inoltre, sotto al Batman sono quasi certa si nasconda quel moretto sorridente dal cuore troppo buono, la sciantosa ha ancora lo stesso odore, dietro al profumo, e scommetto che anche la pasticcina l'ho fatta nascere io. Ce ne stiamo persino tutti vicini, come se dovessimo aspettare giorni e non pochi minuti, come se fossimo già un gruppo, qualcosa che assieme ha più senso che da soli. Lascio che i ferri sbattano gli uni contro gli altri mentre la lana si intreccia a formare trame, sono un magnete, sono la quarta parca, quella che i fili li unisce tra loro. Ed unendo, si crea. 53


Scorretto Magazine – Sette

54


Scorretto Magazine – Sette

Ringraziamo calorosamente tutti coloro che hanno permesso a questa rivista di vedere la luce, specialmente il nostro sponsor “le Catene di S.Antonio�

Seguici anche su Facebook, Twitter e Instagram per non perdere i prossimi aggiornamenti: anticipazioni, nuovi temi, revival e altro ancora!

55


Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.