SCM9 Smaltimento Cadaveri

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Scorretto Magazine – Smaltimento Cadaveri

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Scorretto Magazine #9|Settembre 2017

DIRETTORE (NON) RESPONSABILE Fabio Martellini REDAZIONE SCORRETTA Aldo Bagnoni, Amelia Rossi, Artanis Naanìe, Claudio Ricci, Donato Alfonso Sedàan, Edward Dwight Eugene Navarro, Fabio Martellini, gian marco griffi, Gianluca Dario, Helenio Ferrante, Lollo, Roberta Pagnoni, Svetlana Svetla, Silvia Perosino HANNO COLLABORATO Simone Delos, Gopaneel Myles GRAFICA E IMPAGINAZIONE Lestath87, Artanis Naanìe, Silvia Perosino DIRETTORE CREATIVO Andrea Andereassen (Port Huron High School) COPERTINA Silvia Perosino CONTROCOPERTINA Lestath87 (digital art)

Pubblicazione casuale scorrettomagazine.wordpress.com redazionescorretta@gmail.com

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Indice Pag. 6

Editoriale

di Fabio Martellini

Pag. 7

Haiku

di 水

Pag. 8

Smaltimento equivoco

di Aldo Bagnoni

Pag. 10

Rainbow Valley

di Gopaneel Myles

Pag. 18

Facciamone delle gallette

di Claudio Ricci

Pag. 21

Con la senape e il vino bianco

di Artanis Naanie

Pag. 22

Non una molecola

di Svetlana Svetla

Pag. 24

Progetto Apocalisse

di Simone Delos

Pag. 30

Smaltimento cadaveri di massa

di gian marco griffi e Silvia Perosino

Pag. 38

La riffa del morto stecchito

di Helenio Ferrante

Pag. 53

Haiku

di 直子

Pag. 54

Giulietta

di Gianluca Dario

Pag. 55

PUBbliche virtù

di Aldo Bagnoni

Pag. 57

L'affare

di Alfonso Donato Sedàan

Pag. 64

Gaspare V – La sala d'attesa

di Artanis Naanie 4


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Pag. 66

Una breve introduzione del villaggio rurale-monumentale di Vivanta Tombejo

di Edward Eugene Dwight Navarro

Pag. 71

Haiku

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Pag. 72

Le avventure del cadavere di M.

di Lollo Rapets

Scorrezioni Pag. 17

Roba da barboni

di Lollo Rapets

Pag. 23

Volta la terra

di Artanis Naanie

Pag. 37

Le zoccole del bosco

di Arkan Nora

Pag. 56

Codici sbagliati

di Gianluca Dario

Pag. 69

Chi gode si accontenta

di Alez

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EDITORIALE di Fabio Martellini Tra i temi d'attualità è sempre un evergreen la morte, vuoi per esorcizzarne le paure, vuoi perché prima o poi tocca indistintamente a tutti (sarà anche per questo che gli investimenti imprenditoriali a bassissimo rischio restano comunque le pompe funebri). Ricordo una scorrettezza fatta in quel di Saronno e qualche anno dopo ripresa a Roma, dove alla popolazione anziana, per superati limiti di età, veniva chiesto di recarsi spontaneamente agli Uffici Comunali debitamente preposti affinché si potesse procedere con la cremazione. Nella prima versione della lettera recapitata ad ignari cittadini, veniva proibito il consumo di bevande alcoliche per non dare luogo ad accidentali deflagrazioni durante la ignizione delle salme. In termini di eco-sostenibilità, in città sempre più cementificate compaiono invece campagne pubblicitarie di una start-up spagnola che propone la semina del defunto nell'urna cineraria: l'idea, che porta in sé una nota romantica quanto grottesca, è quella di avvolgere le ceneri del caro estinto con un substrato vegetale contenente il seme della pianta in cui si è scelto di far “risorgere” il trapassato. Il tutto, raccolto in un involucro biodegradabile, viene poi sepolto in un bosco e contribuirà a rendere verde il pianeta. Meno ecologica è invece la proposta che viene dalla Svizzera: sfruttando la chimica del carbonio e le alte pressioni, ecco che le ceneri sono tramutate in diamanti! Il prezzo? A detta dell'azienda che si occupa della trasformazione, minimo quattromila euro... tanto quanto una normale sepoltura. Ben oltre si spinge l'artista olandese Mark Sturkenboom che sogna vedove confortate da sollazzanti appagamenti, realizzando per loro un dildo contenente le ceneri del congiunto. Peso? 21 grammi, quanto quello dell'anima: forse l'unico elemento che non valga la pena perdere smaltendo un cadavere.

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SMALTIMENTO EQUIVOCO di Aldo Bagnoni Di mestiere sarei imbalsamatore. Per arrotondare, ho scelto di approntare cadaveri per la sepoltura. Li ricompongo, li lavo, li vesto, li trucco, li deposito nella bara. Sono una persona scrupolosa. Tratto e turo loro tutti gli orifizi da cui potrebbero verificarsi imbarazzanti e maleolenti fuoriuscite di fluidi organici. In un moderno servizio funerario, la cosa sarebbe oltremodo disdicevole, e non favorirebbe una dipartita meno dolorosa di quanto già di norma non sia. A meno che non ti sia morta una persona non cara. Ma questo non è certo affar mio. Io sono un professionista, curo ogni dettaglio con perizia, e non lascio nulla al caso. Certo, qualche inconveniente può sempre verificarsi, è pur sempre un settore molto delicato, e gli imprevisti sono costantemente dietro l'angolo. Una paio di anni fa, all'inizio del mio nuovo lavoro qui, se ne verificò uno. Ecco cosa fa la fretta, purtroppo: non hai modo di soffermarti a riflettere correttamente, e rischi di capire una cosa per l'altra. Mi avevano detto: questo è un cadavere da smaltire prima possibile, fa caldo ed è morto di una malattia tropicale molto violenta, che provoca un'acuta dissenteria, appena rientrato dalla Guinea Bissau. Ero soprappensiero, avevo appena ricevuto una comunicazione riguardante un pulmino di turisti - 11 persone - andato fuori strada, il Comune aveva decretato il lutto cittadino e deciso di allestire un funerale pubblico per il giorno successivo. Era stata interpellata la nostra ditta, come la migliore in grado di allestire su vasta scala un'onoranza adeguata. Il signor Ugo S. si era così trovato in pole position, per così dire, in virtù della sua lunga amicizia con uno dei titolari, che me ne aveva imposto una rapida preparazione, non priva però di ogni necessaria cura. Questo mi aveva un minimo agitato, devo dire, era una situazione da gestire con perizia e sveltezza estreme. L'idea di dover smaltire questa richiesta con ogni cautela e rifinitura m'era rimasta in testa, e avevo pertanto provveduto a tutti i vari passaggi affidandomi agli ovvi automatismi del mestiere, stratificati nelle mie mani e nella mia testa da decenni, oramai. Mi accorsi però dell'equivoco troppo tardi. La prima persona che s'avvicinò alla bara in chiesa, dopo che depositammo il feretro dinanzi l'altare, la madre, s'affacciò sull'apertura a funzione già intrapresa, cacciò un urlo strozzato e gesticolando in modo incontrollato gridò: "Ma come?? Come??!?? In tutta la sua vita Ugo è sempre stato un vero uomo, cosa credete?!! E voi...??!!? Voi, che avete fatto...???!!?? Ugo!! Un uomo... un uomo che..." e artigliando le mani al cielo, sopraffatta dalla rabbia e dal turbamento, piombò a terra come 8


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un peso morto, è il caso di dire nella fattispecie. Il titolare, appena ritornato da fuori città in tempo per il funerale, corse anch'egli verso la bara, come diversi parenti e amici, a quel punto, e fu il primo a vedere cos'era accaduto. Si slanciò quindi verso di me e m'afferrò al collo, urlandomi "Imbecille!! Cosa hai combinato, ti ha dato di volta il cervello???!!!???", cercando di colpirmi con un cazzotto in pieno viso, che riuscii miracolosamente a schivare. Ho schivato anche il licenziamento, per fortuna mio cugino è socio di minoranza della ditta di pompe funebri. Certo è che la feci grossa, in quell'occasione, ma non s'è più ripetuto, ci mancherebbe. L'ho detto, ero agitato, distratto, ed avevo preso alla lettera la richiesta di smaltimento, equivocando, anche perché non sono di madre lingua italiana, sono croato per parte di padre ed ho sempre vissuto nei Balcani sino al momento di trasferirmi in Italia ed iniziare il mio nuovo lavoro. Imparai in quell'occasione che tra "smaltire" e "smaltare" c'è una differenza notevole. Avevo smaltato le mani del povero sig. Ugo, che era un giovane uomo dal fisico e dai tratti molto delicati ed efebici, con un bellissimo smalto che m'era parso adeguato, un rosso brillante molto classico. Pensavo che così non avrei sbagliato, e che l'avrebbe gradito lui stesso, che tra l'altro m'era parso dell'altra sponda. Vabbé, tutti possiamo equivocare, del resto. In compenso, ora il mio italiano, come vedete, è decisamente migliorato.

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Rainbow Valley di Gopaneel Myles

Quando muoiono i mendicanti Non si vedono comete I cieli stessi annunciano coi lampi La morte dei principi W. Shakesperare / Giulio Cesare

Un lungo pennacchio bianco si alzava morbido nel cielo talmente blu da sembrare solido. Lingue di neve mista a sassi di forme bizzarre si specchiavano nel vuoto che giaceva addormentato tutto intorno alla montagna e riflettevano la luce, intensa e dolorosa, come se fossero stati colpiti da mille soli. Jijiao stava seduto in fondo alla tenda con una espressione concentrata e solenne mentre infilava rapide cucchiaiate nella pentola dove ciò che rimaneva dello zanba (roasted highland barley flour) cercava di opporre una vana resistenza alla fame del vecchio aggrappandosi al fondo ammaccato da generazioni. “Le pentole sono come gli uomini: quando sono giovani cuociono in fretta per placare la fame che non ha pazienza; quando invecchiano si prendono il tempo di pensare a cuocere come si deve ogni chicco senza mancare di rispetto al tempo, ma dandogli una importanza relativa.” “Fin dove arriva la tua memoria, vecchio Jijiao?” “La memoria ormai è come un viandante che bussa alla tua porta in una notte piena di neve e vento. Lo fa raramente, e non sempre è la benvenuta.” C’erano state molte pentole, nella sua vita, e c’era stato anche molto altro, del quale lui non parlava mai, accontentandosi che lo facessero gli altri per suo conto aggiungendo o togliendo particolari a seconda dell’umore e delle circostanze. Fuggito oltre le montagne quando gli uomini del nord calarono sulla valle carpendo ogni cosa che valesse la pena rendere propria con l’arroganza di chi non è abituato a dare spiegazioni e basa sulla forza e sulla violenza ogni singola espressione della sua poco significativa vita, tornò dopo molti anni per rendere omaggio alla promessa fatta alla dea madre della terra servendola come meglio poteva, mettendosi al servizio di uomini con la pelle chiara e l’entusiasmo di un bambino quando si trova di fronte un enorme giocattolo che richiede attenzione e premura e che lui, creatura di un altro mondo, viziato dal tempo che scorre a ritmi diversi dal battito del cuore, tratterà come se potesse essere suo per sempre, pagando infine il prezzo più alto per la sua superbia. Di quel tempo, quando 10


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lavorava per gli uomini con la pelle chiara sulla montagna, non parlava mai, riservandosi il diritto di accettare o meno la domanda con una lieve increspatura delle labbra, qualcosa simile ad un sorriso raccontato da un cieco ad un sordo, e rimandando la risposta a quando il sorriso si sarebbe ricomposto entro i confini del viso. Il vecchio posò il cucchiaio, rese omaggio alla pentola e si alzò con una espressione che rese il suo sguardo solido, minerale ed immobile, come se fosse sorpreso di riuscire a fare un movimento cosi essenziale dopo molto tempo. L’aria sottile gemeva attraverso il telo della tenda coperto di una brina leggera, il nostro fiato notturno reso solido dal freddo, e con un fremito di improvvisa energia il vecchio uscì sulla neve al cospetto del sole. Gesing, alto sulla roccia che serviva da timido riparo al gruppo di tende accucciato ai piedi del grande piede di roccia che portava ancora più in alto, sistemava corde e sacchi con metodica lentezza, come se aspettasse l’invito di qualcuno a prendere il suo posto e potesse dedicarsi a rendere omaggio alla luce e lasciare che il sole si prendesse cura della sua angoscia. I tsha-tsha sgocciolavano nella neve le paure che avevano lasciato vagare, inquiete e volgari, sulla piccola pianura che dominava, come una folle terrazza sospesa sul mondo di sotto, il campo che, lentamente ma con crudele precisione, cominciava a prendere vita. “Salirete di notte, lungo le corde che sono state piazzate dalle guide nei punti più difficili del tracciato. Lavorerete di giorno, aiutandovi con le mappe e le fotografie che vi abbiamo dato. Ogni volta che individuerete un obbiettivo, lo segnalerete con le bandierine rosse e blu e trasmetterete la posizione via radio. Quindi aspetterete le squadre di supporto, con le quali renderete l’obiettivo trasportabile. Poi lo infilerete nei sacchi, lo imbragherete come fareste con un bambino che non vuole più camminare, e lo avvierete verso il punto di raccolta che riuscirete a vedere bene, visto che è segnalato da un recinto di bandiere arancioni. Non sarà un lavoro semplice, non sarà un lavoro piacevole, ma è un lavoro che deve essere fatto e deve essere fatto come si deve. Alla fine non dovrà essere più possibile vedere nemmeno un cadavere lungo la via che porta in cima e neanche più in basso. Ne va della dignità e dell’onore della nostra Nazione. Quando tutto sarà finito, quella parte della montagna non sarà più Rainbow Valley. Rainbow Valley non esisterà mai più. Siate orgogliosi di compiere il vostro dovere.” Sono nato in un villaggio molto piccolo in fondo alla valle ed ho avuto negli occhi l’immagine della montagna tutti i giorni, fin da quando ho memoria di aver visto qualcosa. La vita non mi ha preso molto e poco mi ha dato, come sempre è accaduto in questa regione così vicina alle montagne da rendere i suoi abitanti più simili a pietre che a carne. La montagna l’ho sempre avuta dentro gli occhi, ovunque guardassi, ferma e severa come una vecchia nonna che protegge i suoi discendenti alle prese con un sentiero impervio in fondo al quale c’è spesso un ignoto traguardo. Mai ho pensato di salire sulla montagna; qualche volta, d’estate, mi avvicinavo con il gregge obbediente al fondo della valle e la trovavo sempre severa ed immobile, poco attraente ma sacra.

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Inutile, in fondo. Le storie degli uomini del mondo che venivano per salire sulla cima della montagna arrivavano insieme a notizie di morti e matrimoni dei tibetani che vivevano da molti anni dall’altra parte; qualcosa di distante, incomprensibile ed inutile come la montagna che continuava a sbarrare con il suo corpo enorme l’orizzonte che immaginavamo diverso e formidabile proprio dall’altra parte, là dove non saremo mai andati. Quando arrivai ad avere un’altezza discreta che potesse attribuirmi il giusto numero di anni, mi proposero di scegliere il mio destino: soldato o poliziotto. Qualcosa di inutile come la montagna. Se avessi scelto di fare il poliziotto sarei rimasto nella valle. Decisi che quello era ciò che volevo. Non ho mai avuto la passione per i viaggi. Mi misero dentro una uniforme scura con delle tasche vuote che avrei dovuto riempire di mia iniziativa e mi dissero che da quel giorno avrei fatto parte della polizia di frontiera. “Dov’è la frontiera, tenente?” “Passa proprio in cima alla montagna” “Questo vuol dire che dovrò salire sulla montagna per fare la guardia di frontiera?” Il tenente mi scoccò un’occhiata distratta e beffandosi del mio orgoglio disse “Non è una cosa adatta a te. Farai la guardia dal basso, come compete ad una recluta senza molte qualità”. Il sollievo mi accolse tra le sue braccia e mi abbandonai al suo abbraccio con una certa rabbia. Non volevo salire la montagna ma questo non significava che non fossi in grado di farlo. Intanto gli uomini con la pelle chiara che venivano dagli altri mondi continuavano a salire sulla montagna, ogni anno nello stesso periodo, quello delle bacche di jingtzé e, come le bacche più piccole e deboli, sulla montagna continuavano a morire. Qualcuno diceva che ne erano morti 100. Altri parlavano di 200 fino a quando qualcuno con l’aria più furba degli altri concludeva dicendo che erano almeno 300 e che molti erano morti proprio sulla nostra parte di montagna. Li avevo visti, vivi, quando mi capitava di andare a Leh per sbrigare qualche piccola commissione per conto del tenente che non mancava di farmi notare ogni volta quanto fosse importante quello che facevo e quanto lo rammaricasse il fatto di non poter disporre di altri uomini più valenti e dover ricorrere a me, una recluta che non avrebbe mai fatto carriera. Me ne importava poco della sua opinione. Uscire dalla valle per entrare in una città più grande, piena di strade, era qualcosa per cui valeva la pena di farsi insultare ancora. Li vidi li, alti e con la faccia piena di peli, capelli lunghi e giacche di plastica colorate, zaini enormi che venivano portati sulle spalle di altri, gente di altre valli, sfortunati ragazzi meno dotati di me, evidentemente. Mi apparivano così distanti e sicuri dei loro mezzi, infinitamente convinti di andare a vincere ogni prova alla quale fossero stati chiamati. Mi sentivo diverso, mentre li guardavo ed ascoltavo le loro parole pronunciate in lingue 12


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assurde. Mi sentivo diverso ma non peggiore. Io, almeno, non sarei dovuto salire sulla montagna. Loro si, pur non costretti dal dovere o dall’uniforme scura con le tasche vuote. Io ero sicuro di poter rientrare in caserma, ogni sera. Loro non erano sicuri di scendere dalla montagna. Cosi non fui molto sorpreso quando il tenente ci annunciò, con severa enfasi, che saremmo dovuti salire sulla montagna per portare via i corpi di quegli uomini con la pelle chiara che, altrimenti, dalla montagna non sarebbero mai più discesi. Smaltire i cadaveri che restavano sulla via che porta alla cima, quella era la nostra missione. Smaltire e rendere invisibili agli occhi degli altri i cadaveri di quelli che per riempire i loro occhi con la luce della montagna più alta della terra erano rimasti sfiniti ed affascinati sui suoi pendii al punto da restare sulla montagna per sempre. Ci portarono con i camion in un grande campo alla fine della valle. Era pieno di gente e tende e casse che avremmo dovuto trascinare lungo i fianchi della montagna. Le facce dei miei compagni non lasciavano escludere che forse avremmo dovuto trascinare anche qualcuno di loro. La mia faccia non la ricordo. Rammento che ero molto preoccupato e che la montagna aveva l'aria di voler cadere sul nostro campo non appena qualcuno l'avesse irritata oltre il limite di quello che era disposta a sopportare. Non era così, del resto, che erano morti gli uomini con la pelle chiara ed i peli sul viso? Cosa se non il volere portare la loro sfida arrogante proprio nel cuore della dea madre che, altrimenti, sarebbe rimasta, severa ed immobile, ad assistere alle miserie degli uomini senza provare alcun dolore, li aveva uccisi, cosa aveva interrotto le loro vite che avrebbero potuto essere felici nel loro mondo? Avevo troppe domande nella testa, e nemmeno una risposta decente. Non mi restava altro da fare che mangiare qualcosa ed andare a dormire. Al mattino ci divisero in squadre. Ero con Gesing, Tienzin, Gimei e Yangdu. Il nostro capo era Jijiao Dawa Wese il vecchio, figlio di qualcuno più vecchio di lui che a sua volta era stato figlio di qualcuno che ora non viveva più nella valle e nel mondo. Jijiao ci dispose in modo che non potessimo cadere uno sulla testa dell'altro e poi si incamminò, leggero come un uccello felice, lungo un sentiero che trovai orribile e pericoloso. I sacchi pesavano meno delle nostre anime che cominciammo a raccomandare alla clemenza degli dei o a qualche loro conoscente non appena il sentiero cominciò a diventare ripido e, infine, quasi verticale. Arrivati al primo campo mi lasciai cadere a terra e desiderai morire, pur di non dover fare la stessa cosa il giorno dopo. Jijiao mi guardò cupo, tese la mano come se volesse colpirmi sul viso per richiamarmi al dovere ed invece mi strappò alla terra, dove volevo rimanere per sempre. “Così si muore, e tu ancora non devi morire. Non prima di aver portato con le tue braccia quelli che qui sono morti per cercare di essere vivi per sempre” Ci chiudemmo nella tenda mentre il mondo intorno a noi scivolò nel buio ingannando il sole che andò a fare luce altrove. 13


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La cena fu poco elegante ma nutriente e noi reclute riacquistammo qualcosa simile al buon umore venduto a buon prezzo in un mercato polveroso. L’aria era leggera ed insolente. Il freddo cominciava ad intonare la sua canzone di ghiaccio mentre tutto intorno le rocce si spaccavano sotto i colpi del gelido martello della notte. Jijiao prese una pipa lunga e sottile e la infilò tra le labbra con la stessa dolce grazia con la quale aveva carezzato la guancia dei suoi figli al ritorno da un lungo viaggio. Aspirò l’aria, sempre più povera ed inerte e parlò. “Alcuni di questi uomini che toglieremo dalle braccia della montagna, io li ho visti. Qualcuno l’ho conosciuto, con qualcuno ho bevuto il tè con il burro. Ed ora dovrò salutarli ancora una volta sperando che possano perdonarmi se li strappo alla terra che hanno calpestato senza intenzione di ferirla. Di questi uomini, all’inizio, non capivo il senso e lo scopo. Le montagne ci sono sempre state e noi non abbiamo pensato a salire fin dove finiscono. Per noi, per i vostri padri e per i nonni che non avete conosciuto, sono stati la prova che il mondo era uguale a quello del giorno precedente. Non molto, ma per noi era spesso l’unica certezza sulla quale potessimo contare. Loro, gli uomini che non vivono nelle nostre valli, sono differenti. Una volta ad uno di loro, un capo, chiesero: perché vuoi salire sulla cima della montagna? Perché esiste, rispose lui. Mi sembrava un sacrilegio, poi ho imparato a comprendere. Quelli sono uomini che non potendo essere sicuri di poter contare sempre su loro stessi, hanno bisogno di una prova che li convinca che sono in grado di sopportare ogni pena ed ogni dolore. Si mettono alla prova nella maniera più insensata e crudele, respirando l’aria magra, fuggendo alla frustata del vento, spingendo i loro piedi sempre più in alto anche quando sentono di non avere più gambe che possano sostenerli. Sono uomini che rinunciano al loro mondo caldo e comodo per restare chiusi in una piccola tenda mentre fuori c’è la tempesta di neve e vento. Sono uomini diversi ed incomprensibili. Per questo meritano il nostro rispetto.” Tienzing abbassò la fiamma del piccolo fornello che dava luce alla nostra dimora di plastica. Le nostre ombre divennero padrone dell’aria che respiravamo. “Muoiono così, all’improvviso, come se la terra, improvvisamente, scomparisse sotto i loro piedi. Cadono e non si rialzano. Corri a vedere se hanno bisogno di aiuto e ti accorgi che i loro occhi sono già vuoti e la loro anima è già scappata lontano, in un posto migliore. A volte si siedono e ti dicono – mi riposo un momento, dopo starò meglio. E quando scendi li trovi lì dove li hai lasciati, dove rimarranno seduti per sempre. A volte impiegano il tempo che a noi serve per respirare per decidere che sono stanchi abbastanza. Altre volte hanno bisogno di un tempo lunghissimo. C’è stato un giovane, il primo che ho sepolto sulla montagna, che ha avuto bisogno di alcuni giorni per prendere commiato dalla vita. Aveva i capelli chiari, chiari gli occhi e la pelle. Nessuno ha capito se era arrivato sulla cima o se si era fermato prima, ma questo, per me, non è importante. Si sentiva stanco e si è seduto nella piccola grotta che è proprio sopra il primo piede della montagna, lì dove da parecchi anni dorme il ragazzo con le scarpe verdi. Tanti sono passati vicino a lui, per tutta una notte, senza vederlo, oppure lo hanno visto ma hanno pensato che avesse le scarpe verdi e fosse già morto da tanto tempo. Tanti altri sono passati, tornando dalla cima, finché qualcuno si è accorto che non 14


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aveva le scarpe verdi ed era ancora vivo. Hanno cercato di aiutarlo, hanno provato a salvarlo, ma evidentemente non lo hanno fatto abbastanza in fretta, non hanno usato la compassione che un uomo dovrebbe avere per un suo simile. Tanti si sono fermati vicino a quel giovane ragazzo ed ai suoi occhi chiari, finché in quegli occhi non è rimasta luce abbastanza da riuscire ad immaginare la pena di sua madre ed è morto per evitare di dover provare anche quel dolore. L’anno dopo, mentre ero nel monastero per cercare quella pace che la valle non è riuscita a darmi per tutta la vita, un uomo con la pelle chiara, vestito in maniera elegante, è venuto a cercarmi. Era il fratello del ragazzo con gli occhi chiari e mi ha detto che aveva saputo da altri che ero in grado di salire sulla montagna per fare quello che lui desiderava. Mi ha promesso del denaro, quella cosa senza la quale gli uomini che non abitano nella valle si sentono infelici, se fossi andato a seppellire suo fratello, a toglierlo dalla piccola grotta ed allo sguardo degli altri che salgono e scendono dalla montagna. Era stato informato che avevo passato buona parte della mia vita ad accompagnare altri bianchi sulle montagne delle nostre valli e mi disse che ero l’ultima possibilità che gli restava, che era quello che la loro madre desiderava, che il corpo del figlio morto fosse sottratto allo sguardo degli altri. Accettai la sua offerta, ma non il suo denaro. Avrei potuto comprare la mia permanenza nel monastero senza pesare sulle spalle dei monaci, avrei vissuto il resto della mia vita facendo pace con me stesso e le mie colpe. Ma il denaro è qualcosa che stordisce, quando è tuo, ed è qualcosa che desideri, quando è di altri. Quindi è qualcosa che disturba l’equilibrio, che turba l’ordine delle cose. Io sto cercando la pace della mia anima, non devo iniziare un altro cammino. Sono stanco di camminare ma so di non potermi sedere fin quando non sentirò che sarà arrivato il momento.” Sentii un lungo, feroce brivido percorrere la mia schiena cercando la strada che conduce al cuore per ghermirlo e divorarlo. Un respiro profondo sgorgato dall’umida tenebra della mia notte lo spinse lontano. Uscì dalla tenda ed andò, dolente ed arrabbiato, a cercarsi la cena altrove. “Come hai fatto a dare sepoltura al giovane, Jijiao?” chiese Yangdu con un filo di voce sottile come l’aria che ci stava consumando. “Sono salito fino al terzo piede, alla piccola grotta che serve da rifugio per chi è stanco e per chi sente che sta per morire. L’ho trovato seduto, le braccia intorno alle ginocchia, gli occhi aperti, come se stesse aspettando proprio me. Ho coperto il suo viso per impedire che il suo spirito tornasse per innamorarsi del suo corpo e con la lama della piccozza ho tolto tutto il ghiaccio che era diventato un altro vestito aggrappato al suo corpo. Non era possibile distendere le braccia e le gambe, quindi le ho spezzate ed ho infilato il corpo in un sacco arancione che avevo portato con me. L’ho calato lentamente lungo il pendio ed ho salutato l’uomo con le scarpe verdi, al quale ho lasciato uno Tsha e la promessa che sarei tornato per seppellire anche lui e che lo avrei fatto anche per la sua madre. Sono sceso calando il corpo del ragazzo con gli occhi chiari fino al secondo piede. Lì, verso sud, si apre un crepaccio enorme, grande come una tomba che può accogliere molti altri corpi e proteggerli dagli sguardi. L’ho calato li, dopo avergli regalato un hada che mi ero fatto dare dai monaci. E lì, domani, 15


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cominceremo a calare anche gli altri. Ora dormiamo.” La notte trascorse cercando di prendere la forma di sogni che avevo immaginato senza avere il coraggio di sognarli. La notte mi chiese se ero pronto ed io risposi che non lo avrei saputo fin quando non mi fosse toccato guardare negli occhi spenti e vuoti di chi aveva amato la montagna al punto tale da morire per lei e finire dentro di lei, per sempre. La notte trascorse facendomi immaginare le madri di tutti i morti sulla montagna ed alle lacrime che avevano speso cercando di ricordare il sorriso dei loro figli. Loro, le madri, avrebbero voluto poter guardare gli occhi dei loro figli per un’ultima volta. Altri occhi estranei ed indifferenti li avevano guardati mentre morivano senza provare rimorso. Jijiao aveva ragione, sono diversi e meritano rispetto. Ma non riuscivo a capire perché i bianchi desiderassero così tanto farsi guardare da vivi e fossero cosi ostinatamente contrariati se qualcuno li guardava quando erano morti. Ma io sono un ragazzo semplice, nato e vissuto nella valle ai piedi della dea madre della terra e certe domande non possono avere risposte. Facemmo quello che Jijiao ci disse di fare, aiutati dalle squadre di Kamba, silenziosi ed ostili, che si occuparono del recupero dei cadaveri dopo che li avevamo sottratti alle rocce ed al ghiaccio. Passammo cinque giorni sui fianchi della montagna, imparando a riconoscere i suoi sospiri ed i suoi sussulti. La guardavamo, ormai, con la stessa severa indifferenza con la quale lei aveva osservato per migliaia di anni gli umani che vivevano e morivano ai suoi piedi. Ci sentivamo a lei simili, ci sentivamo alti tra le nubi e forti nel vento, determinati a compiere il nostro dovere, sottrarre i cadaveri agli occhi dei vivi, Questo avrebbe consolato le madri, asciugato le loro lacrime. Forse. Il tenente ci raggiunse per controllare il lavoro. Fu soddisfatto e ci diede il permesso di prendere congedo dalla montagna. Infilai i tsha-tsha nello zaino mentre ringraziavo gli dei di avermi risparmiato e, mentre mi allontanavo lungo il sentiero che tanto mi aveva spaventato cinque giorni prima, mi voltai verso la montagna. Rainbow Valley non esisteva più. Lasciavamo la montagna bianca di neve e punteggiata di rocce, purificata e pronta ad accogliere altre morti.

Myles Gopaneel / July the 14th 2017

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ROBA DA BARBONI di Lollo Rapets E sì, lo so che cosa pensi: sono il solito barbone alcolizzato che vive di espedienti. È vero per due terzi: barbone, che io mi ricordi, lo sono sempre stato. E ho sempre vissuto di espedienti, che c’entra. Questo Apecar per esempio era del mio papà, che mi ha insegnato il mestiere. Anche lui girava a ravanare nella spazzatura per recuperare la roba che magari bastava riparare. Radioline, sedie, tavolini, biancheria… tutto può tornare a nuova vita. Anche a me, sai, mi ha trovato nella spazzatura una sera, in Via Leopardi, quartiere signorile. Ero appena nato, e mi avevano buttato via. Lui mi ha trovato e non se l’è sentita di chiamare la polizia, aveva paura di finirci di mezzo. Noi barboni ci finiamo sempre di mezzo, sai, la strada ti insegna a cavartela da solo. Come è successo a me un’altra volta, che poi è per quello che sono finito alcolizzato. Me la sono cavata da solo, mio papà mi ha insegnato così. Lui ha fatto così e guardami, sono cresciuto a meraviglia. Va be', per fartela breve: una sera ero in fondo a Via Padova, sai dove c’era la vecchia discarica, vero? E l’ho trovato sotto un mucchio di cartoni, pareva che dormiva. Invece era morto. Crivellato di colpi e lasciato lì. E l’avrei lasciato stare pure io, poi mi è caduto l’occhio sulle scarpe da tennis. Avevano i lacci puliti. Che vuol dire? Eh, si vede che non sai come gira il mondo, sei mica un barbone tu. I lacci puliti vogliono dire che hai una donna in casa che ti ama, caro. Se sei da solo non ci pensi mai a lavarti i lacci. E allora ho pensato che questo aveva lasciato una vedova da qualche parte. Ma no, mica mi son messo a cercarla. Però insomma, ho pensato a questa donna che piangeva e ho deciso che il suo uomo non poteva star lì tra i rifiuti. Almeno sottoterra, come un cristiano. L’ho caricato sull’Apecar e son partito. In un quarto d’ora ero sullo stradone per andare all’Idroscalo. Ci sono degli orti lì, a volte ci andavo a rubare un cespo d’insalata quando avevo proprio fame nera. Il proprietario dell’orto secondo me lo sapeva, perché dopo le prime volte ho iniziato a trovare il cancello aperto e un bottiglione di vino. Prendevo il vino e la volta dopo lo ritrovavo. Questo qui è un signore, te lo dico io. Uno buono che nel suo orticello fa del bene agli sconosciuti che non vedrà mai. E allora ho pensato che poteva far del bene anche al cadavere. C’era un nebbione, ti dico. Ho preso la pala e mi sono messo a scavare in un angolo del terreno, dove non ci ha piantato niente. L’ho seppellito lì. E andando via ho pensato che va bene tutto, ma non si può tirare troppo la corda. Meglio che non ci torno più lì. Niente più insalata, niente più vino gratis. Tocca venire da te, mercante di liquore. Ma quel morto lì almeno ha della terra sopra, anche se la vedova non lo sa.

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FACCIAMONE DELLE GALLETTE di Claudio Ricci Smaltire l'eccesso di sottoprodotti della morte non è mai stato un problema per il cinema. Una delle loro soluzioni più brillanti risale al 1973, e si basa a sua volta su un'idea di sette anni prima, di un poco conosciuto scrittore di Fantascienza a nome Harry Harrison (19252012). Per quella strana consuetudine che fa sentire troppo spesso alcuni traduttori autorizzati a stravolgere completamente il senso delle cose, il film in questione ("Soylent Green") ha un titolo italiano scemotto e completamente fuorviante: "2022: i sopravvissuti". Fa pensare a pochi abbrutiti superstiti di qualche guerra atomica o epidemia, cenciosi e in lotta tra loro fra le rovine di una città semidistrutta (un topos fantascientifico ricorrente)...Ma non è niente di tutto questo, o meglio non proprio. Siamo appunto nel 2022, e i "sopravvissuti" sono anche troppi: la terra è ormai devastata da inquinamento e sovrappopolazione al punto che le città sono ormai divenute un carnaio osceno e in totale sfacelo e il surriscaldamento dell'aria ha ridotto il clima ad una specie di estate perenne con trentadue gradi all'ombra costanti (quanto meno nella New York dove è ambientata l'azione). Sì, tali sopravvissuti sono cenciosi, sono quasi tutti poveri in canna e sfaccendati (non c'è più lavoro per quasi nessuno) e per lo più si ritrovano a vivere di espedienti per le strade, e a dormire nelle automobili (ormai divenute cadenti e inutilizzabili per l'esaurimento di carburante, come la maggior parte di tutte le macchine, strutture e servizi). Chi non ha nemmeno un'automobile scassata arriva a dormire nelle scale dei condomini fatiscenti (dove vivono dei poco più fortunati), tenuto a bada da portieri armati di fucile, o riempie le chiese. Il cibo come lo conosciamo noi è praticamente finito (a parte poche derrate introvabili a prezzi assurdi e riservate a ricchi e corrotti), dato che non esistono quasi più nè l'agricoltura e l'allevamento nè tantomeno l'industria, e la maggior parte delle piante commestibili è pressochè estinta. I quaranta milioni di abitanti di New York dipendono quasi esclusivamente dalla distribuzione razionata di poca acqua e di gallette prodotte da una corporazione chiamata "Soylent" e che portano il medesimo nome, ricavate da composti proteici di origine vegetale, anche quelli si lascia intendere prossimi a finire (il Soylent scarseggia sempre più). La distribuzione sempre più spesso non basta a coprire le esigenze di tutti, e dopo, file interminabili nel caldo, scoppiano continuamente tumulti che la polizia reprime in modo brutale mediante macchine scavatrici (per quelle il carburante si trova...). A completare il quadro ci sono i ricchi. Loro sì che sono i sopravvissuti. Sono pochi, vivono in quartieri blindati, sono ben vestiti, hanno case lussuose con elettricità, acqua a volontà, 18


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aria condizionata, i videogames (all'epoca del film ancora grande novità e segno di prestigio, non come ora che un Playstation truccata la trovi pure negli slums delle città del terzo mondo), le guardie armate, i maggiordomi di palazzo, ed inoltre, essendo curiosamente tutti maschi (così pare), delle giovani e belle schiave-concubine "in dotazione" con l'appartamento, e che semplicemente passano di proprietà quando un inquilino muore o l'appartamento viene venduto. Soprattutto, i ricchi hanno il cibo vero, proveniente da mercati esclusivi che fanno pensare al contrabbando. Un pezzo di carne di manzo dall'aspetto anemico, un cespo mezzo secco di sedano, un paio di pomodori o un cespo di lattuga. Derrate modeste dall'aria appassita che lasceremmo ora nel bancone dell'alimentari più sfigato della città e che invece in quel contesto valgono come diamanti e hanno un prezzo inaccessibile ai più. Il protagonista della storia è un poliziotto. Si chiama Thorn, ed è interpretato da Charlton Eston, famoso all'epoca nel circuito fantascientifico, sull'onda de "Il Pianeta delle Scimmie" di cinque anni prima. È costretto a turni massacranti dovendosi dividere fra la repressione dei tumulti e le indagini in casi di omicidi nell'ambiente dei ricchi. È nonostante tutto un quasi-privilegiato. Vive in un appartamento, pur squallido e fatiscente, che divide con un anziano personaggio (interpretato da un grande Edward G. Robinson, malato terminale di cancro durante le riprese e morto pochi giorni dopo l'uscita del film) di nome Sol Roth. Roth è qualcosa di vagamente simile ai "Mentat" di "Dune". È una specie di computerarchivio umano, fa ricerche bibliografiche e funge da "memoria" in un contesto dove i computer, archivi e le biblioteche sono virtualmente estinti o abbandonati. Roth ricorda anche i tempi andati, quando c'erano le stagioni e il cibo vero (che Thorn invece ruba spudoratamente, quando gli capita, durante le indagini dai ricchi). Basta con lo Spoiler adesso! Se non lo avete visto, DOVETE vederlo. Spoileriamo giusto il finale, perché per i fini di questo scritto non se ne può fare a meno, saltando mille momenti memorabili e mille peripezie (è assolutamente ingiusto che una pellicola del genere sia molto meno nota di quanto dovrebbe). Thorn (durante un'indagine) e Roth verranno a sapere per vie differenti cosa c'è dietro la Corporazione Soylent, e dietro il nuovo prodotto che questa sta lanciando con la promessa di salvare l'umanità, ovvero nuove gallette basate su una risorsa inesauribile : il Plancton Oceanico. Queste gallette "Soylent Green", il "Soylent Verde" che dà il titolo vero all'opera, sono in realtà FATTE CON I CADAVERI perché il plancton oceanico è finito da tempo, anch'esso. Gli oceani, come emergerà da un rapporto segreto, sono morti da anni, distesa di acqua sterile e inquinata come tutto il resto del pianeta. Le città sono fornite di strutture chiamate "Templi" dove torme di gente povera, sfinita e malata o semplicemente stanca di vivere una vita indegna e senza speranza, si reca per l'eutanasia, e che riforniscono direttamente e in segreto gli impianti di, diciamo, "trasformazione alimentare" della Soylent. Più smaltiti di così... Un sacchettino di gallette e via. E c'è da mangiare per tutti, ancora meglio delle famose tute di "Dune", che mi ritrovo a citare per la seconda volta (e si, dovete vedere anche quello, pure se è un bel polpettone). Il cannibalismo sacro di un tempo fatto mentalità pragmatica.

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All'epoca del film mancavano quasi cinquant'anni allo scenario proposto. Adesso al 2022 mancano solo cinque anni. Non andrà così. Per quanto le cose possano andar male non ci metteranno solo cinque anni ad andare COSI' male... ma fra altri cinquanta? Per intanto, nonostante incredibili negazionismi, il mondo si sta surriscaldando sul serio. Colpa dell'uomo? Colpa di un normale ciclo naturale? Il dibattito è aperto, possiamo leggerne comodamente con un bicchiere di acqua fresca in mano e una galletta (di FRUMENTO...) nell'altra.

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Con la senape e il vino bianco di Artanis Naanie Era la prima volta che ne vedevo uno. Uno intero, dico, con testa e pelle e organi interni. Li avevo sempre visti a pezzi, al supermercato, passati dallo stato di cadavere allo stato di carne. Invece quello era un cadavere, anzi, nella mia visione infantile era proprio un animale. Ancora caldo, pure, che il nonno l'aveva investito meno di mezz'ora prima. Mi pareva di essere l'unica a formalizzarsi della cosa: quando dissi che bisognava seppellirlo mia nonna rise e mia mamma mi spiegò gentilmente che era fuori discussione e che si sarebbe mangiato coniglio per cena. Per prima cosa incisero il collo e lo appesero fuori per le zampe posteriori, sopra a una bacinella. Ploc, ploc, facevano le gocce di sangue che spurgavano. Poi tagliarono la pelliccia alle 4 zampe e la ritirarono; è incredibile come la pelle sia simile a un vestito, come si sfili facilmente dalle fasce muscolari. Purtroppo e tra gli improperi di mia nonna la pelliccia si strappò, rendendola poco riutilizzabile; mia madre in seguito fece un bellissimo cappotto di pelliccia per la mia barbie. A quel punto tornammo in cucina, tutti e quattro e il coniglio. Fu il giorno in cui scoprii che mia madre doveva fare la macellaia, o la chirurga, o la serial killer. Aprì il ventre dell'animale per estrarne le interiora, tenendo da parte fegato e reni. Coi polmoni giocò per dieci minuti: soffiando nella trachea si riempivano come palloncini e lei rideva come una bambina. Io, che bambina lo ero, la osservavo con un misto di curiosità, disgusto e divertimento. Venne il momento di farlo a pezzi e cucinarlo: marinato nella senape, venne messo in una casseruola dove già soffriggeva una montagna di cipolle e, dopo essere stato abbondantemente annaffiato di vino bianco, finì in forno. Fu solo alla fine della cena - invero deliziosa - che mio nonno si preoccupò di controllare se il paraurti fosse ammaccato: l'importante è avere il senso delle priorità.

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Non una molecola di Svetlana Svetla “Mi hai usato. Anche tu. E non te lo perdono. No, non te lo perdono. Non ti perdono di avermi messa al margine, di avermi esclusa, non ti perdono di avermi sfruttata, perché lo hai fatto. Non ti perdono di non aver visto se non quello che ti serviva vedere di me, e non ti perdono di avermi dato un ruolo. Uno solo, preciso, netto e schematizzato che però non corrisponde a me, non sono io, ma è una sola parte di me e io sono tante cose. Tante cose che ti hanno spinto a cercarmi, tante, tutte belle, rare, addirittura preziose, e mi hai trovato sempre, solo che non vedevi chi avevi di fronte, ne vedevi solo la parte a te utile, quella funzionale per i tuoi scopi. Questa è la ragione per cui vado via e più di tutto questa è la ragione per cui ti stacco da me. Darò l’autorizzazione a staccare le macchine. Sei morto tanto tempo fa. Di te in questo guscio vuoto, livido ed esanime che giace in questo letto d’ospedale in questa scarna stanza squallida, non è rimasto niente. Solo in me è rimasto tanto, ma è morto pure quello che mi hai seminato dentro. Ora è solo erba secca e inaridita che va eliminata. E così ti elimino. Prima però ho deciso di dirti il perché, serve a me, non a te stavolta. Lo faccio per me. È per me che ti dico che non posso perdonarti, è per me che ho deciso di mettere fine a tutto. D’altro canto non hai mai nemmeno avuto il coraggio, o dovrei dire lo sforzo, la fatica, di chiudere tu. Mi hai lasciato lì sola, a chiamarti, a gridare il bene che mi legava a te e il male che mi allontanava da te, senza mai nemmeno rivolgermi lo sguardo, come se il solo fatto di ignorarmi mi facesse magicamente sparire e tu non dovessi nemmeno sopportare l’eco della mia voce che doveva risultarti fastidioso, molesto come un brusio a cui ti abitui e nemmeno senti più ma che è presente. Potrei restare e farti restare, ma non posso, perché non voglio restare e non voglio che tu resti ancora qui, inutile, uno strascico, una zavorra, un promemoria di dolore. Non ha senso che io resti. Non intendo darti oltre, nutrirti oltre, tenerti oltre, non intendo esserti utile ancora, anche adesso, no. Non intendo nutrire ancora il tuo Narciso per nessuna ragione al mondo. Giaci in questo letto vivo perché tenuto in vita, ma non hai più nessuna ragione di essere, nessun senso ormai. Uscita da qui darò ai medici il consenso a staccare le macchine. Partirà il primo step del protocollo che si applica in questi casi. Non soffrirai, non temere. Non sentirai nulla, come in fondo non hai sentito mai nulla per davvero in vita tua. Ora muori, ma sei già morto per me perché mi hai ucciso, e non verrò a fondo con te stavolta. Libera il posto che occupavi, lasciami libera di andare. Sei morto ed è tutto pronto per la tua sepoltura. Ti ridurrò in cenere, e farò raccogliere ogni granello di te in un’urna, e la sigillerò, poi la darò alla prossima in cui specchiarti. Non una molecola di te dovrà uscire da quel vaso. È l’ultimo gesto d’amore che faccio per te: eliminarti, cancellarti, annullarti.”

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VOLTA LA TERRA di Artanis Naanìe A me piace il mio orto. È un bell'orto, lo tengo bene e lui ricambia dandomi tutto quello che gli chiedo. Adesso che è inverno mi regala ancora dei cavoli e delle rape, anche se onestamente di cavoli e rape ne ho abbastanza. Ogni tanto mi sparisce della roba dall'orto, e lo so che sono i barboni del centro. Hanno fame, e sete, e in sto mondo bastardo essere sfortunati è una condanna. Così ogni tanto gli lascio qualcosa, una bottiglia di vino, un'insalata, una pagnotta. Prendono quello e non scavano, che se fossero i vicini invidiosi del mio orto scaverebbero lo stesso. Comunque. L'altro giorno giravo la terra nel settore dei pomodori, che bisogna girarla bene quella altrimenti è troppo povera per i pomodori. Stranamente sembrava già girata, ma sai, non è che ci fai proprio caso. Ci pensi dopo. Comunque ero lì col piccone che giravo la terra e d'un tratto sento un rumore strano. Ma strano forte. Piccono più piano e lentamente faccio il giro di sto coso, poi prendo la pala e scavo. Non ci crederai mai, di cosa ho tirato fuori. Un tizio. Morto. Un cadavere, che puzzava come un morto (si, me ne rendo conto), seppellito nella piazzola dei pomodori. Capirai che sono rimasto perplesso. Non potevo certo lasciarlo lì, voglio dire, ci devo piantare i pomodori a marzo, mica possono crescere su un cadavere. Però mi ritrovo sto morto in mezzo alle pa… insomma, in mezzo all'orto. Per fortuna c'era un nebbione di quelli che non si vede a due passi, che se l'avesse visto il Bacigalupo... be', non l'ha visto. Però non sapevo mica cosa farmene di sto tizio; chiamare gli sbirri era fuori discussione, figurati, coi miei antecedenti me l'avrebbero scaricato addosso in due minuti. Allora sai che ho fatto? L'ho caricato nel furgone (pesava come un macigno, non è stato mica facile, son mica più giovane io) e sono andato verso la foresta, sai quella lungo la strada. Lì ci vado spesso, l'autunno ci sono dei funghi pazzeschi. Vado, mi carico il morto in spalla (Dio benedica la nebbia) e faccio una decina di minuti di camminata, giusto da non lasciarlo a bordo strada. Lì ci sono delle tende di ragazze, a volte, ma quella volta mi pareva di no. E niente, l'ho scaricato lì e son tornato a casa, che la moglie già era nervosa perché dice che passo più tempo all'orto che con lei e io le rispondo di darmi torto ma poi ci torno, da lei, che all'orto fa un freddo becco, soprattutto d'inverno.

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Progetto apocalisse di Simone Delos Ratblack teneva il lembo più largo della cravatta tra indice e medio, la faceva sventolare pigramente. Il centro di controllo per le operazioni militari era diventato un bistrot di impiegati accidiosi che intrattenevano conversazioni dal contenuto assente, tra i braccioli di poltrone pieghevoli e scrivanie colme di bicchierini semivuoti di caffè. Nella parete sud dell’enorme open space brillavano i monitor. Il compito di Ratblack consisteva nel guidare la milizia di terra attraverso una mappa piena di lumini rossi sparsi nel territorio della costa orientale. I lumini rossi erano i morti viventi, o gli zombie, o meglio gli “straccioni” (come li chiamavano da qualche tempo). “Falco 6, tornate indietro verso ovest. Trecento metri. Casa coloniale. Due Straccioni all’interno”. “Ricevuto mamma canterina, procediamo”. Un altro impiegato si occupava poi di accertarsi che i lumini scomparissero dalla mappa, il successivo aggiornava il contatore degli Straccioni definitivamente trapassati. Si era arrivati a un numero impressionante. Trentamilaseicentodiciotto. Troppo semplice sterminarli, divertente persino. Il discorso della milizia, i GPS eccetera, era solo un apparato che restava in piedi per giustificare i soldi pubblici investiti nel settore Apocalisse, creato ad hoc pochi mesi prima. La realtà era che questi Straccioni lenti e scoordinati li si ammazzava davvero con poco. I militari non usavano più le armi in dotazione. Qualcuno andava in giro con la katana, altri costruivano trappole. Anche i civili non mancavano di fantasia. Il fenomeno delle bande prendeva sempre più piede. Pittoresche erano, ad esempio, la banda dei sassi: circondavano gli zombie e li lapidavano. I Kickass, che li prendevano letteralmente a calci in culo fino alla dipartita. E moltissime altre. Da poco era uscita un’applicazione per smartphone che consentiva di individuarli. Indicava anche le calorie smaltite per ognuno degli Straccioni eliminati. Dietetico. Ratblack, dal canto suo, aveva l’onere, in qualità di soprintendente all’operazione, di tenerne alto il blasone. Tanti bravi cristiani dovevano mandare i figli all’università. Era compito suo salvaguardare quegli stipendiati. 24


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Quella mattina la sua segretaria particolare, ripassata diverse volte come una versione di Cicerone prima del compito in classe di latino, gli passò una telefonata. “Sì. Sì, sono io, chi parla? Ah signor sottosegretario, mi dica. Mmmh, mmmh sì, d’accordo. A che ora precisamente? Va benissimo, senz'altro. Allora a più tardi signor sottosegretario.” Click. Ratblack uscì dall’ufficio. “Riunione! Forza, da me, ora”. Gli impiegati in quella sede erano ventitré, non era necessario riunire gli altri distaccamenti in videoconferenza, la questione riguardava appunto la sede centrale. “Allora ragazzi, - Ratblack parlava sempre in tono paternale - per il discorso di prima sulla salvaguardia, oggi pomeriggio avremo visite. Il Sottosegretario alla Difesa insieme a un delegato del Ministero degli Interni accompagneranno il Ministro dell’Ambiente. Vi chiederete cosa vengono a fare? Non ne ho la più pallida idea. Tutto quello che posso dire è che durante la visita dobbiamo trasudare efficienza ed efficacia. Dalle voci che ho sentito, è il peggior ministro che ci poteva capitare. Tra l'altro è il genero del Presidente.” Se Ratblack fosse stato romano, avrebbe chiuso con un bel “famose a capì”. Ad ogni modo il messaggio sembrò arrivare. C’era chi si sistemava il nodo alla cravatta, chi si metteva la cravatta, eccetera. Alle sedici in punto si presentarono una decina di persone: i tre politicanti più un paio di portaborse a testa. Gli impiegati erano tutti davanti ai monitor. Cuffie in testa e GPS. Il Sottosegretario alla Difesa, dopo i saluti, prese un attimo Ratblack sottobraccio e gli sussurrò all’orecchio: “Abbiamo una bella cazzo di gatta da pelare”. Il Ministro dell’Ambiente parlava esclusivamente col delegato degli interni, come se fosse un diplomatico di una nazione straniera che parla al suo traduttore. Giovane, non arrivava ai quaranta. Girava la testa a scatti come una gallina. Osservava ogni cosa ma soprattutto i monitor giganti. In quel momento due soldati avevano immobilizzato uno zombie mentre un altro soldato, con una specie di seghetto in mano, lo stava gambizzando. Il ministro disse una cosa sottovoce al delegato che poi si rivolse a Ratblack. “Il Ministro vorrebbe sapere in una scala da uno a dieci, quanto al momento riteniamo pericolose queste creature”. Ratblack sgranò gli occhi, si girò verso il sottosegretario alla difesa come per chiedere aiuto su quale fosse la risposta giusta, ma quello si voltò dalla parte opposta. Ratblack si schiarì la voce, poi rispose: 25


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“In tutta onestà direi sei, signore”. Il Ministro annuì pensoso, poi iniziò a fare un giro parlottando con gli impiegati. Dopo una mezz'ora chiese un caffè amaro e fece un segno al delegato. “Il Ministro desidera riunirsi in seduta”. Ratblack mise a disposizione il suo ufficio e tutti entrarono, portaborse compresi. Ovviamente il Ministro si sedette al posto del Soprintendente. Iniziò subito a parlare. “Qualcuno di voi si ricorda la serie tv “The walking dead?” Silenzio. “Nessuno?” Silenzio. “Qualche film? Apocalisse zombie? L’alba dei morti viventi? Essi vivono?” Una ragazza, portaborse del sottosegretario alla difesa, alzò il braccio. “L’alba dei morti viventi. Sì, l’ho visto, signore”. “Molto bene. Come ti chiami tesoro?” “Paula, signore” “Ottimo Paula, puoi sintetizzare ai presenti di cosa trattava il film”? “Be', signore, non ricordo precisamente, ma c’era un gruppo di persone che si barricavano dentro una casa e cercavano di difendersi dai morti che erano usciti dalle tombe e…” “Ok Paula, benissimo. Ora, puoi dire ai signori, se lo ricordi, cosa avveniva a questi morti viventi una volta che venivano neutralizzati definitivamente?” “Nulla signore, cadevano a terra” “E poi?” “E poi niente, restavano lì e ne arrivavano altri” “Bene Paula, sei stata bravissima” - la portaborse arrossì - “Ci hai portati diretti al punto in questione”. Il ministro si alzò e prese a camminare tra i presenti che lo guardavano dubbiosi. “Signori dico soltanto una parola, e la scandisco per farla comprendere bene: spaz – za – tu - ra”. Ratblack sbiancò. Il Ministro riprese a parlare. “Forse qualcuno dentro questa stanza crede che sparare a quei cosi lenti e sporchi sia come ballare il rock'n'roll? (Iniziò a mimare lo sparare con un mitra) Hey John! Quanti ne hai stesi stamattina? Quindici Hal e tu? Sei un dilettante John, io ne ho sbudellati almeno trenta. Puoi trovare le carcasse in fila per due isolati”. Poi il Ministro si avvicinò direttamente a Ratblack. 26


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“Avete mai pensato a cosa diavolo faremo di queste carcasse puzzolenti? Avete ascoltato cosa pensa la gente? Be', ve lo dico io. La gente è nauseata da tutti questi cadaveri sparsi per le strade, le vecchiette ci inciampano, le automobili ci sbattono contro. Le compagnie assicurative stanno saltando in aria. Le polizze danni per gli urti contro gli Straccioni, pur costando uno sproposito, le stanno facendo fallire”. Poi si voltò verso il delegato del Ministero degli Interni. “Il Presidente è della mia stessa idea. Non soltanto dobbiamo trovare una soluzione a questo problema. Dobbiamo trasformarlo in un’opportunità”. (Ratblack deglutì rumorosamente). I giorni che seguirono furono un continuo viavai di personaggi con le qualifiche più disparate e le idee più bizzarre. Il Ministro dell'Ambiente si era stanziato nell’edificio del progetto Apocalisse e aveva preso possesso dell’ufficio di Ratblack. Ogni giorno alle dodici in punto c’era una riunione per fissare il punto della situazione e ascoltare nuove idee. Aprì un fascicolo ufficiale che chiamò “Piano di smaltimento cadaveri”. Precisò che il tutto sarebbe dovuto essere a costo zero e col minor impatto ambientale. Le prime idee buttate giù dallo staff di Ratblack furono le seguenti (accanto il commento del Ministro) - Incendiamoli tutti: (costo combustibile, inquinamento aereo) - Tagliamoli a pezzi e poi li seppelliamo: (costo del personale, attrezzi da taglio, necessità di trovare terreno adatto, possibile inquinamento del sottosuolo) Il primo esperto ad essere ascoltato fu un professore di chimica, conosciuto e pubblicato. Sosteneva l’esistenza di un acido corrosivo prodotto da un piccolo roditore, in grado di liquefare i corpi. L’idea fu scartata perché la quantità di sostanza che un singolo roditore poteva produrre era talmente bassa che ci sarebbero voluti decenni per liquefare tutti i cadaveri in giro. Il Ministro era sempre più nervoso, un pomeriggio si fece accompagnare da Ratblack in missione assieme ai soldati. Insistette per non indossare nessuna protezione e per poco non fu azzannato da uno Straccione femmina sbucato fuori dalla portiera di un’auto parcheggiata. Ad indisporre ancora di più il Ministro fu l’ufficialità, arrivata nel pomeriggio, che gli zombie non erano commestibili. Quindi anche le ipotesi di darli in pasto alle bestie selvatiche furono depennate. “Ok, allora visto che una soluzione non sembra trovarsi, non ammazziamoli più! Basta. Li facciamo girare e ci limitiamo ad evitarli”! Ratblack guardò con aria interrogativa il Sottosegretario alla Difesa che dovette 27


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intervenire. “Signor Ministro, con tutto il rispetto, questa è una decisione che non spetta a lei”. Anche il delegato degli Interni si fece coraggio. “Sarebbe una condizione insostenibile per i cittadini. Completamente infattibile e oltretutto…” “Ok, ok. Ho detto una cazzata”, disse il Ministro con le mani nei capelli. In quel momento dal fondo della sala riunioni un portaborse del sottosegretario alzò timidamente un braccio. Tutti si voltarono verso di lui. “Consultiamo il Clero…loro coi ehm, morti, ci sanno fare”. Il Ministro schioccò la lingua, come se in quel preciso momento avesse avuto un’idea geniale. “Bravo!”, disse. Il giorno dopo il Vescovo fu prelevato da un elicottero privato e portato, con tutti i paramenti, nel centro operativo. Ratblack cercava di dare conforto a una centralinista pressoché minorenne quando scattò l’ora della riunione. “Vostra Eminenza, è un onore avervi con noi”. Il Vescovo era visibilmente in sovrappeso e cercava di arieggiarsi con un ventaglio barocco. Chinò la testa in segno di assenso. “Quello che ci chiediamo, qui al centro operativo, è la posizione ufficiale della Chiesa, riguardo all’argomento zombie, nel senso, lei capisce, aldilà dei comunicati dalla Santa Sede, dove in sostanza si cercava di guadagnare tempo, avrete un reale pensiero sulla questione…” Il Vescovo era visibilmente a disagio. Si schiarì la voce più volte, poi disse: “In tutta onestà, signor Ministro, la Chiesa non considera il “fenomeno” affar proprio. Nel senso che non riconosciamo nessuna attinenza con quanto scritto nella Bibbia, pertanto crediamo, e glielo dico ufficiosamente, che si tratti di una specie di malattia. Un virus ecco, o qualcosa del genere”. Il Ministro non trattenne un sorriso. “Signor Vescovo, sarò franco come lo è stato lei, io credo che voi non abbiate idea di cosa si tratti e stiate cercando la spiegazione più comoda”. “Questa affermazione non è ammissibile… dovrò informare…”. “Mi scusi, Eminenza, non mi fraintenda. In realtà siamo tutti nella stessa posizione. Lungi da me biasimarvi. Del resto, nessuno, oltre ad esporre congetture, sa (realmente) di cosa si tratti”. Il Vescovo sembrò calmarsi. “Tuttavia”, proseguì il Ministro, “Voi avete la possibilità di comunicare e soprattutto farvi ascoltare da milioni di persone. 28


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Ergo, voi potete determinare, in assenza di spiegazioni esaurienti, quale è DAVVERO la verità”. Il Vescovo sulle prime sembrò non capire. Nei giorni successivi il Ministro dell'Ambiente, insieme al Presidente e altri funzionari dello Stato, fecero visita al Santo Padre. Fu annunciato un comunicato in mondovisione. Tutti i primi ministri delle nazioni più influenti, oltre allo stesso Papa, avrebbero dato alle persone una spiegazione. Si decise in modo unanime che sarebbe stato proprio quel giovane ministro a parlare al mondo, con tutte le massime autorità del pianeta a fianco. Tutto era pronto. Il Ministro riavviò i capelli e parlò. “Abbiamo commesso un terribile errore!”, esordì. “Fino a ieri credevamo che questi esseri fossero una piaga, una punizione divina addirittura. Be', non è così. Guardateli meglio, e riconoscerete i vostri mariti, le vostre sorelle, i vostri figli. C'è questa malattia, per la quale ancora non abbiamo una cura, che li fa sembrare morti, senza senno. Sono persone. Vive. E hanno bisogno della loro famiglia. Accoglieteli in casa, fate attenzione perché non vi riconosceranno, cercheranno di farvi del male ma sono malati. Presto troveremo una cura e allora potrete riabbracciarvi. Tutti insieme”. In tutto il mondo calò il silenzio. Poi il Santo Padre e i capi di stato applaudirono, e allora tutti, nei televisori, nei maxi schermi, applaudirono! In poche settimane le strade furono sgomberate dai cadaveri, la gente se li portava dentro casa. Nacquero aziende che fabbricavano gabbie più o meno lussuose per tenere gli Straccioni. Ogni tanto qualcuno, senza famiglia o documenti, veniva ammazzato e lo si bruciava o seppelliva, ma erano mosche bianche. Ovviamente il progetto Apocalisse venne archiviato. A Ratblack venne data una scrivania in un anonimo ufficio statale. Purtroppo per lui, non aveva più diritto ad avere segretarie.

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LE ZOCCOLE DEL BOSCO di Arkan Nora È arrivata una mattina la bionda, sembrava incazzata nera. Blaterava roba mezzo in italiano e mezzo nella sua lingua, che io mica ho mai capito quale lingua fosse. Parlava di un tizio morto, era fuori di sé. Le ho detto che sarei passata io più tardi, era giorno ed era venuta in azienda a urlare, cosa cazzo si credeva? Non è che in ufficio sia proprio un via vai di battone, di solito non ci vengono proprio, lo sanno che il capo non vuole. Questa invece continuava, continuava, era impazzita; l'ho fatta entrare in ufficio e le ho fatto un té, che si calmasse e la smettesse di farci fare una figura di merda con gli autisti e i clienti che andavano e venivano; per fortuna si era vestita decentemente, non come si presenta sulla provinciale quando fa notte. Dopo il té, in un italiano sempre stentato - ma perchè 'ste donne non ci provano neanche, ad imparare la nostra lingua? - mi ha spiegato che sul terreno dove hanno le tende le ragazze - il pezzo di bosco che affittiamo alle puttane della provinciale - hanno scoperto un cadavere. Un tizio, stecchito, con dei buchi qui, qui e qui e tutto sporco. Le ho chiesto cosa cazzo dovevo farci, con 'sto cadavere, che mica erano problemi miei. E lì 'sta stronza mi dice che se non lo leviamo la smettono di pagarci. Io le rispondo che se non pagano chiamiamo i Caramba e lei mi risponde che se chiamiamo i Caramba lei tira fuori tutte le prove del fatto che affittiamo il bosco. "Sfruttamento della prostituzione", dice 'sta bagascia, sfruttamento a noi che se non fosse per noi sotto i ponti dovrebbero stare! La caccio fuori, non senza difficoltà, e vado in ufficio da Filippo, per dirglielo. Lui ci pensa un attimo e mi fa: "Senti, prepara un formulario per smaltimento ingombranti. Domani mandiamo un autista a prendere un po' di legna nel bosco. Stasera vai da tizio, lì, quello del tritatutto, e gli dici di tritare il carico senza fare domande. Dagli dei soldi, ma non troppi. E portami un caffè. E prenota per un bed and breakfast per domani notte e chiama mia moglie per dirle che domani ho una riunione. Sceglilo pure tu, tesoro, mi fido del tuo buon gusto." Come se sua moglie non sapesse che le riunioni del marito sono con me. Come se potessimo fidarci di ben due persone per smaltire un cadavere, senza contare le zoccole. Parlano troppo, le zoccole del bosco.

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LA RIFFA DEL MORTO STECCHITO di Helenio Ferrante 1. Era una domenica mattina d’ottobre allorché il venditore di carabattole Pischen, durante il suo giro domenicale per la vendita di carabattole, notò un uomo seduto sulla panchina arrugginita che la vecchia Amministrazione collocò vent’anni fa sotto l’enorme castagno del castello, al principio della via del castello, che è la via che circonda le mura del castello di Castrocozzo, in Sabbionasso. Poiché gli sembrò che stesse dormendo gli si avvicinò molto cautamente e poi che fu giunto a tre metri scarsi da lui, con quanta voce aveva in corpo cominciò ad esclamare “SPAZZOLE USATE A CINQUANTOTTO DENTI! MANICOTTI PER IRRIGAZIONE, BAGNÙR, STIE PER POLLI!” E giacché l’uomo non ebbe alcuna reazione gli si avvicinò ancora, fino ad arrivarci a un palmo dal volto. Quando gli alzò la testa, questa come fosse inanimata si rovesciò sul fianco destro, mostrando una profonda ferita alla tempia e un rivolo di sangue che scendeva dal viso, parzialmente irriconoscibile; c’era una pistola ancora calda nel pietrisco sotto la panchina. L’uomo indossava una strana calzamaglia arancione. “Un suicidio!”, esclamò il venditore di carabattole Pischen, e voltando lo sguardo notò alcuni bambini sul muro di cinta del castello, i quali sicuramente videro tutta la scena. “Venite qui!”, gridò ai bambini, ma quelli non si mossero. “Venite qui ho detto!”, gridò ancora. Due o tre dei bambini fuggirono con le loro biciclette, altri due vennero incontro a Pischen. Arrivarono anche la molto cordiale Signora Maus e il marito, il molto socievole Signor Maus. “Per l’amor del cielo, cosa succede qui?”, chiese la molto cordiale Signora Maus. “C’è un morto stecchito”, rispose il venditore Pischen. “Un morto stecchito? E dove?”, chiese la Signora Maus. “Là, sulla panchina”, rispose uno dei bambini, il piccolo Zon, della famiglia degli Stradèla. “Oddio, oddio, oddio”, esclamò la Signora Maus. “Arsi, fai qualcosa!”, disse al marito, il molto socievole Signor Maus, che non disse nulla. Stavano cominciando a uscire da messa, e poiché quella era una strada molto battuta fra quelli che uscivano da messa, la Signora Maus propose di coprire il corpo con un lenzuolo. Suonarono il campanello dei coniugi La Licajo, originari di un posto del Sud, e spiegato l’affaraccio pretesero in prestito un lenzuolo per coprire il morto stecchito. “Ma poi lo dovrò buttare via”, disse la signora La Licajo. “È quello buono, del corredo, e l’altro è ancora in lavanderia”, proseguì. “Ma c’è un morto stecchito!”, disse il Signor Maus, aprendo infine bocca.

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“Ma questo è il mio miglior lenzuolo, cristo!”, urlò il signor La Licajo. “Si riguardi, signor La Licajo, o riferirò al reverendo queste sue bestemmie!”, disse la Signora Maus. Rimediarono un sacco di juta per patate e con quello ricoprirono il cadavere morto stecchito. In quel momento arrivò il meccanico Bughi, dalla parte opposta alla chiesa. “Neanche oggi a messa eh, signor meccanico Bughi”, tuonò la Signora Maus. “Messa, messa…se aveste tutto il lavoro che ho io neppure voi vi potreste permettere di andare a messa la domenica mattina. Ho giusto due automobili, un ape e il trattore del venerabile Cagòt da riparare”, disse. “Ma il venerabile Cagòt non è morto?”, chiese Pischen. “Ma quale morto! È vivo e vegeto e rompe i coglioni più di due vivi messi insieme. Vuole quel trattore per domani e crollasse il mondo domani alle sette del mattino si presenterà in officina”, disse Bughi. “Brutta storia”, aggiunse Pischen. “Ma che succede qui? Cosa nascondete sotto quel sacco da patate?”, chiese Bughi. “Un morto stecchito con indosso una calzamaglia!”, urlò il giovane Zon, tutto felice. “Ah però…e come è successo?”, chiese Bughi. “Non so, l’unico presente era il venditore Pischen”, disse la signora Maus. “Piano con le insinuazioni”, disse Pischen. “Io l’ho trovato così, morto con un proiettile in testa”, disse Pischen. “E chi insinua? Ho solo detto che l’avete trovato voi”, disse la signora Maus, sempre molto cordiale. “Ma siete sicuri che sia morto?”, chiese Bughi. “Più morto di così non si può”, rispose Pischen. Cominciò a uscire qualcuno da messa. La chiesa di Castrocozzo è famosa in tutto il Sabbionasso per la grandezza delle volte, per l’altare superiore e per i dipinti di alcuni dei più famosi e celebrati pittori sabbionassi di tutti i tempi. Inoltre, come una volta qualcuno ebbe a dire, è retta dal reverendo più sgamato del Gerarcato, il quale ogni domenica trasforma la sua predica in una vera opera d’ars retorica. Per questo vengono alla messa domenicale anche quelli di Tonco, Aramengo, Ventraglio e Brindellamonte, solo per citare alcuni dei paesi, e talvolta perfino qualcuno da Sabbione, ma raramente. “Cosa facciamo?”, domandò Bughi. “Preghiamo”, disse la signora La Licajo. Nessuno pregò. “Pischen, insomma, potrebbe cominciare una preghiera per questo poveraccio”, disse la signora Maus. Pischen acconsentì e si produsse in una accalorata supplica, la quale terminava con le parole “…e fammi vendere anche oggi almeno una plafoniera o una lampada a olio del 39


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millenovecentodieci di quelle che nessuno vuole più, un voltauova o che so, fai tu, inventati qualcosa”. “Ma cosa fa, Pischen!”, esclamò la signora Maus. “Le preghiere sono per il morto, non per vendere la sua robaccia!”. “Dona ad esso la luce eccetera amen, dona ad esso eccetera, amen, amen, amen!”, barbugliò Pischen. “Ecco fatto. Non possiamo mica sprecare le preghiere così. Già che c’ero…”. Intanto il meccanico Bughi si era avvicinato al morto stecchito e aveva alzato il sacco da patate per vederlo in faccia. “Ma questo è Kopèt!”, urlò. “Come? Kopèt l’imbianchino? Il Kopèt che deve ancora dare la seconda mano di bianco già pagata al mio soggiorno?”, domandò preoccupato il camionista La Licajo. “Ma no, questo è Kopèt il fabbricante di strumenti musicali”, disse Bughi. “Ma quale fabbricante di strumenti musicali”, intervenne Pischen, “quello si chiama Corpèt, non Kopèt”. “Ma allora questo è il fabbricante di strumenti Corpèt oppure un altro di nome Kopèt?”, chiese la molto cordiale signora Maus. “Nessuno dei due”, rispose Bughi. “Adesso mi è venuto in mente; si tratta indiscutibilmente del giocatore di tambass Macciò”. “E cosa c’entrava il fabbricante di strumenti Kopèt?”, chiese umilmente il molto socievole signor Maus. “Si assomigliano”, disse Bughi. “Ma nemmeno nel modo in cui pisciano”, disse il venditore di carabattole Pischen tenendosi la barba. “E comunque non è neppure il giocatore di tambass Macciò, ve lo posso garantire. Quel grosso tipo abita accanto alla casa dell’amabilissima signora Ester, a Tonnengo, ed è fatto diverso da questo qui”. “E lei come sa che abita di fianco all’amabilissima signora Ester di Tonnengo, Signora Carissima Maritatissima col Riveritissimo Sindaco di Tonnengo, amico della mia famiglia da molte generazioni?”, chiese la signora Maus. In quel momento arrivarono il barista Caligaris con la moglie Enrichetta e un’altra cara signora abitante a Monforaccio, poco distante da Castrocozzo, ma molto più isolato nei boschi. “Cosa capita?”, chiese il barista Caligaris. “Un morto stecchito”. “Dove?”. “Là, sulla panchina”. “Oh Cristo!”, esclamò Caligaris mentre la moglie Enrichetta e la Signora Cara si segnarono sveltissime e iniziarono a pregare a bassa voce.

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“Può rispondere alla domanda, signor Pischen?”, disse la signora Maus mentre il barista Caligaris scopriva il morto stecchito per accertarsi della sua identità. “Ho venduto alla carissima e amabilissima signora Ester tre casse di vino e dodici confezioni di uova proprio l’altro giorno. Anche uno sputasangue a pile”, rispose Pischen. “Diu Cren!”, esclamò Caligaris, con una tipica espressione castrocozzese. “Ma questo è l’ambulante Mardòc!”. “L’ambulante Mardòc?”, chiese il meccanico Bughi. “Ma l’ambulante Mardòc sarà alto si è no un metro e mezzo!”. “Praticamente un nano”, aggiunse Pischen. “Eppure vi dico che questo sembra proprio l’ambulante Mardòc”, proseguì Caligaris. “Lei vuole dire l’ambulante Ramèt, quello alto”, disse Pischen, “Mardòc è quasi un nano”. “Ah sì, Ramèt!”, esclamò Caligaris, “insomma quello che vende scope e piumini e scale”. “Quello che vende scope, piumini e scale di bassa qualità”, disse Pischen. “Le mie invece sono di primissima qualità, anzi più elevata ancora. Guardi qua”. Mostrò le sue scale di ottima fattura e le dispose contro il muro di cinta del castello, mostrandole a tutti. “Ma le pare il momento!”, ammonì la signora Maus. “E comunque, si tratta di questo Ramèt oppure…”. “No e poi no!”, esclamò la signora La Licajo. “Ho comprato questa scopa da Ramèt proprio stamattina presto, al mercato di Uronengo. Non è lui”. “Ah così lei va fino a Uronengo per comprare scope di infima qualità? Mentre io sgobbo con questo carretto per voi cittadini castrocozzesi?”, chiese il venditore di carabattole Pischen. La signora Enrichetta e la sua amica cara continuavano a pregare, ora messesi in ginocchio sul pietrisco spelante e aguzzo del sabbionasso, con voce tenue e sottile, acidula, insopportabile. “Qualcuno accompagni a casa questi bambini”, gridò il signor Maus. I bambini se ne andarono per i fatti loro, per nulla scossi dall’accaduto. Nel frattempo giunsero altri cittadini appena usciti da messa, quelli che si erano fermati per bere l’aperitivo del dopo messa offerto dal Sacrestano Iòn o quelli che si erano intrattenuti per una discussione densa di significato col reverendo. Fra i quali c’erano l’infermiera Betta, che fa l’infermiera alla Maternità, il muratore Cech e il contadino Ospìt. “Che succede?”. “Un morto stecchito, là, sulla panchina”. Si avvicinarono per guardarlo. “Ma sarà morto davvero?”, chiese il muratore Cech. “A me sembra che respiri!”, esclamò il contadino Ospìt. Mandarono l’infermiera Betta a controllare. 41


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“Sembrerebbe morto stecchito”, disse. Nel frattempo qualcuno aveva avvertito il Reverendo e il suo cappellano o sacrestano che dir si voglia, i quali si erano precipitati dietro al castello. Il reverendo giunse sul posto tenendo per un orecchio il giovane Zon. “Per il Signore Onnipotente, questo è il commesso Brol”, disse il reverendo scoprendo il sacco da patate. “Il commesso Brol? Mi pare impossibile”, disse il venditore Pischen. “Che, volete dubitare della parola del reverendo?”, sentenziò il cappellano Iòn. “E poi cosa ci fa ancora qui quel ragazzino?”, domandò cortesemente la signora Maus. “Cosa credete signora, che non mi sia accorto di questi piccoli disertori?”, rispose il reverendo. “Li lascerò senza comunione per tre mesi”. “Disertano la messa per venire a fumare dietro al castello”, spiegò il cappellano. “Non sono cose da bambini, comunque”, disse il muratore Cech. “Fila a casa e ricordati che per tre mesi te ne starai senza comunione!”, urlò il reverendo al piccolo Zon. “Che crudeltà”, disse l’infermiera Betta. “E in aggiunta, tu e il tuo amico, che io ho senz’altro riconosciuto, non potrete tenere il crocifisso ai funerali per lo stesso lasso di tempo, rinunciando dunque alle mance”. Il piccolo Zon se ne andò a casa contrito. “Veniamo a noi”, disse il reverendo. “Perché il commesso Brol avrebbe dovuto uccidersi?”, chiese. “Perché non è lui!”, esclamò Pischen. “Se scoprissi di non essere più me stesso mi ucciderei anch’io”. “Fate dell’ironia, venditore Pischen? Ho ancora da chiedervi spiegazioni per l’aspirapolvere che avete propinato alla mia perpetua la scorsa settimana”, disse il reverendo. “Era un aspirapolvere davvero magnifico, appena utilizzato un paio di volte”, rispose Pischen. “Un paio di volte un corno!”, tuonò il sacerdote. “Si è guastato subito esplodendo come un palloncino e spargendo tre chili della sacra polvere clericale nella mia umile dimora”. “Umile dimora?”, intervenne il contadino Ospìt. “La sua villetta con doppi servizi, doppia cucina, due piani, trecentotrenta metri quadrati di giardino, un orto, una mansarda e quattro stanze da letto me la chiama umile dimora?”. “Che, state mettendo in discussione la parola del reverendo?”, chiese il cappellano. “E la metto in discussione sì!”, esplose il contadino. “Tra l’altro sono sei mesi che non mi compra uno zucchino che sia uno. Neppure l’uva, né le patate o le barbabietole”. “Accidenti a lei, contadino Ospìt, le sue barbabietole sono amare come la morte!”, inveì il reverendo. “E il suo grano non è buono neppure per far pane da dare ai cani”, aggiunse il cappellano. 42


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“Ah è così che la pensa?”, chiese il contadino Ospìt. “Più o meno è così”, rispose il cappellano. “Quello comunque non può essere il commesso Brol”, disse il muratore Cech. “E perché no?”, chiese la signora Maus. “Perché il commesso Brol è andato al mercato di Sabbione a comprare degli attrezzi da giardino. L’ho incontrato stamattina”. Rispose Cech. “Ma che diavolo, con un venditore ambulante che si fa in quattro per loro!”, disse il venditore Pischen. “Avete guardato se ha documenti in tasca?”, chiese il cappellano. “Nessun documento, vecchio bamboccio”, rispose Bughi. “Che, ci hai presi per dei cappellani?”. “Vi ho presi per atei senza dio e senza fede!”, esclamò il reverendo. “Voi, meccanico, è da un mese che non vi si vede in chiesa”. “Il lavoro, reverendo, il lavoro!”, piagnucolò Bughi. “Ancora il trattore del venerabile Cagòt?”, chiese il reverendo. “Ma il venerabile Cagòt è morto due mesi fa! Dite quaranta ave marie e cinquanta atti di dolore, bugiardo che non siete altro!”. “Sì ma…”, disse Bughi. “E vedete di partecipare alla messa di domenica prossima, altrimenti per quest’anno scordatevi la benedizione della casa, o perlomeno scordatevi che applichi la tariffa amichevole che vige da ormai cinque anni, stante gli accordi che avevo preso con la buonanima di vostra madre”, disse il reverendo. Arrivò altra gente e si fermò a chiedere cosa fosse successo. A turno si avvicinarono al morto stecchito e a turno diedero il loro nome. “Si tratta dunque del commesso Brol?”, chiese il barista Caligaris. “Mi doveva ancora saldare il conto”. “Non è il commesso Brol!”, disse Cech. “Aspettate, so chi è!”, gridò felice Pischen. Stettero in silenzio per cinque secondi. “Questo è indiscutibilmente il falegname di Pizzengo Totòr”. “In effetti…ricorda il falegname di Pizzengo Totòr, un vero iscariotico eretico”, disse il reverendo. “Qualcosa del falegname di Pizzengo Totòr ce l’ha”, disse il muratore Cech. “È lui, senza ombra di dubbio”, confermò il meccanico Bughi. La signora Enrichetta e la sua cara amica, ormai con le ginocchia irrimediabilmente sbucciate, sempre più contrite, si segnarono e cominciarono una nuova serie di preghiere, poiché prima esse erano rivolte alla remissione dei peccati di un’anima sconosciuta, 43


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mentre ora si riferivano alla povera anima vagante del falegname di Pizzengo Totòr. “Qualcuno si è fatto fabbricare una sedia o un tavolo o uno stipite o un mobile dal falegname di Pizzengo Totòr?”, chiese il reverendo. Il giovane Uzùr alzò la mano. “Ho commissionato un tavolo da Totòr la scorsa settimana, sembra lui”, disse. “E per quale ragione avresti commissionato un tavolo da quel dannato falegname iscariotico eretico?”, chiese il reverendo. Il giovane non rispose, ma molti altri ammisero di aver commissionato lavori al falegname di Pizzengo Totòr, chi un restauro, chi un letto, un piano cucina, un tavolino, un piccolo mobile. “Tuo figlio si scordi la cresima. Il nostro amato falegname Marlìn ha dovuto sopportare anche troppi soprusi. Si confessa tre volte a settimana, dona ingenti somme di denaro alla curia, prega tutti i giorni. E voi come lo ringraziate? Commissionando tavoli e sedie al falegname eretico di un paese eretico come Pizzengo. Pentitevi!”, esclamò il reverendo. “I tavoli di Marlìn sono storti, reverendo”, disse il barista Caligaris. “Menzogna! Guardate il pulpito della chiesa nella sua perfezione, è una meraviglia lignea, un’opera d’arte!”, disse il reverendo. “E comunque qui abbiamo un morto stecchito”, disse cortesemente la signora Maus. “Non dovremmo chiamare qualcuno?”, chiese qualcuno. “Almeno il maresciallo, l’ambulanza”, disse qualcun altro. “Chiamate il maresciallo e l’ambulanza”, disse il reverendo. Un vento gelido attraversò il vicino campo d’orzo facendo vibrare le piante e la croce in legno massiccio posta a suggello della fede cristiana dei castrocozzesi, per la quale i membri degli altri culti di minoranza avevano protestato non poco. “Cessate immediatamente di pregare per quest’anima eretica!”, fece il reverendo alla Enrichetta e alla sua cara amica. Queste cessarono di pregare e si alzarono con le ginocchia sanguinolente. “Moglie, sei proprio una sciocca”, disse il barista Caligaris con la sua pancia e il suo doppiomento e la sua testa pelata. “Devi aspettare di conoscere l’identità del morto stecchito prima di pregare per lui”. “Ecco una cosa saggia”, disse il reverendo. Arrivò anche la giovane bellissima Anna, appena uscita di casa per una scampagnata col nuovo fidanzato, uno studente di Sabbione, e si fermò nei pressi del luogo. “Ah – ah!”, disse il reverendo. “Ecco dove sei finita!”. “Buongiorno reverendo”, disse la giovane bellissima Anna. “Buongiorno uno stramaledettissimo corno! Ho dovuto far cantare l’Osanna a quella racchia stonata della Clementa, tutto a causa del tuo ‘brutto raffreddore’. Gli uomini nelle prime tre file non metteranno più piede in chiesa, dopo aver sentito cantare la Clementa”, 44


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disse il reverendo. “Ma veramente…”, disse Anna, abbozzando una spiegazione. “Niente ma! Gli iscariotici fanno incetta di fedeli, gli ebrei mi stanno col fiato sul collo. Adesso si sono anche aggiunti gli adoratori del coprolite, ci mancavano pure loro. Non posso perdere gli uomini delle prime tre file perché tu devi uscire col primo bellimbusto che incontri”, disse. “In effetti il suo è un comportamento davvero bizzarro, Anna”, disse la signora Maus affabilmente. “Bizzarro è niente! Gli uomini delle prime tre file vogliono vedere il tuo tailleur da chiesa tutte le sante domeniche! Cosa mi è toccato di fargli vedere? La gonna lunga e grigia e sfrangiata di quella cicciona della Donata, le coscione e l’apparecchio per denti della Manola, con quei capellacci arruffati, e la voce orribile della Clementa”, disse ancora il reverendo. “Sono costernata, padre”, disse la giovane bellissima Anna. “Mi pare il minimo”, disse il barista Caligaris. “Il minimo sarebbe che lasciasse tornare da dove è venuto quel furbacchione cittadino e andasse di corsa a provare il nuovo alleluia per la messa del venerdì”, disse il meccanico Bughi. “State zitto, voi”, disse la giovane bellissima Anna. “Sono due mesi che avete il trattore di mio padre in officina”. “Via, saranno due settimane al massimo”, rispose il meccanico. “Due mesi!”. “Due settimane!”. “E comunque la messa del venerdì è solo a maggio, meccanico, in questo periodo la facciamo il giovedì”, disse il cappellano. “Ehm, volevo dire giovedì”. “Cosa sta succedendo qui, un pic nic?”, chiese il bellimbusto di Sabbione. “Un morto stecchito”, disse il signor Maus, riprendendo la parola dopo un bel po’. “Là sulla panchina, coperto con quel sacco da patate”, aggiunse il venditore Pischen. “E comunque il giovane ragioniere Rutèn non sarebbe felice di sapere che stava qui in compagnia di questo bellimbusto cittadino, mia cara Anna”, disse molto amabilmente la signora Maus. Molte castagne col guscio spinoso caddero a terra per via del vento. “Non se ne abbia a male, signora Maus, ma suo nipote Rutèn è incredibilmente brutto”, rispose Anna. “Mi pare sia anche zoppo”, disse il meccanico Bughi. “Beh insomma proprio zoppo no, un po’ claudicante certamente”, fece il muratore Cech.

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“State dicendo che il mio bellissimo nipote Rutèn non è bellissimo?”. “Intelligente sì, sa far di conto, quello anche”, intervenne il barista Caligaris. “Però è orrendo a vedersi. Ha perfino la gobba”, disse il contadino Ospìt. “Arsi, dì qualcosa!”, disse la signora Maus al marito. Il marito rifletté qualche secondo. “Ha un bel po’ di soldi”, disse. “Ma resta deforme e brutto”, confermò l’infermiera Betta, la cui bellezza era pari soltanto alla bellezza di un cardo muffito di Frinco. Arrivarono il maresciallo Bersò e l’ambulanza. “Ho notato che ultimamente la si vede poco in chiesa”, disse il reverendo mentre mostrava il morto stecchito al maresciallo. “Non me ne parli, reverendo, con tutti i balordi e i furfanti che debbo inseguire…”, fece il maresciallo. “Non è che per caso state inseguendo qualche altro culto? Che so, gli iscariotici per esempio”, disse il reverendo. “Quegli sciacalli! Mai e poi mai! Ma le pare reverendo che io, di famiglia cristiana cattolica, potrei mai passare alla concorrenza? Sottostare ai precetti di quel culto paganissimo?”, concluse il maresciallo. “Eppure giurerei di avervi visto uscire dalla casa del culto iscariotico, due sere fa”, disse il venditore Pischen. “Non mi istigate, Pischen! Il tostapane che avete venduto a mia moglie la scorsa settimana è andato in cortocircuito e ha bruciato la tenda che mia madre ci regalò per le nozze”, disse il maresciallo. “Quella stupida e orrida tenda blu?”, chiese Pischen. “Siete fortunato che ho troppo lavoro per mettermi a discutere con voi”, disse il maresciallo alzando il sacco da patate e osservando il morto stecchito. “Suicidio”, disse. “Nessun dubbio”. “È il falegname di Pizzengo Totòr”, disse l’infermiera Betta. “Indiscutibilmente”, disse il venditore di carabattole Pischen. “Siete certi?”, chiese il maresciallo. “Certissimi”, disse il muratore Cech. “Ma non è possibile”, disse il brigadiere Munèt, saltando fuori dall’auto d’ordinanza. “Sono stato da lui due ore fa. Gli ho commissionato un mobiletto”. “Razza di eretico!”, esclamò il reverendo, inviperito. “Potrebbe essere venuto quassù dopo averla ricevuta”, disse la signora Maus. “Potrebbe”, disse il barista Caligaris. “Ma perché?”, chiese Bughi. 46


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“Ma chi se ne frega!”, tuonò il reverendo. “Non dovete impicciarvi degli affari degli eretici iscariotici, non dovete pregarli né versare una sola lacrima per loro. Ora starà vagando nei fuochi eterni dell’inferno, che il diavolo se lo tenga stretto”. “Va’ a cercare il falegname di Pizzengo Totòr”, disse il maresciallo al brigadiere. “Povero Totòr”, disse l’infermiera Betta, “doveva ancora consegnarmi una mensola”. Cominciarono a discutere su quale sorte toccasse alle spoglie mortali del morto stecchito. “Come da usanza iscariotica”, disse il reverendo, “lo si butterà via in un sacco dell’immondizia”. “Dovremmo chiamare un ministro iscariotico”, disse Pischen. “Mai! Ti prendesse un canchero! Lascia che il vecchio Biucòn riposi nella sua capanna inzaccherata dalla merda”, disse il reverendo, e detto questo si rivolse ai presenti: “passi per stavolta. Ma mercoledì non mancate alla messa serale, ho in mente una predica sulla predestinazione che farà impallidire tutte le dottrine ebraiche e coprolitiche e iscariotiche di questa terra”. La giovane bellissima Anna abbassò il volto delicato, il meccanico Bughi si accese una sigaretta, il maresciallo finse di analizzare il morto stecchito, eccetera. Ma evidentemente qualcuno dei presenti avvertì il ministro Biucòn, che giunse trafelato e scortato dal fido cappellano Giunchèt. “Mi è stato raccontato tutto, per l’amor del cielo dobbiamo dargli adeguata sepoltura”, disse il ministro Biucòn. “Cosa ci fai qui? Questa zona è mia”, disse il reverendo, e attaccarono con una zuffa religiosa non di poco conto. “Vuoi rubarmi i fedeli, brutto ereticaccio che non sei altro!”, disse il reverendo. “Li perdi da solo, caro mio. Dodici uomini delle prime tre file domenica si presenteranno da me, dopo che li hai costretti a sorbirsi l’indegno canto della Clementa”, disse il ministro Biucòn. “Dannazione”, pensò tra sé e sé il reverendo, gettando un’occhiataccia alla giovane bellissima Anna. Molte castagne ancorate nel guscio caddero sul pietrisco aguzzo del Sabbionasso e un camion passò sulla carreggiata sottostante, facendo tremare le mura del castello. “Ti venisse una cataratta”, gridò il barista Caligaris. I cittadini ripresero ad azzuffarsi nel vento gelido dell’autunno sabbionasso, mentre erano soliti amarsi nel soffio caldo di primavera. Continuarono e continuarono con l’azzuffata per circa mezz’ora, urlandosi contro i peggiori insulti in sabbionasso stretto e in esperanto sabbionese, tra cui “cristu che t’mandi pan e pes”, “testa da mangè par i cren” e “stajùn”, che erano tre espressioni non tremendamente offensive ma piuttosto incisive. Continuarono ancora finché non arrivò l’auto d’ordinanza del brigadiere. Tutti attesero con impazienza che la portiera si aprisse, e quando si aprì scesero due uomini: il brigadiere stesso e un altro signore vestito con jeans consumati, camicia a quadretti rossi e grigi e un 47


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foulard spesso al collo. “Chi diavolo è questo?”, domandò il reverendo. “Il falegname Totòr!”, esclamò qualcuno dalle retrovie. “Dannazione, è proprio lui”, fece il venditore di carabattole Pischen. “Certo che sono io, Totòr in persona”, disse Totòr. “Brutto schifoso eretico iscariotico!”, urlò il reverendo, tentando di scagliarsi contro il falegname Totòr. Fu trattenuto dai cappellani. “Se Totòr è vivo e vegeto e qui davanti a noi, allora il morto stecchito chi è?”, chiese molto distintamente la molto cordiale signora Maus. “In fondo è solo un morto stecchito vestito con una ridicola calzamaglia arancione”, disse il barista Caligaris. “E tra poco comincerà a puzzare”, aggiunse il contadino Ospìt. L’Enrichetta e la tanto cara amica si rigettarono in ginocchio sul pietrisco aguzzo del Sabbionasso per pregare, poiché, dissero, l’anima del morto stecchito era tornata anonima e sconosciuta. “Brave, brave, pregate per un buon cattolico”, disse il reverendo. “E se fosse ebreo?”, disse l’infermiera Betta. Al ministro Biucòn e al reverendo si raggelò il sangue. “Controllate se è circonciso”, disse il ministro Biucòn. “Avanti, Pischen, controllate”, disse la Signora Maus. “Non rovisterò mai nella patta dei pantaloni di un uomo, cara Signora Maus”, rispose Pischen. “Una calzamaglia non ha la patta”, disse il ministro Biucòn. Alla fine procedette al controllo l’infermiera Betta. “Non è circonciso”, disse. Il ministro Biucòn e il reverendo tirarono un sospiro di sollievo. “Comunque non sappiamo che farne”, disse il muratore Cech. “E se lo mostrassimo a tutti i cittadini? Qualcuno dovrà pure conoscerlo” propose il meccanico Bughi. Fu così che al reverendo venne l’idea della riffa del morto stecchito. 2. Il pomeriggio dopo pranzo il muratore Cech e il barelliere Bèp trasportarono il morto stecchito nello studio del dottor Vidàn, che avrebbe dovuto conservarlo fino a quando il reverendo e il ministro Biucòn non avessero raggiunto un accordo. L’idea del reverendo era la seguente: imbalsamare il morto stecchito e, trovato un luogo ove sistemarlo, esporlo alla cittadinanza la quale, pagando un biglietto da stabilire, avrebbe dovuto scoprire di chi si trattasse. Solo mostrando prove inconfutabili dell’identità del morto stecchito e la 48


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matrice del biglietto nel quale aveva precedentemente scritto tale identità qualcuno avrebbe vinto. L’idea guizzò dalla mente del reverendo alle orecchie del ministro Biucòn, il quale sostenne che entrambi i culti avevano il diritto di procacciarsi i fondi da questa sorta di riffa o di lotteria. Dopo infinite dispute teologiche decisero di fare pari e patta e dividere l’incasso, stabilirono il prezzo di ogni puntata in ventimilacinquecento lire e decisero di esporre il morto stecchito in una teca all’interno del Bar Commercio, di proprietà del barista Caligaris. Il dottor Vidàn adoperò tutte le tecniche di imbalsamazione e mesmerizzazione e mummificazione a lui conosciute e sconosciute, soprattutto queste ultime dato che era un semplice dottore della mutua, ma alla fine il risultato fu davvero buono e il morto stecchito era simile a un pupazzo, a una mummia splendidamente conservata o tutt’al più a una statua di cera. Senza curarsene troppo, la calzamaglia arancione fu immediatamente gettata via, e il morto stecchito fu rivestito da capo a piedi con abiti di sartoria. La teca venne esposta al Bar Commercio e migliaia di manifesti e volantini promozionali inondarono Castrocozzo e la Provincia tutta. VIENI A SCOPRIRE L’IDENTITÀ DEL MORTO STECCHITO! CHI SCOPRE L’IDENTITÀ SI PRENDE TUTTO! PIÙ DI DUECENTOCINQUANTA MILIONI DI PREMIO AL PRIMO CHE SCOPRE L’IDENTITÀ DEL MORTO STECCHITO! VENITE AL BAR COMMERCIO! PROMOZIONE MORTO STECCHITO: UN BIGLIETTO, UN CAFFÈ E UN AMARO A VENTIDUEMILA SETTECENTO LIRE! I primi giorni furono caratterizzati da code interminabili e le puntate non produssero nulla. Alla messa della domenica il reverendo prometteva alla popolazione indizi (del tutto falsi) cosicché le prime tre file si riempirono nuovamente. La giovane bellissima Anna ricominciò a cantare e gli uomini ne furono molto felici. Il reverendo e il ministro elessero una giuria popolare che avrebbe dovuto dirimere le questioni più anguste; della giuria facevano parte il barista Caligaris, il muratore Cech, il contadino Ospìt, l’infermiera Betta e il venditore Pischen. La molto cordiale signora Maus e il molto socievole signor Maus avevano molto cortesemente rifiutato l’incarico. Una sera un ragazzino delle cascine di Castrocozzo comprò un biglietto e si avvicinò alla teca per osservare da vicino il morto stecchito. Poi cominciò a sussultare, infine a piangere. “Questo è mio padre!”, urlò tra i singulti. “Ne sei sicuro?”, gli domandò la cameriera Maria. “Sì, sì, è il mio povero papà!”, esclamò il ragazzino in un pianto a dirotto. Furono chiamati i membri della giuria, che si precipitarono al bar Commercio. “Che succede?”, chiese il muratore Cech. “Il bambino, dice che il morto stecchito è suo padre”, disse la cameriera Maria. “Finalmente!”, esclamò il contadino Ospìt. “Come ti chiami, bambino?”, domandò il venditore di carabattole Pischen. “Lùs, e il mio papà si chiama Pepìn e fa l’agricoltore alle cascine di Castrocozzo, in mezzo ai boschi, è sparito da più di un mese”, rispose il bambino. “Ha un biglietto?”, chiese il muratore Cech al barista Caligaris. 49


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“Ce l’ha”, rispose Caligaris. “Allora abbiamo un vincitore!”, urlò il contadino Ospìt. La gente presente nel bar rumoreggiò. Quelli che erano in coda per acquistare un biglietto imprecarono, sputarono e si dispersero. “Si tratta dunque dell’agricoltore Pepìn”, disse l’infermiera Betta. “Mai conosciuto”, disse il venditore Pischen. L’Enrichetta si gettò a terra in ginocchio e cominciò a pregare per l’anima dispersa dell’agricoltore Pepìn. Chiamarono il reverendo che arrivò di corsa insieme al maresciallo. Subito dopo giunse al bar anche il ministro. “Che il demonio lo porti”, disse il reverendo, “questo bambino ci costerà un bel gruzzolo”. “Beh ormai dovrete pagarlo”, disse il maresciallo. “Ogni cosa a suo tempo”, disse il reverendo. “Versa da bere, Caligaris”, disse il ministro. Il barista Caligaris versò vino rosso nei bicchieri del reverendo e del ministro. “Maresciallo, si vuole unire?”, chiese il ministro. “Ma quale unire! Il maresciallo deve correre a casa dell’agricoltore Pepìn e verificare che si tratti di lui”, disse il reverendo. Il maresciallo uscì dal bar mentre la cameriera Maria e l’infermiera Betta tentavano di consolare l’inconsolabile bambino, ancora preda di spasmi e singulti. La gente era in fibrillazione. Tutti i presenti cominciarono a festeggiare il piccolo Lùs e a versargli da bere, la musica troneggiò e tutti furono felici per qualche attimo, a parte il sacerdote e il ministro. “Mi costerà la nuova statua di Santa Maria Vergine”, disse il reverendo. “Avevo già pronto il restauro del grande albero d’argento”, disse il ministro. Bevvero e si sbronzarono moltissimo, mentre i membri della giuria, anch’essi sbronzi, celebravano la vittoria e la cara Enrichetta era impegnatissima e inginocchiatissima per pregare l’anima dispersa dell’agricoltore Pepìn. “Povero Pepìn!”, “Ricco il figlio!”, gridavano tutti. Dopo qualche ora, quando tutti erano davvero sbronzi, compreso il piccolo Lùs, il reverendo e il ministro, anzi soprattutto loro, giunsero al locale la madre di Lùs, la casalinga Nina, che piangendo e starnazzando indicò il marito e gettatasi ai piedi della teca cominciò a singultare e a pregare come un maiale, dimenandosi e contorcendosi come colta da un raptus mistico o da una derivazione teocratica della divinità. “Ora vorranno i soldi”, disse il contadino Ospìt al reverendo. “Taci buzzurro!”, gridò il reverendo, “I soldi li vedranno domenica, alla messa grande. Poiché l’agricoltore Pepìn era un buon cristiano ed ebbe sempre l’accortezza di pagare in anticipo la benedizione della casa (tra l’altro con tariffa piena), la messa grande di domenica sarà in officio suo e della sua ricca famiglia”. Nei giorni successivi e prima della messa grande e della consegna del denaro alla famiglia del povero Pepìn qualcuno cominciò a malignare, soprattutto un tale di nome Baiòc, 50


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anch’esso agricoltore, che disse di non essere per nulla certo che il morto stecchito assomigliasse al Pepìn. “Per me il Pepìn aveva un neo sulla guancia destra”, disse. “Ma quale neo, era sporcizia!”, sentenziò la moglie del Pepìn. I dubbi assalirono il reverendo e la cittadinanza. Ricerche frenetiche ebbero luogo nei giorni successivi, e il povero Pepìn fu ritrovato in fondo a un pozzo, dove s’era nascosto cibandosi con bacche e schifezze di varia natura. “La caccia all’identità del morto stecchito riprende!”, decretò il reverendo, e tutti furono felici e contenti. Il morto stecchito fu riesumato, re-imbalsamato e ricollocato nella teca al Bar Commercio, dove ripresero le code per acquistare i biglietti e accaparrarsi il premio di duecentocinquanta milioni. Il reverendo e il ministro furono estremamente felici e continuarono con la loro disputa teologica. Non mancarono altri tentativi di truffa. Il cantoniere Giusè ammazzò il fratello Gomb e lo murò in una cappella sepolcrale del cimitero cattolico di Castrocozzo, pretendendo poi il premio. “Quello è mio fratello Gomb, vi dico!”, ripeteva a squarciagola. “Gomb è morto stecchito, morto stecchito!”. Il Maresciallo rinvenne il cadavere del povero Gomb e incarcerò il cantoniere per omicidio e soprattutto per truffa aggravata. Ma il caso più discusso fu quello del giovane stalliere Rebò, che un giorno affermò di essere certo dell’identità del morto stecchito. “Quello è mio nonno Biasìn”, disse. La giuria si riunì. “Ma tuo nonno Biasìn avrà novantanni!”, disse il muratore Cech. “Sì, e ha una malattia degenerativa che lo ringiovanisce”, disse lo stalliere. “In effetti qualcosa del vecchio Biasìn ce l’ha”, disse il barista Caligaris. “Ma con cinquantanni in meno però”, aggiunse il venditore Pischen. “Ha tutta l’aria di essere una truffa”, disse il contadino Ospìt. “Giuro che non è una truffa! Questo è mio nonno! Non è una truffa!”, esclamò lo stalliere Rebò. La giuria si riunì. “A me sembra proprio una truffa!”, esclamò l’infermiera Betta. Il vecchio Biasìn fu rintracciato sulla camionale per Altaforte, claudicante, accompagnato da un vecchio cane puzzolente, mentre tentava di raggiungere la sorellastra rinchiusa in un brefotrofio. “Attenti, lui vi vede!”, esordì il reverendo durante l’omelia alla messa grande, “razza di ignobili truffatori, violentatori di spiriti santi, contadinacci senza ritegno, triplici estratti d’infamia, sappiate che Dio vi osserva, vi scruta, vi giudica attimo dopo attimo!”. “Fate molta attenzione”, esordì il ministro durante il sermone alla funzione principale della domenica alla Casa del Giuda, “non crediate di poterla fare franca, poiché il nostro Signore sa tutto e prevede tutto. Una volta fu mandato sulla terra per soffrire nei secoli dei secoli, per salvare l’umanità con un tradimento. LUI! Ma VOI, vili traditori di voi stessi, sciocchi 51


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seguaci dell’unico tradimento possibile, VOI avrete quel che peggio meritate se continuerete a truffare, a mentire, a dilapidare preghiere al fine di recare danno alla nostra chiesa”. S’incontrarono al bar e come da tradizione cattolica e iscariotica si sbronzarono alla salute del montepremi che si erano già messi in saccoccia. Il reverendo fece costruire un altare immenso e utilizzava aspersori in oro massiccio, l’altro s’era fatto costruire una statua di Giuda degna di quella che svettava nel piazzale antistante alla Cattedrale di Sankta Gouda a Sabbione. Una notte qualcuno tentò di trafugare il morto stecchito dal Bar Commercio, ma il piano fallì. Tremendamente scossi, il reverendo e il ministro decisero si trasferire la teca dal bar alla Clinica Sogno Liquido, posta nel cuore di Castrocozzo, dove sarebbe stata più sicura. Il morto stecchito restò nella teca in bella mostra, e quando la riffa cominciò a stufare la popolazione il reverendo e il ministro erano già ricchi sfondati. Decisero allora di fare una bella funzione funebre e poiché non riuscirono ad accordarsi su quale dei due culti dovesse avere l’onore decisero di celebrare una funzione ibrida, mezzo cattolica e mezzo iscariotica. Questa si tenne a Castrocozzo un mercoledì pomeriggio. A prima vista c’era tutto il paese. In fondo alla chiesa, nascosti tra l’acquasantiera in pietra e il gratin del confessionale, nella puzza cristiana tanto cara ai contadini, nella penombra omerica interrotta dal quadro di Loro San(-tissimo) Giovanni Bosco, nel buio di acquamarcia e santità, lambito da una luce d’incenso e attraversato da effluvi di banano e arancio (quasi caco, direi) c’erano i vari Pischen, Cech, Ospìt, Caligaris, in qualità di delegati particolari, facenti le veci dei parenti del morto stecchito. Comunque veniva avanti, cigolando, il carrello su cui era stato adagiato il poveraccio. E subito saltarono fuori le prefiche, che sono una gran rottura di palle perché piangono, si disperano, si strappano i capelli e urlano come fossero scorticate vive, ma danno un tocco di colore alla cerimonia e concludono sempre la loro esibizione con un canto nella loro lingua, che non ci si capisce niente ma è divertente. Subito dopo il morto stecchito, che aveva annoiato un po’ tutti, fu infilato in un sacco della spazzatura e gettato in una fossa come tutti i morti stecchiti di cui non si conosce l’esatto ordinamento religioso, manco più buono per il Festival della Lamentazione Rituale.

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Giulietta di Gianluca Dario Settembre 1981 "Ciao, io mi chiamo Ciro e tu come ti chiami? Vuoi venire con noi a bere una birra, ti vuoi divertire?". Lei era una ragazzina, avrà avuto sì e no diciott’anni. Portava in giro la sua acerba bellezza come un trofeo. A stento mi rivolse lo sguardo, accennando un'espressione mista tra l'incredulità e la superbia. Lì per lì non diedi peso all'indifferenza di quella ragazzina viziata e andai a bere la mia birra insieme agli amici di sempre, Tonino e Marco. Dei tre, ero l'unico ad avere un lavoro, non che fosse un posto fisso, ma quelle cinquantamila lire a settimana che mi davano mi facevano comodo. Fare il muratore non era la mia massima aspirazione, ma a ventitré anni e con solo la licenza media come titolo di studio, mi stava più che bene. Poi magari con il tempo avrei imparato bene il mestiere e sarei potuto diventare un imprenditore edile. Purtroppo il lavoro non era mai continuo, quando finiva un cantiere, per aprirne un altro ci voleva sempre qualche settimana, qualche mese nel peggiore dei casi. Non mi dispiaceva restare qualche giorno o settimana senza lavorare, almeno avevo il tempo di stare un po' con Marco e Tonino che di lavorare non ne parlavano proprio. Nonostante non avessero un lavoro, riuscivano a guadagnare qualcosa arrangiando qua e là. Un pacco consegnato, un messaggio portato da un quartiere all'altro. Mio padre mi diceva sempre che non avrei dovuto frequentarli, che non erano "buone compagnie", ma io con loro mi divertivo e continuavo a passare il mio tempo libero con questi due ragazzi di periferia. Trascorrevamo le nostre serate principalmente al bar, tra una birra, una canna e una partita a flipper. Molti ragazzi della nostra età passavano le serate in quel bar, anche persone più grandi di noi venivano lì, in quel bar e ci restavano fino all'orario di chiusura, finché il gestore non ci cacciava fuori. Pasquale si chiamava, ma tutti lo chiamavano Don Pasquale, un uomo sulla cinquantina, ma ne dimostrava almeno venti in più. Non aveva famiglia, non si era mai sposato e nemmeno aveva figli. Occhi azzurri stanchi e tristi, credo di non averlo mai visto sorridere. In quel periodo capitava spesso di vedere arrivare nei pressi del bar una macchina, una Giulietta color crema. Dentro c'erano sempre e solo tre persone, si fermava, quello che occupava il posto accanto al guidatore scendeva, si avvicinava ad uno dei frequentatori del bar e con tutta la calma di questo mondo lo faceva accomodare dietro, aprendogli anche la portiera. Poi la Giulietta ripartiva a gran velocità. Noi sapevamo, più o meno, cosa sarebbe successo, ma come tutti fingevamo indifferenza. Non erano fatti nostri e, soprattutto, meno se ne parlava meglio era. Solo dopo qualche giorno, se qualcuno chiedeva a Don Pasquale che fine avesse fatto Tizio o Caio, perché era un po' di tempo che non lo vedeva in giro, lui senza interrompere nemmeno per un attimo ciò che stava facendo, rispondeva senza parlare con un'espressione a metà tra l'inconsapevolezza e la rassegnazione. E la vita continuava a scorrere come se niente fosse accaduto.

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Marzo 1982 Quella sera ero tornato più tardi del solito da lavoro, ero talmente stanco che mi ero pure addormentato sull'autobus mentre mi riaccompagnava. Scesi anche una fermata dopo la mia e naturalmente dovetti fare un bel po' di strada a piedi per tornare a casa. Avevo già indossato il pigiama e non volevo fare altro che andare a dormire, ma Marco e Tonino non erano dello stesso avviso. Come sempre, vennero sotto il balcone di casa a suonare ripetutamente il clacson della vespa. "Dai scendi, ci facciamo un paio di birre e ce ne andiamo a dormire". Mi lasciai convincere, rivestendomi frettolosamente e lasciando mio padre a sbraitare che non avrei dovuto fare tardi, perché la mattina la sveglia avrebbe suonato presto. Non era ancora entrata la primavera, ma la sera era davvero piacevole stare seduti al tavolino del bar davanti a una birra fresca. Marco parlava quasi esclusivamente di calcio mentre Tonino era intento a chiudere una canna. Io ancora non avevo capito cosa mi avesse convinto a stare lì invece che andarmene a letto. All'improvviso la Giulietta color crema si fermò davanti ai tavolini esterni del bar, come un rito che si ripete da sempre, si aprì la porta del passeggero, scese un uomo ben vestito, ma questa volta si diresse verso di noi. "Tu, vieni con me" mi disse con tono fermo e deciso. Ero pietrificato, ma dopo uno strattone alla manica della camicia, senza nemmeno accorgermene ero seduto sul sedile posteriore della Giulietta. Nessuno di loro parlava, la macchina lasciava piano piano il centro abitato alle sue spalle. Mi mancava quasi il respiro, sperando che si fossero sbagliati e che mi avrebbero lasciato andare. La Giulietta si fermò in un cantiere, quello seduto vicino a me prese una sigaretta facendo schioccare le dita sotto al pacchetto, l'accese con un fiammifero e usò lo stesso per fare luce su una fotografia che mi mostrò. "Te la ricordi a questa ragazza?" "Era meglio che non la guardavi nemmeno". In quel preciso istante capì tutto e mi passò tutta la vita davanti agli occhi, da quel cantiere non sarei più uscito. Quella sera, capii che fine facevano Tizio e Caio. Quella notte compresi, a mie spese, come la camorra smaltiva i propri cadaveri. Mi chiamo Ciro e sono un cadavere qualunque, in un pilastro qualunque, di un cantiere qualunque in una terra in cui si muore ammazzati anche solo per aver rivolto la parola alla ragazza sbagliata.

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PUBbliche virtù di Aldo Bagnoni "Questa è assolutamente la nostra migliore specialità", insistette il titolare. "Non abbiamo attualmente un alimento più prelibato di questo, mi creda. È un'esperienza unica nel suo genere, una festa sensoriale, una sinfonia di sapori. Più dolce e più prelibata di questa carne non si trova in giro, normalmente. Le consiglio caldamente di provarla! Certo, il costo è quello che è, ma d'altronde deve considerare quanto sia difficile e complesso l'approvigionamente di questa qualità e varietà di tagli, che qui da noi sono ora una novità assoluta: in particolare, le bistecche ed il carpaccio sono i piatti forti, è il caso di dire. Vedrà che non se ne pentirà. Facciamo per lei e la signora? Allora porto un carpaccio, una tagliatella con ragù ed una dissossata, d'accordo? Lasci fare a me, vi combinerò un servizio che non dimenticherete più!" Frastornato, ma al tempo stesso affascinato, il cliente guardò la donna, non meno incuriosita e sorpresa, e ottenutone uno sguardo di assenso compiaciuto, diede il suo beneplacito convinto e si dispose nell'attesa, chiacchierando piacevolmente con la sua compagna, che tra l'altro era la prima volta che invitava a cena. Piatto dopo piatto, l'atmosfera era sempre più gradevole e colloquiale, ed il palato della coppia sempre più deliziato. Quella carne era del tutto straordinaria, mai gustato nulla di simile precedentemente. I due si alzarono infine da tavola soddisfatti, ed insolitamente leggeri, sotto lo sguardo compiaciuto del proprietario. Non mancarono i complimenti al cuoco – anzi: allo chef -, e tantomeno una buona mancia, per dimostrare riconoscenza nei confronti di un servizio discreto ma costantemente attento. "Una carne tenerissima e dal gusto speciale, davvero unica, complimenti ancora! Torneremo senz'altro, e vi segnaleremo su Voyage Counselor, ve lo meritate davvero!" "Grazie, noi per il momento siamo un pub, ma in virtù di questi piatti stiamo cercando di fare un salto di qualità, di fare la differenza con la media dei locali della zona, perché queste nostre specialità si possono trovare ancora solo nei grandi centri. Grazie, vi aspettiamo volentieri una prossima volta, e speriamo di farvi assaggiare alcune preparazioni molto speciali, che stiamo mettendo a punto. Buona serata!" La coppia uscì. Il proprietario restò sulla soglia a guardarli allontanarsi nel buio della sera. Poi prese il cellulare, e attivò il comando vocale: "Chiama Cimitero, Custode". "Pino? Tutto bene, il bambino era ottimo! Direi che possiamo proseguire, quanti hai detto che erano in tutto in quel pullman andato fuoristrada avantieri? Sette? Sì, allora vanno bene tutti, datti da fare, che non mi servono frollati. Va bene stanotte alle 3? Ok, a più tardi, buona serata anche a te."

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Codici sbagliati di Gianluca Dario "Domani mattina devi uscire presto, c'è da ripulire un bosco da materiale organico", così mi aveva detto il mio capo parcheggio la sera prima. Presto sarebbe praticamente di notte, il posto è un po' fuori mano, nemmeno il navigatore satellitare ti ci porta, non esiste un indirizzo. La mattina dopo alle cinque ero già per strada con il cassone bello pulito, pronto per essere caricato di rifiuti, anche la documentazione era pronta, trovai il formulario per lo smaltimento già compilato sul sedile, dovevo aggiungere solo la firma, il peso presunto e l'ora di partenza. Ovviamente sull'ora di partenza mi sarei tenuto largo, così almeno potevo riposarmi un po' di più, ero sveglio dalle quattro, mi spettava proprio di diritto. Arrivato a destinazione, le indicazioni erano giuste, trovai l'operaio già con la pala meccanica in moto. Stamattina, pensai, sta andando tutto per il verso giusto, qui secondo me ci scappa pure la sosta in trattoria, che sulla statale ce n'è una dove si mangia proprio bene e si paga pure poco. Nemmeno il tempo di fantasticare su questi pensieri che arriva l'intoppo, uno di quelli che ti fanno perdere le giornate al telefono. Il codice del rifiuto era sbagliato, invece di utilizzare quello per i rifiuti biodegradabili, hanno messo quello degli ingombranti. Ma come si fa a confondere l'organico con un manufatto? Chiamo in ditta e mi rispondono in tutta tranquillità come se l'errore fosse voluto: "non ti preoccupare di queste cose, pensa ad andare in quella discarica sulla provinciale, ribalta e torna subito qui". Ero abituato a farmi e fare poche domande, ma appena vidi la prima palata di rifiuti essere riversata nel cassone, tutto fu più chiaro. Tra i rami e i tronchi, misto al terreno, si intraveda un corpo. C'era un cadavere sepolto e me lo stavano caricando insieme ai rifiuti, a quel punto compresi tutto. Andando a scaricare nella discarica degli ingombranti, sarebbe stato macinato tutto in un attimo e nessuno avrebbe visto e capito niente. Quel corpo, già mezzo martoriato, sarebbe finito tritato come carne macinata. Quello sulla pala meccanica sicuramente ne era al corrente, ma non sembrava preoccuparsi più di tanto, io pure non è che potevo farmi tanti problemi, allora gli chiesi di aggiungere più materiale possibile e di ammassare il tutto con il braccio meccanico, per nasconderlo meglio. Chissà da quanto tempo giaceva in quel bosco, come ci era finito e come era morto, comunque da quel cadavere non uscì nemmeno una goccia di sangue, secondo me stava lì da parecchio. Non credo proprio sia legale smaltire così un cadavere, ma a me questo lavoro serve e non è che posso mettermi a sindacare su tutto. In fondo non l'ho ammazzato mica io, io sto solo accelerando il processo di decomposizione. 57


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L'AFFARE di Donato Alfonso Sedàan Piero non aveva molta cultura, non sapeva nemmeno come fare a fare i conti, spesso si affidava a qualcuno più istruito di lui giù al bar, gli mostrava le bollette, le lettere dell'Inps, le cartelle esattoriali dell'Agenzia delle Entrate. Teneva tutto in una cartellina di plastica ondulata color bianco latte con i manici rossi e il logo di una cooperativa agricola. Dentro ci teneva anche una calcolatrice con le celle solari regalo della banca e l'euro convertitore recapitatogli senza che lo avesse chiesto da qualcuno che gli era parso già troppo pieno di sé. Si sedeva a quello che ormai era conosciuto come il suo tavolo, ordinava un quartino di Chianti e poi aspettava che si affacciasse Marco o Gianpaolo perché lo aiutassero a capire quella corrispondenza piena di numeri e parole che nessuno conosceva, ma che spesso sentiva in televisione nei dibattiti in onda in seconda serata. Il ragazzo invece era ben vestito nel suo completo firmato di fresco lana grigio, a prima vista qualcosa infastidiva Piero e non sapeva dire se fosse il lucido della seta della cravatta o la perfezione dei denti esposti in un continuo sorriso. O ghigno. Il ragazzo entrò nel locale come se avesse un appuntamento, si guardava intorno ma riusciva a mantenere un'aria sicura come se fosse più intento a lasciarsi guardare che a cercare una persona. Fece una piroetta sui tacchi di scarpe nere lucidissime e poi, individuato Piero, lo indicò con entrambi gli indici protesi e si andò a sedere al tavolo. “Lei è Piero Piacioni, vero?” Piero non disse nulla, cercò il conforto nello sguardo di Adelmo, il barista, ma in quel momento parve che tutti fossero stati inghiottiti dal vuoto. C'erano solo lui e il giovane, loro due e i rumori che provenivano dalla sala del biliardo al piano inferiore. “Non si preoccupi, non sono qui per spaventarla.” Ed allargò ulteriormente quella ferita sulla faccia a mostrare tutti i denti, tutti perfetti, tutti bianchi, tutti drittissimi. “Ho avuto il suo nome dal Cardinale, capirà certe informazioni è bene richiederle a chi ci si può fidare. Mi ha fatto il suo nome, dice che lei è una persona onesta, altrettanto meritevole della fiducia che Noi riponiamo nel Cardinale.” Piero era confuso, non aveva mai avuto contatti con il Cardinale, a ben pensarci non sapeva nemmeno chi fosse questo Cardinale che aveva fatto il suo nome. A malapena salutava il curato del paese, ma non si sarebbe mai definito uomo di chiesa... anzi! “Abbiamo bisogno di lei, e delle sue competenze. Le dobbiamo affidare un incarico molto delicato e mi creda, tutte le Nostre ricerche ci hanno portato qui, da lei. Lei, caro Piero, è il Nostro uomo.” A Piero iniziava a girare la testa, escludeva potesse essere il Chianti: ne aveva bevuto appena un sorso. Più probabile fosse la parlantina sciolta del ragazzo o il profumo del 58


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dopobarba: sicuramente una delle due era in quantità eccessiva. “Signor Piacioni, venga. Fuori c'è un'auto che ci aspetta, mi permetta di mostrarle che cosa deve fare, poi potrà decidere se aiutarci o meno. Ma vedrà è un compito talmente affascinante che sono sicuro non si farà scappare l'occasione.” Lo seguì con una punta di paura, aveva già sentito di persone anziane rapite e derubate. Sicuramente non era a rischio rapina, non aveva alcuna proprietà, nemmeno il casolare dove viveva, ormai ipotecato e quasi acquisito dalla banca. L'ansia lo pervase maggiormente quando si accorse che nessuno stava assistendo alla scena, che nessuno avrebbe potuto né dare l'allarme, né mettere gli inquirenti sulla pista giusta se mai gli fosse capitato qualcosa. Ma ormai erano pensieri che non servivano a nulla, si trovò già seduto e con lo sportello richiuso tra sé e il bar. Nessuno avrebbe potuto vederlo ora, celato dal nero dei finestrini della grande berlina. Al suo fianco si sedette il ragazzo che fece cenno all'autista di partire. “Si rilassi signor Piacioni, oggi è come se avesse vinto la lotteria. Certo deve ancora dirmi che accetterà di lavorare con Noi, ma prima voglio che veda cosa le chiediamo di fare e soprattutto veda il Nostro laboratorio. Che ovviamente diventerà suo se accetta.” Piero non si sentiva a suo agio rintronato da quelle parole e la sua mente era ancora ferma all'immagine di un Cardinale che faceva il suo nome. “Cosa tiene in quella valigetta? La stringe come se fosse un bambino.” E finì la frase mostrando nuovamente la perfezione della dentatura in tutta la sua completezza. Piero si rese conto che se ne stava seduto abbracciando la valigetta, come se la volesse proteggere o come se si sentisse minacciato. “Bo-bollette, sono solo cose da pagare.” Balbettò faticando a trovare un tono fermo della voce. “Tasse? E lei le abbraccia così?” Il giovane rise con ancora più foga mostrando i denti fino a quelli del giudizio. “Naturalmente, se lavorasse per Noi, non avrebbe più di questi pensieri. Ma prima di ingolosirla con le promesse voglio che veda con i suoi occhi.” Piero si sentiva a disagio, ora faceva fatica anche a controllare un leggero attacco di panico che sentiva montargli dentro. Perchè si era infilato in quella macchina? Cosa stava cercando? Che cosa si aspettava da quel ragazzo che oltretutto aveva un sorriso tanto inquietante? La valigetta era tutto quello che gli dava conforto, qualcosa di suo da poter stringere e tenere a sé tramite cui mantenere un contatto con la realtà. Anche se così facendo sapeva di alimentare la curiosità del ragazzo verso il contenuto. Forse era meglio fargliele vedere, per evitare che gli facesse del male pensando di rapinarlo. Non ve ne fu il tempo, la macchina entrò in un cancello e si fermò davanti l'ingresso di un capannone. “Eccoci arrivati, signor Piacioni. Venga, le mostro cosa avremmo bisogno che lei facesse!” La paura di Piero ora si fece davvero palpabile, capiva bene che qualsiasi cosa avrebbe visto non gli avrebbe più permesso di tornare indietro. Forse già l'aver guardato quei denti diritti e bianchi era stato l'inizio di un percorso senza ritorno. 59


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Avanzarono in un corridoio e si fermarono poco prima di entrare in una sala. Alla destra dei due c'era una lettiga con quello che non poteva che essere un cadavere e su cui era stato steso un lenzuolo. Piero si sentì rabbrividire, immaginava che da lì a poco anche il suo corpo si sarebbe trovato nella stessa posizione, ma al tempo stesso la forma abbondante dei seni infondeva in lui una malsana eccitazione. “Sa cosa c'è lì sotto, signor Piacioni?” Ormai Piero non vedeva più il ragazzo, quando sentiva parlare vedeva solo un'immensa dentatura davanti a sé. “Un ca-cadavere?” “Esatto! Una donna per la precisione: il lenzuolo copre ma non nasconde.” E di nuovo scoppiò in quella risata che faceva venire i brividi a Piero. “Venga, entriamo!” La scena all'interno del salone era a dir poco agghiacciante, ma colpiva soprattutto un senso di pace, come quello che si percepisce nelle abbazie benedettine. Due banconi di acciaio lucidissimo erano al centro della stanza e tutt'intorno dei vasconi da carico. I banchi erano adorni di coltelli e attrezzi per macellare le carcasse dei bovini. Piero aveva lavorato in una macelleria per qualche tempo e non ebbe difficoltà a riconoscere gli strumenti e la loro funzione, comprese le segaossa agli angoli della stanza. A uno dei due banconi stava lavorando un uomo, che appena vide entrare i due sospese il lavoro producendosi in quello che a Piero pareva un inchino. “Lui è Oliviero, ti spiegherà quali saranno le tue mansioni.” Il ragazzo poi indicò il banco dell'uomo cedendogli la parola e la scena. “Io vi lascio soli qualche minuto così potrete parlare meglio del lavoro da fare”. Se ne andò portandosi dietro la sua dentatura troppo perfetta. “Il lavoro l'è semplice, ma richiede di morto una buona concentrazione, guarda ne devo incominciare uno proprio adesso. La prima operazione, quella più importante, l'è il taglio dei genitali. Ti conviene far assumere al corpo codesta posizione, io la chiamo a ranocchia. Se il cadavere presenta qualche rigidità puoi usare la dima: non ti crucciare se senti che le ossa si rompano, l'importante è riuscire a fare i tagli il più diritto possibile e per questo ti consiglio di divaricargli le gambe così. Per entrambi i sessi parti ad incidere da sotto, dal perineo, in orizzontale. Taglia anche le cosce... fa' una decina di centimetri oltre la linea dei peli. Certo, se l'hanno.” Oliviero lo disse ghignando e Piero non potè fare a meno di condividere la stessa maliziosa eccitazione. “Bene, vedo che ti garba.” Piero annuì non staccando mai gli occhi dalle mani operose di Oliviero che continuò a descrivere il suo lavoro.

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“La pelle delle gambe ti serve dopo, per chiudere il retro delle parti che asporti. Taglia anche di quarche centimetro sopra l'addome. Poi, fai lo scalpo, come dico io. Non stare troppo alto, taglia a uno o due dita sotto l'epidermide, se no resta moscia e non non sta in piedi nel barattolo, soprattutto la topa. Poi tu le devi preparare per la conservazione. Le donne van chiuse con la colla, se no dopo un po' s'aprono e paiono brutte; agl'omini li pieni di silicone che così diventano belli diritti e tosti. Poi prendi i lembi di pelle che hai tagliato in più e li chiudi dietro: fai attenzione ai punti, non darne troppo pochi. Quando hai fatto li metti in questi barattoli grandi e li riempi di formaldeide: tu la trovi nelle taniche rosse costaggiù. Nei barattoli piccoli invece ci va la bocca se sono donne e il naso se son omini. Chiudi e sui tappi scrivi i numeri che trovi sui cartellini dei morti. Vedi? Sono proprio qui, attaccati all'alluce.” Piero, senza mai lasciare la propria valigetta, seguiva con attenzione le operazioni di Oliviero seguendolo in una danza attorno al banco; non nascondeva affatto che quelle pratiche lo eccitavano tantissimo. “Queste operazioni vanno fatte subito, appena porti qui il corpo, dopo ti occupi dello smaltimento del cadavere.” “Come sarebbe a dire appena porti qui il corpo?” “Sì, ce li fanno trovare già bell'e pronti all'ospedale. Te tu prendi il furgone, li carichi e li porti qui.” “Ma io un l'ho la patente...” “Va be', dopo lo dici a Lui e vedrai che ti trova una soluzione.” Oliviero lo disse indicando con il pollice la porta da cui era uscito il ragazzo, poi si pulì le mani nel grembiule come se avesse toccato qualcosa di sporco. “Andiamo avanti. Se hanno i capelli lunghi, li tagli e li metti in quei sacchetti, sigilli e butti nella vasca con scritto il numero uno. Poi passi alle mani. All'inizio tu usi l'accetta; poi rifinisci con la segaossa e infine immergi nella resina. Prima che si asciughi dai la forma, più o meno come 'ste chi. Vedi?” Oliviero prese un paio di mani dalla vasca con il numero due e le mostrò a Piero. “Queste mani vanno alle gioiellerie, le usano per mostrar gli anelli in vetrina, per questo il prodotto deve essere ben definito: mi raccomando! Dopo ti occupi del resto del corpo: fai tutto un taglio intorno e scuoi la pelle, la metti in quella vasca con la bandiera cinese. Non fare pezzi piccoli, cerca di scuoiare quanto più grande ti riesce, soprattutto la schiena.” “Ma la bandiera cinese è perché...” “Non lo so, ma credo di sì... che ci faccian delle borse. I muscoli delle gambe, dei bracci e de il culo invece in quella vasca con quel simbolo... giallo.” “Chell'é? Un l'ho mai visto prima?”

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“Un lo so nemmen'io, paion du archi gialli, du ali.. vai a sapello. So solo che quelli vengan a ritirallo subito appena li chiami. Tutto il resto: le interiora, gli organi, gli sfilacci... li metti nel vascone numero tre.” “Sarà roba che puzza, soprattutto con gli intestini dentro...” “Sì, anche quelli li piglian subito. Non come quelli che ritirano i muscoli, ma vengono a prendere le cose abbastanza presto. Se fai il lavoro nel fine settimana, va congelato nella cella. Solo questo vascone però.” “Capito.” “Una volta ho letto che su i camion che lo ritirava c'era scritto ritiro carni per uso animale. Ma è venuto solo una volta, poi sempre camion bianchi, anonimi. Credo che questo serve a fare le scatolette pe' i cani.” “Però, le trattan bene le bestie.” “Oh, un lo dire in giro, ma io una volta mi son fatto ai ferri una fettina di culo. Era di una bella ragazza, ma era più bello a guardallo che a mangiallo!” I due vecchi risero forte non nascondendo la malizia dei loro pensieri. “Le ossa, le ossa invece le metti nel macinatore e ci fai la polvere che cade in quel bidone. Prima puliscile bene se no si appiccica tutto. Non ne sono sicuro ma credo che vengano usate per addensare le creme da spalmare. Solo un'attenzione ai metalli. Denti d'oro, protesi in titanio, tutto quello che trovi piantato nelle ossa, lo estrai e lo metti in quella vaschetta là. Non ti fregare i denti perché quando ci mandano il morto già sanno che cosa c'è e cosa dobbiamo fargli trovare. Bene, io non ho altro da dire, comunque si lavora assieme e a principio ti sto dietro, non ti preoccupare.” “Sì, ma una cosa un m'hai detto... chi li prende i vasi con le fiche i cazzi dentro?” “Questo un si sa, pare vadano a Roma che c'è qualcuno che fa ricerche su forme e dimensioni...” “Eh, immagino, quelli si fanno votare e poi vanno a fare le ricerche.” “No, no, credo Roma inteso come Vaticano.” A Piero balenò un pensiero su Cardinali e Monsignori che facevano il suo nome, un pensiero presto interrotto dall'ingresso del ragazzo con i denti perfetti. “Allora, Oliviero, hai spigato tutto al Nostro amico? Mi dica Signor Piacioni, le piacerebbe lavorare per Noi? Le dico subito, sa solo per non essere tracciati non le verrà corrisposta nessuna somma di denaro, ma qualsiasi cosa lei voglia non ha che da chiedercela. Una casa, una macchina, un televisore... Lei ce lo dice e noi glielo facciamo avere.” “Ecco, la macchina. C'è un problema, m'ha detto che devo andare a prendere i corpi con un furgone, ma io non ho la patente.” “Ah, questo il Cardinale non me lo aveva detto...” “Però ho un amico che li guidava prima di andare in pensione, potrei chiedere a lui di aiutarmi col trasporto...” 62


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“Potrebbe essere una soluzione. Lo chiami.” E gli porse il telefono. Piero dovette per la prima volta lasciare la valigetta, non era pratico di fare il numero sul cellulare con una mano sola. Se la mise tra le ginocchia e strinse forte pur di non appoggiarla per terra. Mise a distanza ragionevole l'apparecchio per poter vedere i numeri e poi compose quello del suo amico Marco. “Marco, so' i Piero. T'hai da fare quarche cosa? No, ma dobbiamo discorrere. Allora ci si vede tra poco da Adelmo, che si fa merenda assieme.”

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Gaspare v La sala d'attesa di Artanis Naanie Se non ci fosse stata quella bara appoggiata al muro dell'ingresso, Gaspare forse non si sarebbe più ricordato di volersi suicidare. Aveva fatto riparare la canalina elettrica del soffitto che aveva rotto cercando di impiccarsi, aveva iniziato a prendere gli antidepressivi invece di accumularli ed era persino riuscito a parlare con Anna da sobrio, per la prima volta dopo la loro separazione. Aveva anche recuperato un po' di stima per se stesso quando aveva detto a Catia senza cappa, la nostalgica del Duce, che non intendeva più rivederla. Quella bara, però, era un ricordo costante del quale non sapeva che fare, a parte tenerci le scarpe per non ingombrare casa. Quel martedì mattina la bara gli dava particolarmente sui nervi. Sarà stato che il bilocale era in disordine e sembrava ancora più piccolo, oppure l'incombente primo appuntamento dallo psicologo, ma quella bara lì, dritta contro il muro, lo urtava parecchio. Aveva provato a chiamare il suo amico Tito perché venisse a riprenderla ma, stranamente, il falegname non aveva voluto recuperare la sua opera. Sbattè la porta - sentì la bara vibrare contro la parete - e si diresse dal terapeuta. Ne aveva trovato uno quasi sotto casa. Entrò nella sala d'attesa dove c'era un signore col cappello. Accennò un saluto a cui l'energumeno non rispose, quindi si accomodò sul divanetto con una rivista di qualche anno prima. A metà di un interessantissimo trafiletto sui benefici della spirulina - un'alga dall'elevato contenuto proteico - a Gaspare parve di notare un leggero movimento del signore di fronte. Alzò lo sguardo un attimo e non notò nulla. Si immerse di nuovo nella lettura prima di notare un nuovo movimento, più evidente. Alzò di nuovo gli occhi e vide che la mano destra del signore, dal ventre, scivolava verso la poltrona come priva di vita. Con una perplessità che mutava allo stupore quindi allo spavento vide l'uomo col cappello scivolare, come la mano, verso destra per adagiare tutto il fianco sul bracciolo e poi, trascinato dal suo stesso peso, in avanti fino a cadere di faccia in terra, pur tenendo le natiche sulla poltrona. Gaspare rimase attonito, incapace di reagire, la bocca spalancata. In quel preciso istante lo psicologo aprì la porta e chiamò il suo nome; in tutta risposta, Gaspare urlò. Urlò anche il terapeuta, che non capiva cosa stesse succedendo, malgrado il cadavere della buonanima giacesse proprio davanti ai suoi occhi. Poi Gaspare indicò il deceduto, lo psicologo capì e urlò più forte, e Gaspare urlò ancora e il rumore sembrava quello di una decina di infanti ai quali si è spento il cartone animato sul più bello. Poi tutto cessò. 64


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Lo psicologo era pallido come un cencio e si teneva il cuore. - Cos'ha fatto a quest'uomo? - Niente, glielo giuro! È crollato morto così! - Non dica cazzate, lo avevo sistemato sulla poltrona per bene proprio perché non cadesse! - Mi scusi? - rispose Gaspare, fissando il professionista con gli occhi fuori dalle orbite. - Cosa vuole, mi è morto in seduta, non potevo certo tenerlo in studio e neanche potevo saltare tutti gli appuntamenti della mattinata, cosa ne pensa? Ma lei si rende conto che se non lavoro non guadagno? Avrei capito cosa fare durante la pausa pranzo! Un silenzio pesante si addensò tra i vivi della stanza. - Io ho una bara, se vuole. - Ma che bara e bara, ma lei è pazzo! - E cosa ci farei qua se non lo fossi, mi dica lei, insomma! E poi son mica io che sposto pazienti morti per non chiamare chi di dovere! - Ma io neanche lo so chi devo chiamare… Crede che cose del genere succedano tutti i giorni?! Come diavolo si smaltisce un cadavere da una sala d'attesa? Sentirono bussare. Un vento di panico li attraversò. - Ma non è che credono che lo abbiamo ammazzato noi, questo? - Noi? Noi? Ma che c'entro io, sono arrivato che era già morto! Chiami qualcuno, l'ambulanza, la polizia, che cazzo ne so! Bussarono di nuovo, più insistentemente. - Polizia! Ci hanno riferito urla violente e rumori bizzarri, dottò, vogliamo solo controllare! - Siamo rovinati, siamo rovinati! - Gaspare si prese la testa tra le mani e, di colpo, si ricordò che in fondo, forse, suicidarsi era la soluzione migliore per reagire a questo destino avverso che continuava ad infierire su di lui. Lo psicologo, tremante ma rassegnato, si diresse ad aprire la porta.

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UNA BREVE INTRODUZIONE DEL VILLAGGIO RURALE-MONUMENTALE DI VIVANTA TOMBEJO di Edward Dwight Eugene Navarro

Una sera, mentre mi trovavo a cena al ristorante ungherese Kiskakukk Etterem con il mio caro amico Kok, docente di antropologia culturale all'Università di Sabbione, il suo assistente (un ragazzo smilzo e occhialuto sulla trentina) mi parlò per la prima volta del villaggio di Vivanta Tombejo. Lo descrisse come 'meraviglioso' e 'stupefacente', circondato da boschi di faggi e campi di girasole cotti dal sole, e ne fissò la superficie in 94.843 m². Disse che durante la sua unica visita al villaggio (della durata di due mesi e mezzo) si innamorò di una donna i cui occhi erano scuri come i laghi nascosti di montagna e la cui pelle era bruna come un alga per dimagrire e profumata come un tiglio a maggio inoltrato. Il racconto, o meglio, l'accenno dell'assistente di Kok, il quale lasciava che il giovane parlasse a ruota libera, mi incuriosì; gli domandai di raccontarmi di più. Lui chiamò la cameriera e le domandò se fosse tanto gentile da porgergli un foglietto di carta. Quando la cameriera tornò con una bottiglia di vino e il foglietto di carta, l'assistente di Kok scrisse l'iscrizione incisa sull'unica porta d'accesso al villaggio di Vivanta Tombejo: BENVENUTO NELLA CASA DEI MORTI DALLA PIETÀ DEI VIVENTI ERETTA CHÉ SI MONDASSERO ONORI E TORTI E LA VIRTUDE CHE MAI FU PERFETTA. QUIVI L’AMOR RITORNA AL DÌ DEL DISÌO E BELLEZZA ORMAI PIÙ NON TI SPETTA, NON V’È TORMENTO NEL REGNO DI DIO, SOLTANTO OSSA, LOMBRICHI E TERRA: MA RICORDA UOMO, TU SARAI COME SON IO. La donna di cui l'assistente di Kok si era innamorato disse che si trattava dell'iscrizione originale che i fondatori di Vivanta Tombejo lessero quando vi giunsero la prima volta. Disse che gli abitanti del villaggio erano soliti ripeterla sotto forma di cantilena durante gli sfarzosi riti funebri. 66


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L'iscrizione, disse l'assistente di Kok, se cantilenata in coro durante i roghi funebri di massa, risvegliava antiche superstizioni mistiche. La donna dell'assistente di Kok parlò di scheletri che camminano tenendosi per mano, astrazioni vorticose, radiazioni cosmiche, onde magnetiche. Generali baffuti e marionette monche, apocalissi, diavoli, uomini che cadono dal nulla nel nulla. E ancora uomini blu, uccelli contorti, mostri tentacolari, aurore chimiche, strali lucenti magnetici. Poi, mentre la cameriera mi serviva un piatto di gulasch, mi raccontò del villaggio di Vivanta Tombejo. Per farla breve, nel 1921 una carovana di campagnoli provenienti da est entrò nel cimitero monumentale abbandonato di Tritiko Campo (da non confondere con Tritiko Rivero e Tritiko Urbo, mi ammonì l'assistente di Kok), ripulì le tombe e le cappelle dalle bare, dalle urne e dalle ossa dei morti dimenticati e fondò il villaggio di Vivanta Tombejo. I campagnoli adattarono le cappelle per farci monolocali e negozi, uffici pubblici e privati, una scuola e un grezzo ma funzionale ambulatorio. Sebbene gli abitanti dei paesi e dei villaggi limitrofi attualmente descrivano Vivanta Tombejo come un 'mortorio' per ragioni campanilistiche, Vivanta Tombejo è un villaggio più vivo che mai: numerosi sono i bar e le osterie e gli abitanti, per quanto consapevoli di vivere in un cimitero, e forse proprio per questo, sono avvezzi a qualsiasi pratica atta a celebrare la vita. Solo la vita, esiste, a Vivanta Tombejo, la morte essendo stata scordata nel lavello della cucina o nella dispensa. La donna, che secondo l'assistente di Kok aveva caviglie affusolate come spighe appena cresciute e un seno morbido e sodo allo stesso tempo (cercò di trovare una metafora, ma non ci riuscì), uno dei problemi principali che i cittadini di Vivanta Tombejo si trovarono a dover fronteggiare fu quello dello smaltimento dei propri morti. Paradossalmente, vivendo in un cimitero e adattandolo alle esigenze della vita, si trovarono senza un luogo adatto per smaltire o conservare i cadaveri. Non decisero di attuare il progetto più scontato, cioè quello di costruire un 'vero' cimitero, bensì decisero per un'altra via: approntarono una pira funeraria ultramoderna e superaccessoriata e decisero di bruciare tutti i propri morti in un grande rogo che si sarebbe appiccato ogni quindici giorni da novembre a febbraio, tutti i mercoledì da marzo a ottobre. Durante questi roghi, disse l'assistente di Kok, tutti gli abitanti di Vivanta Tombajo sono soliti declamare l'iscrizione magica per suscitare i fenomeni precedentemente descritti, e questo senza la minima paura di passar per eretici o miscredenti; a Vivanta Tombajo, disse l'assistente di Kok, non esiste una religione, esiste soltanto una sorta di superstizione mistica ribaltata, secondo la quale ogni simbolo di morte richiama un simbolo di vita, e viceversa. 67


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Un teschio, una falce nera o un Bafometto centroamericano, a Vivanta Tombajo, rappresentano la vita, e sono considerati simboli di buon auspicio. Un fiocco rosa o azzurro oppure un albero, sono auspici di morte. Avrei certamente voluto saperne di più, a proposito dei roghi funerari di Vivanta Tombejo, ma Kok mi intimò di mangiare o il mio gulasch si sarebbe freddato. Quando terminai di mangiare anche l'ottima crema di fegato d'oca del Kiskakukk Etterem si stava parlando della relazione tra le dodici tribù di Israele e la brutale pratica della circoncisione a secco di epoca precristiana, e mi dimenticai di tutto.

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Chi gode si accontenta di Alez

Spera Giuda che sia davvero qualcosa di urgente, perché cazzo, bussare così in piena notte è davvero qualcosa che ti spacco la faccia appena apro la porta. È la gnocca che vedo insieme a quello dei trasporti speciali, mi chiede se può entrare che mi deve dire una cosa privata. Privata lo dice sottovoce che quasi mi eccita al punto da sbatterla lì attaccata al campanello. La faccio entrare e quella tira dritto in salotto come se fosse casa sua, come se conoscesse dove sono le stanze. Per un attimo mi sento in imbarazzo perché vivo solo e di certo non c'è ordine e pulizia, ma poi penso che quella si è infilata in casa mia ed è lei che dovrebbe essere in imbarazzo. Così mi siedo sulla mia poltrona preferita e la fisso aspettando che parli. Funziona. È in evidente imbarazzo ed inizia a parlare. Dice che dovrei aiutarli, immagino si riferisca a lei e quel manichino del suo capo, che non può scendere nei particolari ma che quella stessa mattina mi sarà portato un carico di rifiuti, che non devo scaricarlo nella piazzola della mia discarica ma lo devo passare subito nel tritatore e certificare come rifiuti organici. L'ascolto e mi chiedo quando arriva la parte più interessante, quella che riguarda il mio... regalo, chiamiamolo così. Alla fine lo dice. È una somma ridicola. Non rispondo, mi limito ad ascoltarla e fissarla, poi restiamo in silenzio qualche secondo, giusto il tempo perché lei si senta ancora in imbarazzo. Funziona. Per uscire dall'impasse raddoppia l'offerta, ma io rimango ancora in silenzio e lei triplica. Continuo a non dire niente ma questa volta mi confessa che davvero di più non può, e probabilmente nemmeno lo voglio. Voglio lei. Glielo dico e indico con la testa la camera da letto. Lei fa la risentita, ma è una parte, lo capisco. Lei capisce che ho capito e andiamo in camera da letto. Non è come pensavo, confesso di essere deluso, ma ormai è come se avessi messo una firma sul contratto e non mi resta che rispettarlo.

Fossero mai puntuali i trasportatori, sono ore che aspetto il carico “speciale”, chissà dove cazzo si è fermato, magari a pranzo sulla statale. Sono impaziente, ho già preparato il tritarifiuti e posizionato un cassone bello pulito per raccoglierne il prodotto. Non so più che cosa fare per tenermi occupato, voglio solo andare a casa a pranzare, ma devo aspettare 69


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sta cosa urgente di cui non so niente e in cui mi sono invischiato. Adesso la parola invischiare mi fa ridere, perché ripenso a ieri notte, perché la vita sarebbe migliore se i contratti si firmassero scopando. Ecco il camion col carico speciale, gli indico dove andare e richiudo il cancello: meglio avere un po' di privacy per un affare stipulato nel cuore della notte. Gli faccio fare manovra e intanto aziono il nastro trasportatore, il camionista non parla, non sorride, non un'espressione: sembra un pupazzo. Nemmeno io ho voglia di parlargli, voglio solo finire in fretta e andare a casa. Quando è in posizione gli do un segnale e quello aziona il ribaltabile e il suo camion inizia a vomitare una valanga di terra, legna, foglie e...che cazzo, un cadavere! Ormai è nero e gonfio, sporco di terra, fatico a vederlo mentre raggiunge la bocca del tritarifiuti. Sono quasi tentato di fermare gli ingranaggi e chiamare per avere spiegazioni, per farmi aumentare il compenso... il silenzio a questo punto va pagato molto di più. Ma poi non so, forse sono troppo vecchio per lanciare di queste sfide, forse finirei anche io in quel modo. Come dice il proverbio? Chi si accontenta gode e io, anche se non ho goduto un granché, decido che è meglio accontentarmi.

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Le avventure del cadavere di M. di Lollo Rapets M. aveva girato parecchio, nella sua vita. Ma non avrebbe mai immaginato di viaggiare così tanto anche da cadavere. Quando intraprese l’ultimo viaggio, da vivo, già intuiva che sarebbe diventato cadavere di lì a poco. Ma tanto valeva provarci, meglio vivere da uomo di M che fare una fine di M, pensava M. Così, invece di arrendersi, chiese un’ora di tempo. In quell’ora, lasciò la città di M. Fu riconosciuto il giorno dopo a un posto di blocco, sdraiato sul fondo di un camion, travestito da soldato tedesco, fingendo di essere ubriaco. Decisamente una figura di M. Non è dato sapere come si susseguirono nelle ore successive le comunicazioni. Ordini, rifiuti, scelte, decisioni, ripensamenti, conflitti di autorità, desideri di giustizia, vendetta, paura di fuga o rappresaglie. Quello che è certo è che M. fu “dichiarato” cadavere ben prima di esserlo: agli americani che reclamavano la consegna del prigioniero, venne risposto che non era possibile in quanto già giustiziato ed esposto alla folla in un noto piazzale della città di M. Ma non era vero, o almeno non ancora: passò ancora una giornata durante la quale venne effettivamente messo in pratica quanto dichiarato agli alleati: esecuzione sul lago di Como, trasporto a Milano, esposizione alla folla dell’uomo che, ora che è cadavere anche in questa narrazione, inizieremo a chiamare col suo nome per esteso per raccontarne le rocambolesche disavventure successive. La prima parte è nota: il cadavere viene trasportato insieme a quelli dell’amante e di altri gerarchi in piazzale Loreto. Perché proprio lì? Perché è lo stesso luogo in cui otto mesi prima i milanesi avevano visto fucilare quindici partigiani, i cui corpi erano rimasti sull’asfalto tutta la giornata sotto il sole di agosto mentre gli uomini della Legione Muti, che dopo le esecuzioni piantonavano i cadaveri, vi si accanivano sopra in vario modo per spaventare la cittadinanza e ribadire il proprio potere. Così, per rivalsa popolare, viene riservato a Mussolini lo stesso trattamento, e sul suo cadavere i milanesi sfogano la paura e la rabbia repressa per anni: calci, sputi, coltellate, colpi di pistola. L’intervento di una mano pietosa, teso ad evitare ulteriori vilipendi e contemporaneamente permettere la visione del cadavere all’enorme numero di persone accorse, porta ad issare i corpi sulla pensilina del distributore di benzina dando origine all’immagine che tutti conosciamo. È Pertini, comandante del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, a ordinare la cessazione del macabro spettacolo. Il suo commento in proposito resterà nella storia: “in piazzale Loreto l’insurrezione si è disonorata”. Il cadavere che viene calato a terra è malconcio e irriconoscibile, proprio come l’Italia. Viene portato a pochi chilometri di distanza, in piazzale Gorini dove ancora adesso sorge l’obitorio comunale. L’autopsia avviene in un’atmosfera difficile: i medici sono continuamente disturbati dalle improvvise irruzioni di partigiani, giornalisti, masse popolari 72


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che vogliono vedere i corpi. I cadaveri di Mussolini e Claretta Petacci vengono messi in macabre pose per scattare foto decisamente discutibili dal punto di vista etico e morale. Alla fine, viene asportato anche il cervello che viene conservato sotto formalina “a fini di studio” e altri campioni istologici vengono inviati negli Stati Uniti. Per evitare che diventi “oggetto di culto”, si decide di seppellirlo in forma anonima insieme a decine di altri fascisti morti in quei giorni e tumulati tutti nello stesso campo del Cimitero Maggiore di Milano. La tomba non reca iscrizioni né indicazioni sul defunto, ma dopo alcuni mesi viene comunque individuata e diviene luogo di pellegrinaggio per curiosi e nostalgici. Passa meno di un anno: nella notte tra il 22 e il 23 aprile 1946 arriva una telefonata al numero 777 della Questura di Milano: vicino al muro di cinta del Cimitero Maggiore ci sono dei resti che sembrano essere delle falangi e una gamba. La polizia pensa subito ai tombaroli: con la città ridotta in macerie non sono poche le persone che cercano in qualsiasi modo di tirare su qualche lira. Si cerca allora di capire quale tomba sia stata violata. Lungo il perimetro viene identificato un punto dal quale i tombaroli sarebbero scappati: avevano preso una carriola per il trasporto degli attrezzi. Le tracce portano al campo 24, ma qui nessuna tomba è stata aperta: la polizia inizia allora a controllare il resto del cimitero temendo che ad essere profanata sia una tomba del lotto 16, quello dove sono stati seppelliti i fascisti giustiziati dopo il 25 aprile dell'anno prima. Ed è proprio così: nel campo c'è un buco e un coperchio che è stato divelto. Nella bara, del cadavere resta soltanto uno stivale. Quando cercano sul registro del custode mortuario di chi fosse il corpo, il responso è inequivocabile. Non è stato trafugato “solo” un cadavere: ad essere stata portata via è la salma di Benito Mussolini. Il fatto desta subito scalpore in città: il Corriere Lombardo in edizione straordinaria manda in giro gli strilloni a gridare “Hanno rubato Mussolini!”. Nessuno, compresa la polizia, riesce a capire le motivazioni di un gesto simile. Come primi responsabili vengono indicati i fascisti: del resto sono proprio loro che indicano il gesto come “un atto eroico”. L’ipotesi però perde credibilità mentre emerge dalle prime indagini l'assoluta impreparazione a compiere un gesto che appare davvero “improvvisato” da persone che sembrano incapaci o quantomeno ingenue: chi andrebbe mai a riesumare un corpo senza portarsi dietro neppure qualcosa con cui trasportarlo? Chi sarebbe così sprovveduto da andare a trafugare il corpo di Mussolini per poi perderne dei pezzi lungo la strada? La polizia pensa allora che i responsabili siano dei semplici tombaroli che erano andati a cercare degli oggetti di valore nelle tombe ma che poi, arrivati per caso di fronte alla salma di Mussolini, hanno pensato di cogliere l'occasione e provare ad estorcere dei soldi alla famiglia. Ma questa è un'ipotesi che sfuma quando nella fossa viene trovato un foglio, un manifesto secondo il quale il corpo dell'ex duce sarebbe “ritornato in possesso dei fedeli che non lo hanno mai dimenticato”. Quindi i ladri sono irresponsabili, incapaci, raffazzonati... ma pur sempre fascisti. Prendono corpo ipotesi fantasiose e improbabili sul destino di quello che nei discorsi popolari è stato prontamente ribattezzato “il Salmone”: c’è chi dice che sia stato preso per 73


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essere seppellito a Roma all'Altare della Patria, secondo altri invece è stato trafugato da degli emissari di Francisco Franco e immediatamente spedito in Spagna, e arriva anche uno scoop tanto clamoroso quanto falso da parte del Corriere d'Informazione, che vuole il furto della salma di Mussolini commissionato addirittura da Churchill che lo vorrebbe con sè in Inghilterra. La polizia inizia a sondare gli ambienti fascisti per capire se qualcuno è a conoscenza del furto della salma dell'ex duce: vogliono sapere chi è stato, ma soprattutto dov'è il cadavere. Vengono arrestati fascisti di poco conto che fanno il nome di Mauro Rana, fondatore del “Partito Democratico Fascista” con il suo camerata Domenico Leccisi. Il 31 luglio del 1946 la polizia finalmente mette le mani su Domenico Leccisi, che sembra essere la mente del furto e riesce a ricostruire l’accaduto. Leccisi è andato con altri due camerati al cimitero Maggiore proprio con l'intento di riesumare la salma di Mussolini. Quando hanno trovato il Duce, hanno estratto la salma dalla bara utilizzando due grosse corde per portarlo via, ma non hanno pensato che il corpo potesse puzzare così tanto, così hanno deciso di lavarlo a una fontanella. Poco dopo l'acqua era finita perché era stata chiusa per la notte: hanno allora recuperato un telo che facesse da barella. Ma anche così il trasporto era difficile: non pensavano pesasse così tanto. Così hanno rubato una carriola e hanno tentato la fuga perdendo dei pezzi del corpo lungo la strada per via dei sobbalzi. Usciti finalmente dal cimitero, lo hanno portato prima di tutto a Madesimo, in Valtellina, a 140 chilometri di distanza. Dopo pochi giorni hanno capito che la polizia li stava cercando e lo hanno portato di nuovo a Milano, al convento di Sant'Angelo, e lasciato lì in custodia a due preti. La polizia si reca al convento alla ricerca del corpo, ma non lo trova. Inizia a chiedere informazioni ai presenti, e due sacerdoti si rifiutano di collaborare appellandosi al segreto confessionale. Vengono arrestati per reticenza, e dopo una prima iniziale resistenza uno dei due cede e indica che il cadavere è stato portato alla Certosa di Pavia. I frati riconsegnano il corpo a condizione che la sepoltura definitiva avvenga in segreto, ma i continui spostamenti e le condizioni di deposito ne hanno accelerato il processo di decomposizione fino a renderlo completamente irriconoscibile: i resti vengono riportati all’obitorio di Milano per una nuova autopsia che conferma l’identità del corpo. A questo punto si può procedere all’ultimo viaggio per il convento dei Cappuccini di Cerro Maggiore, in provincia di Milano. Qui la salma viene ospitata per dieci anni, fino a quando la vedova ne ottiene la restituzione dopo una lunga battaglia portata avanti con l’appoggio di alcuni parlamentari del MSI tra cui figura anche Leccisi, che aveva disseppellito personalmente Mussolini per primo. Dall’istituto di medicina legale viene anche restituito il cervello che viene riunito al corpo e si procede alla sepoltura definitiva a Predappio nella tomba di famiglia. Ma come in tutte le storie di M, non si può mai essere certi di poter dire la parola fine: nel 2009 compaiono in vendita su ebay alcuni vetrini istologici contenenti campioni di cervello di Mussolini, con tanto di documentazione medica originale. L’asta viene cancellata dal sito, ma è probabile che il mercato sia avvenuto per altri canali. 74


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Il cadavere di Benito Mussolini ha quindi viaggiato, dopo la morte, per piÚ di 800 km in nove tappe nell’arco di dodici anni. Per ora.

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Ringraziamo calorosamente tutti coloro che hanno permesso a questa rivista di vedere la luce, specialmente il nostro sponsor “Antico Saponificio Cianciulli�

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