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Foto di copertina: © L’Osservatore Romano Foto - Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge 27/02/2004 n° 46) art.1, comma 1, LO/MI

INCHIESTA

LE IDEE DEI GIOVANI CHE VOGLIONO CAMBIARE IL PAESE

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strada

PENNE PER SCARP L’IMPORTANZA DELLE PAROLE UN RACCONTO DI ERALDO AFFINATI

www.scarpdetenis.it marzo 2017 anno 22 numero 209

Papa Francesco «Mettiamoci nelle scarpe degli altri» INTERVISTA ESCLUSIVA SCARP DE’ TENIS HA INCONTRATO PAPA FRANCESCO, ATTESO IL 25 MARZO A MILANO, PER PARLARE DI POVERTÀ, PERSONE SENZA DIMORA E MIGRANTI. UN COLLOQUIO RICCO DI ANEDDOTI E CON UN INVITO MOLTO CONCRETO



EDITORIALE

Papa Francesco e Scarp Un numero storico

LA PROVOCAZIONE

La visita del Papa a Milano il 25 marzo. Un incontro speciale di Luciano Gualzetti direttore Caritas Ambrosiana

di Stefano Lampertico [

@stefanolamp ]

Poter incontrare il Papa, anche solo per pochi minuti, anche solo per ascoltare qualche sua parola, per molte persone è un sogno.

re se stessi quando non si fa l’elemosina. “Ma come, io dono dei soldi e poi lui li spende per bere un bicchiere di vino?”. Un bicchiere di vino è l’unica felicità che ha nella vita, va bene così. Domandati piuttosto che cosa fai tu di nascosto? Tu quale “felicità” cerchi di nascosto?». E ancora il Papa tocca il

Casa Santa Marta, a metà febbraio, prima della sua visita a Milano, la città nella quale Scarp è nato e ha ancora il suo cuore. Lo abbiamo intervistato, toccando i temi che più ci coinvolgono.

Vi invito a leggerla con attenzione, tra le righe. Noi ci abbiamo trovato segni di profezia.

Il 25 marzo saluteremo Per un giornalista, poterlo intervistare, significa raggiungere con i venditori l’apice della propria carriera. Per di Scarp il Papa un giornale di strada, per i venditori, per la redazione, per i lettori tema dei migranti, dell’ac- a Milano, poter leggere sulle proprie pagi- coglienza, di come educare lungo il percorso ne l’intervista a Papa Francesco, alla carità. Lo fa servendosi di che lo porterà è qualcosa di “storico”. aneddoti e di testimonianze che Abbiamo incontrato Pa- porta sempre nel cuore da Bue- al carcere pa Francesco a Roma, a nos Aires, la sua città. di San Vittore

Ne è uscita una lunga intervista nella quale il Papa del cambiamento e del rinnovamento risponde con grande profondità. Spiazzando, in un certo senso. Un esempio? Santità, gli abbiamo chiesto, «è giusto fare l’elemosina alle persone che chiedono aiuto per strada?». Ci ha risposto così: «Ci sono tanti argomenti per giustifica-

Tra qualche settimana, il 25 marzo, accoglieremo Papa Francesco a Milano. Una visita che parte dalle periferie di Milano e che tocca anche le periferie esistenziali del carcere di San Vittore. Con i vendito-

ri di Scarp saluteremo il Papa quel giorno, sulla strada, dove siamo sempre. E sarà una grande emozione poterlo (ri)vedere da vicino. Nel numero che state leggendo ci sono altre novità e contenuti d’eccezione. Come, per esempio, il primo dei tre racconti che ha scritto per noi Eraldo Affinati, finalista al premio Strega. Si intitola L’importanza delle parole. E non è un caso.

contatti Per commenti, idee, opinioni e proposte: mail scarp@coopoltre.it facebook scarp de tenis twitter @scarpdetenis www.scarpdetenis.it instagram scarpdetenis

Il numero che avete tra le mani è un numero storico perché l’intervista a Papa Francesco lo rende speciale. Come speciale sarà la visita del Santo Padre a Milano il 25 marzo. Qual è allora il trait d’union che unisce le parole del Papa a Scarp con la sua imminente visita a Milano? Certamente l’ascolto e l’incontro con gli ultimi della fila. Camminerà “nelle loro scarpe”, con i loro occhi guarderà alla città partendo dalle periferie, geografiche ed esistenziali: da via Salomone al carcere di San Vittore. Scarp ha chiesto al Papa cosa si aspetta da questo suo viaggio a Milano. Francesco ha risposto con grande semplicità: «Mi aspetto di poter incontrare tanta gente». Il tema dell’incontro è certamente il cuore della sua visita. E sarà toccante, in questo senso, la visita al carcere di San Vittore, realtà carica di drammi umani, di esistenze segnate dalla colpa e dai torti. Papa Francesco manda messaggi che noi operatori della carità non possiamo non cogliere. Ci invita a non accontentarci di una visione addomesticata della realtà ma a coglierne le contraddizioni che appunto proprio lo sguardo di chi soffre sa vedere. ll Pontefice ci dice anche un’altra cosa: le contraddizioni non vanno solo denunciate, ma prima di tutto vissute, stando accanto a chi le subisce, e cercando con loro e in loro, cioè in chi ne è vittima, le risposte. Perché nemmeno l’intervento sociale meglio concepito, elaborato nel chiuso di qualche circolo accademico, laico o religioso che sia, saprebbe fare i conti con le ferite più profonde che ognuno si porta dentro. Come dice il Papa a Scarp, «insegnare alla carità non è scaricare colpe proprie ma è un toccare, è un guardare a una miseria che si ha dentro, che il Signore copre e salva». marzo 2017 Scarp de’ tenis

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SOMMARIO

Papa Francesco, ma non solo. Ecco i contenuti del nuovo numero di Scarp Per la seconda volta nel giro di pochi mesi, Papa Francesco torna sulla copertina del nostro giornale. Trovate l’intervista esclusiva che abbiamo realizzato con lui nelle pagine centrali. L’intervista al Papa rende questo numero davvero speciale. Una firma importante, intanto,

si aggiunge a quelle dei nostri editorialisti che già conoscete. È la firma di uno scrittore di primo piano, Eraldo Affinati, che ha scritto per noi tre racconti molto belli, che pubblicheremo nel corso di quest’anno. Il primo L’importanza delle parole, lo trovate a pagina 15. Nella prima parte del giornale ci sono alcuni contributi davvero speciali. Gianni Mura racconta per noi la storia di Vera Caslavska, la ginnasta della Repubblica Ceca che non si è mai piegata ai diktat della dittatura. Piero Colaprico, che non dimenti-

chiamolo, è il giornalista che ha coniato il termine Tangentopoli, torna su quelle vicende che hanno scosso il Paese e che ancora fanno discutere. All’interno del giornale trovate come sempre tante storie. Originali, curiose. Come la storia del nostro venditore Vito che, nel mese di dicembre, è stato ospite ad Atene dai nostri colleghi del giornale di strada Shedia. Come la storia di Pablo, il ventenne argentino, che prima di entrare in seminario, camminando dalla Francia a Roma, ha incontrato a Vicenza la redazione di Scarp.

Lo so che ti dispiace maresciallo, ma appoggiato alla lavanderia perché come in certi malgoverni se in famiglia il padre ruba

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rubriche

servizi

PAG.7 (IN)VISIBILI di Paolo Lambruschi

PAG.24 ESCLUSIVA Papa Francesco: «Mettiamoci nelle scarpe degli altri»

PAG.9 IL TAGLIO di Piero Colaprico

PAG.32 DOSSIER La gioventù che vuole cambiare il Paese

PAG.11 PIANI BASSI di Paolo Brivio

PAG.38 IMMIGRAZIONE L’Italia produce un esercito di clandestini

PAG.12 LE STORIE DI MURA di Gianni Mura

PAG.40 LA STORIA La sfida di Vito, un venditore ad Atene

PAG.15 PENNE PER SCARP di Eraldo Affinati

PAG.42 MILANO In Trattoria per non smettere di sognare

PAG.16 LA FOTO di Mohammad Aziz/REUTERS

PAG.44 TORINO Franca e Marco finalmente hanno una casa

PAG.22 LE DRITTE di Yamada

PAG.46 VERONA Suor Raffaella insegna parole che sanno di pane

PAG.23 VISIONI di Sandro Paté

PAG.47 FIRENZE Basta morti in strada: l’impegno di Caritas per i senza dimora

PAG.55 VOCI DALL’EUROPA di Ronnie Convery

PAG.48 VICENZA Pablo e la strada. In cammino ho trovato Dio

PAG.61 CALEIDOSCOPIO

PAG.50 RIMINI Anziani, evitare il Pronto soccorso per curare meglio

PAG.65 SCIENZE di Federico Baglioni

PAG.52 SUD Una Speranza, una casa per anziani e disabili

PAG.66 IL VENDITORE DEL MESE

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PAG.56 VENTUNO Dadaab, Zaatari, Kakuma. Campi profughi ora metropoli PAG.62 NAPOLI Vicoli, la Napoli secondo il grandangolo di Sergio Siano PAG.64 COMO Suor Giglia e la mensa. Più utenti, ma non molliamo

Scarp de’ tenis Redazione di strada e giornalistica via degli Olivetani 3, 20123 Milano tel. 02.67.47.90.17 fax 02.67.38.91.12 scarp@coopoltre.it

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Scarp de’ tenis marzo 2017

Direttore responsabile Stefano Lampertico Redazione Ettore Sutti, Francesco Chiavarini, Paolo Brivio

Segretaria di redazione Sabrina Montanarella Responsabile commerciale Max Montecorboli

Redazione di strada Roberto Guaglianone, Antonio Mininni, Lorenzo De Angelis, Alessandro Pezzoni

Foto Insp, Reuters, Romano Siciliani, Unhcr, L’Osservatore Romano Foto, Stefano Merlini Disegni Sergio Gerasi, Gianfranco Florio, Luca Usai, Loris Mazzetti


da

lla stra sile de

Il men

aforisma di Merafina È la pioggia che va Tra nuvole di vetro nel dolce cielo poi torna il sereno, dietro la finestra Il tweet di Aurelio [Il bonazza

@aure1970 ]

Repubblica - Vitulano, Benevento. Migranti, sindaco Pd chiude strada per impedire nuovi arrivi. Poi l'accordo con la Prefettura Le vie del Signore sono infinite, quelle dell'uomo sono ostruite.

Cos’è Scarp de’ tenis è un giornale di strada noprofit nato da un’idea di Pietro Greppi e da un paio di scarpe. È un’impresa sociale che dà voce e opportunità di reinserimento a persone senza dimora o emarginate. È un’occasione di lavoro e un progetto di comunicazione.

a era il mio di figlio, e forse è tutta colpa mia a anche il figlio a un certo punto vola via

Dove vanno i vostri 3,50 euro

La fotografia - tributo a Enzo Jannacci

Vendere il giornale significa lavorare, non fare accattonaggio. Il venditore trattiene una quota sul prezzo di copertina. Contributi e ritenute fiscali li prende in carico l’editore. Quanto resta è destinato a progetti di solidarietà.

Per contattarci

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dati Osservatorio Economico Ministero Sviluppo Economico 2015

TOP 15

24 Progetto grafico Francesco Camagna Sito web Roberto Monevi Editore Oltre Soc. Coop. via S. Bernardino 4, 20122 Milano Presidente Luciano Gualzetti

Importazioni in Italia 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15

Germania Francia Cina Paesi Bassi Spagna Belgio Russia Stati uniti Regno unito Svizzera Polonia Austria Turchia Romania Rep. Ceca

57.591 mln. euro 32.173 mln. euro 28.232 mln. euro 20.567 mln. euro 18.583 mln. euro 17.120 mln. euro 14.408 mln. euro 14.195 mln. euro 10.882 mln. euro 10.761 mln. euro 8.586 mln. euro 8.486 mln. euro 6.648 mln. euro 6.423 mln. euro 5.539 mln. euro

Registrazione Tribunale di Milano n. 177 del 16 marzo 1996 Stampa Elcograf Spa Verona Arretrati Su richiesta al doppio del prezzo di copertina

15,5% 8,7% 7,6% 5,6% 5,0% 4,6% 3,9% 3,8% 2,9% 2,9% 2,3% 2,3% 1,8% 1,7% 1,5%

Direzione e redazione centrale - Milano Cooperativa Oltre, via degli Olivetani 3 tel. 02.67479017 scarp@coopoltre.it Redazione Torino Via San Massimo 31/C, presso Spazio Laboratorio tel. 3200454758 scarptorino@gmail.com Redazione Genova Fondazione Auxilium, via Bozzano 12 tel. 010.5299528/544 comunicazione@fondazioneauxilium.it Redazione Verona Il Samaritano, via dell’Artigianato 21 tel. 045.8250384 segreteria@ilsamaritanovr.it Redazione Vicenza Caritas Vicenza, Contrà Torretti 38 tel. 0444.304986 scarp@caritas.vicenza.it Redazione Venezia Caritas Venezia, Santa Croce 495/a tel. 041.5289888 info@caritasveneziana.it Redazione Rimini Settimanale Il Ponte, via Cairoli 69 tel 0541.780666 rimini@scarpdetenis.net Redazione Firenze Il Samaritano, via Baracca 150/e tel. 055.3438680 samaritano@caritasfirenze.it Redazione Napoli Cooperativa sociale La Locomotiva via Pietro Trinchera 7, tel. 081.446862 scarp@lalocomotivaonlus.org Redazione Sud Caritas diocesana, Salita Corpo di Cristo, Teggiano (Sa) tel.0975 79578 info@caritasteggianopolicastro.it

Consentita la riproduzione di testi, foto e grafici citando la fonte e inviandoci copia. Questo numero è in vendita dal 1 marzo al 31 marzo

www.insp.ngo marzo 2017 Scarp de’ tenis

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(IN)VISIBILI

Nel Ghetto dei Bulgari a pagare il conto salato sono i bambini

di Paolo Lambruschi

Sappiamo poco dei ghetti delle campagne, baraccopoli sorte soprattutto al sud in angoli delle campagne sempre ai confini tra una municipalità e l’altra in modo che i comuni abbiano la scusa per non occuparsene e dove vive la categoria degli invisibili dei campi, categoria divenuta non secondaria del popolo della strada. Sono braccianti che lavorano in nero nei campi tre stagioni su quattro, sfruttati dai caporali e da proprietari terrieri con pochi scrupoli. Una legge anti caporalato appena approvata promette di estirpare la piaga secolare che prima colpiva i braccianti italiani (in parte ancora oggi). E di eliminare i ghetti. Che intanto sono lì, una vergogna a cielo aperto, costruiti con legno e plastica, sovraffollati, fuori controllo, privi di corrente e acqua (la portano le ong in taniche) senza ovviamente fogne. C’è delinquenza, prostituzione e non sono rari incendi e risse.

Un inferno, insomma, dove non ci sono solo africani. A nord e in alcune zone

Tra gli invisibili dei campi, categoria non secondaria del popolo della strada, ci sono anche i più piccoli, i bambini. Che non possono andare a scuola, che vivono in condizioni indecenti e che pure, quando riescono a essere seguiti, si scontrano con la burocrazia, forte con i deboli e tollerante con chi sfrutta

scheda

Paolo Lambruschi è nato a Milano nel 1966. Lavora ad Avvenire, come capo degli interni, dopo essere stato per tanti anni inviato. Ha diretto Scarp de’ tenis e il mensile di finanza etica Valori. Nel 2011 ha vinto il prestigioso premio giornalistico “Premiolino” per le inchieste sul traffico di esseri umani nel Sinai.

del meridione arrivano contadini dall’Ue orientale, Bulgaria e Romania. Molti di questi sono rom. A Borgo Mezzanone, frazione nelle campagne del foggiano bonificate dal fascismo è sorto da anni il Ghetto dei Bulgari, un campo di un privato, occupato, che accoglie braccianti per lo più rom provenienti dalla Bulgaria che si dividono nel lavoro stagionale tra la Puglia e la Calabria. Nel campo vivono nel fango e nella sporcizia tra i topi almeno una quarantina di bambini in età scolare che sui banchi di scuola non si sono mai visti. A Borgo Mezzanone non vivono solo onesti lavoratori e stinchi di santo. Ma i bambini non hanno

colpe e in Italia hanno diritti esigibili, anzitutto alla salute e all’istruzione.

Alcune organizzazioni, tra cui le Caritas diocesane di Foggia, Cerignola e Manfredonia e Solidaunia, associazione di medici cattolici che va a visitarli regolarmente, hanno denunciato la situazione di abbandono, sono stati ascoltati dalle istituzioni ed è stato avviato un censimento. È

partito così a metà febbraio un progetto per una ventina di fanciulli in età prescolare, pagato dalle diocesi, e dopo molti intoppi burocratici. Coinvolge

madri l’italiano e alcune norme igieniche. Perché tutto ciò emargina chi sta sulla strada, anche i rom. Ma il giorno dopo l’inizio delle lezioni, mentre già si pensa di estendere il progetto ai bambini in età scolare, il sindaco di Foggia firma un’ordinanza di sgombero del Ghetto in dieci giorni. La legge è dalla sua, il provvedimento è anzi tardivo. Ma non poteva aspettare altri tre mesi, almeno fino alla fine delle lezioni? Non poteva lasciare che la scuola di comunità e cittadinanza lasciasse un segno nelle famiglie del Ghetto? Mentre scriviamo le lezioni proseguono a fatica, le madri temono che i figli vengano loro portati via e affidati ai Servizi sociali. Le associazioni stanno cercando alternative abitative almeno per chi ha accettato alternative educative. Mi do-

mando perché lo Stato qui debba avere il volto duro di un’istituzione che non sente ragioni, forte con i deboli e nei fatti tollerante con i ricchi che sfruttano i braccianti. Non ho risposte. Sui social il generoso popolo

dell’odio mi urla che è tutto inutile, i rom sono figli di puttana. Mi viene in mente quanto avevo letto anni fa sul muro di un oratorio salesiano: anche i figli di puttana sono figli di Dio.

le mamme e i piccoli che vengono lavati e rivestiti dai volontari prima di entrare in aula e hanno a disposizione mediatrici culturali che insegnano a loro e alle marzo 2017 Scarp de’ tenis

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IL TAGLIO

Tangentopoli Un quarto di secolo che divide come in guerra due trincee Oggi, come ieri, Tangentopoli fa litigare chi la pensa diversamente. Ma i pensieri stanno in un territorio e i fatti in un altro. Analizziamo i fatti: ci

di Piero Colaprico

Ma qualcuno crede che se uno possiamo provare almeno con cinque piccoli fatti concreti e precisi di noi avesse visto che nessuno, a venticinque anni di o saputo di “torture” distanza, può smentire. si sarebbe girato 1) Mario Chiesa non viene torturato da nessuno. È un in- da un’altra parte?

fluente socialista, presidente del Pio Albergo Trivulzio, finisce in carcere perché ha appena ritirato una delle tante mazzette che riceveva, peccato (per lui) che questa sia firmata dal magistrato Antonio Di Pietro e dal carabiniere Roberto Zuliani. Per ragioni connesse anche alla sua accidentata vita privata, messo di fronte al bivio, cede e comincia a raccontare il “sistema” della corruzione pubblica e privata a Milano.

2) Eravamo, con l’arresto di Chiesa, al 17 febbraio 1992.

scheda

Piero Colaprico (Putignano 1957), giornalista e scrittore, vive a Milano dal 1976. È inviato speciale di Repubblica, si occupa di giustizia e di cronaca nera. Ha scritto alcuni romanzi, tra cui Trilogia della città di M. (2004), vincitore del Premio Scerbanenco. Una penna tagliente. Come questa rubrica che cura per Scarp.

L’estate dello stesso anno stavano nelle celle del sovraffollato San Vittore i top manager Fiat, ossia dell’azienda italiana più importante. Il Pci milanese era stato travolto con arresti, i vertici delle aziende comunali (dalla Sea degli aeroporti all’Atm dei tram) pure. A dicembre, ci sarà l’invito a comparire per il primo presidente del consiglio socialista, Bettino Craxi. Nessuno ferma l’inchiesta della procura milanese, né i giornalisti che la seguono quotidianamente.

3) Le confessioni, comprese quelle che inguaiano Craxi, sono oltre un migliaio in meno di un anno. Ognuna racconta i meccanismi di corruzione e concussione. Spiega fatti precisi. Due, tra le tante, sono simboliche. Le tangenti per costruire la metropolitana milanese, che costava al chilometro oltre dieci volte di più di quella di

Tokyo (!), venivano ritirate a volte da un socialista, a volte da un democristiano, e divise tra tutti (tutti) i partiti della maggioranza e dell’opposizione, con rarissime eccezioni. Una giovane promessa della politica entra in carcere. Dopo due giorni dà questa spiegazione: «Mi hanno detto che non basta avere idee, bisogna dimostrare di essere capaci di sostenere economicamente il partito», cioè di prendere e smistare mazzette. Emerge, insomma, il finanziamento illecito ai partiti: i quali non lottano tra loro nelle segrete stanze, ma si accordano su come spartire il denaro che ricevono dagli imprenditori, favoriti a loro volta dagli appalti pubblici.

4) Risultano fughe di notizie che distruggono la posizione degli indagati? Per la verità sono molto poche, per una semplice ragione: una volta che l’atto giudiziario è a conoscenza della persona sotto inchiesta, cade la segretezza, così dice il codice. A parte uno o due casi, su circa 5 mila esaminati solo a Milano, nessun giornalista è riuscito ad anticipare gli arresti. I mediahan-

no solo diffuso, in tempo reale, quello che gli avvocati difensori già conoscevano. 5) Qualcuno ha resistito? Sì, più di qualcuno ce l’ha fatta, non molti, ma chi non voleva spiegare come mai avesse conti correnti miliardari, o che cosa fosse accaduto durante un appalto, ha taciuto e, alla fine della carcerazione preventiva, è tornato a casa. Cioè, si poteva non parlare. Queste cinque circostanze non possono essere smentite da nessuno. Sosteneva Leonardo Sciascia che esistono i fatti e i fantasmi dei fatti. I revisionisti di Tangentopoli ignorano i fatti e diffondono i fantasmi dei fatti, in un Paese, come il nostro, che non ama la verità. Non c’è esame di coscienza per i cattolici travolti da Tangentopoli, non c’è analisi freudiana o junghiana per i laici: c’è solo un grande, omertoso, ringhioso mutismo sui fatti-reato e un’incredibile e arrogante logorrea sull’“uso violento” della giustizia, che venne «coperto» – così si ripete all’infinito – dai giornalisti. Ma qualcuno crede che se uno di noi avesse visto o saputo di «torture» si sarebbe girato dall’altra parte? In cambio di quale vantaggio, visto che siamo rimasti quasi tutti a (relativamente) sgobbare? In quale film? In quale Milano? Non per infierire, ma i garantisti all’italiana mi fanno sorridere. Corrono, s’affannano sempre in soccorso di chi? Dei potenti, della classe dirigente, ed è stata davvero dura da mandar giù che i loro tanti idoli della politica abbiamo resistito poco e niente e si siano – come è successo, ma è una mia misera opinione, non un fatto, per carità – sbranati l’un l’altro. Un quarto di secolo fa, ormai. Un quarto di secolo che divide come in guerra due trincee. marzo 2017 Scarp de’ tenis

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PIANI BASSI

Caro Donald, quando saremo meno forgotten?

di Paolo Brivio

Tutto il mondo ne parla. E noi, ai piani bassi, chi siamo per non parlarne? Siamo senza tetto, senza lavoro e senza quattrini, mica senza opinioni. E poi, lui parla di noi. Ha vinto le elezioni più importanti ed è diventato l’uomo più potente del globo rivolgendosi ai forgotten men. E chi, tra gli uomini, è più dimenticato di noi? Il Donald, insomma, prometteva bene. Sì, è vero, è un homeless,

cioè non ha una casa, solo perché possiede un grattacielo. Ma chisseneimporta? Non è il

l’autore Paolo Brivio, 50 anni, si è appassionato ai giornali ai tempi dell’università. E ha coniugato questa passione-professione con l’esplorazione dei “piani bassi” della nostra società. Direttore di Scarp dal 2005 al 2014, oggi fa il sindaco: pro tempore, perché rimane “giornalista sociale” in servizio permanente effettivo

grattacielo che fa il monaco. Il Donald sarà pure megamiliardario. Ma se uno ti dice che quando sarà presidente si ricorderà di te, dovresti evitare di credergli, solo perché lui mangia caviale 58 piani sopra Central Park e tu zuppe strabollite in una mensa seminterrata del Bronx? Insomma, eravamo curiosi. Abbiamo guardato i tiggì (il dormitorio non è un hotel a cinque stelle, ma il televisore funziona). Abbiamo spulciato i giornali che i passanti affrettati abbandonano (sempre meno, perché la carta non va più di moda) nei bar di Manhattan o nei labirinti della Subway. Abbiamo esplorato internet in biblioteca, dove svernano i più intellettuali, o i più congelati tra noi. Insomma, le ombre dei

il Donald avevamo un suggerimento iniziale: intanto contaci, facci censire. Ché non si capisce mai quanti siano gli homeless, in questa benedetta America: mezzo milione, come dicono le statistiche governative, o milioni, e parecchi, come sostengono i non governativi che lavorano per noi e con noi? E se non sai quanti siamo, come fai a ricordarti di ricordarci tutti? Ecco, le idee non ci mancavano. Però poi i media ci hanno informato che: il Donald ha messo nel mirino l’Obamacare, legge che

Prometteva bene. Anche se ha un grattacielo. Aveva detto che si sarebbe ricordato di noi, ombre dei piani bassi. Noi gli volevamo chiedere almeno di censirci. Però adesso siamo confusi. E anche piani bassi si sono informate. i quasi-forgotten, E oggi sono un po’ confuse. ai piani quasi-bassi, Ci hanno informato che... non è che possano Sì, siamo un po’ confusi. Perché ci avevamo creduto, alla storia che sa- avere tutte ’ste remmo stati meno forgotten. E per grandi certezze...

apre a tutti le porte degli ospedali; il Donald ha accelerato le pratiche per il Muro, obiettivo tener fuori tanti latinos, marginados come noi; il Donald vuole smagrire la spesa pubblica, eccetto quella per la guerra; il Donald vuole deregolamentare la finanza, quella che gonfia bolle e combina casini planetari; il Donald guida la rivincita dei petrolieri, anche a costo di far arrabbiare gli indiani; il Donald ha bannato i musulmani, ma non dai Paesi dove la sua famiglia fa affari; il Donald ha flirtato con la Russia litigato con la Cina scaramucciato a turno con Israele e Palestina, per poi fare sovente marcia indietro... eccetera eccetera. Insomma, caro Donald: quan-

do comincerai a farci sentire meno forgotten? Nessuno di noi

ambisce a una poltroncina nel tuo governo, anche perché quelle se le sono accaparrate un nugolo di super-ricchi, certo più presentabili di noi, in società. Ma una leggina? Un decreto presidenziale? Uno storno di fondi? Almeno una smorfia di attenzione, in favore di telecamera? Chissà come la vedono, gli operai del Wisconsin. I ceti medi impoveriti (o impauriti di impoverire). I tanti quasi forgottend’America, la cui prima e comprensibile preoccupazione è non diventare forgotten. Lo-

ro sì, che sono un bel bacino elettorale. Nel quale il Donald ha sguazzato alla grande. Noi, qui, ai piani bassi, oggi siamo confusi. Ma ai piani quasi-bassi, non è che possano avere tutte ’ste certezze... marzo 2017 Scarp de’ tenis

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Con Vera Caslavska volteggiavano libertà, bellezza e felicità Le Olimpiadi del ‘68 erano segnate dalla politica già prima di cominciare, il 12 ottobre. Già il ‘68 aveva regi-

di Gianni Mura

Due immagini di Vera Caslvska. Al volteggio sulla sbarra e con le quattro medaglie conquistate alle Olimpiadi di Messico ‘68

strato gli omicidi di Martin Luther King e Robert Kennedy, il Maggio francese, la Primavera di Praga schiacciata dai carri armati russi, la guerra in Vietnam che sembrava non dovesse mai finire e, in Messico, la strage di Tlatelolco, la polizia che spara sugli studenti, un centinaio di morti, tra i feriti anche la giornalista italiana Oriana Fallaci. L’immagine di

quelle Olimpiadi è il podio dei 200 metri: Smith e Carlos a testa bassa, scalzi, pugno chiuso alzato nel guanto nero a ricordare le dirazziali scriminazione negli Usa e, sul secondo gradino, il neozelandese bianco Peter Norman, solidale con il gesto. Per tutti e tre

quella gara sarà l’ultima della carriera. Ma non furono i soli a

pagare un gesto. Voglio ricordare Vera Caslavska, ginnasta cecoslovacca, nata nel 1942 quando il suo Paese era occupato dai nazisti.

scheda

Gianni Mura è nato a Milano nel 1945. Giornalista e scrittore. Su Repubblica cura la rubrica Sette giorni di cattivi pensieri, nella quale – parlando di sport, s’intende – giudica il mondo intero. In questa rubrica racconta invece le storie di sport che, altrove, faticherebbero a trovare spazio.

12 Scarp de’ tenis marzo 2017

Semplicemente, la migliore Prima di raccontare la sua storia, parliamo del suo valore. Fino ai 12 anni si dà al pattinaggio, poi passa alla ginnastica e diventa, semplicemente, la migliore. Bionda, un corpo da donna. Dopo di lei sarebbero arrivate le bambine: Olga Korbut nel ‘72, Nadia Comaneci nel ‘76. Per molte ginnaste, la crescita è bloccata artificialmente da allenatori con pochi scrupoli. Le ginnaste-bambine non sono più scalzate, vedi Biles a Rio. Prima vittoria importante: l’oro alla trave negli europei del 1959. Alle Olimpiadi romane vince l’argento

a squadre. È una crescita continua: a Tokyo tre medaglie d’oro. La rivalità forte, anche prima della Primavera di Praga, è con le atlete dell’Urss. La Primavera nasce ufficialmente il 5 gennaio. Il Manifesto delle 2.000 parole chiede sostegno al nuovo corso politico. Lo firmano intellettuali, ma anche sportivi: Zatopek, la “locomotiva umana”, gloria nazionale, il saltatore con gli sci Raska e anche Vera Caslavska, che ha le idee chiare su cosa siano democrazia e libertà. Su democrazia, liber-

tà e sulle speranze di un popolo passano i carri armati sovietici e di altri Paesi aderenti al Patto di Varsavia.

Per i firmatari del Manifesto si fa buio, Zatopek è spedito a lavorare in miniera. Caslavska si trova in ritiro con la nazionale sui monti Jesenik, in Moravia. Scappa dall’albergo, si rifugia in montagna, in un luogo sicuro. Per preparare le Olimpiadi non ha più una pale-

stra, ma sa come arrangiarsi. Il tronco di un albero caduto è la trave, un ramo solido è la sbarra, per gli esercizi a corpo libero va bene anche l’erba di un prato, alla mancanza dei pesi rimedia spalando carbone e trasportando sacchi di patate. Le autorità sportive cecoslovacche le danno in extremis il permesso di partire per il Messico, sembra su consiglio di Breznev: la sua assenza avrebbe fatto più rumore della sua presenza. Il rumore del silenzio Così non sarà. Farà rumore anche la sua presenza. Ha i calli sulle

mani, ma non si vedono. Mentre brilla la sua grazia, la sua estrema eleganza. È talmente brava che meriterebbe di vincere tutte le medaglie d’oro, e quattro le vince. Per le altre due provvedono giurie “imbeccate” con verdetti scandalosi. Vera si deve accon-


LE STORIE DI MURA

tentare di un oro ex aequo con la sovietica Larisa Petrick e di un argento dietro Natalia Kuchinskaya nella trave. Sul podio, in entrambe le premiazioni, Vera piega la

testa verso il basso e distoglie gli occhi mentre salgono le bandiere: non guarderà mai quella rossa, è il suo modo di urlare quel silenzio ostinato, educato, glaciale. Finito il suo calendario di

Ha vissuto i suoi anni con la schiena gare, si sposa nella cattedrale di dritta, con grande Città del Messico con Josif Odlozil, argento nei 1.500 a Tokyo. dignità, senza Diecimila messicani le fanno fe- un ripensamento, sta. Ha conquistato tutti, ha scelun passo indietro, to una canzone messicana per accompagnare il suo esercizio. La un cedimento. proclamano atleta dell’anno. E Quando si parla donna dell’anno, insieme a Jacqueline Kennedy. A Capri il viag- di hombre vertical, gio di nozze. È una stella di gran- mai dimenticarsi dezza mondiale. Il ritorno a Praga di donne come impedisce alla stella di brillare ancora, ma non offusca la sua gran- Vera Caslavska, dezza umana.Le chiedono di mujer vertical

ritrattare la firma che in giugno aveva posto sul Manifesto. Lei rifiuta. Suo marito è espulso dall’esercito. A lei tolgono il passaporto, le impediscono di lavorare vietando l’accesso agli impianti sportivi. Per mantenere i figli farà per anni la donna delle pulizie, lavando scale e pavimenti. Altre volte le chiederanno di rinnegare la firma, e lei dirà sempre no. “Non potevo farlo, un mio cedimento avrebbe indebolito il coraggio di qualcuno e io volevo che la speranza della mia gente restasse viva e forte”. Le rifiutano la possibilità di allenare, anche se sarebbe molto utile alle ragazze più giovani. Mujer vertical

Scrive una biografia, che il governo blocca. Uscirà solo in Giappone, dopo un’infinità di tagli. Nel ‘79 le concedono di allenare due anni in Mes-

sico e, dal 1987, la nazionale olimpica. Nel 1989 è nominata da Vaclav Havel sua consigliera per lo sport. Il matrimonio con Odlozil è finito ma il dolore più grande deve arrivare: nel 1993 il figlio Martin durante una lite da ubriachi in un bar, spara al padre e lo uccide. Condannato a 4 anni. Il colpo per Vera è durissimo, vive un periodo di depressione e ne esce. Dal ’95 al 2001 ha fatto parte del Cio. È morta l’anno scor-

so di tumore al pancreas, aveva 74 anni. Per quello che poteva, li ha riempiti bene, con lei volteggiavano e facevano capriole la libertà, la bellezza e la felicità. Li ha vissuti a schiena dritta, con grande dignità, senza un ripensamento, un passo indietro, un minimo cedimento. Quando si parla di hombre vertical, mai dimenticarsi di donne come Vera Caslavska, mujer vertical. marzo 2017 Scarp de’ tenis

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PENNE PER SCARP

Il racconto di Eraldo Affinati

L’importanza delle parole

di Eraldo Affinati illustrazione di Valeria Barile

È la mattina di un giorno qualsiasi alla stazione Centrale di Milano. Alcuni ragazzi africani dormono sulla panchina appoggiati l’uno all’altro, come statue, in un equilibrio perfetto. Due slavi si stringono la mano qualche secondo più del necessario: capisco che sono ubriachi e forse stanno facendo una gara a braccio di ferro. La signora davanti a me conta e riconta i minuscoli tagliandi che ha in mano: note delle spesa, ricevute, scontrini. Una giovane, con le braccia sui fianchi, fissa il vuoto assorta in modo astratto. Un’anziana spinge il triciclo sul quale trasporta i sacchi da cui fuoriescono vesti e maglioni. Apre il portafoglio, c’è una foto in bianco e nero, forse di una sua figlia lontana, col sorriso stampato sulle labbra. Penso a uno dei racconti più belli del Novecento italiano Casa d’altri di Silvio D’Arzo: la storia della vecchia Zelinda che, in un paese dell’Appennino, trova il coraggio necessario per chiedere al parroco la dispensa speciale per potersi suicidare. È una donna semplice che ha trascorso tutta l’esistenza lavando i panni, giù al fiume, coi ginocchi a terra, nell’impegno quotidiano. Il curato, mentre le risponde, avverte la clamorosa insufficienza delle sue stesse parole. Quando lessi per la prima volta questo racconto, avevo vent’anni. Rimasi colpito dalla straziante intensità di quella richiesta. Decisi di laurearmi con una tesi su Silvio D’Arzo che, negli anni Settanta, era sconosciuto al grande pubblico. Ora potrei essere per età il padre che Silvio D’Arzo non conobbe mai. Era un figlio illegittimo e scomparve nel 1952 a soli 32 anni, a causa di una forma leucemica che oggi, mi dicono, sarebbe curabile. La sua idea di una vita provvisoria, come se tutti noi abitassimo in una stanza d’albergo e che quella che abbiamo avuto in sorte non fosse la nostra vera casa, mi è tornata spesso in mente come un refrain, una lampadina che si accende ogni tanto, non sai se per segnalare pericolo o impartire un ordine. In stazione sento ancora una volta la forza del racconto. Ne ripeto a memoria l’inizio mentre mi dirigo verso i binari: “All’improvviso dal sentiero dei pascoli, ma ancora molto lontano, arrivò l’abbaiare di un cane. Tutti alzammo la testa. E poi di due o tre cani. E poi il rumore dei campanacci di bronzo”. Giunto sulla banchina ferroviaria, resto bloccato in mezzo alla folla. Ci blocca un nastro bianco e rosso, di quelli che delimitano cantieri, isolano zone di lavoro, oppure luoghi dove sono avvenuti incidenti. Quasi tutti hanno gli occhi rivolti all’insù. Guardo anch’io nella loro direzione e vedo un uomo seduto sulla struttura di ferro della facciata principale, a sessanta, settanta metri d’altezza. Per salire in cima, si sarà arrampicato lungo le arcate, trascinandosi dietro il bagaglio, fra travi e bulloni, probabilmente di notte per non farsi scoprire. E adesso eccolo lì, il nostro barone rampante, la giacca appoggiata sui tubi metallici, il sacco di nailon sospeso a mezz’aria, un paio di scarpe sistemate nell’angolo inferiore. Il suo volto è seminascosto dai vestiti di cui si circonda, come tendine per garantire la privacy. Compie pochi gesti, non dice niente. I pompieri sono pronti a qualsiasi evenienza. Hanno già preparato le corde. La polizia prova a cercare un contatto ma lui non risponde. Consuma un pasto frugale di birra e biscotti in un improbabile cucinino. Resta lassù, nel suo cielo inventato, nella sua casa d’altri, senza rispondere a chi gli urla di scendere. Respira polvere e fuliggine. Non ha trovato nulla di meglio che poggiare la schiena negli interstizi della stazione più trafficata d’Italia. Si può vivere in una modanatura laterale? Questo

barbone acrobatico assomiglia ai passeri che si sono fatti il nido sotto gli occhi della gente, dove non avrebbero dovuto: balconi, porte, finestre, automobili parcheggiate troppo a lungo. Difficile entrare nella testa di un volatile. Quella degli uo-

mini è altrettanto complicata. Mentre i treni vanno e vengono, l’arrampicatore solitario non fa altro che rassettare le proprie masserizie, a testa bassa, solerte e compito. E se chiedesse anche lui a qualcuno qui sotto, come la Zelinda di Silvio D’Arzo, il permesso di scendere, chi saprà indicargli la strada per tornare alla sua vera casa?

scheda

Eraldo Affinati, 1956 Roma. Scrittore e insegnante, ha fondato con la moglie Anna la Penny Wirton, scuola gratuita di italiano per immigrati. Ha esordito nel 1992 con Veglia d’armi. L’uomo di Tolstoj. Numerosi i libri successivamente pubblicati, tra i quali ricordiamo: Soldati del 1956, Campo del sangue, Secoli di gioventù, La città dei ragazzi. Elogio del ripetente, Italiani anche noi, L'uomo del futuro. Sulle strade di don Lorenzo Milani. marzo 2017 Scarp de’ tenis

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In uno Stato dove per le donne, e secondo la legge, è impossibile praticare qualsiasi forma di sport, il pregiudizio si combatte a colpi di arti marziali. Sima Azimi, 20 anni, e le sue giovani amiche del Shaolin Wushu club di Kabul, fanno pratica sulla 16 Scarp de’ tenis marzo 2017


LA FOTO

REUTERS/Mohammad Aziz

scheda

Contro il pregiudizio a colpi di arti marziali. Succede in Afghanistan, dove le ragazze, per legge, non possono praticare sport. In questa splendida foto Sima e le sue giovani amiche, sulla collina nella parte occidentale di Kabul, stanno facendo pratica di Wushu, arte marziale della tradizione cinese (foto Reuters/courtesy of Insp)

collina innevata nella parte ovest della capitale afghana. «Questa pratica fa bene al corpo e all’anima». Il sogno delle ragazze afghane è di riuscire a gareggiare nelle competizioni internazionali. E di poterlo fare in condizioni di sicurezza. marzo 2017 Scarp de’ tenis

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IN BREVE

europa Migrazioni: gestire, non esternalizzare di Enrico Panero Di fronte alle gravi difficoltà nella gestione della cosiddetta crisi dei rifugiati, e più in generale delle migrazioni, l’Ue cerca di esternalizzare i controlli per limitare i flussi in ingresso sul suo territorio. È quanto si legge “tra le righe” della dichiarazione di Malta siglata lo scorso 3 febbraio dal Consiglio europeo. In estrema sintesi, sulla base dell’accordo siglato con la Turchia un anno fa che ha drasticamente ridotto i flussi migratori verso l’Ue sulla rotta orientale del Mediterraneo, i leader europei hanno deciso di fare lo stesso con la Libia al fine di contrastare anche la rotta centrale che dalle coste nordafricane porta in Italia. Il tutto rafforzato da un accordo diretto Italia-Libia. Supporto logistico ed economico al controllo delle migrazioni che nel caso della Libia sarà finanziato dall’Ue nell’ambito del suo aiuto allo sviluppo per l’Africa. «L’Ue ha deciso di pagare la Libia, con un governo che controlla solo parte del Paese, per mantenere rifugiati e migranti fuori dall’Europa» denuncia la Confederazione europea dei sindacati (Ces). L’Europa è «pronta a sacrificare le vite di migliaia di persone per impedire loro di raggiungere le coste europee. Un approccio cinico, ipocrita e disumano» accusa Medici senza frontiere. Secondo l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) l’Ue chiede a Paesi terzi di bloccare il passaggio di persone in chiaro bisogno di protezione internazionale «degradando ignobilmente a merce di scambio risorse che dovrebbero essere destinate allo sviluppo». Tutto ciò mette a rischio il diritto d’asilo e «i pilastri della democrazia europea».

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I borghi autentici meta del turismo sostenibile Il 2017 è l’anno del turismo sostenibile secondo l’Onu. Ma sarà una data importante anche per l’Italia. Il 2017 sarà infatti anche l’Anno Nazionale dei Borghi Italiani. Attualmente i borghi più belli d’Italia (che sono 285) sono classificati tali perché sono aree di spiccato interesse storico e artistico. A realizzare la classificazione è un’associazione privata, I borghi più belli d’Italia, appunto, il cui obiettivo è quello di promuovere e salvaguardare i piccoli centri abitati

che siano di interesse storico e artistico per il visitatore. Per entrare nella lista dei più bei borghi italiani l’associazione valuta i requisiti utili che sono: integrità del tessuto urbano, armonia architettonica, vivibilità del borgo, qualità artistico-storica del patrimonio edilizio pubblico e privato, servizi al cittadino. Essendo un servizio privato, ma riconosciuto dalle istituzioni, prevede anche un pagamento da parte del borgo di una quota associativa annuale. Per valorizzare i borghi italiani si punterà su sostenibilità, accessibilità e innovazione. I borghi autentici d’Italia verranno riconosciuti come luoghi dei cammini, del turismo lento e della qualità della vita. info www.borghipiubelliditalia.it

street art Luce il nuovo progetto artistico del rione Sanità A fine anno 2016 il Rione Sanità di Napoli ha visto la frenetica attività di artisti d’avanguardia provenienti da tutto il mondo. La street art ha omaggiato uno dei rioni storici e popolari di Napoli regalando opere d’arte che resteranno sui muri delle vie della città. Interi palazzi decorati con giochi di luce e pitture creative. Il progetto artistico Luce ha dato un volto diverso a vicoli che rischiano di essere conosciuti solo per la criminalità. Curato dall’associazione Il fazzoletto di Perle in collaborazione con Fondazione di Comunità San Gennaro, il progetto ha visto esibirsi street artist di tutto il mondo come Mono Gonzalez, Matu, Francisco Bosoletti, Tono Cruz e tanti altri.

on

off

Cucina e sorrisi L’autonomia che fa bene

Abbandoni e cattiva gestione dei rifiuti

Si chiama Kè Bar il nuovo locale inaugurato a Pozzuoli, Napoli, all’interno della Multicenter School e ci lavorano ragazzi con sindrome di Down. Mario e Francesca, Fabiana e Daniela, Maria Rosaria, Ilaria e Giovanni, Elvira, Daniela, Alessio e Luisa. Hanno in comune la passione per la cucina. Qualcuno, come Maria Rosaria, è pronta a diventare una famosa chef, ma per tutti gli altri basta fare un lavoro che li appassioni davvero. Kè Bar è nato grazie all’associazione La Bottega dei Semplici. Stanno già pensando di avviarne un altro dopo quello di via Campana, che sta andando meglio di quanto ci si aspettasse a inizio progetto. I ragazzi gestiscono il bar in piena autonomia, sostenuti da un tutor che li aiuta nelle scelte e nella condivisione della giornata lavorativa. Una bella sfida che unisce autonomia e crescita professionale.

Il fenomeno definito come marine litter affligge mari e laghi, per la presenza di microplastiche nelle acque. Uno studio condotto da Legambiente ed Enea fa emergere che la densità più alta è stata registrata nel Tirreno (62 rifiuti/kmq). Il 96% dei rifiuti è costituito da plastica: al primo posto ci sono le buste (16%), seguono poi teli (10%), reti e lenze (4%), frammenti di polistirolo (3%), bottiglie (3%). L’origine dei rifiuti galleggianti è da ricercarsi nella cattiva gestione dei rifiuti urbani e dei reflui civili: l’abbandono consapevole (29%); al secondo posto le attività produttive, tra cui pesca, agricoltura, industria (20%). Circa il 90% delle plastiche è costituita di polimeri termoplastici, in prevalenza polipropilene (PP) e polietilene (PE): materiali che potrebbero essere rimodellati e riciclati. In Europa la presenza di microplastiche nelle acque costa 476,8 milioni di euro all’anno.


[ pagine a cura di Daniela Palumbo ]

Wemi, piattaforma che offre 100 servizi per le famiglie

A Genova in mostra i capolavori di Amedeo Modigliani

Modigliani sarà in mostra al Palazzo Ducale di Genova dal 16 marzo al 16 luglio. La carriera brevissima ma assai feconda dell’artista dallo stile inconfondibile e personalissimo, sarà raccontata attraverso le tappe principali della sua carriera, dei suoi amori, della sua vita. Modigliani era un artista che ha saputo muoversi con disinvoltura tra tradizione e modernità. A Parigi elabora il suo stile inconfondibile contaminando le forme classiche con il linguaggio primitivo, l’arte nègre, come veniva definita. Allo stesso tempo, Modigliani fa sua e interpreta in modo originale le istanze delle atmosfere parigine. Una Parigi caratterizzata, da un lato, dalle spinte espressioniste, dall’altro dal cubismo e dalla sua scomposizione della realtà. Info www.palazzoducale.genova.it

pillole homeless Un uomo speciale, solo un uomo. Una bella storia su Facebook

mi riguarda Dalla tradizione napoletana un modello di solidarietà A Rescaldina, provincia di Milano, nasce il pranzo in sospeso, ovvero la possibilità di lasciare un pasto pagato per le persone in difficoltà. Il ristorante che ha aderito all’iniziativa dell’amministrazione comunale è, fra gli altri, La Tela, un locale particolare perché sottratto alla criminalità organizzata. Un’iniziativa di solidarietà che nasce dal basso. Lo ha spiegato l’assessore ai Servizi sociali, Enrico Rudoni, secondo il quale «per questa iniziativa si è preso spunto dalla pratica partenopea del caffè sospeso per dare vita ad un progetto di aiuto dove una comunità viene chiamata a prendersi carico di difficoltà sociali». Sono state contattate le realtà produttive del territorio, chiedendo loro la disponibilità di raccogliere le offerte volontarie dei cittadini. La somma raccolta viene data ai Servizi sociali per essere erogata attraverso dei buoni spesa a nuclei familiari con particolare fragilità economica. Per ora all’appello hanno risposto cinque esercizi commerciali di Rescaldina.

«Ieri notte ho perso l’ultimo treno per tornare a casa e quando sono arrivata a Euston per aspettare il primo della mattina, la stazione era chiusa. Proprio quando stavo per scoppiare a piangere, ubriaca, ho incontrato il mio amico senza tetto Mark. Mi ha proposto di accompagnarmi a un bar aperto perché era troppo pericoloso andare in giro da sola. Se n’è andato dopo un caffè e quattro chiacchiere perché doveva andare a prendere il suo sacco a pelo, ma ha promesso che sarebbe tornato alle 5 di mattina per riaccompagnami alla stazione». E così è stato. L’avventura è stata postata su Facebook dall’inglese Nicole Sedgebeer: «Quest’uomo, che probabilmente avrei persino evitato di guardare se mi avesse chiesto qualche spicciolo, ha cambiato quella brutta situazione in cui mi trovavo trasformandola nell’evento più sorprendente della mia vita».

Sono oltre 100 gli aiuti disponibili: dall’assistenza infermieristica in casa, alle badanti, dalla baby sitter all’esperto di pet therapy, dal parrucchiere al personal shopper. Sul sito www.wemi.milano.it si può scegliere il servizio di cui si ha necessità: e se il bisogno proviene da una famiglia in difficoltà, è possibile averlo gratuitamente. Si tratta di una piattaforma di servizi offerti da 58 enti del privato sociale, in collaborazione con il Comune e finanziato da Fondazione Cariplo. Wemi in città ha tre punti dove si possono incontrare alcuni degli operatori delle cooperative della rete. Sono il caffè letterario Rab di corso San Gottardo 41, Spazio Agorà di via Capuana 3 e in via Trivulzio all’interno del Servizio Curami. Da aprile sarà possibile chiedere, attraverso il portale, anche il bonus badanti. Per le famiglie con Isee fino a 17 mila euro è previsto un contributo una tantum di 1.500 euro, da destinare alle spese contrattuali.

Dove la cura non c’è, la speranza è l’adozione La nuova campagna sociale dell’organizzazione SoleTerre si chiama Adotta una Corsia: per i bambini malati che non hanno accesso alle cure. SoleTerre è un’organizzazione che opera per garantire i diritti degli individui. «Ogni giorno – dice Valeria Riccobono, della comunicazione di SoleTerre - nel nostro lavoro vediamo come tanti bambini malati peggiorano a causa delle diseguaglianze sociali come povertà, mancanza di istruzione ed emarginazione sociale. La nostra campagna chiede di adottare un bambino ricoverato nei reparti pediatrici di ospedali in Ucraina, Uganda, India e Marocco. Con la donazione mensile possiamo continuare a garantire ogni giorno farmaci, cibo, sostegno psicologico e animazione ai bambini ricoverati». marzo 2017 Scarp de’ tenis

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IN BREVE

In questa foto del San Francisco Chronicle un’immagine del progetto 826Valencia, ideato dallo scrittore Dave Eggers

C’è solo una strada, la casa Michele Ferraris Quante volte abbiamo visto immagini pietistiche e stereotipate di persone senza dimora? Viene da dire quasi sempre purtroppo. È troppo facile infatti illustrare articoli con immagini che ritraggono persone anziane, con la barba lunga, magari in ginocchio a chiedere l’elemosina, oppure sdraiate sotto una coperta e sopra dei cartoni. Come se i 55 mila homeless che sono in Italia fossero tutti in queste condizioni, come se non si sapesse che invece a corrispondere a questo falso modello è una percentuale minima tra loro. Per restituire una dignità iconografica a queste persone la fio.PSD nell’ambito dei corsi tenuti a Genova dai fotografi Sandro Ariu e Federica De Angeli ha promosso nel 2013 il Workshop Homelessness le cui immagini sono state esposte a Bergamo nel 2014 e hanno illustrato siti, articoli, brochure e anche le Linee di Indirizzo per il Contrasto alla Grave Emarginazione Adulta. Lo scorso 31 gennaio 2017 ha preso il via il II Workshop dal titolo Housing First. Scopo di questo secondo workshop è quello di indagare attraverso la lente degli obiettivi il tema della Casa come priorità, inteso come luogo, come oggetti, come spazio del proprio vivere, come persone che vivono la casa. Gli incontri e le relative riprese, quando le condizioni lo permetteranno, si svolgeranno in diverse città (Bologna, Verona, Milano, Torino, Pisa, Genova e altre possibili). Appuntamento in autunno per vedere i risultati.

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TRE DOMANDE

La scrittura, per leggere il mondo Supereroi cercasi, a scuola tando se stessi e i propri pensieri i ragazzi fanno cultura, divertendosi. di Daniela Palumbo

Ogni ragazza e ogni ragazzo possiedono superpoteri che spesso ignorano. Per dare loro questa consapevolezza è nato il Centro Formazione Supereroi. Un laboratorio dove si impara a riconoscere le proprie potenzialità e a svilupparle. Come? Scrivendo. L’idea nasce da lontano. Dallo scrittore americano, Dave Eggers. «Nel 2000 Edoardo Brugnatelli, editor di Mondadori, conosce Dave Eggers attraverso il suo libro L’opera struggente di un formidabile genio» –, racconta lo scrittore Francesco Gungui, uno dei fondatori dei Supereroi –. Decide di farlo conoscere ai lettori italiani e affida la traduzione del testo a Giuseppe Strazzeri, ora editor Longanesi. Entrambi scoprono così che Dave Eggers, oltre a scrivere grandi libri, ha altre idee per la testa. Una di queste prende vita nel 2002 a San Francisco, si tratta del progetto 826Valencia: laboratori gratuiti per ragazzi dei quartieri a rischio e dove la scrittura è usata quale mezzo espressivo fondamentale per diventare capaci di leggere il mondo, per avere consapevolezza dei propri mezzi e far sentire la propria voce. A questo si ispira il Centro Formazione Supereroi, di Milano, che ne condivide i valori di fondo. Parlando, scrivendo, raccon-

Chi realizza i laboratori nelle scuole? Scrittori, editor, redattori, esperti di media. Artisti e professionisti della parola scritta. Una cinquantina, al momento. Tutti prestano la loro opera nelle scuole gratuitamente: nel laboratorio di scrittura, composto da due incontri, il formatore propone un argomento e lo sviluppa insieme agli studenti. Con lo scrittore, i ragazzi realizzano un vero e proprio libro che il Centro Supereroi rilega e poi regala alle scuole. Ogni ragazzo si firma nel libro. I temi affrontati dagli autori sono i più svariati - da quelli etici a quelli irriverenti, ironici, di fantascienza – perché i formatori sono diversissimi fra loro. Quale è stata la risposta delle scuole? L’entusiasmo è andato subito oltre le nostre aspettative e proprio in questi mesi stanno partendo decine di laboratori. Le scuole ci possono contattare sul nostro sito. I formatori di Supereroi hanno un sogno? Quest’anno faremo circa 50 laboratori. Nell’estate 2017, il CFS organizzerà una Summer Schoolgratuita. Il nostro sogno è l’apertura di una sede: un luogo aperto ai ragazzi dai 10 ai 18 anni, dove dare assistenza nei compiti, scatenare la fantasia, realizzare capolavori, acquisire fiducia in se stessi. info www.centroformazionesupereroi.org


LA GUIDA/1

Con i Gatti di Milano in cerca delle curiosità «Questa era la sede degli orfanelli milanesi, i Martinitt (maschi) e Le Stelline (femmine), stabilitisi qui dopo il trasloco dalla sede storica di Corso Magenta. Ci sembra importante ricordare che tra i Martinitt sono cresciuti bambini destinati a diventare persone importanti come Angelo Rizzoli senior, Edoardo Bianchi (il re delle biciclette) e Leonardo del Vecchio (il re degli occhiali)» Tratto da I gatti di Milano non toccano terra edito da Caritas Ambrosiana, Farsi Prossimo e Coop. Oltre

Durante la Seconda Guerra Mondiale a Milano furono costruiti rifugi antiaerei , per la maggior parte sotterranei. Ma i rifugi che gli autori della guida hanno documentato con il loro disegno e che incontriamo lungo il nostro itinerario, sono visibili percorrendo via Pitteri. Sono rifugi molto particolari, la loro caratteristica è quella di essere stati costruiti in superficie e “in elevato”, il loro sviluppo è in verticale e sono a forma di cono, abbastanza simili a dei trulli. Furono costruiti nell’area dove aveva sede la ditta Innocenti ed erano utilizzati dagli operai della fabbrica che vi si rifugiavano durante le incursioni aeree, ma a causa della carenza di rifugi cittadini negli ultimi mesi furono aperti anche alla popolazione civile; popolazione che in precedenza era solita rifugiarsi nel sottopassaggio della ferrovia di via Cima. La particolarità di questi edifici era, come abbiamo detto, la forma a cono rovesciato, difficilmente una bomba avrebbe potuto colpire la punta della costruzione e sarebbe

quindi “scivolata” lungo il muro, l’interno dell’edificio aveva una struttura elicoidale con dei “gradoni” (sempre di cemento armato) adatte ad ospitare il maggior numero possibile di persone. In totale a Milano furono costruiti 5 rifugi in “elevato”, tre in via Pitteri, uno in via Adriano (dove c’era la sede della Magneti Marelli) e un quinto chiamato “La torre delle sirene della prefettura” in corso Monforte. Quest’ultimo fu voluto dal comune di Milano, al suo interno c’era la sede della Centrale operativa di allarme che aveva la funzione di segnalare l’arrivo dei bombardieri a tutta la regione. Sempre in questa sede, durante i bombardamenti, veniva controllata e interrotta sia l’erogazione dell’energia elettrica che l’oscuramento dell’illuminazione urbana. Queste strutture sono un patrimonio storico e culturale di notevole valore che andrebbero ristrutturate e fatte conoscere ai cittadini.

I Gatti di Milano non toccano terra. Le info

Questa e altre curiosità si possono leggere sulla guida. Questo itinerario è il numero 6 e si snoda tra i quartieri dell’Ortica, Lambrate e Città Studi. La guida costa 10 euro e può essere acquistata: - chiamando in redazione al numero 0267479017 (mail: scarp@coopoltre.it) - presso la sede di Scarp de’ tenis, in via degli Olivetani 3 a Milano - presso la sede di Caritas Ambrosiana in via San Bernardino 4 a Milano - presso il Centro Diurno La Piazzetta in viale Famagosta 2 a Milano - presso le librerie Ancora di Milano e Monza

LA STRISCIA

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LE DRITTE DI YAMADA

Quell’amato zio che girava in bici carico di libri

Abbiamo patito il 2016 per i tanti ed inattesi lutti planetari, e pure il 2017, al solo secondo giorno del suo fluido innesto, ha detto addio a John Berger. Per introdurvi brevemente Mr. Berger potrei scrivere che, nei suoi novantuno lunghi anni di vita, l’Arte e la perlustrazione delle sue meravigliose lande sono state il pane quotidiano che l’ha nutrito come critico d’arte, poeta, scrittore, giornalista, autore teatrale, sociologo e anche disegnatore. Nel 1972 fece per la BBC un programma di divulgazione intitolato Ways of Seeing (Modi di vedere): erano dei film tematici di 30 minuti che sbordavano dalle tivù dei British “tinelli marron” fin negli occhi degli spettatori, inebriati da quei racconti dell’Arte fatti con chiarezza e mille trovate (si trovano su YouTube, se siete curiosi). I temi trattati in quell’innovativo format televisivo divennero poi un libro (vendutissimo, ancora e sempre) col titolo omonimo al programma; in Italia Modi di vedere è edito dai tipi di Bollati Boringhieri. Il giorno che John Berger è mancato, ero di turno in libreria. Digitando il suo nome per vedere i titoli disponibili, ne ho notato uno bizzarro: La Tenda Rossa di Bologna, mai sentito prima. Non era fra i testi d’arte ma in ordine alfabetico tra i libri di narrativa. Oh bella, mi sono detta quando ben sono andata a recuperarlo, e questo librino cos’è? Era anche illustrato, e parlava di Bologna. Non ci ho pen-

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Il giorno che John Berger è mancato, ero di turno in libreria. Digitando il suo nome per vedere i titoli disponibili, ne ho notato uno bizzarro: La Tenda Rossa di Bologna, mai sentito prima...

il libro La tenda rossa di Bologna di John Berger

Spesso è dall’atteggiamento dei genitori che dipende l’evolvere del rapporto con un fratello disabile e l’attitudine a prendersene cura anche da adulti. Il libro cerca di rispondere agli interrogativi che questo legame fa nascere, dando voce ai fratelli di ragazzi con disabilità nelle varie fasi della crescita.

sato due volte perché è il classico tipo di libro che mi piace, un memoir. E i cosiddetti memoir–se sono fatti bene come naturalmente lo è questo – ti stendono proprio per bene. È un piccolo libro

dedicato all’amatissimo zio Edgar, fratello maggiore di suo

Alessia Farinella Siblings. Essere fratelli di ragazzi con disabilità Erickson, euro 17

padre. Si conobbero meglio quando Berger aveva dieci anni e lo zio cinquantacinque: andò a vivere nella casa di famiglia dell’autore, in una stanzetta che misurava «meno del doppio di una cabina di vagone letto». La prima impressione di Berger dello zio Edgar fu che gli sembrava «senza età. Perciò, da bambino, potevo amarlo come un mio pari. Ed era così che lo amavo». Non era bello, e «stando ai parametri secondo i quali mi avevano educato, era un fallito». Anticonformista e pacifista, lo zio girava in bici col portapacchi carico dei tanti libri che prendeva e riportava alle biblioteche (e aveva la tessera di tre biblioteche). Era indipendente e amava scrivere e ricevere lettere. Mr. Berger e suo zio si scambiavano regali bellissimi, «volti a soddisfare un desiderio che ognuno aveva indovinato nell’altro». Lo zio era un viag-

L'Egitto dei diritti smarriti Il kushari è un piatto che si realizza mischiando ingredienti apparentemente lontani e inconciliabili. Il libro prende le mosse da questa metafora culinaria per raccontare l'Egitto di oggi che tenta, con la forza e la violenza, di fondere mille anime e altrettante identità in una sola, monolitica. Un Egitto inedito fatto di storie di giovani, militari, donne, islamisti radicali e trame di oscuri apparati dello Stato. Elisa Ferrero Kushari Terra Santa Editore, euro 14

giatore in tempi in cui il turismo neanche esisteva. An-

dò in Egitto, Groenlandia e venne anche in Italia, dove fu affascinato da Bologna. E proprio a Bologna, sui gradini di San Petronio, il Mr. Berger ormai adulto chiude gli occhi e con una spina nel cuore ripensa allo zio Edgar, a quando ripeteva «Sarà il tempo a dirlo, e il modo in cui lo diceva mi faceva pensare che il tempo avrebbe detto ciò che alla fine saremmo stati felici di sentire».

Thriller giocato su equivoci ed empatia

[ a cura di Daniela Palumbo ]

di Yamada (aka Grazia Sacchi)

Il rapporto con il fratello disabile

Simon sceglie di passare le vacanze di Natale con i figli, nella casa al mare del padre. Ma i piani all’ultimo momento saltano e lui si ritrova da solo in un paese nel sud della Francia, triste e piovoso. Incontra Nathalie: disperata, senza soldi, senza documenti. Simon le offre ospitalità. Voleva solo essere d’aiuto. Non sapeva che la sua decisione gli avrebbe cambiato la vita. Charlotte Link La Scelta decisiva Corbaccio, euro 18,60


VISIONI

Un fotogramma del film Faccia gialla di Paolo Boriani. Il titolo si riferisce a una citazione da C’era una volta in America di Sergio Leone

Un film d’animazione dello studio Ghibli Michaël Dudok de Wit è il regista de La tartaruga rossa. Scampato a una tempesta tropicale il protagonista finisce su un’isola deserta. I suoi molteplici tentativi di ripartenza sono costantemente impediti. A sabotarlo è una tartaruga rossa su cui l'uomo sfoga la frustrazione della solitudine.

Fuori campo con Roberto Saviano Dopo Sanghenapule – Vita Straordinaria di San Gennaro, spettacolo prodotto dal Piccolo Teatro di Milano, arriva Faccia Gialla, un prezioso documentario con Roberto mentario si assiste alle prove in teatro, agli spostamenti e Saviano e Mimmo ai momenti in libertà di Ro- Borrelli.

«Girerò un film su che cosa è il fuori campo». Questo il desiderio e l’ambizione che ha guidato Faccia Gialla, il primo film con e su Roberto Saviano, prodotto in collaborazione con Rai Cinema e K-Rock Film Studio. Interessante e originale il progetto del regista Paolo Boriani, che ha registrato tutto ciò che è capitato nel backstage dello spettacolo teatrale. Occasione unica per scoprire il dietro alle quinte di un evento che ha conquistato il pubblico milanese raccontando una storia 100% partenopea. Nel docu-

berto Saviano, autore del testo teatrale, insieme al regista dello spettacolo, Mimmo Borrelli. Stesso anno di nascita, stessa zona d’origine, due storie incredibili unite dal teatro prima e dalla macchina da presa di Boriani adesso. «Considero Mimmo Borrelli il più grande attore e drammaturgo italiano – ha detto Boriani a Scarp. Con lui ho girato‘A Sciaveca, prodotto in collaborazione con Sky Arte, interamente realizzato in un paese di pescatori. Roberto Saviano

ha intercettato questo documentario, è rimasto colpito

il film Faccia Gialla Regia: Paolo Boriani Anno di produzione: 2016 Con e su Roberto Saviano Documentario, Italia

La bellezza del dono di sé agli altri

ti e tre per Faccia Gialla,girato in parte a Napoli, in parte a Milano e anche New York, con riprese di cui sono molto fiero. Saviano non è libero come noi. Questa è la realtà. Tutte le immagini che costruisci con lui le devi strappare all’impossibilità a stare nello stesso luogo per un periodo di tempo». Faccia gialla è un lungo extra, girerà per i festival italiani e internazionali, probabilmente sarà programmato da Rai e per questo è molto differente da ciò che si può trovare in un DVD o sul web. Bo-

Ho amici in paradiso, di Fabrizio Maria Cortese, racconta il centro Don Guanella. Uno spaccato della vita del centro di riabilitazione: la sua mission e la sua spiritualità, raccontata con l’allegria della commedia. Accanto agli attori professionisti, alcuni ospiti disabili del centro di riabilitazione. Una commedia per raccontare una storia vera, con la leggerezza della bellezza.

riani si dedica a un’area della produzione audio video assolutamente inesplorata. La scelta è radicale e coraggiosa. «Con questo documentario – confida il regista – porto a casa un anno bellissimo accanto a dei giganti, contraddistinto anche da una fatica infinita. A New York sono stato 15 giorni. A Napoli 30. Poi ne ho passati 45 in teatro a Milano. Dalle 6 di mattina alle 2 di notte ho filmato fuori campo. Trovarmi un sabato pomeriggio a mangiare una ciambella con Roberto in un ufficio deserto è un’immagine che parla molto di lui. C’è dentro la sua grande solitudine. Il senso d’ingiustizia che senti quando giri con la sua scorta e avverti la paura».

Storia della musica liberata

[ a cura di Daniela Palumbo ]

di Sandro Paté

dal teatro di Borrelli e dal suo stile e così il cinema per fortuna ha portato il teatro dove da solo non sarebbe mai arrivato. Ci siamo incontrati allora tut-

La storia di Francesco Lotoro, il musicista di Barletta che salva la musica dei lager. Maestro è il titolo, per la regia di Alexander Valenti. Una produzione franco-italiana. Francesco Lotoro ha dedicato la sua vita al progetto di Memoria. Da oltre vent’anni si dedica alla ricerca, raccolta, trascrizione ed esecuzione delle musiche composte dai prigionieri internati nei campi di concentramento della Seconda guerra. marzo 2017 Scarp de’ tenis

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Prima dell’intervista il direttore di Scarp de’ tenis Stefano Lampertico e Antonio Mininni, venditore prima e poi storico responsabile della redazione di strada, hanno consegnato a Papa Francesco alcune copie della rivista

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Intervista esclusiva a Papa Francesco in vista della sua visita a Milano il prossimo 25 marzo. Nel lungo colloquio, ricco di aneddoti, il Santo Padre tocca i temi più cari al nostro giornale. Educare alla carità, accogliere i migranti, aiutare le persone senza dimora. «A Milano mi aspetto di incontrare tanta gente»

Nelle scarpe

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degli altri marzo 2017 Scarp de’ tenis

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di Stefano Lampertico

scheda Jorge Mario Bergoglio, gesuita argentino, nasce a Buenos Aires il 17 dicembre 1936, figlio di emigranti piemontesi. Diplomatosi come tecnico chimico, sceglie poi la strada del sacerdozio. Il 20 maggio 1992 Giovanni Paolo II lo nomina vescovo titolare di Auca e ausiliare di Buenos Aires. Il 3 giugno 1997, è promosso arcivescovo coadiutore di Buenos Aires. Passati neppure nove mesi, alla morte del cardinale Quarracino gli succede come arcivescovo. Nel Concistoro del 21 febbraio 2001, Giovanni Paolo II lo crea cardinale. Viene eletto Sommo Pontefice il 13 marzo 2013.

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Vi confesso che quando un anno e mezzo fa, le agenzie di stampa, lanciarono le parole di Papa Francesco – «Vorrei un mondo senza poveri » – raccolte in un’intervista concessa dal Pontefice al giornale di strada olandese di Utrecht, Straatnews, dentro di me si è messo in moto un sentimento duplice di ammirazione da una parte e di un po’ di sana invidia dall’altra. Ammirazione per un Papa che decideva di raccontarsi a un giornale di strada e ammirazione per i colleghi olandesi che erano riusciti, chissà come mi chiedevo allora, ad avere un’intervista esclusiva con Papa Francesco. Una bella opportunità. Quando qualche mese fa il Papa ha annunciato la sua visita a Milano, ci siamo fatti avanti, consapevoli di partire con un margine di vantaggio, perché sappiamo quanto al Papa stiano a cuore le persone senza dimora, i gravi emarginati, i più poveri. Gli stessi che propongono e vendono il nostro giornale e che, grazie a Scarp, riescono ad avere un reddito minimo per poter vivere con dignità. Così ab-

biamo chiesto di poter intervistare il Santo Padre. Roma, 16 febbraio. Una giornata di primavera in-

castonata in questo inverno che ha fatto vittime per il freddo e che ha fatto aprire le porte delle chiese per accogliere le persone senza dimora. L’appuntamento è alle 16, a porta Sant’Anna. Siamo lì, con Antonio che rappresenta tutti i venditori di Scarp, un bel pezzo prima. Ci aspetta mons. Dario Viganò, Prefetto della Segreteria per la Comunicazione della Santa Sede. È lui ad accompagnarci a Santa Marta, dove incontreremo Papa Francesco. Aspettiamo in un salottino al piano terra, spartano, senza fronzoli. Dopo pochi minuti, nella stanza, entra Papa Francesco. È sempre difficile con le parole descrivere un’emozione forte. È il Papa a stemperarla, mettendoci a nostro agio. Gli diamo alcune copie del giornale, ci fa accomodare; è pronto a rispondere alle domande che, insieme a tutti i colleghi della redazione di Scarp, abbiamo preparato.

* * * Santo Padre, parliamo del popolo degli invisibili, delle persone senza dimora. Poche settimane fa, all’inizio dell’inverno e con l’arrivo del grande

freddo, ha dato ordine di accoglierli in Vaticano, di aprire le porte delle chiese. Come è stato accolto il suo appello? L’appello del Papa è stato ascolta-

to da molte persone e da molte parrocchie. In tanti l’hanno ascoltato. In Vaticano ci sono due parrocchie e ognuna di loro ha ospitato una famiglia siriana. Molte


TESTIMONIANZA

Antonio: «Incontrare il Papa, un sogno che si realizza»

In questa e nelle altre pagine le immagini che documentano l’incontro di Papa Francesco con la redazione di Scarp de’ tenis

parrocchie di Roma hanno aperto le porte all’accoglienza e so che altre, non avendo posto nelle canoniche, hanno raccolto il denaro per pagare l’affitto a persone e famiglie bisognose per un anno intero. L’obiettivo da raggiungere deve essere quello dell’integrazione, per questo è importante accompagnarli per un periodo iniziale. In tante parti d’Italia è stato fatto molto. Le porte sono state aperte in molte scuole cattoliche, nei conventi, in tante altre strutture. Per questo dico che l’appello è stato ascoltato. So anche di molte persone che fanno offerte in denaro affinché si possa pagare l’affitto per le persone senza dimora. In passato tutto il mondo ha scritto delle scarpe del Papa, scarpe da lavoratore e camminatore e recentemente i media sono rimasti sorpresi, e hanno raccontato, del Papa che è andato in un negozio per comprarne un paio nuove. Perché

tanta attenzione? Forse perché oggi si fatica a mettersi – come Scarp de’ tenis invita a fare - nelle scarpe degli altri? È molto faticoso mettersi nelle scarpe degli altri, perché spesso siamo schiavi del nostro egoismo. A un primo livello possiamo dire che la gente preferisce pensare ai propri problemi senza voler vedere la sofferenza o le difficoltà dell’altro. C’è un altro livello però. Mettersi nelle scarpe degli altri significa avere grande capacità di comprensione, di capire il momento e le situazioni difficili. Faccio un esempio: nel momento del lutto si porgono le condoglianze, si partecipa alla veglia funebre o alla messa, ma sono davvero pochi coloro che si mettono nelle scarpe di quel vedovo o di quella vedova o di quell’orfano. Certo non è facile. Si prova dolore, ma poi tutto finisce lì. Se pensiamo poi alle esistenze che spesso sono fatte di solitudine, allora mettersi nelle scarpe degli altri significa servizio,

«Papa Francesco, a un certo punto dell’intervista, e rispondendo alle domande che hanno preparato i miei colleghi giornalisti, prima di venire qui a Roma, ha raccontato di come, a Buenos Aires, nelle baraccopoli, ci sia più solidarietà tra le persone che non nei quartieri del centro. Così, naturalmente, mi è venuto spontaneo raccontare al Papa la mia esperienza di vita e di strada. E non ho potuto che sottolineare quanto le parole del Papa siano vere. È un’esperienza che ho provato sulla mia pelle. Il Papa mi ha ringraziato per la testimonianza. Se non fosse vero, farei fatica a crederlo». Antonio Mininni è una figura storica del nostro giornale. Ci lavora da più di vent’anni, e tra poco, avrà raggiunto il traguardo della pensione. È lui a curare i rapporti con i venditori, è lui che tiene i registri, la contabilità. «A Scarp de’ tenis devo tutto. Le esperienze difficili che ho vissuto per molti anni, con il giornale sono evaporate. Come dico sempre, grazie a Scarp ho ricominciato a vivere. Mi sono sentito di dirlo anche al Santo Padre, al quale ho raccontato, certo con poche parole, la mia storia. È un incontro che porterò sempre nel mio cuore. Un sogno che si realizza. Mai, quando abbiamo cominciato a lavorare a questo giornale, avrei pensato di potermi sedere davanti al Papa, di poterlo ascoltare, di poter dialogare con lui. Mi guardo alle spalle, guardo alla mia vita precedente, e mi accorgo di quanto oggi sia un uomo realizzato. Grazie a Scarp e alla Caritas Ambrosiana che ha sempre creduto e sostenuto questo progetto sociale».

Mettersi nelle scarpe degli altri significa servizio, umiltà, magnanimità. Ed è anche espressione di un bisogno. Io ho bisogno che qualcuno si metta nelle mie scarpe. Perché tutti noi abbiamo bisogno di comprensione, di compagnia, di qualche consiglio

umiltà, magnanimità. È anche l’espressione di un bisogno. Io ho bisogno che qualcuno si metta nelle mie scarpe. Perché tutti noi abbiamo bisogno di comprensione, di compagnia e di qualche consiglio. Quante volte ho incontrato persone che, dopo aver cercato conforto in un cristiano, sia esso un laico, un prete, una suora, un vescovo, mi dice: «Sì, mi ha ascoltato, ma non mi ha capito». Capire significa mettersi le scarpe degli altri. E non è facile. Spesso per supplire a questa mancanza di grandezza, di ricchezza e di umanità ci si perde nelle parole. Si parla. Si parla. Si consiglia. Ma quando ci sono solo le parole o troppe parole non c’è questa “grandezza” di mettersi nelle scarpe degli altri. Santità, quando incontra un senza tetto qual è la prima cosa che gli dice? «Buongiorno». «Come stai?». Alcune volte si scambiano poche parole, altre volte invece si entra in marzo 2017 Scarp de’ tenis

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relazione e si ascoltano storie interessanti: «Ho studiato in un collegio, c’era un bravo prete…». Qualcuno potrebbe dire, ma cosa mi interessa? Le persone che vivono sulla strada capiscono subito quando c’è il vero interesse da parte dell’altra persona o quando c’è, non voglio dire quel sentimento di compassione, ma certamente di pena. Si può vedere un senza tetto e guardarlo come una persona, oppure come fosse un cane. E loro di questo differente modo di guardare se ne accorgono. In Vaticano è famosa la storia di una persona senza dimora, di origine polacca, che generalmente sostava in piazza Risorgimento a Roma, non parlava con nessuno, neppure con i volontari della Caritas che la sera gli portavano un pasto caldo. Solo dopo lungo tempo sono riusciti a farsi raccontare la sua storia: «Sono un prete, conosco bene il vostro Papa, abbiamo studiato insieme in seminario». La voce è arrivata a San Giovanni Paolo II che sentito il nome, ha confermato di essere stato con lui in seminario e ha voluto incontrarlo. Si sono abbracciati dopo quarant’anni, e alla fine di un’udienza il Papa ha chiesto di essere confessato dal sacerdote che era stato suo compagno. E dopo la confessione, il suo amico disse al Papa: «Ora però tocca a te». E il compagno di seminario fu confessato dal Papa. Grazie al gesto di un volontario, di un pasto caldo, a qualche parola di conforto, a uno sguardo di bontà questa persona ha potuto risollevarsi e intraprendere una vita normale che lo ha portato a diventare cappellano di un ospedale. Il Papa l’aveva aiutato, certo, questo è un “miracolo” ma è anche un esempio per dire che le persone senza dimora hanno una grande dignità. Nell’arcivescovado a Buenos Aires sotto a un androne fra le grate e il marciapiede abitavano una famiglia e una coppia. Li incontravo tutte le

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COPERTINA

Nel salottino a Casa Santa Marta viene spiegato al Papa il progetto editoriale e sociale di Scarp de’ tenis, prima di cominciare l’intervista

mattine quando uscivo. Li salutavo e scambiavo sempre due parole con loro. Non ho mai pensato di cacciarli via. Qualcuno mi diceva: «Sporcano la Curia», ma la sporcizia è dentro. Penso che bisogna parlare alle persone con grande umanità, non come se dovessero ripagarci di un debito e non trattarli come fossero poveri cani. Molti si domandano se è giusto fare l’elemosina alle persone che chiedono aiuto per strada; lei cosa risponde? Ci sono tanti argomenti per giustificare se stessi quando non si fa l’elemosina. «Ma come, io dono dei soldi e poi lui li spende per bere un bicchiere di vino?». Un bicchiere di vino è l’unica felicità che ha nella vita, va bene così. Domandati piuttosto che cosa fai tu di nascosto? Tu quale “felicità” cerchi di nascosto? O, al contrario di lui, sei più fortunato, con una casa, una moglie, dei figli, cosa ti fa dire «Oc-

cupatevi voi di lui». Un aiuto è sempre giusto. Certo non è una buona cosa lanciare al povero solo degli spiccioli. È importante il gesto, aiutare chi chiede guardandolo negli occhi e toccando le mani. Buttare i soldi e non guardare negli occhi, non è un gesto da cristiano. Come si può educare all’elemosina? Racconto un aneddoto di una signora che ho conosciuto a Buenos Aires, mamma di cinque figli (a quel tempo ne aveva tre). Il papà era al lavoro e stavano pranzando, sentono bussare alla porta, il più grande va ad aprire: «Mamma c’è un uomo che chiede da mangiare. Cosa facciamo?». Tutti e tre, la più piccola aveva quattro anni, stavano mangiando una bistecca alla milanese, la mamma dice loro: «Bene, tagliamo a metà la nostra bistecca». «Ma no mamma, ce n’è un’altra» dice la bambina. «È per papà, per questa sera. Se dobbiamo donare, dobbiamo dare la nostra». Con poche semplici parole hanno im-


SCARP E IL PAPA

Giovanni Paolo II e Francesco sulle copertine di Scarp de’ tenis Quella di questo numero eccezionale di Scarp è la terza copertina con il Papa. La prima è datata aprile 2005, in occasione della morte di Giovanni Paolo II; la seconda nel dicembre 2015 quando Scarp ha pubblicato l’intervista rilasciata da Papa Francesco a un giornale di strada olandese. Così il ricordo di Giovanni Paolo II nell’editoriale firmato insieme dal direttore di Scarp di allora Paolo Brivio e da quello di Caritas Ambrosiana Roberto Davanzo. «Giovanni Paolo II era un uomo della strada, intesa come uno spazio esistenziale, piuttosto che un luogo fisico. E gli uomini li incontrava per davvero, rompendo per sempre quel senso di rispetto per cui il Papa lo si poteva vedere ma non lo si poteva toccare. Giovanni Paolo II non temeva di lasciarsi toccare, accarezzare, baciare, abbracciare. Quanti abbracci ai disperati degli ospedali di Madre Teresa, delle favelas brasiliane. E ve li ricordate gli abbracci ai pranzi di

parato che si deve dare del proprio, quello di cui non vorresti mai separarti. Due settimane dopo, la stessa signora andò in città per sbrigare alcune commissioni e fu costretta a lasciare i bambini a casa, avevano i compiti da fare e lasciò loro la merenda già pronta. Quando tornò, trovò i tre figli in compagnia di un senzatetto a tavola che stavano mangiando la merenda. Avevano imparato troppo bene e troppo in fretta, di certo era un po’ mancata loro la prudenza. Insegnare alla carità non è scaricare colpe proprie, ma è un toccare, è un guardare a una miseria che ho dentro e che il Signore comprende e salva. Perché tutti noi abbiamo miserie “dentro”. A più riprese il Papa si è schierato a difesa dei migranti invitando all’accoglienza e alla carità. Milano in questo senso è una capitale dell’accoglienza. Sono però in molti a chiedersi se davvero bisogna

accogliere tutti indistintamente oppure se non sia necessario porre dei limiti. Quelli che arrivano in Europa scappano dalla guerra o dalla fame. E noi siamo in qualche modo colpevoli perché sfruttiamo le loro terre ma non facciamo alcun tipo di investimento affinché loro possano trarre beneficio. Hanno il diritto di emigrare e hanno diritto ad essere accolti e aiutati. Questo però si deve fare con quella virtù cristiana che è la virtù che dovrebbe essere propria dei governanti, ovvero la prudenza. Cosa significa? Significa accogliere tutti coloro che si “possono” accogliere. E questo per quanto riguarda i numeri. Ma è altrettanto importante una riflessione su “come” accogliere. Perché accogliere significa integrare. Questa è la cosa più difficile perché se i migranti non si integrano, vengono ghettizzati. Mi torna sempre in mente l’episodio di Zaventem (l’attentato all’aeroporto di Bruxelles del 22 marzo 2016, ndr); questi ragazzi

Natale con i poveri e i senzatetto di Roma organizzati insieme a Sant’Egidio a Santa Maria in Trastevere? Caro Giovanni Paolo II, uomo della strada, ricordati dei tuoi amici prediletti che ancora dormono all’addiaccio e camminano in scarpe sfondate lungo le grige strade della vita. Ricorda e benedici. A noi, gente della strada, basterà per trovare la forza di continuare a camminare». Nell’intervista pubblicata sul numero 197 di Scarp, Papa Francesco ha ribadito due concetti chiave del suo pontificato: la povertà e la speranza. «La Chiesa deve parlare con la verità e la testimonianza: la testimonianza della povertà. Se un credente parla della povertà o dei senza tetto e conduce una vita da faraone, questo non si può fare». La conclusione dell’intervista è ricca di speranza: «Vorrei un mondo senza poveri. Noi dovremmo lottare per questo. Ma sono un credente e so che il peccato è sempre dentro di noi. E la cupidigia umana c’è sempre. La mancanza di solidarietà e l’egoismo creano povertà. Per questo mi sembra un po’ difficile immaginare un mondo senza poveri. Pensate ai bambini sfruttati nel lavoro, o a quelli vittime degli abusi sessuali, o ai bambini uccisi per il traffico degli organi. Uccidere i bambini per questo è cupidigia. Non so se ce la faremo a costruire un mondo senza poveri, perché il peccato c’è sempre e porta egoismo. Ma dobbiamo lottare, sempre, sempre».

Insegnare alla carità non è scaricare colpe proprie, ma è un toccare, è un guardare a una miseria che io ho dentro e che il Signore copre e salva. Perché tutti noi abbiamo miserie “dentro”

erano belgi, figli di migranti ma abitavano in un quartiere che era un ghetto. E cosa significa integrare? Anche in questo caso faccio un esempio: da Lesbo sono venuti con me in Italia tredici persone. Al secondo giorno di permanenza, grazie alla comunità di Sant’Egidio, i bambini già frequentavano le scuole. Poi in poco tempo hanno trovato dove alloggiare, gli adulti si sono dati da fare per frequentare corsi per imparare la lingua italiana e per cercare un lavoro. Certo, per i bambini è più facile: vanno a scuola e in pochi mesi sanno parlare l’italiano meglio di me. Gli uomini hanno cercato un lavoro e l’hanno trovato. Integrare allora vuol dire entrare nella vita del Paese, rispettare la legge del Paese, rispettare la cultura del Paese ma anche far rispettare la propria cultura e le proprie ricchezze culturali. L’integrazione è un lavoro molto difficile. Ai tempi delle dittature militari a Buenos Aires guardavamo alla Svezia come a un esempio positivo. Gli svedesi marzo 2017 Scarp de’ tenis

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Nella storia della sua famiglia, c’è la traversata dell’oceano da parte di suo nonno e sua nonna, con suo padre. Come si cresce da figlio di emigranti? Le è mai capitato di sentirsi un po’ sradicato? Non mi sono mai sentito sradicato. In Argentina siamo tutti migranti. Per questo laggiù il dialogo interreligioso è la norma. A scuola c’erano ebrei che arrivavano in maggior parte dalla Russia e musulmani siriani e libanesi, o turchi con il passaporto dell’Impero ottomano. C’era molta fratellanza. Nel Paese c’è un numero limitato di indigeni, la maggior parte della popolazione è di origine italiana, spagnola, polacca, mediorientale, russa, tedesca, croata, slovena. Negli anni a cavallo dei due secoli precedenti il fenomeno migratorio è stato di enorme portata. Mio papà era ventenne quando è arrivato in Argentina e lavorava alla Banca d’Italia, si è sposato là. Cosa le manca di più di Buenos Aires? Gli amici, le visite alle villa miseria, il calcio? C’è soltanto una cosa che mi manca tanto: la possibilità di uscire e andare per strada. Mi piace andare in visita alle parrocchie e incontrare la

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oggi sono 9 milioni, ma di questi, 890 mila sono nuovi svedesi, cioè migranti o figli di migranti integrati. Il Ministro della cultura Alice Bah Kuhnke è figlia di una donna svedese e di un uomo proveniente dal Gambia. Questo è un bell’esempio di integrazione. Certo ora anche in Svezia si trovano in difficoltà: hanno molte richieste e stanno cercando di capire cosa fare perché non c’è posto per tutti. Ricevere, accogliere, consolare e subito integrare. Quello che manca è proprio l’integrazione. Ogni Paese allora deve vedere quale numero è capace di accogliere. Non si può accogliere se non c’è possibilità di integrazione.

Milano non la conosco, ma ho un grande desiderio nel cuore. Mi aspetto di incontrare a fine marzo tanta gente. Ecco, sì. Questa è la mia più grande aspettativa: mi aspetto di trovare tanta gente

gente. Non ho particolare nostalgia. Vi racconto invece un altro aneddoto: i miei nonni e mio papà avrebbero dovuto partire alla fine del 1928, avevano il biglietto per la nave Principessa Mafalda che affondò al largo delle coste del Brasile. Ma non riuscirono a vendere in tempo quello che possedevano e così cambiarono il biglietto e si imbarcarono sulla Giulio Cesare il 1 febbraio del 1929. Per questo sono qui. Alcune domande su Milano, che è pronta ad accoglierla alla fine del mese di marzo. Partiamo dalle organizzazioni caritative, dalle associazioni di volontariato, da chi si preoccupa di dare ai senza tetto un posto dove passare la notte, del cibo, assistenza sanitaria, occasioni di riscatto. A Milano ci vantiamo di riuscire a farlo anche piuttosto bene. Ma basta? Di che cosa ha bisogno chi è finito sulla strada?

Come per i migranti molto semplicemente queste persone hanno bisogno della stessa cosa: ovvero, integrazione. Certo non è semplice integrare una persona senza dimora, perché ognuno di loro ha una storia particolare. Per questo bisogna avvicinarsi a ciascuno di loro, trovare il modo per aiutarli e dare loro una mano. Lei ripete spesso che i poveri possono cambiare il mondo. Però è difficile che esista solidarietà dove esiste miseria, come succede nelle periferie delle città, anche a Milano. Cosa ne pensa? Anche qui riporto la mia esperienza di Buenos Aires. Nelle baraccopoli c’è più solidarietà che non nei quartieri del centro. Nelle villa miseria ci sono molti problemi, ma spesso i poveri sono più solidali tra loro, perché sentono che hanno bisogno l’uno dell’altro. Ho trovato più egoismo in altri quartieri, non voglio dire benestanti perché sa-


SCHEDA

Il Papa e gli homeless Un rapporto “speciale”

La redazione di Scarp ha voluto consegnare al Santo Padre anche una copia della guida di Milano realizzata dagli ospiti del Centro diurno La Piazzetta di Caritas Ambrosiana

rebbe qualificare squalificando, ma la solidarietà che si vede nei quartieri poveri e nelle baraccopoli non si vede da altre parti, anche se lì la vita è più complicata e difficile. Nelle baraccopoli, per esempio, la droga si vede di più, ma solo perché negli altri quartieri è più “coperta” e si usa con i guanti bianchi. Di recente abbiamo cercato di leggere la città di Milano in una maniera particolare partendo dagli ultimi dalla strada, con gli occhi delle persone senza dimora che frequentano il centro diurno della Caritas Ambrosiana. Con loro abbiamo pubblicato una guida alla città vista dalla strada, dal punto di vista di chi la vive ogni giorno. Santo Padre cosa conosce della città di Milano e cosa si aspetta dalla sua imminente visita? Milano non la conosco. Ci sono stato una volta soltanto, per poche ore, nei lontani anni Settanta. Ave-

vo qualche ora libera prima di prendere un treno per Torino e ne ho approfittato per una breve visita al Duomo. In un’altra occasione, con la mia famiglia, sono stato una domenica a pranzo da una cugina che abitava a Cassina de’ Pecchi. Milano non la conosco, ma ho un grande desiderio, mi aspetto di incontrare tanta gente. Questa è la mia più grande aspettativa: sì, mi aspetto di trovare tanta gente.

* * * L’intervista è finita. Insieme con Antonio ringraziamo di cuore il Santo Padre, che ci fa dono di una corona del rosario. E prima di salutarci con un «arrivederci a Milano», abbiamo ancora il tempo di fare una promessa al Papa. Nel giorno della sua visita a Milano, i venditori di Scarp saranno in strada per ringraziare e per salutare il Papa. Con le pettorine rosse, ovviamente.

Papa Francesco ha sempre avuto un legame speciale con i senza dimora. Tanto che lo scorso anno in un’Aula Paolo VI gremita di circa 6 mila poveri, precari e senzatetto, convenuti a Roma per il Giubileo delle persone socialmente escluse, ha pronunciato un mea culpa commovente: «Vi chiedo perdono a nome dei cristiani che non leggono il Vangelo trovandone al centro la povertà. Per tutte quelle volte che noi cristiani, di fronte a persone povere o a situazioni di povertà, ci siamo girati dall’altra parte». Ed è sempre stato Papa Francesco a dare l'esempio nei giorni di grande freddo che hanno aperto il 2017, in cui sei senza dimora morirono assiderati nel giro di 48 ore. In quell'occasione il Papa ha fatto aprire le porte del Vaticano e ha pensato anche agli irriducibili mettendo a disposizione le auto dell’Elemosineria in cui rifugiarsi e donando loro sacchi a pelo e guanti. Infine ha aperto la chiesa di San Calisto in Trastevere con il supporto della Comunità di Sant’Egidio per offrire ai senza tetto un luogo caldo dove dormire e cenare. E come dimenticare il punto doccia e il barbiere per i senzatetto aperto sotto il colonnato di piazza San Pietro o la visita speciale organizzata per i clochard alla Cappella Sistina? Ma cibo e coperte da sole non bastano per far ritrovare la dignità a chi l'ha persa. Ed ecco che Papa Francesco ha deciso di regalare a chi possiede poco o nulla un posto in prima fila al concerto che si svolgerà in Vaticano il prossimo 14 maggio.

INFO

Francesco a Milano: il programma della visita papale il 25 marzo Papa Francesco arriverà all'aeroporto di Linate per poi spostarsi, alle ore 8,30, alle Case bianche di via Salomone-via Zama per incontrare alcuni residenti. Alle 10 il Pontefice sarà in Duomo, dove incontrerà i Ministri ordinati e la Vita Consacrata. Al termine dell'incontro, Papa Francesco si sposterà in piazza Duomo per recitare l'Angelus, salutare e benedire i presenti. Alle 11,30 il Papa si trasferirà al carcere milanese di San Vittore per incontrare i detenuti e pranzare con loro. Alle 15 è in programma “l’incontro cuore della visita”: la Messa che Papa Francesco celebrerà al parco di Monza. Infine, alle 17,30, allo stadio Meazza di San Siro, Papa Francesco incontrerà i ragazzi cresimandi e cresimati, i loro educatori, genitori, padrini e madrine. Al termine il Pontefice raggiungerà Linate per far ritorno a Roma. Info www.chiesadimilano.it cliccando su Papa a Milano App disponibile per Android e IoS marzo 2017 Scarp de’ tenis

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Volontariato La gioventù che vuole cambiare il Paese di Stefania Culurgioni

I millenials italiani, i ragazzi cioè nati tra il 1980 e il 2000, “si distinguono da quelli degli altri Paesi europei per il desiderio si essere parte attiva della propria comunità”. Viaggio di Scarp oltre gli stereotipi 32 Scarp de’ tenis marzo 2017

Bamboccioni, choosy, sfigati e, ora, “sdraiati”. Ecco i giovani italiani visti dagli occhi dei grandi: viziati che hanno tutto e tuttavia sono incontentabili oppure pigroni, perennemente sul divano con il cellulare in mano. Ma è davvero così? L’Istituto Giuseppe Toniolo, ente fondatore dell’Università Cattolica, ha pubblicato il Rapporto giovani, una ricerca condotta nel 2016 sui Millennials, ovvero i nati fra il 1980 e il 2000. E il quadro che emerge dice qualcosa di diverso: “I ragazzi italiani si distinguono da quelli degli altri Paesi europei per il desiderio di essere parte attiva nel promuovere il bene della propria comunità: il valore più elevato, infatti, è quello dell’Italia (83,4%), seguita dalla Spagna, mentre si scende sotto il 70% in Gran Bretagna, Francia e Germania”. Insomma, secondo l’osservatorio dell’Istituto Toniolo, i ragazzi italiani vogliono essere soggetti attivi nei processi di miglioramento del territorio in cui vivono. E, in


DOSSIER

A sinistra Maria Luisa Catrambone all’opera sulla Phoenix, la nave del Moas impegnata nel recupero dei migranti. Qui sopra lo staff di Open Biomedical Initiative

È vero, tanti miei coetanei restano disinteressati anche di fronte a storie toccanti come quelle legate al salvataggio dei migranti in mezzo al mare. Quando racconto la mia esperienza a bordo della Moas alzano le spalle, sono distaccati, non gli interessa. Ma molti altri non sono così e vorrebbero mettersi a disposizione

particolare, il 74,2% è disposto a svolgere attività di volontariato, la percentuale più alta tra tutte le nazioni. Ma allora qual è la verità? I fondatori del Moas «È vero, tanti miei coetanei restano disinteressati anche di fronte a storie toccanti come quelle dei migranti. Quando racconto la mia esperienza alzano le spalle, sono distaccati, non gli interessa. Ma molti altri non sono così e vorrebbero mettersi a disposizione». Lei è Maria Luisa Catrambone, 21 anni, figlia di Cristopher e Regina, i due coniugi che nel 2014 si sono inventati il Moas (Migrant Offshore Aid Station). In pratica è una nave (la Phoenix) che fende le acque del Mediterraneo per cercare e salvare migranti: il progetto vive grazie a finanziamenti privati e finora la squadra ha salvato oltre 3 mila persone.

«Sono nata e cresciuta a Reggio Calabria. Fin da piccola mio nonno mi portava a pescare – racconta Maria Luisa – poi un giorno i miei genitori hanno fatto una mini crociera. Si sono accorti di una giacca di salvataggio che galleggiava in acqua. Apparteneva ad una persona affogata. E da lì è cominciato tutto».

Lui americano, lei calabrese, imprenditori e ricchi ma non per questo sganciati dalla realtà: la coppia ha recuperato una barca e si è messa a scandagliare il mare. «Ecco che i miei genitori mi mostravano un’altra faccia del Mediterraneo – racconta la figlia – io

L’INTERVISTA

La sfida dei ragazzi di Open Biomedical, la tecnologia al servizio della salute Innovazione biomedicale basata sulla stampa 3D, con un network globale open source per migliorare la salute e la qualità di vita delle persone, il tutto a costi irrisori. Impossibile? Nient’affatto. Questa è la sfida di Open Biomedical Initiative (openbiomedical.org), associazione nata poco più di due anni fa grazie a Bruno Lenzi, ingegnere elettronico-biomedicale under 30, e a un piccolo gruppo di giovani volontari tra ingegneri, biologi, comunicatori e imprenditori. La onlus, che si sostiene grazie al crowdfunding, a donazioni e ai vari premi, ha alcune parole chiave: innovazione, collaborazione, globalità. Obm ha scelto d’inserirsi a supporto della biomedica tradizionale attraverso lo sviluppo di progetti altamente innovativi i cui beneficiari sono persone portatrici di problemi o svantaggi fisici, parzialmente o totalmente superabili grazie all’apporto della tecnologia. I beneficiari non vengono, però, solo aiutati, ma resi progressivamente autonomi e abilitati a riprodurre ed eventualmente a riparare il dispositivo, passando da soggetti passivi a promotori dei processi d’innovazione. Si prova a superare, cioè, la tradizionale dicotomia tra giver e taker: grazie all’apporto volontario di una grande rete globale (oggi più di seimila persone) si possono garantire prezzi bassi, riproducibilità e riparabilità dei prodotti. I file per la stampa dei singoli componenti, come una protesi, vengono inviati al beneficiario, che può realizzare da sé il prodotto finale componendo le singole parti stampate. Tra i progetti che Obm sta attualmente sviluppando c’è Fable (Fingers Activated By Low-cost Electronics), una protesi elettromeccanica della mano, destinata a persone amputate o con malformazioni genetiche degli arti superiori, che funziona grazie all’acquisizione di impulsi mioelettrici dell’avanbraccio. Bob (Baby on Board) è, invece, una tecnologia biomedicale capace di riprodurre e mantenere costante al suo interno il microclima ideale per lo sviluppo dei neonati prematuri o sottopeso. Un’incubatrice, insomma, affidabile ed economica, robusta ma facile da trasportare e a basso consumo energetico, con lo scopo di ridurre la mortalità infantile soprattutto nei Paesi più poveri. Una piccola grande rivoluzione per aiutare le persone sfruttando le nuove tecnologie e la potenzialità delle rete; un processo contagioso di natura collaborativa che abbatte costi e distanze, geografiche e non. Se non è generatività questa… Alberto Rizzardi marzo 2017 Scarp de’ tenis

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DOSSIER avevo 18 anni e ho detto loro: sulla barca ci salgo anche io. Mi hanno detto di no. Erano preoccupati e spaventati da quello che avrei potuto vedere». Ma Maria Luisa ha lottato: «A bordo ero la figlia dei fondatori ed ero la più piccola, non avevo credibilità. Ho dovuto lottare per conquistarmi un ruolo». E pian piano, il suo ruolo è affiorato da solo: le ragazzine migranti le si avvicinavano spontaneamente, vedendola lì, giovane come loro. «Un esempio? Si vergognavano di chiedere gli assorbenti, e li chiedevano a me. Ma mi sono capitati anche uomini: mi guardavano ed ero la spalla su cui piangevano». Oggi Maria Luisa ha 21 anni, vive a Londra e studia criminologia e sociologia ma intanto fa raccolta fondi per finanziare una nuova missione della Phoenix: «Ciò che mi ferisce di più? – confida – parlare di tutto questo ai miei coetanei e vedere che non hanno reazioni». Giulia combatte la mafia Poi c’è Giulia Gentili, milanese, 20 anni e che l’estate scorsa ha deciso di aderire ad un progetto di Libera: è andata prima a Battipaglia per dare una mano ai carcerati che gestiscono il Caffè 21 marzo, locale confiscato alla camorra, e poi a Eboli per aiutare una comunità che accoglie donne e bambini migranti. «Eravamo alle scuole superiori e i professori ci proposero un viaggio a Palermo, per conoscere i luoghi di Falcone e Borsellino – racconta – tanti miei compagni protestarono: volevano andare all’estero. Riuscimmo a convincere la classe, avremmo parlato con le vittime della mafia, conosciuto quello che accade nel nostro Paese». Quel viaggio la colpì al punto che l’anno dopo, con una coetanea, si mise a cercare qualcosa di simile su internet. «Che cosa penso dei giovani? Sicuramente molti di loro sono poco informati, e penso che è vero, in parte, siano comodi e disinteressati. Però ci sono delle eccezioni: tutto dipende da come e da cosa ti viene trasmesso, dai genitori, dalla scuola». 34 Scarp de’ tenis marzo 2017

Due giovani volontarie di Alimentando, associazione di Pavia nata per combattere lo spreco alimentare. Da poco lanciata la family bag per gli avanzi al ristorante

Guadagnare aiutando: la sfida delle app di Stefania Culurgioni

Tante le applicazioni per smartphone che fanno guadagnare i giovani ideatori. Ma che fanno anche del bene. I casi Ugo e Taskhunters

Impoltroniti a guardare la tv col cellulare in mano tra un esame e l’altro all’università? Tutt’altro. Ci sono tantissimi studenti creativi e curiosi che spesso piegano la tecnologia per inventarsi persino un lavoro. È il caso degli ideatori di due app, Ugo e Taskhunters, la prima per accompagnare chi non è in grado di guidare fino a casa, usando la sua stessa auto, la seconda per affidare a studenti dei lavoretti pagati, in modo che possano raggranellare qualcosa. «Eravamo un gruppo di amici all’ultimo anno di università, avevamo 23 anni – raccontano Francesca Vidali e Michela Conti che, insieme ad Alessandro Zaccaria, Matteo Ganassali e Andrea Pezzoni hanno creato Ugo– uno di noi fece un’esperienza di studio in Co-


LA STORIA

Alimentando: basta cibo sprecato grazie all’idea di alcuni giovanissimi: «Al via le family bag: così si recuperano gli avanzi nei ristoranti» «Eravamo quattro amici al bar, che volevano cambiare il mondo»: l’incipit del brano di Gino Paoli ben si adatta a questa storia. No, qui, non si tratta di voler cambiare il mondo: molto più semplicemente la volontà è di non stare con le mani in mano, ma di provare a fare qualcosa di concreto per la propria comunità. Alimentando (alimentando.org) è un’associazione nata a Pavia nel 2014 grazie a un gruppo di ragazzi, con l’obiettivo di ridurre l’impatto sociale, economico ed ecologico dello spreco alimentare. Come? Semplicemente raccogliendo cibo destinato al cassonetto per darlo a chi ne ha bisogno. «Il progetto è la concretizzazione di un progetto nato da un piccolo gruppo di amici dai tempi della scuola – racconta Antonio, tra i fondatori dell’associazione – e, oltre alla voglia di riscoprire un’amicizia e rafforzare certi legami andati un po’ persi negli anni a causa delle diverse strade intraprese, c’era la voglia di creare qualcosa per aiutare anche altre persone». Detto, fatto. Tre le fasi essenziali del progetto, in primis la raccolta-conservazione e la preparazione degli alimenti: «Abbiamo contattato potenziali benefattori in città – spiega Antonio – da cui passiamo a recuperare prodotti invenduti o non più destinati alla vendita per poi stoc-

carli e preparare pietanze nel breve periodo. Per cucinare e somministrare i pasti ci appoggiamo alle comunità già attive sul territorio». C’è poi la fase della distribuzione, che viene fatta attraverso l’organizzazione di eventi ad hoc come pranzi conviviali che vogliono stimolare la collaborazione, il divertimento e l’integrazione dei partecipanti. In parallelo, si cerca di sensibilizzare sul tema dello spreco alimentare. Un anno dopo la sua partenza, Alimentando aveva già recuperato circa 1.300 kg di cibo, servendo più di mille persone, grazie a 70 associati e a una quindicina di volontari. Oggi siamo a 3 mila chili di cibo raccolto (valore 7.500 euro), 90 associati, una trentina di volontari e altrettanti esercizi commerciali coinvolti, con 25 eventi realizzati e 2 mila persone servite. Dopo il via libera della legge anti sprechi lo scorso agosto, Alimentando, assieme a Comune e commercianti, ha lanciato anche la family bag per promuovere nei ristoranti il recupero degli avanzi. Prossime tappe: raddoppiare la quantità di cibo raccolto, coinvolgere più esercenti e magari anche allargare la rete di volontari coinvolti. Alberto Rizzardi

LA STORIA

Ci sono dei giovanissimi dietro alle app, Ugo e Taskhunters. La prima serve per accompagnare chi non è in grado di guidare fino a casa, usando la sua stessa auto, la seconda per affidare a studenti dei lavoretti in modo che possano raggranellare qualcosa

rea, una sera uscì con gli amici, bevvero tutti, nessuno se la sentiva più di guidare, tramite una appchiamarono un guidatore che riportasse a casa loro e la macchina». Il servizio in Italia non esisteva e nel giro di due anni lo hanno messo in piedi loro: è stato un successo. Gli Ugo sono degli accompagnatori: sono giovani ma anche over 50, hanno almeno 3 anni di patente e 20 punti, sono selezionati uno per uno e sono 150 in tutto. Se li chiami arrivano al volo, si mettono alla guida della tua macchina, ti portano a casa. «Ci sono discoteche ma anche aziende che richiedono la nostra presenza – raccontano – e da poco abbiamo avviato un servizio per gli anziani: in questo caso gli Ugosono accompagnatori, andiamo con l’anziano in ospedale, stiamo con lui finché non fa la visita e poi lo riportiamo a casa. Prendiamo i mez-

zi pubblici, andiamo anche a piedi, se lo portiamo in auto a fare la spesa entriamo con lui al supermercato. Insomma, siamo di supporto e a chiamarci sono spesso i familiari che non hanno tempo». Una app che ti assiste E poi c’è Taskhunters: «Ce lo siamo inventati in quattro, tutti del 1987 – racconta Lorenzo Teodori – ci siamo resi conto che tante persone hanno bisogno di una mano per svolgere lavoretti per cui non hanno tempo: montare un mobile Ikea, portare un pacco in posta, ritirare la ricetta dal medico, fare un piccolo trasloco, prendere le camicie in tintoria». La app fa questo: da un lato ci sono gli studenti disponibili a fare questi mini lavoretti, dall’altro le persone che li chiedono. «Noi li chiamiamo task: chi ha bisogno di un servizio lo scrive sulla appe pro-

pone il suo prezzo: sta agli studenti candidarsi per farlo, magari anche rilanciando sulla paga. Ci si applica per essere ingaggiati, poi è la persona a scegliere chi vuole. Infine, ci si scambiano le valutazioni, ci si dà un feedback, così si può valutare se lo studente ma anche chi ha offerto il lavoro è affidabile o meno». In genere, per consegnare un pacco in Posta si offrono 5 euro, 8/10 euro per stare in casa ad assistere i muratori mentre fanno i lavori, 80/100 per un mini trasloco. Questa è una app, come chiariscono i ragazzi che l’hanno creata, che non vuole risolvere il problema della disoccupazione giovanile: ma certo è un modo per consentire agli universitari, dato che solo loro possono candidarsi, di sgravare i genitori dalle spese degli studi. Per ora sono iscritti circa 500 studenti, mentre i richiedenti un servizio sono 7 mila. marzo 2017 Scarp de’ tenis

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Alcuni dei ragazzi di “Sii turista della tua città” associazione nata per salvaguardare le bellezze di Napoli ed educare al bello e alla legalità

DOSSIER

NAPOLI

Turista della tua città, ragazzi in campo per salvare la bellezza È un segnale stradale che non vieta e non indica, semplicemente invita. La cornice è quella del triangolo rosso dal fondo bianco con il vertice in basso e contiene un invito: “Sii turista della tua città”, slogan e nome del movimento di giovani attivo a Napoli da 4 anni fondato da Luca di Martino, 28 anni, ottico di professione. «Nel 2012 di ritorno a Napoli da un viaggio interrail in cui avevo attraversato tutta Europa – racconta –, fui assalito dalla consapevolezza di aver avuto la fortuna di nascere, di vivere e di appartenere a una città speciale». Luca cominciò col chiamare gli amici, da allora i giovani coinvolti che vanno dai 16 ai 30, sono una quarantina. Si vedono una volta a settimana per organizzare azioni di accoglienza turistica e di riqualifica urbana. «Nel primo caso si tratta più di flashmob che di un servizio strutturato – racconta Luca –. Andiamo al porto, all’aeroporto, in stazione e abbracciamo i turisti, gli portiamo il caffè, ci offriamo di far loro da guida». I viaggiatori naturalmente restano disorientati e sorpresi condizionati dai pregiudizi che relegano l’immagine di Napoli ad un destino di insicurezza, criminalità, degrado. «La cura del bene pubblico invece - conclude Luca – la pratichiamo con la pulizia di piazze, aiuole, fontane, spazi pubblici». A giugno scorso in una mattinata hanno ridato decoro ad un tratto di scogliera sul lungomare più famoso del mondo. Ad ogni intervento lasciano uno striscione con la scritta “Essere napoletano è meraviglioso”. E perché non sia un intervento spot cercano di fare sinergia con cittadini e associazioni del posto affidando loro la cura dello spazio appena bonificato. Per tutto l’anno svilupperanno il progetto Abbracciamo Napoli che prevede un evento ogni mese in una delle municipalità cittadine. Sono già stati a Pianura con una passeggiata culturale ed un flashmob di sensibilizzazione sul rispetto delle regole di convivenza e di sicurezza: mettere il casco, attraversare sulle strisce pedonali, rispettare i segnali stradali, fare la raccolta differenziata. Laura Guerra

VICENZA

La sfida di Camilla per la rigenerazione di un quartiere: «Partire dal tessuto sociale per far crescere una comunità» Camilla ha studiato scienze sociali a Urbino e viene dalle terre d'Italia dove il welfare è più avanzato, quella zona centrale che comprende Toscana, Emilia e Marche che poi è la sua regione d'origine. «Le cooperative nelle Marche si stanno muovendo, reagiscono alla crisi diventando imprese, alcune anche molto grandi, perché il sociale, lo sappiamo ormai tutti, non tornerà più a vivere solo di sovvenzioni». Così esordisce mentre si discute di nuove forme di sviluppo, di coesione sociale, e di società che imparano a “curarsi” da sole. «È questo che mi piace – continua Camilla – poter agire sulla comunità prima che debbano intervenire i servizi, laddove la fragilità si sviluppa, o semplicemente diviene più evidente a contatto con la cosiddetta normalità. Mi piacerebbe diventare l'assistente sociale che nel quartiere aiuta la coesione, la conoscenza reciproca e inventa modi di stare insieme e di aiutarsi perché le situazioni di fragilità non restino isolate e lasciate a se stesse». Dopo aver viaggiato all'estero e nel Nord Italia per scoprire nuovi progetti, ora Camilla è a Vicenza con un assegno di ricerca dell'Unione Europea affidatole dallo Iuav. Sta progettando la rigenerazione urbana di uno dei quartieri più a rischio: l'area che dalla stazione lambisce il centro storico fino a Porta Castello, e giù fino ai viali Milano e Torino dove oggi abitano soprattutto i migranti. «Di solito la rigenerazione urbana è affidata agli urbanisti o agli architetti – continua - mentre io ritengo che la rigenerazione urbana passi so-

prattutto dalla valorizzazione e dall’attivazione delle comunità che abitano quei luoghi urbani marginali. Vorrei quindi che gli operatori sociali siano chiamati accanto ai tecnici per progetti condivisi, collaborando per accompagnare le situazioni di fragilità. Gli interventi dovrebbero mirare ad agire sulle dinamiche socio-culturali che attraversano gli spazi e le comunità». Esempi ne possiamo fare tanti, non ultimo il progetto che sta mettendo a punto insieme ad altri operatori del sociale agli incontri del Comune di Vicenza Insieme si può: l'utilizzo di una struttura per incontri di socializzazione, dove le persone emarginate si possano incontrare con chi passeggia o far compere per conoscersi e scambiare qualche chiacchiera senza distinguere tra chi è in difficoltà magari anche grave e chi invece conduce un'esistenza più equilibrata. «Intorno a una tazza di tè o in un pomeriggio dedicato alla raccolta di coperte, per esempio, possiamo consentire ai senza tetto di sentirsi utili e di farsi conoscere per persone con potenzialità, invece che lasciarsi additare mentre chiedono l'elemosina». Camilla ha partecipato con intensità e creatività a tutti questi incontri che sono stati numerosi visto che abbracciavano un po' tutti gli ambiti del sociale. E ogni volta ha portato idee e spunti, cercando di instillare la voglia di rinnovare a partire da un cambio di visione: niente assistenza, ma una società capace di rigenerarsi mettendo in gioco le proprie capacità, doti e particolarità. Cristina Salviati marzo 2017 Scarp de’ tenis

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Con le attuali leggi in Italia si sta creando un vero e proprio esercito di clandestini, vanificando importanti percorsi lavorativi e di integrazione

Doppio diniego L’Italia produce un esercito di clandestini di Enrico Panero

Sempre più richiedenti asilo stanno ricevendo il rigetto della loro domanda di protezione sia dalle commissioni sia dai tribunali in cui hanno presentato ricorso. Per questo, molte persone che hanno realizzato percorsi di integrazione si ritrovano a vivere in clandestinità 38 Scarp de’ tenis marzo 2017

«L’Italia sta creando un esercito di clandestini che potrebbero non esserlo». Non hanno dubbi gli operatori che a Torino hanno dato vita alla rete SenzaAsilo, un movimento “dal basso” di denuncia e proposta sul problema dell’asilo e sulla deficitaria gestione del fenomeno migratorio. SenzaAsilonasce dalla questione dei cosiddetti “doppi diniegati”, cioè richiedenti asilo che hanno ricevuto il rigetto della loro domanda di protezione sia dalle commissioni territoriali sia dai tribunali a cui hanno presentato ricorso. Molte di queste persone hanno realizzato percorsi di reale integrazione sociale e occupazionale, per poi ritrovarsi di fatto in clandestinità. «Tutto il procedimento fa sì che le persone restino nei centri di accoglienza uno-due anni, periodo in cui se si è fatto un buon percorso ci sono possibilità concrete di autonomia attraverso un contratto di lavoro», spiega Luca


La casualità dell’asilo In Italia il percorso dei richiedenti protezione dipende dalla casualità: c’è differenza tra finire nel Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), con percorsi più strutturati, o nei Centri di accoglienza straordinaria (Cas), che però accolgono ormai tre quarti delle persone; nell’ambito dei Cas esistono poi strutture dignitose e altre meno. Casualità che si ripercuote anche a livello giuridico per la grande discrezionalità delle commissioni e dei giudici. «C’è un’applicazione troppo rigida dei criteri – spiega Lorenzo Trucco, presidente dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi)–. La protezione umanitaria andrebbe elaborata maggiormente. Poi dovrebbe essere istituita una formula di regolarizzazione basata su elementi di integrazione da inserire stabilmente nel sistema giuridico». Basterebbe guardare alla Svezia: se un richiedente asilo durante la richiesta ot-

IMMIGRAZIONE

RICHIESTE DI PROTEZIONE IN ITALIA (2014-2016) presentate

esaminate

diniego

2016

123.482

90.513

61%

55.425 21%

12,4%

5,58%

2015

83.970

71.117

58%

41.503 22%

14%

5%

2014

63.456

36.270

39%

14.217 28%

23%

10%

tiene un lavoro con garanzie di stabilità esce dal sistema dell’asilo ed entra nell’altro sistema. La società però sta reagendo, segnala Trucco: «Artigiani e piccoli imprenditori che vogliono assumere, sindaci che vogliono andare davanti ai tribunali con la fascia tricolore, firme di intere comunità contro le espulsioni. Sale la richiesta di fare rete per dare forza a questa protesta civile». Diritti sempre più a rischio Nel 2016 sono state presentate in Italia 123.482 richieste d’asilo, quasi raddoppiate in due anni. I dinieghi sono stati il 61% delle 90.513 esaminate, ma in valori assoluti il numero di dinieghi è quasi quadruplicato tra il 2014 (14.217) e il 2016 (55.425). Essendo chiusa ogni possibilità di ingresso regolare in Italia il canale della protezione resta l’unico percorribile. Di fronte a un sistema intasato da tante domande di protezione il governo è intervenuto in febbraio con due provvedimenti molto criticati. Prima l’accordo con la Libia per tentare di limitare gli arrivi, poi un decreto che elimina il grado di appello per chi ha ricevuto il diniego alla domanda di protezio-

umanitaria

ne. «Un decreto orrendo – osserva Trucco – che peggiora ulteriormente la situazione e aumenterà la confusione. Si vuole dare un’immagine di rigore abbattendo i diritti delle persone. Secondo una recente sentenza del tribunale di Milano su una richiesta di

sussidiaria

rifugiati Fonte: www.interno.gov.it

Bruno, operatore torinese di SenzaAsilo che, tra le varie iniziative, recentemente ha presentato alla prefettura di Torino i casi di 47 persone con doppio diniego e concrete possibilità lavorative. «Le storie sono emotivamente molto forti, legate a delle alchimie tra lavoratore e datore di lavoro – racconta Luca –. È davvero frustrante spiegare loro che non si può fare, che è finita. A parte lo spreco di soldi e risorse, non ha senso che una persona che non darebbe più alcun problema di impatto sociale sia messa in una condizione problematica perché in clandestinità». SenzaAsilo nasce dunque per creare forme di pressione «sia come operatori che affrontano queste contraddizioni sia come cittadini indignati verso una normativa che crea clandestinità e non riconosce i percorsi di integrazione». In poche settimane la campagna avviata a Torino si sta diffondendo sul territorio nazionale e sta collaborando con altre iniziative per i diritti dei migranti.

In Italia il percorso dei richiedenti asilo dipende dalla casualità: c’è differenza tra finire nello Sprar, con percorsi più strutturati o nei Cas, i Centri di accoglienza straordinaria

protezione “un diritto universale per sua natura non è a numero chiuso”: o abbandoniamo la strada dei diritti fondamentali oppure li garantiamo, purtroppo le ultime indicazioni sembrano confermare la prima ipotesi». info www.senzaasilo.org

LA STORIA

Assunzione bloccata per legge così M. è diventato un clandestino M.K., 24 anni richiedente asilo del Gambia, svolge un tirocinio formativo in un bar ristorante del centro di Torino. Al termine dei 6 mesi di tirocinio l’azienda vorrebbe confermarlo, avviando un contratto a tempo indeterminato entro qualche mese. Gli operatori comunicano la possibilità di avviare subito un secondo tirocinio, in cui però il datore di lavoro deve assumere l’onere del salario. Per ovviare alla non immediata necessità dell’azienda di sobbarcarsi i costi dell’operazione, titolari e dipendenti decidono di dividersi i costi dello stipendio di M. in modo da non gravare troppo sull’azienda e non perdere un valido lavoratore. Alla fine, però, salta tutto: M. riceve la comunicazione del secondo diniego e quindi non si può assumere perché non ha più diritto a un permesso di soggiorno. «È assurdo – dice uno dei colleghi disposti ad autotassarsi–: trovi una persona che va bene per la tua attività, sei disposto ad assumerla anche autotassandoti perché lavora bene e ti è utile. Ma non lo puoi fare se non andando contro la legge. Assurdo». marzo 2017 Scarp de’ tenis

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La sfida di Vito, un venditore ad Atene di Giulia Porrino foto di Ioannis Zindrilis

Metti un venditore di Scarp de’ tenis in trasferta ad Atene per vendere Shedia, il giornale di strada della capitale greca. Due giorni passati in compagnia dei venditori greci, un’esperienza indimenticabile 40 Scarp de’ tenis marzo 2017

Vito ha 66 anni e profuma di buono. Si vede che ci tiene a fare bella figura mentre vende il giornale per strada. Sì perché Vito è uno dei venditori, uno dei migliori come dice lui, di Scarp de’ tenis. A vederlo sembra uno dei tanti pensionati che incontri tutti i giorni in metropolitana. Invece Vito ha alle spalle anni passati a dormire in strada e al dormitorio. «Ho sempre cercato di mantenere una dignità – dice – anche se non è stato facile. Ora anche grazie a Scarpsto tornando a pensare una vita normale». Proprio per le sue capacità di venditore in pettorina rossa, a dicembre, per qualche giorno è diventato un venditore tra le vie di Atene. Una possibilità nata grazie alla collaborazione con il giornale di strada greco Shedia. Al suo posto, è arrivata in Italia Maria che ha venduto con noi Scarp nelle vie milanesi.


LA STORIA no state regalate 20 copie del giornale greco. Il primo giorno ne ho venduto solo una, il secondo ben nove, un record per i venditori di strada ateniesi. Ho cercato di capire i venditori di Atene, dove il lavoro in strada è fondamentale per sopravvivere».

Nella foto a fianco Vito, il venditore di Scarp de’ tenis in trasferta ad Atene mentre vende le copie di Shedia, il giornale di strada della capitale greca fuori dalla metro. Qui sopra Maria, venditrice di Shedia giunta a Milano nel mese di dicembre per vendere Scarp, insieme al direttore di Caritas Ambrosiana, Luciano Gualzetti e a Vito

La situazione che ho visto in Grecia è drammatica. Ho visto una terra spaventosamente povera. In quasi tutte le vie di Atene si vedono persone perse nel gioco d’azzardo e nelle macchinette, di cui ricordo i colori, che attraggono e promettono ricchezza

Questo esperimento è stato la dimostrazione che Scarp, così come altri giornali di strada, può cambiare la vita o quantomeno, può invertire la tendenza che negli ultimi anni ha portato sempre di più le persone a chiudersi nei propri confini dimostrando che creare un dialogo, una maggiore comprensione tra due culture diverse promuovendo la tolleranza, è possibile. Dopo tre anni trascorsi al centro Cardinal Ferrari, Vito ha avuto la forza di ricominciare a vivere liberamente e racconta così la sua storia: «La difficoltà maggiore, quando si perde tutto sta nel tenere i contatti con gli affetti, ma grazie a Scarp e alla pittura, sono rinato. Rinascere è possibile se c’è speranza e non ci si spegne come candele, per me questo cammino è stato una carezza di Dio». Una dura realtà Riguardo alla sua avventura nelle strade ateniesi dice: «Questa esperienza mi ha aiutato a riflettere a proposito del mio “viaggio”, e di quanto i senzatetto in Italia siano fortunati; qui infatti, grazie al lavoro delle centinaia di volontari, non si può morire di fame. Al contrario, la situazione che ho visto in Grecia è molto più drammatica. Ho visto una terra spaventosamente povera. In qualsiasi via di Atene, si vedono persone perse nel gioco d’azzardo e nelle macchinette, di cui ricordo ancora oggi i colori, che attraggono e danno speranza, dove speranza non c’è». Nonostante le condizioni di vita non agiate, Vito ricorda l’accoglienza ricevuta: «Le persone sono state gentili, fin dal primo momento sono stato affiancato da Lampros. Appena arrivato mi so-

Solidarietà alla greca I venditori in Grecia vendono circa 6 copie e per ognuno guadagnano 1 euro e 50, solo nella capitale ci sono 200 venditori. «Ad Atene o si vendono i giornali per strada o si è destinati ad essere senza tetto. Parlavo tramite i gesti, e una delle cose

che mi ha stupito maggiormente è il fatto che le persone che acquistavano il giornale erano molto giovani, anche se molto meno amichevoli rispetto ai lettori italiani che spesso si fermano a parlare con noi e ad incoraggiarci per il nostro lavoro». Ad un certo punto Vito si interrompe e aggiunge a bassa voce: «La popolazione greca è molto solidale. All’uscita della metro i passeggeri non buttano i biglietti ma li poggiano sui muretti fuori dalla stazione per farli utilizzare a chi non ha soldi da spendere per la metropolitana».

LA SCHEDA

Lo “zio” Bergomi e Bruno Pizzul venditori per un giorno di Scarp

Il campione del mondo Beppe Bergomi e la storica voce del calcio italiano Bruno Pizzul per un giorno sono diventati venditori di Scarp de’ tenis (foto in alto). In occasione della Settimana internazionale dei venditori di giornali di strada. Tra gli acquirenti delle rivista non ha voluto mancare l’arcivescovo di Milano, cardinale Angelo Scola (foto qui sopra). marzo 2017 Scarp de’ tenis

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In Trattoria, per non smettere di sognare di Ettore Sutti foto di Stefano Merlini

Nata dal desiderio di un gruppo di amici accomunati dalla voglia di stare insieme la Trattoria popolare sta diventando un luogo di aggregazione e di riferimento per il quartiere. E si pensa al mutuo soccorso 42 Scarp de’ tenis marzo 2017

Prendete una quindicina di quarantenni, quasi tutti precari, una zona popolare ma non troppo di Milano, un locale, tre tavoloni e una cucina, la voglia di stare insieme e un pizzico di follia. Mettete a cuocere il tutto per un anno e mezzo –tanto ci è voluto per trasformare l’idea in realtà – e servite. La Trattoria popolare – Arci Traverso è pronta. Non pensate però alla solita cosa un po’ fighetta e radical chic da sinistra salottiera con le tovaglie a quadretti e i piatti destrutturati. Qui si mangia davvero a prezzo popolare a mezzogiorno e sera. Ma non solo. O meglio: non si mangia e basta. Qui si vuole fare qualcosa in più: utilizzare il cibo, lo stare insieme, per ricreare un tessuto sociale. «Veniamo tutti da esperienze aggregative di vario tipo –racconta Anna, una delle socie della Trattoria popolare – anche se nessuno aveva grandi esperienze nel campo della ristorazione. Ci è piaciuta l’idea di poter mettere la gente attorno a un tavolo non tanto per far cassetto ma


MILANO plice, per carità, ma qui entra in gioco la capacità di chi quella sera è in sala per creare il giusto feeling tra le persone. Non si può semplicemente far sedere gli ospiti e portare il cibo. C’è voluto tempo e tanta fatica anche da parte nostra ma alla fine la formula funziona. Chi viene da noi, oggi, viene anche per quello».

A sinistra una delle batterie di cucina della Trattoria popolare. Qui sopra un normale mezzogiorno in trattoria Nella foto sotto l’ingresso del locale

La prima cosa che noti quando entri da noi è che non ci sono tavoli singoli ma solo tre lunghe tavolate. Quando il locale è pieno sei costretto a sederti accanto agli altri. Devi aver voglia di metterti in gioco e accettare di cenare di fianco a degli sconosciuti e socializzare

per cercare di far passare, anche tramite questo momento, dei valori in cui crediamo. L’idea di base è creare un luogo di incontro in cui le persone non entrano solo per mangiare ma perché si sentono parte di una comunità. Tra noi soci funziona così. Essendo in massima parte precari capita che qualcuno abbia necessità particolari – ad esempio le spese dentistiche –cui non riesce far fronte. In quel caso gli altri soci si autotassano per dare una mano. Ci piacerebbe che questo modello si allargasse ad altri soci e al quartiere». Non solo cibo La zona attorno a via Figino è popolare è sta reagendo bene alle provocazione. «Siamo quasi sempre pieni. Abbiamo anche sfondato nella comunità dei sudamericani che vengono da noi per le feste di compleanno. Il gancio è sempre commerciale – vengono da noi perché spendono relativamente poco –ma utilizziamo questi momenti per proporre altre iniziative». Quindi uno spazio aperto a presentazioni, momenti formativi – dalle società di mutuo soccorso ai progetti di solidarietà – ma anche capace di promuovere stili di vita alternativi rispetto al mainstream. «La prima cosa che noti qui da noi – continua Anna – è che non ci sono tavoli singoli ma solo tre lunghe tavolate. Quando è pieno sei costretto a sederti accanto agli altri. Devi aver voglia di metterti in gioco e accettare di cenare di fianco a degli sconosciuti. Non dico sia sem-

Serata a offerta libera La serata più particolare della Trattoria popolare è il giovedì a offerta. In pratica chi viene mangia e paga quanto vuole, senza vincoli né obblighi. «In verità ci sarebbe piaciuto non avere un listino prezzi ma far sempre decidere gli ospiti. In verità questo tipo di proposta è molto più complicata di quanto sembri. Complicata per chi viene da noi a cena che non si capacita del fatto che non ci sia un prezzo fisso, ma anche nostra perché dobbiamo essere capaci di accettare il fatto che un piatto a cui noi teniamo particolarmente non viene apprezzato dagli avventori. Anche qui ci è voluto tempo e pazienza ma , alla fine, questa ormai è una delle serate che funziona di più. E non pensate che in queste sere si incassi meno». Incassi, appunto. Visto i prezzi più che popolari vien da chiedersi come possa stare in piedi la baracca... «Qui nessuno fa questo come primo lavoro – continua Anna –. Tranne le tre persone che sono il punto di riferimento, a cui viene ga-

rantito un rimborso spese , tutti gli altri stanno qui in maniera volontaria. Fanno questo perché gli piace farlo. Perché questo è un luogo che sentono loro e quindi non importa se devono fare qualche sacrificio. Poi noi proponiamo una cucina povera, fatta di tagli alternativi di carne, legumi e verdure di stagione. Si può comunque mangiare bene anche senza scegliere filetto o gamberoni. E siamo sempre molto attenti alle quantità. Nella ristorazione si butta molto e questo fa alzare i prezzi. Facendo la spesa tutti i giorni calcoliamo le quantità in maniera molto precisa. Non avendo scarto possiamo limare i prezzi». Il cibo è solo una scusa per ritrovarsi. L’offerta culturale e sociale è una parte fondamentale del loro lavoro. «Organizziamo almeno due momenti di spettacolo o di approfondimento a settimana –conclude Anna –. Molti di noi lavorano nel sociale e cerchiamo di portare anche qui gli stimoli con cui ci confrontiamo quotidianamente. Devo dire che funziona. Sul fronte spettacoli non paghiamo mai le persone che vengono ma facciamo raccogliere offerte a cappello al termine della serata. Spesso si portano a casa più di quanto noi potremmo mai offrire». Tutto molto bello. Ma, alla fine, perché lo fate? «Perché ci piace. Ed avere un buon motivo per alzarsi la mattina».

LA SCHEDA

Cucina “povera” a prezzi modici La Trattoria popolare, riservata ai soci Arci, è aperta da martedì a venerdì a pranzo e il giovedì, il venerdì e il sabato a cena. Accanto ai giorni canonici, la Trattoria lavora molto con gruppi per momenti ad hoc e anche per catering. La Trattoria è stata aperta a luglio del 2015. Poi un incendio ha costretto quasi subito alla chiusura. Il locale ha poi riaperto i battenti a novembre delle stesso anno. I prezzi sono molto popolari visto che si può mangiare con meno di 10 euro. Il sabato è previsto anche un’aperitivo robusto, alla maniera delle vecchie latterie di una volta in cui si paga soltanto da bere. Trattoria popolare - Arci Traverso, via Ambrogio Figino 13 - tel 0239464426 Facebook Trattoria popolare marzo 2017 Scarp de’ tenis

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Franca e Marco finalmente hanno una casa di Enrico Panero

Oggi per poter accedere agli aiuti da parte delle istituzioni non si può essere una coppia e vivere separatamente. Loro non hanno mollato e ora vivono ancora insieme ma il percorso è stato difficile: «Un duro colpo alla propria dignità» 44 Scarp de’ tenis marzo 2017

«Ci siamo conosciuti tramite un’amica comune che diceva a entrambi: “Ti devo presentare una persona, secondo me andreste d’accordo” e non sbagliava: una sera del 2008 è nata la nostra storia di coppia che dura tuttora, nonostante tutto». Franca e Marco sono una coppia di cinquantenni che da poche settimane ha avuto l’assegnazione di una casa popolare. Hanno deciso di raccontarci la loro storia «Per dare speranza ad altri –spiegano –, per dire che nonostante le molte difficoltà, con pazienza e tenacia si può fare». Quando si sono conosciuti, Marco aveva appena terminato di sistemare il suo alloggio nella cintura torinese, mentre Franca da pochi mesi aveva preso casa a Torino. «Decidemmo di convivere da lei in città, quindi volentieri rifeci tutto il lavoro, smontando e trasportando le


TORINO

Franca e Marco sorridono abbracciati nel garage dove avevano stipato le loro cose in attesa di avere di nuovo una casa

Non esiste la possibilità di affrontare la condizione di senza dimora in coppia: il sistema assistenziale segue solo singoli, devono dividersi e procedere separatamente. Non solo, per ottenere la residenza devono dichiarare di non essere più una coppia

mie cose» racconta Marco, che in quel periodo stava lavorando presso una ditta di trasporti ma con una formazione da falegname. «I miei genitori hanno avuto per 25 anni un negozio di cornici e falegnameria». Franca lavorava in un call center. La discesa Poco più di un anno dopo Marco perde il lavoro, resta disoccupato qualche mese, poi è assunto in un’azienda che produce ghiaccio, dove riesce addirittura a utilizzare la sua formazione di falegname creando sculture di ghiaccio per alcuni eventi. Non per molto. Anche quel lavoro finisce e allora Marco inizia a collaborare con alcuni amici falegnami che gli affidano lavori prima frequenti poi via via sempre più saltuari. Intanto Franca si rompe un piede e dopo l’assenza dal lavoro per un paio di mesi la società di call center le comunica che il contratto non sarà più rinnovato. Reagisce provando varie cose, si forma per attivare da casa una vendita di olio che però dà molto lavoro e poche entrate. L’economia familiare inizia a vacillare e con essa la regolarità nel pagamento dell’affitto. Allora provano a lavorare insieme, girano tutto il giorno per vendere contratti telefonici per una società, ma dopo un po’ lasciano: in un mese di lavoro assiduo, in due guadagnano 250 euro. Il 2013 se ne va così, continua ricerca e tentativi, ma la crisi ha colpito duro ed è sempre più difficile trovare lavoro. I ritardi nel pagare l’affitto si dilatano e, nonostante la disponibilità del padrone di casa, la discesa continua fino allo sfratto, nel marzo 2014. Toccare il fondo Marco smonta ancora tutto. Grazie ad alcuni amici riescono a stipare tutta la loro roba in un garage e trovano ospitalità da un’amica per sei mesi. «A quel punto decidiamo di rivolgerci ai servizi sociali e iniziamo a conoscere un mondo a parte, spesso degradante – raccontano –. Scopriamo che per avere accesso al percorso dell’emergenza abitativa ed essere presi in carico dai servizi non ci si può più appoggiare ad amici, bi-

sogna andare nei dormitori, non si deve avere reddito». Ma la cosa per loro più drammatica è scoprire che non esiste la possibilità di affrontare tutto ciò in coppia: il sistema assistenziale segue solo singoli, devono dividersi e procedere separatamente. Non solo, per ottenere la residenza simbolica di “casa comunale” devono dichiarare di non essere più una coppia: «Una violenza alla propria dignità, che aggiunge disagio al disagio» sottolineano Marco e Franca, che raccontano lo sconforto del separarsi la sera per andare in dormitori diversi. Durante il giorno, infatti, ogni tanto riuscivano a trascorrere qualche ora insieme: Marco, grazie alla sua capacità di montare e allestire, facendo spazio tra i mobili stipati e installando un soppalco, era riuscito a ricavare un piccolo spazio nel garage dove poter mangiare qualcosa insieme e provare a immaginare un futuro. «È stato l’unico punto di riferimento nel disorientamento di quel periodo» ricordano. Franca trascorre quasi un anno nei dormitori, un po’ meno Marco, che riesce a trovare appoggio in una parrocchia del quartiere dove vivevano prima in cambio di qualche lavoretto di manutenzione. La risalita Dopo circa un anno tra dormitori, mense e difficoltà varie, l’assistente sociale segnala loro un’associazione

cittadina (Acmos) che offre alloggio temporaneo a coppie in difficoltà. Sei mesi, prorogabili per altri sei; si riprende fiato, si ritorna seppur temporaneamente a una “normalità” insperata. Mentre il termine del secondo semestre si avvicina, giunge l’assegnazione della casa popolare: «Ci è andata bene, perché altrimenti correvamo il rischio di una nuova separazione forzata». L’avere di nuovo una casa propria è emozionante. Pur tra qualche difficoltà di carattere burocratico e un po’ di ansia sulla capacità di mantenerla, c’è l’entusiasmo di poterla sistemare e andare ad abitarla. Ora Marco è impegnato nel laboratorio di comunicazione sociale Fuori campo e collabora alla manutenzione della parrocchia, con buone prospettive di continuità. Franca invece, tramite i servizi del Comune, ha lavorato con la formula del lavoro accessorio in un’associazione cittadina, partecipa a un laboratorio artistico in forma di tirocinio e ha la possibilità di attivare una borsa lavoro. Sognando di poter prima o poi riuscire ad avviare un laboratorio di bigiotteria, il suo grande hobby. «È stato pesante, ma ce l’abbiamo fatta» dicono sorridendo Franca e Marco, precisando che la casa popolare non è un punto di arrivo ma un nuovo inizio, per lasciarsi alle spalle un periodo difficile e ripartire: «In futuro, tra 10-15 anni, ci piacerebbe poter vivere con un po’ di verde, con qualche animale, chissà».

I DATI

Sono donne il 14% dei senza dimora, solo una piccola parte non vive sola Secondo la ricerca dedicata alle Persone senza dimora del 2014 realizzata da Istat, fio.PSD e Caritas Italiana le donne sono il 14,3% della popolazione degli homeless. Poco meno della metà sono italiane (46,1%), l’età media è pari a 45,4 anni e vivono la condizione di senza dimora in media da 2,7 anni. Oltre un quarto (28%) dichiara di lavorare per 15 giorni al mese, guadagnando 329 euro. Le donne senza dimora che vivono da sole sono il 62,9%. In crescita le donne che hanno vissuto come unico evento la separazione dal coniuge o dai figli (24,7%). marzo 2017 Scarp de’ tenis

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VERONA

Suor Raffaella e una volontaria nel corso di una delle lezione di italiano per gli ospiti de Il Samaritano

Suor Raffaella insegna parole che sanno di pane di Elisa Rossignoli

Inizio 2007. La casa Il Samaritano, della Caritas di Verona, ha da poco iniziato la sua opera di accoglienza per persone senza dimora. Tra gli ospiti c’è un buon numero di stranieri. Una domanda comune inizia ad emergere e si esprime in una richiesta: imparare l’italiano. La direzione chiama suor Raffaella, religiosa canossiana con una lunga esperienza di insegnamento in Italia e all’estero, e le affida il compito di rispondere a questo bisogno. E lei comincia. Prima da sola, poi con l’aiuto di volontari. Nasce così, a piccoli passi, la scuola di italiano de Il Samaritano.

La scuola non è soltanto un luogo dove si impara la lingua. È molto di più: è il primo attimo che incarna l’accoglienza 46 Scarp de’ tenis marzo 2017

Parole, prima accoglienza «È chiaro a tutti quanto sia importante imparare a capire e ad esprimersi in un mondo nuovo e sconosciuto, con codici di comportamento a volte indecifrabili – racconta suor Raffaella–. Ma la scuola non è soltanto il luogo in cui si impara la lingua. Èmolto di più: è il primo momento che incarna l’accoglienza che siamo chiamati a realizzare. Non diamo loro solo parole, ma anche ciò di cui più hanno bisogno: sentirsi accolti, valorizzati per ciò che sono. Sentire che in questo mondo possono trovare il loro posto. Che anche se è difficile ce la possono fare. Ne hanno bisogno come il pane, come ne avremmo anche noi se ci trovassimo nella loro situazione». Inizia con un piccolo gruppo e trova dimora nella sala comune della Casa, poi nel centro diurno, e man mano che gli studenti aumentano si aggiungono altri insegnanti. Tutti e sempre volontari. La scuola è già a

tutti gli effetti uno dei servizi della Casa e da allora non ha mai smesso di esserlo. Con il 2011 e il precipitare della situazione in Libia, Il Samaritanoinizia l’accoglienza ai richiedenti asilo. E la scuola cresce. In quel periodo, chi passava nel cortile de Il Samaritanoil pomeriggio verso le 15,30 si ritrovava intorno uno sciame di biciclette in arrivo. E poi quaderni, zaini e, orgogliosamente mostrato, il libro, scritto appositamente da suor Raffaella per loro, componendo il materiale didattico creato in una vita di insegnamento. Da dieci anni la scuola, dopo diverse migrazioni dovute all’aumento degli studenti, è ospitata nell’ex scuola delle Orsoline nel quartiere di Veronetta (cuore multietnico della città), alcuni servizi in altre sedi (tutoraggio allo studio pomeridiano) e alcune collaborazioni con i Cpia della provincia di Verona, per gli ospiti de Il Samaritanoche non risiedono più in struttura. Un servizio organico Suor Raffaella è ancora la responsabile della scuola, e ogni mattina dalle 9 alle 12 è in classe. Come il primo giorno. Con lei, instancabile, tutto il gruppo degli insegnanti dimostra ogni giorno una disponibilità, una passione e una fedeltà che lasciano senza parole. E, a sentir loro, è più quello che imparano dai loro studenti che quello che trasmettono. «Che sembra una frase fatta –dice ancora suor Raffaella –, in realtà, è uno degli scherzi dell’accoglienza: funziona come uno specchio. E il risultato è che le differenze fanno meno paura, anzi, diventano una piacevole normalità». Certo, ora il servizio si è strutturato e ampliato e procede con l’aiuto di due operatrici e una ventina di insegnanti. Gli studenti sono più di settanta. Ma lo spirito non cambia. Sono gli studenti stessi a dirlo, anche quando hanno terminato il percorso e tornano a salutare e ringraziare, nonostante si siano trasferiti in altre città e in altri paesi. Lo dicono ancora con le loro parole, parole italiane, che hanno il sapore di pane.


FIRENZE

Molto sentita la cerimonia di addio ad Adam Koziol il senza dimora morto di freddo sul lungo Arno

Basta morti in strada L’impegno di Caritas per i senza dimora di Francesco Vedele

Il 18 gennaio scorso erano in tanti nella parrocchia del Santissimo Crocifisso a Monticelli di Firenze, per dare l’ultimo saluto ad Adam Zbigniew Koziol, l’uomo di origine polacca trovato senza vita nei giardini del lungarno Santarosa. A celebrare la funzione, il parroco don Darek Jonski e don Fabio Marella, vicedirettore di Caritas di Firenze. Da due anni Adam era infatti seguito dalla Caritas parrocchiale di Monticelli che tutte le sere offre un pasto caldo a 30 persone, un servizio doccia e la possibilità di un cambio di indumenti, che vengono lavati da alcuni volontari. Purtroppo però quest’anno, Adam, che soffriva di

La morte in strada di Adam, un senza dimora seguito dai servizi Caritas, dimostra quanto sia difficile aiutare

una grave dipendenza da alcol, si era rifiutato di essere accolto in uno dei Centri per l’emergenza freddo della Caritas, dove aveva trascorso gli inverni passati. Vite da recuperare «La vita per strada – afferma Andrea Gori, vicedirettore della Caritas diocesana – è spesso conseguenza di una difficile storia personale in cui si sommano diversi elementi: disgrazie, errori, crisi familiari, malattie, problemi psichiatrici. Dietro all’apparente rifiuto di alcuni di essere aiutati, si nasconde la paura di essere delusi ancora una volta. Tutto questo è sintomo di grande infelicità e di un profondo senso di rassegnazione. C’è grande domanda di un futuro diverso che non trova risposta e che può essere restituito ad ognuno insieme al rispetto, alla comprensione e all’aiuto materiale». Per questo da quindici anni la Caritas diocesana è in prima linea

nell’aiuto e nell’assistenza a chi vive per strada con il progetto Accoglienza invernale, che oltre al pernottamento, alla prima colazione e alla cena, offre agli ospiti l’opportunità di entrare in contatto con la rete delle realtà che si occupano di persone in difficoltà e iniziare un percorso di reinserimento sociale, lavorativo e abitativo. «Tra le strutture messe a disposizione dalla Caritas per l’accoglienza notturna –continua Andrea Gori – vi è la Foresteria Pertini, a Sorgane, per soli uomini e con circa 90 posti disponibili, in accordo con il Comune di Firenze che è proprietario dell’immobile, e quella dei Salesiani di via Gioberti, con 15 posti, per sole donne. A Scandicci, sempre in collaborazione con i salesiani abbiamo inoltre aperto un centro per l’emergenza freddo per uomini, con 24 posti letto, nei locali della parrocchia di Santa Maria Madre della Chiesa a Torregalli. Un’esperienza quest’ultima di grande umanità, perché vede ogni sera una famiglia della parrocchia alternarsi a cucinare per i senza tetto e rimanere a cena con loro». L’accoglienza invernale Ma l’attività della Caritas a favore degli ultimi non si ferma qui. Il progetto Accoglienza invernale prevede, infatti, anche uno sportello di prenotazione ingressi in via Faentina, per uomini, e uno per donne, al centro di ascolto diocesano. Tra i servizi offerti dal progetto anche la vaccinazione antinfluenzale gratuita, grazie ad una collaborazione con l’Usl. Ad eseguirla, all’ambulatorio Stenone, medici e personale specializzato, che ogni settimana si reca nei centri per l’emergenza freddo della Caritas. Nel caso le temperature dovessero ulteriormente calare, la Caritas sta valutando di tenere aperte le sue strutture, in particolare quelle gestite in collaborazione con il Comune, anche durante il giorno. «Le nostre porte – conclude Andrea Gori – sono aperte a tutti. Nelle nostre strutture ci sono ancora letti disponibili e non è previsto alcun problema di esaurimento posti, per tutto il periodo dell’accoglienza invernale». marzo 2017 Scarp de’ tenis

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Pablo e la strada: «In cammino ho trovato Dio» di Cristina Salviati

Pablo viene dall’Argentina e sta viaggiando a piedi dalla Francia a Roma. Da solo e contando sull’aiuto di chi incontra giorno dopo giorno. Poi andrà anche a Gerusalemme e a Santiago di Compostela. Prima di tornare al suo Paese ed entrare in seminario 48 Scarp de’ tenis marzo 2017

Pablo ha vent’anni, viene dall’Argentina e sta girando a piedi l’Italia. Un pellegrinaggio di ringraziamento dopo aver compreso a fondo la sua missione. È arrivato alla Caritas di Vicenza una sera di febbraio chiedendo ospitalità, e dopo la notte passata al ricovero notturno Casa San Martino si è presentato a Scarp Vicenza accompagnato da Paolo, volontario della redazione. La curiosità sul suo pellegrinaggio era tanta così gli è subito stata proposta un’intervista. La storia di questi ultimi tre anni era lì, pronta per essere raccontata e mescolando spagnolo e italiano Pablo ci ha intrattenuti a lungo. Finite le superiori nel 2014, aveva deciso di entrare nel seminario della sua città, Mendoza, e diventare prete. Qualche settimana prima però, aveva conosciuto la Fraternità monastica di Cristo Orante. Un ordine nato una ventina d’anni fa e il cui carisma è mutuato sia dal Carmelo che da San Benedetto. La regola è quella dell’ora et labora, ma vi si tiene anche un’intensa attività apostolica.


VICENZA niere, come muratore e nella gastronomia del fratello. Messi da parte un po’ di soldi e dopo averne parlato con padre Diego, Pablo è partito per l’Inghilterra, allo sbaraglio perché non sapeva nemmeno una parola di inglese e senza conoscere nessuno in quel Paese straniero.

A sinistra Pablo con le credenziali del cammino di S. Antonio. Qui sopra l’accoglienza del pellegrino nella redazione di Vicenza

Alla Gran Certosa di Grenoble ho vissuto come i monaci, seguendo i ritmi scanditi dalla preghiera e dal silenzio. Poi una sera, durante una lectio divina sul Vangelo di Marco, laddove si parla della scelta dei 12 apostoli, ho sentito finalmente chiara la mia chiamata. Gesù mi ha rubato il cuore definitivamente e io mi sono arreso

È un luogo di spiritualità che mescola elementi occidentali e orientali. «Si usano le candele e gli incensi, ma anche le immagini per pregare e meditare». Ritrovare se stesso «Ho conosciuto lì la vera bellezza di Gesù – racconta Pablo – e la Scrittura mi ha letteralmente catturato, grazie alla lectio divina . Soprattutto però devo questa prima conversione profonda a un monaco in particolare, Diego De Jesus che oggi è diventato il mio padre spirituale. Rispetto al progetto di ingresso in seminario ero già molto cambiato: la mia fede di poche settimane prima era superficiale e non aveva incontrato il vero insegnamento di Gesù. Padre Diego ha continuato a consigliarmi e ad aiutarmi nel discernimento. Finita l’estate mi sentivo pronto per entrare in monastero e ho chiesto al priore di poter trascorrere un periodo nella comunità». A Pablo però è stato negato il permesso: «Troppo giovane – gli ha detto il priore – devi sperimentare, capire bene qual è la tua strada». Il giovane si è così iscritto a filosofia, studiando e frequentando i coetanei, anche le ragazze. «Studi che mi aiutavano nel mio percorso di discernimento – racconta Pablo –. Ma dopo una manciata di mesi ho lasciato tutto, compagni, studi e università. Mi piaceva studiare filosofia, ma non abbastanza». A questo punto è intervenuto il padre di Pablo invitandolo a lavorare, mentre continuava il suo percorso spirituale. Per un anno e mezzo ha lavorato come giardi-

«Era l’aprile del 2016 – ricorda –. Avevo appena compiuto vent’anni e arrivai a Oxford, lavorando e scoprendo quanto gli inglesi siano diversi dagli argentini. Li trovavo strani e molto distanti da me». Pablo in Inghilterra ha lavorato come cuoco ma il tormento interiore continuava, come la preghiera e il tentativo di comprendere bene la sua missione. Dopo 5 mesi poté mettere a frutto il suo piano e visitare diversi monasteri d’Europa. A un certo punto gli capitò l’occasione di vivere alla Gran Certosa vicino a Grenoble, in Francia. «Un vero privilegio – dice Pablo –. Non è facile entrare in quel monastero che è composto sia da fratelli che lavorano e sia di clau-

sura. E dopo un mese che ero lì mi hanno concesso proprio di fare un’esperienza proprio con i padri che vivono rinchiusi nel cuore dell’antico convento. Ho vissuto come quei monaci, seguendo i ritmi scanditi dalla preghiera e dal silenzio. Poi una sera, durante una lectio divina sul Vangelo di Marco, laddove si parla della scelta dei 12 apostoli, ho sentito finalmente chiara la mia chiamata. Gesù mi ha rubato il cuore definitivamente e io mi sono arreso». Presto in seminario Ora Pablo è sicuro di quello che vuole, tornare a Mendoza ed entrare nel monastero da cui era partito, ma prima, come ringraziamento per il percorso interiore fatto ha deciso di allungare il suo tempo in Europa e fare un lungo pellegrinaggio da Trieste a Roma a piedi, vivendo alla giornata e lasciandosi aiutare da chi, come i collaboratori di Scarp Vicenza, avrà voglia di conoscerlo. «Ho intenzione di fare il turista per un altro po’ di tempo – conclude – voglio visitare Gerusalemme e poi fare un pezzo del cammino di Santiago. Poi tornerò a casa e stavolta sono sicuro che il priore della Fraternità a Mendoza mi accoglierà a braccia aperte».

IL FENOMENO

Crescono sempre più i pellegrini in viaggio sui cammini della fede Il Cammino a Santiago de Compostela è una delle tre direttrici di pellegrinaggio del mondo cristiano occidentale. I pellegrini che dall’Italia andavano verso Santiago percorrevano a ritroso la Via Francigena, un fascio di strade che dalle regioni del nord ovest dell’Europa, raggiungevano Roma. Una via che è tuttora utilizzata per compiere il pellegrinaggio dall’Europa nord occidentale e dal nord Italia a Roma. Una variante di percorso della via Francigena è la via degli Abati che collega Pavia con Pontremoli (Massa e Carrara) attraverso Bobbio (Piacenza). Altra grande direttrice di pellegrinaggio era la via Micaelica, o via dell’Angelo, verso il Santuario di San Michele Arcangelo nel Gargano. Questa via era utilizzata per i pellegrinaggi a Roma provenienti dal sud Italia e dai Paesi del basso Mediterraneo, come anche per il pellegrinaggio a Gerusalemme. marzo 2017 Scarp de’ tenis

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Anziani, evitare il Pronto soccorso per curare meglio di Angela De Rubeis

A Rimini attivata la Mappa delle Fragilità, un database raccoglie le persone con fragilità fisica che sono così costantemente monitorate dai servizi che programmano interventi a domicilio. «Esclusi i casi di vera emergenza, gli anziani si curano meglio in ambienti che conoscono» 50 Scarp de’ tenis marzo 2017

Una visita al Pronto soccorso non è da annoverare tra le migliori esperienze della vita, ma capita. E, quando capita bisogna affidarsi alla fortuna: fortuna di non essersi fatti troppo male e di ricadere tra i codici dai colori meno accesi (verde e giallo) e fortuna che non ci siano troppe persone davanti a te, altrimenti l’esperienza al Ps può trasformarsi in un piccolo calvario. Come è successo a Lecco dove, lo scorso 17 gennaio, una signora di 78 anni con sospetta ischemia transitoria al braccio e alla gamba ha atteso dieci ore prima di essere visitata. Allora ci si chiede: è normale che un anziano (parliamo di over 75) debba attendere per così tanto tempo seduto su una panca, una sedia a rotelle oppure una barella? L’idea di una corsia preferenziale per gli anziani che arrivano al Pronto soccorso è del tutto campata in aria? Abbiamo provato a chiedere cosa succede nelle sale d’attesa degli ospedali di Rimini e Riccione, e tra bocche cucite e mezze cose dette si capisce che qualcosa già si fa. Ma sta al buon cuore del medico, degli in-


RIMINI recenti piani sanitari e nella normativa sanitaria nazionale e della Regione Emilia Romagna, sta diventando sempre più esteso», spiega la dottoressa Silingardi.

A Rimini attivata una Mappa della Fragilità per evitare che troppe persone anziane siano costrette a rivolgersi ai Pronto soccorso

Personale appositamente formato, contatta periodicamente le persone inserite in uno specifico database e attraverso una intervista valuta quale intervento possa essere di supporto alla persona in condizioni di fragilità. Gli interventi al domicilio possono essere di tipo sanitario o sociale

fermieri o addirittura degli altri pazienti far passare davanti alla fila una persona anziana. Perché non mettere questo buon cuore a sistema? Un’esperienza simile esiste già, all’Ospedale dell’Angelo a Mestre e al Civile di Venezia. Qui, dall’estate del 2014 ai consueti codici verdi, gialli e rossi è stato aggiunto quello color argento dedicato agli over 75. Obiettivo del codice argento è evitare che persone fragili vengano esposte a disagi e attese che potrebbero essere pericolose per la loro salute. Il Triage di solito non sbaglia «Va tenuto conto che la priorità dell’accesso al Ps avviene a seconda del Triage – spiegano all’Ausl Romagna –, cioè a seconda della valutazione che viene fatta del paziente quando accede al Pronto soccorso, e in tale valutazione gli operatori tengono conto dell’età del paziente stesso, per cui il paziente anziano ha già una caratteristica in più». Sulle forze messe in campo per gli anziani ci parla Elisabetta Silingardi, direttore dipartimento cure primarie di Rimini (Ausl Romagna), sciorinando una serie di iniziative che vogliono evitare l’arrivo dello stesso anziano al Ps puntando, quindi, sulla prevenzione e sull’assistenza domiciliare. «C’è tutto un mondo sanitario, legato alla prevenzione e alla presa in carico domiciliare, per gli anziani, anche esterno e precedente all’accesso in ospedale e in particolare in Pronto soccorso. Un mondo che negli ultimi anni, in virtù della tendenza a territorializzare le cure contemplata nei più

Che succede a livello locale? Da anni è attiva una strettissima e proficua collaborazione tra l’Azienda (prima Ausl di Rimini ora Ausl Romagna), i comuni della provincia riminese, suddivisi nel distretto di Rimini e in quello di Riccione e la rete del volontariato. Una collaborazione che ha portato alla creazione della cosiddetta Mappa delle Fragilità. Si tratta di un vero e proprio database, aggiornato puntualmente, in cui sono inseriti gli anziani e più in generale le persone con situazioni di fragilità fisica o sociale. Cosa accade alle persone che fanno parte della Mappa delle Fragilità? Personale appositamente formato, contatta periodicamente le persone inserite nel databasee attraverso un’intervista telefonica, valuta quale tipo di intervento possa essere di supporto alla persona in condizioni di fragilità. Gli interventi a domicilio possono essere di tipo sanitario o sociale. Possono essere anche a

bassa soglia e con utilizzo anche di operatori del terzo settore. Ci sono poi le esperienze di telesoccorso e teleassistenza. Si tratta di progetti specifici? Sì, la continua implementazione di questi progetti sta procedendo accanto alla crescita della rete delle Case della Salute sui territori e grazie a contatti sempre più stretti con i medici di famiglia, che rappresentano la prima interfaccia col sistema sanitario nazionale. Ciò ha consentito di sviluppare progetti per la prevenzione attiva, come ad esempio gli ambulatori per la gestione integrata delle patologie croniche, in particolare diabete o scompenso cardiaco. I pazienti segnalati dai medici di famiglia vengono sottoposti a visita per valutare le loro condizioni e per avviarli, se necessario, a terapie a più alta intensità. Si tende quindi ad evitare che l’anziano ci arrivi al Pronto soccorso... Il sistema della presa in carico territoriale è un processo in continua evoluzione che aggiunge ogni giorno un tassello per favorire il mantenimento dell’anziano affetto da pluripatologie croniche nel suo ambiente di vita.

LA PROPOSTA

Meno code al Pronto soccorso? Valorizzando i medici di famiglia «Per evitare code in Pronto soccorso – spiegano alla Federazione italiana dei medici di famiglia (Fimmg) – occorrerebbe che i pazienti del medico di famiglia potessero fruire di macchine per radiografie, ecografi, elettrocardiografi per diagnosi in giornata e che noi medici del territorio avessimo fasce riservate, almeno nelle agende di alcune strutture, da dedicare a chi gli indirizziamo. Solo così i pazienti con codice verde, non urgenti, verrebbero da noi e non in ospedale per una diagnosi relativa a un dolore toracico o un ittero. Posto che l’attrezzatura per fare diagnosi ce l’ha l’ospedale». La posizione qui è del tutto evidente. Se i medici di famiglia, figure che - tra le altre cose - sono quelle in prima linea nel rapporto con gli anziani, fossero dotati di alcuni strumenti relativi alla diagnostica forse anche l’accesso al Pronto soccorso sarebbe limitato, soprattutto nei cosiddetti “codici verdi” quelli, cioè, che registrano i maggiori tempi d’attesa. marzo 2017 Scarp de’ tenis

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Una Speranza, una casa per anziani e disabili

Con le sue facciate dipinte con colori pastello pare volersi far notare e pare voglia ergersi sopra i tetti delle case. Conquistare la scena e tendere la mano al cielo che lo sovrasta. È un sogno diventato realtà: si chiama centro Una Speranza. Si tratta di un centro diurno e residenziale per disabili inaugurato lo scorso 17 dicembre a Sala Consilina, nel Vallo di Diano in provincia di Salerno. Un

di Stefania Marino

progetto di vita partito da lontano, coltivato giorno dopo giorno, anno dopo anno, da un uomo, da un padre, che guardando oltre il presente vede all’orizzonte una struttura residenziale dove poter inserire suo figlio insieme ad altre persone con disabilità. Lui si chiama Gianfranco Santopaolo e quando dalla Calabria arriva in terra salernitana, porta

Inaugurato lo scorso dicembre a Sala Consilina, il nuovo centro diurno e residenziale per anziani e disabili è nato dal sogno e dagli sforzi di un genitore. «Una casa aperta e accogliente dove il limite e la diversità sono vere espressioni della vita» 52 Scarp de’ tenis marzo 2017


SUD

Un momento dell’inaugurazione del centro Una Speranza di Sala Consilina. Qui sopra la struttura che al momento ospita una ventina di utenti

La nuova struttura ospita la sala mensa, le cucine e i laboratori. Ma anche un’area sanitaria per la fisioterapia e un’area residenziale pensata per il “dopo di noi”. Ma anche per il “con noi”. Perché qui la parola chiave è la condivisione

quella giusta cocciutaggine utile per pensare, progettare e realizzare quello che oggi è diventato un edificio di 1.800 metri quadrati. Una tenacia che lo ha fatto rialzare ogniqualvolta le difficoltà, le lungaggini burocratiche, pareva avessero oscurato il suo sogno. Un sogno diventato realtà «In tanti momenti mi sono scoraggiato ma non ho mai perso la speranza», racconta Gianfranco che incontra sul suo cammino don Vincenzo Federico e nel 1997 insieme ad altre famiglie del territorio costituisce l’associazione Una Speranza onlus. Nel 2001 nasce l’esperienza del centro diurno ospitato in sedi temporanee sempre a Sala Consilina. Un’esperienza che mira però alla costruzione di un proprio centro. Dopo qualche anno, viene acquistato il terreno e nel 2012 c’è la posa della prima pietra. Alla Fondazione della Comunità Salernitana, verrà costituito il fondo Una Speranza.

Luca, la presidente della Fondazione della Comunità Salernitana Antonia Autuori, il sindaco di Sala Consilina Francesco Cavallone. C’è tanta gente comune. E naturalmente loro, gli ospiti del centro Una Speranza insieme alle loro famiglie. Il sogno si è concretizzato. Qui al pianterreno di questo edificio di quattro livelli, da dicembre, l’associazione Una Speranza onlus ha trovato i suoi nuovi spazi. C’è la sala mensa, ci sono le cucine e i laboratori. Intanto i lavori proseguono perché il domani significa il completamento anche degli altri piani, con l’area sanitaria per la fisioterapia, con l’area resi-

denziale per il “dopo di noi”. E anche per il “con noi”. Perché qui la parola chiave è la condivisione. E questa pare essere la risposta alla domanda che Gianfranco Santopaolo si pose venti anni fa «i nostri figli avranno un futuro dopo di noi?» Don Vincenzo Federico, presidente dell’sssociazione Una Speranza, insieme a Gianfranco Santopaolo, ha seguito ogni fase di realizzazione della struttura. «È una grande opera – dice Don Vincenzo Federico – una casa, dove il limite e la diversità sono espressione della vita». Un gesto concreto di speranza.

IL PROGETTO

Un bel luogo dove ritrovarsi e vivere: «Reale opportunità di integrazione» Marianna De Vita, psicologa, è la responsabile del centro Una Speranza di Sala Consilina. Qual è l’importanza sul territorio dell’apertura del Centro? Si tratta di una reale opportunità di integrazione per le persone disabili e per le rispettive famiglie. Nel contesto sociale e relazionale dà la possibilità di credere ad un dignitoso “dopo di noi”, questo perché la disabilità non diventi una gestione solitaria tra le mura domestiche. La vita dentro ma anche la vita fuori dal centro... L’associazione Una Speranza ha acquistato anche il terreno che circonda la struttura; ci sono gli ulivi, ci sono caprette, galline, api. E grazie a ciò, sulla tavola arrivano olio, miele e uova. Ogni mattina, qui in via Cappuccini Sottano a Sala Consilina, arrivano con il pulmino 21 persone, 21 volti, 21 storie. Si arriva alle 8 e si va via alle 17.

«La Fondazione – si legge sul sito web – diventa responsabile del progetto e intermediaria di azioni filantropiche importanti che hanno contribuito alla realizzazione di questa straordinaria opera del territorio valdianese».

Come si svolge la vita quotidiana? Dopo un primo momento di accoglienza da parte di operatori e volontari, gli ospiti del centro si accingono a trascorrere la loro giornata impegnati in attività di laboratorio, diversificate in base alle proprie abilità. Realizzano, completamente a mano, oggetti in argilla, carta riciclata e pirografie, oppure si occupano di agricoltura, olivicoltura e apicoltura. C’è poi la pausa pranzo a cui segue un momento di relax che favorisce piacevoli e significativi momenti di socializzazione.

I lavori proseguono e il 17 dicembre scorso, in occasione delle festività natalizie, si aprono le porte del centro Una Speranza. C’è il vescovo della Diocesi di TeggianoPolicastro monsignor Antonio De

Un luogo aperto e ricco di stimoli... La presenza di operatori, volontari ed amici fa sì che l’armonia sia l’elemento principale del centro. Significativa è poi la realizzazione da parte degli ospiti delle bomboniere solidali, uno strumento che diventa anche promozione delle attività svolte ogni giorno. marzo 2017 Scarp de’ tenis

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aforismi

POESIE

di Emanuele Merafina

Siamo fatti così Quando il sole sarà fatto di mare, quando il mare sarà fatto di sole noi potremo sperare e cantare. Quando il vento sarà fatto di calma e il suo soffio leggero ci sarà di sollievo noi potremo suonare e ballare. Se la luna scendesse per parlare un po’ con noi ci direbbe di cambiare ma noi non lo faremo mai. Siamo fatti così, il nostro paradiso è qui in mezzo ai rumori della vita. Con forza saliremo ogni salita. Siamo fatti così ed anche il nostro inferno è qui. Con Dio che ci tiene per la mano ma nell’altra ci fumiamo una Marlboro e viviamo con la speranza in una mano sbagliando e poi chiedendo perdono. E così viviamo. Se le stelle poi non erano belle di sicuro non si chiamavano stelle e sul blu stonavano, non brillavano. Se il mattino non raggiungeva la notte, se la notte non avesse raggiunto il mattino oggi sarebbe stato un casino. Anche se Dio scendesse per parlare un po’ con noi ci direbbe che lui esiste ma noi non lo crederemmo mai. Siamo fatti così, il nostro paradiso è qui in mezzo ai rumori della vita. Con forza saliremo ogni salita, siamo fatti così, ed il nostro inferno è qui. E viviamo, con la speranza in una mano sbagliando e poi chiedendo perdono. Fabio Schioppa

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Vento di primavera La voce del vento. Come essere in una forza assente. La voce del vento che mi solleva accarezzandomi i capelli, mi avvolge tutto. Un manto mi copre la voce del vento avvolta da un mio desiderio di vita. Un amico assiduo che fischia nelle mie orecchie, che mormora in silenzio sibili in sintonia con il rumore assordante delle auto. La mia voce in contrasto con il vento che fugge ora, appena cessa con grande furia ricomincerà di nuovo. Gaetano “Toni” Grieco

Ozio creativo Il signor ozio è il padrone dei vizi La spia La spia è caduta nella trappola di un nobile inganno

Il giro del cielo Mi basterà sentire la tua voce e sarai il diapason l’alta nota, il denominatore mio comune. Allora potrò passeggiare nelle profondità degli abissi sulle creste onde del mare e mi parrà come una nota acuta di percorrere il giro del cielo. Mino Beltrami

Perdona Perdona per vedere rinascere un sorriso sul volto dell’inverno e su ogni triste viso. Perdona per potere ben viver, ben morire e poter un bel giorno felicemente dire: sono goccia di vita, seme di speranza son germoglio di stelle e alito di danza. Perdona follemente, divino è il perdono, è dell’amor la schiuma e d’un cuor lieto il dono. Perdona per sostenere il peso degli affanni e rendere leggero il fardello degli anni. Perdona perché il cielo tutt’intero ci perdoni e dei cuori divenga un bel nuziale velo. Perdona per rivedere fiorire i girasoli dove la morte stende le lugubri sue tende. Perdona per ascoltare i falchi e le colombe in uno stesso coro cantar su un ramo d’oro.

L’idea di un giovane volontario della Ronda della carità di Milano: Pietro Pizzichemi una App contro lo spreco alimentare


VOCI DALL’EUROPA

Voci di italiane emigrate in Scozia, il teatro ci ricorda chi sono i migranti

di Ronnie Convery

Nel mondo post-Brexit e post-Trump è sempre più frequente sentir parlare della costruzione di muri. Muri nuovi. Muri alti. Muri costruiti per dividere. Ma l’arte rimane una potente arma per abbattere i muri e per opporre resistenza alle false ideologie. Il giorno in cui il presidente Trump ha firmato il decreto per la chiusura dei confini statunitensi ai rifugiati siriani, ai musulmani e ad altri “nemici dello Stato”, una storia di accoglienza e integrazione è stata invece raccontata sul palcoscenico di un teatro milanese, Piccolo di nome, ma di grande prestigio. Nel foyer del Teatro Studio Melato di Milano, una mostra dal titolo We are all immigrants, proponeva l’unica risposta possibile alle tendenze razziste di un nuovo populismo anti immigrato che sta avanzando. La mostra faceva da introduzione A Bench on the Road, spettacolo che raccontava la storia delle donne italiane immigrate in Scozia nel corso dell’ultimo secolo. Una storia bellissima di muri trasformati in ponti.

scheda Ronnie Convery, nato nel 1965, è giornalista, scrittore, personaggio televisivo e traduttore in UK. È stato uno dei pionieri per le nuove connessioni culturali tra Scozia e Italia. Ronnie mostra un particolare interesse per emigrazione, religione e scambi culturali, e contribuisce sui media di entrambe le nazioni.

Immigrazione al femminile Il titolo si riferisce alla panchina che simbolicamente diede riposo a molti italiani, in marcia tra Barga in Toscana e Picinisco nel basso Lazio, in fuga dalla povertà e in cerca di una vita nuova e più degna per i loro figli. La rappresentazione di Milano è stata l’ultima di una tournée iniziata in Gran Bretagna. Lo spettacolo è stato definito da The Times di Londra “una boccata d’aria fresca che offre una prospettiva esclusivamente femminile sull’immigrazione”.

Gli italiani nel Regno Unito durante la Seconda Guerra Mondiale vennero additati come enemy aliens, deportati come delinquenti, i loro beni confiscati. E oggi? Oggi assistiamo nuovamente alla regressione dovuta alla paura. Si vogliono alzare muri, si vogliono cacciare le persone in nome del nazionalismo

Un momento dello spettacolo A Bench on the Road

Per Laura Pasetti, scrittrice e ideatrice dello spettacolo «Il teatro è simile a un pulpito. Il momento storico che stiamo vivendo è particolarmente difficile: Donald Trump chiude le frontiere e Theresa May si separa dall’Europa. Lo spettacolo vuole mettere in evidenza una triste verità: l’uomo non impara mai dalla storia e, spinto dalla paura, è pronto a ripetere gli stessi errori, immemore delle conseguenze che ne derivano. Gli italiani durante la Seconda Guerra mondiale vennero additati come enemy aliens, deportati come delinquenti, i loro beni confiscati. E oggi? Oggi assistiamo nuovamente alla regressione dovuta alla paura. Si vogliono alzare muri, si vogliono cacciare le persone in nome del nazionalismo». Contro tutti i muri Nello spettacolo le donne scozzesi si chiedono cosa vengano a fare gli italiani nel loro Paese, quando non c’è quasi da mangiare neppure per loro. «Anche noi oggi – prose-

gue l’autrice – ci domandiamo perché gli immigrati vengono nel nostro Paese a portare via il poco lavoro che c’è. Finché non impareremo dalla storia, la storia si ripeterà dolorosamente e ineluttabilmente».

Sergio Escobar, direttore del Piccolo, non esita a collocare lo spettacolo nel contesto politico odierno: «Lo spettacolo vuole contribuire a far conoscere l’idea di identità migrante e di nuova cittadinanza. Di fronte alle nuove migrazioni, il rischio che sta correndo l’Europa è di scambiare le radici con la chiusura, l’identità con gli anacronistici muri fisici». Come recitava lo striscione affisso a teatro We are all immigrants. Siamo tutti immigrati. marzo 2017 Scarp de’ tenis

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Dadaab, Zaatari Kakuma Campi profughi ora metropoli Sono i più grandi campi profughi del mondo. Arrivano ad ospitare, ormai, anche più di 350 mila persone. Un’emergenza mai così grande dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. di Andrea Barolini

scheda

Ventuno come il secolo nel quale viviamo, come l’agenda per il buon vivere, come l’articolo della Costituzione sulla libertà di espressione. Ventuno è la nostra idea di economia. Con qualche proposta per agire contro l’ingiustizia e l’esclusione sociale nelle scelte di ogni giorno.

56 Scarp de’ tenis marzo 2017

Della crisi dei profughi, l’Italia e l’Europa vedono solamente la punta dell’iceberg. Come raccontato in passato dalla nostra testata, sono in realtà le nazioni più povere del Pianeta a farsi carico in larga parte del problema: basti pensare che solo dieci tra i Paesi il cui peso economico in termini di prodotto interno lordo non supera, complessivamente, il 2,5% del valore mondiale, hanno fino ad ora accolto ben il 56% dei rifugiati di tutto il mondo. Per comprendere davvero la drammaticità dei contorni della questione occorre perciò raggiungere uno delle decine e decine di campi profughi disseminati ormai in tutto il globo. Dove negli anni il numero di persone ospitate è cresciuto enormemente. Dove si convive con le epidemie, con l’impossibilità di lavarsi perché l’acqua ghiaccia nei tubi, con la mancanza di cibo, con la vita nel fango.

© UNHCR/Samuel Otieno, Kakuma Refugee Camp, Kenya

VENTUNO

Una fotografia della situazione attuale è stata scattata dall’Unhcr, l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati, che nel suo ultimo rapporto intitolato Global Trends ha fornito una lunga serie di cifre che aiutano a comprendere come la crisi sia letteralmente esplosa negli ultimi anni. Nel corso del 2015,

Nel 2015 il numero dei rifugiati nel mondo ha raggiunto un livello record: sono 63 milioni e mezzo le persone in fuga da conflitti, persecuzioni, violazioni dei diritti umani, violenze

infatti, il numero di rifugiati in tutto il mondo ha raggiunto un livello record: ben 65,3 milioni di persone in fuga da conflitti, persecuzioni, violazioni dei diritti dell’uomo, violenze. Un dato cresciuto nettamente rispetto a quello – già altissimo – dell’anno precedente, quando non si erano superati i 59,5 milioni. E che probabilmente nel 2016 è aumentato ulteriormente, se si tiene conto che la guerra in Siria – che ha provocato da sola milioni di rifugiati – si è conclusa (parzialmente) solo alla fine dell’anno. «Il numero è talmente elevato – ha spiegato l’agenzia delle Nazioni Unite – che rappresenta


ormai la ventunesima più grande nazione del mondo in termini di popolazione».

rifugiati. In rapporto alla popolazione locale, lo sforzo più

34 mila in fuga ogni giorno Di tale immensa mole di esseri umani, 12,4 milioni sono coloro che hanno dovuto abbandonare le loro case a causa dei conflitti, di cui 8,6 milioni sono rifugiati all’interno del proprio Stato, mentre gli altri ne hanno varcato i confini, in molti casi chiedendo asilo in altre nazioni. L’Unhcr

stima che, in media, nel mondo sono costrette a fuggire 24 persone ogni minuto (il che significa 34 mila al giorno). Solamente un decennio prima, nel 2005, il dato era quattro volte inferiore: pari a 6 al minuto. Il 39% dei profughi di tutto il mondo è presente in Medio Oriente e in Africa del nord, il 29% nel resto dell’Africa, il 14% in Asia e Oceania, il 12% in America Latina e settentrionale, e solo il 6% in Europa. Il che significa che le nazioni considerate in via di sviluppo accolgono oggi l’86% dei

Il 39% dei profughi di tutto il mondo è presente in Medio Oriente o nell’Africa del nord, il 29% nel resto dell’Africa, il 14% in Asia e Oceania, il 12% in America Latina e solo il 6% in Europa

grande è quello profuso dal Libano, con 183 profughi ogni mille abitanti (al secondo posto la Giordania con 87). In termini assoluti, invece, è la Turchia, con 2,5 milioni, la nazione dove è presente il numero più alto di persone fuggite dalle proprie nazioni, seguita dal Pakistan con 1,6 e dallo stesso Libano con 1,1 milioni. Tra le nazioni che hanno aperto maggiormente le porte ai migranti figurano anche l’Iran, con quasi un milione, cui fanno seguito Etiopia e Giordania. A preoccupare è poi il dato che riguarda i minori: ben il 51% dei profughi di tutto il mondo non ha ancora compiuto diciotto anni. Cifra anch’essa in decisa crescita rispetto al 2009, quando la quota era pari al 41%. Il campo di Dadaab in Kenya Di campi profughi nel mondo ne

esistono decine e decine. Il più

grande in assoluto è quello di Dadaab, in Kenya, al confine con la Somalia. Quest’ultima – dilaniata da tempo dalla guerra civile e dagli attacchi del gruppo integralista islamico alShabaab, e colpita da carestia e siccità – ha visto una quota crescente della propria popolazione costretta a scappare. Così, il

campo di Dadaab è diventato in breve una città, e nel corso degli anni una vera e propria metropoli. Oggi è infatti la casa di circa 350 mila persone (ma in passato il numero è arrivato a sfiorare il mezzo milione), benché la capacità ufficiale di accoglienza sia nettamente inferiore. Nei mesi scorsi il governo del Kenya aveva deciso di chiudere la struttura e di rimpatriare i somali che la abitano, ma l’Alta Corte della nazione africana ha bloccato l’iniziativa, spiegando che si tratta di «un atto discriminatorio nei confronti di una minoranza», e dunque di marzo 2017 Scarp de’ tenis

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VENTUNO

Il Governo del Kenya ha provato a chiudere il campo di Dadaab, con 350 mila persone ospitate. L’Alta Corte ha bloccato la decisione: «un atto discriminatorio verso una minoranza»

«un provvedimento incostituzionale». Senza dimenticare che spostare una tale massa di uomini, donne e bambini avrebbe comportato giganteschi problemi logistici e di sicurezza. Le persone rimpatriate, inoltre, non avrebbero saputo dove andare, una volta rientrate in Somalia. Col rischio di finire vittime delle scorribande dei terroristi.

Sempre in Kenya è presente il campo di Kakuma, che secondo le cifre dell’Unhcr ospita quasi 185 mila persone, in maggioranza provenienti dal Sudan del sud. Un altro campo profughi cresciuto a dismisura negli ultimi anni è quello di Zaatari, in Giordania, abitato ormai da circa 80 mila rifugiati siriani. Definita «una prigione a cielo aperto nella quale chi vi abita, in maggioranza persone provenienti dalla città di Daraa, è arri-

Campi bombardati, migranti al gelo e muri

vato al limite della sopportazione», la struttura è stata aperta nel luglio del 2012, e da allora ha visto transitare centinaia di migliaia di uomini e donne in fuga dall’atroce guerra in Siria, che si è conclusa alla fine di dicembre dopo cinque anni di violenze inaudite.

Nuovamente in Africa (Sudan del sud) è presente poi il campo profughi di Yida, dove vivono più di 70 mila persone: il risultato di vent’anni di guerra civile. Un campo di 66 mila profughi è situato poi a Katumba, in Tanzania, nel quale sin dal 1972 sono affluite ondate di migranti provenienti dal Burundi. Dal 1993 è attiva inoltre la struttura di Pugnido, in Etiopia. Spostandosi in Asia, tra i più grandi campi profughi del mondo figura quello di Panian, in Pakistan, popolato da afgani fuggiti da anni e anni di guerre e povertà.

Nei mesi scorsi una serie di eventi drammaticamente simbolici ha segnato la crisi mondiale dei rifugiati. Il più tragico è stato senz’altro quello che nella giornata di martedì 17

tica militare nigeriana è comparso nel cielo che sovrasta il campo. Era diretto a Kala, località in mano agli jihadisti,

gennaio ha scosso la Nigeria, ed in particolare lo stato del Borno, dove è presente uno dei più grandi campi profughi del mondo, nei pressi del vil-

ma a causa di un errore ha confuso quest’ultima con il villaggio di Rann. L’aereo ha sganciato due bombe, a poca distanza l’una dall’altra. Il bi-

laggio di Rann, a poca distanza dal confine con il Camerun. A popolare il sito, nel quale operano numerose ong, sono circa 43 mila “rifugiati interni”. Ovvero cittadini nigeriani che si sono visti costretti a fuggire dalle proprie case a causa delle atrocità perpetrate dal gruppo radicale islamista Boko Haram. Poco dopo mezzogiorno, proprio mentre il personale umanita-

lancio è apparso subito devastante: in breve sono state identificate 70 vittime, tra le quali sei volontari della Croce Rossa. «Facevano parte dell’équipe che si occupava di fornire cibo alle decine di migliaia di profughi presenti a Rann», ha spiegato l’organizzazione umanitaria. A distanza di alcuni giorni, il generale nigeriano Lucky Irabor, dopo aver ammesso il tragico errore, ha indicato in 112 morti e 97 feriti il bilancio definitivo.

In pochi mesi la cronaca ha raccolto numerosi fatti agghiaccianti in merito alla crisi dei migranti. Dall’Africa ai Balcani, la situazione è sempre più drammatica 58 Scarp de’ tenis marzo 2017

rio stava distribuendo cibo ai profughi, un caccia dell’aeronau-

Pochi giorni prima, subito dopo la fine delle festività natalizie, un altro riflettore si è acceso sulla vicenda dei


UNHCR/Christopher Herwig. Il campo di Zaatari in Giordania

SCHEDA

migranti, stavolta nei Balcani. Erano i primi giorni di gennaio e un’ondata di freddo glaciale aveva colpito l’Europa, in particolare quella orientale. In alcuni Paesi le temperature erano scese fino a trenta gradi sotto lo zero. Ciò nonostante, a Belgrado, in Serbia, almeno duemila migranti ave-

vano scelto di rifiutare i centri di accoglienza ufficiali, sfidando il gelo di alcuni hangar abbandonati nei pressi di una stazione ferroviaria. Le fotografie di uomini, donne e bambini in fila nella bufera, in attesa di ricevere un pasto caldo offerto da alcune associazioni umanitarie, hanno fatto in breve il giro del mondo. Immagini di occhi sgranati che spuntano dalle coperte avvolte sulla testa hanno spinto alcune testate internazionali a parlare di «scene che ricordano quelle della Seconda guerra mondiale». Ma a colpire anche di più è la ragione che ha spinto i migranti a rischiare di morire assiderati:

nessuno di loro ha accettato di entrare nei tredici centri di accoglienza predisposti dal governo serbo per paura di essere ricacciati dalla polizia al di là dei confini orientali. La stessa voglia di andare avanti ad ogni costo che in quegli stessi giorni aveva convinto due migranti non regolari, di origine irachena, ad avventurarsi in una foresta oltre la frontiera in Ungheria: i loro corpi, congelati, sono stati ritrovati alcuni giorni dopo.

Il 17 gennaio un caccia Un’altra vicenda embledell’aeronautica matica è quella che alla metà nigeriana, ha di dicembre ha visto protagonista la Francia. A Calais, sganciato per migliaia di migranti si sono errore due bombe dove concentrati negli ultimi anni nel sul campo tentativo di attraversare la Manica per raggiungere il Regno Unito, i profughi vicino governi di Parigi e Londra hanno al villaggio deciso di innalzare un muro che di Rann. Un costeggia l’autostrada per un chilometro. Alta quattro metri (e co“tragico errore” stata 2,7 milioni di euro), la barrieche ha provocato ra è stata concepita per impedire ai 112 morti e 97 feriti migranti di nascondersi nei ca-

mion in attesa dell’imbarco. Poche settimane prima, il campo profughi soprannominato “Giungla di Calais” era stato smantellato dalla polizia transalpina. Un luogo di fango e baracche nel quale stazionavano migliaia di persone, in attesa di trovare il momento giusto per superare il tratto di mare. I migranti sono stati dislocati in altre strutture presenti sul territorio francese, ma secondo le associazioni non è questa la soluzione al problema. «Il governo – ha spiegato François Guennoc, vice presidente dell’Auberge des migrants (Albergo dei migranti) – pensa che distruggendo il campo si possa risolvere la questione migratoria, ma le cose non stanno affatto così. Buona parte delle persone che oggi sono costrette a partire torneranno». Poche settimane dopo, all’inizio di gennaio, l’organizzazione Secours Catholique (branca transalpina della Caritas) ha confermato il ritorno dei primi migranti. marzo 2017 Scarp de’ tenis

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INCONTRI

LABORATORI

AUTOBIOGRAFIE

CALEIDOSCOPIO

Un momento della coinvolgente performance della crew dei Natural Force in corso Vittorio Emanuele

Natural force: la potenza della danza di strada Carmelo, Davide, Edwin, Johnny, Lorenzo e il jolly Sandro(appare solo in qualche occasione) sono maestri di street show, un rocambolesco spettacolo di forza e agilità. Li incontro a Milano, zona Duomo, circondati da un folto pubblico. Alcuni di loro fanno parte della Natural Force, nata a Milano nel 1995, una crew arrivata ormai alla terza generazione di ballerini. Per loro Milano rappresenta una scena importante dove esibirsi e lavorare: ballano per passione, amano intrattenere e far sorridere e si divertono a creare coreografie acrobatiche che coinvolgano il pubblico. Insegnano in scuole di danza e usufruiscono di quegli spazi per allenarsi e poi partecipare a gare, campionati di break dancee apparizioni televisive. «Tra spettacoli a teatro, apparizioni in tv o esibizioni in strada – spiega Lorenzo, uno della crew – io scelgo la strada. Qui si è più liberi di esprimere la creatività. Il pubblico è più difficile e non è facile convincere la gente a lasciarti qualcosa per l’esibizione. Ma quando ce la fai sei ripagato di Antonio Vanzillotta tutto. Anche delle cinque ore al giorno di allenamento che la danza ti richiede. La strada è vita. Come la danza». marzo 2017 Scarp de’ tenis

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La bellissima copertina di Vicoli l’ultima fatica di Sergio Siano, uno sguardo accorato sul vero cuore di Napoli

Vicoli, la Napoli secondo il grandangolo di Sergio Siano Quante volte lo sguardo del turista, del viaggiatore, dell’amico che passa qualche giorno a Napoli ci consegna insieme all’arrivederci la frase: «Voi napoletani vivete per strada». Vero quanto i panni stesi al sole ad asciugare sugli stendini davanti ai bassi e contro il cielo fra i palazzi delle strade più borghesi; vero quanto il piccolo commercio di streetfood e bibite nel centro storico, i disegni dei madonnari su via Toledo, la street art di Agoch e di Banksy e di Bosoletti.

PAROLE

Dove si accende questo amore

Vero quanto l’abitudine, tutta partenopea, a tenere aperta la porta dei negozi sulla strada, sempre, con tutte le temperature, in tutti i quartieri: dal più popolare al più residenziale. Perché: «Sapete – sostengono i negozianti – se lasciamo la porta chiusa poi pensano che il negozio è chiuso anche se noi siamo dietro al bancone». La strada, le strade, che hanno sedimentato e custodiscono migliaia di anni di storia e di storie, Sergio Siano le racconta ogni giorno con i suoi scatti su Il Mattino, il più grande e antico giornale del Mezzogiorno. Ma il mainstream informativo privilegia i toni della cronaca nera, giudiziaria e calcistica, nella città che visse l’era di Maradona. Così dal racconto giornaliero resta fuori dal grandangolo la microstoria di fatti, cose e persone che popolano la città che vive e che si trasforma. Vicoli è l’opportunità che Sergio Siano ha dato a se stesso per sfuggire all’amarezza di documentare solo i toni scuri e ci ha offerto con generosità l’occasione di vedere tanti pezzi di città viva, qualche volta poetica, sempre vera. Noi a Scarp, in più abbiamo avuto l’occasione di incontrarlo in redazione e di poterlo raccontare da vicino.

Sento sgorgare l’acqua alla fonte pura e limpida come il cuore che si apre alla vita in una primavera sincera. Dove in una giornata meravigliosa accende questo amore che arde di gioia per quella goccia, che trabocca in una immensa melodia di angeli in festa. In una felicità che in un apparente motivo fa sembrare questo mondo più bello e io sono contento. E la mia anima ascolta il canto della vita. Ed è più felice.

Laura Guerra

Armando Marchesi

62 Scarp de’ tenis marzo 2017

PAROLE

I vicoli sono l’anima di Napoli Ogni scatto una sorpresa Esiste una sola realtà? Oppure ne esistono diverse? Sergio Siano, fotografo de Il Mattino, storico quotidiano napoletano, crede nella seconda ipotesi. Napoletano dei Quartieri Spagnoli, ha pubblicato con la casa editrice Intra Moenia, un libro fotografico dal titolo Vicoli. Lui il vicolo lo conosce bene ma non solo perché vi è nato. Lui ama andare in profondità, andare alle origini di tutto ciò che vede. Ogni vicolo di Napoli ha delle storie curiose, drammatiche, tragiche. La loro scoperta è affascinante e permette di capire situazioni che altrimenti rimarrebbero nascoste. Un fotografo potrebbe imbracciare la fotocamera e scattare, seguendo solo ciò che ha imparato a scuola o da un collega. Sergio ha scelto di andare oltre l’immagine. Rispetto, educazione, garbo, non gli mancano. Questo gli ha permesso di superare la diffidenza della gente, che rappresenta l’essenza del lavoro. Da loro può attingere informazioni preziose. Prima le storie, poi la foto. L’obiettivo di Sergio non trasmette quello che inquadra, ma ciò che ha originato quella immagine. Sergio Siano fotografa ciò che accade ogni giorno cercando di inserirlo in un quadro storico: un palazzo, una strada, un volto. Sergio è un realista. Ama far luce su tutto ciò che resiste nella sua città, nel bene e nel male. Sfogliando il libro si provano emozioni forti. Ogni scatto una testimonianza. Peppe Del Giudice


NAPOLI

Un viaggio per immagini: Napoli raccontata attraverso i vicoli Un libro per cercare di descrivere il cuore pulsante della città. Uno sguardo sincero e senza mediazioni Si dice a volte che le foto parlino, che le immagini si commentino da sole, e le didascalie siano una cosa di secondo piano, aggiunte giusto per riempire degli spazi. Un po’ è vero: i quadri non hanno didascalie essi sono una lenta foto di quel momento, di quell’attimo di luce favorevole. Ma quante volte i pittori dovevano costringere i loro modelli a restare così, immobili prima del tramonto. La foto non ha questo obbligo; il fotografo può muoversi, andare e agire quando vuole. E Sergio Siano lo sa. Il suo libro di immagini sui vicoli di Napoli è un viaggio fatto dall’alba al tramonto, e in nove foto su dieci c’è un elemento umano: qui una vecchia che parla all’obiettivo, lì un gruppo di persone nelle loro faccende affaccendate, ora due bambine che studiano per strada e poi una coppia di innamorati che pare debbano fondare una dinastia là dove stanno abbracciati l’uno all’altra. Le didascalie sono solo la testimonianza di chi, viaggiatori, scrittori, poeti, sono passati prima di lui per quei posti e ne hanno subito lo stesso fascino. Capire quello che siamo Napoli ha una storia antichissima, spesso addirittura preistorica, così come tutto il nostro vecchio stivale, ma non tutti sentono l’importanza di conoscerla. E allora ben venga chi trova il tempo, la voglia e

la passione per farci sapere come eravamo, e, perché no, aiutarci a capire quel che ora siamo. Devo confessare una cosa: l’attimo più bello di Sergio nella nostra redazione è stato quando, salutandoci, ha inforcato la sua fotocamera e mi è parsa accomodarglisi addosso come una gatta sorniona. Un po’ come quando io indosso la mia chitarra: le braccia già sanno dove andare e la mia pancia è pronta a vibrare con lei. È passione, e un sentimento così forte e sincero può solo regalare cose belle. Grazie Sergio Siano, fotoreporter ufficiale de Il Mattino di Napoli. Grazie, e a presto! Buno Limone

Un fotografo innamorato della sua città

PAROLE

La fotografia intesa come arte, se suscita un’emozione notevole, facendo sobbalzare l’animo dell’osservatore, intento a guardare la prospettiva, la nitidezza dei colori, dei luoghi, senza trascurare le espressioni dei volti così naturali. Tutto ciò è opera di un fotografo che dimostra una bravura ineccepibile. Sergio Siano, figlio d’arte, iniziò l’apprendistato della fotografia all’età di sedici anni. Prima sotto la guida del padre, dopo del fratello. Ha sviluppato interesse per l’arte fotografica in modo notevole e, negli anni, è diventato un grande esperto di tecniche fotografiche. Oggi lavora nell’antica testata de Il Mattino di Napoli. Quando è richiesta la sua presenza, con professionalità e discrezione, porta a termine ciò che gli compete fare. Recentemente, è stato pubblicato Vicoli, un viaggio napoletano fatto di immagini fotografiche. Una palese testimonianza, alla quale è legato da sentimenti di appartenenza: la terra, la cultura, la storia, l’arte, la gastronomia. Con le immagini racconta la storia di Napoli. Una città dominata da popoli che hanno lasciato qualcosa di tangibile. Senza la conoscenza della realtà storica remota non ci si può inoltrare nei vicoli, simili a delle arterie che attraversano la metropoli. Ogni vicolo ha una testimonianza da raccontare ai posteri. Sergio Siano è nato in quei vicoli e ci vive. Egli si rammarica, vorrebbe che ci fossero dei cambiamenti strutturali, ma anche ambientali. Dovrebbero diventare dei borghi dignitosi e senza insidie. Un cambiamento che sembra impossibile. Ma, le istituzioni, se fossero un unico organo competente, riuscirebbero a risolvere tali problematiche, con un’azione dignitosa, per ridare ai vicoli della città la dignità ed il senso civico? Sergio Gatto marzo 2017 Scarp de’ tenis

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CALEIDOSCOPIO

Nella roccia Sei dentro l’anima, tra siepi di parole, pensiero tiepido nel cuore della notte. Tu, gelosissimo segreto, hai fatto il nido nella nuda roccia. Aida Odoardi

Il giro del cielo Mi basterà sentire la tua voce e sarai il diapason l’alta nota, il denominatore mio comune. Allora potrò passeggiare nelle profondità degli abissi sulle creste onde del mare e mi parrà come una nota acuta di percorrere il giro del cielo. Mino Beltrami

La Provvidenza La Provvidenza non è la gratitudine della convenienza. La Provvidenza sono le gocce di sangue della speranza divina essa le dona a chi sulla retta via cammina. La Provvidenza è l’essenza della sopravvivenza allevia la sofferenza se lottiamo facendo anche un po’ di penitenza. La Provvidenza non è un supermercato ma un po’ tutti ha accontentato. Ferdinando Garaffa

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Suor Giglia e la mensa di Como «Più utenti ma non molliamo» di Salvatore Couchoud

Centoventi pasti al dì per sei giorni la settimana, distribuiti su quattro turni di trenta presenze ciascuno, con inizio alle 11 del mattino sino allo smaltimento per esaurimento dell’afflusso dei richiedenti. Moltiplicando questa cifra per un numero esorbitante di anni, come quello che ha visto in funzione la mensa delle suore in città, fa una cifra da capogiro, e farebbe invidia ai colossi della ristorazione se non fosse per il fatto che al fondo di tale sistema non sussiste alcuna esigenza di fatturato, ma semplicemente la generosità e la disponibilità della Como migliore. Questi, infatti, sono i numeri della mensa vincenziana di via Primo Tatti, da nove affidata a suor Giglia Tassis: «Visto il trend in continua crescita del numero delle persone che si rivolgono a noi, abbiamo purtroppo dovuto apportare alcuni correttivi anche alla gestione ordinaria della mensa. Questo perché non possiamo certo aggiungere turni ulteriori a carico di un servizio di preparazione dei pasti già al limite delle proprie possibilità operative, ne prolungare un’attività di somministrazione che si protrarrebbe sino a pomeriggio inoltrato». Per questi motivi la Caritas, per far fronte alla forte espansione delle richieste degli ultimi tempi, ha allestito nei locali della

mensa dei Padri vincenziani di via Lambertenghi (di fronte alla stessa via Tatti, ndr), la distribuzione quotidiana di sacchetti-viveri a beneficio dei soggetti muniti del “biglietto rosa” rilasciato dal servizio Porta Aperta, cioè dei nuovi arrivati. «Non si tratta di una soluzione di ripiego o di insensibilità verso questi ultimi – continua suor Giglia –prova ne è il fatto che è consentito sedersi nei locali della struttura per consumare dignitosamente il pasto e che il sacchetto non contiene scatolame o prodotti a lunga conservazione, ma alimenti freschi appena cucinati in nulla difformi da quelli che vengono serviti in via Tatti». Nonostante l’incremento delle presenze, la mensa vincenziana ha brillantemente superato tutte le prove di resistenza e di affidabilità, risistemandosi come prima e meglio di prima nel servizio degli ultimi tra gli ultimi. «Proprio quest’anno ricorre il 400° anniversario del Carisma di S. Vincenzo – conclude suor Giglia – e se avremo modo di onorarlo al meglio continuando a fare del bene sarà proprio grazie al contributo e alla generosità dei nostri concittadini. E non è un modo di dire. Perché se è vero che “i poveri saranno sempre con noi” è altrettanto vero che, al di là della collaborazione per noi indispensabile delle scuole, di Siticibo e del Banco Alimentare, finché ci sarà il pensionato che viene a portarci il sacchettino con quel poco che è riuscito a mettere dentro potremo mantenere alto il nostro Carisma».


SCIENZE

Compagna solitudine

L’effetto placebo, a volte, ci fa credere che un prodotto assolutamente neutro sia in grado di farci guarire da una malattia

Funziona se ci credi, la forza dell’effetto placebo di Federico Baglioni

scheda Federico Baglioni Biotecnologo, divulgatore e animatore scientifico, scrive sia su testate di settore (Le Scienze, Oggi Scienza), che su quelle generaliste (Today, Wired, Il Fatto Quotidiano). Ha fatto parte del programma RAI Nautilus ed è coordinatore nazionale del movimento culturale “Italia Unita Per La Scienza”, con il quale organizza eventi contro la disinformazione scientifica.

Avrete sicuramente presente la sensazione di quando ci si sente meglio dopo essere stati confortati. Ecco, l’effetto placebo è qualcosa di simile: il miglioramento psico-fisico determinato da un’aspettativa positiva, anche se il “rimedio” non ha alcuna efficacia. Nel cartone Disney Dumbo, per esempio, il piccolo elefante credeva di riuscire a volare solo per merito della piuma magica, in assenza della quale si sentiva perduto. Venendo al campo della medicina, questo fenomeno è interessantissimo perché può davvero aiutare i pazienti a migliorare la propria salute. Questo spiega, fra l’altro, come mai in passato pratiche ai nostri occhi antiscientifiche e “bizzarre” avessero un certo grado di successo. E lo stesso si può dire di molti rimedi casalinghi per cui non si ha alcuna prova scientifica che funzionino. Com’è possibile che succeda? Esistono tanti meccanismi che ci fanno credere che un rimedio funzioni. Molti malanni tendono ad andare via spontaneamente e quindi la guarigione può non essere dovuta al rimedio in sé. A volte la percezione che una terapia funzioni è determi-

nata addirittura dal paziente che si sente obbligato a compiacere il medico oppure si sta effettivamente guarendo, ma perché nel frattempo (o poco prima) si ha assunto una sostanza o un farmaco che realmente hanno un principio attivo. L’effetto placebo è però solamente l’effetto psicologico dovuto alla credenza che qualche cosa ci faccia del bene. Un aspetto che influisce sull’effetto placebo è il rapporto medico-paziente: quando ci sentiamo presi in considerazione e ascoltati è molto facile che quanto ci viene prescritto (addirittura un semplice consiglio) ci faccia stare bene. Attenzione, però: l’effetto placebo può alleviare il nostro dolore o cancellarlo se il malessere è blando, ma in casi di malattie complesse come il cancro la sola psicologia non basta ed è necessario far ricorso a veri farmaci e vere terapie, senza dare la nostra fiducia a figure non qualificate. Esiste anche il fenomeno opposto (nocebo), quello che ci fa stare male per un’aspettativa negativa, come sentirsi male per un cibo che consideriamo scaduto dopo aver letto l’etichetta, salvo poi accorgerci che il prodotto non era ancora scaduto.

Bella signora, compagna solitudine che quando non è forzata, ma cercata, è bellissima compagna. Sei tu, te stesso e il silenzio, lasci correre i pensieri, rifletti su tutto, anche le inezie: fai rivivere i momenti d’oro e i momenti neri cercando di capire dove si è sbagliato o se era semplicemente il fato che doveva compiersi. Dopo un po’ di tempo però scatti in piedi e ti prende la voglia di compagnia, perché l’uomo non è fatto per essere solo. Sempre cerchi, cerchi, cerchi e non trovi mai quello che cerchi. Le soluzioni sono due, o ti adatti ai compromessi e ti accontenti, o rimani solo con il tuo migliore amico: te stesso. Adriano

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Le persone in stato di difficoltà a cui Scarp de’ tenis ha dato lavoro nel 2016 (venditori-disegnatori-collaboratori). In 20 anni di storia ha aiutato oltre 800 persone a ritrovare la propria dignità

IL VENDITORE DEL MESE

Habib fa il venditore di Scarp da ormai 10 anni ma sogna prima o poi di tornare a Sousse, a casa sua

Habib Scarp diventa più di un lavoro: «Ho trovato una nuova famiglia» storia raccolta da Anna Luchetta

info Nel 2015 sono state 107 le parrocchie della città di Milano (Zona Pastorale 1) raggiunte da Scarp. Erano 67 nel 2010. Milano, con le sue quasi 17 mila copie vendute nel 2015, rappresenta da sola un quarto delle vendite totali del giornale nella Diocesi ambrosiana

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MILANO

Mi chiamo Habib, ho 54 anni e vengo dalla Tunisia, dove facevo l’autista. Vivevo a Sousse, un importante centro turistico. Sono arrivato in Italia negli anni novanta ma la mia famiglia – mia madre e i miei fratelli - è rimasta in Tunisia. Ogni tanto, quando ho abbastanza soldi, vado a trovarli. Sono sbarcato a Palermo e per quindici anni ho vissuto in Sicilia facendo diversi lavori: in un ristorante e in un magazzino all’ingrosso di detersivi. Nel 2005 sono arrivato a Milano, perché al Sud non c’era più lavoro, ma subito mi sono accorto che anche qui la situazione non era migliore: con la crisi era difficile guadagnare con il proprio lavoro. Sono stato in diversi centri d’accoglienza: in viale Ortles e poi a Monza, in una casa d’accoglienza. Ho conosciuto Scarp de’ tenis tramite alcuni amici. Quando ho iniziato, poche persone lavoravano per la rivista, forse una decina ed è stato Michele, un ragazzo che lavorava da qualche mese, a farmi cono-

scere gli altri ragazzi. Appena ho cominciato, mi sono sentito a casa e ormai sono dieci anni che vendo il giornale, per me è diventato un vero lavoro. Vendo davanti alle parrocchie o nelle strade, dove le persone spesso danno qualcosa in più rispetto al prezzo normale della rivista. Una cosa bella e inaspettata che mi incoraggia ad andare avanti. Da due mesi ho trovato casa: abito a San Giuliano, dove ho un posto letto in un appartamento in cui viviamo in quattro, due per camera. Lavoro tutti i giorni e riesco a guadagnare anche 80 euro a settimana; riesco a vendere circa 40 copie al giorno. Oggi, conosco tutta Milano, ed è per me più semplice girare perché ho la macchina. Mi manca la mia terra, il mio Paese e la mia famiglia. Mi manca molto anche il mare della città in cui vivevo, a cui spesso penso. Milano però, ha tanti posti bellissimi, è una grande città, una metropoli europea e le persone sono educate. Lavoro vicino al Duomo, il posto che preferisco qui a Milano e, quando lo guardo, mi sento protetto.




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