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Foto: Reuters/Pawel Kopczynski/courtesy of INSP - Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento Postale -D.L. 353/2003 (convertito in Legge 27/02/2004 n° 46) art.1, comma 1, LO/MI

L’INTERVISTA

YANNIS BEHRAKIS, IL FOTOGRAFO CHE HA VINTO IL PULITZER

la le del i s n e Il m

www.scarpdetenis.it novembre 2016 anno 21 numero 206

strada

LA STORIA PER ERSON, IL RAPPER ROM, IL RISCATTO SOCIALE PASSA DALLA MUSICA

INCHIESTA. OGNI ANNO PIÙ DI CINQUE TONNELLATE DI CIBO FINISCONO TRA I RIFIUTI. DOPO LA FRANCIA, ANCHE IL NOSTRO PAESE APPROVA UNA LEGGE CONTRO LO SPRECO ALIMENTARE. IL VIAGGIO DI SCARP DE’ TENIS TRA LE BUONE PRATICHE ESISTENTI

Cibo Addio allo spreco



EDITORIALE

Povertà, come cambia il “modello” italiano

LA PROVOCAZIONE

Terremoto L’impegno Caritas per le popolazioni colpite dal sisma di Luciano Gualzetti direttore Caritas Ambrosiana

di Stefano Lampertico [

@stefanolamp ]

Lo scrivo adesso, che il grande freddo ancora non è arrivato. Che solitamente, e la cosa fa triste già di per sè, si accompagna alla tragica contabilità dei morti da una parte e del numero dei sacchi a pelo donati dall’altra. Siamo ancora in tempo. Per strutturare un’accoglienza invernale, ecco chiamiamola così, strutturata che doni conforto e riparo a persone che sono in difficoltà.

Già. Persone. Sarebbe interessante aprire anche qualche riflessione sulle parole. A partire dal loro significato. Parliamo di homeless, di senza dimora, di clochard, di barboni (che va anche bene quando pensiamo al protagonista della nostra canzone). Dimenticando troppo spesso il soggetto. Persone. Anche noi, spesso condizionati dai codici di un giornalismo che esige sintesi, spesso lo dimentichiamo. Qui, il mea culpa.

In occasione della Giornata mondiale contro la povertà, a Roma, è stato presentato il Rapporto annuale proprio sul tema della povertà. Si chiama Vasi comuni-

canti. Di questo rapporto ne parla approfonditamente, più avanti nel giornale, Paolo Brivio, nella sua rubrica Piani bassi. In sintesi, in Italia, sta cambiando il “modello” di povertà. Non sono più gli anziani i più indigenti, come accadeva in passato: oggi la povertà assoluta risulta inversamente proporzionale all’età, cioè diminuisce con l’aumentare degli anni. Una lettura sociologica che ha tratti sconfortanti. Sono i giovani la categoria più a rischio. E tra i giovani, chi perde la protezione della rete familiare, è a rischio indigenza. Sono temi sui quali torneremo nei prossimi numeri. L’incontro di Roma è diventato anche l’occasione per confrontarsi con tutti i colleghi di Scarp e con le redazioni locali sparse in tutta Italia. L’occasione per ripetersi quanto sia importante, per il nostro giornale, affondare le sue radici nell’autenticità e nell’originalità delle storie che incrociamo sulle nostre strade. L’unicità di Scarp nel panorama dei media è tutta qui. Nelle storie che raccontiamo. Ai tanti lettori che ogni mese ci seguono chiedo allora un passo in più. Se incontrate persone e storie che meritano, per la loro unicità di essere raccontate, fatecelo sapere. Scarp è anche, anzi, soprattutto, vostro.

Sarebbe interessante aprire una riflessione sulle parole. A partire dal loro significato. Parliamo di homeless, clochard, barboni, senza dimora. Mai di persone

contatti Per commenti, idee, opinioni e proposte: mail scarp@coopoltre.it facebook scarp de tenis twitter @scarpdetenis www.scarpdetenis.it instagram scarpdetenis

Il 20 novembre 2016 terminerà il Giubileo voluto da Papa Francesco con al centro il tema della Misericordia. Non dobbiamo cadere nella trappola di considerare la misericordia come questione da relegare al solo tempo straordinario del Giubileo. E nemmeno ad alcuni settori della vita o all’ambito ecclesiale. La misericordia deve guidare anche le scelte economiche, le relazioni tra gli stati, il nuovo assetto e i modelli culturali che stiamo costruendo: in questa che non è solo un’epoca di cambiamento, ma un cambiamento di epoca. La forza della misericordia è la strada per rimettere insieme i pezzi frammentati di una società globalizzata incapace di dare risposte concrete in favore degli ultimi. Le imprese e i governi insieme al privato sociale, possono e devono prendersi la responsabilità di un modello diverso basato sulla condivisione piuttosto che sul profitto fine a se stesso, sulla cooperazione piuttosto che sulla competizione, sulla promozione della persona e delle comunità piuttosto che sull’assistenza deresponsabilizzante, sulla riconciliazione. Dopo il fallimento parziale degli obiettivi di sviluppo del millennio per il 2015, lo stesso anno l’Onu ha varato nuovi gruppi di obiettivi di sviluppo sostenibile in campo economico, sociale e ambientale. A noi il compito di vigilare sulla loro attuazione chiedendo che entri nelle agende dei nostri governi con finanziamenti adeguati. E spetta a noi tradurli nella concretezza delle scelte quotidiane: accoglienza, solidarietà, scelte economiche e ambientali coerenti, consumo consapevole, economia circolare, voto col portafoglio, uso di energia rinnovabili e sostenibili, riciclo e raccolta differenziata dei rifiuti. novembre 2016 Scarp de’ tenis

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SOMMARIO

Addio allo spreco alimentare. Il Refettorio Ambrosiano e le buone pratiche Per una volta in copertina non c’è una faccia. Un volto. Una persona. Come siete abituati ormai a trovare. Ma c’è una fotografia - peraltro bellissima - quasi concettuale, minimalista. Che ci aiuta a introdurre il dossier di questo mese che dedichiamo alla lotta contro lo spreco alimen-

tare. Ogni anno più di 5 tonnellate di cibo ancora buono finisce nelle pattumiere delle famiglie italiane. L’Italia, dopo la Francia, ora si è dotata di una legge contro lo spreco alimentare. Finalmente, verrebbe da dire. Noi, come sempre, partiamo dal tema per raccontare storie. Sono le storie di buone pratiche che fanno della lotta allo spreco la loro ragion d’essere. A partire dal Refettorio Ambrosiano, la mensa per i poveri di Caritas Ambrosiana, lasciata a Milano come preziosa eredità di Expo. Sul numero precedente di Scarp ab-

biamo trattato un tema molto duro, come quello dei caregiver. Storie che arrivano dritte come un pungo nello stomaco. Storie di vita. Originali, autentiche. Anche sul numero che vi apprestate a leggere c’è un tema difficile da accostare, quello dell’Alzheimer. A Monza ci sono belle idee e progetti che vengono in aiuto alle persone che soffrono di questa malattia e delle loro famiglie. Non perdetevi infine la bella intervista al fotografo greco Yannis Behrakis. Uno che con la macchina fotografica ci sa fare, tanto da vincere il Pulitzer.

Come lacrime abbandonate dopo un falso perdono che si come lacrime come fiori profumati cui tocca d’inchinarsi

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rubriche

servizi

PAG.7 (IN)VISIBILI di Paolo Lambruschi PAG.9 IL TAGLIO di Piero Colaprico PAG.11 PIANI BASSI di Paolo Brivio pag.12 LA FOTO di Abdalrhman Ismail/REUTERS PAG.18 LE DRITTE di Yamada PAG.19 VISIONI di Sandro Paté PAG.55 VOCI DALL’AMERICA di Damiano Beltrami PAG.61 CALEIDOSCOPIO PAG.65 SCIENZE di Federico Baglioni PAG.66 IL VENDITORE DEL MESE

PAG.20 L’INTERVISTA Yannis Behrakis: «Voglio essere i vostri occhi» PAG.22 COPERTINA Cibo. Vietato sprecare PAG.30 DOSSIER Alzheimer, morbo che “avvelena” le famiglie PAG.34 LA STORIA Erson, il rapper rom che vuole le ali PAG.38 CULTURA Parlare di Isis ai bambini. Si deve, si può PAG.40 MILANO Vespri Italiani: folle viaggio a Palermo PAG.42 TORINO Al di qua, la vita altrove dei senza dimora PAG.45 VICENZA Turisti e senza tetto. La vita vista dai bagni pubblici PAG.47 VENEZIA Scarp e il valore dell’accoglienza PAG.48 VERONA Studenti uniti contro il bullismo PAG.50 RIMINI Sesso e violenza, giovani ormai inconsapevoli PAG.52 SUD Scuola Viva per battere la dispersione PAG.56 VENTUNO La metà dei rifugiati accolta da dieci nazioni (povere) PAG.62 NAPOLI La Ctp, il buco del debito e gli autobus fantasma

Scarp de’ tenis Redazione di strada e giornalistica via degli Olivetani 3, 20123 Milano tel. 02.67.47.90.17 fax 02.67.38.91.12 scarp@coopoltre.it

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Scarp de’ tenis novembre 2016

Direttore responsabile Stefano Lampertico Redazione Ettore Sutti, Francesco Chiavarini, Paolo Brivio

Segretaria di redazione Sabrina Montanarella Responsabile commerciale Max Montecorboli

Redazione di strada Roberto Guaglianone, Antonio Mininni, Lorenzo De Angelis, Alessandro Pezzoni

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Foto Insp, Reuters, Romano Siciliani Disegni Sergio Gerasi, Gianfranco Florio, Luca Usai, Loris Mazzetti


da

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Il men

aforisma di Merafina Spazio ai giovani I giovani hanno sempre ragione, anche quando hanno torto Il tweet di Aurelio [Il bonazza

@aure1970 ]

Cos’è

(Corriere della Sera) - Migrante a piedi in autostrada uccisa da un Tir a Ventimiglia La disperazione è una galleria buia

Scarp de’ tenis è un giornale di strada noprofit nato da un’idea di Pietro Greppi e da un paio di scarpe. È un’impresa sociale che dà voce e opportunità di reinserimento a persone senza dimora o emarginate. È un’occasione di lavoro e un progetto di comunicazione.

i sciolgono nella pioggia i a qualsiasi alito di vento

Dove vanno i vostri 3,50 euro Come gli aeroplani - tributo a Enzo Jannacci

Vendere il giornale significa lavorare, non fare accattonaggio. Il venditore trattiene una quota sul prezzo di copertina. Contributi e ritenute fiscali li prende in carico l’editore. Quanto resta è destinato a progetti di solidarietà.

Per contattarci

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TOP 15

Alimenti nocivi 1 2 3 4 5 6 Fonte: Coldiretti, ottobre 2016

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34 Progetto grafico Francesco Camagna Sito web Roberto Monevi Editore Oltre Soc. Coop. via S. Bernardino 4, 20122 Milano Presidente Luciano Gualzetti

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Nocciole dalla Turchia Arachidi dalla Cina Peperoncino dall’India Tonno e pesce spada dalla Spagna Fichi secchi e peperoni dalla Turchia Semi di sesamo dall’India Pistacchi dall’Iran Olive e fragole dall’Egitto Pistacchi dagli Sati Uniti Pangasio dal Vietnam Paprika e peperoncino dalla Cina Latte (formaggi) dalla Francia Novel food proveniente dagli Stati Uniti Pollame dalla Polonia Broccoli e funghi dalla Cina

Registrazione Tribunale di Milano n. 177 del 16 marzo 1996 Stampa Elcograf Spa Verona Arretrati Su richiesta al doppio del prezzo di copertina

Direzione e redazione centrale - Milano Cooperativa Oltre, via degli Olivetani 3 tel. 02.67479017 scarp@coopoltre.it Redazione Torino Via San Massimo 31/C, presso Spazio Laboratorio tel. 3200454758 scarptorino@gmail.com Redazione Genova Fondazione Auxilium, via Bozzano 12 tel. 010.5299528/544 comunicazione@fondazioneauxilium.it Redazione Verona Il Samaritano, via dell’Artigianato 21 tel. 045.8250384 segreteria@ilsamaritanovr.it Redazione Vicenza Caritas Vicenza, Contrà Torretti 38 tel. 0444.304986 scarp@caritas.vicenza.it Redazione Venezia Caritas Venezia, Santa Croce 495/a tel. 041.5289888 info@caritasveneziana.it Redazione Rimini Settimanale Il Ponte, via Cairoli 69 tel 0541.780666 rimini@scarpdetenis.net Redazione Firenze Il Samaritano, via Baracca 150/e tel. 055.3438680 samaritano@caritasfirenze.it Redazione Napoli Cooperativa sociale La Locomotiva via Pietro Trinchera 7, tel. 081.446862 scarp@lalocomotivaonlus.org Redazione Sud Caritas diocesana, Salita Corpo di Cristo, Teggiano (Sa) tel.0975 79578 info@caritasteggianopolicastro.it

Consentita la riproduzione di testi, foto e grafici citando la fonte e inviandoci copia. Questo numero è in vendita dal 29 ottobre al 25 novembre

www.insp.ngo novembre 2016 Scarp de’ tenis

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(IN)VISIBILI

Ma dove affondano le radici dell’odio contro gli ultimi della fila? Tra gli atti finali del Giubileo c’è l’incontro di Papa Francesco con migliaia di Paolo Lambruschi di invisibili, il prossimo 11 Non vanno bene le cose se il mondo degli invisibili novembre, si popola. Secondo i dati giorno in cui si dell’ultimo rapporto della Caricelebra san tas sulla povertà, i cui dati sono rilevati nelle mense, cala sì il Martino di Tours, numero di utenti ai Centri di l’uomo che donò ascolto e il numero assoluto dei metà del suo senza dimora dal 2015 al 2016 (anche se aumentano rispetto mantello al 2014), ma sono in forte au- a un mendicante mento i giovani impoveriti nell’età compresa tra i 18 e i 34 anni che si ritrovano sull’orlo del baratro.

contare un clima crescente di intolleranza che serpeggia verso gli ultimi della fila e chi li aiuta. Gli episodi sono sempre più frequenti soprattutto al sud.

Penso all’incendio del tugurio abitato da un ragazzo “difficile” alla periferia di Palermo che è stato incendiato ai primi di ottobre da una molotov. Il 22 enne e la sua ragazza 23 enne sono finiti in ospedale con gravi ustioni.

Oppure agli incendi, entrambi dolosi appiccati a metà ottobre rispettivamente ai cinque container della Caritas diocesana destinati ai profughi a Lamezia Terme, in Calabria, e alla casa per i poveri del Villaggio della carità di Margherita di Savoia. Non sappiamo chi siano i responsabili né dove affondino le radici di tanto odio.

Solo nella città di Torino, in base ai dati raccolti nel 2014 vivono quasi 1.800 persone senza fissa dimora nella sola area urbana. Un dato impressionante, se si considera che nel 2011 la cifra ammontava a 1.400 individui: vale a dire che all’ombra della Mole i senzatetto sono cresciuti del 20 per cento in tre anni; una media di almeno cento nuovi casi ogni 365 giorni, visto che il Comune riesce a “censire” in prevalenza quanti si rivolgono ai servizi del pubblico e privato sociale, mentre esiste tutto un mondo parallelo di “irriducibili” della strada, non

sempre raggiungibili. Senza

scheda

Paolo Lambruschi è nato a Milano nel 1966. Lavora ad Avvenire, come capo degli interni, dopo essere stato per tanti anni inviato. Ha diretto Scarp de’ tenis e il mensile di finanza etica Valori. Nel 2011 ha vinto il prestigioso premio giornalistico “Premiolino” per le inchieste sul traffico di esseri umani nel Sinai.

Però inquieta la leggerezza con cui l’intolleranza verso i più poveri corre sulla rete e sui social media, con cui politici e giornalisti si prestano al gioco del facile consenso con menzogne e toni che ricalcano le conversazioni sguaiate da osteria e con una retorica da curva sud.

milione di persone rendendole invisibili e che provoca la creazione di tendopoli inumane che vorremmo sparissero da questa raccolta di agrumi. Poi vediamo che per la prima volta la fio.PSD (Federazione Italiana Organismi per le Persone Senza Dimora) valuta positivamente le iniziative del governo per la lotta alla povertà. Vediamo quali saranno gli effetti e se si comincerà a imboccare la strada per #homelesszero, come dice lo slogan della campagna lanciata per il 17 ottobre, Giornata mondiale di lotta alla povertà.

Infine la notizia più bella. Tra gli atti finali del Giubileo c’è l’incontro di Papa Francesco con migliaia di invisibili il prossimo 11 novembre, giorno di San Martino di Tours, che donò metà del suo mantello a un mendicante. Da quell’incontro scaturì la sua conversione. E due giorni dopo, il 13 novembre, migliaia di senza fissa dimora provenienti da tutta Europa parteciperanno alla Messa presieduta da Papa Francesco. Che sta facendo davvero più di tutti per restituire dignità e umanità agli invisibili.

Ma non mancano i segnali positivi. A cominciare dall’ap-

provazione della legge contro il caporalato nei campi che sfrutta circa mezzo novembre 2016 Scarp de’ tenis

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IL TAGLIO

La parola che esorta, salva, cambia le cose e cambia noi stessi Un contadino poverissimo ha una moglie bellissima. Arrivano i criminali, la violentano, la uccidono, ne uccidono i figli e, credendolo morto, lasciano il marito per terra.

di Piero Colaprico

Ma non è morto: «In tutte le storie di mio padre ci sono soluzioni geniali che rovesciano la situazione. A quel contadino è accaduto qualcosa di troppo orribile, gli hanno tolto tutto, una corda però gliel’hanno lasciata. Lui, disperato, allora prepara un cappio, se l’infila al collo, ma in extremis entra un giovane, è Gesù, si avvicina al contadino e lo bacia sulla bocca e nella testa del contadino si muovono rotelle che non sapeva di avere. Gli viene voglia di raccontare ciò che ha subìto e diventa un giullare. Questa storia è la storia della nascita del giullare, la storia di mio padre e mia madre. Il primo passo per cambiare le cose è raccontare la nostra vita alla gente». È così che in piazza Duomo, davanti alla cattedrale, ha parlato Jacopo Fo il 15 ottobre, ai funerali del padre. Di Dario Fo.

Ci sono storie terribili, indicibili, le definiamo mostruose e, purtroppo, sono umane. Franca Rame nel ’73 è stata

scheda

Piero Colaprico (Putignano 1957), giornalista e scrittore, vive a Milano dal 1976. È inviato speciale di Repubblica, si occupa di giustizia e di cronaca nera. Ha scritto alcuni romanzi, tra cui Trilogia della città di M. (2004), vincitore del Premio Scerbanenco. Una penna tagliente. Come questa rubrica che cura per Scarp.

violentata, Dario Fo e il figlio hanno sofferto ciò che forse possiamo immaginare abbiano sofferto. Ma «mio padre e mia madre hanno avuto una vita bellissima», anche perché chi le dice, le cose, quelle cose, se le lascia alle spalle, in un qualche modo che non sappiamo bene, ma che esiste. Chi invece se le tiene dentro, come diventa? Come rischia di diventare? Fo aveva parlato

del contadino distrutto e di Gesù in un’opera contestatissima come Mistero Buffo. S’è sempre definito, dalla maggiore età e dal dopoguerra, ateo e comu-

Di quanto sangue potranno fare a meno le nostre arterie senza l’ossigeno dei pensieri? Quanto è più comodo tenere la testa sotto la sabbia, troncare, sopire, dimenticare, omettere, nascondere? nista. Eppure, quando le parole commosse del figlio risuonano sul sagrato del Duomo, viene da pensare che sono le parole che uno avrebbe potuto sentire anche dentro, dall’altare, se a pronunciarle fosse stato qualcuno che tiene a cuore la sorte degli ultimi. Non è facile diventare un giullare e nemmeno un capocomico. È difficile persino diventare uomini e donne in pace con se stessi. Ma è la “parola” che esorta le persone. Èreale, vera, assoluta la parola che cambia le cose e cambiamo anche noi stessi. «Io ho visto Fo una sera, in fondo alla Barona, in una serata con pochissime persone, non mi ricordo nemmeno di che cosa si parlava, ma lui stava là, con la birra, a far casino con gli sconosciuti», dice l’attore e regista Renato Sarti. «Due anni fa, anche se non ci vedeva tanto, è venuto al nostro spettacolo,

s’è seduto, voleva salutarci», dice Arianna Scommegna. «Io ero del circolo Chico Mendez, l’ho conosciuto là», dice un signore di 83 anni, che sta sotto l’acqua che dal cielo scende ad allagare piazza Duomo, nel giorno dei funerali di Dario Fo.

Sono davvero tante le persone che hanno conosciuto Fo non a teatro, ma nei posti più impensabili. Che cosa l’ha spinto a spendersi così? «Papà ascoltava per ore le persone, specie se avevano il nero dentro». Dimentichiamoci pure dei Fo, non occupiamoci di chi ha il «nero» dentro, manteniamo la nostra anima, il nostro cuore, la nostra psiche, insomma quel qualcosa di noi che sentiamo scalciare nel petto dentro una cassaforte di silenzio.

E poi? A forza di non dire, di quante pagine diminuisce il nostro vocabolario? Di quanto sangue potranno fare a meno le nostre arterie senza l’ossigeno delle frasi?Ma quanto sarebbe più facile stare zitti? Quanto è più comodo tenere la testa sotto la sabbia, troncare, sopire, dimenticare, omettere, nascondere? Tantissime volte chi sta in strada, sia un cronista, sia un senzatetto, sia un prete, sia un poliziotto, sia chiunque di noi, s’è imbattuto nel silenzio, e in chi non parla. Perché non ha le parole. O forse non le trova. Non le conosce o riconosce.

Una volta che le ha trovate, che qualcuno l’ha aiutato a risalire dentro il suo vocabolario, ecco che uno comincia a raccontare e comincia a cambiare: non succede così con i venditori di Scarp de’ tenis, se qualche volta ci parlassimo? novembre 2016 Scarp de’ tenis

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PIANI BASSI

Giovani, dunque poveri: lo Stivale che all’incontrario va

di Paolo Brivio

«Un elemento inedito (...) che stravolge il vecchio modello di povertà italiano, è che oggi la povertà assoluta risulta inversamente proporzionale all’età, diminuisce all’aumentare di quest’ultima». Caritas Italiana ha pubblicato il 17 ottobre, Giornata mondiale di lotta alla povertà, il Rapporto 2016 sulla povertà e l’esclusione sociale in Italia, intitolato Vasi comunicanti. Tra i tanti dati che il documento sciorina, vi sono quelli, derivati dalla statistica pubblica, che inducono Caritas a stabilire un inquietante

rato la soglia psicologica dei 100 mila, nel 2015 sono stati 108 mila. Guarda caso, il travaso è soprattutto di sangue (e di braccia, e di materia cerebrale) giovane all’anagrafe. Impossibile che il motivo stia solo nella riduzione, all’epoca del digitale e dei voli low cost, del vasto mondo a piccolo villaggio. I nostri ragazzi

sciamano per il globo in cerca di opportunità. O, se vogliamo dirla crudamente, anche se non devono ricorrere alla lotteria dei barconi, in fuga dalla povertà. Siamo, insomma, il Paese che in

rapporto inverso tra età e povertà, generato dall’assenza di diffuse occasioni di impiego. Fino a qualche tempo fa, l’opinione comune individuava nell’anziano, pensionato sociale o al minimo, l’emblema di una condizione di fragilità, sovente intrecciata all’indigenza materiale. Oggi molti vec-

l’autore Paolo Brivio, 49 anni, si è appassionato ai giornali ai tempi dell’università. E ha coniugato questa passione-professione con l’esplorazione dei “piani bassi” della nostra società. Direttore di Scarp dal 2005 al 2014, oggi fa il sindaco: pro tempore, perché rimane “giornalista sociale” in servizio permanente effettivo

chi continuano a non passarsela bene. Ma, almeno, hanno un’entrata fissa e inscalfibile. Non insidiata dalle montagne russe della recessione. Non erosa dal tarlo dell’inflazione. Insomma, hanno retto e reggono alla crisi. Nessun italiano sano di mente direbbe lo stesso, circa lo stato di salute complessivo delle giovani generazioni. Indigenti e migranti

In effetti, se molti nostri connazionali hanno (ri)preso a migrare verso l’estero, prossimo o remoto, un motivo ci sarà. Nel 2014 gli espatri hanno supe-

Non si può fare a meno di provare una scomoda vertigine, al pensiero di un’Italia sempre più vecchia, dunque sempre più governata dai bisogni, dagli interessi, dai consumi, dal consenso dei vecchi: spirale viziosa, in grado di incartapecorire un Paese

Europa, e forse nel mondo, fa meno figli. E che, quando li fa, rischia seriamente di crescerli spaesati, disoccupati, infine indigenti e migranti. La constatazione è già abbastanza triste. Ma lo è ancor di più, se contestualizzata nella penuria di politiche organiche pensate per sovvertirla. Fa una certa impressione, per esempio, la decisione, annunciata dal governo per la legge di stabilità 2017, di investire sulle pensioni (per favorire gli anticipi e irrobustire la platea dei percettori di quattordicesima). Le misure, in sé, sono sacrosante. E certo non è

giocando alla guerra tra generazioni di poveri che si risollevano le sorti dei gruppi sociali più esposti. Però non si può fare a meno di considerare il crescente peso elettorale, oltre che demografico, delle coorti di ultra 65enni. E di provare una scomoda vertigine, al pensiero di un’Italia sempre più vecchia, dunque sempre più governata dai bisogni, dagli interessi, dai consumi, dal consenso dei vecchi: spirale viziosa, in

grado di incartapecorire un paese, il suo spirito e il suo futuro. Insomma, come sempre: la questione della povertà finisce per rivelarsi una questione di caratura nazionale. Condanna per alcuni, insidia per molti. Se non ci si cura dei piani bassi, prima o poi si registreranno smottamenti dei piani intermedi, e persino contraccolpi ai piani alti. Ogni edificio va consolidato a partire da ciò che sta sotto: un Paese non fa eccezione. novembre 2016 Scarp de’ tenis

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LA FOTO

di Abdalrhman Ismail

scheda Un bambino guarda le macerie causate da un bombardamento che ha colpito la periferia di Aleppo, in Siria. Credit: REUTERS / Abdalrhman Ismail courtesy Reuters/INSP

L’Organizzazione mondiale della sanità ha dichiarato che solo nelle ultime settimane, tra agosto e settembre, 338 persone sono rimaste uccise nella zona assediata di Aleppo est, di cui 106 bambini; mentre su 846 rimasti feriti, 261 erano 12 Scarp de’ tenis novembre 2016


bambini. L’Oms ha chiesto inoltre di cessare i bombardamenti delle strutture e del personale sanitario, di garantire l’evacuazione dei feriti e delle persone malate e di permettere agli aiuti umanitari di entrare nel territorio novembre 2016 Scarp de’ tenis

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IN BREVE

europa Come aggiornare e ampliare i diritti sociali di Enrico Panero I diritti sociali nell’Ue sono effettivamente esercitati? Sono ancora pertinenti rispetto alle sfide attuali e future o devono essere riformulati? Per rispondere a queste domande la Commissione europea ha avviato un’ampia consultazione, aperta nel marzo scorso e che si concluderà a fine anno, chiedendo alle altre istituzioni dell’Ue, ad autorità e Parlamenti nazionali, parti sociali, società civile, esperti e cittadini di esprimere il loro parere, così da giungere all’inizio del 2017 alla definizione di un “Pilastro europeo dei diritti sociali”. L’obiettivo è di integrare l’attuale normativa, «orientando le politiche in settori essenziali per il buon funzionamento e l’equità dei mercati del lavoro e dei sistemi di protezione sociale negli Stati membri, ravvicinarle e migliorarle». La sfida è notevole, perché si tratta di pari opportunità, accesso al mercato del lavoro, condizioni di lavoro eque, protezione sociale adeguata e sostenibile, accesso a servizi di qualità, vita dignitosa e protezione dai rischi, piena partecipazione alla vita professionale e sociale. La Commissione intende dunque «aggiornare, ampliare e approfondire i diritti sociali, sul lavoro e nella società, facilitandone l’applicazione e promuovendo pratiche positive». Ma deve essere una reale apertura alle istanze sociali perché, come sostiene un appello per Una nuova Europa lanciato da 177 organizzazioni sociali e sindacali europee, «l’Europa è a un bivio. C’è bisogno di un dialogo autentico, democratico ed inclusivo sul futuro e su come l’Ue possa fornire benefici tangibili per i cittadini». http://ec.europa.eu/social/

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Safe Heart un cuore nuovo per vivere Si chiama Safe Heart onlus l’associazione nata su iniziativa di quattro cardiochirurghi dell’Ospedale Monzino di Milano con l’intento di offrire una speranza di vita ai bambini cardiopatici dei Paesi in via di sviluppo. «Crediamo che il diritto di ogni essere umano alla salute sia inalienabile e che ognuno debba poter accedere a cure medico-chirurgiche di

qualità». L’Associazione organizza e

partecipa dal 2013 a missioni umanitarie, in territori segnati da guerra e povertà, con lo scopo di realizzare interventi nell’ambito delle patologie cardiovascolari e formare personale “sul posto”. Safe Heart è per esempio presente con i propri progetti ad Haiti, l’isola colpita dal recente disastro causato dall’uragano Matthew. Sul sito dell’associazione (www.safeheartonlus.org) è possibile, nel dettaglio, conoscere e sostenere i diversi progetti.

street art L'artista nero di Brooklyn appassionato di anatomia Jean-Michel Basquiat è al Mudec di Milano fino al 26 febbraio 2017. Con quasi 100 opere provenienti da collezioni private, la mostra ripercorre la breve ma intensa carriera di Basquiat, che si è conclusa con la morte prematura dell'artista a ventisette anni, nel 1988. Basquiat, che resta uno dei più importanti esponenti del graffitismo americano (insieme a Haring), ha avuto la peculiarità di aver portato all’attenzione del grande pubblico tematiche contemporanee sull’identità umana e sulla questione razziale dei neri americani. Venti anni dopo la sua prima mostra al Whitney Museum of American Art (1992-1993) e dieci anni dopo la retrospettiva al Brooklyn Museum of Art (2005), l'esposizione al Mudec risulta importante perché mostrerà il ruolo centrale e l’influenza che Basquiat ha avuto su una generazione di artisti contemporanei.

on

off

Nasce la campagna sui lasciti testamentari di Ronda Carità e Solidarietà Onlus per superare alcuni pregiudizi e avvicinare i cittadini a chi vive nelle strade milanesi senza speranza. Alcuni anni fa l’Associazione Ronda Carità e Solidarietà Onlus ricevette 50 mila euro lasciati da un benefattore nel suo testamento, per aiutare i senza dimora. Questo gesto, inatteso e consistente per una piccola realtà, fece nascere nella presidente, Magda Baietta e nei volontari del Direttivo, tante idee e progetti per ampliare le attività. «Quel primo gesto è stato il motore in grado di sprigionare grandi energie e di passare da una gestione prevalentemente basata sul volontariato, a una più articolata», racconta la presidente Baietta. Oggi l'associazione, al compimento dei 18 anni, ha deciso di avviare una campagna sui lasciti testamentari per dare avvio a nuovi progetti.

Sono i disastri naturali che mettono in fuga milioni di persone: ogni anno sei milioni. Le previsioni dicono che saranno 250 milioni nel 2050. Milioni di famiglie che fuggono dalla loro terra perché le calamità naturali e i cambiamenti climatici distruggono la loro casa e la loro vita. Ma i rifugiati ambientali restano dei fantasmi perché la Convenzione di Ginevra non riconosce loro alcuno status di rifugiato. Solo chi scappa dalla guerra può chiedere asilo, chi fugge da fame o carestie è quasi sempre senza diritti. Eppure i numeri sono epocali: secondo il Centre for research on the epidemiology of disasters, negli ultimi 20 anni sono state distrutte da catastrofi climatiche 87 milioni di case. Svezia e Finlandia sono gli unici Paesi europei ad aver incluso i profughi ambientali nelle rispettive politiche migratorie nazionali.

Oltre il tempo per restare nella solidarietà

L’emergenza del secolo non ha diritti


[ pagine a cura di Daniela Palumbo ]

A Genova, fino a febbraio, c’è in mostra la Pop Society di Andy Warhol

Sono passati trent’anni dalla scomparsa di Andy Warhol, l’artista nato a Pittsburgh, il 6 agosto 1928 e morto a 58 anni a New York, il 22 febbraio 1987. Palazzo Ducale di Genova gli dedica una mostra con ben 170 opere tra tele, prints, disegni, polaroid, sculture, oggetti, provenienti da collezioni private, musei e fondazioni pubbliche e private italiane e straniere: fino al 26 febbraio 2017. Il percorso tematico è a 360 gradi e copre tutte le attività del poliedrico artista, si sviluppa infatti intorno a sei linee conduttrici: il disegno, le icone, le polaroid, i ritratti, Andy Warhol e l’Italia, e infine il cinema. Info www.palazzoducale.genova.it

pillole homeless Una casa a chi è in condizioni di grave disagio

mi riguarda Il nuovo lavoro di Fabio Cavalli regista di Cesare deve morire Si parla di radicalizzazione nel carcere di Rebibbia, a Roma. Naufragio con spettatore, il nuovo cortometraggio prodotto da Laura Andreini Salerno per La Ribalta – Centro Studi Enrico Maria Salerno. La regia e la sceneggiatura sono di Fabio Cavalli, attore, regista e coproduttore di Cesare deve morire, Orso D’Oro a Berlino 2011 e direttore del laboratorio di teatro che ispirò i fratelli Taviani. Nelle carceri italiane gli islamici sono il 15%, circa seimila persone. Spesso l’adattamento è impossibile, a causa della lingua e delle abitudini differenti. Nel film il protagonista è Nadil che ha la passione per il disegno. E sarà proprio l’amore per l’arte che lo porterà a rifiutare l’estremismo a cui è chiamato dai compagni arabi. «Questo corto è fatto con interpreti che guardano dritti nella macchina da presa e questo ha un significato preciso: come diceva Emanuel Levinass, l’unica possibilità che abbiamo di non condividere il dolore degli altri è voltare la faccia dall’altra parte, non guardarli negli occhi perché se li guardiamo riconosciamo nei loro occhi i nostri, che diventano uno specchio». Attualmente il progetto Teatro accoglie cento detenuti; dall’inizio dell’attività ne ha coinvolti oltre seicento. Il tasso di recidiva fra i detenuti impegnati nelle attività si è drasticamente ridotto sotto il 10%.

L’Housing First nasce negli Stati Uniti nel 1992 quando Sam Tsemberis avviò a New York il Pathways to Housing, un programma di contrasto al fenomeno dei senza tetto. Il bilancio della prima sperimentazione italiana è positivo. Negli appartamenti indipendenti gli inquilini pagano una piccola parte dell'affitto, quando possono, altrimenti sono a disposizione per fare lavori di manutenzione. Capofila dell'iniziativa è la Federazione Italiana degli Organismi per le Persone senza Dimora (fio.PSD) che insieme ad altre organizzazioni no profit – 53 in tutto – partecipano al progetto dell'Housing First Italia nato come sperimentazione nel 2014. Fra gli enti attivi anche diversi comuni tra cui Torino, Milano, Palermo e Bologna. Il progetto consiste nell'offrire a persone con problemi di salute mentale, o grave disagio sociale, un accesso in appartamenti indipendenti. La particolarità del progetto Italia consiste nella scelta di un target, ossia persone che vivono ai margini della società.

Napoli Un progetto per l’autonomia Aiutiamoci.net è un portale creato da Parent Project Onlus, l'associazione di genitori per bambini e ragazzi affetti da distrofia muscolare. La piattaforma è pensata per lo scambio tra domanda e offerta di assistenza, con il fine di promuovere l’autonomia dei giovani disabili. L’intento dell'associazione è di dare supporto a giovani e adulti con disabilità, al fine di poter elaborare un proprio progetto di vita il più autonomo possibile. Il sito è dunque dedicato a giovani e adulti diversamente abili e operatori/operatrici qualificati. I servizi potranno essere di diverse tipologie, dal semplice accompagnamento in auto all’assistenza in casa per chi sperimenta la vita in un’abitazione autonoma. La piattaforma web prevede due tipi di profili utente: quello per le persone disabili e le loro famiglie e quello per le loro assistenti: è previsto un meccanismo di valutazione reciproca - anche economica in quanto i servizi sono a carico dell'utente - attraverso feedback visibili all’interno del forum.

La guerra dal punto di vista delle donne Fino al 13 novembre a Palazzo Madama si può visitare la mostra In prima linea. Donne fotoreporter impegnate nei territori di guerra. Quattordici donne “armate” solo della macchina fotografica, in prima linea nei punti caldi del mondo per testimoniare ciò che altrimenti non sarebbe raccontato. Settanta immagini scattate dalle fotoreporter che lavorano per le maggiori testate nazionali e internazionali e che provengono da tante diverse nazioni: Italia, Egitto, Usa, Croazia, Belgio, Francia, Spagna. Ogni professionista presenta cinque lavori significativi per la capacità di catturare non solo un’azione ma anche un’emozione.

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IN BREVE

Tre minuti di sbagli è l’album della cantautrice milanese e busker Manuela Pellegatta. Il primo disco dopo tanti anni di strada e gavetta

50 milioni a favore dei senza dimora Michele Ferraris È stato pubblicato il 4 ottobre, dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, il primo avviso per finanziare azioni a favore delle persone senza dimora, da realizzare nel periodo 2016-2019. 50 milioni di euro saranno ripartiti tra gli Enti territoriali che hanno una concentrazione del fenomeno particolarmente rilevante, come evidenziato nell’Indagine sulla grave emarginazione adulta in Italia, condotta da fio.PSD con Istat, Caritas Italiana e il Ministero del Lavoro. È questo un primo passo concreto, grazie al quale si intende affrontare il problema degli homeless partendo da azioni innovative quali il programma Housing First, che vede la casa come elemento fondamentale della dignità di una persona e come punto per un percorso di inclusione sociale. Questo avviso, che rientra nelle azioni previste dal Primo Piano Nazionale di Lotta alla Povertà, permetterà ai territori di sostenere i servizi innovativi fino ad oggi solo sperimentali, dando così piena attuazione alle Linee di indirizzo per il contrasto alla grave emarginazione adulta, che costituiscono il principale riferimento per l’attuazione degli interventi di contrasto alla grave marginalità e alla condizione di senza dimora In Italia. Assume quindi oggi ancora più valore la campagna di sensibilizzazione #HomelessZero, patrocinata dallo stesso Ministero, che ha l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica sul fenomeno dei senza dimora e promuovere azioni volte a ridurre il numero delle persone che vivono in strada. fiopsd.org/bando_2016_10_03

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DUE DOMANDE

Album d’esordio per Manuela Pellegatta cantautrice e busker di Daniela Palumbo

Tre minuti di sbagli è l’album di esordio della cantautrice e busker milanese Manuela Pellegatta. Il disco è

prodotto da Paolo Iafelice – discografico che ha lavorato con Fabrizio De André, Ligabue, Fiorella Mannoia –: dieci canzoni che fotografano la quotidianità dei piccoli gesti con un sound pop-folk fresco e semplice, come lei, Manuela. Un passato all’Accademia di Brera e poi il taglio con l’arte: sceglie giurisprudenza e per un po’ svolge il lavoro di commessa e studia. Ma poi ancora un dietro-front, dopo la laurea capisce che il suo futuro è nella musica. Riparte da zero e cambia totalmente vita.

Diventa una busker e inizia a suonare in strada e nei locali. Attualmente è nel direttivo dell’associazione Artisti di strada di Milano. Nel 2015 l’incontro con Ia-

felice e ora inizia la tournée con il suo primo album. Che la porterà fino in Spagna. Il sogno si è avverato. C’è una canzone che racconta i cambiamenti nella tua vita? Camera mia. Ho scritto questo brano la notte prima del trasloco da casa dei miei verso la casa di Lambrate in cui mi sono trasferita quando ho iniziato a studiare giurisprudenza e a lavorare in un negozio. Volevo lasciare tutto lì dai miei e non portarmi via nessun ricordo. Un taglio netto. Ma

ancora non sapevo che avrei cambiato ancora rotta. Quella sera, dopo il trasloco ho preso il quaderno e ho iniziato a scrivere. Quello è stato il primo di tanti quaderni, un diario di bordo, il punto zero. E da quel diario ho cominciato a navigare verso le parole e la musica. Hai cantato (e ancora lo fai) anche in strada, con il cappello. E fai parte del direttivo degli Artisti di strada. In un momento dove tutta la mia vita stava capitolando ho deciso si suonare in strada. L’inverno di quell’anno dopo la laurea me lo ricordo molto bene, soprattutto le scarpe con dentro i sacchetti del cuki, il cappello di lana e i guantini. Non avevo detto a nessuno della mia scelta, solo al mio fidanzato Fabrizio. Al solo pensiero di incontrare i miei colleghi di giurisprudenza o i parenti sarei morta di vergogna. Quell’inverno in Via Dante ho conosciuto Mario, un trombettista jazz. Prendevamo sempre il tè caldo alla Mondadori in Duomo, si parlava di progetti musicali, ero entusiasta e mi aveva fatto conoscere molti altri artisti che nel tempo si sono rivelati importanti per il mio percorso, tra cui i musicisti dell’Associazione Artisti di strada di Milano. Suonavo per ore, mi dava sollievo. In strada si fanno incontri veri e a volte surreali, tante mie canzoni nascono dagli incontri sulla strada. Ho sempre sognato di andare a suonare a Dublino perché lì esiste una concezione completamente diversa e grande rispetto per gli artisti di strada. In Italia suonare in strada viene visto ancora con pregiudizio e non come una risorsa di riqualifica sociale.


IN BREVE

Quella volta che El Mago regalò il cappotto a un senza dimora Borges scriveva: “Ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per la strada, lì ricomincia la storia del calcio”. E a quelle latitudini non è una storia qualunque, ma è La Storia. La rappresentazione epica della vita nella quale l’immaginario popolare intinge la speranza e la sconfitta. È della strada che parlava Borges perché è lì, ancora oggi, che ogni giorno il sole tramonta dietro a un manipolo di ragazzini che prendono a calci qualcosa che somiglia a un pallone. A El Mago era capitato, dopo l’infanzia nelle strade di El Salvador, di poterci vivere di quella Storia. “Era arrivato in Spagna per i Mondiali del 1982 e da lì non se ne era più andato” scrive Marco

Marsullo ne Il tassista di Maradona, Rizzoli. El Mago, ovvero Jorge Gonzales, uno dei più forti calciatori degli anni ottanta, amato da sua maestà El Pibe de oro, Diego Armando Maradona. I più prestigiosi club calcistici europei lo volevano, ma lui si era innamorato di Cadiz, e lì era rimasto.

Una notte di dicembre El Mago, racconta Marsullo, aveva avuto in prestito da un amico un cappotto elegante per una cena di gala. Poi, però, lui era venuto via. Era andato al porto a guardare il mare. E lì aveva visto un disperato sui gradini della chiesa. A El Mago i disperati

non facevano paura, li conosceva uno per uno al suo paese, e i disperati sono uguali dappertutto. «Èuna buona notte?» chiese all’uo-

Marco Marsullo racconta la storia di Jorge Alberto González Barillas, detto El Mago, ex calciatore salvadoregno

mo. No non era una buona notte, e nemmeno una vita decente. El Mago gli mise sulle ginocchia il cappotto Principe di Galles. Poi guardò in alto, verso le stelle. «A Parigi secondo me non si vedono come da qui», gli disse andando via. No, El Magonon avrebbe potuto vivere dentro un club europeo di quelli blasonati. Lì per la strada i ragazzini non ci sono più, e la Storia è tutta un’altra storia. (dp)

Vicenza Una città che si presenta con gli occhi dei cittadini L'Archivio fotografico di Vicenza nasce con un progetto dal basso. Saranno cinque fotografi amatoriali, opportunamente formati da professionisti, a realizzare una parte dell'Archivio Fotografico della città. Il Comune di Vicenza e l’associazione culturale Centro di cultura fotografica, hanno collaborato per realizzare il progetto che mira a valorizzare l’immagine della città. Sono cinque i cittadini che hanno passato la selezione e partecipato al workshop fotografico tenuto da Giulia Ticozzi, photo editor di La Repubblica, e Giuseppe Fanizza, membro del collettivo milanese Exposed Project e della piattaforma di ricerca Habitat, entrambi dedicati alla fotografia del territorio. Luca Matteazzi, guida turistica di Vicenza, ha introdotto i partecipanti ai luoghi da fotografare, facendo conoscere loro la storia in modo approfondito.

LA STRISCIA

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LE DRITTE DI YAMADA

Che emozioni in quel corto vintage di Wenders

Certo che volevo lo stesso rivedere quel piccolo film, trasognato e magico: erano 15 anni che volevo rivederlo. Lascio lì il video e il signore mi da appuntamento di lì a qualche giorno. Vado e non è pronto. Torno e non è pronto ancora. Finalmente ci siamo, e mi scapicollo a casa. Lo metto su e, come predettomi, non ha più il colore: le immagini riversate un po’ “ballano”, non sono nitidissime ma almeno interattive:

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Il riversamento di una vecchia videocassetta su cd è l’occasione per rivedere questa perla di Wim Wenders del 1992

il libro Arisha, l’orso e l’anello di pietra di Wim Wenders

protagonisti del corto sono quattro: una donna russa con la sua piccola figlia Arisha, un uomo con un costume da orso e Wim Wenders, en travesti da Babbo Natale con telecamera sempre incollata all’occhio: dice all’Orso che vuole vedere quanto resisterà a vedere la realtà, unicamente attraverso la sua macchina da presa. La donna e la figlia sono in viaggio, e incontrano l’Orso che – buttati i fogli che doveva volantinare per lavoro –decide di lasciare Berlino. Sta camminando tutto solo e sbofonchiante quando la donna accosta e gli propone di prendere la guida dell’auto, in direzione nord. Lui accetta così lei riesce a scrivere un po’ sul portatile: sta completando un romanzo e le migliori idee le vengono con l’auto che macina strada sotto la sua pancia. Orso si accorge che dietro c’è la bambina che dorme. Contento, entra nella casa-viaggiante calda di quella piccola famiglia. E proprio nel momento in cui stava per sconsolarsi, è d’aiuto. In un’aerea di servizio incontrano Babbo Natale che, filmando, vede Orso portare due bevande calde ad Arisha e alla mamma-scrittrice. Chiede se può viaggiare un po’ con loro, e la tipo-Espace dell’epoca si muove in uno scenario brullo tipo la Daunbailò, trasportando un carico umano luminoso e pronto a condividere quello che la strada porta loro incontro. Si saluteranno su una spiaggia piena di pietre, tutte diverse una dall’altra, lisce e smussate dalla reciproca vicinanza.

F. Zarzana e F. Messori La tifosa di Messi Acar edizioni, euro 13,50

Viaggio alla ricerca della lingua italiana Antonelli racconta la storia di ognuno di noi: noi che scrivevamo le lettere e oggi scriviamo su whatsapp. Ci spiega come si stanno modificando alcuni aspetti della grammatica. Un libro per quelli che “digito ergo sum”, ma anche per quelli che quando sentono “chiocciola” pensano ancora alle lumache. Giuseppe Antonelli Un italiano vero Rizzoli, euro 18

La mappa dei mutamenti epocali

[ a cura di Daniela Palumbo ]

zia è cambiata nel tempo, e a ragion veduta dico nel tempo perché da bambina compravo lì i miei 45 giri. Cassettine musicali, cd, Vhs, Dvd, per approdare ora all’usato e ai vinili: le ha viste tutte. Ovviamente è cambiato anche il proprietario, perché pochi mesi fa, grazie al piccolo manifesto sulla porta d’ingresso che recitava “Riversiamo le tue Vhs su cd”, sono entrata constatando che dietro al bancone non c’era più il signore smilzo che ricordavo. Portavo con me una preziosa e casalinga videocassetta-fiume con tre film registrati: Film Blu e Film Rosso di Kieslowski e, in mezzo, un corto di Wim Wenders (Arisha, l’Orso e l’anello di pietra del 1992). La difficoltà dell’impresa stava nel riversare solo il corto su cd. «Lo sa che si rovinano i nastri incisi? Facile che non vedrà più questo film coi suoi colori. Lo vuole lo stesso? » mi chiede il signore vintage.

Francesca Messori è la mamma di Francesco, 16 anni, nato con una sola gamba. Ma nonostante questo è riuscito a realizzare il sogno di diventare calciatore. E incontrare il suo campione, Leo Messi e addirittura il Papa. La madre, che lo ha sostenuto con grande forza e senza pietismi, racconta la storia del figlio in un libro. Il ricavato andrà all'associazione Nazionale di Calcio Amputati. Naturalmente fondata dalla madre di Francesco.

reclamano la mia emozione a rammendare le scene col technimemoir, altro che technicolor. I

di Yamada

Vicino a casa mia c’è un negozio di dischi dall’atmosfera vintagee senza un millimetro libero. La sua mercan-

La tifosa di Messi

L'indiano Parag Khanna disegna la mappa dei mutamenti epocali he stanno investendo l mondo. Migrazioni, megalopoli, comunicazioni e cambiamenti climatici stanno ridisegnando la geografia planetaria. Parag Khanna Connectography, Le mappe del futuro ordine mondiale Fazi editore, euro 26


VISIONI

Mamma e figlio in una scena di È solo la fine del mondo, ispirato a uno scritto di Jean-Luc Lagarce morto di Aids nel ’95 a cui il film è ispirato

La teoria svedese dell'amore rende soli? Il film riflette sul manifesto proposto dal parlamento svedese nel 1972 “La famiglia del futuro”. Ogni relazione si basa sull'indipendenza: la donna dal marito, gli adolescenti dai genitori, gli anziani dai figli. E il welfare garantisce indipendenza a tutti. Erik Gandini racconta come l'estremizzazione di questo concetto abbia reso gli svedesi soli.

È solo la fine del mondo

Cannes 2016. Uno dei maggiori festival del mondo conferisce due dei suoi premi più importanti, la Palma d’Oro e il Gran Prix della giuria, rispettivamente al regista più anziano in concorso, Ken Loach, e a quello più giovane, Xavier Dolan. Da una parte un ottantenne con una carriera infinita e più di cinquanta titoli per il cinema e la tv. Dall’altra un ventisettenne nato a Montreal che continua a far parlare di sé e che impone la propria idea di cinema e il proprio stile ai festival di tutto il mondo. Secondo l’internet movie database, mentre è in post-produzione The Death and Life of John F. Donovan, settimo lungometraggio e suo primo film “americano”, Xavier Dolan ha già vinto una sessantina di premi e ha guadagnato una novantina di nominationdurante la sua breve carriera. Arriva ora anche in Italia È solo la fine del mondo tratto da un testo teatrale di Jean-Luc Lagarce. La storia come i precedenti Mommy, Tom à la ferme e soprattutto J'ai tué ma mère, mette in scena una famiglia con difficoltà di comunicazione e di relazione.

Louis (Gaspard Ulliel) è scappato da casa. Dieci anni

Attore, regista, sceneggiatore, vincitore di festival indipendenti, doppiatore di film commerciali, artista che sgrida Netflix perché non mostra correttamente i suoi film, esperto in drammi familiari, predestinato già pronto per Hollywood… chi è Xavier Dolan?

il film È solo la fine del mondo Un film di Xavier Dolan. Con Marion Cotillard, Léa Seydoux, Vincent Cassel, Nathalie Bayel. Drammatico, durata 95 min. Francia 2016

Un film sul conflitto serbo-bosniaco L’Enclave, una parte di territorio serbo in un villaggio albanese del Kosovo post-bellico. Un matrimonio, un funerale e due comunità divise dall’odio. Nenad e Bashkim: il rapporto tra due bambini come specchio del conflitto e unico spazio per il cambiamento. Quei bambini che porteranno speranza.

Dal complicatissimo pinzimonio al profumo che la mamma sceglie prima di abbracciare il figlio ritrovato, Dolan mostra la famiglia nei suoi riti più assurdi. Tutti i preparativi sembrano mascherare dei conflitti irrisolti che forse arrivano da molto lontano. Lo spettatore di questo film, nelle sale a partire da dicembre, percepisce ben presto che qualcosa nella bellissima casa di campagna che ospita il gruppo è sul punto di esplodere. Consigliatissimo per chi non ha mai visto nulla di Dolan, regista che sarebbe piaciuto a Michelangelo Antonioni. Malgrado la giovane età, è già maestro nel cogliere lo smarrimento, le ferite e le difficoltà di comunicazione delle persone comuni.

La ragazza che sognava l'amore sul treno [ a cura di Daniela Palumbo ]

di Sandro Paté

dopo la sua fuga, diventato ormai uno scrittore affermato, decide di tornare per un ultimo saluto alla madre (Natalie Bay) e ai fratelli (Léa Seydoux, Vincent Cassel) dato che sta morendo di Aids. Partecipa a questa strana riunione di famiglia anche Catherine (Marion Cotillard), silenziosa e passiva moglie del fratello, con lo sguardo perso nel vuoto ma con la voglia di intervenire e, finalmente, esprimersi. Forse non esiste un modo corretto e poco doloroso per congedarsi da una famiglia così eccentrica e un po’ turbolenta, tanto che forse il triste annuncio neanche avverrà.

Il film è la trasposizione del bestseller mondiale di Paula Hawkins. La ragazza del treno è una donna sofferente in seguito al suo divorzio. Ogni giorno, percorrendo il tragitto che la porta nel centro di Londra, sogna una vita come quella di una coppia che vede fare colazione in veranda. Ma un giorno succede qualcosa di strano. novembre 2016 Scarp de’ tenis

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Un’immagine scattata nel 1999 da Yannis Behrakis. Una famiglia di albanesi, è in fuga dal Kosovo dilaniato dal conflitto

Yannis Behrakis «Voglio essere i vostri occhi» di John Dawson (traduzione dal greco di Danae Seemann, per gentile concessione di Shedia / INSP.ngo)

Per Yannis Behrakis, pluripremiato fotografo greco, vincitore del Pulitzer, un semplice clic rappresenta il suo contributo per cercare di cambiare il mondo e renderlo più giusto 20 Scarp de’ tenis novembre 2016

Nel 2016, grazie al suo reportage sui migranti, Yannis Beharkis ha vinto il Pulitzer. Basterebbero queste poche parole per descrivere la capacità di trasmettere emozioni con le proprie immagini. Shedia, il giornale di strada di Atene lo ha avvicinato per questa intervista che pubblichiamo in esclusiva per l’Italia. Come e perché sei diventato fotografo? Al termine degli studi mi sono guardato attorno, volevo diventare economicamente indipendente, per questo ho fatto tanti lavori differenti, poi un giorno per caso, mi è capitato tra le mani un libro fotografico della Time Life. In quel momento ho capito che la fotografia poteva essere quello di cui avevo bisogno


per dare una svolta alla mia vita. Mi sono così iscritto all’unica scuola di fotografia esistente ad Atene. È stato subito chiaro che a me piaceva la fotografia e che io piacevo a lei. Hai affermato spesso che la fotografia è una forma d’arte, perché? Quello che mi ha sempre affascinato, è stata la magia dell’avere tra le mani un foglio di carta bianco e durante lo sviluppo vedere comparire a poco a poco un’immagine. Per me è un momento magico, è come fermare il tempo. Quali sono stati i tuoi primi passi nel mondo della fotografia? Un cugino aveva uno studio fotografico, ho cominciato così, facendo piccoli lavoretti con lui. Lavorava spesso con le case discografiche e capitava di essere invitati a feste e concerti. I primi tempi era bello, poi mi sono stancato, era tutto molto mondano e io non amo la mondanità. Ho capito che quello non era il mio ambiente, non era quello che volevo fare “da grande”, ho cominciato a cercare delle alternative. E poi ho visto il film, Sotto Tiro, la storia di un fotoreporter che documenta l’assassinio di un giornalista da parte dei militari agli ordini del dittatore nicaraguense Somoza. Al termine della proiezione mi sono detto: «Ecco, questo è ciò che voglio fare», voglio dare il mio piccolo contributo e denunciare, con la fotografia, alcune delle tante storture e brutture di questo mondo. Sembra sia una tradizione di famiglia quella di voler contribuire a cambiare il mondo. Mio padre era un democratico di

Una buona fotografia suscita emozioni in chi la guarda. Più forti sono le emozioni, più la fotografia ha raggiunto il suo scopo

ampie vedute. Era un’ufficiale dell’esercito e ha sempre aiutato i più bisognosi, fu arrestato durante la dittatura dei Colonnelli (1967-74). Per quello che mi riguarda ho fatto parte in gioventù del movimento studentesco del Partito Comunista greco, sono rimasto fino a quando ho scoperto che l’uomo che voleva “illuminare” le nostre menti era uno dei capi della polizia segreta. È stata l’ultima volta che sono “appartenuto” a qualcosa. Per me è molto importante non avere legami con partiti politici, come potrei altrimenti, come giornalista denunciare comportamenti antidemocratici di un governo o di un partito politico? Che cosa rende uno scatto una “buona” fotografia? Quando una fotografia suscita emozioni in chi la guarda. Più forti sono le emozioni, più la fotografia ha raggiunto lo scopo.

L’INTERVISTA buon fotoreporter? A mio avviso deve essere in grado di guardare il mondo che lo circonda a 360 gradi. Deve sentire e odorare l’ambiente circostante, deve essere capace di percepire che cosa sta per accadere. Ecco perché quando scatto, sono molto concentrato, cerco di non farmi distrarre da fattori esterni perché potrei perdere degli scatti importanti. Il lavoro di un fotoreporter è quello di riuscire a catturare quella frazione di secondo in cui tutto converge e contribuisce a creare una grande fotografia. Quali sono invece le doti che bisogna avere per sapere quale è il soggetto da fotografare in un determinato istante? Studiare aiuta e un buon modo per migliorarsi è osservare gli scatti di altri fotografi, ma penso che la sensibilità sia fondamentale, per questo uso spesso l’espressione: “fotografare con gli occhi dell’anima”. I tuoi scatti ritraggono quasi sempre soggetti drammatici. Hai mai pensato di cambiare e ritrarre aspetti e soggetti un po’ più “lievi”? Ho fotografato numerosi concerti e quattro Olimpiadi, ma dopo quelle di Atene 2004 ho deciso di cambiare registro. Ho scelto

scheda Yannis Behrakis è nato ad Atene nel 1960. Ha studiato fotografia all’Akto Arts College e ha conseguito una laurea presso la Middlesex University di Londra. Verso la fine del 1987 ha iniziato a lavorare per Reuters. Behrakis ha seguito in prima persona tutti i principali eventi e stravolgimenti geopolitici degli ultimi anni, in tutto il mondo. Le sue fotografie hanno vinto decine di premi europei e internazionali.

di fotografare altro, anche se questo ha un costo. Un caro amico ad esempio ha perso la vita tanti anni fa in Sierra Leone, ed io sento ancora la sua mancanza. Ma nonostante tutte le difficoltà ho voluto continuare ad essere “i vostri occhi” e “le loro voci”. Occhi che guardano a luoghi spesso dimenticati affinché nessuno possa dire “io non sapevo”. Sei mai stato deluso dal tuo lavoro? Inizialmente avevo delle aspettative molto alte, avevo dei sogni molto ambiziosi, volevo cambiare il mondo e renderlo migliore. Ovviamente ad un certo punto ho dovuto rimettere i piedi per terra, ma il lavoro non mi ha mai deluso, anzi sono stato testimone di molti importanti cambiamenti e questo mi ha ripagato di tanti sacrifici. Sono convinto che il contributo individuale sia prezioso, a volte è successo che il mio personale impegno abbia contribuito a salvare qualche vita o ha costretto alle dimissioni qualche ministro. Non sono stati risultati di poco conto. Quali progetti hai per il futuro? Mi prenderò una pausa. Ho da poco iniziato a collaborare come visiting professor con l’Università dell’Indiana negli Stati Uniti. Mi piace l’idea di insegnare e di condividere le mie idee, le mie esperienze e la mia tecnica con dei giovani che vogliono fare questo lavoro, poter trasmettere la passione per questa professione. Il mestiere di fotoreporter è più di un lavoro, è una vocazione. Sto anche cercando di ottenere i permessi per salire a bordo di una nave di Medici Senza Frontiere che effettua operazioni di soccorso ai migranti nel Mediterraneo.

Quali sono le caratteristiche che dovrebbe avere un novembre 2016 Scarp de’ tenis

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COPERTINA

Ora di pranzo nella mensa dei poveri gestita dalla Comunità di Sant'Egidio a Roma. Obiettivo della nuova legge è aumentare la quantità di cibo, anche fresco, donato da privati e aziende (foto REUTERS/Tony Gentile)

Oggi l’Italia è il solo Paese insieme alla Francia, ad avere una legge contro lo spreco alimentare. Una svolta importante visto che secondo le stime del Politecnico di Milano, in Italia ogni anno vengono smaltite, come fossero rifiuti, 5 milioni di tonnellate di cibo ancora consumabili. Previsti incentivi e premi per le aziende più virtuose secondo il principio “più doni, meno paghi”. Viaggio di Scarp tra le buone pratiche che già esistono

Cibo vıetato 22 Scarp de’ tenis novembre 2016


sprecare novembre 2016 Scarp de’ tenis

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COPERTINA

di Francesco Chiavarini

Non ci sono più scuse. No more excuses, come recita l’insegna dell’artista Maurizio Nannucci in cima alla mensa della Caritas a Milano, il Refettorio Ambrosiano. Oggi l’Italia è il solo Paese insieme alla Francia, ad avere una legge contro lo spreco alimentare. Il provvedimento è un farmaco che, sebbene non curi le cause del male – vale a dire la propensione del sistema alimentare a trasformare in rifiuto il cibo ancora buono – è, tuttavia, in grado di ridurre il danno, favorendo le donazioni delle eccedenze alimentari e la loro ridistribuzione agli indigenti attraverso enti caritativi, comuni, onlus. La norma inserisce incentivi, fa-

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cilita e premia i più virtuosi, promettendo di aumentare significativamente i generi alimentari recuperati e immessi nel circuito della solidarietà. Ma l’efficacia della terapia dipenderà dalla responsabilità di tutti gli attori in gioco: produttori, grande distribuzione, terzo settore, consumatori. Insomma una bella sfida tutta da giocare. Secondo le stime del Politecnico di Milano, in Italia ogni anno vengono smaltite come fossero rifiuti 5 milioni di tonnellate di cibo ancora consumabili. Di questa enorme montagna, gli enti caritativi riescono a salvare e distribuire ai propri utenti una piccola parte: il 10% (500 mila tonnellate). Con la nuova legge, invece, in un paio d’anni si potrebbe arrivare al milione di tonnellate, il doppio, abbattendo del 20% lo spreco e rispon-

dendo al bisogno alimentare di qualche milione di cittadini. Saremo in grado di centrare l’obiettivo? Mancano gli sgravi fiscali C’è chi è prudente. Come ad esempio Coop. Secondo Valter Molinaro, responsabile innovazione e servizi della catena di supermercati, non c’è ancora un sistema efficace di sgravi fiscali. «La legge – spiega – stabilisce il principio che chi più dona, meno paga. Ma la tassa sui rifiuti è di competenza comunale: saranno i sindaci a decidere quale sconto applicare alle aziende. Avremo quindi Comuni più sensibili, che saranno più generosi, applicando uno sconto maggiore. Ma anche quelli che pur volendolo non potranno farlo per vincoli di bilancio». Insomma il successo della legge dipenderà dalla sensibilità, la buo-


L’Emporio solidale della Caritas di Roma che offre gratuitamente generi alimentari alle persone in difficoltà. Previsti incentivi per le aziende che donano (foto REUTERS/Tony Gentile)

LA SCHEDA

La nuova legge Gadda spiegata in dieci punti: incentivi alle aziende e meno burocrazia e scartoffie Ecco cosa prevede la legge Gadda, dal nome della deputata varesina Maria Chiara Gadda, prima firmataria e promotrice della normativa, entrata in vigore il 14 settembre, contro lo spreco alimentare che prevede semplificazioni burocratiche per facilitare le donazioni ma, a differenza di quanto accade in Francia, nessuna sanzione per chi continua a gettare quello che non è stato consumato. Si aumenta la possibilità di donare - Mentre fino ad oggi potevano essere ceduti a fini solidaristici solo generi alimentari prima della data di scadenza, ora si stabilisce che possono essere donati prodotti alimentari che abbiano superato fino ad un massimo di 30 giorni il termine minimo di conservazione Meno scartoffie - Prima della legge un qualsiasi soggetto economico (impresa, ristorante o supermercato ecc.) che voleva donare eccedenze alimentari doveva fare una dichiarazione preventiva cinque giorni prima della donazione. Ora basta una dichiarazione consuntiva a fine mese e solo se la donazione è di importo superiore ai 15 mila euro Premi a chi dona - La legge prevede una riduzione della tassa sui rifiuti proporzionale a quanto si è donato. Chi dona di più, paga di meno. Ma saranno i sindaci a stabilire quanto Non solo onlus - Il nuovo testo allarga la platea di

na volontà, la coscienza dei singoli, in una parola dalla diffusione di una reale cultura anti-spreco. Alla Fondazione Banco Alimentare, tra i principali fautori della legge, si dicono ottimisti. La onlus nata con l’obiettivo specifico di recuperare a fini solidaristici gli alimenti destinati a essere eliminati, oggi riesce a ridistribuire 85 mila tonnellate di cibo all’anno (31.553, provenienti solo dalle eccedenze aziendali), grazie a 1.800 volontari e 8.100 strutture caritative. Il direttore generale, Marco Lucchini, è molto fiducioso. «In Francia sono stati più severi, imponendo obblighi e multe per chi non dona. Il risultato è che sono tutti spaventati: la grande distribuzione teme di finire alla gogna e gli enti caritativi paventano il rischio di trovarsi i magazzini pieni di prodotti deperibili.

Vale il principio che chi più dona, meno paga. Ma la tassa sui rifiuti è di competenza comunale. Avremo comuni più sensibili di altri ma anche quelli che non potranno fare sconti per vincoli di bilancio

beneficiari delle donazioni a fini di beneficenza anche altri soggetti, come ad esempio i Comuni Incentivi per gli enti non profit - Sono introdotti incentivi per l’acquisto di beni strumentali, quali furgoni frigo, frigoriferi ed altro ancora, per le organizzazioni non lucrative di utilità sociale Eccedenze agricole - Le associazioni di volontariato, accordandosi con l’imprenditore agricolo, potranno recuperare i prodotti che rimangono a terra durante la raccolta (il cosiddetto “residuo in campo”) o i prodotti non raccolti da alberi e campi Dacci oggi il nostro pane quotidiano - Il pane invenduto può essere donato ovunque entro le 24 ore successive Togliere alla mafia per dare ai poveri - Anche il cibo confiscato ad esempio da attività criminali o frutto di pesca e caccia illegali può essere donato Farmaci - Nella legge si disciplinano le cessioni ai fini di beneficenza non solo dei generi alimentari ma anche dei medicinali “correttamente conservati e non scaduti” e dei prodotti per l’igiene Family bag - Viene promosso nei ristoranti l’uso dei contenitori per gli avanzi. Portare a casa quello che si è lasciato nel piatto diventerà trendy

Noi, invece, abbiamo fatto appello alla responsabilità sociale di impresa, discutendo con tutti gli attori del sistema e fino ad ora ho registrato commenti positivi e già i primi importanti segnali di interesse. L’altro giorno, ad esempio, mi ha chiamato un’importante azienda che si occupa di crociere per capire come mettersi in pista. Non voglio cantare vittoria, ma mi pare si possa fare bene». C’è poi un’altra questione. Tra

le condizioni necessarie affinché le donazioni facciano il botto c’è anche la credibilità dei primi destinatari e la loro effettiva capacità di far giungere il cibo recuperato alle persone che ne hanno bisogno, i veri beneficiari. Attualmente esiste una rete di enti caritativi ramificata sul territorio, ma con l’eccezione di 4 o 5 grandi soggetti

nazionali, il resto è costituito da un pulviscolo di realtà piccole e piccolissime: parrocchie, associazioni di volontariato, cooperative che coprono quartieri, rioni che a stento arrivano a una dimensione cittadina. Enti caritativi troppo piccoli Considerata la struttura della catena di distribuzione alimentare in Italia fatta anch’essa per lo più di medie e piccole realtà, questo potrebbe anche non essere un problema, se non fosse che le dimensioni ridotte impediscono di fare economie di scala per l’acquisto delle attrezzature necessarie: celle frigorifere, furgoni coibentati, magazzini per lo stoccaggio. Fondazione Banco Alimentare, che gestisce quasi il 10% delle donazioni, pensa di investire nei prossimi due anni 500 mila euro per implementare la pronovembre 2016 Scarp de’ tenis

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COPERTINA pria struttura di raccolta. Ma i più piccoli non avranno la forza di farlo né la capacità di accedere ai finanziamenti che pure la legge prevede. Ci sono poi intere regioni soprattutto al Sud, come la Sicilia ad esempio, dove sono più acuti i bisogni ma è più debole la rete degli enti caritativi. Un aiuto potrebbe venire, nel paese dei mille comuni, proprio dai sindaci. La legge stabilisce che i destinatari delle donazioni siano oltre alle realtà non profit anche gli enti locali. Risolvere i problemi logistici, attrezzando aree per lo stoccaggio e depositi potrebbe essere affare loro. Mentre la gestione potrebbe essere affidata in convezione agli enti non profitcon maggiore esperienza. Al momento, tuttavia, su quel fronte tutto ancora tace e non si capisce se si andrà in questa direzione o se ognuno vorrà fare per sé. «Rafforzare la rete dei destinatari per far giungere il più velocemente possibile alle persone in stato di bisogno le eccedenze donate è un tema che stiamo affrontando con il ministero dell’Agricoltura – riconosce Monica Tola di Caritas Italiana –. La soluzione che stiamo valutando insieme agli altri enti caritativi è la costituzione di distretti cittadini pilota dove mettere a sistema le risorse, facendo collaborare tra loro le realtà non profit già coinvolte, evitando sovrapposizioni e perdite di energie». Al netto delle lacune e dei bulloni ancora da stringere, in genere tra gli operatori si percepisce una grande voglia di fare. È come se si fosse aperta finalmente una via dove poter finalmente incanalare gli sforzi profusi in anni di impegno. «Prima avevamo un arcipelago di tanti piccoli atolli legislativi senza alcun collegamento tra loro, oggi abbiamo una sola grande isola su cui possiamo davvero, tutti insieme, costruire qualcosa di grande. Dipenderà da noi. Sì è vero, ora non abbiamo più scuse», sottolinea Lucchini.

Refettorio Ambrosiano, nuova vita per gli avanzi di Alberto Rizzardi

L’originalità del progetto studiato da Caritas è che tutto ciò che viene cucinato per i poveri arriva in dono 26 Scarp de’ tenis novembre 2016

A un anno dalla chiusura dei tornelli di Expo 2015 il Refettorio Ambrosiano, progetto sociale e culturale pensato dall’Arcidiocesi di Milano e da Caritas Ambrosiana per l’Esposizione universale su proposta dello chef stellato Massimo Bottura, continua a vivere: lo fa continuando la sua missione originale, cioè sfamare i più bisognosi non in una semplice mensa, ma in un refettorio nel senso etimologico del termine, ovvero un luogo in cui una comunità condivide un pasto ma anche una porzione di vita insieme, un posto dove si nutre il corpo e l’anima. C’è poi l’associazione Refettorio Ambrosiano, che anima la struttura con incontri, conferenze, concerti, spettacoli teatrali e momenti letterari per invitare il quar-


LA STORIA

Milano, un laboratorio di buone pratiche: «Più forza a una rete che già esiste e funziona»

Il Refettorio Ambrosiano opera segno realizzata da Caritas Ambrosiana in occasione di Expo garantisce pasti gratuiti utilizzando solo e unicamente eccedenze

Milano, la città dell’Expo, sta provando a diventare laboratorio di buone pratiche contro lo spreco alimentare: certo, qualche criticità, persiste, ma la città si sta muovendo. Un esempio? La sperimentazione partita (dal basso) nei mesi scorsi in alcuni mercati rionali, mettendo insieme il lavoro delle istituzioni, le idee dei cittadini e l’impegno di associazioni e gruppi di volontari. Alla fine delle attività di vendita, frutta e verdura avanzate e ancora consumabili, ma che gli ambulanti non intendono rimettere in vendita nei giorni successivi, vengono raccolte e redistribuite in modo organizzato direttamente sul posto alle persone che arrivano alla fine della giornata di mercato in cerca della merce scartata. «L’intento – spiegano dal Comune – è ora capire come inquadrare al meglio il progetto, anche alla luce della nuova legge, per poi estenderlo ai 94 mercati rionali della città». Sono tante, però, le iniziative anti spreco interessanti su cui l’amministrazione è al lavoro: spicca l’iniziativa, portata avanti assieme ad Assolombarda e Politecnico, per creare microdistretti del recupero del dono. Obiettivo: mettere insieme aziende, associazioni ed enti che operano nella stessa zona per recuperare le eccedenze. Idea niente male perché consentirebbe di arrivare anche a realtà più piccole che il Banco Alimentare, anche per una questione di efficienza, non può toccare. È già stata scelta la zona (top secret) dove avviare un progetto pilota e che potrebbe partire a breve. Tornando a Milano, i progetti anti spreco avviati in questi anni non mancano: dalle iniziative educative, come il sacchetto salva merenda e i kit per realizzare orti verticali, agli interventi per rendere le mense più sostenibili. Da segnalare anche la collaborazione avviata con Siticibo-Banco Alimentare, che consente di recuperare circa 62 tonnellate di pane e 100 tonnellate di frutta all’anno. Alberto Rizzardi

INTERVISTA

tiere e la città a riflettere sul valore del cibo e sugli sprechi da evitare. Proprio la lotta allo spreco alimentare ha nel Refettorio Ambrosiano un laboratorio virtuoso, il centro di una grande filiera integrata per il recupero delle eccedenze alimentari. Tutto il cibo in dono «L’originalità del progetto – spiega Marzia Molteni, responsabile dell’area povertà alimentare di Caritas Ambrosiana – sta nel fatto che noi non acquistiamo nulla: tutto ciò che cuciniamo proviene dalle eccedenze alimentari donateci dalla grande distribuzione (Coop e altre catene), produttori locali e Sogemi, la società che gestisce il mercato ortofrutticolo di Milano, da cui recuperiamo frutta e verdura». Fondamentale, in questo senso, è stato l’affiancamento nei sei mesi di Expo di chef professionisti,

che hanno insegnato allo staff di cucina del Refettorio a cucinare piatti gustosi anche con prodotti destinati al cassonetto. C’è, però, dell’altro, continua Molteni: «I prodotti recuperati sono tanti, ben oltre il nostro fabbisogno, così abbiamo deciso di trasformarli, producendo marmellate e conserve, attraverso corsi di formazione per stranieri, donne e persone fragili. Sempre usando le eccedenze, abbiamo avviato anche laboratori rivolti agli anziani soli del quartiere per ricucinare piatti della tradizione culinaria e culturale del territorio e incontri con le scuole per parlare di spreco alimentare». Cibo anche nei pacchi viveri Qualche problema di stoccaggio, specie per frutta e verdura, visto l’ingente quantitativo di merce donata? «I prodotti più complicati, in realtà, sono formaggi, lattici-

I prodotti ancora freschi sono smistati al Refettorio e in altre cinque mense solidali. Il resto viene lavorato. Le confetture e le minestre surgelate che si ricavano da questo processo sono distribuite alle persone in difficoltà

ni carne e pesce: cerchiamo di utilizzarli in giornata e cuciniamo quel che non usiamo per poi surgelarlo e protrarne la scadenza. Per quanto riguarda frutta e verdura, invece, i bancali ritirati da Sogemi vengono trasportati nella sede della cooperativa Il Grigio di Lecco: da qui, i prodotti ancora freschi sono smistati al Refettorio e nelle altre cinque mense solidali gestite da istituti religiosi o associazioni nell’area diocesana; il resto viene lavorato. Le confetture e le minestre surgelate che si ricavano da questo processo vengono distribuite alle persone in difficoltà, attraverso i pacchi viveri preparati dai volontari delle parrocchie oppure negli empori solidali di Cesano Boscone e Varese». È una sfida, insomma, quella lanciata dal Refettorio Ambrosiano e il territorio pare finora aver risposto bene: «Sempre più supernovembre 2016 Scarp de’ tenis

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COPERTINA mercati e realtà come mense, scolastiche e non, ci contattano – conferma Molteni – specie dopo l’approvazione della legge contro lo spreco alimentare. La cittadinanza si sta attivando tantissimo rispetto a questo tema: questo anche a dimostrazione del fatto che la quantità di cibo in eccesso che viene buttata è davvero ingente». Più sensibilizzazione Prossime tappe? «Aumentare, intanto, le attività di sensibilizzazione con incontri, seminari e momenti formativi: stiamo anche pensando a un libro con le nostre ricette del riuso. Vorremmo, poi, incrementare la collaborazione con la cooperativa Il Grigio per realizzare prodotti etichettati: l’idea è quella di creare un marchio del Refettorio Ambrosiano; non per vendere i prodotti, ma, magari, per realizzare bomboniere solidali e regali di Natale». Da eccedenze a eccellenze.

Emporio solidale, dove la spesa non costa nulla di Marta Zanella

Gli Empori della solidarietà sono come tutti gli altri supermercati solo che non si paga con i soldi e non tutti possono andarci. A Prato un esempio virtuoso 28 Scarp de’ tenis novembre 2016

Umberto Ottolina, responsabile dell’Emporio Solidale di Prato, ha il piglio, la decisione e lo sguardo pratico di chi è stato professionista per tanti anni nel settore e sa bene come muoversi. Oggi in pensione, nella vita ha lavorato nella grande distribuzione, conosce bene quei meccanismi che oggi lo portano a gestire l’Emporio come un fiore all’occhiello delle esperienze nazionali. Perché l’Emporio solidale di Prato, uno dei moltissimi aperti negli ultimi anni sul territorio con il sostegno di Caritas Italiana, riesce a stare in piedi quasi unicamente con cibo recuperato dagli avanzi di supermercati e produttori, comprando solo pochissimi dei prodotti che mette a disposizione dei beneficiari del progetto. «Lo scorso anno abbiamo acqui-

stato prodotti solo per il 2% del totale che “vendiamo” qui all’Emporio – fa i conti Ottolina. - Abbiamo acquistato prodotti per neonati, come pannolini, e alcuni generi che nessuno dona mai: olio extravergine, pollame, uova. Il resto, che nel 2015 è stato pari a un valore di 2 milioni e 134 mila euro, l’abbiamo recuperato attraverso convenzioni». Aiuti a 2 mila famiglie Gli Empori della solidarietà funzionano come dei supermercati, solo che non si paga coi soldi e non tutti possono andarci. Per gli acquisti si usa una specie di carta di credito caricata con dei punti, assegnati mensilmente a seconda del reddito e del numero di componenti del nucleo familiare. Le famiglie a cui viene assegnata la tessera sono individuate dalla Caritas e dai servizi sociali tra quelle più fragili e bisognose. All’Emporio di Prato, lo scorso anno,


Altra immagine dell’Emporio solidale della Caritas di Roma. Aumenta il numero di italiani che chiedono di poter accedere al servizio

LA STORIA

Dispensa solidale, un nuovo modo di fare solidarietà: «Recupero e distribuzione del cibo per avvicinare le persone» L'idea ha origini lontane. Cinque anni fa nelle parrocchie di un pugno di comuni nel Bolognese – Padulle, Sala Bolognese, Calderara di Reno e San Giovanni in Persiceto – iniziò un percorso di riflessione sui cosiddetti “nuovi stili di vita”. «Volevamo fare qualcosa per il nostro territorio che andasse nella direzione “ecologica” del recupero degli scarti e in quella “sociale” dell'aiuto alle persone in difficoltà delle nostre parrocchie: non con i soliti interventi assistenziali, ma approfondendo la conoscenza e aiutandoli in un percorso di reinserimento», così Enrico Torri spiega l'inizio della loro avventura. Che prende il via davvero quando conoscono la cooperativa umbra Babele e traggono esempio dalla loro “Dispensa solidale”: «Abbiamo stipulato una convenzione con due grosse cucine che ci regalano le eccedenze giornaliere – spiega Enrico, che è uno dei tre dipendenti della Dispensa solidale di Padulle, attiva da giugno scorso –. Appena loro valutano la quantità di cibo che non verrà utilizzato, lo “abbattono” e lo tengono in refrigeratore. Al mattino successivo noi preleviamo il cibo con il nostro mezzo refrigerato e attrezzato, lo trasportiamo nel nostro

laboratorio dove lo porzioniamo e riconfezioniamo negli appositi contenitori che vengono poi distribuiti alle famiglie selezionate». Il grosso della fornitura di cibo viene dunque da queste due grosse cucine, ma è capitato che alcuni negozi abbiano donato prodotti prossimi alla scadenza, ancora buoni ma difficili da vendere, o con le confezioni danneggiate, oppure il panettiere che portasse il pane avanzato. A beneficiare dei pasti della Dispensa solidale sono una ventina tra famiglie e persone sole, individuate dalle Caritas in accordo con i servizi sociali. Al momento della consegna è dedicato molto tempo. Anche per questo si fanno dare una mano da un gruppo di volontari. «Questo è il reale cuore del progetto: il pasto è sì un aiuto economico, ma soprattutto l'occasione di approfondire la conoscenza reciproca, arrivando a vedere le risorse che queste persone hanno e potrebbero mettere in campo per ripartire». Il primo frutto di questi fili che si intrecciano è un corso di cucito a cui parteciperanno due mamme senza lavoro, presso un'azienda locale che si è resa disponibile per la formazione. Marta Zanella

PRATO

hanno assistito oltre 1.845 famiglie, di cui 150 in cui erano presenti bambini al di sotto dei 18 mesi. «Abbiamo un accordo con la grande distribuzione, da cui recuperiamo non gli avanzi, ma quelli che sono chiamati “esuberi tecnici” – spiega ancora Ottolina –. Il 70% dei prodotti che otteniamo appartengono a questa categoria. Faccio un esempio: un’azienda di surgelati ha prodotto un grande quantitativo di sugo destinato al mercato giapponese, e perciò la confezione era scritta integralmente in giapponese. Accade che uno degli ingredienti contenuti, che in Europa consumiamo tranquillamente, per la dogana giapponese ha dei problemi, e l’intero carico viene rispedito indietro. Ma qui non può essere venduto, perché non ci sono scritte in italiano. Noi, invece, abbiamo potuto recuperarlo, etichettarlo in italiano e metterlo nei nostri banchi frigo».

Lo scorso anno abbiamo acquistato prodotti solo per il 2% del totale. Abbiamo acquistato prodotti per neonati, come pannolini e alcuni generi che nessuno dona: olio extravergine, pollame e uova

È solo uno dei tantissimi esempi. C’è stato il caso della partita di pomodori pelati sulla cui etichetta era indicata una percentuale di bucce lievemente diversa da quella reale. «Noi facciamo la caccia a questi prodotti, perché sono validissimi, ma per questioni tecniche non possono essere venduti». Ci sono poi quei cibi che vengono prodotti in quantitativi esagerati per errori di calcolo. «I produttori si rendono conto che finirebbero in esubero e preferiscono darci subito la quantità in eccedenza, anche perché così ottengono degli sgravi fiscali. Abbiamo avuto tortellini artigianali, oppure formaggi freschi prodotti in grandi quantità quando invece l’estate ha tardato ad arrivare, e quindi non venivano acquistati». Oppure, ancora, i “dopo eventi”: si recuperano colombe pasquali e uova di cioccolato invenduti dopo

maggio, o i panettoni dopo la festa di San Biagio. Eppure i prodotti spesso hanno ancora quasi un anno di validità. L’Emporio si avvale del lavoro di due soli dipendenti, e per il resto funziona grazie alla rete di 40 volontari che regalano circa 12 mila ore di lavoro all’anno. Spesso hanno anche studenti delle scuole che fanno un tirocinio. Al lavoro nelle scuole Ma la collaborazione con le scuole va oltre questo. Lo scorso anno alcune classi superiori della città hanno organizzato una colletta alimentare a favore dell’Emporio, «un evento che è arrivato al temine di un percorso che i nostri volontari Caritas hanno organizzato all’interno delle scuole stesse, durante l’anno, e che promuoviamo anche con i più piccoli, in cui raccontiamo il nostro lavoro promuovendo l’educazione alla riduzione dello spreco». novembre 2016 Scarp de’ tenis

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DOSSIER

Alzheimer Morbo silenzioso che “avvelena” le famiglie di Stefania Culurgioni

Sono oltre 47 milioni le persone al mondo colpite da Alzheimer, di cui 1 milione e 241 mila in Italia. Una malattia che comporta una metamorfosi che spiazza l’intera famiglia, che scardina le certezze degli affetti 30 Scarp de’ tenis novembre 2016

Nonna Angelina era come una mamma e Maurizio si era trasferito da lei per frequentare l’Università, ma in verità anche perché ci stava bene. Lui era l’adorato nipote, tutto quello che lui diceva per lei era gioia e Vangelo, gli preparava le torte e da mangiare. Immaginatevi una nonna piacentina, col grembiule e l’amore negli occhi. E poi ecco la malattia. Quella biscia silenziosa che è l’Alzheimer, che all’inizio si fa scambiare per gli inciampi dell’età, e la si accoglie col sorriso. In pochi mesi, Angelina diventa irosa, urla di notte, scaraventa gli oggetti al muro, insulta i vicini. È una metamorfosi che spiazza l’intera famiglia, che scardina le certezze degli affetti. Lo scorso 21 settembre è stata la Giornata Mondiale dell’Alzheimer e a Milano la Federazione Alzheimer Italia ha presentato il Rapporto Mondiale 2016. Lo studio è stato redatto dai ricercatori del King’s College London e dalla London School of Economics e spiega


I DATI

Vallerino, il gigante senza memoria «Le cure? Soldi e tempo non bastano mai»

L’Alzheimer è una malattia che porta al declino progressivo delle funzioni cognitive. Nella foto qui sopra Vallerino contornato dalla sua famiglia

L’Alzheimer è un processo degenerativo che colpisce progressivamente le cellule cerebrali, provocando un declino progressivo e globale delle funzioni cognitive e il deterioramento della personalità e della vita di relazione. Il tutto innestato in una società come quella italiana che poche volte capisce con chi ha a che fare

che la malattia colpisce 47 milioni di persone in tutto il mondo, numero destinato a triplicarsi entro il 2050. «In Italia – ha detto Gabriella Salvini Porro, presidente della Federazione Alzheimer Italia – si stima che le persone con demenza siano 1 milione 241 mila ed è giunto il momento di cambiare il modo di prendersi cura di loro mettendo al primo posto qualità di vita e dignità della persona». Malattia che consuma Certamente, non è così facile. Lo dicono le storie di tutte quelle persone che, ad un certo punto della loro vita, si ritrovano con un familiare insidiato da questo morbo. «Mia mamma aveva 75 anni e io 50 quando lo abbiamo capito – racconta Patrizia –. Un giorno mi ha detto che doveva andare in banca e invece ci era appena stata». Il tracollo è arrivato in fretta: sempre più chiusa e depressa, ha cominciato a perdere la capacità di fare anche le cose quotidiane. «Un giorno mi ha chiesto di scaldarle del cibo – ricorda Patrizia – non si ricordava più come fare». L’Alzheimer è un processo degenerativo che colpisce progressivamente le cellule cerebrali, provocando un declino progressivo e globale delle funzioni cognitive e il deterioramento della personalità e della vita di relazione. Chiedete a chi vive accanto ad uno di questi malati: i tratti in comune sono gli stessi. Perdita di memoria, confusione, rabbia e poi

Lui che si guarda allo specchio e che chiede ad alta voce: «chi è quel signore?». Forse è l’immagine più triste che Joshua ha di suo nonno Vallerino. Nello sconcerto di quel colosso di 86 anni, abruzzese e vigoroso, con le mani grandi e la fragilità inaspettata di un vecchio bambino, c’è tutta la fatica di una malattia i cui numeri aumentano sempre di più: l’Alzheimer. «All’inizio faticava a ricordarsi i nomi delle cose e delle persone, imboccava strade sbagliate con l’auto o si dimenticava dove metteva gli attrezzi – ricorda suo nipote, che oggi ha 29 anni e vive in Svezia – per tanto tempo pensavamo fosse l’età. Poi, un giorno, abbiamo ricevuto la diagnosi». Che poi, a pensarci bene, sono tanti i segni che ti ritrovi a mettere insieme: «Già ai tempi dell'università notavo che stava diventando sempre più cupo e silenzioso – ricorda ancora Joshua –. Passava intere giornate davanti al camino e non parlava. Col tempo abbiamo capito che stava acquisendo consapevolezza della malattia e che quindi si vergognava di mostrare la nuova versione di sé, fatta di buchi di memoria, insicurezze e quindi tristezza. Con il peggiorare della sua condizione si sono palesati tutti gli elementi tipici della malattia: continui sbalzi di umore, inappetenza, disorientamento, memoria a breve termine pressoché inesistente». Tutta la famiglia di Vallerino, a San Teatino in provincia di Chieti, e cioè sua moglie Nelda che ha 86 anni, figli e nipoti si sono in qualche modo “adeguati” a questa malattia. La delicatezza sta nel rispondergli con garbo alle stesse domande che ripete ogni cinque minuti, nell’accompagnarlo anche di notte in cerca della sua “vera casa”, che non è quella dove vive da sessant'anni (e che lui stesso ha costruito) ma una fantomatica villa lungo la strada, che scompare dalla sua mente solo a fine passeggiata, nello spiegargli dove si deve sedere, quali posate usare per mangiare, come indossare i pantaloni (che non possono sostituire le camicie). «A volte di notte diventa nervoso e tenta di evadere dalla sua prigione, come la chiama. Urla, si dice tradito e imbrogliato da noi – confida Joshua –. Non sempre sappiamo come aiutarlo. Poi la mattina torna in sé e a volte ricorda persino di aver perso la testa. È un momento molto delicato, perché la lucidità lo rende cosciente delle sue precedenti azioni e questo lo intristisce molto». È una famiglia intera quella che cerca di dargli sollievo: lo portano a raccogliere le olive, e fa niente se lui raccoglie le foglie e gli hanno regalato un gattino trovatello, con il quale Vallerino ha elaborato discorsi complessi e profondi. «Le vite di tutti noi sono inevitabilmente cambiate – spiega ancora Joshua – e poi i soldi non bastano mai: bastano per i medicinali ma servirebbe un sistema che capisca che il tempo che un parente di un malato di Alzheimer dedica alle sue cure lo toglie dal lavoro di cui vive». Stefania Culurgioni

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DOSSIER quell’imbarazzante rifiuto di lavarsi e, dall’altro lato, la difficoltà con tutto il mondo esterno, in una società che poche volte capisce con chi ha a che fare. Sono tante le storie di malati di Alzheimer scomparsi e chissà in quanti li hanno incrociati senza capire che si trattava di anziani smarriti: secondo quanto diffuso nel 2015 dal Commissariato straordinario del governo per le persone scomparse “Dal 1974 al 2015 risultano scomparse 9 mila 949 persone di età superiore ai 65 anni, 8 mila 151 sono state ritracciate, risultano ancora da ricercare 1.298 persone. La maggior parte di queste è scomparsa a causa di problemi neurodegenerativi che danno origine a perdita di memoria o disorientamento spaziale o perché affette da Alzheimer”. Familiari spesso soli L’anno scorso, il Ministero dell’Interno promosse la diffusione di un dispositivo di geolocalizzazione con l’obiettivo di aiutare i familiari a rintracciare il malato che si è perso, grazie anche alla collaborazione delle sale operative di tutte le Forze dell’ordine. (Il dispositivo era a pagamento, per una cifra di circa 150 euro). Quest’anno invece, è Federazione Alzheimer Italia ad aver lanciato un progetto pilota molto interessante che sarà testato sulla città di Abbiategrasso. Questa comunità, coi suoi 32 mila abitanti di cui 600 con problemi cognitivi, diventerà la prima vera Dementia friendly città italiana: inizieranno presto infatti dei corsi rivolti agli agenti della Polizia locale, ai negozianti, impiegati degli uffici comunali, addetti ai trasporti pubblici, biblioteche, musei, esercizi pubblici per “istruirli” sui cittadini con l’Alzheimer. In pratica, è come se un’intera comunità si mettesse a disposizione dei suoi malati: tutti ne conosceranno il nome, la storia e i bisogni e sapranno come aiutarli.

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Lo schizzo della parte comunitaria de Il paese ritrovato con il cinema-teatro, i laboratori, il bar, il parrucchiere e la cappella

Il paese ritrovato: il malato si sentirà a casa di Ettore Sutti

Prevista la realizzazione di un quartiere con alloggi, negozi, bar e cinema in cui pazienti, operatori e familiari potranno interagire

Immaginate un quartiere realizzato interamente a misura di malato di Alzheimer. Un luogo in cui le persone non si sentano rinchiuse o costrette ma in cui possano muoversi liberamente. In cui siano presenti negozi, un bar, un piccolo supermercato, una cappella, un cinema e finanche un’agenzia viaggi. E in cui chi lavora in tali attività sia personale qualificato in grado di “capire” le diverse situazioni e uniformarsi alle esigenze di ogni paziente. Un sogno che presto diventerà realtà. Si chiama Il paese ritrovato il progetto su cui sta lavorando la cooperativa La Meridiana di Monza, realtà che da oltre 40 anni lavora nell’assistenza degli anziani. «Il sistema di cura degli anziani con demenza – spiega Roberto Mauri, direttore de La Meridiana –, non riesce a garantire una qualità della vita decente in quella fase che va da quando la gestione domiciliare del malato non è più sostenibile (impossibile sostenere a lungo un supporto 24 ore su 24 sette gioni su sette da parte di un parente o di un caregiver) a quando l’anziano


47 milioni

1.241.000

Le persone colpite dalla malattia in tutto il mondo. Numero che si triplicherà nel 205o

Le persone colpite da un qualche tipo di demenza nel nostro Paese

IL PUNTO

Si allunga la vita, casi in aumento Le buone pratiche da seguire «Se elimini i fattori di rischio puoi ridurre l’incidenza dell’Alzheimer». A dirlo è Claudio Mariani, professore ordinario di neurologia dell’Università degli Studi di Milano e direttore di Neurologia dell’Ospedale Sacco. «E inoltre – aggiunge - l’attività mentale e fisica svolgono un effetto indubbiamente protettivo». La Federazione Alzheimer Italia ha diffuso le 10 regole d’oro che fanno bene al cervello: tra queste buone pratiche c’è per esempio occuparsi della salute del cervello e del cuore, tenere sotto controllo peso, pressione, colesterolo e glicemia, assumere meno grassi e più sostanze antiossidanti, fare attività fisica e stimolare la mente imparando cose nuove, facendo le parole crociate, leggendo, scrivendo e, ancora, socializzando, conversando, studiando. «I numeri dell’Alzheimer aumentano perché si allunga la vita media – spiega ancora il professor Ma-

riani – eppure ancora c’è molta emarginazione sociale: lo Stato latita, forse potremmo dire che al Nord le strutture sono più dignitose che nel Sud Italia, ma certamente se non ci fossero le associazioni molte persone non saprebbero come fare. E tuttavia, i costi sono ancora altissimi: devi assumere una badante, devi assentarti spesso dal lavoro. Ma lo Stato tentenna: affida il compito di occuparsi di questo problema alle Regioni che, a loro volta, dicono che aspettano i soldi dal Ministero. E così si va avanti solo con l’iniziativa di privati e con la forza delle famiglie. La scommessa non è creare nuovi servizi per i malati, ma è trasformare alcuni aspetti cruciali della vita normale di una comunità cittadina per renderli fruibili da parte dei residenti affetti da demenza. Ovvero, quello che si sta cercando di fare ad Abbiategrasso».

LA STORIA

viene preso in carico da un reparto Alzhaimer di una Rsa. Sebbene ormai molte strutture utilizzino strumenti per favorire la miglior convivenza possibile, quando una persona che si considera sana entra in contatto con questa realtà, in cui non si riconosce, aumenta il suo livello di stress e le sue reazioni costringono la struttura a utilizzare interventi di tipo farmacologico e di costrizione obbligandola a una vita certamente poco degna». Risposte concrete Il paese ritrovato vuole essere la risposta a questo bisogno. «Siamo una cooperativa sociale nata da un gruppo di volontari di una parrocchia attivi in una Rsa – continua Roberto Mauri –. Oggi abbiamo 330 operatori in diverse strutture che vanno dai centri diurni alle Rsa agli hospice. Il nostro obiettivo è quello di stare accanto alle persone per farle stare bene. Per questo abbiamo lanciato l’idea di realizzare questo progetto e, non avendo fondi a disposizione, abbiamo coinvolto persone e aziende che credessero in questo tipo di proposta. Incredibilmente i soldi sono arrivati: abbiamo raccolto 6 dei circa 8 milioni e mezzo di euro neces-

sari per la realizzazione della struttura che prevede otto appartamenti da otto persone, per un totale di 64 ospiti».

Un luogo chiuso ma permeabile, capace cioè di prendere stimoli anche all’esterno.

Sarà certamente un luogo di cura ma anche di incontro in cui residenti, familiari, volontari e operatori potranno stare insieme, parlare, fare la spesa, bere un caffè, andare in chiesa così come accade nella vita di tutti i giorni. Così si garantirà una qualità della vita adeguata

«Quello a cui noi abbiamo pensato è certamente un luogo di cura – spiega ancora Mauri – ma anche di incontro in cui residenti, familiari, volontari e operatori possano incontrarsi, parlare, fare la spesa andare in chiesa, così come accade nella vita di tutti i giorni». Struttura all’avanguardia Ma non solo. La nuova struttura sarà utilizzata anche per sperimentare buone pratiche che saranno poi messe a disposizione ad altre strutture simili, pubbliche e private. «Abbiamo coinvolto università, centri di ricerca e aziende per rendere questo centro un punto di riferimento dal punto di vista costruttivo e tecnologico. Come compagni di viaggio avremo il Politecnico di Milano, il Cnr, la Liucc di Castellanza. Previste soluzioni innovative come stanze e armadi che si aprono solo alla presenza del legittimo proprietario, per evitare

che la convivenza diventi ingestibile, o strumenti di monitoraggio non invasivi non solo della posizione del paziente ma anche del tono dell’umore, per permettere agli operatori di approcciarsi nella giusta maniera e con proposte congrue. Ma anche zone illuminate e profumate in maniera particolare, per stimolare rilassamento o dare punti di riferimento importanti. E il bello è che siamo riusciti a coinvolgere in questo progetto tantissimi professionisti che si sono messi a nostra disposizione in maniera gratuita. Compagni di viaggio fantastici come i light designer delle Olimpiadi a Pechino o una profumiera di Grasse, città della Provenza, che studierà per noi essenze ed aromi più adatte alle nostre esigenze».

Il cantiere de Il paese ritrovato partirà a giorni e nel 2018 si dovrebbe andare a regime. «Contiamo di raccogliere i fondi che mancano per completare tutte le opere – conclude Mauri –. Con un solo obiettivo: fare stare bene le persone. Noi non puntiamo a fare fatturato ma vogliamo assistere le persone al meglio. Sempre con un sorriso». novembre 2016 Scarp de’ tenis

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LA STORIA

Una foto di Erson, in arte Domino twofour rapper di origine rom. Nella foto a destra Andrea, altro rom che ama le rime

Domino twofour il rapper rom che vuole le ali di Ettore Sutti

Arrivato in Italia a quattro anni, cresciuto a Milano nel campo rom di via Novara, Erson non ha mai mollato. E grazie al rap spera di costruirsi un futuro capace di farlo vivere bene. «Non nascondo le mie origini – dice –. Perché non bisogna farsi limitare dagli schemi mentali» 34 Scarp de’ tenis novembre 2016

A vederlo sembra uno dei tanti zarri che popolano la periferia milanese: pantaloni e maglietta chiari, cappellino, catena al collo, occhiali scuri, tatuaggi d’ordinanza e parlata giovanil-milanese piena di “Bella”, “zio” e “ci sta”. Ma Erson, non è un ragazzo come gli altri. Sì perché nonostante la giovane età, 22 anni, ne ha viste e passate tante da quando è sbarcato sulle nostre coste insieme alla famiglia in fuga dal Kosovo in guerra. Aveva solo 4 anni allora ma era già in qualche modo segnato visto che la sua è una famiglia rom. Che dopo varie peregrinazioni in giro per lo stivale e una tappa in Belgio nel 2004 si accampa nel campo milanese di via Novara. «Io adoro l’Italia e mi sento italiano a tutti gli effetti – racconta Erson –, infatti a differenza di molti amici che nel corso degli anni si sono trasferiti in Germania o in Francia in cerca di lavoro io sono rimasto qui. Anche se non è certo stato facile». Già perché provateci voi a essere


ROM FACTOR

Andrea, attore e rapper serbo: «Canto di sgomberi e razzismo»

Guardavo film dalla mattina alla sera per imparare l’italiano, scrivevo testi in continuazione, limavo le parole fino all’essenziale, studiavo l’uso della ritmica. Insomma mi sono fatto le basi. Perché senza basi puoi scordarti le altezze

un ragazzino rom che inizia la scuola in quarta elementare senza sapere nemmeno benissimo l’italiano. «Il mio rapporto con la scuola non è stato certo idilliaco –continua Erson –. Tecnicamente ero un ragazzo difficile. Questo perché partivo segnato e non riuscivo a tirar fuori il vero me stesso. Io ero sempre e solo lo zingaro che viveva al campo. Se a scuola spariva qualcosa indovina chi era il sospettato numero uno? In più a casa era rimasta solo mia madre e quattro fratelli più piccoli. Diciamo che il destino non mi ha assegnato buone carte al primo giro. Per questo la rabbia prendeva spesso il sopravvento». Mai mollare Però Erson (nella foto a fianco la copertina del disco) non ha mai mollato. Ha usato la scuola per imparare, per crescere. «Ho incontrato il rap. Ed è stato amore a prima vista. Però non avevo gli strumenti per poterne sfruttarne le potenzialità. Allora ho iniziato a impegnarmi: guardavo film dalla mattina alla sera per imparare l’italiano, scrivevo testi in continuazione, limavo le parole fino all’essenziale, studiavo l’uso della

La sua prima canzone parlava di razzismo. La prossima, invece, si occuperà di sgomberi. Le rime di Andrea, ventenne rom di origine serba nato e cresciuto in Italia, prima a Torino e oggi a Milano, si intrecciano in maniera spontanea e indissolubile con la sua esperienza personale. «La musica in famiglia c’è sempre stata: era quella tradizionale rom oppure era quella italiana più conosciuta. Il rap ha iniziato ad interessarmi grazie a un programma di Mtv che si chiama Spit e al cantante Emis Killa, che ancora oggi rimane in assoluto uno dei miei preferiti – racconta Andrea –. Quando l’ho scoperto, l’ascoltavo a tutte le ore e mi addormentavo con le cuffie nelle orecchie. Son rimasto affascinato soprattutto dalle battle di freestyle, delle gare in cui i cantanti si sfidano improvvisando rime su rime, a ritmi velocissimi». Il passo dall’essere pubblico al diventare protagonista è stato improvviso, incoraggiato da esempi positivi e propiziato da ottimi maestri. «Quando ho scoperto che anche altri ragazzi rom che conosco cantavano, mi è salita la botta e ho detto: ci provo anche io». Passano pochi mesi e Andrea coglie al volo l’occasione di imparare direttamente da chi ha già molta esperienza. «Nel 2015, sono stato invitato a partecipare a un evento organizzato da Il Razzismo è una brutta storia all’Expogate. Era un corso con il rapper Ensi, un altro dei miei preferiti, che ci ha insegnato alcuni trucchi per scrivere meglio. Ricordo che io chiusi le mie rime con il motto di una campagna in favore del riconoscimento della minoranza rom in Italia: Se mi riconosci mi rispetti». Il debutto sul palco arriva qualche tempo dopo, in occasione di una serata organizzata dalla compagnia teatrale Rom Factor, con cui il neo-rapper aveva già fatto alcune rappresentazioni. «Mancavano un paio di settimane alla serata quando decisi insieme al regista di non recitare, ma di cantare una canzone rap sulla mia vita. Solo che dovevo ancora iniziare a scriverla. Allora mi sono messo sotto e grazie all’aiuto di Elisabetta l’ho finita in tempo». Elisabetta è l’educatrice che segue Andrea e i suoi fratelli da tempo, nell’ambito del progetto di accoglienza tra la Casa della carità e il Centro Ambrosiano di Solidarietà (CeAS, al parco Lambro) all’interno del quale sono stati inseriti. In platea, al centro culturale San Fedele, quella sera, c’era anche lei ad applaudirlo. «Nonostante l’emozione, io ho cantato, un altro ragazzo ha fatto i suoni della base musicale con la bocca (la beatbox, per usare un termine tecnico) e altri tre hanno fatto il coro». L’esordio, insomma, è stato un successo. A tal punto che Andrea ha già deciso di replicare. «La nuova canzone per il prossimo spettacolo affronterà il tema degli sgomberi degli insediamenti rom – dice serio –. E questa volta voglio anche registrarla: ho iniziato a frequentare lo studio di un centro di aggregazione giovanile dove, insieme ad altri ragazzi che ho conosciuto, potrò inciderla. In poco tempo, il rap è diventata davvero una passione. E non lo faccio per diventare ricco o famoso. Lo faccio per me, perché mi piace». Paolo Riva

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LA STORIA ritmica. Insomma mi sono fatto le basi. Perché senza le basi puoi scordarti le altezze. Questo lavoro e l’incontro con alcune persone, su tutte gli educatori di Caritas che venivano al campo, mi hanno letteralmente salvato la vita». Una vita tranquilla Nonostante le difficoltà Erson ha finito le scuole dell’obbligo e poi ha seguito diversi corsi professionali per garantirsi un lavoro. «L’obiettivo era aiutare mia madre e, soprattutto, lasciare il campo. Perché il campo è un luogo non solo fisico. Quando sei dentro le persone ti giudicano senza nemmeno cercare di capire quello che sei realmente. E, allo stesso, modo vivere al campo significa accettarne i confini. Difficile sognare lì dentro. Quasi impossibile sperare di avere un vita diversa».

Dopo tanto lavoro qualcosa inizia muoversi. Le canzoni di Erson (in arte Domino twofour) vengono passate spesso in radio, ha un canale Youtube con un discreto numero di contatti e alcuni programmi radiofonici lo chiamano per delle ospitate. «Quando ho iniziato non pensavo di arrivare fin qui. Prima ho fondato una crew, i Dopeclick, con cui ho lavorato per circa un anno. Poi però

ho preferito portare avanti da solo i miei progetti e grazie al Cage Studio di Cerro Maggiore e alla Slave production sono riuscito a produrre diverse canzoni e far girare un po’ di demo. A poco poco mi sono guadagnato la fiducia e la stima delle persone, senza mai smettere e senza farmi scoraggiare. Io racconto quello che vedo, quello che faccio, quello che sento. Racconto la strada, la vita, la città. Così senza filtri. Perché credo che non esista un racconto più forte della vita vera». Da questo incontro è nato Party weed, disco scaricabile gratuitamente sulla piattaforma Mega (http://bit.ly/2dvvFF0), che sta aven-

Isa Muhammad, in primo piano con il cappelino nero durante le riprese del suo primo video da rapper. La strada per lui ora è un ricordo

STATI UNITI

La favola di Isa Muhammad che con il rap ha lasciato la strada Il giorno prima homeless, quello dopo rapper sotto contratto. Siamo a Venice Beach, Los Angeles, California. Pochi mesi fa Isa Muhammad – un ragazzo senzatetto – incontra Rick Ross (aka William Roberts), fondatore dell'etichetta discografica MMG (Maybach Music Group), specializzata in musica rap. Non gli chiede una stretta di mano, né tanto meno un autografo: attacca con un freestyle da oltre due minuti. L'esibizione viene immortalata da un video, poi divenuto virale e tuttora reperibile sul web. Ma non finisce qui. Ross rimane impressionato dal flow di Isa, al punto da accoglierlo sotto la propria ala. «Questo ragazzo mi ha aperto il suo cuore mentre rappava e il video che ho pubblicato su Snapchat ha avuto successo – dirà poi l'imprenditore statunitense –. Ho semplicemente voluto dare a qualcuno la possibilità di uscire dall'anonimato».

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Il giovane senzatetto viene, così, invitato a feste ed eventi organizzati da Roberts. Infine, siederà negli uffici MMG per firmare un contratto. «Rozay (Rick Ross, ndr) sta dando un'opportunità a un “povero negro” – ha commentato Isa –. Ora sta a me coglierla e cercare di sfruttarla fino in fondo». Finora l'ex homeless ha pubblicato il brano Chemtrails & Muslim Wars, dove Muhammad racconta i problemi che un ragazzo si trova ad affrontare quando deve entrare nel mondo dei grandi ed esterna i suoi sentimenti riguardo all'essere un senzatetto e in cui canta: «A week ago was on the street. Damn, now I’m living like a king (una settimana fa vivevo per strada, ora vivo come un re)». Ecco il video del frestyle con cui Isa Muhammad ha fatto colpo sul produttore discografico Rick Ross: (www.youtube.com/watch?v=FC-jUFncSgA).

do un discreto successo. «Si tratta di un disco di passaggio – spiega Erson –dentro c’è qualcosa di me. Ho diverse canzoni che raccontano la mia storia e le mie origini ma non è ancora il momento per tirarle fuori. Credo che ci sia un momento per tutto. Far leva su questo ora sarebbe poco serio. Non voglio che la gente decida di ascoltarmi o meno solo in virtù delle mie origini, ma solo perché apprezza veramente le mie rime. Nell’ambiente tutti sanno che sono di origini rom. Io lo dico subito. Ma il bello è che se le cose le sai fare tutto questo non conta». Il sogno nel cassetto di Erson è uno solo. E se lo coccola ben benino. Quasi nemmeno ci spera. «Il mio obiettivo è firmare un contratto con una casa discografica. Per poter fare un disco “serio”, fatto di contenuti, in cui poter mettere tutto quello che sono. Il mio essere. So che il mondo discografico è difficile e non mi faccio illusioni. Però guardami: io sono un ragazzo rom di 22 anni cresciuto in un campo alla periferia di Milano che sta facendo quello che ama e che può sperare di ottenere un contratto. Cosa posso chiedere di più?». A me non sfiora l’idea di essere ricco o famoso. Io voglio semplicemente avere una vita tranquilla. E stare bene. I soldi sono solo un bene materiale. Mia madre mi ha insegnato a vivere con quello che hai. Però con due spicci in tasca un paio di ali te le compri». Facebook @dominotwofour You tube dominotwofour



Parlare di Isis ai bambini Si deve e si può di Daniela Palumbo

Prima di parlare, però, bisogna conoscere e comprendere bene cosa intendiamo quando parliamo di Islam. In caso contrario rischiamo di passare ai nostri figli soltanto dei pregiudizi e non li rendiamo migliori 38 Scarp de’ tenis novembre 2016

Per parlare di Isis ai bambini, occorre prima sapere. Sapere cos’è l’Isis, lo stato islamico, cosa intendiamo quando parliamo di Islam e come nasce l’Islam e il variegato mondo che vi è contenuto. Senza la conoscenza, ciò che verrà spiegato ai bambini e ai ragazzi sarà solo frutto del pregiudizio e dell’ignoranza, che sono gli errori più pericolosi che si possano infliggere a una giovane mente che chiede di conoscere la verità e il mondo attraverso gli occhi dell’adulto di cui si fida di più. È questo il messaggio del libro, Parlare di Isis ai bambini (Edizioni Erickson), pensato per gli adulti che prima di rispondere a un ragazzo hanno il dovere di essere informati. La complessità dell’argomento, infatti, richiede l’ascolto, prima di tutto da parte dell’adulto, che fa bene a interrogarsi su come relazionarsi alle richieste di senso dei propri figli. Figli che sono esposti a immagini dure, drammatiche, in cui l’orrore è in primo piano, spesso senza alcun tentativo di interpretazione delle


CULTURA

Qui sopra la copertina de Il terrorismo spiegato ai ragazzi. Sotto a sinistra la copertina di Parlare di Isis ai bambini

scheda L’obiettivo è esplicito fin dal titolo: Il terrorismo spiegato ai ragazzi, (Imprimatur), di Cecilia Tosi. Il testo ha il pregio di raccontare il terrorismo con il linguaggio dei ragazzi. Un libro di narrativa (ma con schede storiche e glossario) dove i protagonisti, Ahmed, saudita, e Omar, algerino, sono essi stessi terroristi: dell’Isis il primo e di Al Qaeda nel Maghreb, il secondo. Attraverso il racconto i lettori contestualizzano il fenomeno storico e riescono ad avere informazioni utili alla comprensione degli scenari contemporanei. Mi sono chiesta – ha detto la giornalista – come un ragazzo potesse capire non solo quello che stiamo vivendo, ma anche come siamo arrivati a questo punto. È importante spiegare i legami causa-effetto degli eventi che osserviamo quotidianamente

immagini. Insomma, Parlare di Isis ai bambini, dà anche consigli di lettura sull’argomento, per conoscere prima che giudicare. Ne parliamo con Riccardo Mazzeo, coautore del libro insieme a Edgar Morin. Ma ci sono anche gli interventi di Alberto Pellai e Marco Montanari. Il gioco del “Se io fossi”. Sono un genitore. Mio figlio ha 12 anni, vuole sapere se mi fa paura l’Isis. Non voglio mentirgli. Ma nemmeno spaventarlo. Che dire? Che la paura fa parte della vita e ci serve a proteggerci dai pericoli. È non solo giusto ma anche opportuno avere paura quando si attraversa una strada in cui le auto sfrecciano a grande velocità, quella paura ci serve per calcolare bene quando poter attraversare senza esserne travolti. Nel nostro mondo ci sono anche persone cattive: persone che uccidono, che fanno del male. È giusto aver paura anche di loro. Ma la paura e l’ansia, sono emozioni che devono essere utili, non dannose. Quindi, visto che è molto più probabile che a farci del male sia un incidente stradale che un terrorista dell’Isis, non dobbiamo preoccuparcene. Dobbiamo invece, magari, cercare di far spuntare un sorriso sul volto di altri bambini meno fortunati che sono venuti in Italia per sfuggire a quelle persone. Viviamo in un mondo sempre connesso: le immagini più cruente le vedranno inevitabilmente anche i bambini. E allora, qual è il modo migliore di spiegare l’Isis a un giovanissimo?

I bambini, e a maggior ragione gli adolescenti, sono consapevoli dell’esistenza del male: le fiabe servono ai più piccoli a esorcizzarlo, a renderlo compatibile con la propria vita, mostrando che pur se non lo si può cancellare, lo si può vincere. Oggi ci sono ragazzi giovanissimi che sono costretti dall’Isis a incarnare il male, a uccidere. Ma ciò avviene anche a Napoli, dove la camorra manda sicari sempre più giovani a regolare conti. E allora a un adolescente va detto che esistono questi orrori. La verità è un vaccino in grado di aiutarli a convivere con l’esistenza del male, l’importante è imparare a riconoscerlo, e a sapere che si può vincere. Quando il compagno di banco arabo può diventare il nemico? E la differenza è un problema? Morin parla nel libro di conoscenza della conoscenza... Qui entra in gioco la funzione deter-

minante dell’insegnante: conoscenza della conoscenza significa riflettere sulle informazioni che sembrano scontate e non lo sono, sulle opinioni correnti che potrebbero essere manipolate. Il bravo insegnante instaura una relazione con i ragazzi che va oltre il programma, alimenta il piacere della relazione e del dialogo: solo questa relazione può far nascere lo spirito critico. Paesi come la Francia hanno parlato di modifiche alla Costituzione. Come spiegare la pericolosa deriva dello stato di sicurezza in risposta al pericolo Isis a un giovanissimo? Con chiarezza. Un giovanissimo deve sapere che i governanti spesso manipolano le paure per aumentare il proprio consenso elettorale. Hollande prima degli attentati parigini di novembre era il presidente francese meno apprezzato dal 1945 a oggi, ma gli è bastato esibire i muscoli, ergersi a difensore dei francesi, per veder schizzare il suo livello di popolarità dal 28 al 50 per cento da novembre a dicembre.

LA SCHEDA

Proteggiamo i bambini più piccoli rendendo comprensibili questi fenomeni Alberto Pellai, psicoterapeuta dell’età evolutiva, è ricercatore presso il dipartimento di scienze biomediche dell’Università di Milano, dove si occupa di prevenzione in età evolutiva. Nel libro ha parlato di come, e se, affrontare l’argomento Isis con bambini della primaria. «Il tema – spiega Pellai – non è tanto se si deve parlare della violenza o delle scene tremende viste in tv. Il tema, su cui devono riflettere gli adulti, è un altro: che emozioni provano di fronte a queste notizie? Che cosa gli fa paura? Che cosa pensano i più piccoli rispetto al fatto che un bambino può fare anche lui delle azioni, nel suo piccolo, per rendere il mondo un posto migliore in cui vivere? Come racconto nella mia parte del libro, queste notizie, e soprattutto le immagini, terribili nella loro violenza, attentano il senso di protezione e sicurezza di un bambino. Prima degli otto-nove anni i bambini dovrebbero essere protetti da questo genere di cronaca e dalle immagini ma, se vi si imbattono, l'intervento dell'adulto non deve essere basato sul rendere comprensibili tali fenomeni, bensì sul rendere gestibili ed elaborabili – all'interno delle relazioni che danno sicurezza e protezione al bambino – le emozioni che tali notizie generano in lui». novembre 2016 Scarp de’ tenis

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Vespri Italiani: folle viaggio a Palermo di Carlotta Peviani

Una volta tanto i ruoli si invertono: è il nord che va al sud per sfatare luoghi comuni e trarre insegnamenti da realtà differenti. È il caso di un gruppo di sette pazienti psichiatrici del centro psico sociale di zona 4, del Dipartimento di salute mentale e neuroscienze della Asst Fatebenefratelli-Sacco di Milano, diretto dal professor Claudio Mencacci che lo scorso 17 settembre è volato nel capoluogo siciliano.

Sette pazienti psichiatrici di Milano in viaggio a Palermo per incontrare e confrontarsi con utenti e operatori di un gruppo di supporto in ambito psichiatrico. Esperienza unica che è servita ai pazienti a prendere coscienza di sé

Obiettivo del viaggio “terapeutico” trascorrere una settimana con gli utenti e operatori del gruppo Albatros del Policlinico Paolo Giaccone di Palermo guidato dal professor Antonio Francomano, fondato nel 2008 per fornire risposte di continuità assistenziale in ambito riabilitativo psichiatrico e psico-sociale integrando gli interventi medici e psicologici offerti dall’Ente ospedaliero. Si è trattato di uno scambio volto

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MILANO

Due momenti di Vespri Italiani, la folle vacanza organizzata per sette utenti del Cps di zona 4 a Palermo

In due contesti così differenti dal punto di vista territoriale, sociale, culturale si è voluta creare un’opportunità di socializzazione volta a valorizzare le differenze e a favorire il processo di inclusione e di collaborazione attiva tra le due realtà

non solo a trasformare l’esperienza del viaggio in un’esperienza riabilitativa ed educativa, ma anche a favorire l’avvicinamento nord e sud del nostro paese per trovare insieme soluzioni e terapie “alternative”. Tra turismo e confronto «Vespri Italiani, questo il nome del progetto – spiega il dottor Carlo Scovino, responsabile del Progetto e coresponsabile Attività di riabilitazione Uop 55 insieme alla psicologa Giada Prestianni – è stata un’esperienza di incredibile arricchimento per pazienti e operatori. L’esperienza del viaggio in questo progetto si è arricchita anche della sperimentazione di altre realtà italiane impegnate nell’ambito della salute mentale. Lo scopo era proporre sia ai pazienti del Cps4 di Milano sia a quelli palermitani del gruppo Albatros, un cammino di autonomia in termini di conquista di nuove abilità, di dignità e acquisizione di identità. In due contesti così differenti dal punto di vista territoriale, sociale, culturale si è potuta così creare un’opportunità di socializzazione volta a valorizzare le differenze e a favorire il processo di inclusione sociale e di collaborazione attiva tra le due realtà». Ma non solo. Il progetto ha voluto anche favorire lo sviluppo del cosiddetto turismo accessibile nella città di Palermo, ovvero una forma di turismo sociale realizzato dagli utenti stessi, attori partecipanti nel-

la promozione culturale dell’immagine del territorio.

Sono stati proprio i pazienti i protagonisti di questa esperienza: quelli milanesi, in qualità di turisti e quelli palermitani in qualità di portavoce della propria città. Uno scambio cultural-terapeutico che sembra aver centrato gli obiettivi. «La novità del viaggio a Palermo è stata proprio la condivisione con un altro gruppo di cittadini con di-

sagio psichico appartenenti ad un territorio diverso dal proprio – spiega Chiara Carlini tirocinante in educazione professionale al Cps4 –. Anche in questo caso il viaggio è stato preceduto da una lunga fase di preparazione, durante la quale sono stati fatti numerosi incontri tra i due gruppi via Skype. Un progetto congiunto alla base del quale il focus nuovo per i pazienti è stato non solo l’incontro con nuove persone ma anche lo scambio di esperienze, che ha avuto il suo culmine nel convegno “Nord-Sud, non siamo così lontani. Nuovi scenari nella riabilitazione psichiatrica” svoltosi a Villa Niscemi e realizzato dal Gruppo Albatros. Durante il convegno è intevenuto Andrea, uno dei nostri pazienti che parlando a braccio ha costruito un intervento pertinente e sagace, facendo ridere il pubblico elencando le diverse diagnosi attribuitegli nel tempo e concludendo con un “boh”». Il progetto ha permesso a sei pazienti di età compresa tra i 22 e 54 anni di prendere coscienza della propria condizione e soprattutto, ai più giovani di loro, di acquisire abilità legate all’autonomia e alla responsabilizzazione.

LA SCHEDA

Viaggio costruito insieme per dare fiducia e sicurezza Un programma di viaggio costruito minuziosamente con i pazienti per portarli ad acquisire la capacità di esprimere la propria opinione. Nel programma erano presenti anche momenti liberi, dove ognuno di loro poteva scegliere cosa fare: chi ha scelto di girare per la città, chi di andare al mare e così via. E grazie al lungo lavoro di preparazione nessuno ha mai avuto problemi. Momenti cruciali di questa settimana sono stati gli incontri con i venti pazienti del Gruppo Albatros. Con loro c’è stata la fase di presentazione e conoscenza e di condivisione delle bellezze della città. I pazienti di Albatros per la prima volta hanno assunto il ruolo di ciceroni della loro città e questo è stato apprezzato da entrambi i gruppi. «Si sono creati dei legami intensi tra i partecipanti, quasi inaspettati – spiega il dottor Scovino –. Una settimana all’insegna della condivisione. Chissà che in un futuro non molto lontano si possa realizzare uno scambio da Sud a Nord per diffondere ciò che di buono i servizi per la salute mentale italiana producono ogni giorno». novembre 2016 Scarp de’ tenis

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Al di qua La vita altrove dei senza dimora di Enrico Panero

Un docufilm che racconta, grazie alla forte testimonianza dei protagonisti, tutti homeless, cosa significa vivere senza una casa. Un film di protesta e di rivendicazione perché «senza interventi urgenti le persone si perdono» 42 Scarp de’ tenis novembre 2016

«Chiedo che venga data una casa a tutti, perché tutti ce la meritiamo». L’appello è di Antonino, uno dei protagonisti del docufilm Al di qua del regista torinese Corrado Franco sulla condizione delle persone senza dimora, da ottobre in programmazione nelle sale cinematografiche italiane. L’al di qua è “egoismo e menefreghismo”, è “una vergogna sociale” dicono Gerlando e Paolo, altri due protagonisti del docufilm, centrando perfettamente le intenzioni del regista che con questo lavoro ha voluto smuovere le coscienze, denunciare la condizione dei senza dimora perché sia affrontato in modo urgente e concreto il problema della povertà in Italia. Al di qua è un film essenziale e volutamente drammatico, secondo alcuni “pasoliniano”, in cui i protagonisti esprimono la fatica


TORINO la scelta di utilizzare la musica di Johann Sebastian Bach, la “Passione secondo Matteo” e la “Passione secondo Giovanni”, vuole rappresentare questo calvario dei senzatetto che è invisibile ai più.

della condizione di senza dimora guardando sempre in camera. Partendo proprio da questa scelta filmica abbiamo parlato del docufilm con il regista, Corrado Franco. Due fotogrammi tratti da Al di qua, docufilm che racconta senza tanti fronzoli cosa significa vivere senza una casa

La questione è fare in modo che le persone non finiscano in strada, perché poi sono difficilmente recuperabili. Servono misure di prevenzione. Serve una misura importante di sostegno al reddito e ci deve essere un rilancio dell’edilizia popolare

Colpisce nel film l’insistenza sui primi piani, sugli sguardi dei protagonisti… Con gli sguardi in macchina ho voluto proprio renderli visibili, sbattere in faccia allo spettatore la drammatica realtà di queste persone, dei loro racconti di vita, una vita che in questo periodo di crisi può toccare a chiunque. Quando vedo una persona che vive in strada ho un tuffo al cuore, un dispiacere immenso che vorrei provassero tutti. Bisogna rendersi conto che ognuno di noi potrebe ritrovarsi in quella situazione. Un film di denuncia, quindi? Certo, questa è la mia intenzione. I racconti delle persone sono drammatici. Poi è un docufilm, quindi c’è anche l’aspetto visionario, ma il punto è che nessuno deve finire in strada. Sia chiaro, non stiamo parlando di senza tetto, parliamo di povertà. La questione è fare in modo che le persone non finiscano in strada, perché poi sono molto più difficilmente recuperabili. Servono misure di prevenzione. Occorre prendere dei rimedi drastici e urgentissimi. Ci vuole una misura importante di sostegno al reddito e ci deve essere un rilancio dell’edilizia popolare perché, come ci ricorda Antoni-

no nel film, tutti devono avere diritto alla casa. Il film in alcuni tratti ha un’area quasi mistica... L’Al di qua del titolo fa riferimento alla vita terrena, che per le persone senza dimora è durissima. Ecco, il film può sembrare religioso, e forse lo è, perché ho voluto identificare il calvario di Gesù Cristo nel calvario dei senzatetto. Si può credere o meno, ma la figura storica di Gesù e di quello che ha subito nella propria esistenza terrena io la rivedo in queste persone. Anche

Oltre alla denuncia, qual è l’obiettivo di questo tuo lavoro? Dopo l’esperienza di questo film preferirei occuparmi di welfare piuttosto che di cinema. Penso che bisognerebbe istituire un tavolo permanente di lotta alla povertà, per fare in modo di risolvere questi problemi giganteschi che devono essere affrontati in modo complessivo e multidisciplinare. Non so se avrò le capacità e le forze, ma cercherò in tutti i modi di contribuire a risolvere i problemi di queste persone, di quelli che hanno lavorato nel mio film ma non solo loro. Va resettato il sistema economico, politico e sociale. Serve una società più solidale. Altro che referendum costituzionale, ponte sullo Stretto di Messina e Tav: qui bisogna risolvere il problema dei bisogni primari delle persone, abbattere il generale menefreghismo.

LA SCHEDA

Un film nato dentro un ospedale: perchè dallo scARTO si può rinascere Nel 2015 fu chiesto al regista di realizzare un breve video su un’iniziativa per persone senza dimora avviata all’ospedale Martini di Torino. «Tutti gli ospedali cittadini sono frequentati da senza dimora che, soprattutto in inverno, trovano rifugio nei pronto soccorso, nelle sale d’attesa o nei punti di ristoro - spiega don Gian Paolo Pauletto, cappellano del Martini -. Alcuni avevano dato disponibilità a “fare qualcosa di utile”, così tre anni fa si partì dall’allestimento di un presepe per poi risistemare gli arredi della cappella. L’esperienza fu così positiva che si decise di dare continuità all’attività creando un laboratorio artistico denominato “materiali di scARTo”, un percorso in cui le persone riacquistano dignità, lavoro, casa, e dove materiali poveri e “vite di scarto” si trasformano in opere d’arte». Di queste persone e delle loro storie il regista decise che non bastava farne un breve video ma piuttosto un film documentario. Essendo autofinanziato si tratta di un film in povertà sulla povertà. www.materialidiscarto.it novembre 2016 Scarp de’ tenis

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VICENZA

L’ingresso dei bagni pubblici di Vicenza sulla piccola piazza delle Erbe, in centro città

Turisti e senza tetto La vita vista dai bagni pubblici di Cristina Salviati

I bagni pubblici e gratuiti di Vicenza si trovano in un unico punto del centro storico, proprio sotto la Basilica Palladiana che rende famosa la città. L’ingresso si affaccia sulla piccola piazza delle Erbe e corre parallelo a quello del museo archeologico annesso al complesso. “Corre” in realtà solo la prima parte dell’ingresso che è una rampa in leggera discesa, ma arrivati al primo pianerottolo ci si ferma e bisogna scendere le scale. Il sali-scendi per persone disabili c’è ma non funziona, anche qui Vicenza mantiene il record negativo di città poco attenta alle barriere architettoniche, e il custode che incontriamo al pianerottolo scherza dicendo che se dovesse capitare si caricherà la persona sulle spalle per accompagnarla di persona ai servizi.

Lavoratori in trasferta, turisti, studenti e qualche homeless. La quotidianità vista da sottoterra appare meno frenetica

Dall’ammezzato la piazza si vede attraverso le grate della balconata e si ha uno spaccato del viavai di turisti e vicentini un po’ particolare. Pur essendo uno degli angoli più belli della città è anche uno dei più tranquilli. «La piazza dei Signori può essere piena di famiglie con bambini, turisti e passanti, mentre qui – racconta il custode – si va a momenti durante l’arco della giornata, che và dal mattino alle 9 fino alle 6 di sera». Si può stare due o tre ore vedendo transitare solo alcune coppie di fidanzati oppure frettolosi passanti che si recano al lavoro o negli uffici comunali adiacenti, qualcuno va a fare compere, ma pochi di questi necessitano dei bagni pubblici, anche se non manca chi scende frettolosamente magari solo per lavarsi le mani perché sta facendo qualche lavoro in esterno. «Gli habituésono i numerosi muratori e carpentieri che lavorano al restauro di palazzi nei dintorni o alla sistemazione del manto stradale – racconta sempre il custode. Al mattino però arriva sempre anche Greggy, un gentile senza tetto che ringra-

zia sempre e lascia tutto pulito. Si tratta di un omone grande e grosso che da tanti anni dorme nei dintorni della Basilica e che ormai tutti i vicentini conoscono. I bar e la pescheria della piazza delle Erbe gli danno qualche mancia in cambio di lavoretti estemporanei». A volte arriva anche un altro senza tetto, il custode non ne conosce il nome, perché «È chiuso e scostante, arrabbiato con tutto il mondo». La vera pacchia per chi lavora in questo sottosuolo sono i turisti orientali, perché sono molto generosi, e fanno a gara nel lasciare le mance. Le scolaresche si distinguono per la disciplina, «Arrivano in fila per due, accompagnati dagli insegnanti e sono sempre ordinati». Spaccati di vita Da quaggiù però si ha anche un’interessante scorcio sulla vita sociale dei ragazzini di 13 o 14 anni. Un nutrito gruppo ha eletto il piazzale al di sopra dei bagni pubblici come luogo di ritrovo e di esercitazione con gli skateboard. Sono chiassosi e irriverenti e il custode ha spesso da questionare con loro, perché buttano cartacce e mozziconi di sigarette giù dalla balconata. «Una volta – racconta – mi hanno quasi centrato con una mezza bottiglia d’acqua, mi sono arrabbiato molto ma non hanno osato scendere nemmeno per scusarsi. Il rumore degli skateboard produce un rimbombo terribile sotto, per fortuna dura poco. Non sono così bravi e si stancano presto. A volte giocano pure a calcio, anche se è vietato. Il pallone che vola oltre la balconata e scende nei bagni diventa motivo di conoscenza reciproca: «Si fanno timidi, scendono scusandosi e chiedendo di poter recuperare la palla». Sono solo i maschi ad avere contatti con il custode, ma le ragazze ci sono sempre, bercianti e sboccate, sembrano essere le vere leader del gruppo. Una piccola banda che viene da chissà quale parte della città e ne ha scelto il cuore come zona di ritrovo, ma si è data il compito di restare un po’ in disparte, nel piazzale di passaggio tra piazza dei Signori e piazza delle Erbe. novembre 2016 Scarp de’ tenis

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Uno scorcio della chiesa veneziana di San Nicolò dei Mendicoli una delle due parrocchie seguite da don Paolo

VENEZIA Come ha reagito la comunità in questo tempo? All’inizio le comunità hanno reagito con il “solito sospetto veneziano”, ma poi si sono abituate ed affezionate alla persona (in questo caso di Vincenzo ndr) che distribuisce la rivista e vedo che anche si fermano a parlare. Ne avete parlato anche in vicariato o con altri preti? Onestamente non ne ho parlato con gli altri preti del vicariato ma credo non mancheranno occasioni in futuro.

Don Paolo Bellio: «Scarp, il valore dell’accoglienza» di Michele Trabucco

Fin dall’inizio dell’esperienza di Scarp de’ tenis a Venezia, due parrocchie, guidate da un unico parroco, hanno manifestato il loro interesse a partecipare al progetto. Don Paolo Bellio è il parroco che dal 2014 accoglie mensilmente i venditori nelle sue due parrocchie del centro storico: S. Nicolò dei Mendicoli e arcangelo Raffaele. La sua disponibilità e quella delle due comunità di circa 3 mila abitanti ciascuna, piccole come in tutta la città di Venezia, ha dato sempre molta soddisfazione ai venditori di Scarp accolti con calore, umanità e generosità dai parrocchiani.

L’esperienza di Venezia dimostra come la vendita del giornale sia un’occasione vera di conoscenza e di relazione

Due chiese tra le più antiche e belle di Venezia, ricche di storia e di tradizioni. Abbiamo chiesto a don Paolo di raccontarci un po’ della sua esperienza di Scarp nelle parrocchie e di come vede questo progetto. Perché hai accettato di coinvolgere te e le tue due parrocchie nel progetto Scarp de’ tenis? Ho accettato la distribuzione di Scarp de’ tenis, perché si è presentata una proposta buona, non invadente ed efficace per educare i cristiani della domenica ad accorgersi e ad accogliere persone bisognose che vivono nella nostra città. Infatti, non s’incontra solo la rivista ma la persona che la distribuisce e questa è una presenza che un po’ disturba le coscienze, ma che “costringe” a scegliere se fermarsi oppure no alla porta della chiesa.

Come viene visto il venditore da parte dei parrocchiani? Sarà perché la distribuzione della rivista avviene all’interno della chiesa il venditore è visto più come persona “amica” e conosciuta che per il suo bisogno. Un’umanizzazione dei rapporti che piace. A distanza di due anni come vedi l’esperienza per te e la tua comunità? Dopo due anni sono contento che questa esperienza abbia spinto i miei parrocchiani a vivere l’accoglienza come valore non occasionale. Quali suggerimenti daresti per migliorare l’iniziativa? Non ho per ora particolari suggerimenti da dare. L’esperienza di Venezia dimostra come la vendita del giornale sia una fonte di guadagno per la persona senza dimora che poi si gestisce in piena autonomia il guadagno e un’occasione vera di conoscere e relazionarsi concretamente con queste persone da parte di chi frequenta la parrocchia. Ancora una volta il valore aggiunto è proprio la dimensione umana, relazionale, che da qualcosa in più a tutti. Per questo vale la pena continuare.

novembre 2016 Scarp de’ tenis

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Scuola competente Studenti uniti contro il bullismo di Elisa Rossignoli

Ragazzi impegnati per aiutare altri ragazzi. Questa la ricetta del progetto contro il bullismo nelle scuole realizzato all’Ipsia Giorgi di Verona. Sono previsti momenti di ascolto e di supporto per le vittime dei bulli e percorsi di sensibilizzazione in tutte le classi 48 Scarp de’ tenis novembre 2016

Il fenomeno del bullismo è purtroppo sempre più presente nella realtà giovanile, e la scuola è uno dei luoghi in cui esso si manifesta maggiormente. Come risolverlo? All’Ipsia Giorgi, a Verona, è nata in risposta un’esperienza piuttosto singolare, Scuola competente, questo è il suo nome, è attiva già da una ventina d’anni all’interno della scuola ma negli ultimi anni è cresciuta e si è consolidata, fino ad essere inserita nel Pof (Piano dell’offerta formativa) dell’Istituto. Di che cosa si tratta? Ce lo spiegano Vittorio de Marchi, insegnante di religione e docente di riferimento per il gruppo, e sei studenti della scuola che parlano a nome dei loro altri venti compagni di avventura. «A dire il vero i protagonisti di Scuola competente sono proprio gli studenti – racconta il professor De Marchi –. Io sono un elemento di raccordo ma questo progetto è stato pensato con loro al centro, come protagonisti. E il loro compito, tramite la peer education, in cui credo molto, è diventare un gruppo e dei soggetti di riferimento per il benessere a scuola: l’inserimento dei


VERONA

Foto di gruppo per gli studenti dell’Ipsia Giorgi di Verona che hanno preso parte a Scuola competente, progetto nato per combattere il bullismo

Chi è vittima di azioni di bullismo non parla: chi denuncia sono i suoi compagni, chi lo conosce e capisce che qualcosa non va. Con il tempo siamo diventati più attenti e intuitivi, riusciamo a capire quando c’è bisogno di non essere lasciati soli

nuovi arrivati, le problematiche relative al rispetto o non rispetto delle regole, i problemi relazionali di vario tipo, con un particolare focus sul bullismo. L’idea centrale è molto semplice: chi meglio di uno studente può aiutarne un altro a vivere in pienezza l’esperienza scolastica?». Tutti possono aiutare Non sempre uno “studente modello”, ma tutti gli studenti. Anche chi ha attraversato momenti problematici e atteggiamenti di difesa, di isolamento, di aggressività, e che li ha superati, perché no? Spesso chi ha vissuto un problema e se ne è liberato è cresciuto e può diventare una risorsa per gli altri. «Scuola competenteè prima di tutto un percorso formativo per chi vi aderisce». «Un cammino di consapevolezza, portato avanti con due psicologhe professioniste, per poter vedere le nostre risorse e migliorare le nostre capacità di relazione con gli altri» ma «anche e soprattutto la capacità di accogliere le persone e le loro situazioni», sia quelle di chi è più manifestamente fragile sia quelle di chi la sua fragilità la maschera con l’aggressività, la spavalderia e “fa il bullo”. Éun puzzledi voci e di sguardi tutti diversi e tutti speciali, questo incontro con Filippo, Nicolò, Alessandro, Alessia, Andrea e Filippo. Ciascuno ha una storia diversa. C’è chi ha iniziato a partecipare a Scuola competente dalla prima, chi è entrato successivamente, intercettato dal professor De Marchi o dai suoi compagni, chi ha intrapreso l’esperienza motivato dal poter fare qualcosa per gli altri, ma anche

chi è stato a sua volta aiutato e si è poi scoperto in grado di dare. «Di solito incontriamo tutte le classi nuove all’inizio dell’anno – raccontano i ragazzi –. Facciamo sapere a tutti che siamo a loro disposizione per parlare se ne hanno bisogno. E che ci siamo anche per segnalare eventuali situazioni critiche. Perché non è chi è vittima di azioni di bullismo che parla, ma i suoi compagni, chi lo conosce e capisce che qualcosa non va. Con il tempo siamo diventati più attenti e intuitivi, riusciamo a capire quando c’è bisogno di non essere lasciati soli. E quando non possiamo risolvere le cose possiamo indirizzare i ragazzi all’ascolto e all’aiuto di un adulto». Percorsi in salita Un percorso complicato che non sempre riesce. «In ogni caso, se un bullo non cambia atteggiamento, facciamo comunque in modo che la sua vittima sia protetta, facendo leva sulla relazione con i suoi compagni. La scuola ha le sue regole e gli adulti responsabili le fanno rispettare. Noi cerchiamo di facilitare questo da dentro, nel gruppo degli studenti, facendo leva sulle risorse

personali di ciascuno e la forza dello stare in relazione, perché il rispetto possa partire da ogni persona, e alla fine tutti stiamo meglio».

Il gruppo si incontra una volta al mese per il cammino formativo e per discutere delle azioni concrete. Ma si incontra anche al bisogno. Sostenuto dalla Fondazione Famiglia Defanti, il progetto cresce e continua a camminare. Di recente altre scuole hanno chiesto di conoscerlo ed esportarlo nelle loro realtà. Due sono a Verona, una addirittura a Catania. Ma i protagonisti di questa esperienza non si sentono dei supereroi, né degli studenti speciali. Si sentono più arricchiti, sentono pienezza, come sintetizza uno di loro: «Se non facessi parte di Scuola competente la mia esperienza scolastica sarebbe meno significativa. Frequenterei una scuola sola, quella per imparare la mia professione. Invece ora ne ho due: quella in classe e cresco studiando e quella in cui cresco come persona, cresco nell’ascolto, nell’accoglienza e nella relazione con gli altri». Così è molto meglio.

IL FENOMENO

L’allarme di Telefono Azzurro: «In crescita bullismo e cyberbullismo» Bullismo e cyberbullismo – denuncia Telefono Azzurro – stanno diventando una delle emergenze più pressanti nel nostro Paese, un fenomeno in costante aumento che coinvolge sempre più ragazze e ragazzi molti piccoli. Emergenza diffusa, dicevamo, che riesce ad emergere più al nord Italia dove si registrano il 45% dei casi di bullismo scolastico e il 57% dei casi di cyberbullismo. Le vittime sono in massima parte di nazionalità italiana (85% dei casi). Le ragazze vittime di bullismo sono il 45% del totale, cifra che sale al 70% per episodi di cyberbullismo. I bulli sono generalmente maschi (60% dei casi) e l'età delle vittime si sta progressivamente abbassando fino alle prime classi delle elementari (si sono registrati episodi con bambini di cinque anni). La richiesta di aiuto per casi di bullismo o cyberbullismo sè accompagnata spesso da problemi scolastici, difficoltà relazionali, bassa autostima, ansia diffusa, paura o fobie. Circa il 30% delle vittime di bullismo mette in atto comportamenti di autolesionismo, mentre il 10% avrebbe pensato o tentato il suicidio. www.azzurro.it novembre 2016 Scarp de’ tenis

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Sesso e violenza, giovani ormai inconsapevoli di Angela De Rubeis

Lo scorso settembre una ragazza di 17 anni è stata ripresa dalle amiche mentre era coinvolta, ubriaca, in un atto sessuale nei bagni di una discoteca. Il video è poi finito in rete. Come è potuto accadere? «Stiamo raccogliendo quanto seminato negli anni. Giovani senza controllo» 50 Scarp de’ tenis novembre 2016

Settembre è stato un mese nero per molte donne italiane. Uno dei casi, in particolare, ha colpito più di altri. La protagonista è una ragazza di 17 anni, originaria di Santarcangelo (Rimini), ripresa con il cellulare da un gruppo di amiche mentre – nel bagno di una discoteca – era coinvolta in un atto sessuale, in pieno stato di incoscienza dovuto all’abuso di alcol. Il video mostra l’incapacità di intendere e di volere della ragazza che non viene mai ripresa in volto; chi lo ha visto ha parlato di una bambola di pezza. Le amiche, tra risolini adolescenziali, hanno posizionato il cellulare sopra la porta e ripreso quello che stava accadendo. Purtroppo l’abuso su una ragazza incosciente non ha destato tanto clamore. Ciò che ha fatto più scalpore è stato, invece, l’atteggiamento delle amiche e il senso di incoscienza nell’essere complici di un atto gravissimo.


RIMINI

testo in cui vivono degli adulti che hanno atteggiamenti violenti. Che non riescono a controllare i loro impulsi oltre l’istante, che cercano di far colpo sul momento senza pensare al dopo. Questo è un mondo comune dove stiamo tutti e non possiamo imputare solo ai giovani un’erronea reazione.

I ragazzi mettono in pratica solo quello che in questi anni la società ha seminato. Senza educazione gli strumenti diventano letali

Un giovane vive nello stesso contesto in cui vivono degli adulti che hanno atteggiamenti violenti. Che non riescono a controllare i loro impulsi oltre l’istante, che cercano di far colpo sul momento senza pensare al dopo. Questo è un mondo comune dove stiamo tutti

La macchina giudiziaria si è mossa per tempo. Dopo la denuncia fatta dalla ragazza e dai genitori, gli inquirenti hanno preso in visione la prova principe, individuato l’identità del ragazzo coinvolto (poco più che ventenne), parlato con le amiche che hanno ripreso la scena. I fatti sono tutti da definire e verificare e ad ogni passo dell’indagine si aggiungono elementi che porteranno a fare luce sull’accaduto. Non solo i giovani Come è potuto accadere? Com’è accaduto che un gruppo di amiche abbia trasformato la percezione di un pericolo in un gioco? E, com’è possibile, poi, che un video intimo che diventa pubblico si trasformi nel pretesto per riversare rabbia, pregiudizi e ferocia – sottoforma di commenti – annullando qualsiasi forma di empatia umana? Lo abbiamo chiesto al professore emerito Andrea Canevaro, che all’Università di Bologna (sede di Rimini) insegna Pedagogia Speciale. Professor Canevaro, che lettura possiamo dare al fatto di cronaca che ha coinvolto la giovane ragazza riminese? Questa è l’immagine di una generazione che non capisce, che non ha coscienza delle conseguenze dei suoi atti. Ma non è colpa loro, stiamo raccogliendo quello che abbiamo seminato. A cosa si riferisce? Un giovane vive nello stesso con-

Il caso di Rimini? Il caso che ha coinvolto questa ragazza è stato brutto. Gli adulti possono farsi l’idea che ci sia una generazione intera che non pensa alle conseguenze delle sue azioni. Ma non è così. Questa è, infatti, una posizione miope. Stiamo raccogliendo ciò che abbiamo seminato negli anni: comportamenti violenti e deviati. Per cui lei ritiene non sia una questione generazionale... No, non è una questione generazionale ma l’incapacità di controllarsi che interessa tutti. Tornando al caso di cronaca. Molto scalpore ha suscitato il gesto delle amiche della vittima, che hanno realizzato quel video... Le questioni sono diverse. In primo luogo il linguaggio volgare e violento nei confronti delle donne permette ad altri di sentirsi nel diritto di agire in modo altrettanto violento. C’è poi il particolare delle amiche che con il loro atto diven-

tano complici attive. Il passaggio sul web è l’esaltazione della potenza, l’ubriacatura della finta libertà” Ci troviamo di fronte ad una generazione tecnologicamente avanti. Ai genitori basta conoscere gli strumenti del web? Oppure c’è un errore educativo di fondo? C’è un solo errore: l’ossessione del controllo. Il controllo, infatti, porta ad atteggiamenti simili seppur speculari. Dobbiamo dare un esempio propositivo, lavorare insieme. Le faccio un esempio: lavoro ad un progetto di comunicazione in una scuola del ravennate. Tra le varie cose è venuto fuori che i ragazzi vorrebbero intervistare Alex Zanardi. Ci siamo detti che l’operazione è possibile, che si può fare grazie ai social, a skype. Ma che ci sono dei tempi che vanno oltre l’immediato e il virus della fretta. Ecco questo è un modo per far vedere un web costruttivo, che va oltre l’immagine e la pubblicazione veloce. C’è dietro una progettualità che mostra come questo mezzo sia una risorsa utile. Non è colpa del mezzo, dunque ? I mezzi sono innocenti. La sedia di casa mia è innocente ma se lei viene a trovarmi e io gliela sbatto in testa perde la sua innocenza. Uguale con i media: nascono innocenti, come tutti gli strumenti.

SCHEDA

I numeri del sexting Da uno studio condotto da Università di Firenze e dal sito Skuola.net è emerso che tra i ragazzi tra i 14 e i 19 anni (su un totale di 5 mila intervistati) il 13% condivide sul web le proprie foto hot, attraverso dei messaggi privati. Il 22% ha inviato una foto in atteggiamenti intimi per fare colpo su un ragazzo o una ragazza. Il 23% ha inviato per scherzo. L’8% ha inviato testi o immagini sessualmente espliciti (pratica detta sexting) in cambio di un piccolo regalo. Il 17% ha subìto conseguenze del revenge porn, ossia per effetto dei video inviati a fidanzati; poi pubblicati in rete da quelli che sono diventati ex. novembre 2016 Scarp de’ tenis

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Scuola Viva per battere la dispersione di Stefania Marino

Al via un programma triennale che prevede l’apertura pomeridiana di 454 istituti scolastici sparsi in tutta la regione. Previsti laboratori tecnico-professionali per avvicinare scuola e mondo del lavoro, laboratori di arte, teatro, musica, sport e partecipazioni a eventi di vario tipo 52 Scarp de’ tenis novembre 2016

Si chiama Scuola Viva ed è un programma triennale che prevede l’apertura pomeridiana di 454 istituti scolastici distribuiti nelle cinque province della Campania. Un ampliamento dell’offerta formativa che coinvolgerà 400 mila studenti in 300 moduli didattici e che vedrà lo svolgersi di 115 mila ore didattiche equivalenti a 37 mila aperture straordinarie. La graduatoria dei progetti ammessi a finanziamento per l’anno scolastico 2016/2017 è stata pubblicata nei primi giorni di ottobre sul Burc (Bollettino ufficiale della regione campania). Circa 800 le istanze presentate. «Scuola Viva che avrà un costo di 25 milioni di euro – risorse del Por Campania Fse (Fondo sociale europeo) 2014/2020 – vuole intrecciare, saldare, mettere in relazione la scuola, il territorio, le imprese, le associazioni di promozione sociale, il mondo del terzo settore, gli oratori. L’idea di fondo è quella di rompere gli argini della didattica tradizionale facendovi fluire le potenzialità delle attività extracurricolari e delle metodologie alterna-


SUD que alla piaga dell’abbandono scolastico e della criminalità giovanile che caratterizzano alcune zone e alcuni quartieri della Campania. «Al contempo – conclude l’assessore Fortini – rappresenta un’opportunità per le scuole campane di innalzamento dell’offerta e delle competenze, per farla diventare una scuola di eccellenza, capace di coniugare cultura, partecipazione e coesione sociale».

Scuola Viva è un programa triennale che prevede l’apertura pomeridiana di 454 istituti scolastici distribuiti nelle cinque province campane

Si tratta di una una misura di contrasto alla piaga dell’abbandono scolastico e della criminalità giovanile che caratterizzano alcune zone della Campania e alcuni quartieri del capoluogo. A ognuno dei 454 istituti scolastici che hanno visto ammettere il progetto assegnati 55 mila euro

tive. La scuola insomma che apre le porte al territorio per diventare laboratorio, luogo di incontro, di partecipazione e sperimentazione. Formazione e creatività Quali progettualità hanno presentato gli istituti scolastici campani e quali sono le novità che subentreranno dopo le classiche ore di lezione? Sono previsti laboratori tecnico professionali con la partecipazione di artigiani, associazioni di categoria, per far avvicinare sempre di più la scuola al mondo del lavoro. Saranno attivati laboratori di arte, teatro, enogastronomia. Musica e sport saranno attività al centro di molti progetti di Scuola Viva come pure materie come le lingue straniere oltre all’educazione alla legalità, alla pace. Scuola intesa non solo come presenza in aula ma anche come partecipazione a manifestazioni culturali e ricreative al di fuori delle strutture scolastiche. Ci sarà poi spazio anche a percorsi di consulenza psicologica, di orientamento e a tutte quelle iniziative che prevedono la partecipazione diretta dei genitori nella vita scolastica. «Le attività saranno libere, gratuite ed aperte al territorio – spiega l’assessore regionale all’istruzione Lucia Fortini –. La selezione dei progetti ha tenuto conto non solo della qualità degli stessi ma anche del grado di dispersione scolastica dei territori in cui insistono le scuole coinvolte». Una misura di contrasto dun-

Nello specifico sono stati 30 i progetti approvati ad Avellino, 26 in provincia di Benevento, 63 a Caserta, 240 a Napoli di cui 96 solo sul territorio comunale, 95 nella provincia di Salerno. «Con il progetto Scuola Viva si volta pagina – spiega il governatore della Campania Vincenzo De Luca – e si realizza un intervento concreto per i giovani e le famiglie della Campania offrendo al tempo stesso l’opportunità di far emergere le potenzialità inespresse dell’universo scolastico campano e di contribuire a combattere sul suo terreno la dispersione scolastica». Per ognuno dei 454 istituti scolastici che ha visto il proprio progetto ammesso e finanziabile sono stati assegnati 55 mila euro. Al pri-

mo posto in graduatoria l’Istituto “Teresa Confalonieri” di Campagna, nel salernitano, con il progetto PienaMente Scuola. Al secondo posto l’Iis “Maffucci”di Calitri nell’avellinese e al terzo posto l’Istituto “68° Rodinò” ubicato nella zona orientale di Napoli. A seguire l’Istituto “83°Porchiano Bordiga” nella periferia est del capoluogo partenopeo, la Direzione didattica “G.Marconi” di Afragola, l’Istituto alberghiero di Teano nel casertano, l’Istituto comprensivo “San Rocco” di Marano di Napoli. I primi istituti del salernitano a comparire nella graduatoria sono l’Ipsars “ProfAgri”, l’Istituto “A. Gatto “ di Battipaglia, l’Ic “Santa Marina- Policastro” nell’omonima cittadina di Santa Marina. Più di mille scuole Dagli ultimi dati statistici pubblicati dal Miur in Campania, ci sono 1.001 istituzioni scolastiche per un totale di 4.452 sedi scolastiche. Presenti 7 Centri provinciali per l’istruzione degli adulti. Gli alunni della Campania sono 909.010, iscritti nel 47,5% nei licei, nel 31,7 % negli istituti tecnici e nel 20,8% in quelli professionali. Sono 20.976 gli alunni con cittadinanza non italiana.

IL CONCORSO

Uno spot contro la violenza sulle donne Uno spot contro la violenza sulle donne. Parte dall’assessorato alle Pari Opportunità della regione Campania in collaborazione con Anci, ordine degli Psicologi e Ufficio scolastico regionale, il concorso di idee in occasione del 25 novembre, Giornata mondiale contro la violenza di genere. Il concorso è rivolto agli alunni delle scuole secondarie di secondo grado e degli enti di formazione accreditati. Il tema ma anche l’obiettivo del concorso è fornire gli strumenti necessari per analizzare e smontare gli stereotipi legati alla violenza di genere. Nel bando si fa riferimento all’analisi delle relazioni affettive ma anche all’utilizzo consapevole delle nuove tecnologie come whatsapp, Facebook, Snapchat, Istagram. Gli studenti potranno scegliere di realizzare un manifesto ovvero una foto o una creazione artistica con lo slogan, un video reportage della durata di due minuti oppure un video clip musicale. La premiazione si terrà il 25 novembre 2016 proprio in occasione della Giornata Mondiale contro la violenza di genere. novembre 2016 Scarp de’ tenis

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aforismi

POESIE

di Emanuele Merafina

Sana e giusta pazzia Sappiamo quello che ci vogliono far sapere, sta a te cercare, scovare, ragionare sulle notizie, verificare le varie fonti, trarne le conclusioni alla ricerca continua della verità, ma che sia la verità non la Tua verità. Non illuderti, la ricerca non finirà mai. Che bello talvolta essere ignoranti e vivere d i sola leggerezza, vivere nel limbo ma non è vita. La vita è anche indagare, scoprire strade e vie sempre nuove anche se così puoi rischiare la “pazzia”. Ma cos’è la pazzia? Una sana reazione della psiche, dell’anima, della coscienza alla “normalità”. La vita è fatta di momenti e le persone sono fatte di momenti: tutto sta ad aver fortuna nel capitare nel momento giusto di ogni situazione. Adriano

Foglie d’autunno Marciscono infiammate dal tempo smorzate dalla pioggia decisamente colorate a festa. Paradossale scherzo che le accende di vita appena un attimo prima dell’oblio. Ora, sul viale calpestate e stanche scolorano di ruggine. Aida Odoardi

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Antidoti anti freddo Care granite rinfrescanti e colorate, arrivederci alla prossima stagione: è arrivato l’autunno… e le foglie hanno formato tappeti giallo oro alla base degli alberi Settembre andiamo, è tempo di migrare, scriveva il poeta. In effetti anche l’umanità sta per incamminarsi verso una stagione più grigia, più fredda, più lavorativa. Dalle granite si passerà, in breve tempo, al panettone, alla cioccolata calda, alla panna montata… Meno male, però, che i gelati esistono tutto l’anno: io li preferisco d’inverno perché, mentre d’estate mi mettono sete, col freddo mi danno energia. Silvia Giavarotti

La Luna porta fortuna La Luna appare e scompare nel momento sbagliato. La Luna chiede gli arretrati a tutti gli innamorati

Eppure Tutto sembrerebbe normale, ma non lo è. Continuo a stare qui. Questa malinconia si è proprio stabilita nel mio cuore e non ne vuole sapere di lasciarmi andare. Sarà che c’è questo legame tra di noi, sarà che non vuole perdere tutto. Resterà solo, e anch’io eppure siamo insieme ma così lontani da non riuscire a vederci. Cinzia Rasi

Il gatto bilingue Quel gatto non riusciva a prendere quel topo: allora andò ad un corso per saper latrare. Bene imparò; sicuro fu che prima o dopo sarebbe in grado quel furbetto accalappiare. Edotto in lingue, si posò fuor dalla tana. Sentito un abbaiar, il topo osò sbucare: L’idea di un giovane volontario ma…visto il gatto: «È sol l’inganno che mi stana». della Ronda«Oggi delladue carità Milano: linguedi devi saper, per lavorare».

una App contro lo spreco alimentare Lodovico Grimoldi 54


VOCI DALL’AMERICA

Un senza dimora candidato a sindaco Lee: «Dobbiamo essere comunità»

di Damiano Beltrami

Il candidato Mike Lee riceve i suoi interlocutori a un tavolino di Au Coquelet, storico caffè di Berkeley dove la clientela è un mix di studenti universitari, eccentrici locali e senza fissa dimora come lui. Al bar per tutti è già “il sindaco”. Ma la fascia di primo cittadino, Lee, deve ancora conquistarla. Le elezioni dell’anticonformista città della california cadono ai primi di novembre, come quelle presidenziali, e il signor Lee non perde un attimo: stampa volantini, organizza volontari, concede interviste. Lee, 60 anni, si autodescrive senza fronzoli come un “vecchio barbone”, e la barba ce l’ha, lunga e arruffata, color sale e pepe. Nel suo caso, però, l’apparenza può ingannare. L’uomo ha l’argento vivo addosso, è un vulcano di proposte, e le esprime con chiarezza: «Questa città è fuori controllo», sbotta mentre risponde sullo smartphone a un messaggio su un social media.

scheda Damiano Beltrami, nato a Genova. Classe 1982. Reporter. Negli Stati Uniti dal 2008 con una borsa Fulbright. I suoi articoli e i suoi video sono apparsi su testate americane e italiane, tra cui il New York Times, l’Huffington Post e il magazine mensile del Sole24Ore IL. Nel tempo libero ama camminare nei boschi.

Troppe differenze sociali «C’è chi ha troppo e chi nulla. Qui a Berkeley abbiamo un paio di migliaia di senzatetto. Ogni notte dormono sotto le vetrine dei negozi, nei parchi, in mezzo ai marciapiedi. E molti di loro hanno passato i 70 anni. Vogliamo una buona volta creare una strategia di lungo termine?». Il programma di Lee non è circoscritto agli homeless, si rivolge anche agli universitari. Poster con il suo volto sorridente sono affissi su e giù per il campus. «Abbiamo la gioventù dell’università che non trova un alloggio con ‘sti affitti assurdi. È una

I grandi esperti hanno portato Berkeley allo sfascio, buttano via i soldi per incarcerare gli homeless o per distribuirci panini in modo paternalistico invece di vegliare sugli affitti e costruire case a prezzi economici. Ci sono agenzie che invece di risolvere il problema dei senzatetto intascano quattrini facendo finta di aiutarci. Cosa posso fare io? Ho buon senso e conosco il valore dei soldi. Mi sembra già qualcosa...

Mike Lee nel suo quartier generale all’Au Coquelet di Berkeley

roba disgustosa. La mia definizione di uno spazio a un prezzo ragionevole è 500 dollari (circa 450 euro) per un monolocale e 750 dollari (670 euro) per un bilocale». Al momento invece in media i prezzi, portati alle stelle dal boom tecnologico della Bay Area, sono almeno tre volte tanto. L’altro aspetto per cui Lee si impegna a difendere gli studenti sono le tasse universitarie sempre più salate: oggi si aggirano sui 13.500 dollari (12 mila euro). «I miei avversari non si sognerebbero mai di ricevere gli studenti quando, giustamente, si lamentano. Io lo farò assolutamente. Gli studenti sono quel che rende Berkeley varia e divertente. Vanno difesi». Buon senso Sulla pagina di Facebook della campagna intitolata “un barbone per sindaco” Lee ammette di non essere un politico di lungo corso, il che ritiene sia un suo punto di forza. «I grandi esperti hanno portato Berkeley allo sfascio –si legge –, buttano via i soldi o per incarcerare gli homeless o per distribuirci panini in modo paternalistico invece di vegliare sugli affitti e costruire case abbordabili economicamente. Ci sono agenzie che invece di risolvere il problema dei senzatetto vogliono continuare a intascare quattrini facendo finta di aiutarci. Cosa posso fare io? Ho buon senso e conosco il valore dei soldi. Mi sembra già qualcosa». Il signor Lee non è il primo senza dimora che corre a sindaco di Berkeley, ma sostiene di essere il primo ad avere una chance di vittoria. «Ho una visione nuova – dice –. Ci sono cose sensate che devono essere fatte. E questi problemi li dobbiamo risolvere insieme, capito? Come comunità». novembre 2016 Scarp de’ tenis

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VENTUNO

Uno studio di Amnesty International spiega come solamente dieci nazioni - il cui peso economico non supera il 2,5% del valore mondiale – ha accolto finora il 56% dei profughi di Andrea Barolini

scheda

Ventuno come il secolo nel quale viviamo, come l’agenda per il buon vivere, come l’articolo della Costituzione sulla libertà di espressione. Ventuno è la nostra idea di economia. Con qualche proposta per agire contro l’ingiustizia e l’esclusione sociale nelle scelte di ogni giorno.

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L’analisi di Amnesty International sottolinea come, ad oggi, il numero di persone che, in tutto il pianeta, sono state costrette a fuggire dalle loro terre sia pari a 21 milioni. Dalla Grecia all’Iraq, fino all’isola di Nauru, così come alle frontiere siriane e giordane, uomini, donne e bambini nella migliore delle ipotesi attendono da mesi un tetto. In altri casi, vengono addirittura maltrattati, denigrati e perseguitati. Persino dalle autorità.

Quelli attuati dai Paesi ricchi sono comportamenti che denotano «una totale assenza di volontà politica e di responsabilità». L’accusa, durissima, è arrivata dall’organizzazione non governativa Amnesty International. Nel mirino, le politiche scelte dai governi delle nazioni più agiate del mondo per rispondere alla crisi dei rifugiati. La denuncia è contenuta in un rapporto pubblicato all’inizio di ottobre, intitolato Tackling the global refugee crisis: from shirking to sharing responsibility, dal quale emerge come il mondo ricco si stia facendo carico solo in piccolissima parte dell’ondata di migranti in fuga da guerre e persecuzioni. Il report spiega infatti che solamente dieci nazioni – il cui peso economico in termini di prodotto interno lordo non supera, complessivamente, il 2,5% del valore mondiale – hanno fino ad ora accolto ben il 56% dei profughi. I Paesi poveri, in altre parole, stanno tendendo la mano ai più sfortunati con molta più convinzione di quanto non lo faccia il nord del mondo.

Yannis Behrakis (Shedia/courtesy of INSP

La metà dei rifugiati accolta da dieci nazioni (povere)

I Paesi poveri – Siria, Giordania, Iraq, Nauru – stanno tendendo la mano ai più sfortunati con molta più convinzione di quanto non lo faccia il nord del mondo

Per questo la ong propone una soluzione concreta: introdurre un nuovo sistema di ripartizione – equo e sostenibile – di tutti i rifugiati del mondo. Basato su dati oggettivi come la ricchezza dei Paesi, la capacità di accoglienza, i tassi di disoccupazione. Il che, tradotto, significa chiedere a ciascuno di fare la propria parte in modo proporzionale alle proprie possibilità. «Ad oggi – ha spiegato Salil Shetty, segretario generale di Amnesty International – dieci Paesi sui quasi 200 esistenti sulla Terra accolgono da soli ben più della metà dei rifugiati.


Si tratta di Stati che spesso confinano con zone di guerra, e che sono di fatto obbligati ad assumersi responsabilità decisamente troppo pesanti per loro. Il risultato è che oggi la situazione è semplicemente insostenibile, ed espone milioni di persone che fuggono dalla Siria, dal Sudan del Sud, dall’Afghanistan o dall’Iraq a vivere in condizioni intollerabili di miseria e di sofferenza». «Se i governi decideranno di collaborare e di condividere il peso delle responsabilità – ha aggiunto l’attivista – è possibile fare in modo che queste persone, che sono scappate dalle loro case per cause di forza maggiore, possano ricostruirsi una vita. Se invece non agiremo, questi esseri umani saranno costretti a restare confinati in campi profughi o in centri di detenzione. In condizioni miserabili. O saranno rimpatriati con la forza nelle stesse zone di guerra dalle quali sono fuggiti». I numerosi conflitti che hanno caratterizzato la vita di un Paese come l’Afghanistan negli ultimi decenni, ad esempio, hanno spinto milioni di persone a varcare i con-

Il Libano, che ha una popolazione totale di 45 milioni di abitanti e una superficie di 10 mila km quadrati, offre riparo a più di un milione di siriani. Il Regno Unito, dal 2011, ne ha accolti 8 mila

fini di Pakistan e Iran. Il governo di Islamabad ha accolto a lungo un grande numero di migranti, ma di recente ha disposto il rimpatrio delle numerose centinaia di migliaia di afgani presenti sul proprio territorio (alcuni ormai dai tempi dell’invasione sovietica degli anni ottanta), adducendo ragioni di sicurezza nazionale. In Kenya, nel campo profughi di Dadaab le pressioni sui rifugiati somali affinché ritornino in patria sono sempre più forti (più di 20 mila sono già stati costretti a ripartire). E più di 75 mila profughi siriani sono attualmente confinati in una striscia di terra al confine con la Giordania (vedi articolo nella pagina seguente). Di qui il duro atto d’accusa ai governi delle nazioni ricche: «È ora – prosegue Shetty – che i nostri dirigenti si impegnino ad aprire un dibattito serio e costruttivo per comprendere in che modo le nostre società possano aiutare le popolazioni costrette a fuggire dalle loro case. Ci devono spiegare perché siamo in grado di iniettare liquidità gigantesche nelle banche per evitare che falliscano,

perché riusciamo ad investire enormi quantità di denaro in nuove tecnologie belliche, ma siamo incapaci di trovare un alloggio decente per 21 milioni di rifugiati, che rappresentano solamente lo 0,3% della popolazione mondiale».

Se ci si concentra unicamente sui rifugiati siriani, Amnesty ricorda come ad esempio il Regno Unito abbia accettato di aprire le porte solo a 8 mila di loro, dal 2011 (anno di inizio della guerra) ad oggi. Mentre una nazione la cui popolazione è dieci volte inferiore, e il cui Pil è pari all’1,2% di quello britannico, la Giordania, ne ha ricevuti già oltre un milione. Allo stesso modo il Libano, che ha una popolazione totale di 4,5 milioni e una superficie di 10 mila chilometri quadrati, offre un riparo a 1,1 milioni di siriani. Contro i 250 della Nuova Zelanda o i 758 dell’Irlanda. Secondo la ong ciò dimostra «la mancanza evidente di cooperazione» da parte di alcuni governi.

Il rapporto sottolinea infine il fatto che di drammi leganovembre 2016 Scarp de’ tenis

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VENTUNO

La nota positiva è rappresentata dal Canada. La nazione nordamericana è citata come buon esempio in grado di dimostrare come sia possibile accogliere i rifugiati senza creare problemi alla popolazione locale

ti ai rifugiati è disseminato il mondo intero e non solo il bacino del Mediterraneo, come si potrebbe essere portati a pensareguardando il mondo con occhi europei. Nel Sud-Est asiatico, ad esempio, i richiedenti asilo del Myanmar vivono nella costante paura di essere arrestati e incarcerati. Tra i mesi di gennaio del 2014 e di giugno del 2015, inoltre, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ha registrato 1.100 decessi in mare nell’area. Mentre gli stupri sono diventati una pratica abituale nei confronti delle donne provenienti dall’Africa sub-sahariana in transito in Libia. Aggressioni sessuali e omicidi non sono rari neppure per chi attraversa il Messico in direzione degli Stati Uniti.

In tutto ciò, una nota positiva è rappresentata dal

Viaggio nel campo di Zaatari, una città

Canada. La nazione nordamericana è citata come esempio in grado di dimostrare come sia possibile accogliere un importante numero di rifugiati, in breve tempo, senza creare particolari problemi alla popolazione locale. Dal mese di novembre del 2015 ad oggi in Canada sono stati fatti entrare 30 mila rifugiati. Alla fine dello scorso agosto, altre 18 mila richieste di asilo erano in corso di esame da parte delle autorità: si tratta di migranti finora accampati in Libano, Giordania e Turchia. Eppure, ancora oggi, solo pochi Paesi in tutto il mondo propongono programmi ad hoc di accoglienza come quello stabilito da Ottawa. Risultato: il numero di posti garantiti per i rifugiati risulta ben inferiore rispetto a quello raccomandato dalle stesse Nazioni Unite.

Non ci sono strade asfaltate. Non esiste un allaccio alla rete fognaria. Non sono presenti palazzi, né mezzi di trasporto. Scuole, ambulatori, asili e presidi sanitari sono improvvisati, precari, arrangiati. Eppure siamo ormai in una delle più grandi “città” della Giordania. L’uso delle virgolette è d’obbligo perché più che ad un’agglomerazione urbana, ciò di cui parliamo assomiglia ad un immenso centro di disperazione. Siamo a Zaata-

ri, il più grande campo profughi del Paese. Abitato da 79.900 rifugiati siriani, secondo le cifre pubblicate dall’Unhcr sul proprio sito internet.

Una delle più grandi “città” della Giordania è il campo profughi aperto nel luglio 2012. E che non ha mai smesso di crescere 58 Scarp de’ tenis novembre 2016

Un video pubblicato dalla Bbc nel Regno Unito mostra il sito visto dall’alto: un’isola di miseria circondata da polvere e sabbia, perduta in mezzo al nulla. «Una prigione a cielo aperto nella quale chi vi abita, in maggioranza persone provenienti dalla città di Daraa, è arrivata al limite della sopportazione», ha rac-

contato un reportage di France 24.

Il campo fu aperto alla fine di luglio del 2012. Da allora, non ha smesso di crescere. E assieme al numero di rifugiati, aumentano anche le spese. Per mantenere la struttura, secondo la Bbc servono infatti circa 500 mila dollari al giorno. Basti pensare che, quotidianamente, vengono distribuiti alla popolazione mezzo milione di pezzi di pane e 4 milioni di litri di acqua potabile. Nel frattempo, la guerra nella vicina Siria non accenna ad arrestarsi. Nonostante i tentativi di tregua, la nazione è ormai sempre più al centro di un braccio di ferro internazionale che oltre alle numerose fazioni in campo – dai ribelli alle truppe filogovernative, dall’Isis all’esercito della minoranza curda –vede sfidarsi le diplomazie di Russia e Stati Uniti. Il risultato è che nel campo di Zaatari la fine dell’incubo e la prospettiva di un ritorno a casa appaiono ancora molto lontane. Non a caso, gli

abitanti si adattano. C’è chi infatti ha trasformato una baracca in un negozio. Sorgo-


Una bella immagine del fotografo vincitore del Pulitzer, Yannis Behrakis (Shedia / courtesy of INSP). Sotto, il campo di Zaatari in Giordania

SCHEDA

no piccoli bazar, barbieri, mercatini. C’è perfino un negozio che consente di affittare abiti da sposa, a 20 euro per una giornata. È la vita che cerca di andare avanti, la normalità che tenta di far breccia in una situazione del tutto anormale. D’altra parte, come documentato da un’inchiesta di Al Jazeera pubblicata nell’ottobre del 2015, alcune persone vivono nel campo ormai da tre anni. Molti di loro, come nel caso di Hamdan, scappato con altri otto membri della sua famiglia dalla città

di Khirbet Ghazalah, nella Siria meridionale, non pensavano di dover restare confinati così a lungo: «Quando siamo arrivati immaginavamo di rimanere qualche settimana, un paio di mesi al massimo. E invece siamo ancora qui, di mesi ne sono passati trenta. Viviamo in 19 metri quadrati. In nove persone». Nonostante infatti il lavoro encomiabile di numerose organizzazioni non governative, soprattutto in alcuni periodi dell’anno le condizioni di vita a Zaatari sono drammatiche. In estate il sole fa cresce-

re la temperatura fino a 42 gradi, rendendo le tende dei veri e propri forni. E in inverno il freddo e il vento spazzano tende e prefabbricati. Nella quasi totale indifferenza del mondo intero. Come se non bastasse, lo scorso 21 giugno la Giordania ha deciso di bloccare i convogli di aiuti umanitari verso altre decine di migliaia di rifugiati bloccati alla frontiera con la Siria. Ciò in ragione di un attacco suicida che è costato la vita a sette militari in una zona deserta del paese. Di conseguenza, le ong sono riuscite a far arrivare i beni di prima necessità ai profughi solamente una volta nel corso dell’intera estate, all’inizio di agosto, utilizzando dei droni. Una decisione deplorabile, quella del governo di Amman, che tuttavia è dettata dal fatto che ormai nel Paese sono presenti (secondo le autorità locali) ben 1,3 milioni di rifugiati, su una popolazione totale di 6 milioni e mezzo. Come se in Italia ne fossero arrivati 10 milioni, una cifra pari a tutti gli abitanti della Lombardia.

Non ci sono strade asfaltate, non c’è una rete fognaria, non ci sono mezzi di trasporto. Scuole, ambulatori e presidi sanitari sono improvvisati in strutture fatiscenti. Benvenuti a Zaatari

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INCONTRI

LABORATORI

AUTOBIOGRAFIE

CALEIDOSCOPIO

Zoran alle prese con il suo bottlephone. Nonostante il buon successo ottenuto in televisione e alla radio l’artista macedone non abbandona la strada

Zoran: «La strada, unico vero palcoscenico» Zoran Madzirov è l’uomo delle bottiglie magiche. Suona con passione un repertorio variegato: dalle danze ungheresi al bolero, passando per kalinka. Zoran the bottleman è di origini macedoni e ha studiato percussioni a Monaco. Lo strumento con cui si cimenta, il bottlephone, lo ha inventato lui: una serie di bottiglie di vetro di varie dimensioni, riempite con liquidi diversi, che suona ottenendo le melodie desiderate. Un’originalità che lo ha portato a partecipare a numerosi programmi televisivi e radiofonici italiani e stranieri (come, ad esempio, Italia’s got talent nel 2013). Però la strada per Zoran è fondamentale: «Questo è il vero e unico palcoscenico. Solo qui si capisce davvero chi ha talento». Le sue performance lasciano tutti senza fiato: si esibisce anche con gli occhi bendati senza mai sbagliare. «Amo le percussioni – prosegue Zoran –, cerco di utilizzare come strumento tutto quello che mi capita tra le mani. Oggi ho qui il bottlephone, ma suono anche le pentole o un cerchione di bicicletta. Antonio Vanzillotta Se la musica ce l’hai dentro basta solo farla uscire. Non importa come». novembre 2016 Scarp de’ tenis

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PAROLE

Rassegnazione: unica maniera per sopravvivere ai disservizi

La Ctp, società che gestisce il trasporto tra Napoli e i comuni limitrofi è sempre più in difficoltà. A farne le spese sono sempre gli utenti

La Ctp, il buco del debito e gli autobus fantasma Una crisi che dura da mesi. E da mesi per i pendolari che si muovono da e per la provincia napoletana prendere l’autobus per raggiungere lavoro, scuola, università è diventato più difficile che centrare un terno al lotto. La Ctp (Compagnia trasporti pubblici), azienda che gestisce il trasporto fra Napoli e tanti comuni della provincia napoletana, il litorale domizio e la provincia di Caserta ha un buco di bilancio che si ripercuote quotidianamente sui trasferimenti di migliaia di persone. Ogni giorno c’è un motivo per cui le corse saltano o le linee vengono soppresse: non vengono pagati gli stipendi ai lavoratori – che hanno poi deciso di incrociare le braccia –, non sono state saldate le polizze assicurative sui mezzi, gli autobus si guastano in continuazione per mancanza di manutenzione o, addirittura, i mezzi non partono per carenza di carburante. È successo anche a noi di Scarp, un giorno di luglio, dovevamo andare da Fuorigrotta a Pozzuoli per visitare il Tigem, centro di ricerca all’avanguardia nello studio delle malattie genetiche. Siamo stati un’intera mattinata ad aspettare un autobus al capolinea che non è mai arrivato perché quella mattina le vetture, sprovviste di assicurazione, non sono proprio uscite dai depositi. Quelle che seguono sono le cronache vibranti di disillusione dei nostri redattori di strada che nei disagi della Ctp incappano tante volte quando si spostano fuori città per andare a vendere Scarp. Patire un disservizio per loro è essere in negativo uguale a tutti gli altri viaggiatori; sarebbe tempo di misurare l’uguaglianza sullo stare un po’ meglio tutti. Laura Guerra

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PAROLE

Grazie Ctp Tante le strade per camminare, forse conviene sedersi e aspettare. Ctp un nome facile da pronunciare e difficile da dimenticare Per le ore che aspetti e l’azienda fa finta di non vederti Se poi sei fortunato aspetti solo tre ore oppure vai a piedi Se fanno la riunione dei sindacati sei rovinata, non c’è speranza. Grazie Ctp per quelle tante volte che non sei passato anche per quelle volte che sono andata a vendere ad Afragola: ho dovuto prendere il tassì e tutto il guadagno l’ho perduto. Monica Esposito

Le vie della rassegnazione sono infinite. E noi napoletani lo sappiamo bene. Fra i tanti ricordi negativi di questa città c’è anche l’eterna, assoluta distanza tra cittadini e istituzioni. Tutti noi sappiamo che gridare è inutile, farsi sentire è quasi impossibile e ottenere un pubblico servizio è un’utopia. Come i trasporti pubblici, ad esempio. L’incertezza degli orari, l’inaffidabilità dei mezzi, unita all’arroganza e alla strafottenza degli operatori, fa sì che spostarsi a Napoli, sia una vera e propria scommessa. La prova? Noi di Scarp dovevamo andare a visitare il Tigem, un centro di ricerca sulle malattie rare, fiore all’occhiello della città, siamo invece rimasti al capolinea dell’M1 un paio d’ore buone senza avere notizie. Un classico, lo scandalo come norma, giacché a un giorno di distanza la Ctp ha comunicato che erano in assemblea sindacale, della quale forse chissà un domani potremmo sapere il risultato. Arrabbiarsi è legittimo e giustissimo per carità, ma rassegnarsi e dare pace al fegato forse ti allunga la vita. Bruno Limone


NAPOLI

La rabbia dell’attesa: «Adda passà o’ pullmàn» Il trasporto pubblico che collega la città alla provincia versa in pessime condizioni: il servizio spesso non viene garantito Il trasporto pubblico di Napoli versa in gravissime condizioni. La Ctp che collega la provincia alla città, da più di otto mesi è in crisi nera, non hanno assicurazione e non hanno benzina. Chi come me ogni mattina per spostarsi può contare solo sulla Ctp è un problema. Quando arrivi sotto la pensilina dell’autobus, la prima cosa che chiedi è: «L’autobus è passato?» e ognuno ti racconta da quanto tempo aspetta. E poi non puoi far altro che armarti di santa pazienza e metterti lì ad aspettare. Io ho un rito: mi accendo la sigaretta e così credo, nella mia testa, che passi il pullman. Lo scorso luglio, noi di Scarp dovevamo andare a Pozzuoli al centro Tigem, istituto di ricerca per le malattie rare. Appuntamento alle 9,30 a Fuorigrotta, ma l’autobus M1 è soppresso: la prima corsa delle 9,50 poi la seconda ed anche la terza. C’erano tante persone ad aspettare, alla fine verso le 11 ci siamo visti costretti a rinunciare e tornare ognuno alla propria casa. Diritti negati È una vergogna che una persona debba passare una giornata intera ad aspettare un autobus sotto il sole oppure con la pioggia. La regione Campania dovrebbe intervenire: oggi chi esce per andare a lavorare non sa se troverà l’autobus per rientrare a casa. Non bastano i problemi quotidiani che le persone devono affrontare, anche le difficoltà a muoversi ci si devono mettere. E poi pretendono che si comprino i biglietti a un prezzo esagerato.

Il servizio è scadente: autobus rotti che a stento camminano e quando arrivano sono affollati. Persone con la testa fuori dal finestrino per respirare, una puzza intensa. Attesa infinita Io sono una di quelle che prende l’A37. Una volta sono stata due ore ad aspettare. In casi come questi ti viene addosso una rabbia che ti rovina tutta la giornata. Spero che questa situazione paradossale finisca in televisione: magari poi qualcuno interviene. Quando aspettiamo i pullman sembriamo dei profughi che aspettano la barca della salvezza e invece stiamo solo aspettando l’autobus che ci riporta a casa. Adda passà o pullmàn e speriamo che passi. Maria Esposito

PAROLE

Caccia al bus desaparecido: le vie della rassegnazione sono infinite Ritengo sia assolutamente inaccettabile che una città come Napoli, di quasi un milione di abitanti, sia alla mercé di servizi pubblici di una carenza inaudita. Ogni gorno alle fermate degli autobus moltissimi pendolari e studenti attendono, armati di tanta pazienza, il passaggio di un autobus per raggiungere la meta agognata. Spesso senza riuscirci proprio a causa dell’insufficienza dei servizi pubblici che da tempo, da troppo tempo, paralizzano la città. Dobbiamo constatare, con buona pace dei turisti, che il trasporto pubblico a Napoli è morto. Guasti, carenza di manutenzione, polizze assicurative non stipulate e, addirittura, mancanza di carburante impediscono che il servizio di svolga regolarmente. Ciò ha impedito alla redazione di Scarp de’ tenis, di fare un’esperienza molto significativa: intervistare scienziati che studiano le malattie genetiche, alcune rare, di difficile risoluzione per il bene dell’umanità. Tutto ora è rimandato alla prossima occasione. A noi è rimasta la delusione. Sergio Gatto novembre 2016 Scarp de’ tenis

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CALEIDOSCOPIO

Perdonate il mio peccato Perdonate il mio peccato che nessuno conosce. Abbiamo tutti qualcosa da nascondere e lo teniamo ben nascosto. Qualcosa si intreccia. Ma cosa esattamente? Tante volte hanno cercato di mettere in piedi questo movimento Ma non sono stati capaci. Cosa vedete? Volete davvero vedere qualcosa? Allora guardate più in là del vostro naso. Quasi quasi si vede si sente si tocca. State al gioco, perché è un gioco e il gioco di bimbi è bello. Non calpestate la felicità portatela a spasso con voi e dopo capirete tutto, tutto quello che vi serve. Ma veramente, cosa vi serve? Vi serve solo, ve lo dico io, capire quello che già conoscete: noi stessi. Federica Tescaro

Il cielo è Il cielo è grandioso meraviglioso misterioso velo intoccabile visibile e irraggiungibile e quando non sarai più in codesta valle di lacrime vedrai il paradiso? O forse? Qualcuno ti dirà: peggio per te, hai subito e patito e adesso ti meriti questo castigo. Per ora (re)stiamo in codesto inferno e chi cadrà vedrà dove andrà? Giovanni Ricciardi

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Profughi, resta l’allarme: per i minori non accompagnati di Salvatore Couchoud

Sono bastati pochi giorni perché apparisse chiaro che la crisi dei migranti della Stazione S. Giovanni a Como non si sarebbe placata con l’apertura del campo di via Regina Teodolinda (nella foto sotto), con i suoi 50 container che accolgono tra i 250 e i 300 ospiti. La situazione è ancora fluida, e mentre il campo si sforza di entrare a pieno regime nuove emergenze continuano ad affiorare. La più seria riguarda i minori stranieri non accompagnati che a Como raggiunge cifre non comparabili a quelle più preoccupanti che si riferiscono alle altre frontiere italiane. «La situazione è grave – spiega don Giusto Della Valle, parroco della comunità di Rebbio, uno dei più attivi tra quanti si stanno prodigando per tamponare l’emergenza – e non possiamo andare avanti così ancora per molto. Finora sono passati dalla mia parrocchia circa 550 minori, direttamente consegnati dalla polizia. Di questi solo una ventina hanno accettato di essere trasferiti in comunità per minori, mentre un’altra ventina è tuttora in attesa che si trovino spazi pronti a riceverli – cosa molto difficile,

mancando nel territorio di Como i centri preposti ed essendo quindi costretti a rivolgersi ad altre province –. Gli altri sono spariti facendo perdere le tracce». La questione, tornata prepotentemente sul tavolo delle istituzioni cittadine, è resa ancor più complicata dal fatto che il numero reale dei minori non accompagnati resta imprecisato e non accertabile, dal momento che non pochi soggetti risultano al momento ancora “presunti minorenni”, e la loro età effettiva sarà stabilita solo da future indagini. Per i minori non accompagnati come per un alto numero di migranti adulti, comunque, l’emergenza rimane racchiusa nella mancanza di spazi disponibili. «Stiamo lavorando per trovare posti su tutto il territorio – spiega il direttore della Caritas, Roberto Bernasconi – in modo da gestire l’afflusso dei nuovi minori in collaborazione con le realtà già da tempo in azione nel campo dell’accoglienza». Sul piano dell’impatto visivo il trasferimento dei migranti dai giardini della stazione al campo di via Regina Teodolinda ha funzionato. Ma al di là della “coreografia” il problema persiste, e chissà quando si apriranno spiragli concreti che possano avviarlo a risoluzione.


SCIENZE

Nessuna relazione tra vaccini e autismo. Tutti gli studi confermano che la malattia ha altre origini

Vaccini e autismo, nessuna relazione provata di Federico Baglioni

scheda Federico Baglioni Biotecnologo, divulgatore e animatore scientifico, scrive sia su testate di settore (Le Scienze, Oggi Scienza), che su quelle generaliste (Today, Wired, Il Fatto Quotidiano). Ha fatto parte del programma RAI Nautilus ed è coordinatore nazionale del movimento culturale “Italia Unita Per La Scienza”, con il quale organizza eventi contro la disinformazione scientifica.

Negli ultimi anni i vaccini sono stati accusati di provocare numerosi effetti collaterali, tra cui l’autismo, una serie di disturbi che provocano difficoltà di linguaggio, asocialità e rigidità di movimenti. Come mai la colpa sarebbe dei vaccini? Molti genitori sostengono di avere le prove, dal momento che alcuni bambini sono diventati autistici proprio pochi giorni o settimane dopo essere stati vaccinati. Questo però non è sufficiente per dimostrare che il vaccino causi l’autismo, per una serie di motivi. Innanzitutto, per quanto si conosca ancora poco questo disturbo, è probabile che i primi segni dell’autismo compaiano addirittura prima della nascita. Inoltre, se i vaccini fossero la causa (o una delle principali), si dovrebbe vedere una percentuale molto bassa di autistici tra quei bambini che non sono stati vaccinati. I dati disponibili invece di-

cono che i numeri sono molto simili, anche per quei paesi, come il Giappone, che in passato hanno sospeso le vaccinazioni, segno che la vaccinazione non incide sul numero di autistici. Questa evidenza è molto importante, anche se forse un po’ nascosta, perché la stragrande maggioranza dei bambini viene vaccinata e quindi è normale che il numero di autistici sia maggiore: sarebbe come dire che gli incidenti in auto sono di più in una città con tante auto rispetto a un paese di campagna. I vaccini non fanno male Se non ci sono evidenze, perché allora se ne parla tanto? Per prima cosa, sui vaccini girano numerose bufale: esistono degli effetti collaterali, è vero, ma sono di solito molto rari e, salvo purtroppo, qualche eccezione, abbastanza blandi. Nonostante questo i vaccini vengono visti come un peri-

colo e la comparsa dei segni dell’autismo ha fatto subito pensare ai vaccini come possibile causa. Tutto ebbe inizio nel 1998, quando il medico inglese Andrew Wakefield pubblicò sul Lancet, una delle più prestigiose riviste mediche del mondo, uno studio che segnalava un possibile legame tra autismo e vaccino trivalente per morbillo, parotite e rosolia. In realtà l’articolo era stato truccato per fini commerciali, tanto che è stato ritirato dalla rivista; il medico che l’aveva pubblicato, invece, è stato radiato dall’ordine dei medici. Tutto nato da una frode Nel 2002, il Global advisory committee on vaccine safety dell’Organizzazione mondiale della sanità ha pubblicato un report ufficiale sulla questione. Gli esperti hanno valutato gli studi esistenti, concludendo che non esiste alcuna prova di un legame tra vaccino trivalente e autismo. In conclusione, i vaccini non provocano l’autismo, anche se il senso comune potrebbe spingerci a pensare al contrario. Vero è che sull’autismo conosciamo ancora piuttosto poco e che fa paura a tutti ed è proprio questo a spingere i genitori a trovare colpevoli, spesso sbagliati. Non possiamo dimenticare però che questa paura si è diffusa per una vera e propria frode. Il modo migliore per preservare la salute dei nostri bambini è quindi quello di vaccinarli e di incentivare il lavoro dei ricercatori, affinché possano ricercare le cause dell’autismo in maniera sempre più approfondita, in modo da scoprirne le vere cause e, possibilmente, come trattarlo.

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Le persone in stato di difficoltà a cui Scarp de’ tenis ha dato lavoro nel 2015 (venditori-disegnatori-collaboratori). In 20 anni di storia ha aiutato oltre 800 persone a ritrovare la propria dignità

IL VENDITORE DEL MESE

Antonio grazie alla vendita di Scarp ha ritrovato la dignità e conosciuto persone che gli vogliono bene

Antonio Con la vendita si è ritrovato: «Perché Scarp ti cambia la vita» di Stefano Neri

info

Nel 2016 la redazione genovese di Scarp ha dato lavoro a 5 venditori che si sono attivati sulle 40 parrocchie che collaborano alla buona riuscita del progetto. Nei primi mesi del 2016 è stata raggiunta una media di 575 riviste vendute al mese.

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GENOVA

Scarp de’ tenis cambia la vita. Quando tutto sembra andare per il verso sbagliato, quando si pensa di abbandonare tutto e tutti, quando nulla può dar sollievo si insinua una scintilla di speranza, che contribuisce progressivamente a invertire la tendenza. È ciò che è successo ad Antonio, oggi sessantaseienne. Primo venditore di Scarp, presente sin dall’inizio sul territorio genovese. In seguito alla perdita del lavoro e dell’alloggio ha trovato un sostegno all’interno dell’area senza dimora della Fondazione Auxilium, che ha pensato di offrirgli una possibilità con la vendita della rivista. Da quel momento ci ha messo anima e corpo: sempre presente, mai un’influenza lo ha fermato. Ha sempre imbracciato la sua borsa, uscendo all’alba dalla struttura di accoglienza notturna, per poter essere in tempo sul luogo di lavoro. Scarp è stata per lui una grande opportunità, che ha saputo sfruttare in pieno. E lo ha aiutato a uscire da quella fitta nebbia in cui era

avvolto. Con i primi guadagni derivati dalla vendita ha avuto la possibilità di trovare una camera in affitto e, l’instaurarsi di un rapporto di fiducia e amicizia che si è creato con le parrocchie e i fedeli, ha fatto sì che Antonio riceva tantissime telefonate in occasione del suo compleanno. Prima era sempre da solo; ora c’è qualcuno che si ricorda di lui e che lo invita a pranzo alla fine dell’ultima messa della domenica. Antonio ha ora una casa di edilizia residenziale pubblica e una parrocchiana lo ha aiutato ad arredarla. Ha anche ripreso i contatti con la famiglia. E nonostante qualche problema di salute si mantiene sempre attivo e mantiene vivi i rapporti per lui significativi. «Rispettare gli altri significa rispettare se stessi» è la massima di Antonio. È una persona riconoscente. Insomma, un bel percorso di cambiamento, in positivo. Dove Scarp ha giocato (e gioca tuttora) un ruolo, davvero importante. «Perché Scarp ti cambia la vita.».




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