LA MASCHERA. L'APPARENZA INGANNA

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La maschera L’apparenza inganna Percorso interdisciplinare sul tema della maschera per l’esame conclusivo di terza media, a.a. 2019/2020

Alice Lanfranco Scuola paritaria Sacra Famiglia, III A


Indice

Premessa ............................................................................................................. 1 Il trasformista ..................................................................................................... 3 L’inesperta.......................................................................................................... 5 L’ingannatore ..................................................................................................... 6 Il folle ................................................................................................................. 8 Lo scienziato .................................................................................................... 10 La mia maschera .............................................................................................. 11


Premessa

Il simbolo della maschera indica un bisogno di protezione, ma anche di trasformazione: la si indossa, infatti, per cambiare, o meglio nascondere, una parte di noi che temiamo, disprezziamo o di cui ci vergogniamo. Attraverso la maschera, l’uomo acquista fiducia in se stesso, proiettando verso l’esterno un’immagine di sé, non necessariamente fittizia ma filtrata dalla propria inibizione; celare una parte di noi stessi è nella natura dell’uomo, che intende proteggersi dagli urti della società che lo circonda e preservare la propria fragilità, sensibilità ed essenza. Altre volte, la maschera che indossiamo rivela un bisogno di trasformazione, di metamorfosi, di crescita: attraverso la proiezione esterna di “quello che vorremmo essere”, neghiamo in un certo senso la nostra vera identità per assomigliare a modelli precostituiti imposti dall’ambiente che frequentiamo. La degenerazione più pericolosa dell’abitudine di nascondersi dietro una maschera che non ci rappresenta (o ci rappresenta solo parzialmente) è l’inganno, che può essere involontario oppure voluto: la storia ci riconsegna illustri esempi di astuti ingannatori, che attraverso la loro doppia faccia hanno ingannato singoli, città, interi popoli o Nazioni. Sopraffatti dalle maschere, le persone diventano inafferrabili, perdono ogni consistenza o valore; ognuno di noi si presenta, infatti, allo sguardo degli altri attraverso un’apparenza esterna, che lo fissa in qualcosa che non corrisponde alla sua reale natura e che gli si attacca addosso inscindibilmente. La maschera, nella sua accezione più concreta quale manufatto che ricopre interamente il volto celando le reali fattezze del suo indossatore, ha una storia millenaria. Nell’antichità le maschere rappresentavano le forze soprannaturali delle divinità: per secoli si pensava che potessero garantire poteri e forze divine oppure la capacità di impossessarsi dello spirito di uno specifico animale. In Italia, ad esempio, le maschere dei Mammuthones sardi erano utilizzate per scacciare le forze delle tenebre e la tristezza dell’inverno, dando il benvenuto alla primavera. L’origine del termine “maschera” è controverso, ma probabilmente deriva dal latino medievale mascha, che significa “strega”; durante il Medioevo, infatti, le maschere erano utilizzate nelle rappresentazioni sacre o profane per raffigurare esseri demoniaci. Secondo altre ipotesi, il termine “maschera” potrebbe derivare dall’arabo maskharah, a significare la caricatura o la beffa che costituisce il camuffamento che copre il viso della persona. L’uso della maschera, già largamente impiegato nel teatro greco dagli attori, acquistò nuova vita con la Commedia dell’arte nella seconda metà del Cinquecento, decadendo però con essa. Oggi la maschera viene usata solamente in occasione di festività nazionali

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o mondiali, come il Carnevale e Halloween; nel tempo, essa ha assunto, però, un’accezione più ampia, a indicare un’immagine o un’apparenza dietro cui l’uomo nasconde la propria vera identità. Nella storia della letteratura italiana, lo scrittore che diede il maggior contributo a una teoria delle maschere piuttosto attuale fu Luigi Pirandello, che ricevette il Premio Nobel per la letteratura nel 1934: per Pirandello, la maschera è simbolo di alienazione e di frammentazione della propria personalità. Per esempio, nel romanzo Uno, nessuno e centomila (1926) il protagonista Vitangelo Moscarda indossa molte maschere per paura di non essere accettato dalla società. Questo conflitto interiore è ben evidente già dal titolo dell’opera: “uno” perché una è la personalità che l’uomo pensa di avere, “centomila” perché l’uomo nasconde tante personalità e “nessuno” perché in realtà l’uomo non ha maschere nella sua vera essenza. Ho deciso di approfondire il tema della maschera perché ritenevo fosse interessante l’uso di quest’ultima da parte dell’uomo e i suoi effetti sull’animo umano. In effetti, la maschera rappresenta un nascondiglio per celare la nostra vera essenza e, in molti casi, si diventa incapaci di liberarsene per riappropriarsi del proprio io. La ribellione a questa incapacità, la volontà di superarla o sfuggire a un giudizio che ci condanna a un ruolo prestabilito (a volte da noi stessi) porta alla rivendicazione della propria essenza: potremmo dire che la maschera può rappresentare rifugio e salvezza, trappola e condanna ma, ancora di più, è la dimostrazione personale di un vuoto che si vuole colmare. Attraverso queste pagine, vorrei, quindi, mettere in luce cinque personalità reali e fantastiche, che hanno fatto della loro maschera un segno distintivo della loro immagine per celare la propria essenza, come il trasformista, l’ingannatore e l’alchimista, il proprio dolore, come l’inesperta, o per conformarsi alla società, come il folle. Ho voluto assegnare un epiteto a ogni personaggio, come fosse un mazzo di tarocchi ognuno con due facce diverse, per svelare solo con la lettura la loro vera identità, al di là di ogni maschera.

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Il trasformista

Vero e proprio maestro nell’indossare una o più maschere, per raggiungere compromessi tra le differenti correnti politiche in Parlamento e aumentare il proprio consenso elettorale, fu Giovanni Giolitti1, a più riprese Presidente del Consiglio dei ministri del Regno d’Italia (1892-1893; 19031905; 1906-1909; 1911-1914; 1920-1921). Notissima è la copertina del 14 maggio 1911 della rivista “L’asino” (che reca come sottotitolo la polemica considerazione che l’asino «è il popolo utile, paziente e bastonato»), che riproduce Giolitti come “Giovanni bifronte”, chiaro riferimento a Giano bifronte, divinità romana solitamente raffigurata con due volti perché in grado di vedere passato e futuro. La “doppia faccia” di Giolitti cui allude il disegnatore ben rappresenta le sue maschere, che rivelano una grande capacità di adattamento ai diversi contesti sociali per allargare la propria base elettorale: infatti, se al nord il suo atteggiamento era quello di mediatore moderato che favoriva le organizzazioni sindacali dei lavoratori, promuoveva le riforme sociali, regolamentava la sanità pubblica, nel sud Italia mantenne una rigida condotta per reprimere le rivolte contadine, falsificò i risultati elettorali e si servì della malavita per intimidire gli avversari. Nella vignetta, a sinistra Giolitti è vestito in cilindro e frac e si rivolge a una folla di borghesi del Nord adoranti sostenendo «Malgrado le mie simpatie per la democrazia, rimarrò per sempre un conservatore»; al contrario, a destra è vestito con un completo e un cappello stropicciati e un fazzoletto rosso al collo e dichiara ai contadini «Sono un democratico sincero, radicale, repubblicano, socialista, anarchico, malgrado il mio 1

Giolitti fu il protagonista del trentennio di storia italiana che va dall’ultimo decennio dell’Ottocento al secondo decennio del Novecento: il suo primo governo era incentrato su una più equa pressione fiscale e su una linea non repressiva nei confronti dei conflitti sociali, ma il rifiuto di adottare misure eccezionali contro i Fasci siciliani (organizzazioni di protesta popolare che lamentavano le tasse troppo pesanti) e lo scandalo della Banca romana (in seguito al quale Giolitti fu accusato di irregolarità e speculazione) provocarono le sue dimissioni. Di nuovo al governo, Giolitti incentrò la sua linea politica su alcuni punti fondamentali: leggi speciali per il Mezzogiorno, introduzione del suffragio universale maschile (1912), statizzazione delle ferrovie, la guerra italo-turca per la Libia. 3


attaccamento per i conservatori». Tale capacità di sapersi adattare ai vari contesti sociali – che non fu esente da feroci critiche da parte dei contemporanei, come dimostra la vignetta de “L’asino” – è indicata dagli storici con la definizione di “trasformismo”, termine che entrò nel linguaggio politico italiano tra la fine del 1882 e l'inizio del 1883 per definire polemicamente la politica di Agostino Depretis2, otto volte Presidente del Consiglio del Regno d’Italia tra il 1876 e il 1879 e il 1881 e il 1887, che aveva giustificato il sodalizio della sua Sinistra con la Destra di Marco Minghetti, con queste parole: «I partiti politici non si debbono fossilizzare né cristallizzare. […] Se qualcheduno vuole entrare nelle nostre file, se vuole accettare il mio modesto programma, se vuole trasformarsi e diventare progressista, come posso io respingerlo?»

In quegli anni, l’Italia era unificata da pochi decenni e aveva bisogno di rispettabilità e stabilità, quindi forse il trasformismo, e il conseguente uso di maschere sapientemente “costruite” per appianare le divergenze tra la maggioranza e con il popolo, fu la risposta più immediata ad un problema di disomogeneità effettivamente reale.

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Il programma della Sinistra di Depretis era basato su alcuni punti fondamentali: allargamento del suffragio elettorale, riforma di un’istruzione elementare che fosse obbligatoria e gratuita, sgravi fiscali. In effetti, nel decennio di governo furono emanate la legge Coppino sull’istruzione (1877), la nuova legge elettorale che estendeva al 7% della popolazione l’elettorato attivo (1882) e abolì la tassa sul macinato (1884). 4


L’inesperta

Rimaniamo

negli

anni

dell’Ottocento,

più

precisamente nel 1853. È proprio in questo periodo che nasce la sbalorditiva opera teatrale di Giuseppe Verdi, La Traviata, rappresentato per la prima volta al Teatro La Fenice di Venezia. Incontriamo in questo componimento l’inesperta, ovvero Violetta Valery, donna affascinante e incantevole bramata da qualsiasi uomo che incontra il suo sguardo, nonché protagonista.

Lei

conduce

una

vita

mondana

approfittando della sua bellezza per incantare gli uomini. Nasconde tuttavia molta insicurezza e fragilità, poiché Violetta non ha mai provato quel sentimento che intende in qualsiasi modo allontanare, l’amore. Per non mostrare quel suo lato inesperto e inconsapevole, indossa una maschera che la fa sembrare insensibile e attaccata alle frivolezze della vita. La storia della Traviata inizia con l’incontro tra Violetta, debilitata dalle proprie condizioni di salute, e Alfredo, già perdutamente innamorato di lei; emblema del loro amore e simbolo ricorrente nell’opera è la camelia bianca, che ci rimanda all’opera cui Verdi ispirò la propria composizione, La signora delle camelie (1848) di Alexandre Dumas. Il loro legame si lacera, però, a causa delle difficoltà economiche e dell’intervento del padre di Alfredo, il quale disapprova la loro relazione e incolpa Violetta dei guai del figlio; seppur con dolore, Violetta decide di troncare ogni rapporto con l’amato, che ritorna dal padre. Quando si rincontrano a una festa, la reazione di Alfredo è rancorosa: difatti, quest’ultimo prima la ignora e poi inizia a insultarla. La verità viene a galla solo nell’ultimo atto: ormai gravemente malata di tisi, Violetta riceve la visita di Alfredo, venuto a conoscenza dell’inganno del padre e delle sue condizioni di salute. Questo è il momento in cui Violetta si toglie la maschera, indossata con tanta fatica, consapevolezza di arrecare sofferenza e senso di sacrificio: emergono finalmente tutta la sua fragilità, le sue insicurezze e l’amore incondizionato nei confronti di Alfredo. Proprio nel momento di svelamento, di incontro e di promesse di un futuro insieme, Violetta ha un malore e muore tra le braccia dell’amato, augurandogli di trovare una bella moglie e di vivere felice.

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L’ingannatore

Ho deciso di attribuire la maschera dell’ingannatore a un misterioso personaggio, il ladro di cuori. Il ladro di cuori è il protagonista di un’opera illustrata di Riccardo Accattatis, pubblicata il 13 febbraio del 2015. Tutto si svolge in una piccola cittadella, famosa per i numerosi negozi e le vetrine colorate: qui milioni di persone si ritrovano cercando di comprare la loro felicità ed è proprio qui che il ladro di cuori, avido di quella felicità, sfoggia le sue doti di attore. Un giorno, si finge un affascinante straniero in cerca di indicazioni, altre volte un ragazzo simpatico e molto alla mano e un attimo dopo un artista in cerca di ispirazione. Lo charm, l’abilità di parlare, di affascinare: sono queste le sue armi. Il ladro di cuori inganna le sue vittime, le costringe a fidarsi, ad aprirsi, a mostrare il sentimento a loro più caro fino a quasi fare in modo che loro stesse vengano a suggerirgli di rubargli il cuore. Un giorno il ladro si finse un avvocato famoso e a un passo dal successo, entrò in un bar e quando arrivò la cameriera provò come suo

solito

a

rubarle

il

cuore,

ma

inaspettatamente non ci riuscì. La ragazza era tenace e non permise al ladro neanche di vederlo. Così, affranto e mortificato, al ladro si spezzò uno dei tanti cuori raccolti nella sua collezione. Lui non poteva, però, darsi per vinto, voleva quel cuore e così andò ancora nel bar, giorno dopo giorno con maschere sempre diverse, ma ogni volta lei lo rifiutava e per ogni rifiuto un cuore si spezzava. Passarono i mesi e la sicurezza e lo charm del ladro diminuirono, come i suoi tanti cuori collezionati. Ormai il nostro ladro non poteva neanche pensare a lei senza che se ne spezzasse uno, fino a che il ladro smise di presentarsi. Una sera la ragazza aveva finito il suo turno e stava tornando a casa, quando notò qualcuno che la osservava, nascosto dietro un angolo. La giovane, avendo un carattere forte e deciso, urlò alla misteriosa figura di farsi avanti e piano piano qualcuno si mostrò: era un ragazzo minuto e molto timido, ma lei lo riconobbe subito, quello era 6


proprio il ladro di cuori. Egli balbettava e tremava tenendo stretto a sé solo un piccolo cuore ormai spezzato da molto tempo. Forse lei lo aveva sempre saputo ed era per questo che nonostante tutte le maschere e i travestimenti lo aveva sempre riconosciuto. A un certo punto la ragazzo gli si avvicinò e per la prima volta dopo mesi gli mostrò il suo cuore, anch’esso già spezzato come quello del ladro. Il silenzio si interruppe con una domanda: “ti va di accompagnarmi a casa?” chiese la ragazza, il ladro annuì felicemente e insieme mano nella mano si allontanarono da quella città, da quel bar e da quella stradina. Ho deciso di inserire nell’approfondimento questo personaggio, perché mi ha sempre incuriosito, ogni volta nei film o nelle serie si incontra il solito ragazzo timido e impacciato che si è innamorato di una ragazza e non sa come dirglielo. In questa storia, invece, il ragazzo porta una maschera per nascondere la sua ferita, il suo più grande dolore.

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Il folle

Il folle è l’impiegato Belluca, protagonista della novella Il treno ha fischiato di Luigi Pirandello, pubblicata sul “Corriere della Sera” il 22 febbraio 1914, poi nel volume La trappola del 1915 e, infine, raccolto nelle Novelle per un anno. La novella inizia in medias res, cioè nel vivo della storia, con il ricovero di un certo Belluca, che ha improvvisamente compiuto delle stranezze ed è stato internato in manicomio: la diagnosi è varia – follia, encefalite, febbre cerebrale, meningite – ma il narratore interno, suo vicino di casa, ci informa che in realtà «date le specialissime condizioni in cui quell’infelice viveva da tant’anni, il suo caso poteva anche essere naturalissimo». Attraverso l’analessi o flashback, il narratore racconta cosa accadde il giorno precedente al ricovero e presenta meglio il protagonista della novella: Belluca è sempre stato un impiegato consuetudinario, metodico e mansueto, preciso come un «casellario ambulante», avvezzo alle bastonate del destino come un «vecchio somaro» e diligente come una «bestia bendata». Il giorno prima del ricovero, l’impiegato si era recato in ufficio con oltre mezz’ora di ritardo, con atteggiamento ilare e quasi stordito, come se si fosse risvegliato dal proprio torpore dopo tanti anni; come se non bastasse, per tutto il giorno non aveva combinato niente e la sera, alla richiesta di motivazioni per la sua inoperosità da parte del capo-ufficio, aveva risposto che «il treno, signor Cavaliere […] ha fischiato» e gli si era ribellato, inveendo e gridando. La notizia dell’alienazione mentale di Belluca non parve troppo strana al vicino di casa, che ci svela la vita privata del protagonista, tanto difficile da sopportare: l’impiegato viveva con tre donne cieche, la moglie, la suocera e la sorella della suocera, e due figlie vedove con complessivi sette figli. Per sfamare tutte quelle bocche, Belluca si procurava altro lavoro per la sera, ricopiando carte tra gli strilli dei famigliari finché non crollava sul divano. Durante la visita del narratore al suo vicino di casa, è lo stesso Belluca a raccontare il «fatto normalissimo» che gli accadde: due sere prima, non riuscendo ad addormentarsi, aveva sentito il fischio di un treno, che lo ridestò alla vita, ricordandogli come il potere dell’immaginazione potesse farlo evadere, ogni tanto, dalle angustie, dalla monotonia e dalle difficoltà delle sue giornate. Gli era parso che gli orecchi, dopo tant’anni, chi sa come, d’improvviso gli si fossero sturati. Il fischio di quel treno gli aveva squarciato e portato via d’un tratto la miseria di tutte quelle sue orribili angustie, e quasi da un sepolcro scoperchiato s’era ritrovato a spaziare anelante nel vuoto arioso del mondo che gli si spalancava enorme tutt’intorno. S’era tenuto istintivamente alle coperte che ogni sera si buttava addosso, ed era corso col pensiero dietro a quel treno che s’allontanava nella notte.

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C’era, ah! c’era, fuori di quella casa orrenda, fuori di tutti i suoi tormenti, c’era il mondo, tanto, tanto mondo lontano, a cui quel treno s’avviava... Firenze, Bologna, Torino, Venezia... tante città, in cui egli da giovine era stato e che ancora, certo, in quella notte sfavillavano di luci sulla terra. Sì, sapeva la vita che vi si viveva! La vita che un tempo vi aveva vissuto anche lui! E seguitava, quella vita; aveva sempre seguitato, mentr’egli qua, come una bestia bendata, girava la stanga del molino. Non ci aveva pensato più! Il mondo s’era chiuso per lui, nel tormento della sua casa, nell’arida, ispida angustia della sua computisteria... Ma ora, ecco, gli rientrava, come per travaso violento, nello spirito. L’attimo, che scoccava per lui, qua, in questa sua prigione, scorreva come un brivido elettrico per tutto il mondo, e lui con l’immaginazione d’improvviso risvegliata poteva, ecco, poteva seguirlo per città note e ignote, lande, montagne, foreste, mari... Questo stesso brivido, questo stesso palpito del tempo. C’erano, mentr’egli qua viveva questa vita “impossibile”, tanti e tanti milioni d’uomini sparsi su tutta la terra, che vivevano diversamente. Ora, nel medesimo attimo ch’egli qua soffriva, c’erano le montagne solitarie nevose che levavano al cielo notturno le azzurre fronti... sì, sì, le vedeva, le vedeva, le vedeva così... c’erano gli oceani... le foreste...

Insomma, la causa che ha scatenato la follia di Belluca, determinando la rottura degli schemi sociali consuetudinari, è un fatto banale, di per sé insignificante quale il fischio di un treno nel silenzio della notte: è la vita che irrompe nella quotidianità e ne rompe i meccanismi. Belluca non è un pazzo, ma tale è considerato perché, apparentemente senza un motivo valido, infrange le regole; eppure, il fischio del treno rappresenta la sua riconquistata libertà. La sua immagine di impiegato modello, metodico e preciso è, quindi, sconvolta e ribaltata da un fatto che pare normalissimo: Belluca si toglie la sua maschera, figlia della consuetudine e dell’oppressione della vita quotidiana, e si libera da ogni inibizione precostituita per manifestare finalmente la sua essenza, la sua voglia di vivere, la sua fantasia. Sebbene la sua maschera gli sia ormai cucita addosso indissolubilmente dalla meccanicità delle sue giornate, grazie al fischio del treno Belluca prende coscienza del gioco della vita, si libera di ogni finzione e, dopo l’improvviso gesto di rivolta verso il capufficio, ritornerà alla sua vita di tutti i giorni, ma ne potrà sopportare la monotonia grazie alla forza dell’immaginazione.

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Lo scienziato

The scientist is Dr Jekyll, the main character of the short novel The Strange Case of Dr Jekyll and Mr Hyde (1886) by Robert Louis Stevenson that deals with the “double personality” theme, through the description of a man's metamorphosis into his evil nature. The story is set in London during the late nineteenth century: Dr Jekyll is a scientist who creates a potion to separate his good behaviours from his bad ones and, after taking it, he’s metamorphosed into the cruel Mr Hyde. Throughout the novel,

Hyde

frequently

shows

himself even when Jekyll doesn’t want him to and commits all sorts of crimes, such as three murders of a young girl, of Sir Danvers Carew and of Dr Hastie Lanyon. Jekyll is frightened by this and tries to rid himself of Hyde forever, but finds that he has lost control over him, so that he has only two choices: on the one hand he can choose a life of crimes and on the other hand he can kill Hyde forever. Finally, Jekyll closes himself in his laboratory and decides to commit suicide, leaving a long letter in which he explains his case. So Dr Jekyll finds a way to materialize the most awful parts of his soul through science: in other words, Mr. Hyde can be considered as the mask of the hidden part of our souls, which fights with ourselves and society. In the Victorian age (1837-1901), there was a religious interpretation of psychological conditions, so Stevenson saw the dual personality of Dr Jekyll and Mr Hyde as a conflict between the good and evil sides of human mind.

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La mia maschera

Ho sempre pensato che la maschera fosse parte di tutti noi, senza però rendermi conto che anch’io possedevo non una, ma molte più maschere di quanto pensassi di averne. Ormai concluso questo percorso triennale, mi sono accorta che, a causa delle mie maschere, ho lasciato dietro le spalle molti rimpianti, che ancora adesso non ho il coraggio di soddisfare. Vorrei rivolgermi a voi, cari insegnanti: innanzitutto, vorrei ringraziarvi per avermi accompagnata in questi tre anni indimenticabili, prendendovi cura delle mie insicurezze e alimentando i miei punti di forza. Il lavoro dell’insegnante non è, di certo, facile: avete davanti a voi mille volti, o forse mille maschere, e non è semplice scavare a fondo in ognuno per trovare la vera essenza di noi studenti. Avrei voluto facilitarvi il compito, ma colgo l’occasione per rivelarvi ora, a percorso concluso, qualche parte di me, che spesso non mostro dietro la maschera che mi sono costruita negli anni. Sono una “donnina”, come dice mia mamma, tanto piccola e tanto grande insieme: sono cresciuta alla svelta, spronata dalla mia famiglia a diventare autonoma e indipendente, ed è proprio per questo motivo che, ad ogni costo, voglio cavarmela da sola, anche correndo il rischio di sbagliare a volte. A scuola, mi sono conquistata l’immagine di persona estroversa, espansiva, fantasiosa, sorridente e solare, sempre pronta a far divertire i miei compagni e a cercare di creare gruppi, amicizie e collaborazioni. Quello che in realtà non sapete, o forse avete immaginato, è che questa è solo una maschera: con queste parole, non intendo dire di essere falsa o costruita, ma mi sono resa conto che le maschere fanno parte della nostra vera persona e rappresentano solo una parte di noi stessi, quella parte che noi vogliamo mostrare agli altri, per nascondere invece i nostri lati più delicati. In effetti, 11


l’altra parte di me è come un fiore appena sbocciato, ancora da proteggere perché non mi sento pronta di svelarmi completamente: forse un giorno lo farò, ma credo di dover ancora acquisire la maturità necessaria per strapparmi definitivamente di dosso ogni immagine precostituita per accettarmi in ogni mia più autentica manifestazione. Mi tolgo la maschera, et voilà! Dietro quei sorrisi che avete imparato a conoscere, si cela una ragazza di cristallo, frammentata nelle sue mille sfaccettature, esternamente dura e forte ma in realtà schiacciata dalle pressioni della vita quotidiana: continuamente messa di fronte a ideali di perfezione e successo, mi sono spinta al limite delle mie potenzialità per cercare di emulare modelli che non mi appartenevano e mi sono ritrovata a riflettere sulle mie vere ambizioni e abilità. Sono crollata tante volte, non sentendomi sempre all’altezza delle aspettative (mie o altrui) e finendo di credere di non valere niente, in un vortice di desolazione, sconforto e insicurezza. Solo nel tempo ho, invece, appreso che ognuno di noi ha le proprie debolezze e i propri punti vincenti: le mie fragilità, forse, non sono un demerito, ma costituiscono una faccia della mia vera essenza che devo accettare e da cui posso trarre nuovi spunti per diventare una persona migliore, più forte, più sincera (soprattutto con me stessa), più sicura di me. Cari professori, anche grazie a voi ho imparato che non devo paragonarmi a nessun altro e che devo, invece, accettarmi per quello che sono: una ragazza con la testa fra le nuvole, fantasiosa, istintiva e, allo stesso tempo, estroversa e discreta, decisa e insicura, sorridente e malinconica. Aggettivi, questi, che mi rappresentano pienamente e non vanno letti come un insieme dei soliti clichés. P. S.: Spero che questo approfondimento vi sia servito per conoscere di più i miei volti, che avete imparato a conoscere dietro la vostra cattedra o che avreste solo potuto immaginare. Non voglio ritenervi inesperti, chissà quanti volti avrete visto e chissà quanti ancora ne vedrete: spero però che, tra tutti, non dimenticherete il mio volto, la mia maschera e, ora, la mia vera persona. In segno di riconoscenza per tutto quello che mi avete donato, vi prometto che riserverò a voi tutti una parte del mio cuoricino, ben protetta da tutte le vicissitudini della vita. Non piangete, vi prego! So che siete abituati agli “addii” perché questo è il ciclo della vita, ma il mio vuole essere un semplice “arrivederci”. Con amore e nuove consapevolezze (ma una maschera in meno!),

Alice Lanfranco

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