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Lo «Stato nello Stato»: le violenze dell’apparato d’occupazione
Lo «Stato nello Stato»: le violenze dell’apparato d’occupazione
Il sistema d’occupazione bulgaro, esecutore della politica del governo Radoslavov, nell’applicazione degli ordini in merito all’uccisione dei notabili, agli internamenti, alla bulgarizzazione e alle requisizioni, divenne una sorta di entità autonoma la cui libertà d’azione era pressoché illimitata.
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Come tutti i regimi violenti, anche in Serbia e in Macedonia il regime bulgaro si trasformò rapidamente in un regime di persecuzione e di corruzione. Gli agenti del governo si servirono dell’immenso potere di cui godevano per arricchirsi, assassinando, picchiando, internando con il pretesto di realizzare l’ideale nazionale bulgaro.110 Fu l’inizio di un terrore che non avrebbe avuto fine se non alla fine del conflitto.
Nei casi di Surdulica e Vranje il colonnello Kalkadžijev e il maggiore Ilkov erano diventati i signori assoluti delle città, abbandonandosi a violenze di ogni tipo, mentre in Macedonia i comitadji e i membri della VMRO, come anche ufficiali – il colonnello Protogerov a Štip, Bojadžijev a Bitola - e alte cariche civili come il prefetto del dipartimento di Skopje.
Tuttavia non furono solo casi isolati. Sembrò quasi che la situazione sfuggì ben presto di mano al governo e ai vertici dell’esercito: anche funzionari inviati dalla Bulgaria ritennero a loro volta di potersi comportare in maniera arbitraria, e altrettanto fecero sottoufficiali e soldati, in una sorta di stato in cui tutto era concesso. Fu come se alla «violenza di Stato» derivante da una precisa politica pianificata se ne sovrappose una «autonoma» che aggravò il regime di terrore e violenze ovunque.
Nel determinare questo stato di cose furono rilevanti diversi fattori, tra cui anche quelli di carattere personale presenti in ogni guerra: ma certamente ebbero un ruolo fondamentale da un lato la stessa politica ordinata dal governo, il cui obiettivo legittimava in un certo senso qualsiasi tipo di violenza, e dall’altro la questione dello sfruttamento tedesco delle risorse economiche ed alimentari in Bulgaria e nelle zone occupate, che probabilmente spinse molti a saccheggiare tutto il possibile.
Già durante i massacri commessi tra la fine del 1915 e la primavera erano spesso commessi senza armi da fuoco ed erano preceduti da torture e mutilazioni, in cui la ferocia dei bulgari contro i serbi era commista all’istinto criminale di estorcere tutto il possibile alle vittime. Queste venivano picchiate, bastonate, bruciate vive o venivano loro mozzate le orecchie, il naso o gli oc-
110 Rapport…, cit., tomo I, p. 36.
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chi; alle donne venivano tagliati i seni.111 Tali torture venivano messe in atto sia segretamente nelle carceri sia pubblicamente; venivano ordinate tanto da comitadji che da autorità civili e militari, e a volte erano gli stessi comandanti a torturare le persone. Il metodo più usato era quello del «fucile bianco»: una grande manganello con cui si infliggevano 25 colpi minimo (il massimo non venne stato accertato) sulle natiche ma anche al volto, alla testa, sul dorso e sul ventre. Qualora le vittime perdessero i sensi si procedeva al loro risveglio con dell’acqua fredda e poi si continuava con le bastonate. Molti morirono o rimasero invalidi e malati.112 Una delle molte vittime raccontò:
Dal loro ingresso nel nostro villaggio [Omorane, tra Prilep e Veles, nda] i bulgari hanno cominciato a maltrattare me e la mia famiglia […]. I loro soldati mi hanno legato una corda intorno al collo e mi hanno appeso alle travi del soffitto, nella casa di Pierre Anastassiyevitch. Quando ero quasi morto soffocato […] mi slegarono per farmi rinvenire, per poi ricominciare con la stessa tortura. Allo stesso tempo mi picchiavano con un bastone e una frusta sul dorso e sulla testa. Mia figlia Donka, di 18 anni, assistendo a queste scene selvagge è stata colta da una paura folle ed è morta il 20 maggio 1916 […]113
Proprio le bastonate ebbero un ruolo particolare tra le punizioni corporali, effettuate sia pubblicamente sia su iniziativa di singoli spesso durante le azioni di saccheggio o nei luoghi di detenzione. Come con le bestie, così i bulgari si comportavano con i civili. Una vittima di Resan raccontò:
Mi hanno arrestato nel novembre del 1916 insieme ad altri cinque concittadini, accusandoci di aver tolto dai nostri negozi le insegne in bulgaro […] Ci hanno portato in carcere […] La sera stessa ci hanno portato ad uno ad uno in una stanza ci hanno fatti distendere e picchiati con delle spranghe. Dopo il quarto colpo ho perso la voce, e poco dopo sono svenuto […] Dopo 3 o 4 ore ci hanno picchiato di nuovo. Abbiamo perso conoscenza dopo i primi colpi. Nei posti dove eravamo già stati colpiti la pelle ci si strappava. Ci usciva molto sangue, morivamo di sete, ma per due giorni dopo tali botte non ci hanno dato nemmeno un po’ d’acqua […]. Dopo 15 giorni ci hanno rilasciato perché il giudice non ha trovato nessun elemento di colpa. Perché allora tutte quelle botte? […]114
111 Rapport…, cit., tomo I, p. 11. 112 Ivi, p. 12. 113 Rapport…, cit., tomo III, doc. 329, testimonianza di Georges Petrouchevitch, p. 217. 114 AJ, MIP-DU, 334-19, testimonianza di Vanko Bojadžijev, 14 novembre 1918.
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Ma le torture erano di ogni tipo: «mi hanno tenuto dieci giorni in una cantina con l’acqua fino alla cintola, dandomi solo un pezzettino di pane al giorno»,115 raccontò un cittadino di Kruševo; gli esempi furono innumerevoli.
Le torture erano anche morali. Nelle carceri ai detenuti veniva fatto credere che sarebbero stati fucilati a breve, ripetutamente, mentre quando veniva decretata una fucilazione, i familiari del condannato venivano costretti ad assistere; le donne venivano a volte convocate pubblicamente e insultate, come a Prokuplje e Požarevac.116
Ogni violenza era accompagnata dal saccheggio, che divenne fu uno degli aspetti più presente dell’azione autonoma dei membri dell’esercito e delle autorità civili d’occupazione.
La maggior parte delle persone destinate alla morte nel corso della fine del 1915 venivano prima derubate di tutto il denaro: era così a Surdulica, ma anche nel caso dei prelevamenti notturni tanto utilizzati in Macedonia. Tutti coloro prelevati e uccisi nei dintorni di Veles, ad esempio, prima di morire vennero spogliati di ingenti somme, dai 2.000 ai 10.000 dinari.117 Spesso però si trattava di vere e proprie irruzioni in case abitate, mentre in molti altri casi si trattava di estorsioni, di semplici appropriazioni dei beni altrui: non si trattò del classico saccheggio delle truppe, che fu pure molto presente, ma di un costante metodo di rapina. «Il saccheggio è stato sotto il regime bulgaro una pratica costante delle autorità, sia militari che civili», scrissero i membri della Commissione interalleata d’inchiesta. Il saccheggio avveniva ovunque in ogni circostanza; i soldati si accontentavano dei soldi e di vestiti e biancheria, mentre gli ufficiali prendevano mobili e li mandavano in Bulgaria, così come il bestiame.118
Un esempio di tutto ciò fu il sindaco di Bitola, Naum Vladov, che in qualità di presidente del comitato locale per l’approvvigionamento di Bitola anziché consegnare i generi alimentari alla popolazione ne tratteneva la maggior parte per poi rivenderla.119
L’appropriazione di denaro o beni era messa in atto anche attraverso frequenti estorsioni. A Bitola i funzionari civili e di polizia facevano arrestare dei civili semplicemente con la motivazione per cui si «esprimevano in malo modo sul governo bulgaro». Ma una volta in carcere entravano in scena le guardie che richiedevano somme di denaro per liberarli: generalmente nella città vi era un tariffario di 15-20 lire turche, ma in alcuni casi il prezzo da pa-
115 AJ, MIP-DU, 334-19, testimonianza di Toma Marić, 1 novembre 1918. 116 Rapport…, cit., tomo I, pp. 13-14. 117 AJ, MIP-DU, 334-17, relazione su crimini bulgari nei paesi attorno a Veles, 23 ottobre 1918. 118 Rapport…, cit., tomo I, p. 24. 119 R. A. Reiss, Stradanje grada Bitolja, cit., in Slađana Bojković–Miloje Pršić, O zločinima..., cit., p. 278.
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