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Il «Calvario» serbo
Il «Calvario»116 serbo
La decisione di raggiungere le sponde dell’Adriatico partiva dalla considerazione secondo cui evitare la capitolazione era l’unica soluzione possibile per evitare la scomparsa dello Stato serbo, che anche se occupato, avrebbe così potuto mantenere una continuità a livello giuridico e politico. L’unico pilastro su cui si basava questa concezione era l’esistenza dell’esercito, ultimo elemento ancora in grado di rappresentare presso gli alleati gli interessi dello Stato stesso.
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Quello che si era ammassato in Kosovo però era un esercito in condizioni drammatiche. I combattimenti e la ritirata l’avevano stremato, mentre i viveri, il vestiario e il materiale sanitario erano praticamente esauriti. L’attraversamento dell’Albania fu per questo un evento traumatico per chiunque vi fosse stato costretto: nel corso del mese di dicembre –tanto durò la ritirata-, decine di migliaia di soldati rimasero vittime del freddo, della fame e in una certa parte degli attacchi di bande albanesi.117
Insieme all’esercito partirono anche alcune migliaia di civili, soprattutto funzionari statali e famiglie di ufficiali che decisero di seguire i propri cari. Anche molti di loro morirono lungo il percorso; stessa sorte toccò molti prigionieri nemici, che rappresentavano di fatto una sorta di «bottino di guerra».118
116 Tra le vicende della Prima Guerra Mondiale rimaste impresse nella memoria serba l’attraversamento dell’Albania, detto appunto «Calvario» per la sua tragicità, occupa certamente uno dei posti di rilievo; alle drammatiche vicende segnate dalla morte di decine di migliaia di soldati per la fame e il freddo, che continuarono anche una volta giunti sull’isola di Corfù, Milutin Bojić, un illustre poeta serbo ha dedicato una delle poesie contemporanee serbe, dal titolo «Plava grobnica» (Il cimitero blu). Di fronte alla famosa greca, su un isolotto di nome Vido, venne stazionato l’ospedale per gli ammalati più gravi. Non essedovi terreno per le sepolture, i corpi dei numerosi soldati che quotidianamente morivano venivano gettati in mare; da qui appunto il titolo di «Plava grobnica». 117 Molte testimonianze ricordano che gli albanesi attaccarono diverse volte l’esercito in ritirata, saccheggiando quel poco che trovavano e uccidendo senza pietà i soldati serbi. L’eventualità di tali scorribande erano state già segnalate dal Comando supremo ai primi di dicembre, quando comunicò che «Ci sono delle basi per credere che i saccheggi e le violenze che i nostri soldati e i profughi commettono contro la popolazione albanese causeranno un forte risentimento nei nostri confronti, la cui diretta conseguenza è un’ostilità aperta. Se si prende in considerazione che la nostra ritirata avviene in territori puramente albanesi, risulterà chiaro quali dure conseguenze aspettano le nostre truppe, se non si ferma immediatamente questo male. Ordino pertanto che si prendano tutte le misure necessarie per impedire i saccheggi e le violenze, non astenendosi nemmeno dalla pena di morte». Telegramma o.br. 24868 da Comando supremo a comandanti I, II, III Armata, truppe «Difesa di Belgrado», truppe «Nove Oblasti», Armata del Timok, 23 novembre/6 dicembre 1915, pubblicato in Veliki rat Srbije za oslobođenje i ujedinjenje Srba, Hrvata i Slovenaca, knj XIII, Izdanje Glavnog Đeneralštaba, Beograd 1927, p. 27. 118 L’esercito serbo, giunto sulle coste albanesi, consegnò circa 22.000 prigionieri nemici
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La decisione del governo e del Comando supremo di raggiungere le coste dell’Adriatico portò alla morte anche moltissimi giovani non ancora reclutati. All’inizio della ritirata, quando divenne chiaro che a breve il paese sarebbe stato occupato, era stato infatti ordinato che tutti i maschi dai 12 ai 18 anni seguissero l’esercito;119 circa 30.000 bambini e ragazzi, senza alcuna esperienza al di fuori dell’ambiente familiare, furono costretti a separarsi dai propri cari e a partire verso l’ignoto. «Mi sono girato e ho visto mia madre in lacrime appoggiata alla porta. Il suo sguardo era rivolto al figlio che partiva, che non andava incontro alla vita né alla morte», testimoniò un sopravvissuto;120 mentre Branislav Nušić, circondato a Prizren da questi «bambini», scrisse:
I martiri bambini passano in colonne senza fine e rivolgono i loro stanchi sguardi verso di noi, che dai bordi della strada stiamo ad osservarli. Chi di noi allora avrebbe intuito che erano gli ultimi sguardi di condannati a morte? Eppure, qualcuno che lo intuiva c’era. Su una pietra a fianco della strada ho visto di nuovo, dopo quella terribile notte a Lipljan, quella Signora vestita di nero. Seguiva con un caldo sguardo materno quei bambini, quella futura Serbia […].121
Di tutti quei «condannati a morte», 15.000 morirono durante la ritirata e altri 5.000 nel periodo immediatamente successivo, molto prima che l’esercito serbo riprendesse i combattimenti.122 I più morirono di fame: solo all’inizio della ritirata vennero infatti distribuiti loro 300 grammi di pane al giorno, ma durante i due mesi di marcia attraverso l’Albania non ricevettero più nulla.123
Le coste albanesi, per coloro che le raggiunsero dopo indescrivibili marce durate diverse settimane, non significarono automaticamente la salvezza. Il governo, stanziatosi a Scutari, aveva richiesto diverse volte (la prima quando ancora si trovava in Kosovo) l’aiuto degli alleati, cercando di organizzare l’arrivo di viveri per le truppe stremate. Ma per l’ennesima volta fu fatto ben poco, e molti soldati trovarono la morte proprio su quelle coste che doveva-
all’esercito italiano, quasi tutti austro-ungheresi e tedeschi. Lungo la ritirata però si erano «perse le tracce» di circa altri 11.500. AS, MID-PO, 1915, VII/177 e 178, pov. br. 3506, da Ministero della Guerra a Ministero degli Esteri, 18/31 novembre 1916. 119 M. I. Tatham, The Great Retreat in Serbia 1915, in Everyman at War, C. B. Purdom, 1930, consultabile all’indirizzo internet www.firstworldwar.com/diaries/greatretreat. 120 Testimonianza di Milan Bojić, in Rista Odavić, Nada Srpske golgote. Iz radova srpskih učenika u Francuskoj 1916. g., Lio, Gornji Milanovac 2002 (prima edizione 1923), p. 27. 121 Branislav Nušić, op. cit., p. 232. 122 Andrej Mitrović, Srbija u Prvom…, p. 218. 123 Milutin Bojić, Srbija u povlačenju, in Kosta Todorović (a cura di), Kroz Albaniju 19151916, Prosveta, Beograd, 1968, p. 113.
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no raggiungere per sopravvivere. I rifornimenti furono infatti ben pochi, e si intensificarono solo il 26 dicembre 1915/8 gennaio 1916, quando francesi e inglesi decisero di trasportare l’esercito serbo sull’isola di Corfù.124
Se le condizioni dei soldati erano disastrose, del tutto indescrivibili erano quelle dei civili giunti a Scutari e in altre località albanesi. Il loro numero non era consistente – si trattava di alcune migliaia di persone- , e tuttavia l’urgenza del governo serbo e degli alleati fu ancora una volta l’esercito, come già durante l’epidemia di tifo e nella questione dei profughi interni; i civili rimasero senza alcun aiuto, in una spasmodica attesa, spesso in condizioni peggiori dei soldati.
Molti dei profughi si concentrarono nei pressi di S. Giovanni di Medua, porto dell’Albania settentrionale stabilito come luogo dove sarebbero giunti i rifornimenti promessi dagli alleati per l’esercito. Le voci sull’arrivo di navi francesi e inglesi spinsero molti profughi a spostarsi da Scutari;125 ciò avvenne nonostante il 12/27 dicembre l’ammiraglio inglese Troubridge avesse comunicato perentoriamente alle autorità militari serbe di «agire per impedire che i profughi si rechino a S. Giovanni onde evitare che si riversino sui rifornimenti destinati all’esercito», sottolineando che per i civili non c’erano né alloggi né navi disponibili.126 Lì infatti il 14/27 dicembre si trovavano già circa 5.000 civili.127 Per tentare di risolvere la situazione venne ordinato che chi aveva le forze sufficienti si dirigesse verso Durazzo: alcuni proseguirono quindi verso sud, ma molti altri preferirono rimanere nei pressi della città sperando ancora in un aiuto. A fine dicembre il tenente colonnello Nedić, responsabile del porto, comunicò ai suoi superiori che i profughi erano circa 2.000, ma che le loro condizioni erano estremamente gravi, poiché non avevano nulla da mangiare e molti erano ammalati; nello stesso comunicato chiese quindi l’invio di due o tre navi per organizzarne il loro trasporto in un luogo migliore, e che allo stesso tempo venissero bloccati gli altri profughi che stavano arrivando da Scutari.128 Eppure, nella confusione generale, le famiglie degli ufficiali che si trovavano ancora a Scutari vennero separate e inviate proprio a San Giovanni di Medua, dove avrebbero dovuto attendere le navi che li avrebbero portati in Corsica.129
124 Ivi, p. 221. 125 Milutin Bojić, op. cit., p. 111. 126 VA, p. 3, k. 67, f. 6, 8/46, br. 373, telegramma (tradotto) da Ammiraglio Troubridge a colonnello Popović, 12/25 dicembre 1915. 127 AS, MID-PO, 1915, XXX/312, br. 730, da (illeggibile) a presidente Pašić, 14/27 dicembre 1915. 128 AS, MID-PO, 1915, XXX/267, br. 64, da tenente-colonnello Nedić a Ministero della Guerra, 15/28 dicembre 1915. 129 VA, p. 4/3, k. 10, f. 4, da Comando supremo a Comando III Corpo d’Armata, 21 dicembre
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Le loro condizioni divennero drammatiche. Una decina di giorni dopo il telegramma di Troubridge, Nedić, rimasto fino ad allora inascoltato, lanciò un disperato appello ai suoi superiori:
Già alcune volte ho avvertito tramite telegramma che la condizione dei circa 3.000 profughi che si trovano all’ingresso del porto è più che insostenibile. Soffrono la fame e il loro stato di salute peggiora a causa di diverse malattie mentre rimangono a cielo aperto. Oltre a queste disgrazie è imminente il pericolo che durante l’imbarco delle reclute, i campi di questi profughi diventino dei vivai altre malattie perché attraverso quei campi bisogna inevitabilmente passare. Per evitare ciò prego che una delle navi del primo contingente venga utilizzata per trasportare i profughi, perché le loro sofferenze e disgrazie, che possono risultare fatali per l’esercito, non riesco più a guardarle. Prego che questa richiesta venga considerata come disperata e ultima, e prego che mi venga inviata al più presto una risposta e l’autorizzazione a procedere.130
I profughi dovettero però aspettare ancora. Il 31 dicembre 1915/13 gennaio 1916 il generale Mondezir, che coordinava il trasferimento dell’esercito a Corfù, nel corso di una riunione con i vertici militari serbi ribadì che era impossibile organizzare il trasporto dei civili prima che fosse terminato quello delle truppe. L’unica possibilità presa in considerazione rimaneva l’utilizzo delle navi della Croce Rossa, che però erano riservate esclusivamente a donne e bambini; alla fine si propose nuovamente di reperire al più presto una o due navi destinate esclusivamente al trasporto dei civili, le cui condizioni erano tali che ne morivano «5-8 al giorno».131
Nuove richieste per l’evacuazione urgente dei civili vennero fatte il 3/16 gennaio, quando il numero dei profughi toccò la cifra di 3.000 persone. Allora si si sottolineò che si trattava soprattutto di vecchi, bambini e donne, le cui condizioni erano gravissime, peggiori di quanto era stato riportato durante la riunione con il generale Mondezir: il giorno prima del telegramma ne erano infatti morti 8, il giorno stesso 10.132
San Giovanni di Medua fu il luogo dal quale passarono la maggior parte dei civili che avevano attraversato l’Albania insieme all’esercito. Gruppi di civili si trovavano comunque anche in altre città, costretti anche loro a patire le
1915/3 gennaio 1916. 130 VA, p. 3, k. 67, f. 6, 8/57, br. 176, telegramma da tenente-colonnello Nedić a Comando supremo, 23 dicembre 1915/5 gennaio 1916. 131 AS, MID-PO, 1915, da Ministero della Guerra a Ministero degli Esteri, 31 dicembre 1915/13 gennaio 1916. 132 VA, p. 3, k. 67, f. 6, 8/66, br. 40, da presidente commissione (non viene specificato quale) colonnello Zečević a Comando supremo, 3/16 gennaio 1916.
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stesse sofferenze: un esempio furono i circa 600 profughi che a fine dicembre si trovavano a Durazzo, che si rivolsero direttamente al presidente del Consiglio per essere trasportati in qualche altro luogo date le condizioni terribili in cui si trovavano.133
Il 1915 si concludeva così in maniera drammatica per centinaia di migliaia di persone in armi e soprattutto per la popolazione civile serba. Molti erano morti sotto i bombardamenti, molti nel tentativo di fuga, molti altri di fame e freddo nel corso della ritirata verso sud e attraverso l’Albania. Una parte di loro, forse non più di 15.000 persone, era riuscita a salvarsi: per loro cominciava una stagione di esilio e di sofferenza, ma anche di aiuti e speranze. Diversa fu la sorte per tutti quelli rimasti in Serbia: per loro infatti si apriva il periodo più duro, e in particolare per quanti caduti sotto l’occupazione bulgara, cominciava un triennio costernato di terrore, crimini e distruzioni.
133 AS, MID-PO, 1915, XXX/264, telegramma a presidente Pašić, 14/27 dicembre 1915.
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