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Alla vigilia dell’invasione

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Bibliografia

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La fine del 1915

Alla vigilia dell’invasione

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Durante il primo anno di guerra l’esercito serbo aveva perso circa 160.000 uomini nel corso delle battaglie e altri 70.000 erano morti a causa delle ferite o delle malattie, in particolare di tifo.1 Tra i civili, alcune migliaia erano stati uccisi nell’agosto del 1914 e decine di migliaia erano rimasti dell’epidemia vittime dell’epidemia; non poche furono di certo le morti dovute alla fame e alla debilitazione, soprattutto tra i profughi.

Al di là della tragicità di un numero così elevato di morti sia civili che militari, la scomparsa di moltissimi uomini giovani aveva inevitabilmente colpito il numero delle nascite, soprattutto nelle zone delle «vecchie frontiere»2 da dove proveniva il grosso delle truppe. Non era tuttavia soltanto la crescita demografica ad aver subito un duro colpo; in una società contadina e patriarcale come quella serba l’assenza dell’uomo – per morte o perché sotto le armi - significava la scomparsa del capofamiglia, di colui che garantiva la sopravvivenza agli altri membri della famiglia. Le donne, soprattutto nelle zone più colpite, furono costrette a sostenere il peso del lavoro maschile e di quello domestico; come di regola in molte situazioni di guerra, divennero la fonte di sostentamento per tutta la propria famiglia. A ben poco servirono quei meccanismi di autodifesa sociale rappresentati dalle zadruge,3 dal momento che anche il resto degli uomini erano, se non morti, comunque mobilitati permanentemente.

Già nel 1914 infatti stata decretata la mobilitazione della III chiamata, ovvero di tutti gli uomini dai ventuno ai quarantacinque anni; presto a loro si sarebbero uniti anche i mobilitati della «Poslednja odbrana», ovvero i giovani

1 Andrej Mitrović, Srbija u Prvom..., cit., p. 147; cita i dati riportati dalla delegazione serba alla Conferenza di Parigi. 2 Territori del Regno di Serbia nel 1912, prima dell’annessione di Sangiaccato, Kosovo e Macedonia. 3 Comunità familiare allargata tipica degli slavi del sud in cui i maschi più anziani ricoprivano il ruolo principale.

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dai 18 ai 21 anni e gli uomini dai 45 ai 50; ciò significava che oltre 700.000 uomini, quasi tutti dei «vecchi territori» si trovavano sotto le armi, che padri e figli erano stati reclutati senza distinzione, che l’intera popolazione maschile attiva era stata allontanata dalle proprie famiglie e dai lavori nei campi.

Con il decreto del febbraio precedente, quando il governo aveva deciso l’utilizzo dei militari nei lavori stagionali agricoli, qualcosa sembrava essere migliorato. Lo Stato tuttavia si trovava in una situazione d’impasse: fronteggiare l’Impero austro-ungarico era la preoccupazione principale, se non unica, e dunque ogni altro aspetto dell’operato governativo e del funzionamento dell’apparato statale veniva inevitabilmente meno. La riorganizzazione del sistema economico, la produzione agricola, la ricostruzione delle case distrutte e l’aiuto ai profughi erano tutte questioni di secondo ordine.

La disperazione era frequente tra i profughi, che ancora non sapevano cosa fare. Si trattava infatti per la maggior parte di donne, bambini e anziani, che spesso non avevano più nulla poiché le loro case erano state distrutte e il bestiame portato via o requisito. Spesso preferivano rimanere ancora nei pressi delle città in cui era stazionato l’esercito, ancora una volta per istinto di sopravvivenza. La presenza delle truppe garantiva infatti per lo meno un aiuto potenziale, sia dal punto di vista alimentare che da quello sanitario; e non di rado in quei luoghi erano concentrate le famiglie che cercavano di rimanere il più vicino possibile ai loro uomini, mariti e padri.

L’apparente situazione di tranquillità dei mesi estivi del 1915 era però accompagnata dalla certezza di un’imminente ripresa delle ostilità. Nessuno credeva infatti che la guerra sarebbe finita lì: e la stessa St. Clair Stobart, quando aveva deciso di dedicare le proprie attenzioni ai civili, lo aveva fatto «per rendersi utile in attesa delle nuove battaglie».4

I cannoni e gli aerei austro-ungarici lo ricordavano di tanto in tanto, soprattutto a Belgrado e nelle altre città. Come il 30 maggio/12 giugno, quando un’imbarcazione austriaca lanciò tre granate su una folla di gente riunitasi a Belgrado per una partita di calcio5, o come il 18/31 luglio, quando alcuni aerei sganciarono diverse bombe oltre che su Belgrado anche su Smederevo, Požarevac e Kragujevac.6

I quotidiani seguivano attentamente gli avvenimenti sugli altri fronti, e quardavano con particolare apprensione all’atteggiamento dei paesi vicini, ancora ufficialmente neutrali, dove diplomatici dell’Intesa e degli Imperi centrali

4 St. Clair Stobart, The flaming sword in Serbia and elsewhere, Hodder and Stoughton, London – New York - Toronto, 1916, p. 66. 5 Branislav Miljković, Đaci i studenti do Prvog svetskog rata, in Beograd u sećanjima, knj.1, cit., p. 109. 6 Slavka Mihajlović, op. cit., pp. 112-113.

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