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I crimini austro-ungarici

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Bibliografia

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La Serbia nel 1915

I crimini austro-ungarici1

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Con la scadenza dell’ultimatum di Vienna i timori di una guerra già paventata più volte nel corso del decennio precedente divennero realtà. L’Impero austro-ungarico, che aveva già concentrato le proprie truppe ai confini settentrionali e occidentali della Serbia, dichiarò guerra il 15/28 luglio e il giorno dopo le unità di artiglieria disposte di fronte a Belgrado cominciarono a cannoneggiare. L’esercito serbo, asserragliato nella fortezza del Kalemegdan e in altri punti strategici della città, non subì gravi perdite, anche perché fu evidente fin da subito che il bombardamento colpiva indiscriminatamente l’intero centro abitato. La gente nel panico si diede in massa alla fuga, e molti si accalcarono sui treni in partenza verso l’interno del paese. Già il secondo convoglio però, non appena uscito dalla stazione ferroviaria venne preso di mira dal fuoco dei fucili austro-ungarici trincerati sulla sponda opposta del fiume Sava. Per questo il treno successivo partì di notte e vuoto, caricando i profughi alla stazione successiva di Topčider, nelle immediate vicinanze di Belgrado. Il giorno dopo questa zona, come il resto della città, fu oggetto di bombardamenti, e ancora una volta la stazione di partenza dei treni venne spostata lontano dal fuoco nemico.2 Una testimone scrisse nel suo diario, in cui annotò con particolare dovizia la violenza dei bombardamenti e la drammatica condizione dei civili, a proposito del 28 luglio/11 agosto:

Il 28 luglio (11 agosto) il governo austro-ungarico ha richiesto la resa di Belgrado. Fino a quel momento, anche se i bombardamenti erano stati in-

1 Per un approfondimento sull’argomento si rimanda a: Andrej Mitrović, Srbija u prvom svetskom ratu, Srpska književna zadruga, Beograd, 1984; Božica Mladenović, Grad u austrougarskoj okupacionoj zoni u Srbiji od 1916. do 1918. godine, Čigoja štampa, Beograd, 2000; e soprattutto ai citati atti dei convegni Srbija 1914.... e seguenti. 2 Sveta Milutinović, Kako se živelo u prvim danima svetskog rata, in Silvija Ćurić – Vidosav Stevanović (a cura di), Golgota i Vaskrs Srbije (1914-1915), BIGZ – Partizanska knjiga, Beograd, 1985, pp. 33-44; pp. 35-36.

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tensi e frequenti, la capitale non aveva subito grandi danni perché veniva cannoneggiata dalle imbarcazioni nemiche sulla Sava e sul Danubio. Tuttavia, appena il nostro governo ha rifiutato la resa, i cannoni asserragliati a Bežanijska kosa hanno cominciato letteralmente a demolire la città. Anche le nostre batterie hanno cominciato a rispondere al fuoco […]. Una granata nemica ha colpito la centrale elettrica. Un’altra l’acquedotto, e così la città è rimasta senz’acqua né luce. L’ospedale è pieno di civili feriti. Bambini, donne e uomini vengono estratti dalle macerie e portati da noi all’ospedale. I feriti gravi li tratteniamo, quelli leggeri li fasciamo e li rimandiamo a casa. La distruzione di Belgrado è durata con brevi pause da ieri alle cinque di pomeriggio fino alle cinque di stamane. Sono scoppiati incendi ovunque, e si è levato alto un fumo denso. Bruciano case, magazzini e legnaie. Il fuoco ha infuriato per tutta la notte mentre sibilavano le granate; nessuno poteva spegnerlo, mentre da Bežanijska kosa l’artiglieria cannoneggiava. Dopo questo terribile bombardamento, la gente spaventata ha ricominciato in massa ad abbandonare Belgrado. Questa è la seconda fuga generale. Cortei di uomini, donne e bambini carichi di cestini e fagotti si avviano lungo la strada per Ralja. È terribile vedere come madri fuori di sé corrono inciampando con i figli in braccio. Spingono delle carrozzine piene di cose necessarie e non, prese in gran velocità. Da alcune si sente provenire un grido soffocato di neonati, mentre i bambini più grandi, tenendosi attaccati alla gonna della madre, corrono piangendo. Alcuni di quelli che passano vicino all’ospedale si fermano per chiedere aiuto o solo per riposarsi un po’. Il sole brucia, c’è un caldo insopportabile e si respira appena. Belgrado offre uno spettacolo particolarmente triste. Da Slavija a Knez Mihajlova [via nel centro della città, nda] non c’è nemmeno una casa che non abbia subito danni. La zona di Terazije è quasi tutta piena di buchi. In molti posti la strada si è rialzata come una montagnola di pietre e pezzi di asfalto. I castagni lungo via Kralj Milan sono distesi per terra. Le granate li hanno sradicati. In giro non c’è nessuno. La città sembra morta. Si possono vedere soltanto militari che corrono per le strade e scompaiono nei portoni di qualche ufficio. 3

La situazione si presentò molto più grave nella Serbia nord-occidentale, tra le cittadine di Šabac e Loznica, dove i vertici dell’esercito austro-ungarico avevano lanciato l’attacco con il grosso delle truppe, prevedendo in breve tempo di raggiungere il cuore del paese nemico. Nei pochi giorni che vi rimasero, soldati e ufficiali si resero responsabili di numerose atrocità contro la popolazione civile indifesa. Nessuno, né in Serbia né all’estero si aspettava un tale comportamento. Eppure le testimonianze e le inchieste condotte portarono alla

3 Slavka Mihajlović, Oblaci nad gradom, DOZ, 1955, pp. 29-30. Passi importanti di questo diario sono stati tradotti e pubblicati in Bruna Bianchi, Crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Le violenze ai civili sul fronte orientale (1914-1919), Unicopli, Milano, 2012, pp. 323-332.

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luce tutta la gravità dell’accaduto.

Mentre ancora erano in corso i combattimenti che portarono l’esercito serbo a riprendere possesso di quelle zone, nel corso della battaglia del monte Cer, il giornalista francese Henry Barby si recò in prossimità del fronte insieme a due compagni di viaggio. Il 4/17 agosto incontrò lungo il percorso dei contadini in fuga dalle loro case i quali, piangendo e tremando per la disperazione, gli dissero che i nemici ritirandosi dal loro villaggio, Maove, nei pressi di Šabac, massacravano le donne, bruciavano le case, violentavano le ragazze. Barby si recò di persona sul luogo: vide il massacro compiuto, vide vecchi, donne e neonati uccisi con la baionetta o con il calcio del fucile, ancora sanguinanti o in preda ai riflessi post mortem. Le case erano in fiamme, le donne violentate e gli abitanti che non avevano fatto in tempo a scappare o nascondersi erano stati portati via.4

Le scene viste dal giornalista non furono un caso isolato. Numerose segnalazioni arrivavano dalle truppe serbe che nell’avanzata si imbattevano in simili scene di desolazione. La voce corse in fretta e raggiunse i vertici dell’esercito e del governo, ed entrambi non esitarono ad ordinare relazioni più precise.5 Pašić si rese conto della necessità di un resoconto chiarificante. Per fare luce sulla questione il 21 agosto il colonnello N. Stevanović, comandante della divisione “Drina”, ordinò quindi al capo del dipartimento di Valjevo M. L. Đorđević di formare una commissione d’inchiesta. Vennero scelti il prefetto di Valjevo J. Krasojević, lo svizzero J. Schmitt, direttore della centrale elettrica di Valjevo, il dottor A. Van Tienhoven, il dottor S. Nikolajević e un fotografo. La commissione visitò le zone tra i paesi Zavlaka e Brezjak e redasse quella che fu la prima relazione sui crimini commessi dagli austro-ungheresi in Serbia. Il 10/23 agosto la relazione della commissione venne inviata al Ministero degli Affari Interni e al Presidente Pašić.6

Arius Van Tienhoven, un medico olandese al servizio dell’esercito serbo, descrisse così ciò che la commissione vide nei pressi delle città di Valjevo:

Presto trovarono i corpi di sedici persone legate con delle corde: erano stati fucilati tre o quattro volte, avevano le braccia e le gambe rotte, i crani erano

4 Henry Barbi, Sa srpskom vojskom: tragična epopeja jednog naroda, Dečje novine, Gornji Milanovac, 1986 (orig. L’Épopée Serbe. L’agonie d’un peuple, Librairie militaire Berger-Levrault, Paris-Nancy, 1916), pp. 72-73. 5 Vojni Arhiv Republike Srbije (d’ora in avanti: VA), p. 3, k. 60, f. 5, 16/1, o.br. 1562, da Comando supremo a comandanti armate, 6/19 agosto 1914. AS, MID-PO, 1914, XVI/114, telegramma di Nikola Pašic, Presidente del Consiglio e Ministro degli Affari Esteri serbo allo Stato Maggiore dell’esercito, 5/18 agosto1914. 6 AS, MID-PO, 1914, XVI/124, da Prefettura di Valjevo a Ministero degli Affari Interni, 10/23 agosto 1914, confidenziale.

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maciullati. Fu fatto prigioniero un maggiore austriaco che la gente del posto accusava delle efferatezze commesse dalle sue truppe. La commissione lo interrogò. Si trattava del maggiore Josef Balzarick. Lo portarono sul posto dove erano messi uno sopra l’altro cadaveri di vecchi, donne e bambini uccisi con i calci dei fucili e con le baionette, cadaveri di bambini piccoli a cui erano state tagliate le braccia o massacrati in maniera ancora più atroce. Il maggiore negava la propria colpa. Però dopo, durante il tragitto verso il quartier generale, sulla carrozza in cui stava seduto un maggiore serbo mentre lui era come un soldato semplice di fianco al cocchiere, ne approfittò per avvelenarsi con il cianuro. In un altro posto la commissione trovò i cadaveri di quattro persone ammazzate. C’era anche un cane, legato al guinzaglio che la mano immobile del suo padrone teneva ancora stretto, tagliato in due. Da un tumulo ancora fresco furono recuperati cinque cadaveri di cui due senza nessuna ferita, cosa che fece pensare che fossero stati sepolti vivi. Un po’ più avanti furono trovati accatastati uno sopra l’altro i cadaveri di sessanta o settanta bambini bruciati in una scuola. La commissione vide molte altre simili scene raccapriccianti.7

Uno dei membri della commissione, l’ingegner Schmitt, rimase profondamente scioccato da quello che aveva visto:

L’ingegner Schmitt rimase per settimane sotto shock. Quando più tardi lo andai a trovare, sua moglie mi disse che il marito era in stato confusionale. Non riusciva a dormire e di notte gli venivano in mente le immagini dei morti e dei mutilati.8

Lo stesso Van Tienhoven, pur abituato a vedere scene di soldati gravemente feriti e agonizzanti, qualche mese dopo, parlando della terribile situazione in cui si trovavano i feriti austriaci, disse:

Eppure, eppure, tutto ciò non mi ha scosso come quei primi giorni mentre indagavamo sui crimini. L’ingegnere che ci accompagnava è quasi impazzito, ed io ho avuto incubi sui bambini a cui avevano spezzato le braccia e le gambe, sulle donne svestite, uccise con un colpo in testa e terribilmente stuprate.9

Sebbene la relazione della commissione fu inviata ai consolati serbi nei paesi alleati e neutrali, e raggiunse la stampa internazionale, non venne mai

7 Arius Van Tienhoven, Strahote rata u Srbiji, Utopija, Beograd 2005, (originale De gruwelen van den oorlog in Servie, het dagboek van den oorlogs-chirurg, Amsterdam, 1915), pp. 15-17. 8 Ivi, p. 18. 9 Ivi, pp. 70-71.

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pubblicata.10

Il governo serbo si rivolse allora al criminologo svizzero Rodolphe Archibald Reiss,11 con lo scopo di formulare inchieste dettagliate e precisi capi d’accusa nei confronti dell’Austria-Ungheria. Giunto nel settembre del 1914, nonostante una seria perplessità su quanto denunciato, si mise subito all’opera per recuperare tutte le prove possibili dei crimini commessi.

Procedendo nell’inchiesta, basata su testimonianze dirette di civili serbi, verifiche sul luogo delle loro dichiarazioni, fotografie, interrogatori ai soldati austro-ungarici prigionieri e sull’esame dei soldati serbi feriti, Reiss si rese conto della situazione e rivolse pesanti accuse nei confronti degli invasori: utilizzo di proiettili esplosivi vietati dalle convenzioni internazionali, bombardamento indiscriminato di città non protette (non fortificate), massacri di soldati prigionieri e dei feriti, massacri di civili, saccheggi e distruzione di beni mobili.12

Ricordando il suo primo viaggio nella Serbia invasa, a proposito dell’arrivo dell’esercito austro - ungarico a Šabac, Reiss avrebbe scritto nel dopoguerra:

[…] Comunque, il bombardamento è stato solo un atto della tremenda guerra di tutti i famosi soldati «della Cultura». Hanno saccheggiato l’intera cittadina. Potete entrare in una qualsiasi casa, di ricchi o di poveri: ovunque la scena è la stessa – è stato preso tutto. Quello che non poteva essere portato via l’hanno reso inutilizzabile o distrutto […]. Il bilancio del «lavoro» degli austro- ungheresi (fino al 25 settembre 1914) a Šabac è: 2.500 case distrutte o gravemente danneggiate; circa 2.500 persone hanno perso tutto in seguito al bombardamento o al saccheggio; 1.500 civili sono morti o sono stati portati via dal nemico; 537 famiglie sono scomparse […]. A Šabac le atrocità commesse dai soldati austro-ungarici sono inaudite (per maggiori particolari si legga il mio rapporto scritto in quel momento per il governo serbo e pubblicato in francese e inglese). I soldati di Francesco Giuseppe hanno preso tutte le donne e le ragazze, circa 2.000. Una parte di loro è stata rinchiusa cinque giorni all’hotel “Europa”, nutrite solo con un po’ di pane e acqua.

10 Bruna Bianchi Crimini di guerra..., cit., pp. 190-191. La relazione originale è conservata in AS, MID-PO, 1914, XVI/215. 11 Sulla figura di Reiss si veda: Zdenko Levental, Rodolphe Archibald Reiss, criminaliste et moraliste de la Grande Guerre, L’Age de l’Homme, Paris 1992; Bruna Bianchi, Crimini di guerra…, cit., pp. 101-149.

12 R. A. Reiss, Comment les Austro-Hongrois ont fait la guerre en Serbie: observations directes d’un neutre, A. Colin, Paris, 1915; in serbo, Kako su Austro – Mađari ratovali u Srbiji, Tipografija južno-ruskog dioničarskog društva, Odessa, 1916; ripubblicato in S. Bojković S. – M. Pršić, O zločinama Austrougara-Bugara-Nemaca u Srbiji 1914-1918 (Sui crimini di austro-ungheresi, bulgari e tedeschi in Serbia 1914 – 1918), Istorijski muzej Srbije, Beograd, 1997.

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La prima notte è trascorsa senza incidenti. La seconda soldati e ufficiali le hanno portate in una stanza e chiesto: «Dove sono i vostri mariti? Dove sono le postazioni? E le truppe?». Quando le donne hanno risposto che non lo sapevano le hanno picchiate con i calci dei fucili. Durante le notti successive i soldati entravano nella stanza in cui dormivano le donne e portavano via delle ragazze. Un soldato le prendeva per la testa e l’altro per le gambe. Se gridavano tappavano loro la bocca con un fazzoletto. Cosa ne facevano di queste ragazze? Il giorno dopo loro tornavano disperate, ma con indosso dei vestiti eleganti degli armadi delle case saccheggiate. Dall’hotel “Europa” le donne sono state trasferite all’hotel “Kasina” e da lì in chiesa, dove c’erano già molte altre persone. Quando i nostri soldati, rientrando in città, hanno bombardato la chiesa, a quelle donne disgraziate è stato ordinato di gridare: «Viva l’Ungheria!» Gli ufficiali hanno stuprato le ragazze dietro l’altare.13

Reiss, analizzando le cause delle atrocità commesse, sostenne che nell’Impero venne preparata la distruzione della Serbia perché questa rappresentava un ostacolo all’espansione verso Salonicco e perché attirava pericolosamente la popolazione di nazionalità serba che viveva all’interno dei confini imperiali. Per dare una spiegazione alla crudeltà, pose l’accento sul ruolo che la stampa austro – ungarica e tedesca avevano avuto prima dello scoppio della guerra nel dipingere il popolo serbo come un insieme di «pericolosi barbari», sulla base di un’immagine comune all’intero continente europeo che il rapporto della commissione Carnegie aveva definitivamente confermato – proprio a quest’immagine erano dovuti i sospetti iniziali di Reiss sulla veridicità delle accuse serbe -, ma soprattutto attribuì agli ufficiali dell’esercito austro – ungarico un ruolo decisivo nel risveglio degli istinti animaleschi dei soldati, che uccidevano anche i civili, innanzitutto per paura e poi perché presi da una sorta di sadismo. Il desiderio di vendetta contro la Serbia, ritenuta nell’opinione pubblica degli Imperi centrali colpevole della guerra, fece il resto.14 Nella tasca di un prigioniero trovò un’importante prova della sua ipotesi, cioè le direttive che il comandante del IX Corpo d’Armata aveva distirbuito ai suoi ufficiali. L’ordine arrivò anche nelle mani del giornalista italiano Arnaldo Fraccaroli, che ne decrisse i passi più importanti:

[…] Del resto, il Comando austriaco ha lasciato la prova che il massacro era stabilito e organizzato: faceva parte probabilmente del carattere «punitivo» della spedizione. Indosso a taluni soldati e ufficiali prigionieri o morti venne trovato un libriccino: «Istruzioni sull’attitudine da tenersi verso la popolazione serba» distribuito fra le truppe dal comandante del IX Corpo d’Arma-

13 R.A. Reiss, Šta sam video i proživeo..., cit., pp 30-32. 14 R.A. Reiss, Kako su Austro-Mađari..., cit., pp. 64-65.

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ta, generale Hortstein. Vi si leggono istruzioni di questo genere: «Le operazioni di questa guerra ci conducono in un paese nemico la cui popolazione è animata contro di noi da un odio fanatico, in un paese dove l’assassinio – come lo prova la catastrofe di Sarajevo – è permesso perfino alle classi elevate della società, fra le quali viene inoltre glorificato. – Verso una popolazione simile, nessun sentimento di umanità né di generosità. – Io non permetto che si facciano prigionieri gli abitanti i quali siano trovati senza uniforme, ma armati: devono venir fucilati, senza eccezione. – Entrando nei luoghi abitati bisogna subito procurarsi degli ostaggi (preti, maestri di scuola, notabili). Questi ostaggi dovranno venire fucilati appena un solo colpo di fucile sia tirato sulle nostre truppe, e tutte le case devono essere incendiate. – in ogni abitante il quale venga trovato fuori dalle città o dai villaggi non bisogna veder altro che un ascritto a qualche banda che ha nascosto le sue armi: e siccome manca il tempo per fare più ampie ricerche, è necessario fucilare gli abitanti trovati in tal modo, anche se per caso non sembrassero affatto sospetti…».15

In quell’agosto del 1914, in Mačva e Pocerina, le regioni che avevano subito l’invasione austro-ungherese, le vittime civili furono non meno di 3.000- 4.000,16 mentre molto più numerosi furono i profughi che cercarono riparo nelle altre zone del paese. Reiss parlò apertamente di guerra di sterminio.17

Il suo rapporto, tradotto in francese, inglese, italiano e tedesco, rappresentò la prima vera denuncia all’estero di quanto era avvenuto in Serbia. Esso venne accolto freddamente, anche nella sua Svizzera, e tuttavia risultò di fondamentale importanza. Reiss infatti avrebbe personalmente perorato la causa serba soprattutto attraverso numerosi articoli per quotidiani dei paesi neutrali e dell’Intesa.18

In alcuni ambienti si cominciò a paragonare quanto avvenuto in Serbia con il Belgio occupato dai tedeschi. «La Serbia, il Belgio del sud», affermarono le rappresentanti di un comitato anglo-jugoslavo a Roma, 19 mentre un ufficiale serbo di stanza a Đevđelija disse a Fraccaroli: «Noi siamo come il Belgio, ma siamo un Belgio più rabbioso e più fortunato: un Belgio che vince».20

15 Arnaldo Fraccaroli, op. cit., pp. 126-127. Una traduzione in serbo dell’ordine si trova in AS, MID-PO, 1914, XVI/299 e 300.

16 R. A. Reiss, Kako su ratovali Austro-Mađari..., cit., p. 60. 17 Bruna Bianchi, Crimini di guerra..., cit., pp. 115-116. 18 Ivi, p. 107 e pp. 114-116. 19 AS, MID-PO, XXII/100 e 102, pov. br. 697, lettera da Ambasciata serba a Roma a Ministero degli Esteri, 24 dicembre 1914/7 gennaio 1915; e appello del comitato “PRO SERBIA”, inviato in allegato alla lettera. 20 Arnaldo Fraccaroli, op. cit., p. 1 e p. 12.

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